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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. PEZZULLO Rosa - Presidente Dott. CATENA Rossella - Consigliere Dott. BELMONTE Maria Teresa - Consigliere Dott. CANANZI Francesco - Relatore Dott. BIFULCO Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Pe.An. nato a T il (Omissis); avverso la sentenza del 29/05/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO CANANZI; lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale ANTONIO BALSAMO, che ha chiesto annullarsi con rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio, risultando inammissibile il ricorso nel resto; lette le conclusioni depositate dall'avvocato MI.FR., nell'interesse delle parti civili, con le quali il difensore ha chiesto confermarsi la sentenza impugnata e ha chiesto condannarsi il ricorrente alla rifusione delle spese come da nota depositata. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Napoli, con la sentenza emessa il 29 maggio 2023, confermava la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che aveva accertato la responsabilità penale di Pe.An. in ordine al delitto di diffamazione in danno di Fa.An. e Ma.Gi., rappresentanti legali di due società fornitrici di servizi e beni al comune di T, in sintesi alludendo l'imputato a mezzo post su facebook ad accordi collusivi fra il sindaco e i due imprenditori privati, definiti "ditte amiche". Il Pe.An. veniva condannato alla pena detentiva di mesi nove di reclusione e nel doppio grado e al risarcimento del danno nella misura di euro 2500,00 in favore di ciascuna delle parti civili. 2. Il ricorso per Cassazione proposto nell'interesse di Pe.An. consta di un unico articolato motivo, enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 3. Il motivo di ricorso deduce violazione di legge e vizio di motivazione. Dopo una attenta ricostruzione della sentenza di primo grado e delle censure di appello, il ricorrente nelle ultime pagine del ricorso censura la sentenza impugnata in ordine a tre profili. Il primo attiene alla individuazione del Pe.An. come autore dei post diffamatori, rilevando come il ragionamento della Corte territoriale non avrebbe contemplato la circostanza che l'attribuzione del nome a un profilo facebook è consentita a qualunque utente del social network, come anche l'uso dello stesso. Ne consegue che il profilo ben poteva essere stato oggetto di uso, per la condotta contestate, da parte di terzi, da individuarsi anche in altri familiari del Pe.An. In secondo luogo, il ricorrente censura la ritenuta diffamatoria qualità delle affermazioni contestate. In terzo luogo, non vi sarebbe stata risposta da parte della Corte di Appello in ordine alla pena detentiva e alla ragione della stessa, a fronte della sentenza della Corte Costituzione del 22 giugno 2021. 4. Il ricorso è stato trattato senza intervento delle parti, ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell'art. 7, comma 1, D.L. n. 105 del 2021, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall'articolo 94 del D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 5-duodecies D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla I. 30 dicembre 2022, n. 199, nonché entro il 30 giugno 2024 ai sensi dell'art. 11, comma 7, del D.L. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito in legge 2.3 febbraio 2024, n. 18. 5. Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Antonio Balsamo, ha depositato requisitoria e conclusioni scritte - ai sensi dell'art. 23 comma 8, D.L. 127 del 2020 - e ha ritenuto manifestamente infondati i motivi tutti, ad eccezione di quella relativo alla pena detentiva, per la quale ha chiesto annullarsi con rinvio la sentenza impugnata. Il difensore delle parti civili ha concluso come indicato in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è parzialmente fondato. 2. Quanto alle prime due doglianze di ricorso le stesse sono infondate. 2.1 In ordine al tema della individuazione dell'autore della diffamazione, la Corte di appello ha ritenuto essere idonea la prova quanto all'attribuzione dello scritto pubblicato attraverso il profilo facebook a Pe.An. Ciò per il riferimento nominativo all'imputato del profilo e per l'effigie fotografica dello stesso, risultante dalla testimonianza di una delle persone offese, oltre che per la circostanza che lo stesso Pe.An. esibiva i post incriminati e, comunque, il contenuto dei post risultava coincidente con il contenuto di un esposto presentato da Pe.An. in forma cartacea. E bene, tale valutazione non risulta né contraddittoria né manifestamente illogica, anzi essendosi la Corte territoriale posta in linea con l'orientamento, condiviso da questo Collegio, per cui è attribuibile il profilo facebook anche su base indiziaria, a fronte della convergenza, pluralità e precisione di dati quali il movente, l'argomento del forum su cui avviene la pubblicazione, il rapporto tra le parti, la provenienza del post dalla bacheca virtuale dell'imputato, con utilizzo del suo nickname, anche in mancanza di accertamenti circa la provenienza del post di contenuto diffamatorio dall'indirizzo IP dell'utenza telefonica intestata all'imputato medesimo. Si è, inoltre, attribuito rilievo, assieme agli elementi indiziari sopra sottolineati, anche all'assenza di denuncia di ed. furto di identità da parte dell'intestatario della bacheca sulla quale vi è stata la pubblicazione dei post incriminati (cfr., Sez. 5, n. 45339-18 del 13/07/2018, Petrangelo, n.m.; Sez. 5, n. 8328 del 13/07/2015, dep. 2016, Martinez, n.m.). Pertanto, corretta è la decisione della Corte di Appello, in quanto in linea con questi criteri logici e connessa a condivise massime di esperienza, che comprovano la provenienza del post da Pe.An., che anche ha omesso di denunciare l'uso illecito eventualmente compiuto da parte di terzi. Anche l'argomento difensivo dell'uso da parte di altri familiari, oltre che superato dalla coincidenza dell'esposto presentato da Pe.An. (e non dai suoi familiari), comunque resta una ipotesi astratta: a tal proposito basti qui richiamare il principio per cui la regola di giudizio compendiata nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio" imponga di pronunciare condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (ex multis Sez. 2, n. 2548/15 del 19 dicembre 2014, Pg in proc. Segura, Rv. 262280). Naturalmente il dubbio deve essere "ragionevole"; tale non è quello che si fonda su un'ipotesi alternativa del tutto congetturale e priva di qualsiasi conferma e la ragionevolezza non può che risultare dalla motivazione, atteso che un dubbio non motivato è già di per sè "non ragionevole" (Sez. 4 n. 48320 del 12 novembre 2009, Durante, Rv. 245879 e in motivazione). Come è nel caso in esame. 2.2 Quanto al secondo argomento di censura, lo stesso è generico, in quanto non si confronta con la motivazione della Corte di Appello, che individua nelle espressioni utilizzate il contenuto diffamatorio, in quanto allusivo e suggestivo, in ordine ad illecite cointeressenze fra l'amministratore comunale e le imprese private aggiudicatane degli appalti, assegnati anche con somma urgenza. A fronte di censure generiche, che non si confrontano con il tenore delle espressioni e con la valutazione della Corte di Appello, ciò che va qui richiamato è che, rispetto alla natura allusiva delle espressioni menzionate, la sentenza impugnata faccia buon governo dei principi in materia, in quanto le notizie e le valutazioni esternate con espressioni dubitative o interrogative, come è nel caso in esame, se non corrispondenti al vero, possono ledere l'altrui reputazione quando le frasi utilizzate nel contesto della comunicazione, in quanto insinuanti e suggestive, siano idonee ad ingenerare nel lettore il convincimento dell'effettiva rispondenza a verità del fatto adombrato (fattispecie relativa ad un articolo di stampa nel quale, sia pure in termini ipotetici, si veicolava il messaggio che un sindaco avesse potuto avallare una speculazione privata illecita mercificando la propria funzione; cfr. Sez. 5, n. 8 del 12/11/2019, dep. 2020, Parovel, Rv. 278318 - 01; mass. conf. N. 45910 del 2005 Rv. 233039-01, N. 41042 del 2014 Rv. 260772-01). Peraltro verso, rispetto all'invocato diritto di critica politica, pur non risultando lo stesso oggetto di specifica censura, è argomento connesso con la natura diffamatoria delle espressioni: la sentenza impugnata è in sintonia con il principio per cui, ai fini della configurabilità dell'esimente dell'esercizio del diritto di critica politica, è necessario che comunque l'elaborazione critica non sia avulsa da un nucleo di verità, né che l'agente manipoli le notizie o le rappresenti in modo incompleto, in maniera tale che, per quanto il risultato complessivo contenga un nucleo di verità, ne risulti stravolto il fatto, inteso come accadimento di vita puntualmente determinato, riferito a soggetti specificamente individuati (Sez. 5, n. 7798 del 27/11/2018, dep. 2019, Maritan, Rv. 276026-01), né che si trascenda in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui (Sez. 5, n. 31263 del 14/09/2020, Capozza, Rv. 279909-01: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta l'esclusione dell'esimente, sia pure nell'ampia visione convenzionale del diritto alla libertà di espressione in contesti di critica politica, nel caso di un articolo di stampa che attribuiva ad un sindaco, senza alcun appiglio oggettivo e mediante travisamento o manipolazione dei fatti storici, il sospetto di mafiosità, per la gestione familistica e clientelare dell'amministrazione comunale; conf. Sez. 5, n. 57005 del 27/09/2018, Pieralisi, Rv. 274625-01 Sez. 5, n. 8721 del 17/11/2017, dep. 2018, Coppola, Rv. 272432-01; Sez. 5, n. 36838 del 20/07/2016, Amadori, Rv. 268568-01). Il che è quanto accade nel caso in esame, secondo questa Corte, premesso che, in materia di diffamazione, la Corte di Cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta, contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato (Sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014, Demofonti, Rv. 261284; Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145). Difetta il principio di verità, nel caso in esame, il nucleo di verità che deve supportare l'esercizio del diritto di critica politica, oltre a essere il contenuto dei post non continente e complessivamente diffamatorio. 3. Quanto alla terza doglianza, relativa al trattamento sanzionatorio, è invece fondata. Va richiamato l'intervento della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 150 del 2021, dichiarava costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 21 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 10 CEDU, l'art. 13 della legge n. 47 del 1948 al quale faceva rinvio, l'art. 30, comma 4, della legge 6 agosto 1990, n. 223. La norma censurata - lex specialis rispetto alle due aggravanti previste dall'art. 595 cod. pen., secondo e terzo comma - prevedeva una circostanza aggravante per il delitto di diffamazione, integrata nel caso in cui la condotta sia commessa col mezzo della stampa e consista nell'attribuzione di un fatto determinato; in tal caso la pena prevista era quella della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a euro 258,00, da applicare in via cumulativa, a meno che non sussistessero, nel caso concreto, circostanze attenuanti giudicate prevalenti o, almeno, equivalenti all'aggravante in esame. La Corte Costituzionale rilevava come tale disposizione fosse incompatibile con il diritto a manifestare il proprio pensiero e la necessaria irrogazione della sanzione detentiva (indipendentemente poi dalla possibilità di una sua sospensione condizionale, o di una sua sostituzione con misure alternative alla detenzione rispetto al singolo condannato) fosse da ritenersi ormai incompatibile con l'esigenza di non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall'esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull'operato dei pubblici poteri. Aggiungeva la Corte Costituzionale che la dichiarazione di illegittimità costituzionale non crea alcun vuoto di tutela al diritto alla reputazione individuale contro le offese arrecate a mezzo della stampa, che continua a essere protetto dal combinato disposto del secondo e del terzo comma dello stesso art. 595 cod. pen., il cui alveo applicativo si sarebbe riespanso in seguito alla presente pronuncia. Veniva anche dichiarato costituzionalmente illegittimo, quindi, in via consequenziale, l'art. 30, comma 4, della legge n. 223 del 1990, il quale prevedeva che nel caso di reati di diffamazione commessi attraverso trasmissioni consistenti nell'attribuzione di un fatto determinato, si applicano ai soggetti di cui al comma 1 le sanzioni previste dall'art. 13 n. 47 del 1948, in quanto quest'ultimo è stato già dichiarato costituzionalmente illegittimo. E bene, l'impatto della pronuncia della Corte Costituzionale riguarda anche il caso della diffamazione con altro mezzo di pubblicità. Infatti, Sez. 5, n. 28340 del 25/06/2021, Boccia, Rv. 281602-01 ha chiarito in modo condivisibile che l'applicazione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, a seguito della sentenza n. 150 del 2021 della Corte Costituzionale, è subordinata alla verifica della "eccezionale gravità" della condotta, che, secondo un'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, si individua nella diffusione di messaggi diffamatori connotati da discorsi d'odio e di incitazione alla violenza ovvero in campagne di disinformazione gravemente lesive della reputazione della vittima, compiute nella consapevolezza della oggettiva e dimostrabile falsità dei fatti ad essa addebitati. Pertanto, è stata ritenuta legittima, in relazione all'art. 10 Cedu, secondo un'interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata della norma, l'irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il delitto di diffamazione commesso, anche al di fuori di attività giornalistica, mediante mezzi comunicativi di rapida e duratura amplificazione (nella specie "internet"), ove ricorrano "circostanze eccezionali" connesse alla grave lesione di diritti fondamentali, come nel caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza (cfr. Sez. 5, n. 13993 del 17/02/2021, Scaffidi, Rv. 281024-01). Sul punto, pur a fronte di un motivo specifico di appello, la Corte territoriale non ha fornito alcuna risposta puntuale, in ordine alla ragione della opzione per la pena detentiva in luogo di quella pecuniaria e della sussistenza delle eccezionali ragioni che la giustificano, cosicché occorre, come anche richiesto dalla Procura Generale, annullare con rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, dovendo la Corte del rinvio provvedere alla delibazione richiesta secondo i principi di diritto indicati, con una valutazione di merito non consentita a questa Corte di legittimità. 4. Ne consegue che per la fondatezza del terzo motivo in relazione ai capi della sentenza riguardanti la responsabilità dell'imputato, va verificato il verificarsi della estinzione delle condotte per prescrizione. Tenendo in conto le cause di sospensione del decorso del termine, pari a 240 giorni, le condotte contestate come consumate fino al 8 gennaio 2016 sono estinte per prescrizione. Pertanto, vanno dichiarate estinte agli effetti penali le condotte fino al 8 gennaio 2016 e nella determinazione della pena la Corte del rinvio dovrà tenere in conto anche dell'ambito più limitato di condotte in continuazione, a seguito della dichiarazione parziale di estinzione dei reati. Diversamente per le condotte successive, l'annullamento con rinvio disposto dalla Corte di Cassazione per motivi che non riguardano l'affermazione di responsabilità dell'imputato - come è nel caso in esame il trattamento sanzionatorio - determina il passaggio in giudicato della sentenza sul punto e conseguentemente comporta che nel successivo giudizio di rinvio non decorrono ulteriormente i termini di prescrizione (Sez. 5, n. 51098 del 19/09/2019 - dep. 18/12/2019, NI, Rv. 27805001, nel caso in cui la Corte ha annullato la sentenza della Corte di Appello per non avere valutato, in un processo per il delitto di lesioni personali, i motivi di appello concernenti la configurabilità della provocazione, il trattamento sanzionatorio e le statuizioni civili). 5. Ne consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per i reati estinti per prescrizione, l'annullamento con rinvio quanto al trattamento sanzionatorio, il rigetto agli effetti civili del ricorso. A fronte di tale ultima statuizione, risultando infondati i motivi di ricorso inerenti la responsabilità, il ricorrente va condannato perché soccombente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa in favore delle parti civili nella misura di euro 3167,00, oltre accessori di legge. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali, limitatamente ai fatti commessi sino al 30.1.2016, perché i reati sono estinti per prescrizione e rigetta per tali fatti il ricorso agli effetti civili. Annulla la sentenza impugnata per i fatti successivi al 30.1.2016 limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte d'Appello di Napoli. Rigetta nel resto il ricorso. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che liquida in complessivi euro 3167,00, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, 5 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 18 gennaio 2023, che approva la proposta della Giunta per le autorizzazioni (doc. IV-ter, n. 11-A) di ritenere insindacabili, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, le dichiarazioni di Carlo Fidanza, deputato all’epoca dei fatti, promosso dal Tribunale ordinario di Milano, in composizione monocratica, sezione settima penale, con ricorso notificato il 20 novembre 2023, depositato in cancelleria il 20 novembre 2023, iscritto al n. 5 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2023, fase di merito. Visti l’atto di costituzione della Camera dei deputati e gli atti di intervento di Santeria spa e A. P. nonché di Carlo Fidanza; udito nell’udienza pubblica del 10 aprile 2024 il Giudice relatore Filippo Patroni Griffi; uditi l’avvocato Roberto Dissegna per Santeria spa e A. P., nonché l’avvocato Maria Teresa Losasso per la Camera dei deputati; deliberato nella camera di consiglio dell’11 aprile 2024. Ritenuto in fatto 1.− Con il ricorso indicato in epigrafe, il Tribunale ordinario di Milano, in composizione monocratica, sezione settima penale, ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in riferimento alla deliberazione del 18 gennaio 2023 della Camera dei deputati, con la quale, approvando la proposta della Giunta per le autorizzazioni (doc. IV-ter, n. 11-A), si è affermato che le dichiarazioni rese su Facebook dall’allora deputato Carlo Fidanza, in data 2 dicembre 2018, fossero state espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione. 1.1.− Il ricorso è promosso nell’ambito di un processo penale a carico di Carlo Fidanza, deputato all’epoca dei fatti, citato a giudizio per rispondere del reato di diffamazione aggravata di cui all’art. 595, terzo comma, del codice penale. Il giudice penale ricorrente riferisce che, in un video pubblicato su Facebook il 2 dicembre 2018, l’imputato affermava: «Siamo qui a Milano, in viale Toscana davanti a Santeria Social Club, locali dati in concessione [d]al Comune di Milano dove il 13 dicembre si sarebbe dovuta aprire questa fantastica mostra: “porno per bambini”. Una mostra che, con immagini di dubbio gusto e sicuramente ambigue, non avrebbe fatto altro che legittimare la pedopornografia. Non ci fermiamo qua! Chiediamo di vigilare su quello che viene svolto nei locali che d[à] in concessione, ma soprattutto vogliamo difendere i bambini e la loro innocenza da questi pazzi che la vogliono violare». La Camera dei deputati – su richiesta del Tribunale ricorrente ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato) – il 18 gennaio 2023 ha deliberato che quelle dell’imputato sono opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari, ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost. 1.2.− Il Tribunale di Milano osserva, tuttavia, che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, «il sindacato sulla rilevanza penale delle dichiarazioni espresse da un parlamentare può essere sottratto all’autorità giudiziaria soltanto in costanza di un nesso funzionale tra le predette e specifici atti compiuti nell’esercizio delle funzioni pubbliche esercitate» (è citata la sentenza n. 241 del 2022). Nel caso di specie, le dichiarazioni dell’imputato sono state espresse extra moenia, sicché esse potrebbero ritenersi «non punibili ex art. 68 Cost. soltanto laddove presentino una sostanziale coincidenza con opinioni espresse in sede istituzionale e siano, altresì, cronologicamente successive a queste ultime», non essendo a tal proposito sufficiente né la comunanza di argomento, né la natura politica del contesto in cui siano pronunciate (è richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sezione quinta penale, 7 maggio-22 luglio 2019, n. 32862). La relazione della Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati (doc. IV-ter, n. 11-A), approvata con la deliberazione oggetto del conflitto, ha invece affermato l’insindacabilità delle opinioni per le quali si procede penalmente: e ciò in quanto Carlo Fidanza ha presentato, due giorni dopo aver espresso dette opinioni, un’interrogazione parlamentare dello stesso tenore (n. 4-01794 del 5 dicembre 2018), indirizzata al Ministero per la famiglia e la disabilità. La Giunta rilevava, inoltre, che Carlo Fidanza era stato promotore di diverse iniziative legislative in tema di tutela dei minori, tra cui la proposta di legge AC n. 305, presentata in data 23 marzo 2018, con la quale aveva proposto «l’adozione di misure più severe contro la pedofilia e la pedopornografia». 1.2.1.− Il Tribunale ricorrente afferma, in senso contrario, che l’atto tipico parlamentare deve essere compiuto sempre «prima (e non dopo, foss’anche di uno o due giorni) delle esternazioni incriminate» poiché altrimenti «si finirebbe per legittimare pretestuose iniziative istituzionali attuate ex post al solo fine di giustificare precedenti condotte potenzialmente diffamatorie». I precedenti giurisprudenziali di questa Corte, richiamati dalla Giunta per le autorizzazioni per giustificare il riferimento ad un atto tipico successivo alle opinioni extra moenia, sarebbero stati «abbondantemente superati dall’elaborazione successiva», secondo la quale «non possono avere rilievo […] gli atti parlamentari posteriori alla dichiarazione reputata insindacabile, perché, per definizione, quest’ultima non può essere divulgativa dei primi» (sono richiamate le sentenze n. 241 del 2022 e n. 55 del 2014). Ad ogni modo, il ricorrente ritiene che, «anche per quanto riguarda i contenuti, l’interrogazione parlamentare era ben più mite, nei toni, del video caricato due giorni prima». Se, infatti, in quest’ultimo il deputato aveva esplicitamente accusato gli organizzatori della mostra e l’autore delle illustrazioni di «legittimare la pedopornografia» e di essere dei «pazzi» che intendevano «violare l’innocenza dei bambini», nell’interrogazione si sarebbe mostrato «molto più dubitativo e possibilista, affermando che “l’accostamento provocatorio dei termini ‘porno’ e ‘bambini’, nonché alcuni dei contenuti, rischiano di trasmettere un messaggio di legittimazione culturale di pratiche di natura pornografica e pedopornografica molto pericolose per i bambini” e che occorreva “difendere i bambini da messaggi culturali o commerciali aggressivi”». Per altro verso, le iniziative legislative dell’allora deputato richiamate dalla Giunta non avrebbero alcun rilievo, in quanto esse non varrebbero «a connotare in sé le dichiarazioni quali espressive della funzione» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 144 del 2015, oltre alla già citata sentenza della Corte di cassazione n. 32862 del 2019). 1.3.− Secondo il Tribunale ricorrente, pertanto, l’allora deputato Fidanza, esprimendo le opinioni per cui è imputato, «non osservava alcun mandato parlamentare, bensì esercitava il proprio diritto di critica ai sensi dell’art. 21 Cost., la sussistenza dei cui limiti è tuttavia demandata all’esclusivo accertamento da parte dell’A.G.». La Camera dei deputati, con la deliberazione impugnata, avrebbe invece precluso detto vaglio, privando il Tribunale di Milano «delle proprie prerogative giurisdizionali». Il ricorrente chiede allora a questa Corte di «accertare e dichiarare che il sindacato delle opinioni espresse dal deputato Carlo Fidanza» per il quale pende il procedimento penale «spetta all’autorità giudiziaria e non alla Camera dei deputati», in quanto dette opinioni non sono state espresse nell’esercizio della funzione parlamentare. Per l’effetto, è richiesto altresì l’annullamento della deliberazione impugnata. 2.− Con ordinanza n. 204 del 2023, questa Corte ha ritenuto sussistenti i presupposti soggettivi e oggettivi del conflitto e ha dichiarato ammissibile il relativo ricorso, in camera di consiglio e senza contraddittorio, ai sensi dell’art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale). 3.− Con atto depositato l’8 gennaio 2024, si è costituita in giudizio la Camera dei deputati, la quale ha chiesto che il ricorso sia rigettato in quanto non fondato. 3.1.− La resistente ritiene opportuno, innanzi tutto, ricostruire i fatti all’origine del ricorso. A tale proposito, precisa che, secondo quanto emerge dalla relazione della Giunta, nella mostra dal titolo «Porno per bambini», al centro delle dichiarazioni di Carlo Fidanza, sarebbero stati esposti, secondo l’artista, «fumetti in chiave erotica dal contenuto ironico, buffo e per questo definito “per bambini”», i quali «non avrebbero avuto natura pornografica né tantomeno avrebbero ritratto minori». Il riferimento ai bambini sarebbe da ricondurre «allo stile fanciullesco, tipico dei disegni dei più piccoli». Tale mostra, tuttavia, è stata annullata «a seguito del clamore mediatico» e «della presentazione di un esposto al Garante per l’Infanzia della Regione Lombardia». Nel febbraio 2019, l’amministratore della società che aveva organizzato la mostra ha querelato l’allora deputato Fidanza e altri, in quanto le loro dichiarazioni «avrebbero indotto un numero molto elevato di persone a ritenere che il locale, ove si sarebbe dovuta tenere la mostra, fosse in realtà un luogo usato per la propaganda di pedofilia e di pedopornografia». 3.2.− Ciò premesso, a parere della Camera dei deputati sussisterebbero tanto la corrispondenza sostanziale quanto il legame temporale tra le dichiarazioni di Carlo Fidanza e quelle di cui agli atti tipici richiamati nella relazione della Giunta. 3.2.1.− Per quanto concerne il primo requisito, la difesa della Camera, integralmente riportata l’interrogazione parlamentare n. 4-01794, afferma che «sussiste una corrispondenza che va ben oltre quella richiesta [dalla] Corte costituzionale» (sono citate le sentenze n. 144 del 2015, n. 55 del 2014, n. 305 del 2013, n. 205 del 2012, n. 333, n. 98 e n. 81 del 2011, n. 59 del 2007 e n. 335 del 2006). Sarebbe evidente, infatti, che nel caso di specie vi sia «una vera e propria corrispondenza» tra le opinioni extra moenia e quelle intra moenia, tanto più considerando che non può effettuarsi, come invece riterrebbe il Tribunale ricorrente, «un puntuale e pedante riscontro sulle parole usate»: ciò che è necessario, anche alla stregua della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, è che il legame tra le dichiarazioni esterne e l’atto tipico sia evidente, «in modo tale da non poter essere disconosciuto da una persona ragionevole» (sentenza n. 144 del 2015). Le differenze dei toni, ammesso e non concesso che ve ne siano, «sarebbero eventualmente ascrivibili alla diversa tipologia di comunicazione», quelle extra moenia essendo state espresse su un social media, che richiede un carattere «più immediato, informale e diretto» rispetto alle «asserzioni più formali, caratteristiche del contesto parlamentare». Gli altri atti tipici richiamati nella relazione della Giunta, tra cui in particolare la proposta di legge n. 305, testimonierebbero «il costante impegno dell’on. Fidanza sui temi della tutela dell’infanzia», del resto certificato anche dalla recente attività dello stesso come parlamentare europeo. 3.2.2.− Per quel che riguarda, poi, il requisito del legame temporale, le argomentazioni della Camera dei deputati prendono le mosse dai tempi e dalle circostanze della vicenda, precisando che il video pubblicato su Facebook è stato pubblicato il 3 dicembre 2018 (e non il 2 dicembre, come erroneamente indicato nel capo di imputazione), l’interrogazione è stata pubblicata appena due giorni dopo e la querela è stata presentata il 22 febbraio 2019. Si rileva, in particolare, che dal 29 novembre al 4 dicembre 2018 non c’è stata attività parlamentare e che «il giorno in cui gli organizzatori della mostra hanno annunciato l’annullamento della stessa era un lunedì, giorno che è tradizionalmente dedicato al rapporto con gli elettori e con il territorio. È apparso dunque comprensibile che l’on. Fidanza ne abbia voluto dare immediatamente notizia alla propria comunità di riferimento, anche per il clamore che l’evento aveva sollevato e che, nello stesso giorno in cui ha pubblicato il video, o al massimo il giorno dopo, cioè il 4 dicembre, avesse predisposto l’interrogazione citata, per poi depositarla il primo giorno utile, e cioè il successivo 5 dicembre, data di arrivo alla Camera a Roma». Per negare il legame temporale, osserva la difesa della resistente, il Tribunale di Milano afferma che l’atto parlamentare tipico deve essere sempre anteriore alle dichiarazioni extra moenia, a nulla valendo il richiamo compiuto dalla Giunta per le autorizzazioni a «precedenti molto risalenti e pertanto superati dalla giurisprudenza successiva». Al riguardo, la Camera dei deputati obietta che, secondo la giurisprudenza costituzionale richiamata dalla Giunta e «mai smentita», «il legame temporale sussiste non solo quando l’atto parlamentare precede la dichiarazione incriminata, ma anche quando esso segua tale dichiarazione in un arco di tempo così breve da potersi dire sostanzialmente ad essa contestuale» (sono citate le sentenze n. 218 del 2023, n. 241 del 2022, n. 133 del 2018, n. 97 del 2008 e n. 260 e n. 221 del 2006). Si tratterebbe di un «criterio flessibile, da applicare con attenzione al caso concreto». Nel caso di specie, il riscontro del legame temporale da parte della Giunta sarebbe stato effettuato «in perfetta coerenza» con quanto deciso da questa Corte tanto nella sentenza n. 10 del 2000 quanto nella sentenza n. 276 del 2001, in cui gli atti tipici erano di due giorni successivi alle dichiarazioni extra moenia. Dovrebbe inoltre considerarsi che «l’affermarsi dei social media ha determinato un’evoluzione della comunicazione politica: infatti, al verificarsi degli eventi, i cittadini si aspettano una reazione immediata da parte dei loro rappresentanti, quando non sempre essi hanno la possibilità di esprimersi in ambito parlamentare». 4.− Con atto depositato il 4 dicembre 2023, sono intervenute nel giudizio, chiedendo l’accoglimento del ricorso, tanto Santeria spa quanto A. P., costituitesi parti civili, in qualità di persone offese, nel giudizio penale da cui trae origine il conflitto di attribuzione. 5.− Con atto depositato il 9 gennaio 2024, è intervenuto in giudizio Carlo Fidanza chiedendo il rigetto del ricorso. 6.− Santeria spa, A. P. e Carlo Fidanza, rispettivamente il 5 dicembre 2023 e il 10 gennaio 2024, hanno fatto istanza, ai sensi dell’art. 5 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, di fissazione anticipata e separata della sola questione concernente l’ammissibilità dei rispettivi interventi. Questa Corte, nella camera di consiglio del 20 febbraio 2024, ha dichiarato ammissibili gli interventi di Santeria spa e A. P. e inammissibile, per tardività, quello di Carlo Fidanza (ordinanza n. 33 del 2024). <p>7.− In vista dell’udienza pubblica, la Camera dei deputati ha depositato una memoria con la quale ha insistito per il rigetto del ricorso. Considerato in diritto 1.− Il Tribunale di Milano, in composizione monocratica, sezione settima penale, con il ricorso indicato in epigrafe ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in riferimento alla deliberazione del 18 gennaio 2023 della Camera dei deputati, con la quale, approvando la proposta della Giunta per le autorizzazioni (doc. IV-ter, n. 11-A), si è affermato che le dichiarazioni rese su Facebook dall’allora deputato Carlo Fidanza, in data 2 dicembre 2018, fossero state espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost. 1.1.− Il ricorrente riferisce che Carlo Fidanza è citato a giudizio per rispondere del reato di diffamazione aggravata di cui all’art. 595, terzo comma, cod. pen., in ragione delle seguenti affermazioni, rese in un video pubblicato su Facebook il 2 dicembre 2018: «Siamo qui a Milano, in viale Toscana davanti a Santeria Social Club, locali dati in concessione [d]al Comune di Milano dove il 13 dicembre si sarebbe dovuta aprire questa fantastica mostra: “porno per bambini”. Una mostra che, con immagini di dubbio gusto e sicuramente ambigue, non avrebbe fatto altro che legittimare la pedopornografia. Non ci fermiamo qua! Chiediamo di vigilare su quello che viene svolto nei locali che d[à] in concessione, ma soprattutto vogliamo difendere i bambini e la loro innocenza da questi pazzi che la vogliono violare». La Camera dei deputati – su richiesta del Tribunale ricorrente ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge n. 140 del 2003 – il 18 gennaio 2023 ha deliberato che quelle dell’imputato sono opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari, ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost. Il Tribunale ricorrente ritiene, per contro, che tali affermazioni extra moenia non siano, come richiederebbe la giurisprudenza costituzionale, né sostanzialmente né cronologicamente connesse a opinioni espresse in sede istituzionale, ma siano invece espressione del diritto di critica di cui all’art. 21 Cost.: di qui il promosso conflitto, in quanto l’impugnata deliberazione della Camera dei deputati impedirebbe l’accertamento, che spetta all’autorità giudiziaria, circa il superamento o meno dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero. 2.− In via preliminare, deve essere confermata l’ammissibilità del conflitto in relazione alla sussistenza dei presupposti soggettivi e oggettivi, come già delibato da questa Corte con l’ordinanza n. 204 del 2023. Non c’è dubbio, infatti, che il Tribunale di Milano sia legittimato a promuovere conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, trattandosi di organo giurisdizionale, in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene nell’esercizio delle funzioni attribuitegli. Altrettanto pacifica è la legittimazione passiva della Camera dei deputati, quale organo competente a dichiarare in modo definitivo la propria volontà in ordine all’applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost. Quanto ai presupposti oggettivi, l’inibizione a esercitare la funzione giurisdizionale, conseguente alla deliberazione della Camera dei deputati, è idonea a cagionare, ove le affermazioni di Carlo Fidanza non fossero riconducibili a opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost., la lesione della sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita al potere ricorrente. 3.− La Camera dei deputati, costituitasi in giudizio, ha chiesto che il ricorso sia rigettato: sussisterebbero, infatti, tanto la corrispondenza sostanziale quanto il legame temporale tra le dichiarazioni di Carlo Fidanza, deputato all’epoca dei fatti, e quelle di cui agli atti tipici richiamati nella relazione della Giunta. 4.− Questa Corte, con l’ordinanza n. 33 del 2024, ha dichiarato ammissibili gli interventi di Santeria spa e A. P. e inammissibile, per tardività, quello di Carlo Fidanza. La difesa di Santeria spa e A. P., che non ha depositato alcuna memoria, nell’udienza pubblica del 10 aprile 2024 ha affermato che sarebbe «limitante» considerare insindacabile ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost. una opinione extra moenia di un parlamentare solo nel caso in cui questi abbia già in precedenza espresso la medesima opinione in un previo atto parlamentare: ciò, infatti, renderebbe questa Corte un «notaio» chiamato a verificare la sola preesistenza di tale atto parlamentare, quando invece l’art. 68, primo comma, Cost. pretenderebbe che si valuti se quella del deputato o senatore sia una «opinione» e, in particolare, se detta opinione sia una «valutazione politica» o se si concretizzi, invece, nella consapevole attribuzione di «un fatto storico falso». Soltanto nel primo caso, afferma la difesa degli intervenienti, la condotta del parlamentare potrebbe considerarsi scriminata, poiché altrimenti questa Corte avvalorerebbe dichiarazioni calunniose nei confronti di singoli cittadini, a detrimento della stessa insindacabilità ex art. 68, primo comma, Cost., «troppo importante perché venga usurpat[a] in questa maniera». 5.− Le riportate affermazioni in udienza delle intervenienti, che prospettano una lettura dell’immunità parlamentare in discorso in parte diversa da quella fatta propria, pur nella divergenza di vedute, dal ricorrente e dalla resistente, inducono a opportune precisazioni in ordine al campo di applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost. 6.− Le immunità parlamentari intendono sottrarre il parlamentare a limitazioni o ad ostacoli nell’esplicazione della sua funzione provenienti da poteri che non facciano capo alla Camera cui appartiene, e che potrebbero assumere il carattere di interferenza nello svolgimento della funzione delle Assemblee parlamentari (sentenza n. 9 del 1970). Storicamente sorte per preservare i parlamenti da indebite intromissioni del potere giudiziario condizionato dal potere esecutivo, nell’attuale sistema costituzionale – in cui invece è assicurata l’indipendenza dell’ordine giudiziario – esse sono strutturate in modo da definire «un equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all’esercizio della giurisdizione (universalità della legge, legalità, rimozione di ogni privilegio, obbligatorietà dell’azione penale, diritto di difesa in giudizio, ecc.) e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare sottratti al diritto comune, che valgono a conservare alla rappresentanza politica un suo indefettibile spazio di libertà» (sentenza n. 379 del 1996). Ciò che dunque la Costituzione consente e pretende non è la tutela di diritti del singolo deputato o senatore, ma «proteggere la libertà della funzione che il soggetto esercita, in conformità alla natura stessa delle immunità parlamentari, volte primariamente alla protezione dell’autonomia e dell’indipendenza decisionale delle Camere rispetto ad indebite invadenze di altri poteri, e solo strumentalmente destinate a riverberare i propri effetti a favore delle persone investite della funzione» (sentenza n. 38 del 2019; ma in senso analogo, ancora di recente, sentenze n. 170 e n. 157 del 2023). La «complessiva architettura istituzionale [che ne deriva], ispirata ai princìpi della divisione dei poteri e del loro equilibrio» (sentenza n. 262 del 2009) può naturalmente determinare un antagonismo tra i due valori in bilanciamento: la libertà politica del Parlamento e l’autonomia delle funzioni delle Camere, da un lato; l’indipendenza e la terzietà del giudice, funzionali a garantire il principio d’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la difesa dei loro diritti e interessi, dall’altro. Antagonismo che, nel determinare una deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione che sta all’origine dello Stato di diritto (sentenza n. 24 del 2004), deve trovare un punto d’equilibrio in concreto per opera delle Camere e dell’ordine giudiziario, ferma restando la possibilità, per il potere che ritenga lese le proprie attribuzioni, di sollevare conflitto dinanzi a questa Corte (sentenza n. 1150 del 1988). 6.1.− L’art. 68, primo comma, Cost., allo «scopo di rendere pienamente libere le discussioni che si svolgono nelle Camere, per il soddisfacimento del superiore interesse pubblico connessovi» (sentenza n. 81 del 1975), impedisce che i parlamentari possano essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle funzioni. In tal modo, la Costituzione esclude radicalmente ogni forma di responsabilità giuridica, per siffatti voti e opinioni, di deputati o senatori, «di modo che essi non possono, né potranno dopo la scadenza del mandato essere chiamati a rispondere per le attività da loro svolte in tale veste. Ciò al fine di garantire alle stesse Camere che i parlamentari possano esercitare nel modo più libero le loro funzioni, senza i limiti derivanti dal timore di possibili provvedimenti sanzionatori a loro carico» (sentenza n. 46 del 2008). La cosiddetta insindacabilità protegge, così, il “cuore” del mandato parlamentare, il cui svolgimento deve essere libero da condizionamenti per consentire, come delineata dall’art. 67 Cost., una libera rappresentanza, non di interessi di parte o di partito, ma della Nazione. 6.2.− È d’altra parte pure evidente che l’insindacabilità delle opinioni – proprio perché esclude radicalmente la responsabilità giuridica del parlamentare – rende particolarmente problematica, in concreto, l’individuazione del punto di equilibrio tra gli antagonisti valori di cui si è detto, poiché in tali casi «alcuni beni morali della persona, che è la Costituzione stessa a qualificare inviolabili (onore, reputazione, pari dignità), vengono a collidere con l’insindacabilità dell’opinione espressa dal parlamentare, che è momento insopprimibile (e, ben può dirsi, anch’esso inviolabile), della libertà della funzione» (sentenza n. 379 del 1996). In ciò si coglie particolarmente la diversa ampiezza, quanto a campo d’applicazione, tra l’art. 21 Cost. e l’art. 68, primo comma, Cost. La libertà di manifestazione del pensiero – che è «coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione» (sentenza n. 11 del 1968) e, proprio in quanto tale, è «pietra angolare dell’ordine democratico» (sentenza n. 84 del 1969), anche perché garantisce a tutti l’esercizio del diritto alla critica politica – trova nella reputazione della persona, diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost., un limite al suo legittimo esercizio, che l’ordinamento è chiamato a tutelare «con strumenti idonei, necessari e proporzionati» (sentenza n. 150 del 2021): il che significa che chiunque eserciti illegittimamente la libertà di espressione può esserne chiamato a rispondere. L’insindacabilità delle opinioni, come detto, esclude invece la responsabilità giuridica del parlamentare indipendentemente da ogni considerazione o valutazione circa l’incidenza che dette opinioni possano avere sulla reputazione di terzi: ciò, appunto, al fine di salvaguardare al massimo grado «l’autonomia delle funzioni parlamentari come area di libertà politica delle Assemblee rappresentative» (sentenza n. 120 del 2004), che potrebbe altrimenti essere condizionata dal timore di un sindacato su opinioni espresse da un parlamentare nello svolgimento del suo mandato. 6.3.− Nel delineare l’immunità in esame, peraltro, l’art. 68, primo comma, Cost. non adotta, come invece altre Costituzioni, un criterio spaziale, che espressamente limiti l’insindacabilità agli atti compiuti all’interno dell’assemblea di appartenenza (ad esempio, art. 46, comma 1, della Legge fondamentale tedesca e art. I, sezione 6, della Costituzione degli Stati Uniti d’America). Predilige, invece, «un criterio funzionale in base al quale l’insindacabilità non è limitata alle opinioni espresse all’interno delle Camere. Ciò similmente a quanto avviene in altri sistemi, come ad esempio quello operante per il Parlamento europeo (art. 8 del Protocollo n. 7 sui privilegi e sulle immunità dell’Unione europea, su cui sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 6 settembre 2011, in causa C-163/10, Patriciello)» (sentenza n. 133 del 2018). Non solo le opinioni espresse all’interno di organi parlamentari o paraparlamentari, dunque, possono considerarsi funzionali, tanto più considerando che nella società contemporanea la comunicazione politica si è trasformata (e si continua a trasformare) profondamente (sentenze n. 11 e n. 10 del 2000). Il che, del pari, non significa che qualsiasi opinione espressa da un parlamentare sia, per ciò solo, sottratta alla responsabilità giuridica: è pur sempre necessario – affinché l’immunità non si trasformi illegittimamente in privilegio personale, con il correlato e ingiustificato sacrificio dei diritti e degli interessi dei terzi – che essa sia funzionalmente delimitata (sentenza n. 10 del 2000) e che, pertanto, le opinioni espresse siano caratterizzate dalla esistenza di un nesso stretto con l’esercizio delle funzioni (sentenza n. 11 del 2000). 6.3.1.− La connessione tra l’opinione espressa e la funzione parlamentare è il requisito di applicabilità dell’art. 68, primo comma, Cost. che ha del resto previsto – e non poteva essere altrimenti – anche il legislatore in sede di attuazione del disposto costituzionale. All’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003 sono infatti indicate una serie di attività alle quali deve applicarsi l’immunità in discorso, che, per un verso, non sono esaustive di ciò che è esercizio di funzione parlamentare, e, per un altro, non estendono, neppure quando qualificate «di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica», l’operatività dell’insindacabilità, in quanto è espressamente stabilito che tutte le attività, anche se espletate fuori dalle Camere, e dunque per mezzo di atti non tipici, devono pur sempre essere «connesse con l’esercizio della funzione propria dei membri del Parlamento» (sentenza n. 120 del 2004). 7.− È a fronte di questo quadro – tanto chiaro nella sua portata definitoria, quanto complesso in quella applicativa – che si è via via sviluppata la giurisprudenza di questa Corte, chiamata di volta in volta a stabilire in concreto se le opinioni espresse da un parlamentare, su cui è insorto un conflitto di attribuzione, siano riconducibili all’esercizio delle funzioni ex art. 68, primo comma, Cost., e come tali siano insindacabili, o se vadano invece ricondotte all’esercizio della libertà di cui all’art. 21 Cost., in tal caso spettando poi al giudice comune «pronunciarsi in concreto sul rapporto fra diritto di libera manifestazione del pensiero, in particolare in campo politico, e diritto all’onore e alla reputazione del soggetto che si ritenga leso dall’opinione espressa» (sentenza n. 10 del 2000). Nell’esercizio di una funzione che la rende arbitro del conflitto, questa Corte, al fine di riscontrare l’esistenza di un nesso stretto tra le “opinioni” e l’“esercizio delle funzioni”, ha progressivamente enucleato criteri (o indici rivelatori) «più complessi rispetto a quello della mera “localizzazione” dell’atto» (sentenza n. 11 del 2000), che tengono conto della sottesa esigenza di un equilibrio costituzionalmente sostenibile tra i valori dell’autonomia delle Camere e quelli connessi all’esercizio della giurisdizione, a loro volta, questi ultimi, posti – come si è detto – a tutela di altri beni costituzionalmente tutelati (reputazione, riservatezza, onore). Ciò, peraltro, nella consapevolezza che «in ragione dell’inscindibile legame tra conflitto e singola fattispecie» sarebbe vana «la pretesa di cristallizzare una regola di composizione del conflitto tra princìpi costituzionali che assumono configurazioni di volta in volta diverse e richiedono soluzioni non riducibili nei rigidi limiti di uno schema preliminare di giudizio» (sentenza n. 120 del 2004). 7.1.− È pacifico che «costituiscono opinioni espresse nell’esercizio della funzione quelle manifestate nel corso dei lavori della Camera e dei suoi vari organi, in occasione dello svolgimento di una qualsiasi fra le funzioni svolte dalla Camera medesima, ovvero manifestate in atti, anche individuali, costituenti estrinsecazione delle facoltà proprie del parlamentare in quanto membro dell’assemblea» (sentenza n. 10 del 2000). D’altro canto, i regolamenti parlamentari attribuiscono al Presidente d’Assemblea poteri diretti anche a evitare che, per mezzo di atti tipici, si abusi dell’immunità in discorso (artt. 66, 97, 146, 154 e 157 del Regolamento del Senato e artt. 59, 89, 139 e 139-bis del Regolamento della Camera, sull’uso di parole o termini «sconvenienti»). 7.2.− Per quel che concerne le opinioni espresse extra moenia, deve innanzitutto escludersi che rientrino nell’ambito dell’art. 68, primo comma, Cost. gli insulti (sentenze n. 218 del 2023, n. 59 del 2018 e n. 137 del 2001), le minacce (sentenza n. 218 del 2023) e più in generale i meri comportamenti materiali (sentenza n. 137 del 2001), l’attestazione di una circostanza di fatto idonea a integrare un reato (sentenza n. 388 del 2007), nonché la consapevole affermazione di fatti oggettivamente falsi lesivi della reputazione altrui (sulla cui peculiare offensività, sentenza n. 150 del 2021). L’insindacabilità, infatti, tutela e consente dichiarazioni finalizzate al promovimento e alla qualità del dibattito pubblico, non certo al suo scadimento. 7.2.1.− Ciò premesso, e fermo restando, dunque, che di opinioni deve trattarsi, la giurisprudenza di questa Corte ha considerato indici rivelatori dell’esistenza del nesso funzionale la sostanziale corrispondenza con opinioni espresse nell’esercizio di attività parlamentare tipica e la sostanziale contestualità temporale fra tale ultima attività e l’attività esterna (si vedano, tra le tante, le sentenze n. 218 del 2023, n. 241 del 2022, n. 59 del 2018, n. 144 del 2015 e n. 115 del 2014). Al ricorrere di queste condizioni, infatti, ben può affermarsi che le opinioni espresse fuori dalle sedi delle Camere siano connesse all’esercizio della funzione parlamentare, in quanto destinate a comunicare all’esterno, pur nell’ineliminabile diversità degli strumenti e del linguaggio adoperato nell’atto tipico e nella sua diffusione all’opinione pubblica, il significato dell’attività compiuta nell’esercizio del mandato, che, d’altronde, per sua natura è destinata «a proiettarsi al di fuori delle aule parlamentari, nell’interesse della libera dialettica politica che è condizione di vita delle istituzioni democratico-rappresentative» (sentenze n. 321 e n. 320 del 2000). 7.3.− Si tratta, tuttavia, pur sempre e soltanto di indici rivelatori, per quanto particolarmente consistenti e qualificati, e non già di elementi costitutivi di una fattispecie puntualmente delineata dalla Costituzione o dalla legge, sicché l’art. 68, primo comma, Cost. può, in casi particolari, trovare applicazione anche a «dichiarazioni rese extra moenia, non necessariamente connesse ad atti parlamentari ma per le quali si ritenga nondimeno sussistente un evidente e qualificato nesso con l’esercizio della funzione parlamentare» (sentenza n. 133 del 2018). Naturalmente, nel delineato contesto, si impone a questa Corte uno scrutinio particolarmente rigoroso sulla ricorrenza di tale nesso, in ragione dei contrapposti interessi costituzionali che vengono in gioco. Il che, del resto, è in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha riconosciuto, da un lato, che l’insindacabilità persegue «scopi legittimi, vale a dire la tutela del libero dibattito parlamentare e il mantenimento della separazione dei poteri legislativo e giudiziario» e, dall’altro, che l’assenza di un legame con un’attività parlamentare stricto sensu «esige un’interpretazione stretta del concetto di proporzionalità tra lo scopo prefissato e i mezzi impiegati» (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 24 febbraio 2009, CGIL e Cofferati contro Italia). 7.3.1.− In quest’ottica, possono considerarsi entro il perimetro di applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost. non tutte le opinioni politiche che il parlamentare esprima, al pari di quelle che può esprimere ogni cittadino e che trovano tutela e limiti nell’art. 21 Cost., ma quelle opinioni che, iscrivendosi in un contesto politico, siano funzionali all’esercizio dell’attività parlamentare. Deve trattarsi, dunque, di opinioni che incanalino nel processo politico proprio di una democrazia pluralista i diversi e divergenti interessi riferibili al popolo, al fine di trovare, nell’esercizio della rappresentanza della Nazione di cui all’art. 67 Cost., una mediazione tra gli stessi rispondente all’interesse generale. Tale rappresentanza, sancita dall’art. 67 Cost., costituisce invero il fondamento primo e, al tempo stesso, il limite, dell’insindacabilità delle opinioni prevista dall’art. 68, primo comma, Cost. Una funzione così alta, che la Costituzione protegge con un’immunità che si protrae oltre la scadenza del mandato parlamentare, esige e pretende, al contempo, forme espressive improntate al rispetto della dignità dei destinatari della critica e della denuncia politica, in specie quando questi non siano a loro volta parlamentari: e ciò tanto più quando l’opinione è espressa per mezzo dei moderni mezzi di comunicazione – quali testate giornalistiche online o social media – che la rendono agevolmente reperibile e oggetto di ulteriore diffusione (sentenza n. 150 del 2021). Sono insomma necessarie modalità espressive che, lungi dal trasformare l’insindacabilità in una garanzia di impunità e in un privilegio, siano coerenti con il rilievo dell’istituto nel raccordo tra istituzioni parlamentari e opinione pubblica e ne sorreggano la ratio, piuttosto che metterla in crisi. 8.− Applicando in concreto i richiamati princìpi, l’odierno ricorso deve essere rigettato. La Camera dei deputati, infatti, ha correttamente valutato che le dichiarazioni dell’allora deputato Fidanza sono state espresse nell’esercizio della funzione parlamentare. 8.1.− Deve considerarsi, innanzitutto, che le parole adoperate da Carlo Fidanza nel video poi pubblicato su un social media, per quanto aspre, costituiscono una dura valutazione di un fatto – lo svolgimento di una specifica mostra presso locali dati in concessione da un comune, peraltro nel collegio di elezione – che non si risolve in una mera denuncia o critica politica, ma è funzionale a farsi portatrice, nella sua prospettiva, di interessi generali: ne è riprova l’intenzione manifestata di continuare a interessarsi dei temi che egli ha ritenuto sottesi alla vicenda concreta. Le affermazioni per cui è sorto il conflitto, pertanto, non solo sono qualificabili come opinioni, ma devono ritenersi espresse nell’esercizio della funzione parlamentare. 8.2.− D’altronde, a rilevare l’esistenza del nesso funzionale sta l’atto di sindacato ispettivo – l’interrogazione a risposta scritta n. 4-01794 – cui ha fatto riferimento la Giunta per le autorizzazioni nella relazione approvata con la deliberazione della Camera dei deputati impugnata nell’odierno conflitto. 8.2.1.− Tale interrogazione, innanzitutto, è stata presentata nel «medesimo contesto temporale» (sentenza n. 221 del 2006) in cui il video recante le opinioni è stato pubblicato online. Essa, infatti, risale al 5 dicembre 2018, a fronte di affermazioni extra moenia che risultano essere state rese appena due giorni prima: si tratta di un arco temporale particolarmente compresso, il cui sviluppo si chiude quasi tre mesi prima che venga presentata la querela per diffamazione (sul riscontro della contestualità temporale, sentenze n. 218 del 2023, n. 241 del 2022, n. 305 del 2013, n. 205 del 2012, n. 98 del 2011, n. 97 del 2008, n. 335, n. 258 e n. 221 del 2006, n. 276 del 2001 e n. 10 del 2000). D’altro canto, una rigida applicazione dell’indice del legame temporale in termini di mera divulgazione di un atto, necessariamente esistente e antecedente, trasformerebbe il requisito del nesso funzionale in una sorta di nesso cronologico che non è idoneo, nella sua rigidità, a qualificare “l’esercizio delle funzioni”. V’è da rilevare, inoltre, che il tenore stesso delle opinioni espresse extra moenia – laddove, in particolare, viene manifestata l’intenzione di continuare a occuparsi dei temi ritenuti sottesi alla vicenda concreta – preannunciava, o comunque sia rendeva in concreto prevedibile, l’esercizio dell’attività parlamentare tipica (sentenze n. 241 del 2022, n. 133 del 2018, n. 335 del 2006 e n. 223 del 2005). 8.2.2.− Deve essere riscontrata, poi, la sostanziale corrispondenza di significato, «al di là delle formule letterali usate» (sentenza n. 144 del 2015), tra le opinioni espresse nel video sul social media e il contenuto dell’interrogazione a risposta scritta. Al di là, infatti, dell’uso di modalità espressive e comunicative fisiologicamente diverse, in considerazione dell’ineliminabile diversità degli strumenti in concreto utilizzati, che si tratti della medesima opinione si evince dalla circostanza che tanto l’atto tipico quanto le affermazioni extra moenia: si occupano di una medesima mostra artistica, ne criticano il titolo e l’oggetto, valutano negativamente gli effetti che tale mostra potrebbe avere sullo sviluppo della sessualità dei bambini e, infine, richiedono una particolare attenzione da parte della pubblica amministrazione nel concedere locali in concessione. 8.3.− Alla luce di tutto quanto precede, le affermazioni per le quali l’allora deputato Carlo Fidanza è citato a giudizio, dinanzi al ricorrente Tribunale di Milano, per rispondere del reato di diffamazione aggravata di cui all’art. 595, terzo comma, cod. pen. costituiscono opinioni espresse nell’esercizio della funzione parlamentare e, pertanto, spettava alla Camera dei deputati deliberarne l’insindacabilità. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara che spettava alla Camera dei deputati affermare che le dichiarazioni rese dal deputato Carlo Fidanza, per le quali pende il procedimento penale davanti al Tribunale ordinario di Milano, in composizione monocratica, sezione settima penale, di cui al ricorso in epigrafe, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 aprile 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Filippo PATRONI GRIFFI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. MICCOLI Grazia Rosa Anna - Presidente Dott. CATENA Rossella - Consigliere Dott. SESSA Renata - Consigliere Dott. CANANZI Francesco - Relatore Dott. BORRELLI Paola - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Su.Co. nato a M il omissis avverso l'ordinanza del 07/12/2023 del TRIB. LIBERTÁ di TARANTO udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO CANANZI; lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale TOMASO EPIDENDIO, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso; lette le conclusioni depositate dall'avvocato GI.LA., nell'interesse del ricorrente, che ha illustrato ulteriormente i motivi di ricorso e ne ha chiesto l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con la decisione indicata in epigrafe, il Tribunale del riesame di Taranto ha riformato parzialmente l'ordinanza emessa dal G.i.p il 14 ottobre 2023, escludendo il divieto di allontanamento dal comune di abituale dimora, confermandola nei confronti di Su.Co., quanto al divieto di dimora in M e al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalle persone offese, Su.St., Su.Os. e Al.Ro. Il delitto costituente titolo cautelare per Su.Co. consisteva nella condotta di atti persecutori, dettagliamente descritta nella contestazione provvisoria, prevista dagli "artt. 612-bis, commi 1 e 2, 81 cod. pen. perché, con condotte reiterate, per ragioni di acredine, legate ad interessi di natura patrimoniale familiare - al fine di ottenere la liberazione di un'abitazione, di proprietà della madre Bu.Gi., occupata gratuitamente dal nipote Su.Os. - molestava e minacciava: - il fratello Su.St., il nipote Su.Os. e la di lui moglie Al.Ro., così cagionando ai predetti perdurante e grave stato di ansia e di paura, ingenerando in loro fondato timore per la incolumità personale e costringendoli a modificare le proprie abitudini di vita (a diradare le uscite, a dotarsi di impianto di videosorveglianza); in particolare, recava molestia al fratello, Su.St. - padre di Su.Os. -, il 30/5/23, aprendone arbitrariamente l'esercizio commerciale e portando all'esterno bombole di gas, ivi stoccate; il 17/6/23, portando dei rifiuti, sul piazzale dell'esercizio commerciale del fratello; il 3/7/23, collocando in una intercapedine dell'esercizio commerciale, della frutta "marcia"; il 25/7/23, gettando nuovamente dei rifiuti, presso l'esercizio commerciale del fratello; il 20/8/23, sversando sul piazzale dell'esercizio commerciale medesimo, olio esausto; tra il 12 e il 13 settembre 2023, spostando dalla sua posizione il carrello per barca, di Su.Os., parcato sul piazzale antistante l'esercizio commerciale di Su.St. ed appropriandosi di oggetti del medesimo fratello, riposti in un locale adiacente al suo negozio di ferramenta; - recava molestia al nipote Su.Os. ed alla di lui moglie Al.Ro., il 29/5/23, introducendosi arbitrariamente nel giardino della loro abitazione - accusando il nipote Su.Os., di avere sottratto denaro ed uno stereo dall'interno dell'abitazione della madre Bu.Gi., nonna di Su.Os.; - il 6/6/23, "scoccando" una freccetta, contro l'abitazione dei predetti coniugi, conficcatasi nel muro perimetrale; - nei giorni successivi, recava molestia ai predetti coniugi, aggredendoli verbalmente, li minacciava telefonicamente e a mezzo "sms" telefonici, li diffamava con "post" sul social network facebook (a titolo esemplificativo, sms: "appena torna a casa mia madre io mi devo operare a M. Quando torno la casa deve essere libera. X favore non fatemi fare cose che non vorrei fare ma che farò. Su.St. sa di cosa sono capace"; post: " Per i turisti di C, Vorrei segnalare 2 persone di M che si spacciano per babysitter e giardinieri ma che in realtà rubano negli appartamenti in cui vanno a lavorare. Per foto e nomi msg in pvt"); - il 5/6/23, su presunta richiesta della madre Bu.Gi., induceva tecnici dell'Acquedotto P a rimuovere il contatore dell'acqua dell'abitazione occupata dal nucleo familiare del nipote Su.Os. e il 28/6/23, si appostava per circa un'ora presso l'abitazione medesima; -il 3/8/23, aggrediva verbalmente ed ingiuriava Al.Ro., recatasi a fare visita a Bu.Gi., insieme con la figlia minore (ignorando la presenza del figlio Su.Co."): - in ultimo, il 18/9/2023, si appostava presso l'abitazione dei predetti coniugi e filmava l'interno della proprietà con il telefono cellulare. In M, fino al 18/9/2023". 2. Il ricorso per cassazione proposto nell'interesse di Su.Co. consta di tre motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 3. Il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Il Tribunale del riesame avrebbe ritenuto comprovato il verificarsi degli eventi del delitto di atti persecutori sulla scorta delle sole dichiarazioni della persona offesa, senza valutare la sussistenza del nesso causale fra la condotta dell'indagato e lo stato di ansia e il mutamento delle abitudini di vita. Risulterebbe, inoltre, non valutato l'arco temporale ristretto e dunque l'insussistenza della abitualità. 4. Il secondo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alle esigenze cautelari, in particolare non avendo il Tribunale del riesame offerto una valutazione relativa alla attualità del pericolo, essendo le condotte terminate nell'estate 2023, senza considerare inoltre la risalenza nel tempo dei precedenti penali e lo scarso valore degli stessi, nonché la distanza dell'abitazione dell'indagato, ubicata in provincia di Milano, rispetto al luogo degli eventi contestati. 5. Il terzo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione ai divieti di dimora in M e di comunicazione con le persone offese, essendo per un verso già garantite le esigenze cautelari dal divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalle stesse persone offese, per altro verso in quanto non idonei a evitare la reiterazione delle condotte a mezzo social network. 6. Il ricorso è stato trattato senza intervento delle parti, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell'art. 7, comma 1, d.l. n. 105 del 2.02, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall'articolo 94 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, come modificato dall'art. 5-duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla I. 30 dicembre 2022, n. 199, nonché entro il 30 giugno 2024 ai sensi dell'art. 11, comma 7, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito in legge 23 febbraio 2024, n. 18. Le parti hanno concluso come indicato in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è complessivamente infondato. 2. Pacifico è l'orientamento che, a partire da Sezioni Unite n. 11 del 22/3/2000, Audino, Rv. 215828, in tema di misure cautelari personali, a fronte di un ricorso per cassazione per vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame, in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ne definisce così l'ambito di delibazione. La Corte ha il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l'hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell'indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti, rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze probatorie (nello stesso senso, Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, Terranova, Rv. 237012; Sez. F., n. 47748 del 11/08/2014, Contarini, Rv. 261400; Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, Tiana, Rv. 255460; Sez. 2, Sentenza n. 27866 del 17/06/2019, Mazzelli, Rv. 276976). 3. Quanto al primo motivo di ricorso, in ordine al nesso di causalità e agli eventi previsti dalla norma incriminatrice - ansia e mutamento delle abitudini di vita - ampia è la motivazione resa dal Tribunale del riesame, che al fol. 13 dell'ordinanza impugnata rileva il numero, la reiterazione e l'invasività delle condotte poste in essere dall'indagato, la piena idoneità delle stesse a indurre la persona offesa in grave e perdurante turbamento e in stato di ansia, anche in ragione di condotte anteriori rispetto a quelle specificate nell'imputazione provvisoria. Per altro, certamente, come osserva il ricorrente, la gravità indiziaria quanto al verificarsi degli eventi - attestati dalla 'ronda' effettuata da Su.St. ad ogni uscita e al rientro nei luoghi in oggetto - risultava fondata sulla dichiarazione della persona offesa, che si era vista costretta a istallare le videocamere. Va ricordato che le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (In motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi - Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012 - dep. 24/10/2012, Bell'Arte ed altri, Rv. 253214). Per altro, in tema di prove, la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni. (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013 - dep. 08/10/2013, Terrusa, Rv. 257241) Nel caso in esame né si colgono nella motivazione impugnata, né vengono dedotte ragioni di contraddittorietà o di manifesta illogicità nella valutazione della dichiarazione della persona offesa. Anche per la condotta contestata come in danno di Su.Os. e Alta mura Roberta, il Tribunale del riesame ritiene sussistente la gravità indiziaria, rinviando all'ordinanza genetica, che al fol. 12, valuta le dichiarazioni di questi ultimi, giudicandole credibili per costanza, sovrapponibili nella ricostruzione degli eventi, riscontrate anche da elementi oggettivi quali video, chat e messaggi. Quanto alla doglianza fondata sulla durata limitata delle condotte, deve osservarsi come il ricorso non si confronti con il consolidato principio per cui integrano il delitto di atti persecutori di cui all'art. 612-bis cod. pen. anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la "reiterazione" richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale (Sez. 5, n. 33842 del 03/04/2018, P., Rv. 273622 - 01; mass. conf, n. 6417 del 2010 Rv. 245881 - 01, N. 45331 del 2013 Rv. 257560 - 01). Ne consegue la infondatezza del primo motivo di ricorso. 2. Quanto al secondo motivo, il ricorso non si confronta con l'ordinanza impugnata che al fol. 23 fa esplicito riferimento a un "astio profondissimo" e a un "rancore parimenti incontrollato", da parte dell'indagato contro le persone offese, espressosi nell'estate del 2023 nelle condotte in contestazione, attuate nonostante le denunce sporte alle forze di polizia da parte delle vittime, come pure nonostante l'esistenza dell'impianto di sorveglianza, che avrebbe dovuto scoraggiare l'indagato. In sostanza, la determinazione di Su.Co. a commettere le condotte persecutorie, in modo non manifestamente illogico, viene valutata dal Tribunale del riesame come indice di concretezza e attualità del pericolo, richiamando l'ordinanza impugnata anche i precedenti penali - in vero non valutati dal motivo di ricorso nella loro specificità - di carattere assolutamente omogeneo a quelli ora in esame, trattandosi di molestie, minacce, lesioni personali e ingiurie. Si tratta di una motivazione assolutamente congrua e non manifestamente illogica. Ne consegue l'infondatezza del secondo motivo di ricorso. 3. Quanto al terzo motivo, il Tribunale del riesame ha motivato in modo non manifestamente illogico in ordine alla necessità delle concorrenti misure cautelari - divieto di avvicinamento alle persone offese e divieto di dimora in M - rilevando come la prima misura prescinda alla ubicazione delle persone offese nel comune menzionato, avendo efficacia dissuasiva per i caso in cui le persone offese si allontanino da M. mentre la seconda misura è tesa a evitare l'ingresso nel territorio comunale da parte di Su.Co., già dimostratosi incline alla diffamazione dei congiunti anche fisica, oltre che telematica, così da impedirgli la reiterazione di tali condotte rivolgendosi a terzi nel limitato contesto territoriale comunale. 4. Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso, con condanna alle spese processuali del ricorrente. 5. D'ufficio va disposto l'oscuramento dei dati personali, attesa la necessità prevista dall'art. 52, comma 2, D.Lgs. 196/2003 di predisporre tale misura a tutela dei diritti e della dignità degli interessati. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento andranno omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs., 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, 12 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. DE MARZO Giuseppe - Presidente Dott. CANANZI Francesco - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Relatore Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere Dott. MAURO Anna - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Di.Fo. nato a E il Omissis avverso la sentenza del 28/06/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA BIFULCO; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale LUCIA ODELLO, la quale ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso. Ritenuto in fatto 1. Con sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Palermo ha confermato il provvedimento di primo grado, che ha dichiarato Di.Fo. responsabile del delitto di atti persecutori, aggravato ai sensi dell'art. 61, primo comma, n. 10, cod. pen. e di quello di diffamazione, aggravato dal nesso teleologico, nei confronti di Ca.Gi., condannandola alla pena di mesi otto e giorni quindici di reclusione e al risarcimento dei danni. 2. Nell'interesse dell'imputata è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo, si duole di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'ascritto delitto di atti persecutori, per avere la Corte territoriale erroneamente riscontrato nella condotta dell'imputata una "tendenziale stabilità di comportamenti persecutori, vessatori e minacciosi", che non troverebbe riscontro alcuno negli esiti dell'istruttoria dibattimentale. Le condotte dell'imputata si sarebbero invece caratterizzate per l'assenza di abitualità: la difesa indica, a tal proposito, il carattere estemporaneo dell'episodio in cui l'imputata ha rivolto alla persona offesa l'epiteto "parassita", ciò che non può considerarsi alla stregua di condotta inserita in una catena di comportamenti rilevanti ai sensi dell'art. 612 bis cod. pen. Anche la minaccia via social network "Facebook" è stata erroneamente indicata tra le condotte integranti l'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 612 bis, cod. pen., attesa la mancata prova della riconducibilità del profilo Facebook all'imputata. Del pari non comprovata sarebbe la sussistenza dell'elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie incriminatrice, nonché dell'evento, come dimostrato dall'assenza di certificazioni mediche comprovanti le conseguenze delle condotte dell'imputata sulla sfera emotiva e psicologica della persona offesa. 2.2 Col secondo motivo, si eccepisce vizio di motivazione in relazione alla mancata derubricazione del delitto di atti persecutori in quello previsto dall'art. 612 cod. pen., attesa la sussistenza di un unico episodio di minaccia, da cui non è scaturito l'evento richiesto dall'art. 612 bis cod. pen. 2.3 Col terzo motivo, si lamenta vizio di motivazione in relazione all'ascritto delitto di diffamazione (per l'espressione "parassita"), dal momento che la responsabilità dell'imputata è stata affermata in mancanza di prova certa della riconducibilità del profilo Facebook all'imputata, non avendo i giudici del merito provveduto ad accertare l'indirizzo I.P. di provenienza del post asseritamente diffamatorio. Non adeguatamente vagliato, inoltre, è il profilo della sussistenza dell'esimente del diritto di critica, che l'imputata avrebbe esercitato nel manifestare la propria opinione su un caso di ed. malasanità, rispetto al quale doveva considerarsi prevalente "il diritto di informazione pubblica". Sussisterebbero, nel caso di specie, i tre requisiti della veridicità dei fatti, della continenza e dell'interesse sociale alla conoscenza dei fatti narrati. Da ultimo, la difesa osserva che la condotta asseritamente diffamatoria poteva ben ritenersi assorbita nella condotta di atti persecutori, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d'appello. 3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con l. 18/12/2020, n. 176, le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa Lucia Odello, quale ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso. Sono altresì pervenute conclusioni scritte e nota spese della parte civile e conclusioni dell'imputata. Considerato in diritto 1. I primi due motivi sono manifestamente infondati, in quanto la difesa non si confronta con la parte argomentativa dell'impugnata sentenza, riproponendo censure reiterative delle medesime doglianze dedotte nel giudizio di appello, rispetto alle quali non può che ribadirsi quanto già, più volte, chiarito da parte di questa Corte di legittimità, per cui è inammissibile il ricorso per cassazione che riproduce i medesimi motivi prospettati con l'atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato, limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione (così, tra le altre, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970-01; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260608-01; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838- 01). Dopo aver brevemente rievocato l'antefatto della vicenda (il decesso della madre dell'imputata presso l'ospedale Sant'Antonio Abate di Trapani, del quale evento la ricorrente riteneva responsabile la persona offesa, che ivi prestava servizio in qualità d'infermiere), i giudici di appello, con valutazione conforme a quanto ritenuto dal Tribunale di Trapani, hanno smentito l'assunto difensivo, evidenziando, con motivazione che non presenta cadute logiche, la congruenza del narrato della persona offesa e di quello di numerosi testi (colleghi e dottori in servizio, all'epoca dei fatti, nel citato ospedale, il nipote della persona offesa, presente al momento dell'aggressione-inseguimento per strada, l'agente Mondello, che intervenne a seguito di segnalazione degli infermieri per la presenza insistente e minacciosa dell'imputata, alla ricerca della persona offesa, in reparto). Da tali dichiarazioni, si è accuratamente constatata la pluralità di condotte moleste, aggressive e vessatorie e, segnatamente, 1) i diversi episodi in cui l'imputata si era recata all'ospedale cercando Ca.Gi. per "ammazzarlo", come aveva detto ai colleghi di quest'ultimo; 2) la pubblicazione -confermata dall'imputata stessa- di un "post" con fotografia degli ematomi sul braccio della madre dell'imputata e dell'effige della persona offesa, accompagnata dalla dicitura "parassita"; 3) l'inseguimento, per strada, della persona offesa. La responsabilità dell'imputato è stata affermata dalla Corte territoriale sulla base di un compiuta ricostruzione tanto delle condotte persecutorie, come si è visto non certo estemporanee, quanto dell'elemento soggettivo del reato ascritto (sorretto dal dolo generico, vale a dire dalla consapevolezza dell'apporto che ciascuno degli attacchi apporta alla lesione dell'interesse protetto, cfr. ex plur., v. Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015, A., Rv. 265230 - 01). A tal proposito, la Corte territoriale ha ricordato come la piena volontà e consapevolezza dell'imputata circa il proprio agire persecutorio sia stata desunta dalle reiterate ed esplicite condotte della stessa, che ha ripetutamente riferito a terzi che il Ca.Gi. avrebbe pagato di persona la morte della madre. Quanto all'evento richiesto dalla fattispecie incriminatrice, va disattesa la censura difensiva che insiste sull'assenza di certificazioni mediche comprovanti le conseguenze delle condotte dell'imputata sulla sfera emotiva e psicologica della persona offesa (cfr., ex multis, Sez. 5, n. 47195 del 06/10/2015 Ce. (dep. 27/11/2015) Rv. 265530 - 01, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell'agente). Sul punto, va rimarcata la congruenza dell'iter motivazionale con i canoni giurisprudenziali elaborati da questa Corte in tema di atti persecutori: invero, la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente (i giudici del merito hanno evidenziato, a tal proposito, l'assenza sul luogo di lavoro per lungo periodo per tema d'incontri con l'imputata) ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, S., Rv. 269621 -01). La manifesta infondatezza del secondo motivo deve ricondursi a quanto già ricordato a proposito della congrua motivazione con cui i giudici di merito hanno ritenuto provato l'elemento oggettivo del delitto di atti persecutori. È infatti nel quadro complessivo delle plurime condotte vessatorie, moleste e aggressive che si inseriscono le minacce (non già la minaccia, come affermato dalla difesa) ed è dall'insieme di quelle condotte (ivi comprese le minacce) che è scaturito l'evento richiesto dall'art. 612 bis cod. pen. 2. Il terzo motivo è manifestamente infondato, per le ragioni qui di seguito illustrate. In relazione alla lamentata mancanza di prova certa della riconducibilità del profilo Facebook all'imputata, la Corte territoriale ha ricordato, in primis, che l'imputata stessa ha ammesso di aver pubblicato il post diffamatorio (con l'espressione "parassita"), ciò che basterebbe a disattendere l'eccezione difensiva. In ogni caso, gioverà ribadire quanto già chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte a proposito del carattere non necessario dell'accertamento tecnico relativo alla titolarità dell'indirizzo IP, da cui risultano spediti i messaggi offensivi. Infatti, "ai fini dell'affermazione della responsabilità per il delitto di diffamazione, l'accertamento tecnico in ordine alla titolarità dell'indirizzo IP da cui risultano spediti i messaggi offensivi non è necessario, a condizione che il profilo "Facebook" sia attribuibile all'imputato sulla base di elementi logici, desumibili dalla convergenza di plurimi e precisi dati indiziari quali il movente, l'argomento del "forum" sul quale i messaggi sono pubblicati, il rapporto tra le parti, la provenienza del "post" dalla bacheca virtuale dell'imputato con utilizzo del suo "nickname"" (Sez. 5, n. 38755 del 14/07/2023, L., Rv. 285077 - 01). Anche l'asserita sussistenza dell'esimente del diritto di critica va disattesa, avendo la Corte d'appello adeguatamente illustrato i modi in cui il limite della continenza sia stato superato, per avere l'imputata esposto al pubblico disprezzo la persona offesa, pubblicando - su una bacheca "Facebook", pubblica "piazza virtuale" aperta al libero confronto tra gli utenti registrati (Sez. 5, n. 8898 del 18/01/2021, Rv. 280571-01)- l'effige della persona offesa, il commento "parassita" e la foto del braccio tumefatto della madre, in modo che dal "post", nel suo insieme, trapelasse un attacco ben preciso alla reputazione professionale del Ca.Gi.. Ora, in tema di diffamazione, il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta - e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione (Sez. 5, n. 31669 del 14/04/2015, Marcialis, Rv. 264442 -01). Ma anche a voler concedere che l'espressione incriminata "parassita" possa considerarsi alla stregua di un termine insostituibile nella manifestazione del pensiero critico, in quanto privo di adeguati equivalenti, e che, pertanto, detto termine non superi i limiti della continenza, resta, come accennato, il profilo dell'architettura complessiva del post incriminato, che ha associato tre elementi (l'immagine del braccio tumefatto dalle flebo, l'immagine dell'infermiere asseritamente responsabile, l'epiteto offensivo "parassita") in modo non soltanto da denigrare la persona offesa e le sue capacità professionali, ma anche da indurre la platea degli utenti Facebook -che può essere costituita, come noto, da un numero quantitativamente apprezzabile di persone (Sez. 5, n. 13979 del 25/01/2021, Chita, Rv. 281023 - 01)- a ulteriori reazioni scomposte nei confronti della persona offesa, senza una razionale e apprezzabile correlazione con il fatto del quale si tratta. Infine, va rilevata la totale genericità dell'eccezione relativa al mancato assorbimento della condotta diffamatoria in quella di atti persecutori, non avendo la difesa contrastato con argomenti più articolati - rispetto a un vago dissenso - la valutazione della Corte d'appello circa il concorso del delitto di cui all'art. 612 bis cod. pen. con quello di diffamazione, alla stregua del condiviso orientamento di questa Corte: il delitto di atti persecutori concorre con quello di diffamazione anche quando nelle modalità della condotta diffamatoria si esprimono le molestie reiterate costitutive del reato previsto dall'art. 612 bis cod. pen. (Sez. 5, n. 49288 del 15/11/2023, C., Rv. 285559 - 01; Sez. 5, n. 51718 del 05/11/2014, T., Rv. 262635 - 01). 3. Alla pronuncia di inammissibilità consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. L'imputata va, inoltre, condannata alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità, che, in relazione all'attività svolta, vengono liquidate in complessivi euro 3.600,00, oltre accessori di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l'imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro 3.600,00, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003. Così deciso in Roma, il 22 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. MICCOLI Grazia Rosa Anna - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Consigliere Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere Dott. MOROSINI Elisabetta Maria - Consigliere Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ma.Gi. nato a E il (Omissis) avverso la sentenza del 13-09-2023 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ROSARIA GIORDANO; udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, FRANCESCA CERONI, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; udito l'avv. DA.PI., in sostituzione dell'avv. SA.SP., per la parte civile, che chiede l'inammissibilità del ricorso e deposita conclusioni scritte e nota spese; udito l'avv. FR.AL. per l'imputato, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte d'Appello di Caltanissetta confermava la decisione di condanna di primo grado del ricorrente per il reato di diffamazione aggravata. In particolare, l'imputato, ex vice-sindaco del Comune di P , era stato chiamato a rispondere del delitto di cui all'art. 595, commi terzo e quarto, cod. pen., per aver offeso la reputazione di Ca.An., sindaco in carica del medesimo Comune, in quanto, in un'intervista postata in data 26 maggio 2019 sul profilo del social Facebook della giornalista Mo.Ra. (concorrente nel reato), aveva offeso la reputazione del predetto Ca.An. 2. Avverso la richiamata sentenza della Corte d'Appello di Caltanissetta il Ma.Gi. ha proposto ricorso per cassazione, mediante il difensore di fiducia, avv. Fr.Le., articolando due motivi di impugnazione, di seguito riportati nei limiti previsti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 51 e 599 cod. pen. A fondamento della prima parte del motivo il ricorrente assume che le decisioni di merito ne hanno erroneamente affermato la responsabilità penale non considerando che la sua condotta doveva ritenersi scriminata dall'art. 51 cod. pen., poiché egli si era limitato ad esercitare il diritto di critica politica rispetto ad un proprio "avversario", esponente del partito contrapposto, usando toni pacati, a seguito di un evento preciso, ossia l'aumento del 5% delle indennità degli amministratori e delle tasse comunali, avvenuto con una determina poco precedente. Talché le espressioni utilizzate si collocherebbero in detto contesto di critica politica, volto a far emergere che il Ca.An. aveva mentito rispetto agli interventi a favore dei più bisognosi "promessi" nel corso della campagna elettorale. Rileva inoltre l'imputato, nella seconda parte del motivo proposto, che neppure era stata applicata l'esimente della provocazione ex art. 599 cod. pen. poiché l'intervista che egli aveva rilasciato era una "risposta" a quella resa il giorno precedente dallo stesso Ca.An., che lo aveva duramente criticato sia per l'attività svolta come vice-sindaco che rispetto alla sua attività lavorativa, evidenziando sarcasticamente che non si comprendeva che lavoro facesse avendo così tanto tempo libero a disposizione. 2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in via subordinata, violazione e falsa applicazione dell'art. 131-bis cod. pen. per non essere stato ritenuto il fatto di particolare tenuità sia in relazione alla condotta che al danno arrecato, considerato che si trattava di frasi pronunciate nell'ambito dell'aspra critica politica che caratterizzava la cittadina in quel periodo. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. All'esame dei motivi, occorre premettere che la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato (Sez. 5, n. 19889 del 17-02-2021, (Omissis), Rv. 281264 -01; Sez. 5, n. 2473 del 10-10-2019, dep. 2020, (Omissis), Rv. 278145 -01; Sez. 5, n. 48698 del 19-09-2014, (Omissis), Rv. 261284 -01; Sez. 5, n. 41869 del 14-02-2013, (Omissis) e altro, Rv. 256706; Sez. 5, n. 832 del 21-06-2005, (Omissis), Rv. 233749). Tale delibazione che il giudice di legittimità può e deve compiere anche quanto al profilo del dolo e della sussistenza della scriminante del diritto di cronaca o di critica, allorquando gli stessi elementi evidenziati nella sentenza impugnata depongano per il difetto della componente soggettiva del reato (Sez. 5, (Omissis), cit.). 2. Ebbene, ciò posto, occorre considerare che, come si evince dal capo di imputazione, il Ma.Gi. è stato chiamato a rispondere del delitto di diffamazione aggravata in danno di Ca.An., all'epoca dei fatti sindaco di P, per aver postato su un profilo Facebook un'intervista nella quale, tra l'altro, affermava che egli era "bugiardo e incapace", "o è uno che nasconde e quindi imbroglia i cittadini, o veramente incapace", "non ha alcuna professionalità", "invito il sindaco Ca.An. a non fare il fannullone ... lui mi sa che è ancora un cocco di mamma che viene accompagnato nella sua professione, nelle aule di tribunale; famoso più per i suoi brindisi per lo champagnino che per la sua professionalità", "stiamo mantenendo un sindaco a 2.037,00 Euro al mese per fare il dissesto, non è capace di gestire alcun problema questi vogliono campare a spese del Comune, questa è la verità questa è la realtà della città di P nelle mani di Ca.An.". In particolare, la decisione impugnata ha ritenuto che le espressioni utilizzate fossero prive, pur nel contesto della situazione finanziaria e di dissesto nella quale versava il Comune di P, della necessaria continenza, finendo per risolversi in espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti della persona dell'offesa. 3. Alla luce di quanto sinora premesso il primo motivo è fondato, con valenza assorbente sul secondo. Vi è infatti che la pronuncia impugnata ha omesso di contestualizzare i termini utilizzati al lume delle due circostanze evocate come esimente dal Ma.Gi., ossia dell'esercizio del diritto di critica politica nonché dell'aver rilasciato, appena il giorno precedente, il Ca.An. a propria volta pubbliche dichiarazioni estremamente critiche nei confronti dell'esponente del partito contrapposto. I presupposti del delitto di diffamazione devono essere infatti vagliati con peculiare rigore alla luce del diritto alla libera manifestazione del pensiero che, ai sensi dell'art. 21 Cost., è riconosciuta nel nostro ordinamento e ciò vieppiù nell'ambito di determinati contesti nei quali la critica può assumere, entro certi limiti, anche le sembianze di un attacco personale. In particolare, costituisce legittimo esercizio del diritto di critica politica la diffusione, con mezzo di pubblicità, di giudizi negativi circa condotte biasimevoli poste in essere da amministratori pubblici, purché la critica prenda spunto da una notizia vera, si connoti di pubblico interesse e non trascenda in un attacco personale (cfr., tra le altre, Sez. 5, n. 4530 del 10-11-2022, dep. 2023, (Omissis), Rv. 283964 -02; Sez. 5, n. 41767 del 21-07-2009, Z., Rv. 245430 -01). D'altronde, in materia di diffamazione a mezzo stampa o, come nel caso sottoposto a giudizio, con "altro mezzo di pubblicità", il diritto di critica politica consentito, che trova fondamento nell'interesse all'informazione dell'opinione pubblica e nel controllo democratico nei confronti degli esponenti politici e dei pubblici amministratori, non deve comunque essere avulso da un nucleo di verità (Sez. 5, n. Sez. 5, n. 31263 del 14-09-2020, (Omissis), Rv. 279909). Questi presupposti ricorrono nel caso in esame, perché il ricorrente, a fronte della notizia veritiera dell'aumento dell'indennità di carica nella misura del 5% disposto per i componenti della giunta comunale, nell'intervista per cui è processo ha criticato innanzi tutto il sindaco Ca.An., esponente del partito opposto al suo, per impegnarsi troppo poco nello svolgimento del proprio incarico istituzionale pur lautamente compensata, utilizzando espressioni come fannullone, cocco di mamma, persona dedita a bere lo "champagnino" e simili. Per altro verso ha definito "bugiardo" lo stesso Ca.An., perché in campagna elettorale aveva promesso interventi a favore dei più bisognosi e aveva poi destinato l'aumento delle imposte piuttosto all'incremento delle indennità di carica. Ebbene, queste espressioni non possono considerarsi certo un attacco personale in danno della persona offesa, ma sono semplicemente frasi colorite, dal tono aspro e "ad impatto" verso gli elettori, che costituiscono talora l'essenza della dialettica politica. Talché, considerando, poi, che anche il Ca.An. il giorno precedente aveva utilizzato espressioni colorite nei confronti del ricorrente e di aspra critica del suo operato nella medesima cittadina in qualità di vice-sindaco, i fatti ascritti non costituiscono reato perché possono essere ricondotti nell'alveo della previsione di cui all'art. 51 cod. pen., da inserirsi in un più ampio dibattito politico in corso nel contesto nel quale operavano l'imputato e la persona offesa. In proposito non va trascurato che il "diritto di critica" si concretizza in un giudizio valutativo che, postulando l'esistenza del fatto elevato a oggetto o spunto del discorso critico, trova una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere; di conseguenza va esclusa la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, perché tali modalità espressive siano adeguate e funzionali all'opinione o alla protesta, in correlazione con gli interessi e i valori che si ritengono compromessi (tra le tante, Sez. 1, n. 36045 del 13-06-2014, (Omissis), Rv. 261122). La critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale e non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (si veda in tal senso Sez. 5, n. 25518 del 26-09-2016, dep. 2017, (Omissis), Rv. 270284). Indubbiamente occorre rispettare il requisito della "continenza" delle espressioni utilizzate per esprimere la propria opinione, ma, nella valutazione di tale requisito non si può prescindere dal considerare le "espressioni utilizzate" (Sez. U, n. 37140 del 30-05-2001, (Omissis), Rv. 219651), il lessico (Sez. 5, n. 6925 del 21-12-2000, dep. 2001, (Omissis), Rv. 218282), la modalità espositiva e il tenore del linguaggio (Sez. 5, n. 8898 del 18-01-2021, (Omissis), Rv. 280571; Sez. 5, n. 8824 del 01-12-2010, dep. 2011, (Omissis), Rv. 250218; Sez. 5, n. 31096 del 04-03-2009, (Omissis), Rv. 244811; Sez. 5, n. 25138 del 21-02-2007, (Omissis), Rv. 237248). Occorre poi tener presente che, ferma l'esigenza di evitare gratuite ed immotivate aggressioni, il diritto di critica consente l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Sez. 5, n. 17243 del 19-02-2020, (Omissis), Rv. 279133). Occorre, peraltro, considerare il significato che le espressioni assumono nel contesto comune, laddove sono accettate dalla maggioranza dei cittadini espressioni più aggressive e disinvolte di quelle ammesse nel passato, per effetto del mutamento della sensibilità e della coscienza sociale (Sez. 5, n. 39059 del 27-06-2019, (Omissis), Rv. 276961). Tanto è più vero quando si verte dell'uso di social networks, dove è frequente l'uso di espressioni forti in chiave di immediato e poco meditato commento critico, espressioni che vanno considerate penalmente illecite solo laddove immediatamente e inequivocabilmente percepibili come offensive secondo parametri di comune comprensione, ancorati al registro di verifica dell'uomo medio (Sez. 5, n. 1365 del 09-11-2022, dep. 2023, (Omissis), Rv. 284044). In caso contrario si può incorrere nella violazione dei principi che la giurisprudenza interna ha stabilito, in ossequio di quella della Corte di Strasburgo sull'art. 10 della Convenzione Europea per i diritti dell'uomo, che richiede la più ampia tutela e protezione della libertà di espressione, specie quando riguardi la manifestazione di opinioni su questioni di interesse pubblico (si veda, in materia, Corte EDU, (Omissis) e (Omissis) da (Omissis) c. (Omissis), 24-09-2019). 2. La sentenza impugnata deve dunque essere annullata senza rinvio con la formula assolutoria qui di seguito indicata. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato. Così deciso in Roma il 4 aprile 2024 Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2024
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. SABEONE Gerardo - Presidente Dott. SCARLINI Enrico Vittorio Stanislao - Relatore Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. SGUBBI Vincenzo - Consigliere Dott. CUOCO Michele - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ma.Se. nato il (Omissis) avverso la sentenza del 02/02/2023 della CORTE APPELLO di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ENRICO VITTORIO STANISLAO SCARLINI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore PERLA LORI che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso. Il difensore di P.C. Avv. AL. MA. del foro di MILANO deposita conclusioni scritte, alle quali si riporta, unitamente alla nota spesa. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 2 febbraio 2023, la Corte di appello cli Milano confermava la sentenza del locale Tribunale che aveva ritenuto Ma.Se. colpevole del delitto di cui all'art. 595, comma 3, cod. pen., per avere, pubblicando, nel febbraio 2018, un post sul social media facebook, rivolto espressioni offensive nei confronti del Comune di Buccinasco, accusando l'ente di avergli irrogato una sanzione pecuniaria "perché ha offeso un boss", e, inoltre, di usare "mezzucci per giustificare la 'ndrangheta", di "andare in soccorso di una 'ndrina mafiosa e di fare la multa a chi fa satira", di allearsi così "palesemente con la mafia", di "puntare subdolamente sul quieto vivere attraverso mezzi intimidatori", irrogando al predetto la pena di 1.500 Euro di multa e condannandolo a risarcire l'ente locale, costituitosi parte civile, con la somma di Euro 10.000. 1.1. In risposta ai dedotti motivi di appello, la Corte osservava che: - la premessa all'odierna vicenda era costituita dalle sanzioni pecuniarie inflitte alla Kl.Da. & co., agenzia di comunicazione facente riferimento al prevenuto, per l'affissione non autorizzata di manifestini, sulla recinzione della pista di pattinaggio e nella bacheca degli avvisi del Comune, ritraenti Pa.Ro. (personaggio conosciuto per i suoi trascorsi criminali e per il ruolo di vertice ricoperto nel clan 'ndranghetista omonimo) in sembianze femminili; - le espressioni usate nei post pubblicati su facebook, riportate in imputazione, e che avevano costituito la reazione dell'imputato alla irrogazione delle predette sanzioni, costituivano un'indubbia offesa alla reputazione del Comune di Buccinasco, finendolo per indicare come colluso con la 'ndranç1heta; - non si ravvisava scriminante alcuna, in assenza del necessario requisito della verità della notizia (oltretutto, in precedenza, il prevenuto stesso aveva condotto una campagna antimafia proprio in collaborazione con il sindaco del comune di Buccinasco) e della continenza delle espressioni usate. 2. Propone ricorso l'imputato, a mezzo del proprio difensore Avv. Eu. Mi., deducendo, con l'unico motivo, la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità dell'imputato. Premessa la rassegna delle norme relative alla valutazione della prova raccolta in giudizio, e particolarmente della prova indiziaria, se ne deduceva la manifesta illogicità del percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale. La Corte d'appello, infatti, non aveva adeguatamente valutato la sussistenza della scriminante del diritto di satira. L'imputato, infatti, aveva espresso un giudizio ironico sulla vicenda di cui era stato protagonista e non aveva, del resto, addebitato al Comune di Buccinasco alcuna concreta condotta. Come, peraltro, satirica era anche la rappresentazione del Pa.Ro. in panni femminili. 3. Il Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte inviava una memoria scritta con la quale concludeva per l'inammissibilità del ricorso. 4. Depositava memoria il difensore della parte civile chiedendo l'inammissibilità o il rigetto del ricorso, con la liquidazione delle spese del grado. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è infondato. 1. In relazione al diritto di satira, come scriminante di una condotta di diffamazione si è, infatti, precisato che: - in tema di diffamazione, ricorre l'esimente dell'esercizio dei diritti di critica e di satira politica nel caso in cui le espressioni utilizzate esplicitino le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti e, pur se veicolate nella forma scherzosa e ironica propria della satira, non si risolvano in un'aggressione gratuita alla sfera morale altrui o nel dileggio o disprezzo personale (Sez. 5, n. 9953 del 15/11/2022, Piccione, Rv. 284177; Sez. 5., n. 320 del 14/10/2021, dep. 2022, Mihai, Rv. 282871); - in tema di diffamazione a mezzo stampa, l'esimente del diritto di critica nella forma satirica sussiste quando l'autore presenti, in un contesto di leale inverosimiglianza, di sincera non veridicità finalizzata alla critica e alla dissacrazione di persone di alto rilievo, una situazione e un personaggio trasparentemente inesistenti, senza proporsi alcuna funzione informativa, e non quando si diano informazioni che, ancorché presentate in veste ironica e scherzosa, si rivelino storicamente false (Sez. 5, n. 34129 del 10/05/2019, Melia, Rv. 277002). 2. Dati i ricordati criteri, risulta evidente come, nelle espressioni rivolte dall'imputato all'ente locale, sia innanzitutto carente lo stesso requisito proprio della satira, l'utilizzo di forme lessicali scherzose ed ironiche. Queste, infatti, al più potevano considerarsi essere quelle usate per dileggiare Pa.Ro. (ritraendolo in sembianze femminili) ma non certo nelle parole rivolte all'ente che l'aveva sanzionato (non ingiustamente, per quanto risulti nel presente processo) per l'affissione non autorizzata di quei manifestini. Nei confronti del Comune di Buccinasco, infatti, le espressioni provenienti dall'imputato non sono affatto scherzose o ironiche, visto che si era affermato come il procedimento sanzionatorio nei suoi confronti costituiva la riprova di una prossimità dell'ente al contesto malavitoso in cui Pa.Ro. era accusato di avere operato. Né può rinvenirsi, nelle medesime parole del prevenuto, l'esercizio di un legittimo diritto di critica (e non più di satira), posto che manca del tutto, in esse, il necessario riferimento alla verità (o anche solo alla verosimiglianza) di quanto sostenuto, l'avere l'ente sostenuto le parti di un malavitoso, sempre considerando che non si era neppure allegata l'eventuale illegittimità, in diritto ed in fatto, delle sanzioni pecuniarie irrogate all'imputato. Non resta allora che prendere atto dell'assenza di vizi logici manifesti nella motivazione della Corte di appello di conferma della sentenza, di prime cure, di condanna del prevenuto. 3. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile che si stima equo liquidare nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 3.500, oltre accessori di legge. Così deciso, in Roma il 30 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUINTA SEZIONE PENALE Composta da: Dott. CAPUTO Angelo - Presidente Dott. SCORDAMAGLIA Irene - Consigliere Dott. SGUBBI Vincenzo - Relatore Dott. CIRILLO Pierangelo - Consigliere Dott. CUOCO Michele - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: VI.GI. nato a C il (Omissis) avverso la sentenza del 12/05/2023 della CORTE APPELLO di CATANZARO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; sentita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO SGUBBI; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore TOMASO EPIDENDIO, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso; lette le conclusioni del difensore che si è riportato al ricorso ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 12 maggio 2023 la Corte di appello di Catanzaro ha confermato, anche a fini civili, la sentenza resa dal Tribunale di Castrovillari nei confronti di Vi.Gi., per il delitto di diffamazione commesso nei confronti di Di.Ge. mediante la diffusione di commenti su Facebook. 2. Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del difensore, articolando i motivi di seguito enunciati nei limiti dì cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge, ed in particolare erronea applicazione dell'art. 192, comma 1, cod, proc. pen., nonché vizio di motivazione. La Corte territoriale non avrebbe valorizzato la prova decisiva rappresentata dalla teste Di., madre del ricorrente, che si era assunta la responsabilità del post diffamatorio; l'interpretazione della testimonianza da parte della Corte di appello sarebbe arbitraria. Nello stesso motivo il ricorrente denuncia l'erroneità dell'interpretazione della frase diffamatoria attribuita all'imputato, che avrebbe un contenuto non insinuante, teso a rappresentare semplicemente la denunciata condotta della persona offesa. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge, segnatamente dell'art. 131 -bis cod. pen., e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza dei presupposti di applicazione della causa di non punibilità. La Corte territoriale non avrebbe considerato la condotta susseguente al reato, come è oggi richiesto dal nuovo testo della norma; né avrebbe correttamente valutato le modalità del fatto e l'esiguità del danno o del pericolo. 3. Il Procuratore generale ha concluso per iscritto chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso. Il Difensore ha depositato conclusioni scritte, insistendo per l'accoglimento del ricorso. considerato in diritto Il ricorso è inammissibile. 1. Premesso, con riguardo al primo motivo, che è inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. per censurare l'omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili (cfr. Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027), va osservato che pure il vizio di motivazione è inammissibilmente dedotto. Il motivo sul punto è affetto da genericità c.d. estrinseca (cfr. Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Gattelli, Rv. 268822, in motivazione), in quanto omette di confrontarsi con la motivazione resa dal giudice di appello sui punti denunciati. Così, laddove il ricorrente deduce l'arbitrarietà della valutazione della testimonianza Di. ad opera della Corte di appello, per un verso sollecita la Corte di cassazione ad una non consentita rivalutazione della prova e soprattutto, per altro verso, non evidenzia manifeste illogicità della motivazione resa dalla sentenza impugnata sullo specifico punto, limitandosi a censurare con una clausola di stile la motivazione medesima. La Corte di appello ha invero reso ragione, con una giustificazione non palesemente illogica, del giudizio di inattendibilità della deposizione: da un lato evidenziando l'inverosimiglianza della "confessione" della madre dell'imputato, che in maniera del tutto illogica si sarebbe sostituita al figlio nella redazione, a sua insaputa, di un post diffamatorio che lo avrebbe messo "nei guai" (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata); dall'altro lato confrontando detta testimonianza con quella della teste Pu., il cui racconto dell'interlocuzione avuta sul punto con l'imputato medesimo smentirebbe il racconto della Di. (ibidem). Con le osservazioni della Corte di appello manca, come si è detto, qualsiasi confronto critico. Simili conclusioni valgono per la seconda parte del motivo, con cui si attacca un diverso punto della decisione (essendo, quello relativo alla sussistenza del reato, un punto diverso da quello inerente l'attribuibilità dello stesso all'imputato: cfr. Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, Gialluisi, Rv. 280261; Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268965; Sez. U, n. 10251 del 17/10/2006, dep. 2007, Michaeler, Rv. 235700; Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216239), vale a dire la portata diffamatoria del post. La critica, anche su tale punto, è del tutto generica: il ricorrente non si confronta affatto con la motivazione resa dalla Corte di appello, che ha evidenziato la valenza offensiva del messaggio, con il quale la persona offesa è stata accusata «di fregiarsi della economicità del suo ristorante, a spese dei dipendenti, non pagandoli e assumendoli "al nero"; di avere licenziato il Viola, in risposta alle sue legittime pretese; di averlo, addirittura, sia insultato che picchiato selvaggiamente e, infine, di averlo calunniato» (pag. 6 della sentenza impugnata), senza che l'istruttoria abbia dimostrato la veridicità di quanto affermato dall'imputato. 2. Inammissibile è pure il secondo motivo. La motivazione resa dalla Corte territoriale a sostegno del diniego della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen. non è stata certo fondata sulla pretesa inammissibilità dell'istanza in ragione della pena irrogabile, bensì su un compiuto giudizio di non particolare tenuità della condotta, argomentato con riferimento alla gravità della diffamazione, alle modalità del fatto ed al danno provocato alla persona offesa, titolare di un'attività commerciale nota, costretta a giustificarsi con i responsabili della "Guida Michelin" proprio in ragione dell'espressa menzione del nome del ristorante della vittima nel post diffamatorio (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata). La motivazione resa dalla Corte di appello è pienamente conforme all'esigenza di tener «conto ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo» (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590); fermo restando che non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. 7, n. 10481 del 19/01/2022, Deplano, Rv. 283044; Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Milone, Rv. 274647). A fronte della motivazione resa dalla Corte territoriale, il riferimento che il motivo di ricorso opera alla condotta successiva al reato è per un verso generico (non essendo nemmeno descritto in cosa tale condotta sia consistita) e per altro verso inconferente, in quanto non in grado di incidere sulla tenuta logica della sentenza impugnata, sul punto specifico. 3. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in euro tremila. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma il 07 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria l'11 marzo 2024.
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 16 febbraio 2022 (doc. IV-quater, n. 4), promosso dal Tribunale ordinario di Catania, sezione quarta penale, in composizione monocratica, con ricorso notificato il 14 settembre 2023, depositato in cancelleria il 16 settembre 2023, iscritto al n. 1 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2023, fase di merito. Visto l'atto di costituzione del Senato della Repubblica, fuori termine; udito nell'udienza pubblica del 7 febbraio 2024 il Giudice relatore Giulio Prosperetti; udito l'avvocato Ulisse Corea per il Senato della Repubblica; deliberato nella camera di consiglio del 7 febbraio 2024. Ritenuto in fatto 1.- Con ricorso depositato il 16 settembre 2023 (reg. confl. pot. n. l del 2023), il Tribunale ordinario di Catania, sezione quarta penale, in composizione monocratica, ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in riferimento alla deliberazione del 16 febbraio 2022 (doc. IV-quater, n. 4), con la quale il Senato della Repubblica ha affermato che quanto pubblicato dal senatore Mario Michele Giarrusso nei post sulla propria pagina Facebook in data 30 ottobre 2017 e 21 gennaio 2018 sia stato espresso nell'esercizio delle funzioni parlamentari, e, pertanto, sia riconducibile alla garanzia di insindacabilità di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione. 2.- Il ricorso è stato promosso nell'ambito di un processo penale nei confronti del senatore Giarrusso, querelato da D. B. per rispondere del reato di diffamazione aggravata dall'impiego di mezzo di pubblicità, di cui all'art. 595, commi primo e terzo, del codice penale, in quanto il parlamentare: con un primo post pubblicato sulla propria pagina Facebook il 30 ottobre 2017, dopo avere sostenuto che «[t]utti hanno parenti lontani impresentabili», aggiungeva le seguenti espressioni: «[p]ensate che una nota lingua velenosa catanese malgrado il cognome pseudo rivoluzionario, mi dicono sia discendente di Madame De Pompadour», ossia «[u]na finta seguace di Robespierre e vera stipendiata da Fratelli d'Italia. Al solo nominarla accadono disgrazie come ben può testimoniare un mio amico che gli va dietro a cui capita davvero di tutto»; nella medesima occasione, replicando ad un lettore del post, che vi aveva letto un «attacco volgare a D.», il senatore Giarrusso scriveva le seguenti parole: «[a]ttento alla sfiga»; con il secondo post, pubblicato il 21 gennaio 2018, dopo avere pubblicato una vignetta raffigurante la querelante, il parlamentare ha commentato «Nel frattempo Madame Pompadour continua a sbavare bile», mentre, in relazione ad una fotografia che ritrae la detta D. B. con una terza persona, ha chiosato: «[p]essima compagnia». 3.- Il Tribunale ricorrente prende atto della deliberazione del 16 febbraio 2022 con la quale il Senato della Repubblica, accogliendo la proposta della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, ha ritenuto che le dichiarazioni del senatore Giarrusso fossero insindacabili, in quanto ha in esse ravvisato carattere divulgativo di due atti tipici parlamentari compiuti in precedenza dal senatore: l'interrogazione orale del 22 luglio 2014, discussa in aula il 10 marzo 2016 (n. 3-01125), e l'interrogazione del 4 febbraio 2016 (n. 3-02557). Il Tribunale di Catania riferisce che la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, al fine della ritenuta insindacabilità, ha rappresentato, seppure genericamente, l'attività del senatore Giarrusso in veste di membro della Commissione parlamentare antimafia, della Commissione giustizia e della stessa Giunta, indicando più specificamente, quale atto tipico, valutabile al fine in esame, anche la presentazione di un progetto di legge per la modifica dell'art. 416-ter cod. pen. (rubricato «Scambio elettorale politico-mafioso») e che, in conclusione, a parere della Giunta, la cui proposta è stata approvata dall'aula, i post pubblicati sulla propria pagina Facebook dal parlamentare sarebbero da ricondurre all'attività che questi ha svolto in relazione alla incandidabilità dei cosiddetti “impresentabili”. 4.- Ma, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, il ricorrente contesta la valutazione così fornita nella deliberazione del 16 febbraio 2022 dal Senato in ordine all'attività svolta dal senatore Giarrusso. Il Tribunale rileva, anzitutto, che con l'interrogazione orale del 22 luglio 2014 il parlamentare, occupandosi delle elezioni comunali ad Alcamo del 2012, aveva denunciato che il sindaco eletto fosse stato appoggiato da un «impresentabile», cioè da persona gravata da accuse tali da impedirne o comunque renderne sconveniente una candidatura ad uffici pubblici. Inoltre, in tale interrogazione il senatore Giarrusso aveva deprecato l'influenza che «esponenti politici locali» avrebbero esercitato per ritardare l'esito dei giudizi pendenti nei confronti del sindaco eletto. 5.- Il Tribunale esamina, quindi, l'interrogazione parlamentare del 4 febbraio 2016, nella quale il senatore Giarrusso ha sostenuto che l'allora neo eletta sindaca del Comune di Agira sarebbe stata «politicamente vicina al più influente politico della provincia di Enna», nella specie una persona estromessa dalle liste elettorali nel 2013 «in quanto definito “impresentabile”». 6.- Infine, il Tribunale di Catania valuta l'intervento svolto dal senatore Giarrusso in Commissione parlamentare antimafia nella seduta del 13 giugno 2017 (doc. n. 210) nel quale ha denunciato: che «un pregiudicato per mafia» «svolge campagna elettorale»; che «il candidato arrivato secondo alle elezioni di Palermo è un indagato per voto di scambio»; che «il candidato più votato a Trapani è una persona appena arrestata dalla magistratura»; che «uno degli sfidanti era un soggetto che la procura ha indicato come socialmente pericoloso»; e che ad Avola vi sarebbe stata un'indicazione mafiosa a favore di un candidato al consiglio comunale. 7.- Esaminati i suddetti contenuti, il Tribunale di Catania esclude che i post oggetto della imputazione penale siano riproduttivi di atti parlamentati tipici, dato che la persona offesa non vi viene «mai neppure menzionata» ed esclude che essi rappresentino opinioni, trattandosi, invece, di «giudizi di valore aventi ad oggetto la persona» di D. B.; conseguentemente ritiene che la deliberazione di insindacabilità abbia «illegittimamente sottratto all'autorità giudiziaria il potere di decidere in ordine al reato contestato» e debba, perciò, essere annullata da questa Corte. 8.- Il ricorso per conflitto di attribuzione è stato dichiarato ammissibile con ordinanza di questa Corte n. 175 del 2023. 9.- Il Senato della Repubblica ha depositato atto di costituzione in data 6 febbraio 2024, oltre il termine previsto dall'art. 26, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Considerato in diritto 1.- Con il ricorso in epigrafe (reg. confl. pot. n. 1 del 2023), il Tribunale ordinario di Catania, sezione quarta penale, in composizione monocratica, ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica in riferimento alla deliberazione del 16 febbraio 2022 (doc. IV-quater, n. 4), con cui il Senato della Repubblica ha affermato che quanto pubblicato dal senatore Mario Michele Giarrusso sulla propria pagina Facebook, in data 30 ottobre 2017 e 21 gennaio 2018, sia stato espresso nell'esercizio delle funzioni parlamentari, e, pertanto, sia riconducibile alla garanzia di insindacabilità di cui all'art. 68, primo comma, Cost. 2.- In particolare, il Tribunale rappresenta di dover procedere in ordine al reato di diffamazione aggravata dall'impiego di mezzo di pubblicità, di cui all'art. 595, commi primo e terzo, cod. pen., a seguito di querela presentata da D. B. cui erano rivolte le frasi insultanti del senatore Giarrusso contenute nei predetti post. 3.- Il Tribunale ricorrente prende atto della deliberazione del 16 febbraio 2022 con la quale il Senato della Repubblica, accogliendo la proposta della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, ha ritenuto che le dichiarazioni contestate fossero insindacabili, ma, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, ritiene che, al contrario, esse non siano meramente divulgative di alcun atto assunto nell'esercizio della funzione parlamentare e, pertanto, ritiene che la deliberazione di insindacabilità abbia «illegittimamente sottratto all'autorità giudiziaria il potere di decidere in ordine al reato contestato» e debba perciò essere annullata da questa Corte. 4.- In via preliminare, deve essere ribadita l'inammissibilità della costituzione in giudizio del Senato della Repubblica, perché tardiva, in quanto l'atto di costituzione è stato depositato in data 6 febbraio 2024, anziché entro il 4 ottobre 2023, e quindi oltre il termine previsto dall'art. 26, comma 4, delle Norme integrative. 4.1.- Nella giurisprudenza di questa Corte la natura perentoria del termine per la costituzione delle parti nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale era stata più volte affermata anche prima dell'espressa previsione in tal senso contenuta nell'art. 3 delle vigenti Norme integrative (ex plurimis, sentenze n. 222 del 2018, n. 75 del 2012, n. 257 del 2007, n. 190 e n. 108 del 2006; ordinanze n. 63 del 2003, n. 430 del 2002, n. 394 del 2001). Analoga natura perentoria deve essere riconosciuta ai termini di costituzione nel giudizio per conflitto di attribuzione. Sul piano testuale, tale soluzione va rinvenuta nel rinvio dell'art. 31 delle Norme integrative al menzionato art. 3 e nel raccordo tra il comma 4 dell'art. 26 delle Norme integrative vigenti e il comma 3 dello stesso articolo, che espressamente definisce perentorio il termine per il deposito del ricorso dopo la sua notificazione. 4.2.- Del resto, il conflitto è configurato in termini di giudizio tra parti contrapposte e il carattere perentorio è connaturato al sistema di giustizia costituzionale poiché preordinato ad assicurare il principio di parità delle parti, in funzione del rispetto del contraddittorio, e l'ordinato svolgimento del giudizio stesso, tale da garantire tempi certi di definizione e, pertanto, la parte resistente non può partecipare all'udienza pubblica per controdedurre oralmente e rassegnare le sue conclusioni. 4.3.- Né può farsi ricorso - come richiesto dal Senato della Repubblica - alla riammissione in termini per errore scusabile prevista dall'art. 37 dell'Allegato 1 (codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), in quanto applicabile al processo costituzionale (da ultimo, sentenza n. 227 del 2023 e ordinanza dibattimentale alla stessa allegata), in forza del rinvio di cui all'art. 22 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale). Tale istituto infatti è di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale (Consiglio di Stato, sezione settima, sentenza 8 febbraio 2023, n. 1410), sicché potrebbe essere utilizzato anche nei giudizi di fronte a questa Corte solo in casi di oggettiva, univoca, evidente e assoluta impossibilità (ovvero per ragioni assolutamente non ascrivibili a condotte omissive delle parti, ma semmai dovute a profili di forza maggiore), la cui prova della ricorrenza incombe naturalmente su chi intende valersene. Nel caso di specie, tale ricorrenza non è stata, peraltro, neppure allegata. 5.- Sempre in via preliminare, deve essere confermata, ai sensi dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, l'ammissibilità del conflitto, già dichiarata da questa Corte, in sede di prima e sommaria delibazione, nell'ordinanza n. 175 del 2023, con cui è stata accertata la sussistenza dei suoi elementi oggettivi e soggettivi. 5.1.- Invero, come affermato nella predetta ordinanza, sotto il profilo del requisito soggettivo, va riconosciuta la legittimazione attiva del Tribunale di Catania a promuovere conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto organo giurisdizionale, in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, competente a dichiarare definitivamente, nell'esercizio delle funzioni attribuitegli, la volontà del potere cui appartiene (ex plurimis, ordinanze n. 34 del 2023, n. 35 del 2022 e n. 148 del 2020). 5.2.- Parimenti, deve essere riconosciuta la legittimazione passiva del Senato della Repubblica a essere parte del presente conflitto, quale organo competente a dichiarare in modo definitivo la propria volontà in ordine all'applicazione dell'art. 68, primo comma, Cost. (ex plurimis, ordinanze n. 34 del 2023, n. 148 del 2020 e n. 69 del 2020). 5.3.- In relazione al profilo oggettivo, il ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzioni, costituzionalmente garantite, in conseguenza di un esercizio ritenuto illegittimo, per insussistenza dei relativi presupposti, del potere spettante al Senato della Repubblica di dichiarare l'insindacabilità delle opinioni espresse da un membro di quel ramo del Parlamento, ai sensi dell'art. 68, primo comma, Cost. e, dunque, esiste la materia di un conflitto, la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte (ex plurimis, ancora ordinanze n. 34 del 2023, n. 35 del 2022 e n. 148 del 2020). 6.- Nel merito il ricorso per conflitto è fondato. 6.1.- L'art. 68, primo comma, Cost. stabilisce che «[i] membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni». 6.2.- Secondo il costante insegnamento di questa Corte in tema di dichiarazioni del parlamentare rese extra moenia, «per la configurabilità del nesso funzionale è necessario il concorso di due requisiti: a) un legame di ordine temporale fra l'attività parlamentare e l'attività esterna (sentenze n. 55 del 2014 e n. 305 del 2013, tra le ultime), tale che questa venga ad assumere una finalità divulgativa della prima; b) una sostanziale corrispondenza di significato tra le opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni e gli atti esterni, al di là delle formule letterali usate (sentenza n. 333 del 2011), non essendo sufficiente né un semplice collegamento tematico o una corrispondenza contenutistica parziale (sentenza n. 334 del 2011), né un mero “contesto politico” entro cui le dichiarazioni extra moenia possano collocarsi (sentenza n. 205 del 2012), né, infine, il riferimento alla generica attività parlamentare o l'inerenza a temi di rilievo generale, seppur dibattuti in Parlamento (sentenza n. 98 del 2011)» (in questo senso, sentenza n. 144 del 2015). In altri termini, come ribadito da questa Corte anche recentemente, «per ravvisare un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e l'espletamento delle sue funzioni - al quale è subordinata la prerogativa dell'insindacabilità di cui all'art. 68, primo comma, Cost. - è necessario che le stesse possano essere riconosciute come espressione dell'esercizio di attività parlamentare (sentenze n. 10 e n. 11 del 2000; in seguito, ex plurimis, sentenze n. 59 del 2018 e n. 144 del 2015), vale a dire che assumano carattere divulgativo di quanto riconducibile a quest'ultima (sentenze n. 265 del 2014, n. 221 del 2014, n. 55 del 2014, n. 81 del 2011 e n. 420 del 2008)» (sentenza n. 241 del 2022). 7.- Nella specie difetta del tutto il nesso funzionale tra le dichiarazioni contenute nei post per i quali si procede per il reato di diffamazione aggravata a carico del senatore Giarrusso e le opinioni espresse da quest'ultimo negli atti parlamentari indicati nella deliberazione del 16 febbraio 2022, con la quale il Senato della Repubblica ha ritenuto le suddette dichiarazioni insindacabili. Infatti, attraverso i post pubblicati sulla propria pagina Facebook, il senatore Giarrusso ha formulato osservazioni nei confronti di D. B., che non è mai menzionata negli atti parlamentari esaminati dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari e indicati nella deliberazione del Senato a supporto della motivazione della insindacabilità. 7.1.- Il difetto di nesso funzionale è evidente esaminando il contenuto dei suddetti atti parlamentari; quanto al primo, l'atto di sindacato ispettivo del 22 luglio 2014 discusso in aula il 10 marzo 2016, esso riguarda, infatti, le elezioni amministrative comunali nella Città siciliana di Alcamo (Trapani), vinte al ballottaggio da un candidato supportato da un ex senatore alcamese considerato dal Partito Democratico «impresentabile» alle scorse elezioni politiche, in quanto gravato da accuse tali da impedirne o comunque renderne sconveniente una candidatura ad uffici pubblici. Il senatore Giarrusso in tale interrogazione aveva deprecato l'influenza che «esponenti politici locali» avrebbero esercitato per ritardare l'esito dei giudizi pendenti e, in particolare, il controllo delle schede elettorali che il Prefetto di Trapani avrebbe dovuto effettuare tempestivamente al fine di dissipare ogni dubbio sugli effettivi esiti delle elezioni. 7.2.- Dall'esame del contenuto di tale interrogazione orale non emerge alcun riferimento a D. B. e analoga conclusione vale con riferimento all'interrogazione parlamentare del 4 febbraio 2016, con la quale il senatore Giarrusso denunciava la presenza nelle liste elettorali per le consultazioni amministrative del 2015 di persone ritenute impresentabili, stante la loro frequentazione di boss mafiosi, senza nessun riferimento, nemmeno indiretto, alla querelante D. B. 7.3.- Per quanto concerne, infine, l'intervento svolto dal senatore Giarrusso in Commissione parlamentare antimafia nella seduta del 13 giugno 2017 (doc. n. 210), in esso il parlamentare aveva denunciato infiltrazioni mafiose in occasione delle consultazioni elettorali per il rinnovo degli enti locali, anche in questo caso senza alcun riferimento alla persona di D. B. 7.4.- Il nesso funzionale tra le espressioni rivolte a D. B. e l'attività parlamentare svolta dal senatore Giarrusso non si rinviene neppure rispetto a quanto compiuto da quest'ultimo in veste di membro della Commissione parlamentare antimafia, della Commissione giustizia e della stessa Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato e, in particolare, in relazione alla presentazione da parte dello stesso senatore di un progetto di legge per la modifica dell'art. 416-ter cod. pen. (rubricato «Scambio elettorale politico-mafioso»). Invero, la suddetta attività e gli atti parlamentari indicati nella deliberazione del Senato della Repubblica sarebbero accomunati dall'avere ad oggetto il tema delle infiltrazioni mafiose negli enti locali, ma dall'analisi delle espressioni rivolte a D. B. non emerge alcun riferimento alla tematica antimafia. 8.- In conclusione, le dichiarazioni del senatore Giarrusso riferibili all'imputazione di cui all'art. 595, commi primo e terzo, cod. pen. a seguito di querela presentata da D. B. non costituiscono opinioni espresse nell'esercizio della funzione parlamentare e, pertanto, non spettava al Senato deliberare la loro insindacabilità. Per l'effetto, ai sensi dell'art. 38 della legge n. 87 del 1953, va annullata la deliberazione del Senato del 16 febbraio 2022, con riguardo agli addebiti di cui all'art. 595, commi primo e terzo, cod. pen. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara che non spettava al Senato della Repubblica deliberare che le condotte contestate al senatore Mario Michele Giarrusso ai sensi dell'art. 595, commi primo e terzo, del codice penale a seguito di querela presentata da D. B., per le quali pende procedimento penale dinanzi al Tribunale ordinario di Catania, sezione quarta penale, in composizione monocratica, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione; 2) annulla, per l'effetto, la deliberazione di insindacabilità adottata dal Senato della Repubblica nella seduta del 16 febbraio 2022 (doc. IV-quater, n. 4), nella parte in cui si riferisce alle condotte del senatore Mario Michele Giarrusso contestate dal Tribunale ordinario di Catania ai sensi dell'art. 595, commi primo e terzo, cod. pen. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Giulio PROSPERETTI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 7 marzo 2024 Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI GORIZIA SEZIONE DIBATTIMENTO Il Tribunale, in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott.ssa Concetta Bonasia alla pubblica udienza del 23.1.2024 ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente SENTENZA nei confronti di: Na.Ni., nato il (...) a T., con dom. dich. a G. d'I., via P. 32 libero presente imputato vedasi foglio allegato Con l'intervento del p.m. dott.ssa Di.Vi., v.p.o., e dell'avv. Za.Ch., del Foro di Udine, difensore di fiducia dell'imputato MOTIVI DELLA DECISIONE Deve essere pronunciata sentenza di condanna dell'odierno imputato per il reato di rubrica. È documentalmente provato che - in risposta ad un commento pubblicato sul profilo Facebook da Li.Va. e da Ri.Fr., relativo all'operato dell'onorevole Se.De. - l'odierno imputato, in data 17.3.2020, aveva a sua volta pubblicato tale scritto: sta tr era a favore sui tagli alla sanità per destinarli al suo cavallo da monta ... face di cazz ... gente che ha tradito la patria (cfr. doc. depositato dal p.m. all'udienza del 26.9.2023). Il testimone Ga.Fa., operante di P.g., ha dichiarato che, all'esito degli accertamenti eseguiti su delega della Procura, era emerso come lo scritto fosse riconducibile all'odierno imputato. Quest'ultimo, in sede di esame dibattimentale, ha effettivamente riconosciuto la paternità del post in questione, aggiungendo che lo stesso non era riferito alla persona di Se.De., ma al suo operato politico e, in particolare, alla scelta di destinare denaro pubblico ad un maneggio intestato ad un amico. Ritiene il Giudice che le emergenze processuali consentano con sicuro convincimento di affermare la penale responsabilità del prevenuto in ordine al reato di rubrica. Certa risulta innanzitutto l'attribuibilità della pubblicazione incriminata all'odierno imputato, in virtù degli accertamenti operati dalla P.g. nonché delle dichiarazioni in tal senso rese dall'imputato in dibattimento. Provati risultano altresì i caratteri diffamatori della pubblicazione medesima, atteso che questa era stata apposta su un profilo Facebook aperto al pubblico e atteso che il relativo contenuto è da reputarsi senz'altro offensivo - nel suo tenore complessivo e per le singole espressioni usate - dell'altrui reputazione, intesa quale senso della dignità personale nell'opinione degli altri (cfr., tra le tante, Cass. 3247/1995). Né può ritenersi operante nel caso di specie - contrariamente a quanto sostenuto dalla Difesa - l'esimente del diritto di critica politica, mancandone i requisiti di applicabilità elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui il diritto di critica, che può anche non essere obbiettivo, deve tuttavia sempre corrispondere all'interesse sociale alla comunicazione nei limiti della continenza e correttezza del linguaggio (cfr., tra le tante, Cass. 44359/2005). Le stesse Sezioni Unite della Suprema Corte hanno statuito che l'esercizio scriminante del diritto incontra limiti che vanno desunti dalla sua stessa fonte, oltre che dall'intero ordinamento: quando tali limiti sono superati, sono configurabili ipotesi di abuso del diritto, ed il comportamento dell'agente esula dall'ambito consentito dall'art. 51 cod. pen. (Sez. U., 32009/2006). In tale prospettiva, è stato affermato che il limite della continenza, consustanziale al diritto di critica, deve ritenersi superato quando le espressioni adottate risultino pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine perseguito nell'espressione della libertà di pensiero (Cass., 19381/2005). Ancor più specificatamente, la Suprema Corte ha affermato che l'applicazione della scriminante, pur nell'ambito della polemica tra avversari di contrapposti schieramenti od orientamenti, di per sé improntata ad un maggior grado di virulenza, presuppone che la critica sia espressa con argomentazioni, opinioni, valutazioni, apprezzamenti che non degenerino in attacchi personali o in manifestazioni gratuitamente lesive dell'altrui reputazione, strumentalmente estese anche a terreni estranei allo specifico della contesa politica, e non ricorrano all'uso di espressioni linguistiche oggettivamente offensive ed estranee al metodo e allo stile di una civile contrapposizione di idee, oltre che non necessarie per la rappresentazione delle posizioni sostenute e non funzionali al pubblico interesse (Cass. 23805/2015). Ebbene, trasposti tali principi nel caso di specie, appare ictu oculi superato innanzitutto il limite della continenza del linguaggio, poiché lo scritto pubblicato dall'imputato era di fatto trasceso in un attacco personale, diretto a colpire la figura morale del soggetto criticato, con espressioni denigratorie e improntate al disprezzo più che alla critica costruttiva (ci si riferisce, evidentemente, alle espressioni "sta tr ... faccia di cazz"). Sicché, a ben vedere - oltre all'indubbia sussistenza di toni lesivi dell'altrui dignità personale - tale scritto, proprio in quanto diretto alla mera sfera morale e individuale del soggetto criticato, senza alcun contributo critico di pensiero rispetto al suo comportamento o idee politiche concrete, risulta mera espressione di pensiero, del tutto privo di interesse o rilevanza pubblicistica e, in quanto tale, non costituzionalmente tutelato e non idoneo a costituire valida causa di giustificazione della condotta posta in essere dall'imputato. Non convince l'argomentazione difensiva, basata sull'archiviazione pronunciata nei confronti di Li.Va. e Ri.Fr. dal G.i.p. del Tribunale di Udine, in applicazione del diritto di critica politica: sul punto, è sufficiente evidenziare che le espressioni pubblicate da Li.Va. e da Ri.Fr. erano diverse da quelle pubblicate dall'odierno imputato. Risultano quindi appurati gli elementi oggettivi del delitto di diffamazione contestato a Na.Ni.. Venendo all'elemento soggettivo del reato, è appena il caso di evidenziare che per integrare il delitto di diffamazione è sufficiente il dolo generico, ossia la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell'altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone (Cass., 16712/2014). Applicati tali principi, non si vede come poter escludere, in capo all'imputato, la consapevolezza della lesività dell'articolo - stante il calibro delle espressioni ivi esplicitamente riportate - nonché la volontà di portare siffatte espressioni a conoscenza di più persone, attesa la relativa pubblicazione su Facebook. Va pertanto affermata la penale responsabilità di Na.Ni. per il delitto ascrittogli in rubrica. Il fatto non può essere ritenuto di speciale tenuità, ai sensi dell'art. 131 bis c.p., attesa la gravità dell'offesa, sia in relazione al contenuto in sé, sia in relazione al ruolo pubblicistico ricoperto dalla persona offesa; l'imputato, peraltro, non appare nemmen meritevole della speciale esimente di cui all'alt. 131 bis c.p., stanti i plurimi precedenti penali, anche gravi, a suo carico (cfr. Certificato del Casellario giudiziale in atti). Non possono essere riconosciute all'imputato nemmeno le circostanze attenuanti generiche, atteso che non si ravvisa in atti alcun elemento di fatto favorevole all'autore dell'illecito e idoneo ad attenuare la gravità del reato, riducendone il disvalore. Sul piano soggettivo, la gravità delle espressioni proferite nei confronti della persona offesa sottende ad una corrispondente intensità volitiva; inoltre non può essere valutato a favore dell'imputato il comportamento processuale né altra condotta suscettibile di integrare l'attenuante di cui è chiesto il riconoscimento. Invero, l'imputato non ha risarcito il danno, nemmeno parzialmente o quanto meno con una lettera di scuse, non ha dimostrato alcuna resipiscenza e non ha dedotto alcuna circostanza idonea a diminuire la gravità del fatto realizzato, onde la concessione delle attenuanti generiche costituirebbe per l'imputato un premio del tutto immeritato, avulso da qualsiasi fatto che ne giustifichi il riconoscimento. Quanto al trattamento sanzionatorio, deve premettersi come in relazione alla fattispecie in esame non possa trovare applicazione la pena detentiva prevista dall'art. 595 c.p. e ciò in ossequio ai principi espressi nella sentenza emessa dalla Corte Costituzionale il 22.6.2021 nonché nella sentenza emessa il 7 marzo 2019 dalla Corte europea dei Diritti dell'Uomo, su ricorso n. 22350/13 per dedotta violazione dell'art. 10 Cedu. Siffatti principi - cfr. segnatamente paragrafi 9 e 62 della citata sentenza della Corte europea, da ritenersi criterio interpretativo anche nella dosimetria della pena - rendono necessario un conseguente adeguamento sanzionatorio della fattispecie, mercé l'applicazione della sola pena pecuniaria, prevista in alternativa a quella detentiva dalla norma in esame. Valutati anche i criteri di cui all'art. 133 c.p. - in particolare la gravità dell'offesa - è pertanto da ritenersi congrua la pena di Euro 600,00 di multa. Alla condanna consegue l'obbligo del pagamento delle spese processuali. Appare congrua l'assegnazione del termine di giorni 60 per il deposito della motivazione ex art.544, comma 3, avuto riguardo alle questioni trattate. P.Q.M. visti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara Na.Ni. responsabile del reato a lui ascritto in rubrica e lo condanna alla pena di Euro 600,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali. Motivazione in giorni 60. Così deciso in Gorizia il 23 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria l'1 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. ZAZA Carlo - Presidente Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere Dott. CANANZI Francesco - Relatore Dott. CIRILLO Pierangelo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Di.Cu. nato a B il (omissis) avverso la sentenza del 01/02/2023 della CORTE APPELLO di BOLOGNA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO CANANZI; lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale OLGA MIGNOLO, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso; lette la memoria e le conclusioni dell'avvocato MASSIMO SOFFRITTI, nell'interesse della parte civile, che ha chiesto rigettarsi il ricorso, depositando la correlata nota spese. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Bologna, con la sentenza emessa il 1 febbraio 2023, riduceva solo la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, confermando nel resto la sentenza del Tribunale bolognese che in composizione monocratica aveva accertato la responsabilità penale di Di.Cu. condannandola alla pena di euro 2000,00 di multa in ordine al delitto di diffamazione continuata in danno di Or.Ma. In particolare, Di.Cu. era chiamata rispondere del reato di diffamazione perché con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, mediante la creazione di falsi profili sul social network facebook, a nome di persone di fantasia, offendeva la reputazione di Or.Ma., additandolo quale molestatore di ragazze e pubblicando, senza il di lui consenso, foto che lo ritraevano (anche) nudo. Con l'aggravante di avere commesso il fatto con il mezzo della stampa ovvero con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. In Bologna, da Gennaio a Ottobre 2016. 2. Il ricorso per cassazione proposto nell'interesse di Di.Cu. consta di due motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 3. Il primo motivo deduce violazione dell'art. 124 cod. proc. pen. e vizio di motivazione. La sentenza impugnata avrebbe ritenuto erroneamente tempestiva la querela, in quanto, secondo i principi consolidati in materia, il dies a quo del termine per sporgere la stessa sarebbe da rinvenirsi nella data della pubblicazione a mezzo internet, quando manchi la prova che la persona offesa non ne abbia avuto conoscenza solo successiva. Inoltre, la Corte di appello avrebbe illogicamente ritenuto che dalla stampa dello screen-shot, non recante l'anno del post diffamatorio, possa trarsi l'anno della pubblicazione individuato nel 2016. Non di meno, osserva il ricorrente, ciò varrebbe se fosse certa la data dello screen-shot, il che nel caso in esame non è, non avendo fornito prova a riguardo il querelante, tanto più che dall'istruttoria era emerso che i primi post risalivano al 2015 e che la stessa persona offesa aveva indicato che ne aveva avuto contezza da alcuni mesi, essendo cessato il tutto a gennaio 2016. 4. Il secondo motivo deduce violazione dell'art. 81 cod. pen. lamentando che l'aumento di pena per la continuazione non è stato motivato, in assenza della individuazione dei singoli episodi. 5. Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale, ha depositato requisitoria e conclusioni scritte - ai sensi dell'art. 23 comma 8, d.l. 127 del 2020 - con le quali ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso. La difesa della parte civile ha chiesto con memoria difensiva il rigetto del ricorso. 6. Il ricorso è stato trattato senza intervento delle parti, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell'art. 7, comma 1, d.l. n. 105 del 2021, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall'articolo 94 del decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 5-duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla I. 30 dicembre 2022, n. 199. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Quanto al primo motivo, deve richiamarsi il generale principio per cui in tema di querela è onere della parte, che ne deduca l'intempestività, fornire la prova di tale circostanza, sicché l'eventuale situazione di incertezza deve essere risolta a favore del querelante (Sez. 2, n. 48027 del 18/10/2022, Spanò, Rv. 284168 - 01; mass. conf. N. 15853 del 2006 Rv. 234498 - 01, N. 2344 del 1999 Rv. 212621 - 01, N. 35122 del 2003 Rv. 226327 - 01). Quanto alla violazione di legge, il principio di diritto indicato palesa che spettava al querelato dimostrare la tardività in situazione di incertezza. A tal riguardo deve rilevarsi come tale prova non sia stata offerta dal ricorrente e come resista alla censura la motivazione della Corte di appello, non viziata da manifesta illogicità. Difatti, l'aver ritenuto che gli screen-shot allegati alla querela (e ora al ricorso) fossero relativi a post pubblicati su facebook nell'aprile-maggio 2016, a fronte della circostanza che gli stessi non recassero della data di pubblicazione l'anno, risultava l'esito di una motivazione solida fondata su due argomentazioni. Una prima di tipo logico e cronologico, in quanto dall'istruttoria emergeva come i post diffamatori dovevano essere successivi all'anno 2015, alla fine del quale vi era stato un incontro intimo fra l'imputata e la persona offesa, al quale non era seguita una stabile relazione, il che costituiva la causa della successiva diffamazione (cfr. sentenza di primo grado, fol. 3): in sostanza i post dovevano per forza essere collocati nell'anno 2016.Una seconda argomentazione, scaturente dal dato di esperienza valorizzato dalla Corte territoriale, che il post di facebook che non reca l'anno, ma solo il mese e il giorno, è stato pubblicato lo stesso anno in cui avviene la lettura: quindi i post erano stati letti nel 2016. Da ciò conseguiva che i post diffamatori, recanti come data di pubblicazione i mesi di aprile e maggio, non potessero essere stati pubblicati all'anno 2015, ma nell'anno seguente, cosicché la querela sporta nel giugno 2016 risultava oltremodo tempestiva. Con tale argomentazione non si confronta pienamente il motivo di ricorso, che propone una lettura alternativa, evocando passaggi della deposizione della persona offesa, che se per un verso riferiva di essere stato umiliato e di aver deciso di sporgere querela "dopo diversi mesi", non indica quanti mesi dopo e comunque non si confronta con la ricostruzione operata dalla sentenza impugnata che colloca i post ad aprile e maggio 2016. Per altro il querelante chiariva che aveva atteso a sporgere querela, in quanto i profili dai quali venivano diffusi i post erano di donne che non conosceva (in vero appositamente creati dalla imputata) e dal tenore complessivo della deposizione emerge come il passaggio al fol. 8 della deposizione di Orto - "tutto è finito a gennaio 2016" - sia un errore del dichiarante, tanto che riferisce nel passaggio immediatamente successivo che gli episodi cessarono dopo la integrazione di querela del novembre 2016. Corretto governo delle massime di esperienza opera la Corte di appello, facendo ormai parte delle comuni conoscenze informatiche anche del cittadino medio il dato, valorizzato dalla Corte territoriale, che il post che rechi la data senza indicare l'anno sia stato pubblicato e letto nello stesso anno. Difatti le massime di esperienza sono generalizzazioni empiriche indipendenti dal caso concreto, fondate su ripetute esperienze tratte, con procedimento induttivo, dall'esperienza comune, conformemente ad orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione, in quanto non si risolvono in semplici illazioni o in criteri meramente intuitivi o addirittura contrastanti con conoscenze o parametri riconosciuti e non controversi (Sez. 2, n. 51818 del 06/12/2013, Brunetti, Rv. 258117 - 01; Sez. 6, n. 1775 del 09/10/2012, dep. 2013, Ruoppolo, Rv. 254196 - 01). Ne consegue la manifesta infondatezza del motivo di ricorso, come anche la sostanziale a-specificità dello stesso, in quanto deduce di fatto un travisamento che non ha le caratteristiche della decisività necessaria a disarticolare l'argomentazione impugnata (sul punto si rinvia a Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758 - 01; mass. conf. N. 5146 del 2014 Rv. 258774 - 01, N. 24667 del 2007 Rv. 237207 - 01). 3. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato per consolidato orientamento giurisprudenziale. A ben vedere, al netto della circostanza che nell'imputazione non sono indicati specificamente le condotte diffamatorie - ma sul punto non è mai stata posta la questione della genericità dell'imputazione - i post allegati al ricorso riguardano cinque episodi, cosicché l'aumento della pena pecuniaria da 1000 euro per il delitto più grave, a 2000 euro risulta pari a 250 euro per episodio posto in continuazione. A ben vedere, vertendosi in ipotesi di diffamazione aggravata dal mezzo pubblicitario, la pena pecuniaria minima prevista è quella di 516 euro di multa, cosicché l'aumento in continuazione risulta corretto e non richiede una specifica motivazione caso per caso. L'aumento è per altro assolutamente contenuto e proporzionato, cosicché non si verifica il pericolo di incorrere in un cumulo materiale 'camuffato', preoccupazione espressa da Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269, che hanno fissato il seguente principio di diritto: "ove riconosca la continuazione tra reati, ai sensi dell'art. 81 cod. pen., il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base per tale reato, deve anche calcolare e motivare l'aumento di pena in modo distinto per ognuno dei reati satellite". D'altro canto, in motivazione le Sezioni Unite hanno chiarito che tale onere motivazionale richiede modalità di adempimento diverse, a seconda dei casi, analogamente a quanto previsto per la pena base ovvero per le pene accessorie, ove la motivazione è tanto più necessaria quanto più ci si discosti dal minimo e si superi la media edittale. E bene, nel caso in esame alcun superamento della media edittale si è verificata e l'aumento risulta ridotto, oltre che rispondente ai limiti dell'art.81 cod. pen., cosicché non risulta operato un surrettizio cumulo materiale di pene, né sussiste alcuna sproporzione fra pena principale e pene dei delitti satellite. 4. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p. (come modificato ex L. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Inoltre Di.Cu. va condannata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Or.Ma., che liquida in complessivi euro 3685,00 , oltre accessori di legge. 5. D'ufficio va disposto l'oscuramento dei dati personali, attesa la necessità prevista dall'art. 52, comma 2, D.Lgs. 196/2003 di predisporre tale misura a tutela dei diritti e della dignità degli interessati. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi euro 3.685,00 oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento andranno omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma il 9 novembre 2023. Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SABEONE Gerardo - Presidente Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere Dott. MOROSINI Elisabetta Maria - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Relatore Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ga.Ca. nato a C il (Omissis) avverso la sentenza del 5 dicembre 2022 della Corte Appello di Brescia visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Bifulco Daniela; letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale Loy Maria Francesca, la quale ha chiesto pronunciarsi l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte d'appello di Brescia ha confermato la sentenza con cui il Tribunale il Bergamo ha dichiarato Ga.Ca. responsabile dei delitti di cui agli artt. 81 cpv., 612 bis, 595, terzo comma, cod. pen., condannandolo alla pena ritenuta di giustizia, oltre che al risarcimento del danno patito dalla costituita parte civile, Bo.Ma. Secondo la rubrica, l'imputato, non accettando la fine della relazione sentimentale con quest'ultima, reiteratamente la molestava, ponendo in atto le condotte dettagliatamente descritte nel capo d'imputazione, così ingenerando nella stessa uno stato di sofferenza psicologica e timore per la propria incolumità ed inducendola ad assumere farmaci ansiolitici. 2. Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, per il tramite del proprio difensore, affidando le proprie censure ai due motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo - dedicato alla contestazione, variamente articolata, degli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 612 bis cod pen., per come applicati al caso di specie - si duole di violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di atti persecutori. Le condotte ascritte all'imputato non sarebbero state provate e, comunque, risulterebbero prive di attinenza col reato in questione. Non trova riscontro negli atti processuali, infatti, il dato dell'invio di molteplici messaggi alla persona offesa, atteso che l'unico contatto con la stessa si è verificato a distanza di due mesi dalla fine della relazione (31 maggio 2020), con uno scambio di messaggi caratterizzati da qualche reciproca recriminazione, ma certamente privi di contenuti persecutori o molesti da parte del ricorrente. Peraltro, la persona offesa si è dimostrata pronta a un incontro, al fine di restituire regali ricevuti dall'imputato, ciò che indicherebbe l'assenza di timore nei confronti dello stesso. La difesa osserva, inoltre, che il narrato della persona offesa sarebbe contraddittorio e fuorviante, con riguardo, in particolare alle copie delle immagini (tratte dai cd. "stati" del social network WhatsApp e dalle cd. "storie" del social network Facebook) prodotte dalla stessa: si tratterebbe, a parere della difesa, di immagini visibili soltanto per un tempo limitato (24 ore) e unicamente da quanti conservano in rubrica il numero telefonico di colui il quale ha pubblicato l'immagine. La pervicace volontà della persona offesa di continuare a scrutare le immagini in parola non vale certo a comprovare la condotta persecutoria dell'imputato, come erroneamente ritenuto dal Giudice dell'appello. Del resto, la persona offesa non ha mai avvertito la necessità di cambiare il proprio numero di utenza telefonica o di indirizzo telematico; palesemente falso sarebbe, infine, quanto riferito dalla Bo.Ma. circa il blocco, da lei attuato, dell'accesso del Ga.Ca. ai social network. La difesa contesta poi l'assenza, nel caso di specie, dell'evento previsto dalla fattispecie incriminatrice, attesa la mancanza di prova circa il cambio di abitudini di vita della persona offesa e la mancata illustrazione del nesso causale tra le condotte dell'imputato e il trattamento a base di psicofarmaci adottato dalla persona offesa. Indimostrati sarebbero anche i vari eventi narrati dalla persona offesa (pedina menti da parte dell'imputato, telecamere di sicurezza fatte installare dalla Bo.Ma. per timore degli atti persecutori del Ga.Ca., etc.). Infine, si eccepisce la mancata ricorrenza dell'elemento psicologico del reato. L'imputato si sarebbe limitato a ricorrere all'ausilio di un legale per ottenere la restituzione di doni e di somme di denaro, così da evitare, peraltro, qualsivoglia contatto diretto con la persona offesa. 2.2 Il secondo motivo ha a oggetto la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione sia al reato di atti persecutori sia a quello di diffamazione, per avere la Corte d'appello ritenuto le condotte dell'imputato sufficienti a integrare tanto il delitto di cui all'art. 612 bis cod. pen. quanto il reato di cui all'art. 595, terzo comma, cod. pen., con una "doppia valutazione, negativa e sempre sfavorevole all'imputato, delle medesime emergenze processuali". Più in particolare, la difesa contesta che la medesima condotta (pubblicazione dei cd. "stati" WhatsApp e Facebook) sia stata posta a fondamento della responsabilità per entrambi i reati di cui è parola. Pertanto, il ricorrente chiede che l'impugnata sentenza venga annullata in relazione al reato di atti persecutori. 3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. 28/10/2020, n. 137, conv. con L. 18/12/2020, n. 176, le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa Loy Francesca M., la quale ha chiesto pronunciarsi l'inammissibilità del ricorso. L'Avv. di parte civile, Agnelli Giovanna, ha fatto pervenire rinuncia al mandato. Sono pervenute le conclusioni scritte del difensore dell'imputato, con cui si insiste nella richiesta di accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo è manifestamente infondato, in quanto non si confronta con la parte motiva dell'impugnata sentenza e ha a oggetto censure reiterative delle medesime doglianze dedotte nel giudizio di appello, rispetto alle quali non può che ribadirsi quanto già, più volte, chiarito da parte di questa Corte di legittimità, per cui è inammissibile il ricorso per cassazione che riproduce i medesimi motivi prospettati con l'atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato, limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione (così, tra le altre, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970-01; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260608Â01; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838-01). La Corte territoriale ha invero smentito l'assunto difensivo, evidenziando, con motivazione che non presenta cadute logiche, la congruenza tra il narrato della persona offesa e il tenore e il numero degli invasivi messaggi inviati dall'imputato, tesi a sondare le attuali frequentazioni maschili della donna e a fornire elusive allusioni a una malattia da lui asseritamente contratta (virus HIV) e che avrebbe potuto riguardarla, minando la sua incolumità e ingenerando timore e ansia nell'ex fidanzata. La responsabilità dell'imputato è stata affermata dalla Corte territoriale sulla base di una compiuta ricostruzione tanto delle condotte persecutorie e dell'elemento soggettivo del reato ascritto, quanto degli effetti dispiegati da quelle stesse condotte sullo stato d'animo della persona offesa. Con riguardo all'elemento soggettivo, i Giudici del merito hanno ampiamente dimostrato la sussistenza del dolo generico, atteso il perdurare dei comportamenti molesti dell'imputato pur a fronte delle esplicite richieste della persona offesa di interrompere i rapporti e della diffida inviata dal legale della Bo.Ma. Significativamente, la Corte territoriale ha ricordato anche come la gravità e invasività delle condotte dell'imputato si siano, tra l'altro, manifestate attraverso l'allusione al contagio da HIV: comportamenti siffatti sono stati ragionevolmente ritenuti espressive di una precisa consapevolezza, da parte dell'imputato, dell'idoneità di tali azioni a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (ex plur., v. Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015, A., Rv. 265230 - 01: "nel delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale di evento, l'elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell'abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte - elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa - potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l'occasione"). Quanto all'evento richiesto dalla fattispecie incriminatrice, va notato che lo stato d'ansia e di paura indotto nella donna è stato ricondotto a molteplici dati: è il caso delle fotografie, pubblicate dall'imputato sul proprio "stato" WhatsApp, dell'auto della Bo.Ma., parcheggiata al di fuori del suo luogo di lavoro, indicative del controllo esercitato - tramite pedinamenti - sugli spostamenti della persona offesa. Nell'analizzare tali condotte - unitamente ad altri comportamenti del Ga.Ca. puntualmente indicati dalla Corte d'appello (quali mail dal contenuto offensivo, frasi allusive e volgari, pubblicate sui social media, relative alla persona offesa e al suo nuovo compagno), e nell'evidenziarne i riflessi provocati sulla persona offesa, i Giudici dell'appello hanno operato buon governo dei canoni di giudizio elaborati dalla giurisprudenza, a iniziare da quella costituzionale. Come ricordato anche da Corte cost. n. 172 del 2014, il riferimento del legislatore alle abitudini di vita costituisce un chiaro e verificabile rinvio al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell'ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima è costretta a mutare a seguito dell'intrusione rappresentata dall'attività persecutoria, mutamento di cui l'agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi di reato per l'appunto punibile solo a titolo di dolo. Sempre in riferimento alla piena, dimostrata sussistenza dell'evento richiesto dall'art. 612 bis cod. pen. va ricordato il passaggio motivazionale su terapie psicologiche e farmaci ansiolitici, cui ha dovuto dar ricorso la persona offesa: anche a tale proposito la Corte d'appello ha chiarito di non aver avuto fondati motivi per dubitare dell'attendibilità del narrato della persona offesa. Sul punto, va rimarcata la totale congruenza dell'iter motivazionale con i canoni giurisprudenziali elaborati da questa Corte in tema di atti persecutori: invero, la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, S., Rv. 269621 - 01). Ulteriori profili evidenziati dal ricorrente per contestare la raggiunta prova dell'evento del reato (in particolare, il fatto che la persona offesa non abbia avvertito la necessità di cambiare il proprio numero di utenza telefonica o di indirizzo telematico) sono radicalmente inidonei a scardinare la solidità dell'apparato argomentativo della sentenza impugnata. Infatti, la reattività della vittima o l'assenza di un totale annichilimento, da parte della stessa, delle proprie capacità di superare le conseguenze della condotta persecutoria dell'imputato, non sono certo elementi incompatibili con la sussistenza del delitto di cui all'art. 612 bis cod. pen., che non richiede siffatte connotazioni dell'evento di danno. Quanto alla concreta lesività delle frasi pubblicati via social network (e, precisamente, sui cd. "stati" del social network WhatsApp), gioverà ricordare che è il ricorrente stesso a osservare come detti commenti ed espressioni siano leggibili "da coloro che conservano in rubrica il numero telefonico di colui il quale ha pubblicato l'immagine". Ciò che conferma non soltanto la correttezza della valutazione, operata dalla Corte d'appello, circa la sussistenza del reato di atti persecutori, ma anche del reato di diffamazione: al di là dell'avvenuto "blocco" dell'accesso del Ga.Ca. ai social network della persona offesa, resta il fatto che tutti i contatti presenti nella rubrica dell'imputato hanno potuto visualizzare le espressioni offensive, giustamente ritenute diffamatorie dai Giudici di merito. 2. Il secondo motivo è manifestamente infondato, ponendosi la censura in contrasto con quanto chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte a proposito del concorso del reato di atti persecutori con quello di diffamazione, che può ritenersi sussistente nel caso in cui la condotta diffamatoria costituisca - come nel caso di specie - una delle molestie connotanti il reato previsto dall'art. 612 bis cod. pen. (Sez. 5, n. 51718 del 05/11/2014, T., Rv. 262635 - 01: "il delitto di atti persecutori, avendo oggetto giuridico diverso, può concorrere con quello di diffamazione anche quando la condotta diffamatoria costituisce una delle molestie costitutive del reato previsto dall'art. 612 bis cod. pen.". Nel caso di specie, parte delle condotte integrative del reato di atti persecutori (segnata mente, le immagini e frasi offensive, pubblicate sui social network Facebook e WhatsApp, attraverso le quali l'imputato dava segno di riuscire a localizzare gli sposta menti della persona offesa e del di lei compagno) sono state ritenute dei Giudici di merito, coerentemente con l'orientamento giurisprudenziale testé richiamato, costitutive altresì del reato di cui all'art. 595, terzo comma, cod. pen., attesa la portata denigratoria dei testi pubblicati via social network, gravemente lesiva della reputazione della Bo.Ma. La ratio del citato orientamento giurisprudenziale relativo al concorso tra i due reati in parola poggia sulla diversità dei beni protetti dalle due fattispecie incriminatrici (la libertà personale, variamente intesa, nel caso dell'art. 612 bis cod. pen., e la reputazione della persona offesa, nel caso dell'art. 595 cod. pen.), nonché sulla diversità del disvalore che le due norme tendono a contrastare e dell'evento di danno. Sulla base di tale ratio, la giurisprudenza di legittimità ha, di volta in volta, affermato la possibilità del concorso formale tra reato di atti persecutori e altri reati (cfr., ex multis, Sez. 5, n. 20696 del 29/01/2016, G., Rv. 267148 - 01: il delitto di atti persecutori, avendo oggetto giuridico diverso, può concorrere con quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in cui restano assorbiti solo quei fatti che, pur costituendo astrattamente di per sé reato, rappresentino elementi costitutivi o circostanze aggravanti di esso e non anche quelli che eccedano tali limiti, dando vita a responsabilità autonoma e concorrente; Sez. S, n. 41182 del 10/07/2014, S., Rv. 261033 - 01: "il delitto di atti persecutori assorbe quello di minaccia ma non quello di ingiuria, perché, mentre gli atti intimidatori rientrano tra gli elementi qualificanti della fattispecie, le ingiurie sono a questa estranee ed incidono su un bene della vita diverso da quello tutelato dall'art. 612 bis cod. proc."; Sez. 5, n. 22475 del 18/04/2019, P., Rv. 276631 - 01, dove il ragionamento sul concorso si estende al rapporto strutturale di specialità unilaterale ai sensi dell'art. 15 cod. pen., escludendo tale rapporto nel caso di concorso tra reato di atti persecutori e quello di violenza privata. Infine, quanto alla possibilità che la diffamazione possa integrare, pur essendo reato autonomo, una molestia, ai fini dell'art. 612 bis, v. il contributo di Sez. S, n. 15734 del 13/01/2023, Rv. 284587 - 01). Il concorso formale è stato, invece, escluso, nel caso di coincidenza di beni e oggetti giuridici protetti dalle fattispecie incriminatrici e laddove il disvalore contrastato della fattispecie di cui all'art. 612 bis cod. pen. sia stato ritenuto integralmente assorbito nel disvalore contrastato da diverse fattispecie incriminatrici (v., ad esempio, Sez. 3, n. 30931 del 13/10/2020, G., Rv. 280101 Â 01: "sussiste concorso apparente di norme tra il delitto di atti persecutori e quello di omicidio - nella specie, tentato - aggravato ex art. 576, comma primo, n. 5.1, cod. pen., che deve considerarsi quale reato complesso ai sensi dell'art. 84, comma primo, cod. pen., assorbendo integralmente il disvalore della fattispecie di cui all'art. 612-bis cod. pen. ove realizzato al culmine delle condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall'agente ai danni della medesima persona offesa). Nel caso di specie, la Corte territoriale ha correttamente ravvisato, nella medesima condotta, gli estremi del reato di diffamazione, vista l'offensività delle frasi pubblicate, leggibili da una certa platea di persone (più precisamente, da quanti avevano in rubrica il numero dell'imputato), ma anche gli estremi del reato di atti persecutori, attesa la comprovata volontà persecutoria di colui il quale, pubblicando uno "stato" WhatsApp, dia conto di volere e poter localizzare la persona offesa. Infine, va considerata la diversità dell'evento di danno che, nel caso della diffamazione, è la lesione della reputazione, mentre, negli atti persecutori, è il triplice (e alternativo) evento indicato dall'art. 612 bis cod. pen. 3. Per i motivi fin qui esposti, il Collegio dichiara inammissibile il ricorso. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. (come modificato ex L. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, così equitativa mente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n.186). In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 10 novembre 2023. Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI FERRARA Il Tribunale di Ferrara, in composizione monocratica, in persona del giudice dott. Giovanni Solinas, alla pubblica udienza del 23 gennaio 2024 ha pronunciato la seguente SENTENZA nei confronti di: Ma.Fr., nato a F. il (...), ivi res.te ed elett.te dom.to in via F.lli An., n. 11 -libero come presente- Gi.Ma. (sep. giud.) IMPUTATO Gi.Ma. a) omissis Ma.Fr. b) del reato p. e p. dall'art. 595/1 e 3 co. c.p., perché sulla pagina facebook del gruppo privato denominato "Pe." composto da n. 4936 membri, comunicando con più persone offendeva la reputazione dell'avv. Fa.An. inserendo dopo vari messaggi che si occupavano della partecipazione di Il.Cu. e di Fa.An. ad una manifestazione a Ferrara il seguente commento: "L'avvocato An. è il numero uno dei delinquenti, mangiasoldi a tradimento, una zecca di uomo, non ha mai difeso un innocente, anzi li ha fatti condannare, io ne so qualcosa, schifezza di uomo." In Ferrara, tra la fine di dicembre 2019 e l'inizio di Gennaio 2020. M. con recidiva reiterata Con l'intervento del Pubblico Ministero: dott. Re.Si. V.P.O. Del difensore di ufficio: Avv. Il.Fi. del Foro di Ferrara Del difensore della parte civile costituita Fa.An.: Avv. Al.Pi. del Foro di Ferrara MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO SU CUI LA DECISIONE È FONDATA Lo svolgimento del processo A seguito della notifica del decreto di citazione a giudizio, Ma.Fr. (unitamente a Gi.Ma., la cui posizione veniva successivamente separata) veniva chiamato a rispondere del reato di cui all'imputazione (art. 595 c. 1 e 3 c.p.) come meglio specificato in epigrafe in danno dell'Avv. Fa.An. (costituito parte civile). Dopo l'udienza di apertura del dibattimento ed ammissione prove del 24/1/22, all'udienza del 4/4/22, venivano sentiti i testi Pa.Al. e Za.Ma. e veniva prodotta dalle parti varia documentazione (fra cui le sommarie informazioni del teste Gu.Ne.). All'udienza del 21/11/22, veniva sentita la p.o. (Avv. Fa.An.), i testi Ru.Ma. e Al.Va. e le parti producevano altra documentazione. Quindi, dopo i rinvii disposti alle udienze del 30/1/23 e 26/6/23, il processo veniva discusso all'udienza del 4/12/23, previo assenso dei difensori all'utilizzabilità degli atti davanti a diverso giudice (manifestato espressamente all'udienza del 26/6/23) ed acquisizione dell'interrogatorio dell'imputato, con rinvio per repliche all'udienza del 23/1/24. MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO La responsabilità dell'imputato risulta provata, oltre ogni ragionevole dubbio, in base al materiale probatorio acquisito. L'imputato veniva, infatti, chiamato a rispondere del delitto di diffamazione, in quanto, secondo l'ipotesi accusatoria, sulla pagina facebook del gruppo privato "Pe.", composto da n. (...) membri, aveva pubblicato il seguente commento "L'avvocato An. è il numero uno dei delinquenti, mangiasoldi a tradimento, una zecca di uomo, non ha mai difeso un innocente, anzi li ha fatti condannare, io ne so qualcosa, schifezza di uomo". Nel corso del dibattimento (v. udienze del 21/11/22 e 4/4/22) venivano, peraltro, prodotte alcune fotografie riproducenti il messaggio in questione, pubblicato dall'utente denominato Fr.Ma., all'interno del gruppo privato facebook "Pe.", come risposta ad un post di (tale) Ra.Br., riportante alcune dichiarazioni di Il.Cu.. Il teste Za.Ma. (giornalista e direttore responsabile di Estense.com) precisava di aver ricevuto (in data antecedente al 16/1/20) da Va.Al. (all'epoca attivista del movimento 5 Stelle di Ferrara) vario materiale pubblicato all'interno del gruppo privato"! Pe."(che coinvolgeva oltre 5000,00 utenti), fra cui quello oggetto del presente procedimento, che venne poi trasfuso in un articolo giornalistico di inchiesta del febbraio 2020 (materiale che veniva materialmente prodotto all'udienza del 4/4/22, depositando il relativo supporto informatico). Veniva, quindi, sentito Al.Va., il quale riferiva di aver effettuato degli screenshot del messaggio in questione (e di cui al capo di imputazione), proveniente dall'utente Fr.Ma., inviandoli poi a M.Z. (screenshot che il teste riconosceva fra quelli prodotti nel corso del dibattimento). Di conseguenza, non vi è alcun dubbio che il messaggio offensivo riportato nel capo di imputazione sia stato pubblicato sul gruppo facebook "Pe.", dal profilo "Fr.Ma.", a disposizione di tutti i membri di tale gruppo. Pacifica poi è l'attribuibilità del profilo "Fr.Ma." all'odierno imputato (che, appunto, si chiama Fr.Ma.), in quanto l'UPG Pa.Al. (in servizio presso la Polizia Postale di Ferrara) chiariva che il profilo facebook "Fr.Ma." era accessibile a terzi (c.d aperto) e di conseguenza, nel corso dell'attività di indagine, aveva reperito, nel profilo, numerose immagini riproducenti l'odierno imputato (raffrontando tali immagini con la patente di guida del M.). Peraltro, tali immagini venivano anche prodotte all'udienza del 4/4/22 ed effettivamente mostrano il viso dell'imputato (così come si evince dal raffronto con la fotografia della sua patente di guida, prodotta alla medesima udienza). Chiariva, anche, il teste, che l'imputato e la p.o. si conoscevano, in quanto l'Avv. An. aveva difeso il M. in un procedimento penale, materialmente trattato da un suo collaboratore (l'Avv. Gavioli), concluso con una sentenza di applicazione pena (del 28/1/1994, n. 13/94 e prodotta all'udienza del 4/4/22). Peraltro, la testimone Gu.Ne. (le cui sommarie informazioni del 21/4/20 sono state acquisite all'udienza del 4/4/22), dichiarava espressamente che l'imputato Fr.Ma. (che conosceva personalmente) era l'utilizzatore del profilo facebook Fr.Ma. e che le immagini del profilo corrispondevano proprio all'imputato. La p.o. Fa.An., sentito all'udienza del 21/11/22, chiariva, quindi, le modalità e circostanze in cui era venuto a conoscenza del messaggio diffamatorio (in data 7/1/20), precisando, di ricordare di aver difeso, molti anni prima, l'imputato, che, inoltre, riconosceva nelle foto del profilo Fr.Ma. (prodotte) (v. trascr.udienza del 21/11/22 p. 7). Di conseguenza, sulla base degli elementi sopra indicati, non vi è alcun dubbio che l'imputato sia l'utilizzatore del profilo facebook Fr.Ma. (identico al suo nome e cognome) anche alla luce dell'orientamento giurisprudenziale prevalente, secondo cui, in tema di diffamazione a mezzo Facebook, non sono indispensabili, ai fini dell'attribuibilità della condotta oltre ogni ragionevole dubbio all'imputato, accertamenti relativi al codice identificativo dell'autore del post ovvero alla titolarità della linea telefonica utilizzata per la connessione Internet, bastando, per un verso, il nome e la foto profilo cui il post è attribuito, nonché, per altro verso, il fatto che l'imputato non abbia denunciato il "furto" del proprio account (v. Corte di Cassazione, sez. V penale, sentenza 1 marzo 2021 (ud. 14 gennaio 2021), n. 8007/2021, Pres. Zaza - Rel. Belmonte), come, appunto, nel caso di specie. Risulta, pertanto, pienamente provato che l'imputato (nonostante lo stesso abbia negato la responsabilità del fatto, come dichiarato nell'interrogatorio prodotto del 28/10/20, pur ammettendo la titolarità del profilo facebook di cui al capo di imputazione) abbia scritto il commento, gravemente offensivo nei confronti dell'Avv. An., rendendolo pubblico ed a disposizione di più persone (ossia, tutti i membri del gruppo facebook "Pe."). Peraltro, gli stessi testimoni An. e R. (entrambi membri del suddetto gruppo facebook) dichiaravano, nel corso della loro escussione dibattimentale, di aver letto il suddetto commento a firma Fr.Ma.. Pacifico è, poi, il carattere lesivo della reputazione della p.o, avendo, l'imputato usato le espressioni (intrinsecamente offensive) delinquente, mangiasoldi a tradimento, una zecca di uomo e schifezza e tali da ledere, di per sé, il bene giuridico protetto dalla norma. Appare ugualmente del tutto provato l'elemento soggettivo del reato, in quanto, l'imputato consapevolmente ha pubblicato il commento sul gruppo facebook Pe. a disposizione, quindi, dei vari utenti dello stesso. CIRCOSTANZE E TRATTAMENTO SANZIONATORIO Sussiste, ovviamente, l'aggravante contestata di cui al capo terzo dell'art. 595 c.p., in quanto, come noto, pubblicare un commento diffamatorio all'interno di un gruppo di facebook, configura un mezzo di pubblicità. Come, infatti, ripetutamente affermato nella giurisprudenza di legittimità, anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma 3, cod. pen., poiché questa modalità di comunicazione di un contenuto informativo suscettibile di arrecare discredito alla reputazione altrui, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, perché attraverso questa 'piattaforma virtuale' gruppi di soggetti valorizzano il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un numero indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione. Di conseguenza, è pacifica l'inclusione della pubblicazione del messaggio diffamatorio sulla bacheca Facebook nella tipologia di qualsiasi altro mezzo di pubblicità", (v., ex multis, Cass. 4873/2017). Non si ritiene, invece, applicabile in concreto la recidiva contestata, in quanto è decorso un rilevantissimo lasso di tempo (circa dieci anni) dall'ultima condanna subita dal M. (come evidenziato dal suo casellario). Non possono, inoltre, essere riconosciute all'imputato le circostanze attenuanti generiche. Deve, invero, esprimersi un giudizio negativo sull'imputato. La gravità del fatto, così come precedentemente tratteggiata, potrebbe da sola costituire criterio sufficiente per negare la concessione delle circostanze attenuanti generiche. Nella valutazione del fatto e delle sue circostanze non si ravvisano, inoltre, elementi che possano essere apprezzati per concedere le circostanze attenuanti in questione. L'imputato ha già riportato altre condanne definitive ed il fatto di aver avuto altre negative esperienze giudiziarie non è servito all'imputato per cambiare vita. L'imputato, peraltro, non ha nemmeno ammesso i fatti, negando la sua responsabilità (ed attribuendola, in via generale, a persone terze sconosciute, che potrebbero aver usato il suo profilo). Per le ragioni già esposte, in sede di negazione del riconoscimento delle attenuanti generiche, nemmeno può essere concessa la sospensione condizionale della pena, di cui, peraltro, l'imputato ha già usufruito in una occasione, persistendo, comunque, nella commissione di reati. Valutati tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p., in particolare, la gravità del fatto (rilevante, considerando il tenore delle parole usate e la sostanziale gratuità dell'offesa, in alcun modo stimolata dalla p.o.) e la capacità a delinquere dell'imputato, il quale non ha avuto alcun contatto con la p.o. né ha, in qualche, modo, dimostrato pentimento per il suo comportamento, deve ritenersi congrua la pena di Euro 1200,00 di multa. Non si ritiene di poter applicare la pena detentiva, in quanto, l'applicazione di tale pena per il delitto di diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, a seguito della sentenza n. 150 del 2021 della Corte costituzionale, è subordinata alla verifica della "eccezionale gravità" della condotta, che, secondo un'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, si individua nella diffusione di messaggi diffamatori connotati da discorsi d'odio e di incitazione alla violenza ovvero in campagne di disinformazione gravemente lesive della reputazione della vittima, compiute nella consapevolezza della oggettiva e dimostrabile falsità dei fatti ad essa addebitati, (v. Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 28340 del 25 giugno 2021). Condotte non sussistenti nel caso di specie. L'imputato va altresì condannato, per legge, al pagamento delle spese processuali. Alla luce di quanto sopra esposto l'imputato deve essere condannato a risarcire il danno alla parte civile costituita. Trattandosi di danno non patrimoniale arrecato alla persona offesa, esso deve parimenti ritenersi provato su base presuntiva, alla luce delle intuibili ripercussioni (in termini di sofferenza e disagio) derivanti dalla offesa alla reputazione posta in essere dall'imputato, che sono in grado di produrre nel soggetto medio (considerando, anche, nello specifico, la ripercussione sulla reputazione professionale della p.o., il quale, essendo un avvocato, svolge un'attività rivolta al pubblico, di cui elemento fondamentale è la reputazione presso la collettività). Trattandosi, quindi, di danno di natura non economica, insuscettibile di una valutazione meramente aritmetica (non risultando, infatti, agli atti, effetti negativi di natura biologica subiti dalla p.o. A.) la sua commisurazione in denaro necessariamente deve sopportare un apprezzamento soggettivo e pertanto nel caso di specie si reputa ristoro adeguato per il danno non patrimoniale conseguente al reato la somma di Euro 4.500,00 (adeguata, si ripete, alla gravità dell'offesa e alla conseguenza sofferenza morale subita dalla p.o.). Non essendo stata fornita dalla parte civile alcuna prova circa la ricorrenza dei giustificati motivi di cui all'art. 540 c.p.p., la richiesta di provvisoria esecuzione della condanna al risarcimento dei danni non può essere accolta. Alla condanna dell'imputato al risarcimento consegue quella al pagamento delle spese di costituzione di parte civile, liquidate nella misura indicata in dispositivo Motivazione contestuale. P.Q.M. Visto l'art. 533 c.p.p. DICHIARA Ma.Fr. colpevole: del reato di cui al capo di imputazione e previo riconoscimento dell'aggravante contestata di cui all'art. 595 c.3 c.p. ed esclusa la recidiva, lo condanna alla pena finale di Euro 1200,00 di multa. Visto l'art. 535 c.p.p., Condanna l'imputato al pagamento delle spese processuali. Visti gli artt. 538 e ss. c.p.p., CONDANNA l'imputato al risarcimento del danno non patrimoniale in favore della costituita parte civile, risarcimento che viene liquidato in complessivi Euro 4500,00, rigetta la richiesta di provvisoria esecutività delle statuizioni civili. visto l'articolo 541 c.p.p. CONDANNA l'imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile che liquida in complessivi Euro 1513,00 oltre Iva, Cpa e rimborso di spese forfettarie come per legge Motivazione contestuale. Così deciso in Ferrara il 23 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 23 gennaio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. ZAZA Carlo - Presidente - Dott. SCARLINI Enrico Vittorio Stanislao - Consigliere - Dott. MASINI Tiziano - Relatore - Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere - Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI PISTOIA nei confronti di: Bi.Ed., nato a Q, il (Omissis); avverso l'ordinanza del 18/05/2023 del TRIB. LIBERTA' di PISTOIA ; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE DE MARZO; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, dott. Antonio Balsamo, il quale ha chiesto l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata. Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 18 maggio - 12 giugno 2023 il Tribunale di Pistoia, in accoglimento della richiesta di riesame proposta nell'interesse di Bi.Ed., ha revocato il sequestro conservativo disposto dal G.i.p. in data 22 marzo 2023 e avente ad oggetto il quotidiano online Linea Libera e le collegate pagine Facebook e Twitter. Il Bi.Ed., oltre che per i reati di diffamazione ed atti persecutori - qui non rilevanti ai fini dell'adozione della misura, e indagato per il delitto di esercizio abusivo della professione di giornalista e il reato di stampa clandestina, per avere con regolarità pubblicato articoli sul citato quotidiano online, del quale aveva assunto il ruolo di direttore, ancorché ormai cancellato, a far data dal 28 gennaio 2021, dall'albo dei giornalisti e avere - in concorso con altro soggetto, legale rappresentante della società Linea Stampalibera, proprietaria della testata giornalistica in questione - intrapreso la pubblicazione del giornale in assenza della registrazione prescritta dall'art. 5 della L. n. 47 del 1948. Per quanto rileva, il Tribunale ha ritenuto sussistente sia il fumus del reato di stampa clandestina previsto dall'art. 16 della L. n. 47 del 1948 che il periculum in mora - peraltro, osserva l'ordinanza, non oggetto di contestazione da parte della difesa, alla luce del rischio obiettivamente prospettabile che, in assenza del provvedimento ablatorio, l'indagato potesse persistere nelle pubblicazioni, senza provvedere all'aggiornamento della registrazione della testata, quale prevista dal citato art. 5 della L. n. 47 del 1948. Cionondimeno, il Tribunale ha revocato il sequestro conservativo, ritenendo che la misura contrastasse con il principio di proporzionalità, tenuto conto, oltre che del reale disvalore della condotta quale espresso dalla cornice edittale prevista per il reato de quo, dei seguenti dati: a) la testata online della quale si discute produce informazione, nel senso che suo tramite non vengono veicolati solo contenuti diffamatori ma anche il prodotto di attività giornalistica; b) il Bi.Ed. possiede tutti i requisiti di legge per l'iscrizione all'Ordine dei giornalisti, dal quale è stato cancellato per dimissioni e non per ragioni di carattere deontologico; c) la testata è registrata presso la Cancelleria del Tribunale, ancorché senza l'indicazione di un direttore responsabile iscritto all'Ordine dei giornalisti; d) il Bi.Ed. in passato aveva dimostrato interesse a conformarsi agli obblighi previsti dalla L. n. 47 del 1948; e) l'identità del direttore è tutt'altro che occulta, essendo pubblicizzata ovunque. 2. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia ha proposto ricorso per Cassazione affidato ai seguenti motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo si lamenta violazione ed erronea applicazione dell'art. 275, comma 2, e 321 cod. proc. pen., per avere il Tribunale omesso di considerare che, nel quadro delle cautele reali, il sequestro rappresenta l'unica misura prevista dal legislatore, con la conseguenza che il principio di proporzionalità può operare non in relazione all'an ma, una volta accertati i presupposti previsti dal codice di rito (e indipendentemente dai limiti edittali di pena), con riguardo al quomodo, in modo da contenere la privazione del bene cautelato nei limiti strettamente necessari a fronteggiare le esigenze di cautela, nel caso di specie da ravvisarsi nell'impedire un'attività illecita nella sua globalità e non la diffusione di uno specifico articolo. 2.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione degli artt. 125, comma 3, e 324 cod. proc. pen., per avere il Tribunale escluso la proporzionalità della misure reali, facendo ricorso ad una motivazione meramente apparente che aveva valorizzato o dati congetturali o profili inconferenti rispetto alle finalità del presidio cautelare. 2.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge e inosservanza degli artt. 3, 5, 16 L. n. 47 del 1948, per avere il Tribunale, in contrasto con il sistema normativo, ritenuto che il reato di cui all'art. 16 appena citato presupponga la clandestinità totale dell'attività, derivante dalla mancata registrazione del quotidiano e dall'essere ignoti sia l'autore dell'articolo che il direttore responsabile. 3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con L. 18/12/2020, n. 176, le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, dott. Antonio Balsamo, il quale ha chiesto annullarsi con rinvio il provvedimento impugnato. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. 1.1. Come puntualmente rilevato da questa stessa sezione (Sez. 5, n. 20645 del 23/04/2021, Politi, n.m.), il test di proporzionalità assume una valenza di sistema, riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte. Superando un risalente indirizzo che escludeva l'applicabilità del principio di proporzionalità alle misure cautelari reali (Sez. 3, n. 16818 del 16/01/2007, Rosato, Rv. 236490), la giurisprudenza di legittimità si è attestata sul consolidato principio di diritto secondo cui i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità - dettati dall'art. 275 cod. proc. pen. per le misure cautelari personali - sono applicabili anche al sequestro preventivo, dovendo il giudice motivare adeguatamente sull'impossibilita di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva (Sez. 3, n. 21271 del 07/05/2014, Konovalov, Rv. 261509; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 8382 del 16/01/2013, Caruso, Rv. 254712; Sez. 3, n. 12500 del 15/12/2011, dep. 2012, Sartori, Rv. 252223; Sez. 5, n. 8152 del 21/01/2010, Magnano, Rv. 246103; nonché, in tema di sequestro finalizzato alla confisca diretta, Sez. 2, n. 29687 del 28/05/2019, Frontino, Rv. 276979). I termini del bilanciamento, quali appena descritti, comportano che il test si atteggi diversamente in relazione alla natura e alla funzione del tipo di sequestro in questione. Così, rispetto al sequestro probatorio, il principio di proporzionalità esige la ponderazione tra il contenuto del provvedimento ablativo e le esigenze di accertamento dei fatti oggetto delle indagini (Sez. 6, n. 9989 del 19/01/2018, Lillo, Rv. 272538); con riferimento al sequestro conservativo, la valutazione di proporzionalità va operata tra il valore dei beni sequestrati e i crediti del richiedente (Sez. 5, n. 19903 del 17/04/2009, Ciotta, Rv. 243944); rispetto al sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, il test di proporzionalità chiama in causa il rapporto tra profitto del reato e quantum sottoposto a vincolo cautelare (Sez. 3, n. 39091 del 23/04/2013, Cianfrone, Rv. 257284). Nel caso del sequestro preventivo c.d. impeditivo, invece, "il giudice deve motivare adeguatamente sulla impossibilita di conseguire il medesimo risultato ricorrendo ad altri e meno invasivi strumenti cautelari ovvero modulando quello disposto - qualora ciò sia possibile - in maniera tale da non compromettere la funzionalità del bene sottoposto a vincolo anche oltre le effettive necessita dettate dall'esigenza cautelare che si intende arginare" (Sez. 5, n. 8382 del 2013, Caruso, cit.), sicché è necessario verificare: "a) se l'aggravamento o la protrazione delle conseguenze del reato possono essere evitati senza privare l'avente diritto della disponibilità della cosa; b) se il sequestro preventivo è sufficiente a garantire tale risultato; c) se tale risultato può essere conseguito con misure meno invasive" (Sez. 3, n. 12500 del 2011, dep. 2012, Sartori, cit.). Condizioni, queste, del tutto in linea con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che subordina la sequestrabilità di un sito internet alla valutazione se il risultato legittimamente perseguito possa essere conseguito con mezzi meno invasivi o con modalità dotate di minor impatto (ex plurimis, Corte Edu, III sez., 23/06/2020, Bulgakov c. Russia). 1.2. In siffatta valutazione, tuttavia, un dato non può essere trascurato. Il bilanciamento richiesto dal principio di proporzionalità impone di verificare quale sia il modo meno invasivo per realizzare gli obiettivi perseguiti con ciascuna misura, in tal modo tracciando i confini della valutazione giudiziaria con sufficiente precisione concettuale. Esso, però, non consente, in nome di considerazioni genericamente equitative, di disapplicare, una volta riconosciuti i presupposti di legge (e, nella specie, l'ordinanza impugnata, come detto, si diffonde sulla sussistenza del fumus e del periculum), la norma vanificando la realizzazione dei fini di cautela indicati dal codice di rito e degli obiettivi perseguiti dal legislatore sostanziale. In altre parole, mentre la ponderazione tra obiettivi e modalità di perseguimento degli stessi si realizza fra termini chiaramente individuabili, talché l'operazione valutativa può essere affidata ad argomentazioni razionalmente verificabili alla luce delle scelte del legislatore, una volta che si abbandoni, come fa il provvedimento impugnato, la considerazione dei primi, il giudizio finisce per diventare arbitrario, ossia sganciato da qualunque parametro normativamente fissato nello specifico ambito di cui si discute. In questo senso, è paradigmatico il riferimento dell'ordinanza impugnata alla pena prevista per il reato e alla possibile operatività dell'art. 131-bis cod. pen. (come pure ai profili, più o meno persuasivi, dedicati alla condotta dell'indagato), che riguardano la graduazione risposta sanzionatoria di carattere personale, ma sono del tutto inconferenti rispetto all'obiettivo perseguito dal legislatore. E proprio la Costituzione, in un equilibrato bilanciamento tra liberta di manifestazione del pensiero attraverso la stampa e principio di responsabilità (v., tra l'altro, a livello sovranazionale, l'esplicita puntualizzazione contenuta nel par. 2 dell'art. 10 della Convenzione dei diritti dell'uomo e delle liberta fondamentali), a prevedere il sequestro nel caso di violazione delle norme che la legge ordinaria prescriva per l'indicazione dei responsabili (art. 27, terzo comma, Cost.). Rispetto a siffatto obiettivo di impedire l'impiego della stampa in assenza del rispetto delle previsioni che assicurano l'identificabilità di quanti si assumono la responsabilità dell'attività stessa, l'ordinanza tace, affidandosi, come detto, o ad inconferenti valutazioni correlate alla sanzione che colpisce l'autore o all'esistenza di contenuti informativi non diffamatori, che, tuttavia, è rilievo estraneo al fine - si ripete, fatto oggetto di esplicita valutazione ad opera della Costituzione - di impedire che l'esercizio della stampa possa non accompagnarsi ad una obiettivamente verificabile assunzione di responsabilità. Peraltro, il fatto che il legislatore ordinario imponga che quest'ultima gravi, in generale (in questa sede non assume rilievo approfondire ulteriormente la questione) su persona iscritta nell'albo dei giornalisti nei termini indicati dall'art. 46 della L. 3 febbraio 1963, n. 69 comporta, altresì, l'assoluta irrilevanza della spontanea assunzione di responsabilità del ruolo di direttore da parte del Bi.Ed. E ciò sia perché tutto ciò menoma comunque il sistema delle garanzie volute dal legislatore anche con riguardo al controllo disciplinare dell'Ordine, sia perché - e trattasi di rilievo assorbente - non incide sul carattere clandestino della stampa, che, per tale fondamentale deficit di assunzione di responsabilità, non può essere consentita, senza vanificare il principio di effettività dell'ordinamento. 2. L'ordinanza impugnata va, in conseguenza, annullata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Pistoia. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Pistoia, sezione del riesame. Così deciso in Roma il 23 novembre 2023. Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUINTA SEZIONE PENALE Composta da: Dott.ssa VESSICHELLI Maria - Presidente Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere Dott.ssa PILLA Egle - Consigliere Dott. BRANCACCIO Matilde - Relatore Dott.ssa GIORDANO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Te.Er. nato (Omissis) avverso la sentenza del 07/03/2023 della CORTE APPELLO di SALERNO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere MATILDE BRANCACCIO; letta la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore Generale PASQUALE SERRAO D'AQUINO che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso RITENUTO IN FATTO 1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d'Appello di Salerno, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha assolto l'imputata Ro.Mi. dalla condotta di diffamazione tramite facebook a lei contestata ed ha confermato la condanna di Te.Er., per un'analoga imputazione, alla pena di 600 Euro di multa. La vicenda attiene alla pubblicazione di alcune frasi sul profilo facebook dell'imputata Te.Er., ritenute offensive della reputazione di Ma.Sa., accusata di aver offeso il figlio minorenne della prima, il quale era ospite ad una festa di bambini organizzata proprio dalla vittima della diffamazione e, dunque, additata come persona insensibile ed indelicata, oltre che solita voler impietosire gli altri 'al fine di raggirare ed estorcere magari qualche soldo per nuove dimore o serate tra banchetti e alcool". La Corte d'Appello ha ritenuto sussistente il reato per la portata diffamatoria evidente delle frasi, riferite ad una circostanza di fatto non veritiera (aver offeso il proprio figlio), ed ha negato, altresì, la causa di esclusione della punibilità della particolare tenuità del fatto. 2. L'imputata ricorre contro la citata sentenza deducendo, tramite il difensore di fiducia, quattro diversi motivi di censura. 2.1. Il primo motivo si concentra sulla denuncia di vizi di violazione di legge processuale e di motivazione carente ed illogica del provvedimento impugnato. La difesa ritiene che la condanna sia stata basata sulle sole dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile, per l'utilizzabilità delle quali sono necessari riscontri esterni costituiti, nel caso di specie, da sommarie informazioni testimoniali cartolari delle testi Va. e Ba. (due delle mamme presenti alla festa, n.d.r.), acquisite dal giudice nel corso del processo e non validate dalla necessaria verifica in contraddittorio. 2.2. Il secondo argomento difensivo rinnova l'eccezione di improcedibilità del reato per tardività della querela, già proposta in appello e superata dalla sentenza impugnata. La ricorrente sostiene che dal dies a quo in cui la persona offesa è venuta a conoscenza delle offese a lei rivolte (il 14.10.2016) sono decorsi 91 giorni sino al momento della presentazione della querela (il 13.1.2017), che, pertanto, sarebbe intempestiva, con conseguente improcedibilità del reato. 2.3. Nel terzo motivo di ricorso la difesa invoca la causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 599 cod. pen.: le frasi denigratorie pubblicate su facebook ed oggetto di contestazione sono state scritte per reazione al fatto che la persona offesa aveva preteso, mediante un messaggio nella chat-gruppo whatsapp delle mamme, di cui entrambe facevano parte, che l'imputata si affrettasse a riprendere suo figlio alla festa, senza specificarne le ragioni, così generando in lei panico, mancando risposta alla sua richiesta di sapere se fosse accaduto qualcosa al proprio figlio; salvo poi venire a sapere, una volta arrivata, che il bambino doveva essere allontanato dalla festa perché troppo vivace. Tale sequenza di avvenimenti ha determinato nella ricorrente uno stato d'ira per aver subito l'altrui fatto ingiusto, con conseguente, immediata reazione costituita dalle frasi pubblicate sul profilo social. 2.4. Un ultimo motivo di ricorso invoca il riconoscimento della causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen., negato dai giudici d'appello nonostante ricorrano tutte le condizioni normative e di fatto per poter applicare la citata disposizione (incensuratezza dell'imputata, valutazione positiva dei parametri di giudizio dettati dall'art. 133 cod. pen.). 3. Il Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di cassazione ha chiesto, con requisitoria scritta, l'inammissibilità del ricorso. 4. La parte civile, tramite il difensore di fiducia, ha depositato una consistente memoria con conclusioni di rigetto del ricorso, segnalando, motivo per motivo, la manifesta infondatezza delle ragioni della ricorrente e chiedendo la rifusione delle spese sostenute nel giudizio di cassazione, per 9.239 Euro totali. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato limitatamente all'ultimo motivo di censura, per le ragioni che si indicheranno di seguito. 2. Il primo argomento proposto dalla difesa dell'imputata è generico e manifestamente infondato. Come noto, alle dichiarazioni della persona offesa non si applicano i canoni valutativi prescritti dal terzo comma dell'art. 192 cod. proc. pen. ed esse possono essere legittimamente poste, da sole, a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone e corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto (ex multis cfr., da ultimo, Sez. 2, n. 43278 del 24/9/2015, Manzini, Rv. 265104-01; Sez. 5, n. 1666 del 8/7/2014, Pirajno, Rv. 261730-01 e, anzitutto, Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell'Arte, Rv. 253214-01). Gli eventuali "riscontri" richiesti in caso la persona offesa testimone sia costituita parte civile possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione (Sez. 5, n. 21136 del 26/3/2019, S., Rv. 275312). Inoltre, risulta allo stesso modo affermazione condivisa da unanime giurisprudenza di questa Corte quella secondo cui l'attendibilità della persona offesa dal reato è una questione di fatto, che ha la sua chiave di lettura nell'insieme di una motivazione logica, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (in tal senso, Sez. 2, n. 7667 del 29/1/2015, Cammarota, Rv. 262575-01; nonché, in generale, sulla valutazione della prova testimoniale, il suo carattere di giudizio di merito e i limiti del sindacato di legittimità Sez. 2, n. 20806 del 5/5/2011, Tosto, Rv. 236201; Sez. 5, n. 51604 del 19/9/2017, D'Ippedico, Rv. 271623-01). In ogni caso, nella fattispecie sottoposta al Collegio il motivo di ricorso risulta genericamente formulato poiché non viene evidenziato, rispetto alla più ampia sentenza impugnata, il rilievo decisivo della prova che si chiede di espungere (cfr. Sez. U, n. 23868 del 23/4/2009, Fruci, Rv. 243416) e, inoltre, non si tiene conto del fatto che, per entrambe le testi "a riscontro", solo genericamente il ricorso lamenta l'acquisizione delle dichiarazioni, non adducendo la propria opposizione in giudizio; e ciò a prescindere dalla constatazione che, come messo in luce dalla parte civile nella sua memoria conclusiva, le testi sarebbero state comunque ascoltate in dibattimento. 2.1. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato. La ricorrente sostiene che dal dies a quo in cui la persona offesa è venuta a conoscenza delle offese a lei rivolte (il 14.10.2016) sono decorsi 91 giorni sino al momento della presentazione della querela (il 13.1.2017), che, pertanto, sarebbe intempestiva, con conseguente improcedibilità del reato. Il ragionamento è viziato dal punto di vista logico-giuridico poiché è noto che il termine per proporre la querela è di tre mesi, e non di novanta giorni, decorrente, ex art. 124, comma primo, cod. pen., dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato (Sez. 2, n. 37353 del 5/11/2020, Gozzini, Rv. 280461; in motivazione la Corte ha evidenziato che la scadenza di un termine stabilito a mesi si verifica nel giorno corrispondente a quello in cui è iniziata la decorrenza, indipendentemente dal numero dei giorni di cui è composto ogni singolo mese). Il termine in esame, pertanto, non era scaduto al momento della presentazione della querela, come è evidente dall'indicazione delle date proposta dalla stessa ricorrente. 2.2. Anche il terzo motivo di ricorso, con cui si invoca la causa di non punibilità prevista dall'art. 599 cod. pen., è manifestamente infondato, oltre che inammissibile anche perché formulato secondo direttrici di censura che propongono una diversa valutazione del risultato probatorio sintetizzato con logica sequenza motivazionale dalla sentenza impugnata. Invero, non vi è dubbio che la causa di non punibilità della provocazione di cui all'art. 599, comma 2, cod. pen. sussiste non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi di un illecito codificato, ma anche quando consiste nella lesione di regole di civile convivenza; tuttavia, tale lesione deve pur sempre essere apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo, con conseguente esclusione della rilevanza della mera percezione negativa che di detta violazione abbia avuto l'agente (cfr., da ultimo, Sez. 5, n. 21133 del 9/3/2018, Iachetta, Rv. 273131 e Sez. 5, n. 4943 del 20/1/2021, Pierandozzi, Rv. 280333). Nel caso di specie, la Corte territoriale ha escluso che alla base dell'invettiva a mezzo social, postata dalla ricorrente, vi fosse una condotta della persona offesa definibile come "ingiusta" su di un piano di valutazione oggettivo, non potendo ritenersi tale l'eventuale richiesta di contenimento della estrema vivacità del figlio dell'imputata, suo ospite, né la richiesta di portarlo via dalla festa che si teneva in casa della vittima, né essendo provato, infine, che costei lo abbia in qualche modo offeso (cfr. pagg. 3 e 4 della sentenza impugnata). 2.3. Deve ritenersi fondato, invece, il quarto argomento proposto dalla difesa, riferito al mancato riconoscimento della causa di esclusione della punibilità della particolare tenuità del fatto. La difesa ha proposto puntuale motivo d'appello con cui ha chiesto l'applicazione dell'art. 131-bis cod. pen.. La Corte d'Appello, pur motivando ampiamente con riguardo alla gravità della condotta, si è limitata ad insistere sugli aspetti obiettivi del fatto, tautologicamente richiamando la tipicità criminosa, secondo la fattispecie concreta, con riguardo alla portata diffamatoria delle frasi postate e alla diffusività dello strumento di propalazione utilizzato. Tali aspetti, pur potendo rientrare nel fuoco della valutazione ex art. 131-bis cod. pen., là dove espressivi di una non particolare lievità dell'offesa posta in essere, rappresentano solo una parte del più ampio giudizio richiesto dalla disposizione di favore. Come insegnano le Sezioni Unite, infatti, il giudizio sulla particolare tenuità del fatto richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266590). Nel caso sottoposto al Collegio, è mancata una verifica più specifica di alcuni degli ulteriori aspetti valutativi fondamentali per il giudizio (in particolare, il grado di colpevolezza e l'entità del danno alla reputazione arrecato), che, anche alla luce del peculiare contesto in cui sono maturate le frasi diffamatorie, meritano una più meditata e motivata opzione, a prescindere dagli esiti, di conferma o meno, del giudizio di inconfigurabilità della causa di esclusione della punibilità in esame. 3. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata, limitatamente alla statuizione relativa all'art. 131-bis cod. pen., che dovrà essere al centro del nuovo giudizio da parte del giudice del rinvio (gli altri motivi di ricorso vanno, invece, dichiarati inammissibili, come già esposto). In proposito, si rammenta che, nel caso di annullamento con rinvio limitato alla verifica della sussistenza dei presupposti per l'applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, il giudice del rinvio non può dichiarare l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione, maturata successivamente alla sentenza di annullamento parziale (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 20884 del 9/2/2023, Franchi, Rv. 284703 e Sez. 5, n. 30383 del 30/3/2016, Mazzocoli, Rv. 267590). 3.1. Deve essere disposto, altresì, che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente l'art. 131-bis c.p., con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d'Appello di Napoli. Dichiara inammissibile nel resto. In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 del D.Lgs. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Salerno il 27 settembre 2023. Depositata in Cancelleria il 9 gennaio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE PRIMA SEZIONE PENALE Composta da: Dott. BONI Monica - Presidente - Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio Augusto Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Relatore - Dott. POSCIA Giorgio Dott. MAGI Raffaello ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Pa.Iv. nato a COSENZA il .../.../1973 avverso la sentenza del 26/10/2022 della CORTE APPELLO di CATANZARO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE SANTALUCIA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore MARIAEMANUELA GUERRA che ha concluso per iscritto ai sensi della disciplina emergenziale chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso. Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Catanzaro, giudicando in sede di rinvio a seguito della sentenza di annullamento n. 44662 del 26 ottobre 2021 della Corte di cassazione, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Pa.Iv. in ordine al reato di diffamazione commesso con espressioni oltraggiose inserite in una "chat" aperta dal Movimento "(...)" sul sociale network Facebook ai danni di Mo.Ni., fatto commesso il 2 aprile 2014, perché estinto per prescrizione. In conformità a quanto stabilito dalla Corte di cassazione con il principio di diritto formulato, la Corte di appello ha accertato che la chat su cui si svolse la conversazione incriminata permetteva ai diversi iscritti di partecipare e di intervenire anche non in tempo reale; e che, all'atto della pronuncia delle frasi offensive di cui all'imputazione, la persona offesa Mo.Ni. non era presente. Ha quindi concluso per la sicura riconducibilità della vicenda alla fattispecie di diffamazione, in quanto l'offesa è stata proferita ai danni di persona in quel momento assente e comunicata ad almeno due persone, presenti o distanti. 2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore di Pa.Iv.. Il fatto che la risposta alle espressioni offensive del ricorrente siano intervenute successivamente non significa che le espressioni offensive siano state lette in differita. La stessa persona offesa ha dichiarato di aver partecipato alla discussione in chat in diretta, ovvero dopo qualche secondo, qualche minuto, dall'inserimento delle espressioni offensive, e quindi è assolutamente certo che fosse presente alla conversazione. Di qui la necessità di qualificare il fatto come ingiuria e non come diffamazione e conseguentemente l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata. L'interesse del ricorrente ad una pronuncia di tal fatta, nonostante la già dichiarata estinzione del reato per prescrizione, è connesso alla condanna al risarcimento dei danni alla parte civile e alla rifusione delle spese processuali da questa sostenute. 3. Il Procuratore generale, intervenuto con requisitoria scritta, ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito esposte. 2. La Corte di appello, in conformità al principio di diritto fissato dalla sentenza di annullamento con rinvio, ha preso in esame le risultanze del processo al fine di operare la corretta qualificazione del fatto. Ha concluso che la chat utilizzata per la comunicazione delle espressioni offensive consentiva lo svolgersi della conversazione anche non in tempo reale, come chiaramente indicato dalla persona offesa e dal testimone Da.El.. Ha quindi evidenziato che, come si trae dalle stampe delle conversazioni, si desume che al momento della messa in circolazione su chat delle frasi incriminate la persona offesa non era presente, tant'è che replicò intervenendo sulla chat a distanza di oltre venti minuti. Su queste premesse di fatto, rispetto alle quali i rilievi di ricorso mirano ad accreditare una diversa, inaccettabile, lettura delle risultanze di prova, la conclusione in punto di qualificazione è ineccepibile, dal momento che "integra il delitto di diffamazione, e non la fattispecie depenalizzata di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, l'invio di messaggi contenenti espressioni offensive nei confronti della persona offesa su una "chat" condivisa anche da altri soggetti, nel caso in cui la prima non li abbia percepiti nell'immediatezza, in quanto non collegata al momento del loro recapito" -sez. 5, n. 28675 del 10/06/2022, Rv. 283541 -. 3. Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso, il 21 novembre 2023. Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2024
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