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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni - Presidente Dott. MOCCI Mauro - Consigliere Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere Dott. VARRONE Luca - Consigliere Dott. POLETTI Dianora - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso iscritto al R.G.N. 30840/2018 proposto da: AZIENDA SANITARIA LOCALE NAPOLI (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall'avvocato (OMISSIS), giusta procura speciale in atti; - ricorrente - contro CITTA' METROPOLITANA DI (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato (OMISSIS), giusta procura speciale in atti; (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall'avvocato (OMISSIS), giusta procura speciale in atti; - controricorrenti - e contro (OMISSIS); - intimata - avverso la sentenza n. 3536/2018 della CORTE DI APPELLO di NAPOLI, depositata il 13/07/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/01/2023 dal Consigliere Dott. DIANORA POLETTI; udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI Corrado, che ha concluso chiedendo l'accoglimento del primo motivo di ricorso e la dichiarazione di assorbimento dei restanti; udito l'avvocato (OMISSIS) per delega dell'avvocato (OMISSIS) per la ricorrente, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'avvocato (OMISSIS), per delega dell'avvocato (OMISSIS), che ha insistito per il rigetto dello stesso. FATTI DI CAUSA 1.- (OMISSIS) conveniva in giudizio, avanti il Tribunale di Napoli, la Citta' Metropolitana di (OMISSIS) e l'Azienda Sanitaria Locale di Napoli (OMISSIS) (d'ora innanzi ASL Napoli (OMISSIS)), per sentire dichiarare l'avvenuto acquisto a titolo di usucapione di alcuni beni immobili siti in (OMISSIS), posseduti da lui e prima ancora dal di lui padre da oltre 40 quarant'anni. L'attore aveva gia' promosso analogo giudizio nei confronti della Parrocchia di (OMISSIS), che risultava proprietaria dei beni sulla scorta delle intestazioni catastali, ma questi erano risultati poi essere di proprieta' della Provincia di (OMISSIS) in favore della quale erano stati espropriati e successivamente trasferiti per legge al Comune e all'ASL Napoli (OMISSIS). La convenuta Citta' Metropolitana di (OMISSIS) (gia' Provincia di (OMISSIS)) eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva, avendo trasferito i beni - tra cui quelli oggetto del giudizio - all'ASL Napoli (OMISSIS). Si costituiva in giudizio quest'ultimo ente per eccepire l'insussistenza dei presupposti dell'usucapione e chiedere, in via riconvenzionale, la condanna del (OMISSIS) al rilascio dei beni e ai danni per occupazione senza titolo. Il Tribunale di Napoli dichiarava il difetto di legittimazione passiva della Citta' Metropolitana di (OMISSIS) e rigettava la domanda attorea per mancanza di prova nei confronti dell'ASL Napoli (OMISSIS), per essere il possesso ventennale da parte dell'attore stato interrotto dal trasferimento dell'immobile dal patrimonio del Comune all'ASL Napoli (OMISSIS) con atto dell'1.01.1995. Rigettava inoltre la domanda riconvenzionale di danni e condannava l'attore al rilascio dei beni. 3. Avverso tale decisione proponeva appello il (OMISSIS), nella cui posizione processuale, essendo lo stesso deceduto nelle more del giudizio, subentravano successivamente i suoi eredi. Si costituivano in giudizio entrambe le appellate. La Citta' Metropolitana ribadiva il proprio difetto di legittimazione passiva; l'ASL Napoli (OMISSIS) spiegava appello incidentale avverso la statuizione con la quale si ritenevano i beni non rientranti nel patrimonio indisponibile e contro la statuizione che aveva rigettato la domanda riconvenzionale di danni per mancanza di prova. La Corte di Appello di Napoli, in riforma della sentenza gravata, accoglieva parzialmente i motivi del gravame principale e dichiarava l'avvenuto acquisto per usucapione da parte del dante causa degli appellanti dei beni oggetto del giudizio. Rigettava l'appello incidentale. 5. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, l'Azienda Sanitaria Locale di Napoli (OMISSIS). 6. Hanno resistito con separati controricorsi la Citta' Metropolitana di (OMISSIS) e i sigg.ri (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS). (OMISSIS) non ha svolto difese in questa sede. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. - Con il primo motivo (cosi' rubricato: "violazione dell'articolo 360, nn. 3 e 5, in relazione agli articoli 822 e 826, e della L. n. 833 del 1978 - erroneo rigetto dell'appello incidentale proposto dall'ASL Napoli (OMISSIS)") la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la stessa ritenuto i beni oggetto del giudizio appartenenti al patrimonio disponibile dell'ente, ritenendoli suscettibili di acquisto per usucapione per difetto nella specie del requisito oggettivo della destinazione a un pubblico servizio, in violazione della L. n. 833 del 1978, articoli 65 e 66, che, all'atto della istituzione delle USL, hanno disposto il trasferimento ai Comuni dei beni e delle attrezzature di una serie di soggetti (enti ospedalieri, casse ed enti mutualistici, consorzi sanitari, province), con vincolo di destinazione sanitaria alle USL medesime. 2. - Con il secondo motivo ("ulteriore violazione dell'articolo 360, n. 5, in relazione agli articoli 822 e 826 c.c., e della L. n. 833 del 1978") la ricorrente taccia la sentenza impugnata di avere erroneamente ritenuto che il requisito dell'animus possidendi, necessario ad usucapire, non venga meno di fronte ad un atto di disposizione con il quale il proprietario non possessore dispone del bene trasferendolo a terzi e il possessore nulla obietti al riguardo. 3. - Con il terzo motivo si lamenta, proposto ai sensi dell'articolo 360, comma 1, n. 5, la violazione dell'articolo 2697 c.c., e dell'articolo 116 c.p.c., per avere erroneamente la Corte di Appello di Napoli ritenuto provato il possesso ad usucapionem in capo a (OMISSIS). 4. - Il quarto motivo (proposto ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5) deduce la violazione dell'articolo 2697 c.c. e dell'articolo 116 c.p.c., per avere la sentenza impugnata respinto la domanda di risarcimento del danno da occupazione illegittima da parte di (OMISSIS), che avrebbe dovuto essere ritenuto in re ipsa. 5. - Il primo motivo e' infondato. La L. n. 833 del 1978, articoli 65 e 66, ritenuti violati dalla ricorrente, distinguono notoriamente due ipotesi: 1) quella relativa ai beni mobili, immobili e alle attrezzature, destinati prevalentemente ai servizi sanitari, appartenenti agli enti, casse mutue e gestioni soppressi (...) 2) e quella - che concerne il caso de quo - relativa ai beni mobili ed immobili e alle attrezzature appartenenti alle province o a consorzi di enti locali e destinati ai servizi igienicosanitari, agli enti ospedalieri, agli ospedali psichiatrici e neuro-psichiatrici e ai centri di igiene mentale dipendenti dalle province o da consorzi delle stesse o dalle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) di cui dell'articolo 64, comma 7, nonche' degli altri istituti di prevenzione e cura e dei presidi sanitari extraospedalieri dipendenti dalle province o da consorzi di enti locali. In piu' occasioni, questa Suprema Corte ha chiarito che la riforma sanitaria attuata con la L. n. 833 del 1978, nell'attribuire alle U.S.L. le funzioni in materia di igiene e sanita' precedentemente svolte da una serie di altre amministrazioni, ha disposto il trasferimento dei beni e delle attrezzature di tali ultimi soggetti al patrimonio del Comune, con vincolo di destinazione alle U.S.L. medesime, secondo due diverse modalita' operative, disciplinate rispettivamente dagli articoli 65 e 66 della Legge citata, ossia: - o con decreto interministeriale da adottare con la regione interessata; - o ope legis, situazione questa in cui il passaggio al patrimonio del Comune dei beni gia' appartenenti ai disciolti enti ospedalieri si e' verificato per effetto immediato della previsione normativa (cfr. Cass. n. 1895/2017). Questa Corte ha avuto anche modo di pronunziarsi sulla presenza o meno, nella normativa di riferimento, di una disposizione che preveda l'attribuzione "ex novo" al patrimonio indisponibile delle Unita' Sanitarie Locali di tutti i beni degli enti ospedalieri, ovvero anche di quelli in precedenza non destinati ad un pubblico servizio. Lo specifico profilo, rilevante ai fini del giudizio in esame, e' stato specificamente analizzato da Cass., Sez. 2, n. 1957/2007, la quale - decidendo un ricorso proposto dalla ASL di Locri contro la dichiarazione di avvenuta usucapione di terreni ad uso agricolo - ha cosi' argomentato: "premesso che il vincolo di destinazione di cui si tratta riguarda le USL di cui e' stata prevista la costituzione secondo le modalita' stabilite dalla L. 23 dicembre 1978, n. 833, articolo 61; successivamente con il Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (emanato sulla base della L. 23 ottobre 1992, n. 421 di delega per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanita', di pubblico impiego e di finanza territoriale) e' stato realizzato il riordino della disciplina in materia sanitaria, con la soppressione delle USL e l'istituzione delle Aziende Unita' Sanitarie Locali, aventi natura di "enti strumentali della Regione, dotati di personalita' giuridica pubblica, di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica" (articolo 3, Decreto Legislativo citato); il successivo articolo 5 stabilisce poi che nel rispetto "della normativa regionale vigente, tutti i beni mobili, immobili, ivi compresi quelli da reddito, e le attrezzature che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, fanno parte del patrimonio dei comuni e delle province con vincolo di destinazione alle unita' sanitarie locali, sono trasferiti al patrimonio delle unita' sanitarie locali e delle aziende ospedaliere....". All'interrogativo se la richiamata disciplina in materia sanitaria contenga una disposizione che preveda l'attribuzione "ex novo" al patrimonio indisponibile delle Unita' Sanitarie locali cosi' costituite di tutti i beni degli enti ospedalieri, ovvero anche di quelli in precedenza non destinati ad un pubblico servizio, la decisione cosi' prosegue nella sua parte motiva: "sulla base delle esposte premesse di carattere generale deve negarsi la sussistenza di una disposizione in tal senso, ed in particolare deve escludersi che la L. 23 dicembre 1978, n. 833, articolo 66, preveda il trasferimento al patrimonio del Comune in cui sono collocati, con vincolo di destinazione alle USL di tutti i beni gia' appartenenti agli enti ospedalieri soppressi, posto che la norma sopra richiamata si limita a disporre il trasferimento al patrimonio del Comune in cui sono collocati, con il suddetto vincolo di destinazione, di beni mobili ed immobili e delle attrezzature degli enti ospedalieri (v. articolo 66 citato, comma 2, lettera B), senza ulteriori specificazioni che possano legittimare un riferimento a tutti i beni degli enti ospedalieri anche a prescindere dalla loro effettiva destinazione pregressa, e quindi anche in assenza di un qualsiasi collegamento di carattere funzionale con le competenze attribuite alle USL dalla stessa legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale; anzi un elemento in senso contrario alla tesi sostenuta dalla ricorrente si desume dallo stesso articolo 66, piu' volte menzionato nella parte in cui prevede l'affidamento alle USL della gestione (soltanto) "dei beni mobili ed immobili e delle attrezzature destinate ai servizi igienico-sanitari dei Comuni e all'esercizio di tutte le funzioni dei Comuni e loro consorzi in materia igienico- sanitaria", cosi' stabilendo sul piano gestionale un rapporto diretto esclusivamente tra le USL ed i beni e le attrezzature aventi tali specifiche destinazioni, cosicche' una attribuzione al patrimonio indisponibile di esse di tutti i beni precedentemente appartenenti agli enti ospedalieri, in assenza di una espressa disposizione in tal senso, non appare ammissibile anche con riferimento alle finalita' perseguite in proposito dalla legge istitutiva del servizio sanitario nazionale". In senso conforme si e' espressa, tra altre, Cass. n. 7059/2010, la quale ha ribadito che "essendosi la L. n. 833 del 1978, articolo 66, comma 2, lettera b) limitata a prevedere il trasferimento al patrimonio del Comune, in cui sono collocati con vincolo di destinazione alle UU.SS.LL., dei beni e delle attrezzature gia' appartenenti agli enti ospedalieri, deve escludersi che - in mancanza di una espressa previsione - la norma abbia inteso attribuire al patrimonio del Comune tutti i beni gia' appartenenti ai predetti enti indipendentemente dalla loro effettiva destinazione pregressa e in assenza di qualsiasi collegamento di carattere funzionale con le competenze attribuite alle UU.SS.LL. dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale; infatti, lo stesso articolo 66, prevede l'affidamento alle medesime unita' sanitarie della gestione (soltanto) dei beni mobili ed immobili e delle attrezzature destinate ai servizi igienico-sanitari e all'esercizio di tutte le funzioni dei Comuni e dei loro consorzi in materia igienico-sanitaria (Cass. 1957/2007)". In buona sostanza, il vincolo di destinazione non e' automatico perche' non riguarda tutti i beni oggetto del trasferimento, pur attuato ope legis, ma solo quelli destinati ai servizi igienico-sanitari in base alla L. n. 833 del 1978, articolo 66. Immune da censure si prospetta, pertanto, la sentenza impugnata, la quale ha sostenuto che i beni di cui e' causa sono usucapibili, in quanto - per l'appartenenza dei beni al patrimonio indisponibile - deve sussistere anche il requisito oggettivo dell'effettiva destinazione dei beni al pubblico servizio, mancante nella specie perche' da decenni i beni di cui si discute hanno avuto una destinazione privata. E' il caso di precisare che la sentenza n. 18214/2017, citata dalla ricorrente a sostegno della sua tesi, riguarda un bene appartenente a un disciolto ente ospedaliero, mentre nel caso de quo emerge dalla lettura della pronuncia impugnata e dagli atti di causa, anche dal controricorso della Citta' Metropolitana di (OMISSIS), che i beni in questione, utilizzati con destinazione a civile abitazione, nel 2007 ancora formalmente intestati presso la Conservatoria dei RR.II. alla Parrocchia di (OMISSIS) (dunque, non ad un ente ospedaliero), erano stati espropriati dal Prefetto di (OMISSIS) a favore dell'Amministrazione Provinciale di (OMISSIS) nel corso dell'anno 1995, senza avere mai avuto una destinazione a servizio di tipo sanitario. 6. - Anche il secondo motivo e' infondato. Lo stesso non riesce a superare quanto affermato da questa Corte di legittimita' riguardo alla tassativita' degli atti interruttivi del termine ad usucapire, in forza del combinato disposto degli articoli 1165 e 2943 c.c., che non ammette equipollenti (cfr., tra altre, Cass. n. 6029/2019; n. 14659/2012) e si scontra con il rilievo che l'atto di disposizione con il quale i beni oggetto del giudizio furono trasferiti dal Comune di Napoli all'ASL di Napoli (OMISSIS), nonostante costituisca esercizio del diritto di proprieta', quale esplicazione della titolarita' formale di questo diritto, non incide sul potere di fatto dell'usucapiente (Cass. nn. 18095/2014; 2752/2018). Correttamente pertanto il giudice di appello ha ritenuto tale atto non idoneo ad interrompere il termine utile ad usucapire di (OMISSIS), anche se conosciuto dal possessore, non esercitando lo stesso alcuna incidenza sulla situazione di fatto utile ai fini dell'usucapione e "rappresentando, rispetto al possessore, "res inter alios acta", ininfluente sulla prosecuzione dell'esercizio della signoria di fatto sul bene, non impedito materialmente, ne' contestato in modo idoneo" (Cass. n. 2752/2018). 7. - Il terzo motivo e' inammissibile. Esso si risolve in una richiesta - non consentita in questa sede - di riesame dell'accertamento del fatto compiuto dal giudice di merito, come comprovano le doglianze con le quali si insiste a ribadire l'insufficienza della prova testimoniale ai fini della dimostrazione del possesso ad usucapionem (insufficienza peraltro sconfessata dalla sentenza impugnata, la quale ha fatto riferimento, oltre che ai testi escussi, "sulla cui attendibilita' non si ha motivo di dubitare", anche sulle numerose prove documentali prodotte in giudizio). 8. - Il rigetto del primo motivo priva di immediata rilevanza decisoria il quarto mezzo di ricorso, che riguarda il mancato accoglimento della domanda di risarcimento del danno da occupazione, il quale deve essere dichiarato assorbito. 9. - Il ricorso va pertanto rigettato, con conseguente condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo, nei confronti dei soli controricorrenti (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS). Nessuna condanna alle spese deve essere pronunciata in favore della controricorrente Citta' Metropolitana di (OMISSIS), risultando inammissibile il controricorso da essa presentato, in quanto sul difetto di legittimazione passiva di tale parte processuale, riconosciuto dal primo giudice e confermato dalla decisione del giudice di seconde cure, si e' formato il giudicato (come la stessa controricorrente riconosce). 10. - Stante il tenore della pronuncia, va dato atto - ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater - della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell'impugnazione, se dovuto. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore dei soli controricorrenti (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), delle spese del giudizio di legittimita', che liquida in Euro 6.000,00 (seimila) per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Da' atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 15, 17 e 24 della legge della Regione Lombardia 6 agosto 2021, n. 15 (Assestamento al bilancio 2021-2023 con modifiche di leggi regionali), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato l’11 ottobre 2021, depositato in cancelleria il 14 ottobre 2021, iscritto al n. 62 del registro ricorsi 2021 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2021. Visto l’atto di costituzione della Regione Lombardia; udito nell’udienza pubblica del 4 ottobre 2022 il Giudice relatore Giulio Prosperetti; uditi l’avvocato dello Stato Alfonso Peluso per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Alessandra Zimmitti e Piera Pujatti per la Regione Lombardia; deliberato nella camera di consiglio del 6 ottobre 2022. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso notificato l’11 ottobre 2021 e depositato il successivo 14 ottobre (reg. ric. n. 62 del 2021), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 15, 17 e 24 della legge della Regione Lombardia 6 agosto 2021, n. 15 (Assestamento al bilancio 2021-2023 con modifiche di leggi regionali). 2.– Il ricorrente impugna l’art. 15 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021 per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, ritenendolo lesivo della competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, in quanto in contrasto con gli artt. 1, comma 1 [, lettera b)], e con l’Allegato 3, capitolo 2.1., schede prodotti numeri 21), 22) e 23) del decreto legislativo 29 aprile 2010, n. 75 (Riordino e revisione della disciplina in materia di fertilizzanti, a norma dell’articolo 13 della legge 7 luglio 2009, n. 88), con gli artt. 184 e 184-ter, comma 5, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), e con gli artt. 9, comma 3, 13 e 15 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99 (Attuazione della direttiva 86/278/CEE concernente la protezione dell’ambiente, in particolare del suolo, nell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura). 2.1.– L’articolo impugnato stabilisce che: «l. Al fine di salvaguardare la qualità delle produzioni agricole o anche dei suoli e prevenire l’insorgere di fenomeni o processi di degrado e di inquinamento ambientale, nonché a tutela della salute, i fanghi impiegabili per la produzione dei gessi di defecazione da fanghi, dei gessi di defecazione o dei carbonati di calcio da defecazione per il relativo utilizzo sui suoli della regione sono quelli idonei all’utilizzo agronomico e conformi agli standard ai sensi della normativa statale e della specifica disciplina regionale attuativa di riferimento. 2. In applicazione del principio di precauzione nell’azione in materia ambientale e nelle more della revisione del decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 99 (Attuazione della direttiva n. 86/278/CEE concernente la protezione dell’ambiente, in particolare del suolo, nell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura), all’utilizzo del “gesso di defecazione da fanghi”, secondo quanto previsto dalla scheda prodotto n. 23) dell’Allegato 3, capitolo 2.l., del decreto legislativo 29 aprile 2010, n. 75 (Riordino e revisione della disciplina in materia di fertilizzanti, a norma dell’articolo 13 della legge 7 luglio 2009, n. 88), si applicano le regole di tracciabilità, di cui agli articoli 9, comma 3, 13 e 15 del d.lgs. 99/1992, previste per l’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura. 3. Le disposizioni di cui al comma 2 si applicano anche al “carbonato di calcio da defecazione” e al “gesso di defecazione”, ottenuti da fanghi di depurazione. 4. Con una o più deliberazioni, la Giunta regionale può stabilire, per le finalità di cui al comma l, eventuali ulteriori aspetti della disciplina sull’utilizzo dei fanghi in agricoltura da applicare ai gessi di defecazione da fanghi, ai gessi di defecazione e ai carbonati di calcio da defecazione, prodotti utilizzando fanghi di depurazione. 5. Le previsioni di cui ai commi da 1 a 4 si applicano agli utilizzi in agricoltura effettuati a partire dal 1 febbraio 2022. 6. Fermo restando quanto previsto al comma 5, entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge, le autorità competenti riesaminano le autorizzazioni già rilasciate per la produzione dei fertilizzanti di cui al comma l, ai fini dell’adeguamento alle disposizioni di cui al presente articolo». 2.2.– In proposito, l’Avvocatura generale dello Stato rileva che l’art. 1, comma 1, [recte: l’art. 2, comma 1] lettera aa), del d.lgs. n. 75 del 2010 stabilisce la definizione di «correttivi» come «materiali da aggiungere al suolo in situ principalmente per modificare e migliorare proprietà chimiche anomale del suolo dipendenti da reazione, salinità, tenore in sodio, i cui tipi e caratteristiche sono riportati nell’allegato 3» e che l’Allegato 3, capitolo 2, del d.lgs. n. 75 del 2010 nell’elencare, per tutti i tipi di correttivi, le modalità di preparazione, i componenti essenziali e gli altri requisiti e caratteristiche, prevede nella scheda prodotto numero 23) – recante le prescrizioni per la preparazione del correttivo denominato «gesso di defecazione da fanghi» – che solo per la sua produzione sia consentito l’utilizzo dei fanghi di depurazione delle acque reflue, diversamente da quanto invece stabilito nelle schede prodotti numeri 21) e 22), tabella 2.1 «Correttivi calcici e magnesiaci», colonna 3 «Modo di preparazione e componenti essenziali», relativi ai correttivi «[g]esso di defecazione» e «[c]arbonato di calcio di defecazione». Pertanto, il ricorrente ritiene che i commi 1, 3 e 4 dell’art. 15 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021, nello stabilire che per la preparazione dei correttivi «[g]esso di defecazione» e «[c]arbonato di calcio di defecazione» possano essere impiegati i fanghi di depurazione delle acque reflue, si pongano in evidente contrasto con la disciplina statale richiamata, violando l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. che riserva allo Stato la competenza legislativa in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. La difesa dello Stato reputa, poi, che il comma 2 dell’art. 15 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021, estendendo al correttivo «[g]esso di defecazione da fanghi» l’applicazione delle regole di tracciabilità stabilite per i fanghi di depurazione dagli artt. 9, comma 3, 13 e 15 del d.lgs. n. 99 del 1992, contrasti «sia con le disposizioni contenute nel d.lgs. 75/2010 che riconoscono ai fertilizzanti conformi alle disposizioni in esso contenute il titolo di prodotto, e sia con le disposizioni di cui al comma 5 dell’art. 184-ter del d.lgs. 152/2006, che prevedono l’applicabilità della disciplina in materia di rifiuti, nell’ambito di un’operazione di recupero, esclusivamente sino alla cessazione della qualifica di rifiuto ovvero, nel caso specifico del “gesso di defecazione da fanghi”, sino alla preparazione del correttivo secondo le specifiche riportate nella scheda 23, dell’allegato 3, punto 2, del d.lgs. 75/2010, e non durante il successivo utilizzo». Per queste ragioni, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna le anzidette disposizioni regionali per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. 2.3.– L’Avvocatura generale impugna anche l’art. 17 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021, ai sensi del quale «1. Alle Aziende di Servizi alla Persona (ASP) derivanti dalla trasformazione delle Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza in attuazione della legge regionale 13 febbraio 2003, n. 1 (Riordino della disciplina delle Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza operanti in Lombardia), che rientrano nella rete territoriale regionale quali enti gestori di unità di offerta preposte all’erogazione dei livelli di assistenza di cui al capo IV “Assistenza sociosanitaria” del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017 (Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502), che hanno dovuto affrontare i maggiori costi legati alla gestione dell’emergenza sanitaria entro un quadro normativo che le esclude dal campo di applicazione dei soggetti che possono beneficiare della Cassa Integrazione Guadagni – D.Lgs. 150/2015 e successivi, L. 178/2020, D.L. 41/2021, D.L. 73/2021 – è possibile riconoscere fino al 100 per cento del budget assegnato nell’ambito dei contratti sottoscritti per l’esercizio 2020. Il predetto riconoscimento tiene conto sia dell’attività ordinariamente erogata nel corso dell’anno 2020 di cui deve essere rendicontata l’effettiva produzione, sia, fino a concorrenza del predetto limite massimo del 100 per cento del budget sottoscritto, di un contributo una tantum legato all’emergenza in corso ed erogato a ristoro dei soli costi fissi a rilevanza sanitaria sostenuti dalle ASP. A tal fine si applicano le modalità previste per l’attuazione delle norme di cui agli articoli 4, commi 5-bis e 5-ter, e 109 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19) convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77. 2. La spesa di cui al comma 1 trova copertura nel quadro delle risorse previste a legislazione vigente sull’esercizio 2020». In proposito, il ricorrente evidenzia che le Aziende di servizi alla persona (ASP) operanti in Lombardia derivano dalla trasformazione delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) e apparterrebbero al settore sanitario, presentando un peculiare regime giuridico. L’Avvocatura evidenzia il contrasto della disposizione impugnata con l’art. 4, commi 5-bis e 5-ter, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, che attribuisce alle regioni e Province autonome di Trento e Bolzano la possibilità di riconoscere alle «strutture private accreditate» destinatarie di un budget «fino a un massimo del 90 per cento del budget assegnato nell’ambito degli accordi e dei contratti di cui all’articolo 8-quinquies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, stipulati per l’anno 2020, ferma restando la garanzia di riequilibrio economico del Servizio sanitario regionale» (comma 5-bis). Ad avviso del ricorrente, infatti, il «riconoscimento del 100% del budget previsto dall’articolo 17 della legge in esame» deve ritenersi «contrario alla ratio della norma nazionale e induce una spesa non giustificata dalle attività assistenziali a carico del SSR lombardo», con la conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., che stabilisce la competenza legislativa esclusiva statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e dell’art. 117, terzo comma, Cost. che attribuisce allo Stato il compito di stabilire i principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica. 2.4.– Infine, il ricorrente impugna l’art. 24 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021 per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., nonché degli artt. 3, 41 e 120 Cost., ritenendolo in contrasto con le previsioni dell’art. 3, comma 29, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). Ad avviso del ricorrente, infatti, la disposizione impugnata, nel novellare l’art. 53 della legge della Regione Lombardia 14 luglio 2003, n. 10 (Riordino delle disposizioni legislative regionali in materia tributaria – Testo unico della disciplina dei tributi regionali), si sarebbe discostata dai criteri previsti dal suddetto art. 3, comma 29, della legge n. 549 del 1995, prevedendo una tassazione più elevata rispetto a quella consentita dalla legislazione statale. Inoltre, secondo la difesa dello Stato, la disposizione impugnata «oltre a violare il suddetto parametro statale interposto costituito dalla legge n. 549/1995, si traduce di fatto in una misura potenzialmente limitativa all’introduzione di rifiuti speciali di provenienza extraregionale, con il conseguente concretarsi di un ostacolo alla libera circolazione delle cose. Trattasi di una imposizione tributaria superiore alla misura massima prevista dal legislatore nazionale, che colpisce la circolazione dei beni e che si appalesa di per sé discriminatoria nei confronti di soggetti collocati fuori dal territorio regionale». Da ciò deriverebbe il contrasto della norma con i parametri di cui agli artt. 3, 41 e 120 Cost., in quanto questa, ad avviso del ricorrente: «a. introduce un trattamento sfavorevole per le imprese esercenti l’attività di smaltimento operanti al di fuori del territorio regionale; b. restringe la libertà di iniziativa economica in assenza di concrete e giustificate ragioni attinenti alla tutela della sicurezza, della libertà e della dignità umana, valori che non possono ritenersi posti in pericolo dall’attività di smaltimento controllato e ambientalmente compatibile dei rifiuti; c. introduce un ostacolo alla libera circolazione di cose tra le Regioni, senza che sussistano ragioni giustificatrici, neppure di ordine sanitario o ambientale (cfr. sentenza n. 335 del 2001), violando il vincolo generale imposto alle Regioni dall’art. 120, primo comma, Cost.». L’Avvocatura generale dello Stato ritiene, inoltre, che la disposizione impugnata si ponga in contrasto con quanto recentemente stabilito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 82 del 2021, in tema di aumento del tributo speciale per il conferimento in discarica di rifiuti provenienti da fuori Regione. In tale decisione, infatti, è stato chiarito che il riconoscimento dell’autonomia finanziaria delle regioni in materia ambientale e la conseguente differenziazione impositiva tra regioni «non può […] mai degenerare in un’ulteriore differenziazione stabilita solo in ragione del mero transito di un determinato bene attraverso il confine regionale». 3.– Con atto depositato in data 10 novembre 2021, si è costituita in giudizio la Regione Lombardia, che ha integrato tale atto, in data 4 agosto 2022, con una ulteriore memoria difensiva. 3.1.– La resistente nelle proprie difese evidenzia che, a far data dal 21 dicembre 2021, l’art. 15 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021 è stato modificato. Più precisamente, il comma 3 di detto articolo è stato abrogato dall’art. 20, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lombardia 16 dicembre 2021, n. 23 (Seconda legge di revisione normativa ordinamentale 2021), mentre i commi 1 e 4 sono stati riformulati dall’art. 20, comma l, lettere a) e c), della medesima legge regionale che hanno, rispettivamente, soppresso le parole, presenti nei testi previgenti, «dei gessi di defecazione o dei carbonati di calcio da defecazione» e «ai gessi di defecazione e ai carbonati di calcio da defecazione, prodotti utilizzando fanghi di depurazione». Alla luce di tali modifiche, la Regione Lombardia sostiene che per le relative questioni sia intervenuta la cessazione della materia del contendere, in quanto le sopravvenienze normative dovrebbero considerarsi pienamente satisfattive delle censure promosse dal ricorrente e le norme impugnate non avrebbero trovato applicazione medio tempore, essendo previsto dal comma 5 dello stesso art. 15 che si applicassero agli utilizzi in agricoltura solo a partire dal 1° febbraio 2022, mentre lo ius superveniens è entrato in vigore il 21 dicembre 2021. Quanto, invece, alle censure aventi ad oggetto il comma 2 dell’art. 15, rimasto immutato, la difesa regionale evidenzia che la disposizione impugnata è finalizzata ad ostacolare pratiche abusive e a garantire una maggiore difesa dell’ambiente, anche in relazione alla competenza regionale esclusiva in materia di agricoltura e di quella, concorrente, in materia di tutela della salute. Detta disposizione sarebbe stata introdotta, in applicazione del principio di precauzione e, comunque, con carattere di transitorietà e cedevolezza rispetto alla normativa nazionale, allo scopo di accrescere il livello di tutela ambientale del territorio regionale. 3.2.– La difesa regionale sostiene, poi, l’inammissibilità e, in ogni caso, la non fondatezza del ricorso anche con riferimento alle censure aventi ad oggetto l’art. 17 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021. In proposito, la Regione evidenzia che la norma impugnata ha l’obiettivo di ristorare finanziariamente le ASP, tenuto conto che le stesse hanno dovuto affrontare i maggiori oneri connessi all’emergenza epidemiologica, anche in considerazione dell’esclusione del proprio personale dai benefici della cassa integrazione guadagni. La specifica misura adottata sarebbe, in altri termini, funzionale al perseguimento di obiettivi afferenti alla tutela della salute sul territorio e andrebbe, pertanto, considerata nell’ambito della materia di legislazione concorrente della tutela della salute di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. In proposito, la Regione Lombardia evidenzia che la Corte costituzionale ha avuto modo di osservare, anche nella recente sentenza n. 9 del 2022, che l’organizzazione sanitaria è parte integrante della materia «tutela della salute» di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., per cui la disposizione regionale impugnata risulterebbe del tutto legittima. 4.– Infine, la Regione Lombardia sostiene l’inammissibilità e, comunque, la non fondatezza delle censure formulate nel ricorso avverso l’art. 24 della legge regionale n. 15 del 2021, difendendosi anche nel merito. In particolare, la Regione Lombardia, premessa una articolata ricostruzione della normativa regionale in rapporto alle norme interposte, ritiene che la maggiorazione stabilita dall’art. 53, comma 8, della legge reg. Lombardia n. 10 del 2003, prevista esclusivamente per i rifiuti derivanti dal trattamento da impianti di altre regioni nei quali vengono trattati anche rifiuti urbani, intende dare specifica e concreta attuazione ai principi di autosufficienza e prossimità, allo scopo di ridurre quanto più possibile la movimentazione dei rifiuti stessi. Pertanto le censure promosse nel ricorso avverso l’art. 24 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021 dovrebbero ritenersi totalmente prive di fondamento. Considerato in diritto 1.– Con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 62 del 2022), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 15, 17 e 24 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021. 1.2.– Il ricorrente impugna l’art. 15 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021 per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., ritenendo che i commi 1, 3 e 4, nello stabilire che, per la preparazione dei correttivi «[g]esso di defecazione» e «[c]arbonato di calcio da defecazione», possano essere impiegati i fanghi di depurazione delle acque reflue, si pongano in contrasto con la disciplina statale contenuta nel d.lgs. n. 75 del 2010, che consente l’utilizzazione dei fanghi solo con riferimento al correttivo «gesso di defecazione da fanghi». Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, anche il comma 2 dell’art. 15 violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in quanto prevede la tracciabilità del «gesso di defecazione da fanghi», qualificato dal d.lgs. n. 75 del 2010 come «correttivo», rinviando alla disciplina stabilita dagli artt. 9, comma 3, 13 e 15 del d.lgs. n. 99 del 1992 per i fanghi, considerati invece dalla legge statale come rifiuti. 1.3.– È, inoltre impugnato, l’art. 17 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021 con cui la Regione Lombardia riconosce alle Aziende di servizi alla persona (ASP) «fino al 100 per cento del budget assegnato nell’ambito dei contratti sottoscritti per l’esercizio 2020», in preteso contrasto con quanto stabilito dall’art. 4, commi 5-bis e 5-ter, del d.l. n. 34 del 2020 come convertito, che attribuisce alle regioni e Province autonome di Trento e Bolzano la possibilità di riconoscere alle strutture destinatarie di un budget «fino a un massimo del 90 per cento del budget assegnato nell’ambito degli accordi […] stipulati per l’anno 2020, ferma restando la garanzia dell’equilibrio economico del Servizio sanitario regionale» (comma 5-bis). Ad avviso del ricorrente, infatti, il riconoscimento del 100 per cento del budget previsto dalla disposizione regionale determinerebbe la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in materia di livelli essenziali delle prestazioni, in quanto sottrarrebbe le risorse assegnate a questi, e dell’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di coordinamento della finanza pubblica. 1.4.– Infine, è impugnato l’art. 24 della legge regionale n. 15 del 2021, che ha novellato l’art. 53, in particolare il comma 8 della legge n. 10 del 2003 (che all’epoca non era stata impugnata), in quanto ritenuto lesivo dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., che stabilisce la competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, e degli artt. 3, 41 e 120 Cost., poiché in contrasto con le previsioni dell’art. 3, comma 29, della legge n. 549 del 1995. 2.– In relazione all’impugnazione dei commi 1, 3 e 4 dell’art. 15 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021 va, preliminarmente, dichiarata la cessazione della materia del contendere a seguito delle novità normative intervenute dopo la proposizione del ricorso. A decorrere dal 21 dicembre 2021, infatti, il comma 3 dell’art. 15 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021 è stato abrogato dall’art. 20, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 23 del 2021, mentre i commi 1 e 4 dello stesso articolo sono stati riformulati dall’art. 20, comma l, lettere a) e c), della medesima legge regionale, che hanno soppresso le parole, presenti nei rispettivi testi previgenti, «dei gessi di defecazione o dei carbonati di calcio da defecazione» e «ai gessi di defecazione e ai carbonati di calcio da defecazione, prodotti utilizzando fanghi di depurazione. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «la modifica normativa della norma oggetto di questione di legittimità costituzionale in via principale intervenuta in pendenza di giudizio determina la cessazione della materia del contendere quando ricorrono simultaneamente le seguenti condizioni: occorre che il legislatore abbia abrogato o modificato le norme censurate in senso satisfattivo delle pretese avanzate con il ricorso e occorre che le norme impugnate, poi abrogate o modificate, non abbiano ricevuto applicazione medio tempore» (sentenza n. 238 del 2018; nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 185, n. 171 e n. 44 del 2018). Nel caso in esame, le sopravvenienze normative, anche tenendo conto di quanto affermato dalla difesa erariale in pubblica udienza, possono senz’altro considerarsi satisfattive rispetto alle doglianze che avevano originato l’impugnativa e le norme impugnate non hanno trovato applicazione medio tempore, considerato che il comma 5 dell’art. 15 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021 ne stabiliva l’applicazione a partire dal 1° febbraio 2022, mentre lo ius superveniens è entrato in vigore il 21 dicembre 2021. Va, pertanto, dichiarata cessata la materia del contendere in ordine alle dette questioni. 3.– Quanto, invece, alle censure aventi ad oggetto il comma 2 dell’art. 15 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021, la relativa questione non è fondata. La disposizione impugnata, estendendo all’utilizzo del correttivo «gesso di defecazione da fanghi» le regole di tracciabilità di cui agli artt. 9, comma 3, 13 e 15 del d.lgs. n. 99 del 1992, previste per l’utilizzazione dei fanghi in quanto rifiuti, non disciplina, infatti, una materia riconducibile a quella della tutela dell’ambiente, attribuita come tale alla potestà legislativa esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Trattandosi di regolamentare l’uso di un correttivo destinato, secondo quanto stabilito dal d.lgs. n. 75 del 2010, agli utilizzi in agricoltura allo scopo di modificare e migliorare le proprietà chimiche del suolo, si deve, infatti, ritenere che il legislatore regionale sia legittimamente intervenuto sul punto, nell’esercizio della propria competenza nella materia «agricoltura», di carattere residuale per le regioni a statuto ordinario (ex plurimis, sentenze n. 62 del 2013, n. 116 del 2006, n. 282 e n. 12 del 2004). Sebbene la giurisprudenza di questa Corte sia costante nel ritenere che la disciplina della gestione dei rifiuti deve essere ricondotta alla «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» (ex plurimis, sentenze n. 289 e n. 142 del 2019, n. 215, n. 151 e n. 150 del 2018) e che il potere di fissare livelli di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale è riservato allo Stato, ferma restando la competenza delle regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali (ex plurimis, sentenze n. 129 del 2019, n. 215, n. 151 e n. 150 del 2018, n. 85 del 2017), nel caso di specie il riferimento a una sostanza qualificata come rifiuto (i fanghi) è stato fatto dalla norma impugnata come mero rinvio materiale alle relative regole di tracciabilità, al solo scopo di prevederne l’applicazione anche per la sostanza correttiva «gesso di defecazione da fanghi». La disciplina dell’impiego di tale correttivo è, invece, come si è detto, riconducibile alla materia «agricoltura». La questione, pertanto, deve essere dichiarata non fondata. 4.– Va, invece, dichiarata l’inammissibilità delle questioni aventi ad oggetto l’art. 17 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021, impugnato per la ritenuta violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, e dell’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di coordinamento della finanza pubblica. In proposito, risulta decisiva, con riferimento alle norme interposte invocate come parametro dal ricorso statale – l’art. 4, commi 5-bis e 5-ter, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, che si riferisce a «strutture private accreditate» – la circostanza che le strutture destinatarie, le ASP, non rientrano nella suddetta categoria delle «strutture private accreditate» e che il ricorrente non spiega, in alcun modo, le ragioni del contrasto della norma impugnata con i parametri costituzionali invocati. Per quanto esposto, l’impugnazione è, pertanto, inammissibile per difetto di motivazione sulle ragioni del contrasto fra la disposizione impugnata e i parametri costituzionali ritenuti lesi (ex multis, sentenza n. 215 del 2015). 5.– Con riferimento alle censure aventi ad oggetto l’art. 24 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021, la Regione, nelle sue difese, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni concernenti le disposizioni dell’articolo impugnato diverse da quelle del comma 1, lettera g), del medesimo art. 24, che ha novellato il comma 8 dell’art. 53 della legge reg. Lombardia n. 10 del 2003. A ben vedere, non vi è, effettivamente, piena corrispondenza tra il ricorso dell’Avvocatura generale dello Stato e la delibera del Consiglio dei ministri che l’ha autorizzato, in quanto il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato solo l’articolo 24, comma 1, lettera g) che novella il comma 8 dell’articolo 53 della legge reg. n. 10 del 2003 e non le ulteriori disposizioni contenute nell’articolo 24, il che determina l’inammissibilità del ricorso sul punto. Questa Corte, infatti, ha costantemente affermato, con riferimento alle questioni proposte in via principale, il necessario requisito della suddetta corrispondenza tra il ricorso e la delibera del Consiglio dei ministri che l’ha autorizzato (ex plurimis, sentenze n. 199 del 2020, n. 83 del 2018, n. 152 del 2017, n. 265 e n. 239 del 2016). 5.1.– Si deve rilevare che anche la questione avente ad oggetto la disposizione effettivamente impugnata, che novella il comma 8 dell’art. 53 della legge reg. Lombardia n. 10 del 2003, deve essere dichiarata inammissibile. Va evidenziato, in proposito, che l’art. 24, comma 1, lettera g), della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021 ha modificato il comma 8 dell’art. 53 della legge regionale n. 10 del 2003, limitandosi però a disporre la sostituzione delle parole «e 5, lettera a)» con le parole «e 5», per una esigenza di adeguamento della norma alle modifiche apportate dal medesimo art. 24 e lasciando immutate le previgenti previsioni della norma. La parte della disposizione su cui si appuntano le censure del ricorrente, quella che stabilisce la maggiorazione del 50 per cento delle aliquote per i rifiuti che provengono da comuni ubicati fuori del territorio regionale, non è, pertanto, stata introdotta dalla norma impugnata che, come rilevato, si è limitata ad eliminare il riferimento alla lettera a) del comma 5; invero tale lettera non era più esistente, stante la riformulazione dell’intero comma 5, come prevista dalla lettera d) dello stesso art. 24. Pertanto l’impugnativa del Presidente del Consiglio dei ministri va dichiarata inammissibile, poiché riguarda in realtà disposizioni già contenute nel testo originario del comma 8 dell’art. 53 della legge regionale n. 10 del 2003, a suo tempo non impugnate. La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, costante nel ritenere che i termini per la notifica e per il deposito del ricorso devono intendersi stabiliti a pena di decadenza, perché se così non fosse le controversie fra lo Stato e le regioni potrebbero essere «instaurate sine die» (ex multis, sentenza n. 121 del 2010). Né, nel caso in esame, trattandosi della modifica di un semplice inciso contenuto nella norma, ricorre un’ipotesi di novazione della fonte che, altrimenti, avrebbe potuto consentire l’impugnazione della legge che avesse riprodotto una precedente disciplina non impugnata (ex multis, sentenza n. 9 del 2010). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 15, commi 1, 3 e 4, della legge della Regione Lombardia 6 agosto 202l, n. 15 (Assestamento al bilancio 2021-2023 con modifiche di leggi regionali), promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; 2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021, promosse, in riferimento all’art. 117, commi secondo, lettera m), e terzo, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; 3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24 della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021, promosse, in riferimento agli artt. 3, 41, 117, secondo comma, lettera s), e 120 Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; 4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 15 del 2021, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 ottobre 2022. F.to: Silvana SCIARRA, Presidente Giulio PROSPERETTI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 27 ottobre 2022. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 9610 del 2021, proposto da Ma. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Bo. e Ma. Bo., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; contro Federazione dei Comuni del (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Mi. Gr. e Vl. Pe., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; Ip. Vi., non costituito in giudizio; nei confronti Ro. Gi. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ra. Tu., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto Sezione terza n. 967/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Federazione dei Comuni del (omissis); Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ro. Gi. s.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del 7 giugno 2022 il Cons. Anna Bottiglieri e preso atto delle richieste di passaggio in decisione depositate dagli avvocati Gi. Bo., Ma. Bo., Mi. Gr., Vl. Pe. e Ra. Tu.; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. FATTO L'Ip. di Vi. indiceva una procedura ex art. 60 del d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 per l'affidamento per 24 mesi della fornitura di derrate alimentari necessarie alla preparazione dei pasti presso il centro di cottura dell'Ente mediante il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, che si concludeva, all'esito della nomina della commissione valutatrice e dell'espletamento delle operazioni da parte della stazione appaltante incaricata, Federazione dei Comuni del (omissis), con il provvedimento n. 10/2021 di aggiudicazione alla prima classificata Ro. Gi. s.r.l.. Ma. s.p.a., seconda classificata, impugnava davanti al Tribunale amministrativo regionale per il Veneto l'aggiudicazione, i verbali di gara, la determina di nomina della commissione valutatrice, l'atto di reiezione della sua istanza di autotutela, nonché, in parte qua, il disciplinare di gara. Sostenuta l'illegittimità degli atti impugnati sotto vari profili, domandava l'annullamento dell'intera procedura, la declaratoria di inefficacia del contratto ove sottoscritto nelle more del giudizio e la rinnovazione della gara. L'adito Tar definiva la causa con sentenza della Sezione terza n. 967/2021 che, nella resistenza della Federazione e della controinteressata, respingeva il ricorso e condannava la ricorrente alle spese del giudizio. Ma. ha impugnato la predetta sentenza. Illustrati in fatto i passaggi della procedura ritenuti viziati e lo svolgimento del giudizio di primo grado, ha dedotto avverso la sentenza gravata cinque motivi di appello (i primi quattro articolati in sub motivi), titolati: 1) Erroneità e ingiustizia nella parte in cui non ha accolto il primo motivo di ricorso, finalizzato ad ottenere il travolgimento dell'intera procedura in ragione della illegittima nomina della commissione giudicatrice; 2) Erroneità e ingiustizia nella parte in cui non ha accolto il secondo e il terzo motivo di ricorso, finalizzati a ottenere il travolgimento dell'intera procedura in ragione dell'omessa dimostrazione del superamento della prova di resistenza; 3) Erroneità e ingiustizia nella parte in cui non ha accolto il secondo motivo di ricorso, finalizzato ad ottenere il travolgimento dell'intera procedura in ragione dell'illegittimo utilizzo del metodo di valutazione delle offerte tecniche; 4) Erroneità e ingiustizia nella parte in cui non ha accolto il terzo motivo di ricorso, finalizzato ad ottenere il travolgimento dell'intera procedura in ragione dell'insufficienza della motivazione meramente numerica e della assoluta identicità di tutti i punteggi attribuiti dai commissari di gara; 5) Ingiustizia nella parte in cui ha ritenuto inammissibili le censure relative alla manifesta erroneità nell'attribuzione dei punteggi da parte dei commissari, dedotte al solo fine di "contribuire a rendere l'idea di come la commissione abbia mal esercitato il proprio potere". Ha indi reiterato le domande formulate in primo grado. La Federazione dei Comuni e la controinteressata Ma. si sono costituite in giudizio. Hanno speigato eccezioni di rito e di merito e concluso per la reiezione dell'appello. Tutte le parti hanno affidato a memorie lo sviluppo delle proprie argomentazioni difensive. La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 7 giugno 2022. DIRITTO 1. Il primo motivo dell'appello di Ma. s.p.a. si dirige avverso la parte della impugnata sentenza di primo grado che, mediante corpose considerazioni, correlate alla latitudine delle censure oggetto di scrutinio, ha respinto il primo motivo del ricorso della società, finalizzato al travolgimento dell'intera procedura della gara di cui in fatto in ragione della ritenuta illegittimità dell'atto di nomina della commissione valutatrice da parte della stazione appaltante Federazione dei Comuni del (omissis). Pertanto, ai fini della comprensione delle questioni poste dal motivo, è necessario illustrare, in sintesi e nell'ordine, le doglianze originarie di Ma. e l'avviso al riguardo espresso dal giudice di prime cure. 2. Ma., mediante il primo motivo di gravame dell'atto introduttivo del giudizio (violazione degli artt. 77, 78 e 216 del d.lgs. 50/2016; eccesso di potere), aveva lamentato l'illegittimità del provvedimento di nomina della commissione valutatrice per: carenza di un preventivo atto o regolamento di individuazione dei criteri di competenza e trasparenza nella scelta dei commissari, in violazione dell'art. 216 comma 12 del d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50; mancata esternazione delle ragioni della scelta dei medesimi, non essendo all'uopo sufficienti i riferimenti contenuti nell'atto di nomina all'esperienza professionale connessa al ruolo ricoperto all'interno degli enti di appartenenza, da cui la "fiduciarietà " della nomina; carenza di motivazione dell'(auto)nomina del RUP quale presidente della commissione in ordine al rispetto dei criteri di trasparenza, capacità e indipendenza; carenza delle dichiarazione di insussistenza di cause di incompatibilità dei componenti, sostituita da una "attestazione per notorietà " del presidente della commissione. 3. Il Tar, richiamato il precitato art. 216 comma del d.lgs. 50/2016 ("Fino alla adozione della disciplina in materia di iscrizione all'Albo di cui all'articolo 78, la commissione giudicatrice continua ad essere nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante") ha respinto tutte le censure del motivo rilevando che: - per costante giurisprudenza, l'assenza di criteri approvati a "monte" delle procedure di gara da parte della stazione appaltante non determina ex se l'illegittimità della nomina della commissione, rilevando piuttosto, sotto il profilo sostanziale, se la commissione di gara risulti oggettivamente costituita secondo regole di trasparenza e competenza, anche per il caso di nomina di componenti interni; - nel caso di specie, la censura, contro tale giurisprudenza, era volta a evidenziare una irregolarità meramente formale, restando non contestata né dimostrata una effettiva e concreta violazione degli invocati principi di competenza e trasparenza; - vieppiù, la censura era infondata a monte in quanto: con deliberazione n. 41/2015 la Federazione, nel costituire presso di sé la centrale di committenza con funzioni di CUC, aveva approvato l'allegato schema di convenzione, cui avrebbero potuto aderire gli enti interessati (comuni non capoluogo di provincia, stazioni appaltanti, enti aggiudicatori), prevedente all'art. 6 comma 8 che "L'Ente convenzionato si impegna a mettere a disposizione della Federazione, secondo il principio di rotazione ed in base alle specifiche professionalità, i propri funzionari, affinché gli stessi ricoprano il ruolo di Presidente\componente delle commissioni aggiudicatrici delle gare da aggiudicarsi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa che siano esperite dalla centrale di committenza per conto degli Enti aderenti"; l'Ip. di Vi. (ente nel cui interesse la Federazione ha espletato la gara per cui è causa), nell'aderire alla CUC della Federazione, aveva stipulato con quest'ultima il 29 maggio 2018 la convenzione n. 10142 che, all'art. 6 comma 8, riporta la previsione relativa alle modalità di individuazione dei componenti della commissione giudicatrice "secondo il principio di rotazione ed in base alle specifiche professionalità "; in coerenza con i suddetti atti, l'Ipab di Vincenza, nella determinazione n. 465/2020 di indizione della procedura (non impugnata), richiamata la predetta convenzione n. 10142, aveva commesso alla Federazione l'espletamento delle successive fasi di gara (art. 37 comma 4 d.lgs. 50/2016), ivi inclusa la nomina della commissione giudicatrice; altrettanto coerentemente, la Federazione, con provvedimento n. 208/2020, richiamata la propria determinazione n. 41/2015, la convenzione stipulata con l'Ip. di Vi. il 29 maggio 2018 e l'atto n. 465/2020 di indizione della gara, aveva provveduto alla nomina e alla costituzione della commissione giudicatrice, secondo le indicazioni e le prescrizioni stabilite in questi atti. Si trattava pertanto di un sistema definito a monte e in via generale per tutti gli appalti gestiti dalla Federazione, in forza delle convenzioni sottoscritte dagli enti aderenti e in particolare della convenzione stipulata con l'Ip. di Vi., in conformità al regime transitorio di cui al predetto art. 216 comma 12 del d.lgs. n. 50/2016 e nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione e competenza: la nomina della commissione non necessitava quindi di ulteriori motivazioni; - quanto ai componenti della commissione, la scelta era avvenuta selezionando personale interno alla CUC e dipendenti di enti convenzionati (un funzionario del Settore economato dell'Ip. di Vi., già responsabile del coordinamento della cucina dell'Ipab stesso; un funzionario responsabile dell'Ufficio ragioneria ed economato della Casa di riposo San Giuseppe di Orgiano; il responsabile della centrale di committenza, nelle funzioni di presidente), che garantivano in ragione dei ruoli ricoperti il possesso di adeguata professionalità, come evidenziato nel provvedimento di nomina, che non era scalfito dalle censure ricorsuali, che asserivano il contrario senza allegare a sostegno alcun concreto elemento; - non costituivano vizio neanche le mancate dichiarazioni di insussistenza di cause di incompatibilità da parte dei singoli componenti della commissione, atteso che tale dichiarazione era stata resa nel provvedimento di nomina dal responsabile del servizio CUC, che aveva all'uopo richiamato l'art. 77 del d.lgs. 50/2016 e, in particolare, la previsione secondo cui "I commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta", e precisato che "per i commissari di cui sopra, è nota l'inesistenza, a loro carico, di cause di incompatibilità e di astensione" di cui agli artt. 77, commi 4, 5 e 6, e 42 del d.lgs. 50/2016 e dell'art. 35-bis del d.lgs. 165/2001, laddove la ricorrente non aveva affermato la sussistenza (né, tanto meno, fornito prova) di ipotesi di incompatibilità a carico dei commissari, cosa che, peraltro, avrebbe dovuto contestare tempestivamente. 4. A questo punto può essere rilevato che con la prima doglianza del primo motivo (rubricata come I.1) l'appellante sostiene l'erroneità e l'ingiustizia della parte della sentenza che ha ritenuto provata la sussistenza di una "procedimentalizzazione" della nomina della commissione valutatrice a monte della procedura, nonostante la convenzione che la prevederebbe, citata negli atti di gara, non sia mai stata prodotta, e la convenzione prodotta non sia mai stata richiamata negli stessi atti, e sia in ogni caso scaduta il 1° aprile 2020, prima della indizione della gara (21 ottobre 2020). Lamenta poi che il Tar abbia omesso di pronunziare su tali dirimenti censure. 4.1. Si tratta di doglianze che non colgono nel segno. In linea generale, come affermato dal Tar, nell'ambito delle gare pubbliche la mancata predeterminazione dei criteri di nomina della commissione valutatrice non vizia ex se la nomina, atteso che "sebbene sia preferibile la previa incorporazione delle regole di procedura in un atto fonte della stazione appaltante, l'operato non diventa illegittimo per il sol fatto della mancata previa formalizzazione di dette regole. Occorre dimostrare che, in concreto, sono mancate le condizioni di trasparenza e competenza" (Cons. Stato, III, 10 luglio 2019, n. 4865; conformemente, III, 4 novembre 2020, n. 6818 e V, 17 marzo 2022, n. 1936). Nello specifico, poi, il giudice di prime cure ha individuato gli atti che hanno predeterminato i criteri di nomina di cui l'appellante continua a lamentare la carenza. Essi sono da rinvenire, a monte, nello schema di convenzione (art. 6 comma 8) allegato alla deliberazione n. 41/2015 della Federazione dei Comuni del (omissis), che ha individuato le modalità di individuazione dei componenti delle commissioni valutatrici delle gare affidate alla CUC nei sensi già sopra evidenziati. A tale schema si sono poi uniformati l'art. 6 comma 8 della convenzione n. 10142 del 29 maggio 2018 intervenuta tra la Federazione e l'Ip. di Vi., e la delibera di quest'ultima n. 465/2020 (atto, come pure rilevato dal primo giudice, non impugnato), che nell'indire la procedura ha stabilito di demandare alla Federazione le potestà connesse alle funzioni di stazione appaltante, ivi incluse la nomina della commissione valutatrice e l'aggiudicazione. Tutti tali atti sono stati richiamati nelle premesse dell'impugnato provvedimento di nomina della commissione de qua. Tanto chiarito, si osserva che l'appellante, pur essendo stata posta per via dei richiami contenuti nel provvedimento di nomina della commissione nelle condizioni di contestare la qui asserita incoerente tempistica della appena illustrata congerie di atti sin dal momento della proposizione del ricorso di primo grado, ha invece strutturato la sua impugnativa sul presupposto che lo stesso atto di nomina "... non rinvia a - ne dà atto di applicare - un proprio precedente atto e/o regolamento con il quale abbia preventivamente individuato criteri di competenza e trasparenza per la scelta dei commissari..." (pag. 9 ricorso). E' allora non può che concludersi che: - bene ha fatto il Tar, alla luce dei predetti atti, a respingere una siffatta censura secondo l'iter argomentativo di cui sopra; - nel relativo percorso, il Tar non è incorso nel vizio di omessa pronuncia qui denunziato, avendo respinto la doglianza di mancata predeterminazione dei criteri di nomina per come strutturata dall'interessata. Si rammenta che l'art. 112 Cod. proc. civ., Corrispondenza tra chiesto e pronunciato, in coerenza con l'articolo 99 dello stesso Codice, Principio della domanda, e con l'art. 2907 Cod. civ., stabilisce che il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa, principio che deve intendersi violato "allorquando il giudice alteri petitum e causa petendi pronunciandosi in merito ad un bene diverso da quello richiesto, nemmeno compreso implicitamente nella domanda o qualora ponga a fondamento della decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo una causa petendi nuova e diversa rispetto a quella contenuta nella domanda" (Cons. Stato, V, 11 aprile 2016, n. 1419). E non rileva in questa sede che il principio tolleri "l'esame di una questione non espressamente formulata qualora questa debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione o ricomprensione" (n. 1419/2016, cit.), fattispecie che non può dirsi qui sussistente, in quanto una cosa è l'affermazione che il provvedimento di nomina della commissione non rimandi né applichi criteri predeterminati, formulata dalla deducente sulla base di una lacunosa lettura dell'atto, altra cosa è la questione qui proposta dell'applicabilità, sotto il profilo temporale, di criteri recati da altri atti a carattere generale in esso richiamati; - questa ultima doglianza, avanzata solo nella presente sede, è evidentemente inammissibile: il perimetro del giudizio di appello è circoscritto dalle censure ritualmente sollevate in primo grado, sicché non possono trovare ingresso le censure nuove, proposte per la prima volta in appello in violazione del divieto dei nova sancito dall'art. 104 Cod. proc. amm. (sul punto, da ultimo, Cons. Stato, IV, 13 maggio 2022, n. 3769). 4.2. Alle stesse conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla seconda doglianza del primo motivo (I.1.), con cui l'appellante lamenta l'erroneità e l'ingiustizia della sentenza nella parte in cui avrebbe "ritenuto, immotivatamente, che sia stata rispettata la procedimentalizzazione prescritta dalla convenzione" in quanto: l'atto di nomina non ha dato contezza della prodromica selezione da parte degli enti convenzionati dei funzionari messi a disposizione della stazione appaltante in ossequio ai principi di rotazione e professionalità ; non è stata provata l'adesione alla CUC della Casa di risposo San Giuseppe di Orgiano, ente di appartenenza di uno dei nominati componenti della commissione; la stessa procedimentalizzazione sarebbe incompatibile con il fatto che il RUP si è "autonominato" presidente della commissione. Anche dette censure, infatti, esulano completamente dal perimetro delle doglianze proposte in primo grado, che, come detto, negavano in radice la sussistenza della qui presupposta "procedimentalizzazione", pur potendo questa essere agevolmente ricostruita sulla base degli atti gravati. 4.3. E' infondata la terza doglianza del primo motivo (I.3) con cui l'appellante attacca il capo di sentenza con cui il Tar ha affermato che "ove la ricorrente avesse inteso contestare le modalità di scelta dei commissari, avrebbe dovuto tempestivamente gravare la determinazione n. 465/2020 di indizione della procedura di gara, nella quale, tramite il richiamo agli atti sopra ricordati, vengono stabilite le modalità di nomina della commissione, modalità cui la stazione appaltante era, pertanto, vincolata". Si tratta di una osservazione che, nella parte saliente, non trova nella doglianza in esame alcuna reale confutazione, limitandosi l'appellante a far seguito alle precedenti censure (già negativamente esaminate come sopra) e a sottolineare che la determina a contrarre è di oltre sei mesi successiva alla scadenza della convenzione tra l'Ipab e la Federazione. Ma tale ultima circostanza evidenzia, piuttosto che sconfessare, che la contestazione delle modalità di scelta dei commissari scontava l'impugnazione della determina a contrarre: questa sul punto ha invero fatto proprie le modalità già contenute nella convenzione al fine di farvi ricorso nella procedura de qua, e quindi rileva anche a prescindere dalla eventuale scadenza dell'atto convenzionale. 4.4. E' infondata la quarta doglianza del primo motivo (I.4). L'appellante esordisce con la riesposizione delle linee difensive svolte nelle memorie depositate in primo grado, anche in relazione alle difese svolte sempre in primo grado dalla stazione appaltante, circa il mancato rispetto da parte del provvedimento di nomina della commissione dei principi di trasparenza e competenza di cui all'art. 216 comma 12 del Codice dei contratti pubblici. Si tratta di argomentazioni che qui nulla dicono, atteso che il principio di specificità dei motivi di impugnazione posto dall'art. 101 comma 2 del Codice del processo amministrativo impone che sia rivolta una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, non essendo sufficiente la mera riproposizione dei motivi contenuti nel ricorso introduttivo: il giudizio di appello dinanzi al giudice amministrativo è infatti una revisio prioris instantiae, i cui limiti oggettivi sono segnati dai motivi di impugnazione (tra tante, Cons. Stato, V, 26 aprile 2022, n. 3207; 8 aprile 2021, n. 2843; 26 agosto 2020, n. 5208): il principio, infatti, vale a maggior ragione per difese svolte in primo grado. L'appellante prosegue sostenendo, contrariamente a quanto affermato dal Tar circa la valenza "formale" delle sue censure, di aver dimostrato in concreto che la nomina della commissione di gara ha violato i principi di trasparenza, rotazione e competenza. Ma le connesse argomentazioni non sono persuasive. Si rammenta che la sentenza impugnata ha espressamente ritenuto il rispetto dei principi di trasparenza e competenza, rilevando che la nomina aveva seguito regole predeterminate e considerando i ruoli rivestiti dai nominati nell'ambito degli enti di appartenenza, mentre, quanto alla violazione del principio di rotazione, ha ritenuto la censura inammissibile (pag. 5), perché formulata per la prima volta con memoria difensiva. Si tratta di arresti che non trovano nella doglianza in esame alcuna reale confutazione, in quanto l'appellante: a) continua a sostenere assertivamente che gli atti di gara non facciano emergere il rispetto del principio di trasparenza, reiterando la tesi, già spesa in primo grado e palesemente smentita dagli atti di causa, circa la mancata predeterminazione delle regole della nomina dei componenti della commissione, tant'è che buona parte della doglianza in esame (specificamente, la seconda parte) è dedicata alla dimostrazione che la giurisprudenza "sostanzialistica" richiamata dal Tar in linea generale potrebbe trovare applicazione solo laddove l'assenza di predeterminazione delle stesse regole è recuperata da provvedimenti di nomina saldamente motivati; b) nel reiterare l'affermazione dell'incompetenza (quanto meno) di due componenti della commissione, non si cura di contestare quanto sul punto specificamente osservato dal Tar; c) sembra non avvedersi della declaratoria di inammissibilità della censura relativa alla violazione del principio di rotazione; d) sostiene che spettava all'Amministrazione la dimostrazione del rispetto dei predetti principi a fronte della carenza di motivazione della nomina, che, per tutto quanto sopra, non sussiste. 4.5. E' infondata la quinta doglianza del primo motivo (I.4.1), con cui l'appellante sostiene che il primo giudice non poteva dichiarare l'inammissibilità della censura di violazione del principio di rotazione, con particolare riferimento alla nomina del presidente della commissione valutatrice, che si afferma essere stato nominato nelle stesse funzioni in tutte le procedure indette dall'Ip. di Vi. mediante il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, perché detta censura, contrariamente a quanto osservato dal Tar, non poteva ritenersi introdotta con mera memoria difensiva, avendo l'atto introduttivo del giudizio lamentato la violazione del principio di trasparenza, di cui il principio di rotazione è un mero corollario: è invero la stessa prospettazione della doglianza in esame che dà conto della specificità del vizio dedotto e della sua assoluta novità rispetto a quelli lamentati nel ricorso, siccome riepilogati al precedente capo 2. 4.6. Con la sesta censura del motivo in trattazione (I.5) l'appellante lamenta che il Tar abbia omesso di pronunciare sul difetto di motivazione dell'autonomina del RUP a presidente della commissione, oltre che a segretario verbalizzante. Al riguardo, si osserva che nel ricorso di primo grado l'appellante ha così strutturato la censura qui reieterata: "il responsabile del procedimento ha 'spesò buona parte del provvedimento di nomina per giustificare la legittimità della nomina di sé stesso (RUP) a Presidente della commissione giudicatrice, senza spendere una parola a proposito del rispetto dei propri requisiti di trasparenza, capacità e indipendenza. Peraltro, l'art. 77 comma 4 d.lgs 50/2016 stabilisce ora che 'La nomina del RUP a membro delle commissioni di gara è valutata con riferimento alla singola procedurà dunque il RUP si doveva preoccupare di verificare non già, come ha fatto, l'astratta possibilità di rivestire il duplice ruolo, bensì di verificare se nel caso specifico vi fossero i presupposti per ricoprire tale duplice ruolo. Anche su tale aspetto la determinazione di nomina è del tutto silente!". La sentenza appellata, nel respingere la censura, ha ritenuto che la scelta del responsabile della centrale di committenza quale presidente della commissione di gara fosse "garanzia di adeguata professionalità in relazione alle procedure d'appalto". Ciò posto, la doglianza si rivela infondata: in primo luogo, il predetto rilievo, nonostante espresso in termini generali, deve intendersi come inteso a ricomprendere la gara per cui è causa, tant'è che nello stesso passaggio argomentativo la sentenza, in relazione alle professionalità dei due commissari, ritenuta in ragione dei ruoli ricoperti, afferma il possesso delle competenze richieste "per la gara in questione". In ogni caso poi, rammentato che stante l'effetto devolutivo dell'appello, l'omessa pronuncia su una o più censure proposte con il ricorso giurisdizionale è vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato a eliminare, integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo sul merito della causa (tra tante, Cons. Stato, V, 10 marzo 2022, n. 5027; IV, 29 marzo 2021, n. 2611; VI, 22 gennaio 2021, n. 666; V, 30 luglio 2020, n. 4856), si osserva che l'intera motivazione del provvedimento di nomina in parola, nel citare espressamente nel preambolo il principio (invocato dall'appellante) per cui la possibilità della nomina del RUP a membro delle commissioni di gara è valutata con riferimento alla singola procedura, e nel considerare ampiamente, come riconosciuto dalla stessa deducente, le condizioni di un siffatto cumulo come delineate dalla giurisprudenza, non può che intendersi come riferita alla specifica procedura in contestazione. 4.7. E' infondata anche l'ultima doglianza del motivo in trattazione (I.6), con cui l'appellante lamenta che la sentenza impugnata, valorizzando la dichiarazione del responsabile della centrale di committenza contenuta nell'atto di nomina da egli firmato circa la "notoria" inesistenza, per tutti i nominati, di cause che, per legge (artt. 77, commi 4, 5 e 6, e 42 del d.lgs. 50/2016; art. 35-bis del d.lgs. 165/2001), danno luogo a incompatibilità e all'obbligo di astensione, abbia illegittimamente e contraddittoriamente "sanato" la mancata dichiarazione di tale condizione da parte dei singoli nominati ai sensi dell'art. 47 comma 9 del d.P.R. 445/2000. La censura si basa sostanzialmente sull'affermazione che il Tar avrebbe in tal modo fatto proprie le difese della stazione appaltante circa il fatto che i commissari, antecedentemente all'accettazione della nomina, avevano attestato l'insussistenza di conflitti di interesse, e ciò nonostante le relative dichiarazioni prodotte in giudizio fossero prive di qualsiasi efficacia probatoria (per carenza di prova circa l'invio alla CUC e la ricezione da parte di questa; perché non citate nell'atto di nomina; perché non specificamente riferite alle predette cause di incompatibilità e di astensione; perché non rese contestualmente all'accettazione dell'incarico, e quindi prima della nomina). Ma tale impostazione censoria si scontra con il fatto che la sentenza non ha mai menzionato (neanche in "fatto") tali difese, né tantomeno le ha recepite, avendo, tra altro, direttamente valorizzato la predetta dichiarazione per fatto notorio resa del responsabile della centrale di committenza, nonchè rilevato che la ricorrente non aveva mai affermato la sussistenza, né fornito prova, di ipotesi di incompatibilità a carico dei commissari. Inoltre, l'appellante può essere seguita neanche quando afferma che il primo giudice, pur addentrandosi in una "lettura teleologica" dell'art. 77 comma 4 primo periodo del d.lgs. 50/2016 ("I commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta") non si sia avveduto dell'inesistenza di una causa di incompatibilità a carico del presidente della commissione, per aver questi approvato il disciplinare di gara: si tratta infatti di una doglianza proposta per la prima volta in appello, e quindi inammissibile ai sensi del già citato art. 104 Cod. proc. amm.. 4.8. In definitiva, il primo motivo di appello va respinto. 5. Il secondo motivo è diretto avverso la parte della sentenza che ha respinto il secondo e il terzo motivo dell'atto introduttivo del giudizio, relativo: all'illegittima utilizzazione da parte della commissione di gara al metodo del c.d. "confronto a coppie", non previsto dal disciplinare (pag. 17) nel caso in cui le offerte da valutare fossero inferiori a tre, fattispecie asseritamente realizzatasi nel caso di specie, in cui una delle tre offerte sottoposta a tale confronto (diversa da quella della deducente e dell'aggiudicataria) non avrebbe potuto essere considerata, per omessa compilazione della "sezione 1: scheda riepilogativa dei prodotti offerti", che la rendeva non valutabile per gli elementi "A. qualità dei prodotti di categoria A" e "B. qualità dei prodotti categoria B"; alla carenza di motivazione dei punteggi assegnati alle offerte, perché espressi numericamente, e ulteriormente perché i commissari hanno espresso la stessa valutazione per tutti i parametri. 5.1. Il Tar in relazione al secondo motivo ha rilevato: - la sua inammissibilità, essendo diretto non al travolgimento dell'intera gara bensì alla rivalutazione delle offerte con un sistema diverso da quello del confronto a coppie, per omessa dimostrazione del superamento della prova di resistenza, non avendo la ricorrente dimostrato che, con un sistema diverso da quello utilizzato, la sua offerta avrebbe ottenuto un punteggio tale da consentirle l'aggiudicazione della gara; - la sua infondatezza in quanto: il disciplinare, pur prevedendo a pag. 17 che "non saranno prese in considerazione offerte incomplete o irregolari, parziali o che presentino osservazioni, restrizioni o riserve", a pag. 15, in riferimento specifico al contenuto delle offerte tecnica, aveva precisato che "L'omissione di uno o più dei documenti richiesti dal presente disciplinare e costituenti l'offerta tecnica comporta la non attribuzione del punteggio all'elemento di valutazione a cui è riferito il documento omesso"; la commissione valutatrice, nel verbale n. 1, rilevato che una delle tre offerenti non aveva compilato la scheda riepilogativa dei prodotti maggiormente rappresentativi per gli elementi A e B, si era attenuta a quest'ultima previsione, ammettendo l'offerta alla fase successiva della procedura e attribuendole il punteggio pari a zero per entrambi i predetti elementi; tali determinazioni si profilavano corrette, non potendosi sostenere che l'offerta in parola presentasse lacune tali da determinarne l'esclusione, anche perché in essa, come emergente dall'offerta economica ritualmente proposta, erano indicati tutti i prodotti richiesti per la fornitura oggetto di gara; - in ogni caso, a ulteriore conferma della carenza di interesse alla proposizione del motivo, che la società ricorrente, in relazione ai due elementi di cui sopra, aveva ottenuto il punteggio massimo previsto, al pari dell'aggiudicataria Ro. Gi. s.r.l.. In relazione al terzo motivo il Tar: - ha richiamato l'ampia discrezionalità tecnica esercitata dalle commissioni valutatrici nella valutazione delle offerte presentate nell'ambito di gare pubbliche e i noti limiti che su tale valutazione incontra il sindacato giurisdizionale amministrativo; - ha richiamato il principio giurisprudenziale per cui il punteggio numerico espresso nello stesso ambito costituisce idonea motivazione laddove quando l'apparato delle voci e sottovoci fornito dalla lex specialis in uno ai relativi punteggi è sufficientemente chiaro, analitico e articolato, sì da delimitare adeguatamente il giudizio della commissione tra un minimo e un massimo e rendere comprensibile il sotteso iter logico, condizione che ha ritenuto sussistente nella fattispecie alla luce dei quattro elementi di valutazione dell'offerta tecnica previsti nella legge di gara (uno meramente quantitativo, e quindi correlato a una attribuzione di punteggio vincolata; i restanti corredati da numerosi sub criteri specifici e dettagliati); - ha richiamato il ripetuto principio giurisprudenziale per cui l'uniformità dei giudizi resi dai commissari non è elemento ex se idoneo a inficiare la sottesa valutazione. 5.2. Le predette censure resistono alle doglianze svolte dall'appellante in quanto: a) anche l'eventuale accertamento della erroneità della declaratoria di inammissibilità di alcune censure per carenza della c.d. "prova di resistenza", in forza delle censure proposte nel secondo motivo di appello (che sostiene che l'intera prospettazione ricorsuale tendeva alla integrale caducazione della procedura di gara e non già all'utile collocazione in graduatoria dell'offerta della deducente), non potrebbe comunque condurre a un esito favorevole all'appellante, dal momento che il Tar ha esaminato e respinto nel merito le stesse censure con motivazioni qui pienamente da condividere; b) la società ribadisce nel terzo motivo (III.1) che le offerte tecniche rispettose della legge di gara erano soltanto due, essendo la terza offerta (presentata peraltro da una società neanche evocata in giudizio) incompleta, irregolare e parziale, e che pertanto il metodo del c.d. "confronto a coppie" non avrebbe potuto essere applicato, ma, a fronte della puntuale ricostruzione della norme della lex specialis di rilievo della questione effettuata dal giudice di prime cure, non riesce a dimostrare che tali irregolarità potessero condurre all'esclusione di detta offerta, da cui l'impossibilità di predicarne, come pure fa la deducente, la mancata valutazione ai fini dell'attribuzione del punteggio. L'operazione riguarda di suo tutte le offerte non escluse, ed è quindi irrilevante la questione di se la censura dell'appellante implicasse o meno l'esclusione della terza offerta in parola; c) invero, la tesi spesa nel terzo motivo (III.2) circa il fatto che il Tar dovesse conferire prevalenza alla previsione di cui a pag. 17 del disciplinare ("Non saranno prese in considerazione offerte incomplete o irregolari, parziali o che presentino osservazioni, restrizioni o riserve") rispetto a quella contenuta a pag. 15 ("L'omissione di uno o più dei documenti richiesti dal presente disciplinare e costituenti l'offerta tecnica comporta la non attribuzione del punteggio all'elemento di valutazione a cui è riferito il documento omesso") è priva di qualsiasi pregio, dal momento che, come rilevato dallo stesso Tar, era quest'ultima ad essere specificamente riferita alle offerte tecniche. Può aggiungersi, per l'ipotesi che le due previsioni possano ritenersi in conflitto, che la costante giurisprudenza amministrativa, in presenza di clausole di un bando o di un disciplinare incerte, ambigue o contraddittorie, privilegia l'interpretazione favorevole all'ammissione alla gara piuttosto che quella tendente all'esclusione del concorrente. Tanto in ossequio al canone del favor partecipationis, che sottende anche l'interesse pubblico al massimo dispiegarsi del confronto concorrenziale, perché teso all'individuazione dell'offerta maggiormente vantaggiosa e conveniente per l'amministrazione appaltante (Cons. Stato, V, 26 marzo 2020, n. 2130; 29 novembre 2019, n. 8167; 12 settembre 2017, n. 4307; 24 febbraio 2017, n. 869; 15 marzo 2016, n. 1024; 27 maggio 2014, n. 2709; VI, 6 marzo 2018, n. 1447; IV, 14 marzo 2016, n. 1015). Sicchè anche in questa sede deve concludersi per la correttezza sia dell'ammissione della terza offerta tecnica in parola alla fase valutativa, sia per l'attribuzione alla stessa del punteggio pari a 0 per entrambi gli elementi di valutazione per i quali è risultata incompleta; d) pertanto, contrariamente a quanto pure sostenuto nel terzo motivo (III.3) in rapporto alle predette argomentazioni, rivelatesi erronee, deve confermarsi la legittimità dell'applicazione del metodo del c.d. "confronto a coppie", previsto dal disciplinare in caso di presenza di un numero di offerte non inferiori a tre - condizione nella fattispecie come sopra inveratasi - mentre quanto alle doglianze che lo stesso motivo (III.4) dirige avverso l'affermazione del Tar che la ricorrente non aveva interesse a formulare le appena riferite contestazioni, per avere la medesima conseguito il massimo punteggio per gli elementi di valutazione A e B, valga quanto sopra rilevato sub a). 5.3. In definitiva, il secondo e il terzo motivo di appello devono essere respinti. 6. Stessa sorte spetta al quarto motivo, con cui l'appellante continua a sostenere l'insufficienza della valutazione numerica delle offerte (IV.1) nonchè l'illegittimità delle valutazioni della commissione, per avere i commissari di gara attribuito punteggi identici (IV.2). In particolare, la tesi della società che i criteri di valutazione delle offerte previsti dal disciplinare di gara non fossero specifici e dettagliati è affidata a considerazioni meramente assertive nonché a richiami giurisprudenziali i quali, alla luce dei contrari, specifici e motivati rilievi su cui si è fondato il Tar, rimasti sostanzialmente inconfutati, non si attagliano al caso di specie, e non sono pertanto suscettibili di porre nel nulla il contestato decisum. Non diversamente deve concludersi quanto alle doglianze relative al modo in cui i commissari di gara hanno espresso le proprie valutazioni sulle offerte, in relazione al quale il Collegio può limitarsi a richiamare l'orientamento giurisprudenziale allo stato prevalente (rispetto al diverso e più risalente orientamento invocato dall'appellante), qui da condividere, che nega che l'espressione di un identico giudizio da parte di tutti i commissari possa far presumere automaticamente la sussistenza di un giudizio collegiale e precostituito (nulla quindi muta considerando che il disciplinare di gara prevedesse la valutazione delle offerte tecniche da parte dei "singoli commissari"), in quanto l'identità del punteggio bene può denotare una legittima e fisiologica evoluzione del confronto dialettico svoltosi in seno all'organo tecnico (tra altre, Cons. Stato, 15 settembre 2021, n. 6300; III, 19 gennaio 2021, n. 574; 29 maggio 2020, n. 3401; 6 novembre 2019, n. 7595; V, 17 dicembre 2015 n. 517; 24 marzo 2014, n. 1428, sentenze relative anche a fattispecie in cui la valutazione è avvenuta, come nel caso di specie, con l'applicazione del metodo del c.d. "confronto a coppie"). 7. Va infine respinto anche il quinto e ultimo motivo, con cui l'appellante, "per completezza storica e processuale" e "per dimostrare... il difetto di zelo" del Tar, denunzia l'ingiustizia della sentenza impugnata nella parte in cui ha rilevato l'inammissibilità della contestazione dei punteggi specificamente assegnati dalla commissione di gara alle offerte tecniche concorrenti perché formulata per la prima volta in memoria difensiva. Invero, a sostegno della censura, l'appellante sostiene che il primo giudice non si sia avveduto che non si trattava di un motivo di ricorso, ma solo di ulteriori elementi di prova della censurabilità delle valutazioni espresse dalla commissione di gara, affetta da eccesso di potere, e della cattiva gestione da parte della medesima del proprio potere di giudizio: ma è proprio la specificazione dello scopo cui tendeva la predetta contestazione - la dimostrazione della illegittimità della procedura di gara sotto profili ulteriori rispetto a quelli già evidenziati nell'atto introduttivo del giudizio - che consente di ritenere la qualificabilità della stessa come vera e propria censura e di rilevarne la sua irrituale proposizione, come ha fatto il Tar. Del resto, alla stessa conclusione si perviene alla luce del tenore e dei contenuti della contestazione in parola, qui riprodotta, tendenti a rimarcare l'erroneità dei punteggi attribuiti alle offerte tecniche delle tre concorrenti. 8. Per tutto quanto precede, nulla aggiungendo alle questioni come sopra trattate le memorie difensive depositate dall'appellante, il gravame deve essere respinto. Le spese del grado, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello di cui in epigrafe, lo respinge. Condanna la parte appellante alla refusione, in favore delle parti resistenti, delle spese del grado, che liquida nell'importo pari a Euro 4.000,00 (euro quattromila/00) per ciascuna di esse. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 7 giugno 2022 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente FF Stefano Fantini - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Anna Bottiglieri - Consigliere, Estensore Giorgio Manca - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 640 del 2019, integrato da motivi aggiunti, proposto da -OMISSIS-, rappresentate e difese dall'avvocato Gi. Pa., con domicilio fisico eletto presso il suo studio in Catania, via (...); contro Comune di -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dapprima dall'avvocato Gi. Ga. e poi dall'avvocato Em. Me., con domicilio fisico eletto presso il suo studio in Catania, Viale (...); Presidenza della Regione Siciliana, Assessorato Regionale della Famiglia delle Politiche Sociali e del Lavoro e Assessorato Regionale delle Autonomie Locali e della Funziona Pubblica (Dipartimento delle Autonomie locali), in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catania, presso i cui uffici domiciliano in Catania, via (...); nei confronti I.P. - Ca. di Ri. S. Ma. di Ge. - Ce. Se. Po. alla persona di -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito in giudizio; e con l'intervento di ad adiuvandum: -OMISSIS-, rappresentate e difese dagli avvocati Se. Vi. e Gi. Vi., con domicilio fisico eletto presso il loro studio in (...), via (...) e con domicilio digitale ex lege come da PEC da Registri di Giustizia; Fa. En. Co. Ltd, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Mi. Ba., con domicilio digitale ex lege come da PEC da Registri di Giustizia; sul ricorso numero di registro generale 1829 del 2020, proposto da Comune di -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dapprima dall'avvocato Ag. Gi. La. e poi dall'avvocato Em. Me., con domicilio fisico eletto presso il suo studio in Catania, Viale (...); contro Regione Siciliana, Assessorato Regionale della Famiglia delle Politiche Sociali e del Lavoro, Assessorato Regionale delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catania, presso i cui uffici domiciliano in Catania, via (...); nei confronti IPAB - Op. Pi. Ca. di ri. Sa. Ma. di Ge., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito in giudizio; Commissario straordinario dell'IPAB - Op. Pi. Ca. di ri. Sa. Ma. di Ge., non costituito in giudizio; Commissario ad acta presso il Comune di -OMISSIS-, non costituito in giudizio; -OMISSIS-, non costituito in giudizio; -OMISSIS-, non costituito in giudizio; -OMISSIS-, non costituito in giudizio; -OMISSIS-, non costituita in giudizio; e con l'intervento di ad opponendum: -OMISSIS-, -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati Gi. Vi. e Gi. Pa., con domicilio fisico eletto in Catania, Via (...); ad opponendum: Fa. En. Co. Ltd, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Mi. Ba., con domicilio digitale ex lege come da PEC da Registri di Giustizia; A) ricorso iscritto al n. r.g. 640 del 2019: - - quanto al ricorso introduttivo del giudizio: per l'ottemperanza ex art. 112 C.P.A. della Sentenza n. -OMISSIS-resa dal T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. int. I, passata in giudicato, con la quale è stato rigettato il ricorso proposto dal Comune di -OMISSIS-, iscritto, al n. R.G. -OMISSIS-, avverso il Decreto Presidenziale n. -OMISSIS-/Serv. 4/ S.G. del -OMISSIS-, con il quale, su proposta dell'Assessorato della Famiglia, Politiche Sociali e del Lavoro della Regione Sicilia, si dispone l'estinzione dell'I.P. "Ca. di Ri. S. Ma. di Ge. " e, conseguentemente, si dispone che il patrimonio sia devoluto al Comune di -OMISSIS-, compreso il personale e per la declaratoria di nullità ex art. 114, comma 4, lett. B), C.P.A. della nota prot. -OMISSIS-, con la quale il Comune di -OMISSIS-, rifiutandosi di dare seguito all'istanza delle odierne ricorrenti, viola espressamente il giudicato formatosi con la sentenza n. -OMISSIS-. Ove occorra, per l'accertamento ex art. 31, comma 1, C.P.A. dell'obbligo del Comune di provvedere, nonché ex artt. 31, comma 1 e 3, e art. 117 C.PA. per la declaratoria dell'illegittimità del silenzio serbato dall'Assessorato Regionale in relazione alla diffida per l'adempimento del -OMISSIS-, allibrata al prot. del Comune resistente al n. -OMISSIS- (riscontrata negativamente dal Comune di -OMISSIS- e non riscontrata dall'Assessorato), con la quale le ricorrenti, già dipendenti dell'I.P. "Ca. di Ri. S. Ma. di Ge. ", estinto in forza del disposto del Decreto Presidenziale n. -OMISSIS-/Serv. 4/ S.G. del -OMISSIS- e della sentenza n. -OMISSIS- passata in giudicato con la quale è rigettato il ricorso proposto dal Comune avverso il suddetto D.P., chiedevano darsi seguito all'obbligo scaturente dall'art. 34 l.r. 22/1986, che consta, fra l'altro, nell'assorbimento del personale dell'I.P. estinto che sia stato reclutato tramite concorso pubblico in via meramente residuale e subordinata, e ove occorra, per l'impugnazione della nota prot. -OMISSIS-, con la quale il Comune di -OMISSIS- denega l'istanza volta all'assunzione delle ricorrenti; - - quanto al ricorso per motivi aggiunti depositato dalla parte ricorrente in data 17 maggio 2021 per l'annullamento: - della nota prot. -OMISSIS-dell'Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro della Regione Siciliana, Dipartimento della Famiglia e delle Politiche Sociali, Servizio 9 "II.PP.A.B.", resa nota dall'Amministrazione regionale solo in data 23/02/2021, con la quale il Dirigente del Servizio sul presupposto che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 135 del 11/06/2020, sarebbe venuto "meno il procedimento di estinzione", e, in asserita conseguenza, ritenendo che non si sarebbe "perfezionata la successione universale dell'IPAB al Comune", ha disposto che il "decreto di estinzione possa essere revocato o, altrimenti, sospeso per un periodo almeno di 6 mesi" 23/02/2021; - della nota prot. n. -OMISSIS-dell'Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro della Regione Siciliana, Dipartimento della Famiglia e delle Politiche Sociali, Servizio 9 "II.PP.A.B.", resa nota dall'Amministrazione regionale solo in data 23/02/2021 nella parte in cui con essa si assume "che questa Amministrazione non ha competenza in materia di gestione del personale delle II.PP.A.B., per cui, tutto ciò che riguarda il rapporto di lavoro della stessa dipendente dell'Istituto, è da addebitare alla piena ed esclusiva responsabilità, civile ed amministrativa dell'IPAB stessa e/o dei suoi amministratori"; - del D.A. n. -OMISSIS- dell'Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro della Regione Siciliana, con cui viene nominato Commissario Straordinario dell'IPAB S. Maria di Gesù di -OMISSIS- il dott. -OMISSIS-, nella parte in cui con esso si afferma "che la procedura di estinzione dichiarata con il D.P. Reg. n. -OMISSIS-/Serv.4° /S.G. del -OMISSIS-, ai sensi dell'art. 34, comma 2, della L.r. n. 22/1986, non si è perfezionata e non ha prodotto i suoi effetti, atteso che non si è realizzata la successione universale dell'IPAB al Comune a mezzo di atti definitivi, con riferimento sia al trasferimento della proprietà del patrimonio immobiliare dell'ente con l'avvenuta trascrizione nei Registri Immobiliari e catastali, sia all'assunzione del personale proveniente dall'IPAB con la relativa iscrizione nei ruoli organici del Comune"; del D.A.-OMISSIS- dell'Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro della Regione Siciliana, con cui viene nominato commissario straordinario dell'IPAB S. Maria di Gesù di -OMISSIS- il dott. -OMISSIS-, nella parte in cui con esso si afferma "che la procedura di estinzione dichiarata con il D.P. Reg. n. -OMISSIS-/Serv.4° /S.G. del -OMISSIS-, ai sensi dell'art. 34, comma 2, della L.r. n. 22/1986, non si è perfezionata e non ha prodotto i suoi effetti, atteso che non si è realizzata la successione universale dell'IPAB al Comune a mezzo di atti definitivi, con riferimento sia al trasferimento della proprietà del patrimonio immobiliare dell'ente con l'avvenuta trascrizione nei Registri Immobiliari e catastali, sia all'assunzione del personale proveniente dall'IPAB con la relativa iscrizione nei ruoli organici del Comune"; per la declaratoria della sopravvenuta carenza di interesse rispetto alla domanda ex art. 112 C.P.A. (ottemperanza del giudicato amministrativo) e a quella ex art. 31, comma 1, C.P.A. (obbligo di provvedere) avanzate con il ricorso principale per la declaratoria dell'illegittimità ex art. 34, comma 3, C.P.A. della (già impugnata con ricorso principale) nota prot. -OMISSIS-, con la quale il Comune di -OMISSIS- ha denegato l'obbligo di dare seguito all'istanza delle ricorrenti volta alla loro assunzione; per la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria ex art. 30, comma 2, C.P.A.; - - quanto al ricorso per motivi aggiunti depositato dalla parte ricorrente in data 28 maggio 2021 per l'annullamento: del Decreto del Presidente della Regione Siciliana Reg. -OMISSIS-, pubblicato nella G.U.R.S. del 30/04/2021; B) ricorso iscritto al n. r.g. 1829 del 2020; per l'accertamento della nullità e/o dell'inefficacia sopravvenuta del DPRS -OMISSIS-, n. -OMISSIS-/serv.4/SG, con cui il Presidente della Regione Siciliana, ai sensi e per gli effetti dell'art. 34, l. r. Sicilia n. 22/1986, ha deciso l'estinzione dell'I. Ca. di Ri. "S. Ma. di Ge. - Ce. Se. Po. al. Pe." di -OMISSIS- e ha disposto che "il patrimonio dell'IOAB suddetta è devoluto al Comune di -OMISSIS- (CT)... con assunzione da parte dello stesso di ogni rapporto attivo e passivo" e che "il Comune assorbe anche il personale dipendente facendone salvi i diritti acquisiti in rapporto al maturato economico", nonché di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali. Visti i ricorsi, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di -OMISSIS- e della Presidenza della Regione Siciliana, dell'Assessorato Regionale della Famiglia delle Politiche Sociali e del Lavoro e dell'Assessorato Regionale delle Autonomie Locali e della Funziona Pubblica (Dipartimento delle Autonomie locali), nel ricorso iscritto al n. r.g. 640 del 2019; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Siciliana, dell'Assessorato Regionale della Famiglia delle Politiche Sociali e del Lavoro e dell'Assessorato Regionale delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica, nel ricorso iscritto al n. r.g. 1829 del 2020; Visti gli atti di intervento ad adiuvandum di -OMISSIS- e di Fa. En. Co. Ltd, nel ricorso iscritto al n. r.g. 640 del 2019; Visti gli atti di intervento ad opponendum di -OMISSIS-, -OMISSIS- e di Fa. En. Co. Ltd, nel ricorso iscritto al n. r.g. 1829 del 2020; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 maggio 2022 il dott. Giovanni Giuseppe Antonio Dato e uditi per le parti i difensori presenti come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con ricorso - iscritto al n. r.g. 640 del 2019 - le deducenti -OMISSIS- hanno rappresentato quanto segue. Il Comune di -OMISSIS- ha impugnato il decreto del Presidente della Regione n. -OMISSIS-/Serv. 4/ S.G. del -OMISSIS- che ha disposto l'estinzione dell'I.P. "Ca. di Ri. S. Ma. di Ge. " e, conseguentemente, la devoluzione del suo patrimonio al Comune e l'assorbimento del personale da parte dello stesso Comune; nel giudizio hanno proposto atto di intervento ad opponendum le ricorrenti, lavoratori del predetto IPAB, in forza di assunzione tramite concorso pubblico, sin dal 1995 (-OMISSIS-) e dal 1997 (-OMISSIS-). Il ricorso è stato rigettato con sentenza pubblicata il -OMISSIS- che non è stata appellata (passata in giudicato in data 17 settembre 2018). In data -OMISSIS-, le ricorrenti, per il tramite del loro legale, hanno trasmesso alle Amministrazioni resistenti istanza volta ad ottenere l'adempimento del decreto presidenziale n. -OMISSIS-/Serv. 4/ S.G. del -OMISSIS- e della sentenza n. -OMISSIS-, con particolare riferimento all'assunzione presso il Comune resistente, così come disposto dalla legge e in costanza dei relativi requisiti. L'Assessorato Regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro, plesso competente per la gestione e la vigilanza sugli I.P.A.B, non ha riscontrato la detta istanza, né ha posto in essere alcun atto inteso a dare attuazione alla legge e/o a conformarsi al provvedimento giurisdizionale definitivo, mentre il Comune di -OMISSIS- l'ha riscontrata con la nota prot. -OMISSIS-, avversata rispetto a plurimi profili, denegandola, con motivazioni sostanzialmente rese in asserita violazione del giudicato amministrativo. 1.1. Si sono costituiti in giudizio la Presidenza della Regione Siciliana e l'Assessorato Regionale della Famiglia delle Politiche Sociali e del Lavoro chiedendo il rigetto del ricorso in quanto infondato in fatto e in diritto. Si è altresì costituito in giudizio il Comune di -OMISSIS- che ha preliminarmente chiesto di sospendere il procedimento (in ragione della questione di legittimità costituzionale dell'art. 34 della L.R. n. 22/1986 per contrasto con gli artt. 117 e 119 della Cost. sollevata medio tempore) e, in ogni caso, rigettare tutte le domande proposte dalle ricorrenti nonché l'atto di intervento adesivo ad adiuvandum delle signore -OMISSIS- e -OMISSIS-. 1.2. Hanno proposto atti di intervento ad adiuvandum -OMISSIS- e Fa. En. Co. Ltd. 1.3. Con ricorso per motivi aggiunti notificato in data 19 aprile 2021 e depositato in data 17 maggio 2021, la parte ricorrente ha avversato gli atti in epigrafe, contestualmente chiedendo la declaratoria di sopravvenuta carenza di interesse rispetto alla domanda ex art. 112 cod. proc. amm. e a quella ex art. 31, comma 1, cod. proc. amm. avanzate con il ricorso principale, con conseguenziale conversione del rito da camerale ad ordinario, e invocando la declaratoria di illegittimità ex art. 34, comma 3, cod. proc. amm. della (già impugnata con il ricorso principale) nota prot. -OMISSIS-. Quindi la parte ricorrente ha chiesto la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria ex art. 30, comma 2, cod. proc. amm.. 1.4. Con successivo ricorso per motivi aggiunti notificato e depositato in data 28 maggio 2021 la parte ricorrente ha avversato il decreto del Presidente della Regione Siciliana Reg. -OMISSIS-, pubblicato nella G.U.R.S. del 30 aprile 2021, che ha disposto l'annullamento del decreto del Presidente della Regione Siciliana n. -OMISSIS- del -OMISSIS-. 1.5. Con ordinanza 20 settembre 2021, n. 2816, in ragione della dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse rispetto alla domanda ex art. 112 cod. proc. amm. e a quella ex art. 31, comma 1, cod. proc. amm. avanzate con il ricorso principale (cfr. ricorso per motivi aggiunti depositato in data 17 maggio 2021) e ritenuta la necessità di convertire il rito del presente giudizio, è stata disposta l'iscrizione della causa a ruolo ordinario di merito, con rinvio delle parti all'udienza pubblica del giorno 25 maggio 2022. 1.6. In vista della celebrazione dell'udienza pubblica del giorno 25 maggio 2022: - con memoria depositata in data 3 febbraio 2022 la Presidenza della Regione Siciliana e gli Assessorati regionali resistenti hanno chiesto di dichiarare il ricorso improcedibile per carenza di interesse o comunque di rigettarlo siccome infondato in fatto e in diritto; - con memoria depositata in data 22 aprile 2022 l'interventore ad adiuvandum Fa. En. Co. Ltd ha chiesto di accogliere il ricorso per motivi aggiunti e l'atto di intervento ad adiuvandum proposto e, per l'effetto, di annullare il decreto del Presidente della Regione Siciliana Reg. -OMISSIS-/Sev.4/S.G. del -OMISSIS-, confermando il decreto presidenziale n. -OMISSIS- del -OMISSIS- e dichiarare, comunque, l'illegittimità delle condotte delle amministrazioni resistenti, anche ai sensi dell'art. 30, comma 2, cod. proc. amm., o, comunque, ai sensi dell'art. 34, comma 3, cod. proc. amm., con riserva di quantificare il danno ingiusto in corso di causa; - con memoria depositata in data 23 aprile 2022 il Comune di -OMISSIS- ha chiesto di: ritenere e dichiarare infondato il ricorso, nonché i ricorsi per motivi aggiunti e, conseguentemente, rigettarli e, in ogni caso di rigettare la richiesta di risarcimento del danno e la relativa quantificazione; ritenere e dichiarare inammissibile e comunque infondato l'intervento adesivo spiegato da -OMISSIS- e -OMISSIS-e, conseguentemente, rigettarlo e, in ogni caso rigettare la richiesta di risarcimento del danno e la relativa quantificazione; infine, ritenere e dichiarare infondato l'intervento adesivo spiegato dalla Fa. En. Co. Ltd, e, conseguentemente, rigettarlo; - la parte ricorrente, con memorie depositate nelle date 23 aprile 2022 e 4 maggio 2022, ha insistito nelle domande proposte. 2. Con ricorso - iscritto al n. r.g. 1829 del 2020 - il Comune di -OMISSIS- ricorrente ha rappresentato quanto segue. Con decreto Presidente della Regione Siciliana, -OMISSIS-, n. -OMISSIS-/serv.4/SG, ai sensi e per gli effetti dell'art. 34, comma 2, legge reg. Sicilia n. 22/1986, è stata decisa l'estinzione dell'I. Ca. di Ri. "S. Ma. di Ge. - Ce. Se. Po. al. Pe." di -OMISSIS-, è stato disposto che "il patrimonio dell'IOAB suddetta è devoluto al Comune di -OMISSIS- (CT)... con assunzione da parte dello stesso di ogni rapporto attivo e passivo", è stato previsto che "il Comune assorbe anche il personale dipendente facendone salvi i diritti acquisiti in rapporto al maturato economico" e, infine, è stato chiarito che dell'esecuzione del decreto fosse incaricato "l'Assessorato Regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro". Tale provvedimento è stato impugnato dal Comune di -OMISSIS- (ricorso iscritto al r.g. n. -OMISSIS-), anche alla luce degli squilibri economico-finanziari che avrebbe comportato per un ente locale già in dissesto; con sentenza T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, -OMISSIS-, n. -OMISSIS- è stato rigettato il ricorso in questione, in ragione dell'infondatezza di tutte le doglianze avanzate. Nonostante tale decisione (non appellata dal Comune), il decreto Presidente della Regione Siciliana, -OMISSIS-, n. -OMISSIS-/serv.4/SG non è stato mai portato ad esecuzione anche alla luce del parere espresso dalla Corte dei Conti, sez. autonomie, 4 febbraio 2016, n. 4, che ha chiarito che, anche per l'acquisizione dei lavoratori delle IPAB ex art. 34, l. r. Sicilia n. 22/2016, vale il principio ex art. 97 Cost. dell'obbligatorietà del ricorso a procedure concorsuali per il reclutamento del personale da parte dell'ente soppresso e che quindi non possono essere ammessi nei ruoli del Comune dipendenti che non abbiano superato un pubblico concorso. Il Comune ricorrente, pertanto, non solo non ha mai assunto i lavoratori dell'IPAB, ma non ha neppure acquisito alcun bene, né alcun rapporto attivo e passivo del suddetto IPAB, che, quindi, ad oggi non si è ancora estinto ed opera a mezzo di un commissario straordinario nominato dalla stessa Regione Siciliana. Parallelamente, peraltro, altri enti locali hanno avanzato numerose azioni avverso i diversi decreti adottati dalla Regione Siciliana ai sensi e per gli effetti dell'art. 34, comma 2, l. r. Sicilia n. 22/1986. Conseguentemente, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana - in due distinti giudizi relativi rispettivamente a delle IPAB site nei Comuni di (omissis) e di (omissis) - ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, comma 2, l. r. Sicilia n. 22/1986 per violazione dei principi di autonomia finanziaria degli enti locali, di corrispondenza tra risorse e funzioni, dell'equilibrio di bilancio e di buon andamento della pubblica amministrazione (cfr. C.G.A.R.S., ord. 15 ottobre 2018, n. 556 e ord. 20 febbraio 2019, n. 160). La Corte costituzionale, quindi, con sentenza 6 luglio 2020, n. 135 ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana 9 maggio 1986, n. 22 (Riordino dei servizi e delle attività socio-assistenziali in Sicilia) nella parte in cui prevede: "e i beni patrimoniali sono devoluti al comune, che assorbe anche il personale dipendente, facendone salvi i diritti acquisiti in rapporto al maturato economico""; segnatamente, la Corte costituzionale ha ritenuto illegittima la disposizione in quanto la stessa "impone ai Comuni siciliani l'accollo delle ingenti posizioni debitorie delle IPAB, accollo che, in assenza di un'adeguata provvista finanziaria, diventa insostenibile nei casi (come quelli di specie) dei Comuni più piccoli, per i quali l'effetto quasi fisiologico della successione è quello dell'attivazione delle procedure di dissesto". La Corte ha ricordato che ""il subentro di un ente nella gestione di un altro ente soppresso (o sostituito) deve avvenire in modo tale che l'ente subentrante sia salvaguardato nella sua posizione finanziaria, necessitando al riguardo una disciplina [...] la quale regoli gli aspetti finanziari dei relativi rapporti attivi e passivi e, dunque, anche il finanziamento della spesa necessaria per l'estinzione delle passività pregresse (tra le altre, sentenza n. 364 del 2010)" (sentenza n. 8 del 2016; nello stesso senso, sentenze n. 364 del 2010, n. 116 del 2007, n. 437 del 2005 e n. 89 del 2000)" ed ha evidenziato che "sotto altro profilo, poi, l'assorbimento totalitario del personale proveniente dalle IPAB con conseguente immissione nei ruoli organici dei Comuni, incidendo sui vincoli relativi alle assunzioni negli anni successivi, comprime le scelte organizzative degli enti locali, impedendo di assumere figure che possono essere necessarie per lo svolgimento delle loro funzioni". Per tutte le superiori ragioni, quindi, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della disposizione nella parte in cui prevede che i Comuni succedano alle IPAB estinte, innanzitutto per violazione degli artt. 81, 97 e 119 Cost., e ha precisato che "dalla dichiarazione d'illegittimità costituzionale consegue l'obbligo per il legislatore regionale di provvedere alla complessiva risoluzione del problema delle IPAB in dissesto, individuando un ragionevole punto di equilibrio che contemperi tutti i valori costituzionali in gioco, primo fra tutti quello della tutela dei soggetti deboli". In altri termini, la Corte costituzionale - con la sentenza sopracitata - per un verso, ha dichiarato l'illegittimità della disposizione che attribuisce in capo alla Regione Siciliana il potere di estinguere le IPAB e di disporre la devoluzione dei rapporti delle stesse ai comuni; per altro verso - al fine di una celere e uniforme definizione delle vicende ancora non concluse -, ha affidato alla stessa Regione Siciliana il compito di risolvere "complessivamente" il problema di tutte le IPAB siciliane. Conseguentemente, con nota -OMISSIS-, il commissario straordinario dell'IPAB "Casa di Riposo Santa Maria di Gesù " e il commissario ad acta nominato dalla Regione per sostituire il sindaco del Comune di -OMISSIS- nella sottoscrizione del verbale di consegna con il commissario straordinario dell'IPAB - hanno riconosciuto che, con la sentenza Corte costituzionale n. 135/2020 "il procedimento di estinzione, il passaggio del personale e del patrimonio dell'IPAB viene meno" ed hanno richiesto chiarimenti alla Regione in merito agli adempimenti da svolgere. In assenza di una determinazione ufficiale della Regione che riconosca e prenda atto dell'intervenuta nullità e/o inefficacia sopravvenuta del D.P.R.S. -OMISSIS-, n. -OMISSIS-/serv.4/SG, il Comune di -OMISSIS- ha proposto ricorso per sentire accertare la nullità e/o l'inefficacia sopravvenuta del summenzionato decreto nonché di tutti gli atti connessi, presupposti e/o consequenziali. 2.1. Si sono costituiti in giudizio la Regione Siciliana, l'Assessorato Regionale della Famiglia delle Politiche Sociali e del Lavoro e l'Assessorato Regionale delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica, chiedendo, in via preliminare, di dichiarare l'estraneità della Presidenza della Regione Sicilia intimata, con ogni conseguenziale statuizione; chiedendo per gli Assessorati regionali, invece, il rigetto del ricorso, in quanto totalmente infondato in fatto e in diritto. 2.2. Hanno proposto atto di intervento ad opponendum le sig.re -OMISSIS-, -OMISSIS- nonché la Fa. En. Co. Ltd. 2.3. Con ordinanza-OMISSIS- è stata accolta l'istanza di rinvio della trattazione del ricorso proposta dalla parte ricorrente, con fissazione della discussione alla pubblica udienza del 25 maggio 2022. 2.4. In vista della celebrazione dell'udienza pubblica del 25 maggio 2022: - gli Assessorati regionali resistenti, con memoria depositata in data 4 febbraio 2022, in ragione dell'intervenuto annullamento con decreto presidenziale n. -OMISSIS-/Serv. 4/SG del -OMISSIS-(contestualmente ad altri decreti presidenziali) del decreto assessoriale n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, hanno chiesto che il ricorso venga dichiarato improcedibile per carenza di interesse, e comunque rigettato, in quanto infondato in fatto e in diritto; - l'interveniente ad opponendum Fa. En. Co. Ltd, con memoria depositata in data 22 aprile 2022, ha chiesto, in via principale, di dichiarare la sopravvenuta carenza di interesse alla prosecuzione del giudizio (in ragione del sopravvenuto decreto del Presidente della Regione Siciliana Reg. -OMISSIS- con il quale è stato annullato il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo del giudizio) e, in subordine, preliminarmente di dichiarare inammissibile il ricorso proposto dal Comune di -OMISSIS- e, comunque, rigettarlo nel merito perché infondato in fatto ed in diritto; - il Comune di -OMISSIS-, con memoria depositata in data 23 aprile 2022, ha chiesto di dichiarare la cessata materia del contendere, in ragione del decreto del Presidente della Regione Siciliana Reg. -OMISSIS- di annullamento, tra gli altri, dell'avversato decreto assessoriale n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, e, per l'effetto, di adottare i provvedimenti di competenza; in subordine, di ritenere e dichiarare fondato il ricorso e, per l'effetto accoglierlo; in ogni caso, ritenere e dichiarare infondati gli interventi ad opponendum spiegati da -OMISSIS-, -OMISSIS- e -OMISSIS-; - infine, con memoria di replica depositata in data 4 maggio 2022, -OMISSIS- e -OMISSIS- Concetta (quest'ultima non ritualmente costituita nel giudizio iscritto al n. r.g. 1829/2020), hanno insistito per il rigetto del ricorso. 3. All'udienza pubblica del giorno 25 maggio 2022, in relazione ai giudizi iscritti ai nn. r.g. 640/2019 e 1829/2020, presenti i difensori delle parti, come da verbale, preliminarmente, il Collegio, ai sensi dell'art. 73, comma 3, cod. proc. amm., ha rilevato possibili profili di inammissibilità degli atti di intervento nei limiti in cui estendono il thema decidendum. Quindi, l'avvocato Gi. Pa. (per le ricorrenti - nel giudizio iscritto al n. r.g. 640/2019 - e per le intervenienti ad opponendum - nel giudizio iscritto al n. r.g. 1829/2020), in relazione ad entrambi i giudizi, ha chiesto che venga disposta consulenza tecnico-contabile. Dopo la discussione, i ricorsi sono stati trattenuti in decisione. DIRITTO 1. Premesso che i ricorsi iscritti ai nn. r.g. 640/2019 e 1829/2020 sono stati trattati all'udienza pubblica del giorno 25 maggio 2022 ed entrambi trattenuti in decisione, il Collegio ravvisa la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 70 cod. proc. amm. per disporne la riunione. 2. Sempre in via preliminare il Collegio rileva - avendo dato avviso dei possibili profili di inammissibilità ai sensi dell'art. 73, comma 3, cod. proc. amm., in sede di udienza pubblica, come da verbale - che nel processo amministrativo la posizione dell'intervenente ad oppponendum, non diversamente da quella dell'intervenente ad adiuvandum, si caratterizza per la sua accessorietà rispetto a quella della parte a sostegno della quale esso interviene, con conseguente impossibilità per lo stesso di ampliare il thema decidendum, i cui confini sono segnati dal contenuto motivazionale e dispositivo dell'atto impugnato e dalle censure contro di esso dedotte dal ricorrente (cfr. T.A.R. Piemonte, sez. II, 18 aprile 2019, n. 446; T.A.R. Basilicata, sez. I, 29 febbraio 2016, n. 156). Ne consegue che i proposti atti di intervento sono inammissibili nelle parti in cui estendono il thema decidendum. 3. Quanto al rilievo ex officio alla camera di consiglio del 24 ottobre 2019 (con riguardo al ricorso iscritto al n. r.g. 640/2019), ai sensi dell'art. 73, comma 3, cod. proc. amm., in punto di non validità della firma digitale apposta sul ricorso introduttivo, il Collegio ritiene che le argomentazioni della parte ricorrente racchiuse nella memoria depositata (unitamente a corredo documentale) in data 16 gennaio 2020 siano idonee al superamento del detto rilievo officioso. Peraltro, in termini generali, le norme che regolano il processo vanno intese nell'ottica strumentale di garantire un certo risultato e non assumono, pertanto, un valore in sé, né hanno un fine proprio e autonomo; ne consegue che deve essere esclusa l'invalidità degli atti di procedura compiuti qualora non vengano in rilievo la violazione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione finale, ma, al più, una mera irregolarità sanabile in virtù del principio del raggiungimento dello scopo (arg. ex T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 4 aprile 2020, n. 1799; T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV, 4 aprile 2017, n. 1799). 4. In ordine al ricorso introduttivo del giudizio - iscritto al n. r.g. n. 640/2019 - deve essere dichiarata l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della domanda ex art. 112 cod. proc. amm. e di quella ex art. 31, comma 1, cod. proc. amm. (cfr., in particolare, la dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse, quanto alle dette domande, racchiusa nel ricorso per motivi aggiunti depositato in data 17 maggio 2021). Quanto all'ulteriore domanda proposta con il detto ricorso introduttivo (impugnazione della nota prot. -OMISSIS-, con la quale il Comune di -OMISSIS- ha denegato l'istanza volta all'assunzione delle ricorrenti), si rinvia all'esame dei ricorsi per motivi aggiunti (cfr. infra). 5. Con il citato ricorso per motivi aggiunti depositato in data 17 maggio 2021, oltre a manifestare la sopravvenuta carenza di interesse in relazione alle sopra richiamate domande ex artt. 112 e 31, comma 1, cod. proc. amm. proposte con il ricorso introduttivo del giudizio (prot. n. r.g. 640/2019), la parte ricorrente ha: - avversato la nota prot. -OMISSIS-dell'Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro della Regione Siciliana, Dipartimento della Famiglia e delle Politiche Sociali, Servizio 9 "II.PP.A.B." con la quale è stato disposto che il "decreto di estinzione possa essere revocato o, altrimenti, sospeso per un periodo almeno di 6 mesi"; la nota prot. n. -OMISSIS-dell'Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro della Regione Siciliana, Dipartimento della Famiglia e delle Politiche Sociali, Servizio 9 "II.PP.A.B.", nella parte in cui con essa si assume "che questa Amministrazione non ha competenza in materia di gestione del personale delle II.PP.A.B., per cui, tutto ciò che riguarda il rapporto di lavoro della stessa dipendente dell'Istituto, è da addebitare alla piena ed esclusiva responsabilità, civile ed amministrativa dell'IPAB stessa e/o dei suoi amministratori"; il D.A. n. 07/GAB del 16 febbraio 2021 dell'Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro della Regione Siciliana, con cui viene nominato un commissario straordinario dell'IPAB S. Maria di Gesù di -OMISSIS-, nella parte in cui con esso si afferma "che la procedura di estinzione dichiarata con il D.P. Reg. n. -OMISSIS-/Serv.4° /S.G. del -OMISSIS-, ai sensi dell'art. 34, comma 2, della L.r. n. 22/1986, non si è perfezionata e non ha prodotto i suoi effetti, atteso che non si è realizzata la successione universale dell'IPAB al Comune a mezzo di atti definitivi, con riferimento sia al trasferimento della proprietà del patrimonio immobiliare dell'ente con l'avvenuta trascrizione nei Registri Immobiliari e catastali, sia all'assunzione del personale proveniente dall'IPAB con la relativa iscrizione nei ruoli organici del Comune"; il D.A. n. 15/GAB del 9 marzo 2021 dell'Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro della Regione Siciliana, con cui viene nominato un commissario straordinario dell'I. S. Ma. di Ge. di -OMISSIS-, nella parte in cui con esso si afferma "che la procedura di estinzione dichiarata con il D.P. Reg. n. -OMISSIS-/Serv.4° /S.G. del -OMISSIS-, ai sensi dell'art. 34, comma 2, della L.r. n. 22/1986, non si è perfezionata e non ha prodotto i suoi effetti, atteso che non si è realizzata la successione universale dell'IPAB al Comune a mezzo di atti definitivi, con riferimento sia al trasferimento della proprietà del patrimonio immobiliare dell'ente con l'avvenuta trascrizione nei Registri Immobiliari e catastali, sia all'assunzione del personale proveniente dall'IPAB con la relativa iscrizione nei ruoli organici del Comune": - quindi la parte ricorrente ha chiesto la declaratoria di illegittimità ex art. 34, comma 3, cod. proc. amm. della (già impugnata con ricorso principale) nota prot. -OMISSIS-, con la quale il Comune di -OMISSIS- ha denegato l'obbligo di dare seguito all'istanza delle ricorrenti volta alla loro assunzione; - inoltre la stessa parte ricorrente ha chiesto la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria ex art. 30, comma 2, cod. proc. amm.. 6. Con unico articolato motivo di ricorso per motivi aggiunti depositato in data 28 maggio 2021 la parte ricorrente ha dedotto i vizi di Violazione e falsa applicazione art. 34, L.R. Sicilia 9 maggio 1986, n. 22. Violazione dell'art. 3 L. 241/90 per carente o parziale motivazione. Violazione e falsa attuazione delle direttive emanate dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 135/2020. Eccesso di potere per falso presupposti di fatto e di diritto e sviamento dalla causa tipica. Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto. Contraddittorietà . Arbitrarietà . Diversità di trattamento rispetto a fattispecie identiche. Violazione dell'art. 97 Cost. Buon andamento dell'Amministrazione. In sintesi, per la parte ricorrente il provvedimento avversato - la revoca dei decreti di estinzione delle IPAB siciliane - costituisce il culmine di una condotta dell'Amministrazione regionale perplessa e contraddittoria. Dopo aver richiamato le doglianze articolate con il primo ricorso per motivi aggiunti, la parte ricorrente ha argomentato che nessuna incidenza poteva avere il successivo sopravvenire della pronuncia della Corte costituzionale (la stessa Regione Siciliana per il tramite dell'Avvocatura dello Stato, la quale, nel ricorso iscritto al n. r.g.. 1829/2020 afferma che il provvedimento di estinzione non è più tangibile). Per la parte ricorrente, in primo luogo, già a partire dal suo primo "CONSIDERATO", unitamente al suo primo "RILEVATO", il provvedimento si fonda su un presupposto giuridico errato e fuorviante, laddove assume che la successione a titolo universale "del patrimonio attivo e dei debiti pregressi, ma anche l'assunzione dei lavoratori dipendenti dell'ente che venivano ammessi nei ruoli organici del Comune", sarebbe subordinata ad "accettazione" da parte di quest'ultimo, occorrendo, viene precisato, che vi debba essere "una convergenza delle volontà e degli interessi delle parti coinvolte". Successivamente, al primo "RILEVATO" dell'impugnato provvedimento, in connessione e ad "integrazione" della sopra riferita motivazione, si afferma una circostanza asseritamente ancor più singolare, ovvero "che i Decreti Presidenziali di estinzione non sono stati posti in esecuzione sia per la resistenza delle Amministrazioni comunali ad ottemperare alle prescrizioni contenute al comma 2 dell'art. 34, della L.R. n. 22/1986, sia a seguito degli innumerevoli contenziosi posti in essere dai vari portatori di interesse"; per l'esponente era dovere istituzionale ed obbligo giuridico dell'amministrazione regionale garantire l'effettività dei propri provvedimenti ed impedire che la loro esecutorietà fosse lasciata alla "disponibilità " dei comuni e, men che meno, che dipendesse dall'attivazione di contenziosi da parte dei portatori di interesse; semmai, è stata l'inerzia, o comunque il tardivo e debole intervento della Regione a cagionare la conseguenza del contenzioso da parte dei portatori di interesse (fermo, per la giurisprudenza, la sussistenza dell'obbligo giuridico della Regione Siciliana di dare esecuzione al provvedimento di estinzione dell'IPAB divenuto efficace in quanto non impugnato). Per la parte ricorrente, inoltre, le suddette circostanze non sono comunque ricollegabili alla sentenza della Corte costituzionale e tale presupposto rappresenta pertanto una "falsa" motivazione. Ed ancora, il quarto "CONSIDERATO" dell'impugnato decreto presidenziale introduce una falsa motivazione chiaramente intesa ad operare una leading suasion strumentale alla "reale" causa dell'atto, che non è certamente quella solo apparente di volere dare ottemperanza alla sentenza della Corte: infatti, non è dato comprendere quali sarebbero "i nuovi rapporti non ancora costituitisi ovvero "quelli in corso di costituzione e non ancora perfezionatisi", rispetto ai quali "la norma incostituzionale deve essere ritenuta abrogata e non applicabile". Il successivo punto (il dodicesimo "VISTA" e il primo "RITENUTO") dell'impugnato provvedimento introduce un'ulteriore incongruenza giuridica, dal momento in cui pone a presupposto del provvedimento (di natura "generale") una questione posta dal giudice a quo in relazione ad uno specifico contenzioso trattato dal C.G.A.R.S. (r.g. n. 205/2018), mentre la stessa Corte costituzionale non perviene a detta conclusione; in sostanza, non è un fatto giuridicamente assodato e avente natura generale quello secondo cui, dalla caducazione del secondo comma dell'art. 34, l.r. 22/1986, derivi la caducazione anche del primo comma. Per la parte ricorrente, l'unico passaggio corretto del decreto presidenziale avversato è quello in cui si riferisce dell'invito operato dalla Corte costituzionale, rimasto ineseguito, perché la Regione riveda normativamente la materia (esigenza che si individui "un ragionevole punto di equilibrio che contemperi tutti i valori costituzionali in gioco, primo fra tutti quello della tutela dei soggetti deboli"). Inoltre, per la parte ricorrente il provvedimento impugnato genera ancora più disordine ed incertezza amministrativa, produce ulteriore contenzioso e si allontana dall'invito formulato dalla Corte costituzionale circa l'attenzione per i soggetti deboli (tra i quali anche le lavoratrici dell'IPAB ricorrenti). Il decreto impugnato, inoltre, esprime un ulteriore motivo di perplessità e contraddittorietà laddove sembra essere rivolto a tutte le IPAB siciliane mentre, senza che di ciò venga data motivazione, due di dette IPAB (di (omissis) e di S. Cataldo), anch'esse estinte per mano del Presidente della Regione sempre nel 2016, non sono state interessate dalla revoca dell'estinzione oggi impugnata. Anche nell'ultimo "VISTA" del decreto gravato è racchiusa una errata valutazione giuridica, laddove si ritiene che l'orientamento del C.G.A.R.S. espresso in seno ad un giudizio riguardante una fattispecie singolare di estinzione di un IPAB riguarderebbe tutte le altre, conclusione arbitraria e priva di pregio giuridico nonché perplessa, atteso che la sentenza del C.G.A.R.S. in parola è risalente. Il decreto in epigrafe, per l'esponente, è altresì illegittimo nella parte in cui, lungi dal raccogliere l'invito della Corte costituzionale e travisando il senso della stessa sentenza (che giammai si è pronunciata sulla legittimità del primo comma dell'art. 34 l.r. 22/1986, che continua a restare vigente nell'ordinamento giuridico siciliano), ha reputato "opportuno" agire quasi da "legislatore", espungendo di fatto dall'ordinamento giuridico il primo comma dell'art. 34, che mai è stato messo in discussione dalla Corte costituzionale; e la Regione lo ha fatto attribuendo arbitrariamente alla sentenza del C.G.A.R.S. riguardante un singolo IPAB un "effetto conformativo" che, a dire del suo governo, dovrebbe estendersi (ma ciò non è detto in alcun luogo) a tutte le IPAB estinte. Per la parte ricorrente, tuttavia, la Corte non ha stigmatizzato la possibilità che l'ente possa essere estinto, ma ha censurato l'effetto che dall'estinzione la legge ne fa discendere, in ragione della sua "rigidità "; la Corte ha affermato che non è necessariamente illegittima la previsione della successione delle posizioni giuridiche soggettive dall'ente estinto all'ente locale, incluso il passaggio dei lavoratori, ma ha chiarito che tale passaggio può avvenire solo dopo un vaglio di "sostenibilità " concreta (finanziaria ed amministrativa) per l'ente ricevente; quindi nessuna caducazione della norma che prevede l'estinzione delle IPAB (primo comma art. 34) è contenuta nella sentenza della Corte costituzionale, così come nessuna "demonizzazione" del principio del trasferimento dei cespiti fra enti si rinviene nella lettura del Giudice delle leggi, ma solo la sua ponderazione. Inoltre, sempre per la parte ricorrente, se è vero che il C.G.A.R.S. ha ritenuto opportuno annullare (ma perché espressamente impugnato dalla parte ricorrente) il provvedimento di estinzione dell'IPAB nel giudizio r.g. n. 205/2018, lo ha fatto per ragioni sistematiche e specifiche riguardanti quella particolare IPAB e in seno ad uno specifico contenzioso (senza mai affermare che tale effetto di elisione debba prodursi in tutti i casi di estinzione dell'IPAB). In ultimo, secondo la parte ricorrente, il provvedimento impugnato si caratterizza anche per la sua "inutilità " e per il fatto che esso suscita effetti paradossali e disfunzionali del sistema, ponendosi in grave violazione dell'art. 97 Cost., che postula invece il buon andamento dell'attività amministrativa: va considerato, infatti, che l'IPAB di -OMISSIS-, ormai da diversi anni, è un ente del tutto dismesso (la sua sede è chiusa), non espleta alcuna attività amministrativa o assistenziale: l'assenza di significato compiuto al provvedimento oggi impugnato è spia della sua illegittimità per assenza di causa tipica o sviamento dalla stessa e la conservazione di tale atto nel mondo giuridico aggrava ancor di più l'opera di sistemazione del comparto (ancora oggi non efficacemente avviata) e determina ulteriore condotta illegittima dell'amministrazione regionale che dovrà rispondere in sede risarcitoria. 7. Il Collegio ritiene di poter esaminare congiuntamente le domande proposte con il ricorso introduttivo del giudizio (nei termini residuali sopra richiamati) e con i successivi ricorsi per motivi aggiunti, che, si può subito anticipare, si rivelano infondate nei termini in appresso specificati. 7.1. In primo luogo va precisato che, nonostante l'intervenuto giudicato di rigetto in ordine al ricorso (n. r.g. -OMISSIS-; sentenza T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, -OMISSIS-, n. -OMISSIS-) proposto dal Comune di -OMISSIS- avverso il decreto presidenziale n. -OMISSIS-/Serv. 4/ S.G. del -OMISSIS-di estinzione dell'I.P. "Ca. di Ri. S. Ma. di Ge. ", non sussiste preclusione, nel caso in esame, al concreto esercizio del potere di autotutela da parte dell'Amministrazione regionale (sub specie di annullamento, recato dal decreto presidenziale n. -OMISSIS-/Serv.4/S.G. del-OMISSIS-). Ed invero, secondo condiviso orientamento giurisprudenziale, il giudicato di rigetto lascia invariato l'assetto giuridico dei rapporti precedente alla radicazione del giudizio, non determinando la necessità per l'Amministrazione di intervenire in alcun modo sul proprio atto, che, relativamente ai motivi fatti valere in giudizio, è stato dichiarato pienamente legittimo; coerentemente trova applicazione anche la regola generale che esclude, nel caso di giudicato di rigetto, la sussistenza di effetti conformativi nei confronti della pubblica amministrazione, stante il tenore dell'art. 34 cod. proc. amm. per il quale solo "in caso di accoglimento del ricorso" il giudice può annullare, ordinare, condannare, disporre misure idonee, accertare ecc., salvo l'effetto preclusivo, derivante anche dalle decisioni di reiezione, di rimuovere in via di autotutela il provvedimento impugnato per gli stessi motivi che il giudice ha ritenuto infondati nel rigettare il ricorso (cfr. T.R.G.A. Trento, sez. unica, 15 gennaio 2021, n. 5). 7.2. Va poi precisato che, come ben evidenziato dalla giurisprudenza, quando vi è sopravvenienza di una dichiarazione di incostituzionalità di una norma sulla base della quale l'Amministrazione abbia in precedenza adottato un atto amministrativo "vi potrebbe essere" una valutazione da parte di quest'ultima dell'impatto della pronuncia costituzionale sull'atto amministrativo ai fini dell'esercizio dei poteri di autotutela (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14 aprile 2015, n. 1862; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 13 luglio 2015, n. 9354). Il Collegio intende evidenziare, dunque, che la sopravvenienza di una dichiarazione di incostituzionalità di una norma sulla base della quale la P.A. abbia in precedenza adottato un atto amministrativo non dà vita ad una ipotesi di c.d. "autotutela doverosa" (cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. III, 23 luglio 2021, n. 2292); ciò nondimeno l'esercizio del potere di autotutela non può ritenersi aprioristicamente escluso. 7.3. Fermo quanto sopra, il Collegio rileva che la motivazione racchiusa nel secondo (pag. 1) e nel terzo (pag. 2) "Considerato" del contestato decreto presidenziale n. -OMISSIS-/Serv.4/S.G. del -OMISSIS-consenta allo stesso provvedimento di resistere alla proposta domanda caducatoria. In particolare, secondo quanto si legge nell'avversato provvedimento di autotutela: - "CONSIDERATO che l'interpretazione del comma 2 dell'articolo 34 legge regionale n. 22/1986, nel senso che l'estinzione dell'IPAB comportasse una successione a titolo universale fra ente assistenziale e comune, ha costituito il presupposto della pronuncia di illegittimità costituzionale per violazione dei principi costituzionali di autonomia finanziaria degli enti locali, di corrispondenza tra risorse e funzioni, dell'equilibrio di bilancio e di buon andamento della pubblica amministrazione (Costituzione, art. 97 e art. 119, commi 1, 4, 5 e 6; Statuto della Regione Siciliana art. 15, comma 2), in quanto la rigidità della norma imponeva ai comuni siciliani l'accollo delle ingenti posizioni debitorie delle IPAB, senza prevedere la previsione di un'adeguata provvista finanziaria per farvi fronte, ed, inoltre, l'assorbimento totalitario del personale proveniente dalle IPAB, con conseguente immissione nei ruoli organici dei comuni, che andava ad incidere sui vincoli relativi alle assunzioni negli anni successivi, comprimendo le scelte organizzative degli enti locali, precludendo loro di assumere le qualifiche professionali necessarie per lo svolgimento delle loro funzioni; "; - "CONSIDERATO che la sentenza n. 135 dell'11/06/2020 si pone nel solco di altre articolate pronunce del giudice costituzionale che tracciano un orientamento della Corte ben definito e conducente alla conclusione che non è costituzionalmente ammissibile l'automatico assorbimento, disposto ai sensi dall'art. 34, comma 2, della l.r. n. 22 del 1986, del patrimonio e del personale delle IPAB da parte del comune interessato in violazione delle norme sull'autonomia finanziaria degli enti locali, sul contenimento della spesa pubblica (ivi incluse quelle che introducono divieti o limitazioni alle assunzioni di personale), sull'equilibrio dei bilanci pubblici e sulla copertura delle leggi di spesa, e delle norme che impongono oneri alle amministrazioni in funzione della sostenibilità del debito; ". Orbene, a giudizio del Collegio, il detto corredo motivazionale identifica un preciso interesse pubblico (in particolare: salvaguardia dell'autonomia finanziaria degli enti locali, principio del contenimento della spesa pubblica, principio dell'equilibrio dei bilanci pubblici e circa la copertura delle leggi di spesa) concreto e attuale alla rimozione del precedente decreto presidenziale di estinzione dell'IPAB e di devoluzione del suo patrimonio e personale, tale da sorreggere l'avversato provvedimento di annullamento. Sul detto principio, più di recente, è stato ribadito che "Nel nostro ordinamento vige il principio di autonomia finanziaria dei Comuni, espressamente declinato sia dall'art. 119 Cost. sia dai singoli statuti delle Regioni speciali e, con specifico riferimento alla Regione Siciliana, dall'art. 15, secondo comma, del relativo statuto, secondo cui "l'ordinamento degli enti locali si basa nella Regione stessa sui Comuni e sui liberi Consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria"" (cfr. Cons. Giust. Amm., Reg. Sic., sez. giur., 23 febbraio 2022, n. 226). Gli ulteriori profili motivazionali - oggetto di puntuali contestazioni ad opera della parte ricorrente - non rappresentano, dunque, il nucleo fondamentale della determinazione di autotutela, sì da porsi quali elementi accessori e secondari del corredo argomentativo della assunta decisione. In particolare, irrilevante - alla luce delle superiori considerazioni - si palesa la questione della necessità della convergenza delle volontà e degli interessi delle parti coinvolte dalla successione (devoluzione del patrimonio e del personale) al pari della questione delle ragioni della mancata esecuzione dei decreti presidenziali di estinzione. Il riferimento ai nuovi rapporti non ancora costituitisi ovvero a quelli in corso di costituzione e non ancora perfezionatisi si rivela comunque ultronea, non incontrando in concreto l'esercizio del potere di autotutela de quo limiti derivanti dalla sussistenza o meno di fattispecie perfezionate. Il rapporto fra i commi primo e secondo dell'art. 34 della legge reg. Sic. n. 22/1986 perde di rilevanza se si tiene conto che la concretamente disposta estinzione dell'IPAB e contestuale devoluzione (successione) del patrimonio e del personale al Comune di -OMISSIS- è in grado di ledere l'autonomia finanziaria dell'ente locale e di vulnerare gli altri principi sopra richiamati. Inoltre, il difetto di intervento legislativo regionale in materia - esplicitamente sollecitato dal Giudice delle leggi - non può essere ascritto all'Amministrazione procedente, mentre la permanenza degli effetti del decreto presidenziale di estinzione dell'IPAB e di devoluzione del suo patrimonio e personale avrebbero stabilizzato, consolidato e approfondito la lesione dei sopra richiamati principi di finanza pubblica a danno dell'ente locale. La mancata considerazione di tutte le IPAB siciliane non può assumere connotazioni vizianti, sia in ragione della possibilità per l'Amministrazione regionale procedente di adottare nuovi provvedimenti di autotutela riguardanti altri soggetti di analoga natura (ulteriori a quelli elencati nel provvedimento avversato), sia perché non risulta comunque esplorata dalla parte ricorrente la questione della possibile diversità di situazioni (naturalmente differenti fra le diverse IPAB) e di ricadute a carico degli enti locali (sul piano finanziario: devoluzione del patrimonio e del personale) discendenti dalla estinzione e conseguente devoluzione. Ed ancora, sebbene non sia stato posto nel nulla dal Giudice delle leggi il potere regionale di estinzione delle IPAB, come correttamente osservato dalla parte ricorrente, in concreto, nel caso in esame la devoluzione del patrimonio e del personale è stata una conseguenza del tutto automatica della disposta estinzione, senza alcun vaglio di "sostenibilità " concreta (finanziaria ed amministrativa) per l'ente ricevente: ne consegue, in relazione a detta argomentazione, l'infondatezza della censura. Infine, l'affermata inutilità della "resuscitazione giuridica" dell'IPAB si rivela argomento fallace proprio poiché l'annullamento della disposta estinzione dell'IPAB e devoluzione (dei beni e del personale) si rivela strumento idoneo a neutralizzare la lesione dell'autonomia finanziaria (e la vulnerazione degli ulteriori principi) degli enti locali destinatari. 7.4. La postuma caducazione - nell'esercizio del potere di autotutela - del decreto del Presidente della Regione n. -OMISSIS-/Serv. 4/ S.G. del -OMISSIS- rende prive di base le ulteriori domande - demolitorie e risarcitorie - proposte dalla parte ricorrente con i sopra richiamati mezzi di gravame. In particolare: - l'avversata nota del Comune di -OMISSIS- prot. n. -OMISSIS-, attraverso il richiamo alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 34 della legge reg. Sic. n. 22/1986 sollevata per contrasto con gli artt. 117 e 119 Cost. finisce per evidenziare, in termini stringati ma non per questo poco significativi, l'esigenza di tutela dell'autonomia finanziaria dell'ente locale (che ha trovato pieno riscontro nella pertinente decisione della Corte costituzionale); - gli atti avversati con il primo ricorso per motivi aggiunti si collocano nel percorso di rimeditazione della questione dell'estinzione delle IPAB e della conseguente devoluzione dei beni e del personale, percorso che è stato avviato successivamente all'intervento del Giudice delle leggi più volte richiamato e che, per le ragioni sopra evidenziate, è culminato con l'intervento di annullamento in autotutela avversato (in funzione della protezione, si ribadisce, dell'autonomia finanziaria degli enti locali). Infine, proprio in ragione del successivo intervento caducatorio - in sede di autotutela - dell'originario decreto di estinzione/devoluzione, alla luce dell'intervenuta declaratoria di incostituzionalità, non è possibile connotare in termini di illiceità il complessivo contegno tenuto dalle Amministrazioni nella vicenda in esame, con conseguente infondatezza della proposta domanda risarcitoria. 8. Il ricorso iscritto al n. r.g. 1829/2020, previa estromissione della Regione Sicilia (che, per quanto concerne l'attività amministrativa, non ha una propria soggettività unitaria, facendo essa capo ai singoli assessori, cui nell'ambito delle rispettive funzioni, è attribuita una propria competenza con rilevanza esterna: cfr., ex plurimis, T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 14 aprile 2021, n. 1154), deve invece essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, e ciò consente al Collegio di prescindere, per ragioni di economia processuale, dall'esame delle ulteriori questioni in rito. Il Comune di -OMISSIS- ricorrente ha chiesto, con il predetto gravame, di accertare e dichiarare la nullità e/o comunque l'inefficacia sopravvenuta del D.P.R.S. -OMISSIS-, n. -OMISSIS-/serv.4/SG nonché di tutti gli atti ad esso presupposti, connessi e/o consequenziali. Il Collegio ritiene che l'intervenuto annullamento - con decreto del Presidente della Regione -OMISSIS-/Serv.4/S.G. del -OMISSIS-- del citato decreto del Presidente della Regione n. -OMISSIS- del -OMISSIS- determini l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse delle domande proposte dal Comune di -OMISSIS- ricorrente, declaratoria che presuppone, infatti, il verificarsi di una situazione di fatto o di diritto del tutto nuova rispetto a quella esistente al momento della proposizione del ricorso, tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza, per avere fatto venire meno per il ricorrente l'utilità della pronuncia del giudice (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. II, 14 marzo 2022, n. 1779). 9. In conclusione, previa riunione dei ricorsi iscritti ai nn. r.g. 640/2019 e 1829/2020: - il ricorso introduttivo del giudizio iscritto al n. r.g. 640/2019 deve essere dichiarato in parte improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse e per la restante parte respinto; - i ricorsi per motivi aggiunti - proposti nell'ambito del giudizio iscritto al n. r.g. 640/2019 - devono essere respinti in ogni loro domanda; - il ricorso iscritto al n. r.g. 1829/2020 deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse. 10. La complessità delle questioni esaminate e la peculiarità della vicenda contenziosa giustificano l'integrale compensazione delle spese di giudizio fra le parti costituite mentre nulla va disposto in punto di spese di lite quanto alle parti intimate non costituite in giudizio. Con decreto 16 maggio 2019, n. 84 la Commissione per il patrocinio a spese dello Stato presso il Tribunale adito ha accolto l'istanza di ammissione in via provvisoria al patrocinio a spese dello Stato proposta dalla sig.ra -OMISSIS- (in relazione alla proposizione del ricorso n. r.g. 640/2019). Con decreto 27 maggio 2021, n. 60 la Commissione per il patrocinio a spese dello Stato presso il Tribunale adito ha accolto l'istanza di ammissione in via provvisoria al patrocinio a spese dello Stato proposta dalla sig.ra -OMISSIS- (in relazione all'atto di intervenento ad opponendum nel giudizio iscritto al n. r.g. 1829/2020). Le dette ammissioni vanno definitivamente disposte, ferma restando la liquidazione delle somme previa verifica, al momento dell'adozione del relativo decreto, della persistenza dei requisiti di legge, la cui prova ovviamente incombe sulla parte beneficiata. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania Sezione Prima, definitivamente pronunciando sui ricorsi e sui motivi aggiunti, come in epigrafe proposti, così provvede: - riunisce i ricorsi iscritti ai nn. r.g. 640/2019 e 1829/2020; - estromette dal giudizio la Regione Sicilia; - dichiara inammissibili gli atti di intervento nelle parti in cui estendono il thema decidendum; - dichiara il ricorso introduttivo del giudizio iscritto al n. r.g. 640/2019 in parte improcedibile e per la restante parte lo respinge; - respinge in ogni domanda i ricorsi per motivi aggiunti proposti nell'ambito del giudizio iscritto al n. r.g. 640/2019; - dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso iscritto al n. r.g. 1829/2020. Spese compensate quanto alle parti costituite; nulla spese quanto alle parti non costituite. Accoglie in via definitiva le istanze indicate in parte motiva di ammissione al patrocinio a spese dello Stato subordinando la liquidazione delle somme alla previa verifica della persistenza dei requisiti di legge, con onere a carico della parte istante. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, e del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti e della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti private e le persone menzionate. Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 25 maggio 2022 con l'intervento dei magistrati: Pancrazio Maria Savasta - Presidente Giuseppina Alessandra Sidoti - Consigliere Giovanni Giuseppe Antonio Dato - Primo Referendario, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DI STEFANO P. - Presidente Dott. CALVANESE Ersili - Consigliere Dott. DE AMICIS Gaetan - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI P - rel. Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabriz - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 28/04/2021 della Corte di appello di Messina; Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dalla Consigliera Di Nicola Travaglini Paola; sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Venegoni Andrea, che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilita' dl ricorso; sentiti i difensori dell'imputato, avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), che hanno concluso riportandosi ai motivi di ricorso e insistendo per il loro accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Messina riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, rideterminandone la pena, con la quale il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto aveva condannato (OMISSIS) per peculato continuato, perche', nella qualita' di segretario e tesoriere della locale IPAB, si era appropriato della somma di Euro 61.981,85, tramite numerose operazioni - descritte nel capo di imputazione - sul conto corrente dell'ente. Rilevava la Corte territoriale, sulla base delle prove assunte, la disordinata e macroscopicamente arbitraria gestione, da parte dell'imputato, del conto corrente postale intestato all'IPAB su cui operava prelievi privi di giustificazione contabile e di una loro legittima destinazione (eccetto che per la cifra di Euro 76.994,00 riversata poco dopo, a mezzo vaglia, nel medesimo conto corrente postale, per il quale lo aveva assolto), ritenendo infondata, perche' non dimostrata, la tesi difensiva dell'assenza di documentazione contabile dovuta a cause di forza maggiore, costituite dallo smarrimento e dal sequestro operato dalla Guardia di Finanza. 2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l'imputato, con atto sottoscritto dai suoi difensori, che hanno dedotto i seguenti motivi. 2.1 Con il primo denunzia la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione agli articoli 603 e 192 c.p.p. per mancata assunzione della testimonianza di (OMISSIS), gia' commissario straordinario dell'IPAB, in sede di rinnovazione dibattimentale. Il ricorrente rileva che la Corte di appello di Messina dopo averne disposto l'esame, ritenendolo necessario, in ordine alle attivita' compiute nel 2010 e alle verifiche svolte sull'attivita' del tesoriere uscente, odierno imputato, successivamente ne aveva revocato l'assunzione con provvedimento contraddittorio e illogico. Infatti, aveva ritenuto "inutile" il teste, pur acquisendo le relazioni a sua firma allegate alla consulenza tecnica del PM, avendo appreso della sua condizione di indagato, con il (OMISSIS), nell'ambito di diverso procedimento (poi archiviato). Ad avviso del ricorrente, al contrario, l'esame di (OMISSIS) avrebbe consentito di acclarare che le relazioni ispettive, poi definite dai giudici di merito mero strumento per offrire "una patina di legalita'", erano fondate su informazioni fornite anche dal commissario straordinario e dalla segretaria dell'IPAB nel periodo successivo alla gestione dell'imputato. 2.2. Con il secondo e terzo motivo denunzia la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all'articolo 6 CEDU e articolo 27 Cost., comma 2, per avere la Corte territoriale erroneamente invertito l'onere probatorio in relazione alla giustificazione delle spese oggetto del ritenuto peculato. Ad avviso del ricorrente, i giudici di merito: a) avevano considerato ingiustificate, perche' non documentate, le spese oggetto dell'imputazione, nonostante non fosse previsto per legge detto obbligo, gravando sul tesoriere degli istituti pubblici di assistenza e beneficenza in Sicilia, in forza della L. n. 6972 del 1890, articolo 20 e della Legge Regionale 9 maggio 1986, n. 22, solo quello di redigere un conto da annettere al bilancio preventivo e al conto consuntivo di ogni esercizio finanziario, peraltro sempre regolarmente presentati ed approvati dagli organi di controllo; b) avevano recepito acriticamente gli esiti delle indagini compiute dalla Guardia di Finanza e della perizia espletata, senza tenere in alcun conto la circostanza dell'assenza della documentazione contabile in quanto sequestrata, cosi' invertendo l'onere probatorio gravante sull'accusa; c) avevano operato un ragionamento indiziario utilizzando elementi privi di univocita' e concordanza come i ritenuti comportamenti macroscopicamente arbitrari o l'assenza di giustificativi di spesa, senza tenere conto delle allegazioni difensive. 3.3. Con il quarto motivo di ricorso si denunzia la violazione di legge in relazione all'articolo 314 c.p., per avere la Corte territoriale erroneamente qualificato i fatti accertati in termini di peculato e non di abuso di ufficio, con conseguente declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Secondo il ricorrente, infatti, la sentenza ha affermato la penale responsabilita' dell'imputato in base al disordine della gestione contabile e all'assenza o all'incompleta documentazione volta a giustificare i prelievi, rispetto a un conto usato anche per spese istituzionali, cioe' funzionali alla realizzazione di interessi pubblici. 3.4. Con l'ultimo motivo deduce l'omessa o apparente motivazione in ordine alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche, di cui, con l'appello, era stata sollecitata la concessione alla luce della condotta processuale dell'imputato e della sua incensuratezza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso e' inammissibile. 2. Il primo motivo di ricorso e' manifestamente infondato in quanto la Corte di appello di Messina ha spiegato, con motivazione congrua e priva di qualsiasi vizio di logicita', la scelta di disporre, e poi revocare, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale con l'esame del teste (OMISSIS), funzionario regionale, nominato ispettore e poi commissario nel corso delle indagini riguardanti la complessiva gestione dell'IPAB di Barcellona Pozzo di Gotto. Infatti la Corte di appello ha compiutamente motivato (pp. 14 e 15 della sentenza) di avere appreso, grazie alla produzione del Procuratore Generale (avvenuta all'udienza del 18 giugno 2021), il contenuto del decreto di archiviazione del Gip del Tribunale di Palermo che dava conto dell'indagine, su (OMISSIS) e (OMISSIS), per i reati di abuso d'ufficio e falso ideologico, ed in particolare delle intercettazioni da cui risultava la piena sintonia tra i due, tale da rendere evidente come (OMISSIS) non fosse terzo rispetto alla gestione operata dal coindagato. Ne consegue che il giudice di merito ha indicato in sentenza le ragioni della revoca della prova gia' ammessa con una motivazione logica e congruente rispetto alla manifesta superfluita' del testimone, alla luce del suo evidente interesse nei fatti di causa, anche alla luce dell'acquisizione delle relazioni da lui redatte su cui avrebbe dovuto deporre. 3. Il secondo e il terzo motivo di ricorso, tra loro connessi e dunque esaminabili congiuntamente, appaiono anch'essi manifestamente infondati. La motivazione della sentenza di secondo grado, da ritenersi integrata da quella conforme del giudizio di primo grado, ha acclarato che la modalita' di gestione, caotica e non trasparente, adottata dall'imputato, con un turbinoso utilizzo di denaro contante, aveva reso difficile la corretta imputazione delle spese in quanto il conto dell'IPAB era stato utilizzato sia per il compimento di spese istituzionali sia per prelievi personali. In particolare, grazie agli accertamenti della Guardia di Finanza di Milazzo, alla consulenza tecnica del PM e alla perizia espletata nel corso del dibattimento (che aveva puntualmente tenuto conto dei rilievi e dei prospetti contabili non ufficiali allegati dal consulente tecnico della difesa), era risultato che, aldila' della somma di Euro 76.994,00, riversata dall'imputato nel conto corrente postale dell'ente e dei cinque pagamenti postamat, avvenuti tra il 31 ottobre 2008 e il 12 maggio 2009, riferibili a spese dell'IPAB (fatti per i quali Cangerai era stato assolto), per il resto non vi era alcuna giustificazione contabile o di riscontro alle seguenti operazioni di prelievo compiute personalmente dall'imputato a proprio favore: - Euro 14.000 utilizzati per presunti acconti dovuti ai dipendenti; - Euro 1.000 per "rimborso di parte di un credito per anticipazioni eseguite dal Dottor (OMISSIS); credito risultante dal bilancio dell'esercizio 2007 (per la maggiore somma di Euro 18.307,96)", come da voce di postuma produzione di un estratto del libro giornale; - plurimi e sistematici prelievi in contanti di Euro 250, da agosto 2008 a luglio 2009, per totali Euro 10.810, come "microrimborsi" di un credito complessivo, autogestito dallo stesso tesoriere "per eccezionali anticipazioni eseguite nei confronti dell'ente, indifferibili", anch' esso indicato nei bilanci redatti dall'imputato e che nessun organo di controllo aveva sottoposto a verifica, tanto da essere stato qualificato un formale occultamento a posteriori di prelievi ingiustificati; - Euro 1.617,19, cifra che non corrisponde ad alcuna specifica operazione tra quelle indicate dal consulente di parte della difesa come volte a favore dell'ente; - Euro 2.500 ed Euro 20.036,00, con prelievi avvenuti nel medesimo giorno (21 maggio 2009). Il consulente tecnico della difesa aveva ritenuto dette somme finalizzate al pagamento di due avvocati e di due dipendenti, argomento non accolto dalla Corte di appello in quanto nel medesimo periodo risultava che l'ente avesse incassato, in contanti, la somma di Euro 11.299,37 mai versata da (OMISSIS) sul conto corrente postale e, dunque, verosimilmente riferibile alle spese avvenute nello stesso periodo (1 gennaio/30 giugno 2009). In totale assenza di produzione documentale o di seria allegazione difensiva idonea a comprovare che parte del denaro uscito dal conto corrente postale dell'IPAB e acquisito dall'imputato nel biennio (2008/2010) in contestazione, riguardasse spese eseguite nell'interesse dell'ente, deve ritenersi logicamente corretta e congruamente motivata l'affermazione di responsabilita' della Corte distrettuale. Detto giudice, infatti, ha ritenuto giudizialmente dimostrato che (OMISSIS) si sia appropriato delle somme indicate nella sentenza (con esclusione dei cinque pagamenti avvenuti a mezzo carta postamat) che, invece di essere utilizzate per i fini istituzionali dell'istituto, erano state impiegate dal prevenuto per scopi privatistici. A conferma di detta conclusione la pronuncia aveva utilizzato non solo argomenti connessi alla caoticita' della gestione e all'assenza di documentazione, ma anche valutazioni di carattere logico e deduttivo desunti dalle testimonianze del dottor (OMISSIS) (commissario straordinario nominato dalla Regione Sicilia il 15 gennaio del 2009) e della dottoressa (OMISSIS) (segretaria dell'IPAB dal 15 ottobre 2009, nominata per un breve periodo durante la sospensione temporanea dell'imputato) che avevano ricordato, il primo, l'opposizione cruenta di (OMISSIS) a dare accesso completo alla contabilita' dell'ente, e la seconda, che l'imputato, anche dopo la temporanea estromissione dall'incarico di segretario/tesoriere, aveva continuato a mantenere il controllo del conto corrente postale dell'IPAB non consentendo il passaggio di consegne. Sulla base di questi elementi oggettivi vanno ritenuti manifestamente infondati tutti i motivi che ruotano sull'assunto secondo cui la condotta appropriativa sarebbe stata dimostrata in base ad una non consentita inversione dell'onere probatorio. Nella specie, infatti, la prova del reato e' stata raggiunta in forza non solo degli elementi oggettivi sopra indicati, ma anche di un ragionamento indiziario in cui sono stati utilizzati criteri inferenziali rispetto all'idoneita' rappresentativa del dato conoscitivo acquisito. Appare, infatti, logico affermare, come sostenuto dalla pronuncia impugnata, che la consapevole caotica gestione del conto corrente postale dell'IPAB da parte dell'imputato, l'utilizzo spregiudicato di contante e la inidonea documentazione giustificativa prodotta dalla difesa, definita dai giudici "frutto di una ricostruzione ex post di fonte imprecisata", siano elementi utili a riscontrare che le spese contestate non fossero destinate alla realizzazione del fine istituzionale per il quale erano assegnate. Si tratta di situazioni che la Corte di legittimita' definisce "altamente significative" in quanto la genericita' dei giustificativi di spesa assume di per se' valenza probatoria mancando in radice la possibilita' di collegare l'impiego del denaro alle funzioni istituzionali dell'ente proprio grazie alla sistematica elusione delle regole che disciplinano le modalita' di adempimento dell'obbligo di rendicontazione (Sez. 6, Sentenza n. 11001 del 15/11/2019, Valenti, Rv. 27 8809 che a sua volta richiama la sentenza n. 21166 del 09/04/2019, Marino, Rv. 276067). Proprio in tema di peculato la Corte di legittimita' sostiene che la prova dell'indebito utilizzo del denaro nella disponibilita' dell'imputato soltanto per ragioni istituzionali possa desumersi dall'omessa o insufficiente rendicontazione delle spese sostenute dal pubblico agente, di cui non si fornisca una puntuale giustificazione neppure in sede processuale, atteso che tale condotta e' altamente sintomatica dell'avvenuta appropriazione (cosi', tra le altre, Sez. 6, Sentenza n. 30637 del 22/10/2020, De Luca, Rv. 279884; Sez. 6, Sentenza n. 12087 del 04/03/2020, De Angeli, Rv. 278874). In sostanza la responsabilita' dell'imputato nel caso in esame, diversamente da quanto sostenuto nel ricorso, non e' stata affatto fondata soltanto su una aprioristica insufficienza del supporto documentale allegato, tale da avere imposto l'inversione dell'onere della prova, ma anche su altri elementi che, per costante giurisprudenza, assumono in se' una connotazione inequivoca come, appunto, l'utilizzo spregiudicato del contante e la caoticita' sistematica nella gestione dei conti, cui, nella specie, si aggiungono la caparbia volonta' di (OMISSIS) di mantenere il controllo del conto corrente postale dell'IPAB anche dopo essere stato temporaneamente estromesso dall'incarico di tesoriere con nomina della dottoressa (OMISSIS). La Corte di appello di Messina, quindi, per pervenire alla declaratoria di responsabilita' dell'imputato ha correttamente e doverosamente posto in connessione dette condotte, dilatatesi per un lungo tempo, con l'assenza di giustificativi di spesa. E' manifestamente infondato anche l'assunto difensivo in forza del quale la normativa vigente al momento dei fatti non prevedeva in capo al tesoriere degli istituti pubblici di assistenza e di beneficenza in Sicilia obblighi di precisa documentazione, come correttamente stabilito a pag. 7 della sentenza impugnata ("il tesoriere della gestione di un ente come l'IPAB" e' soggetto "alle ferree regole della contabilita' pubblica"), ma solo un generico dovere di rendicontazione. Infatti, sono i principi costituzionali in materia di spesa pubblica (articoli 81, 97, 100 e 103 Cost.) a costituire il fondamento giuridico dell'obbligo di giustificazione della spesa secondo le finalita' istituzionali anche quando manchi una specifica previsione normativa che lo stabilisca (Sez. 6, Sentenza n. 3664 del 26/11/2021, Mucilli, Rv. 282879). Cio' vale a maggior ragione nel caso delle IPAB siciliane per le quali, diversamente dalle altre Regioni a cui si applica il Decreto Legislativo 4 maggio 2001, n. 207, la disciplina e' ancora costituita dalla L. 17 luglio 1890, n. 6972 (Legge "Crispi") e dalla Legge Regionale 9 maggio 1986, n. 22 ("Riordino dei servizi e delle attivita' socio-assistenziali in Sicilia") nata, peraltro, come disciplina transitoria. In ragione della natura pubblicistica dell'ente, in conformita' alle regole di gestione dei fondi e alla loro diretta attinenza alle funzioni svolte dall'IPAB e' di tutta evidenza che in capo al tesoriere, stante la sua qualifica pubblicistica, gravasse non solo un generico obbligo di rendicontazione, per come stabilito dall'anacronistica e minimale legislazione sopra indicata, ma anche quello di precisa documentazione delle spese sostenute, attraverso i giustificativi da allegare, secondo le regole di sistema relative alla spesa pubblica, utili a verificare la corretta rispondenza tra impiego del denaro dell'ente e finalita' perseguite. 4. Il quarto motivo di ricorso e' anch'esso manifestamente infondato. Esso viene esaminato, anche se non dedotto nell'atto di appello, in quanto la questione della qualificazione giuridica del fatto attiene istituzionalmente alla Corte di Cassazione poiche' investe la corretta interpretazione del diritto e, nella specie, il dovuto inquadramento della fattispecie di reato. Cio' premesso, il motivo non e' accoglibile in quanto costituisce pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimita' il principio secondo il quale l'utilizzo di denaro pubblico per finalita' diverse da quelle previste integra il reato di abuso di ufficio solo quando l'atto di destinazione, pur avvenendo in violazione delle regole contabili, sia comunque funzionale alla realizzazione, oltre che di indebiti interessi privati, anche di interessi pubblici obiettivamente esistenti, per i quali sia ammissibile un ordinativo di pagamento o l'adozione di un impegno di spesa da parte dell'ente. Al contrario, integra il piu' grave delitto di peculato l'atto di disposizione del denaro compiuto per finalita' esclusivamente private ed estranee a quelle istituzionali dell'ente in mancanza di motivazione o documentazione oppure in presenza di mera "copertura formale" (Sez. 6, Sentenza n. 27910 del 23/09/2020, Perricone, Rv 279677; Sez. 6, Sentenza n. 19484 del 23/01/2018, Bellinazzo, Rv 273783). La Corte di appello, proprio sulla base di questi principi, ha correttamente qualificato il fatto contestato a Cangerai come peculato in quanto, sulla scorta della ricostruzione storico-fattuale compiuta e sopra sinteticamente ripercorsa, ha ritenuto dimostrato che alcuni prelievi di denaro fossero stati distratti a fini esclusivamente personali dell'imputato, senza alcun utile, neanche indiretto per l'ente. Ne' puo' valere, per pervenire a diversa conclusione, la circostanza che alcune somme fossero risultate utilizzate, a posteriori, per le spese istituzionali dell'IPAB in quanto, per queste, il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto prima e la Corte di appello di Messina poi, avevano assolto (OMISSIS) per insussistenza del fatto. 5.L'ultimo motivo di ricorso e' manifestamente infondato. La Corte di appello di Messina non ha affatto utilizzato argomenti apparenti nell'escludere l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche all'imputato; al contrario, vi sono diverse e stringenti ragioni che hanno correttamente determinato il giudice di merito in questi termini: l'anomala gestione dei beni dell'IPAB, la privazione di entrate essenziali, la spregiudicata slealta' e assenza di trasparenza nella condotta illecita interrottasi soltanto per effetto delle inchieste giudiziarie. A nulla puo' valere l'incensuratezza dell'imputato, anche per il disposto letterale di cui all'articolo 62-bis c.p., e la circostanza che per parte delle condotte contestate ne abbia dimostrato la legittimita', visto che grazie a questo e' stato assolto. 6. L'inammissibilita' del ricorso determina la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e a quello di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima di fissare nella misura indicata in dispositivo. 7. Deve essere affrontata d'ufficio la questione, non posta con il ricorso, della confisca per equivalente del profitto del reato di peculato. Con la sentenza di primo grado, confermata dalla Corte di appello di Messina, e' stata disposta, ai sensi dell'articolo 322-ter c.p. (il riferimento all'articolo 323-ter c.p. contenuto nella sentenza costituisce ovviamente un refuso), "la confisca di somme di denaro ovvero, in mancanza, di beni nella disponibilita' del (OMISSIS) per un importo pari a quello del profitto del reato" (in questi termini pag. 15 della motivazione della sentenza di primo grado). Se la decisione va ritenuta corretta con riferimento alla confisca diretta del denaro, diversamente deve ritenersi per la confisca di valore o per equivalente. Infatti, ai sensi dell'articolo 322-ter c.p., vigente all'epoca del commesso reato (2009-2010), la confisca era consentita, in caso di condanna, solo per il prodotto del reato e non anche per il "profitto", inserito con la L. n. 190 del 2012. In ragione della pacifica natura sanzionatoria della confisca per equivalente (tra le altre, Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437; Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037), il cui oggetto e' costituito dal vantaggio patrimoniale conseguito dall'autore del reato qualora non sia confiscabile il profitto diretto, la stessa non puo' operare retroattivamente, tanto da rendere inapplicabile il principio generale dell'articolo 200 c.p. (Corte Cost. n. 301, del 23/09/2009, Rv. 0034107) e risolvendosi, in caso contrario, in una sanzione illegale (tra le tante, Sez. 2, n. 37590 del 30/04/2019, Giulivi, Rv.277083; Sez. 3, n. 46049 del 28/03/2018, Carestia, Rv. 274697). Pertanto, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio con riferimento alla confisca per equivalente nel caso in cui la confisca diretta di somme di denaro manchi o non sia sufficiente. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla confisca per equivalente, che esclude. Dichiara inammissibile il ricorso nel resto e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000 in favore della Cassa delle ammende.
REPUBBLICA ITALIANA 152/2022 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DEI CONTI SEZIONE PRIMA GIURISDIZIONALE CENTRALE D’APPELLO composta dai seguenti magistrati: Massimo LASALVIA Presidente Carmela de GENNARO Consigliere relatore Antonietta BUSSI Consigliere Fabio GALEFFI Consigliere Aurelio LAINO Consigliere ha adottato la seguente SENTENZA nel giudizio di appello, in materia di responsabilità, iscritto al n. 57999 del Registro di segreteria, promosso da De. Fi. Ra. Vi. (c.f. (OMISSIS)), nato il (omissis) a Fondi (LT) rappresentato e difeso – giusta procura a margine del presente atto – dall’avv. Ma. D’Ur. e con lo stesso elettivamente domiciliato in Roma, alla via (…), presso lo studio del dott. Ug. Ca., il quale legale indica, ai fini delle comunicazioni e notificazioni di legge il numero di fax (omissis) e l’indirizzo pec. (omissis)@pec.it contro - il Procuratore regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lazio; - il Procuratore generale della Corte dei conti; con l’intervento della Regione Lazio (c.f. (omissis)) in persona del Presidente p.t. e legale rappresentante, Ni. Zi., nato a Roma l’(omissis), rappresentata e difesa dall’avv. Ro. Mu. dell’Avvocatura regionale in forza di procura speciale ed elettivamente domiciliata presso tale difensore in Roma, via (…) (pec: Ro..Mu.@(omissis).it) per l’annullamento o la riforma della sentenza della Corte dei conti – Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio n. 439/2020, depositata in data 05 ottobre 2020 e notificata in data 19 novembre 2020. Esaminati gli atti di gravame, gli ulteriori atti e documenti del giudizio; Uditi, nella pubblica udienza del 25 febbraio 2022, con l’assistenza del segretario dott. Antonio Sauchelli, il relatore consigliere Carmela de Gennaro, l’avv. Ma. D’Ur. per l’appellante e l’avv. Mu. per l’interveniente Regione Lazio nonché il V.P.G. Ma. Be. per la Procura generale, come da verbale d’udienza FATTO Con atto di citazione dell’8 ottobre 2019, la Procura per la regione Lazio ha chiamato in giudizio il sig. De. Fi. Ra. Vi., all’epoca dei fatti Presidente e legale rappresentante dell’IPAB “(OMISSIS) (omissis)”, per ivi sentirlo condannare al pagamento, in favore della Regione Lazio, della somma complessiva di euro 1.000.000,00 oltre rivalutazione ed interessi in relazione a fatti di “mala gestio” consistiti nello sviamento di risorse pubbliche vincolate alla realizzazione di un’opera pubblica. Rilevava la Procura che dalle indagini, all’uopo svolte dalla Guardia di Finanza, era emerso un inappropriato utilizzo (nel periodo compreso tra il 22.11.2011 ed il 31.12.2013) della quota in acconto (pari ad euro 1.000.000,00) del finanziamento stanziato dalla Regione Lazio per la realizzazione di un Centro regionale polivalente a servizio dei migranti presso la ex colonia “Di Donato” di Formia che l’IPAB di Gaeta aveva ricevuto in comodato dal comune di Formia insieme ad una parte dei terreni adiacenti. Veniva, infatti, accertato che, dell’acconto erogato, soltanto euro 401.581,25 erano stati effettivamente utilizzati per i lavori di riqualificazione dell’ex colonia, mentre la restante parte (euro 598.418,75) veniva destinata dall’IPAB alla copertura di “spese correnti” e, quindi, a finalità diverse da quelle per le quali era stato concesso il finanziamento. I lavori urgenti di consolidamento dell’immobile, afferenti al I° lotto, venivano completati, rendicontati ed approvati dall’IPAB nel marzo 2013 e tutta la documentazione contabile poi trasmessa alla Regione Lazione nel marzo del 2014. I lavori principali, afferenti al II° lotto, sebbene aggiudicati - e nonostante la stipula del relativo contratto - non venivano mai consegnati alla SA. srl, né realizzati. L’IPAB, infatti, in data 14 gennaio 2015, restituiva anticipatamente al comune di Formia il complesso immobiliare dell’ex colonia “Di Donato”, “attesa l’impossibilità di completare i lavori per mancanza di personale tecnico idoneo nonché di qualsiasi competenza nel settore della progettazione di opere, …”, mentre la Regione Lazio, dopo aver disposto il commissariamento dell’Istituto, in data 11 settembre 2015, disponeva l’avvio della procedura di revoca dell’intero finanziamento stante l’impossibilità dell’Istituto di portare a termine l’opera e la conseguente inutilità anche della parte di finanziamento utilizzato per le opere di consolidamento. La Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, condividendo la tesi accusatoria della Procura, con la sentenza n. 439 del 05.10.2020 ha condannato, in contumacia, il sig. De. Fi. Ra. Vi., all’epoca dei fatti, Presidente e legale rappresentante dell’IPAB “(OMISSIS) Annunziata” di Gaeta, al risarcimento, in favore della Regione Lazio, del danno di euro 1.000.000,00, oltre rivalutazione monetaria dal dicembre 2013 fino alla data di notifica della sentenza ed interessi legali a far tempo da tale data e fino al soddisfo, assumendo la sussistenza di una responsabilità, per colpa grave, del predetto Presidente nella vicenda; responsabilità da ricondursi, per un verso, alla “scorretta ingerenza” del medesimo nella gestione dei lavori di consolidamento dell’immobile e delle relative procedure contabili di spesa, per altro, all’improprio utilizzo delle risorse vincolate per la copertura di spese correnti ed al loro mancato recupero. Avverso la sentenza n.439/2020 ha proposto gravame il sig. De Filippis Ra. Vi., con atto in data 11 gennaio 2021, deducendo i seguenti motivi: Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione art.1 l.n.20/1994. Regolarità delle procedure amministrative e contabili. L’appellante lamenta l’erroneità della sentenza laddove si afferma che “tutti gli atti ed i decreti assunti dal presidente dell’IPAB con riguardo a tale procedura amministrativa si appalesano violativi della normativa specifica edilizia” atteso che, a contrario, sarebbero state rispettate le disposizioni contenute sia nel Codice degli appalti (d. lgs n.16372006) che nel Regolamento dei contratti pubblici (d.P.R. 10/12/2010 n.207). Né risponderebbe al vero l’affermazione secondo la quale il De Filippis “si è inserito personalmente nella gestione dei lavori” atteso che il Consiglio di Amministrazione dell’IPAB con la delibera n.73 del 18/11/2011, oltre a ratificare la variante al progetto preliminare generale per realizzare i lavori nell’ex colonia “Di Donato” di Formia, disponeva di “delegare il Presidente Ra. Vi. De. Fi.ad adottare tutti gli atti necessari e conseguenti per la realizzazione ed il completamento del progetto”. Atti, perciò assunti legittimamente dal Presidente, peraltro in approvazione di atti tecnici redatti e sottoscritti dalla Direzione lavori e dal Responsabile unico del procedimento. L’appellante lamenta l’erroneità, in punto di diritto, anche dell’affermazione secondo la quale vi sarebbe stato “un utilizzo in termini di cassa di entrate aventi specifica destinazione per il finanziamento di “spese correnti”, senza che poi sia seguito il reintegro delle somme”. A tal proposito, premesso che l’utilizzo, in termini di cassa, di entrate aventi specifica destinazione per il finanziamento di spese correnti è espressamente consentito dall’art.195 TUEL e preferito alle anticipazioni di cassa di cui al successivo art.222, in quanto non comportante il pagamento di interessi passivi al Tesoriere, sottolinea che alla ricostituzione del fondo vincolato avrebbero dovuto provvedere altri soggetti atteso che egli lasciava l’incarico rivestito nell’IPAB in data 9 gennaio 2014. Per le stesse ragioni spettava ad altri provvedere a completare i pagamenti in favore della ditta appaltatrice negli anni 2014 e 2015. Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione art.1, co.1 ter, l.n.20/1994. Esimente politica e buona fede del dott. De. Fi.. A parere dell’appellante, l’affermazione contenuta nella sentenza appellata secondo la quale il De. Fi.si sarebbe “inserito personalmente nella gestione dei lavori e delle procedure contabili di spesa” sarebbe errata anche sotto altro profilo stante il principio di separazione tra organo politico ed organo di gestione contenuto al comma 1 ter dell’art.1 della legge n.20/1994. L’appellante ritiene, pertanto che non possa essergli imputata alcuna responsabilità atteso che, nel caso di specie, si sarebbe semplicemente limitato a sottoscrivere, peraltro in buona fede, atti redatti da professionisti tecnici altamente qualificati in materia di lavori pubblici, quali il D.L. ed il R.U.P., e nei quali riponeva la propria fiducia. Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione art.1 l.n.20/1994; art.2697c.c.. Insufficienza di motivazione. Rigetto della sentenza. Con tale motivo di impugnazione, il De. Fi. lamenta la carenza e contraddittorietà dell’iter motivazionale contenuto nella sentenza n.439/2020. Il Giudice, a suo parere, avrebbe motivato la sentenza sulla base di presupposti faci et iuris, violativi della verità storica ed in assenza di prove concrete e documentate, facendo leva solo su di una interpretazione molto discutibile e soggettiva dei fatti di causa dimenticando di considerare: 1) la delega conferita all’appellante dal C.d.A. dell’IPAB con la delibera n.73 del 18.11.2011; 2) che la gestione dei capitoli di spesa, ai sensi del TUEL, sia per quanto attiene all’utilizzo delle somme vincolate che per le varie fasi dell’entrata e della spesa, compete all’Ufficio di Ragioneria; 3) che, il Presidente, avendo lasciato l’incarico in data 9 gennaio 2014, non poteva considerarsi responsabile della mancata ricostituzione del fondo vincolato. Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione art.83, co.2. D.lgs n.174/2016 e del D.lgs correttivo n.114 del 7/10/2019. L’appellante, ritenendo che alla vicenda dannosa abbiano concorso anche altri soggetti, non evocati in giudizio, auspica che il giudice, in applicazione dell’art.83, comma 2, c.g.c., voglia tenerne conto in sede di eventuale conferma di responsabilità a proprio carico. Error in iudicando. Violazione art.1 l.n.20/1994. Errata quantificazione: a) del contributo totale erogato, b) della somma impiegata per “spese correnti”; c) della somma da restituire alla Regione Lazio. L’appellante, rinviando a quanto evidenziato nella informativa redatta dalla Guardia di Finanza nel 2017 e nella nota della Regione Lazio n.419393 del 29.12.2016, evidenzia che l’acconto erogato dalla Regione per la realizzazione dei lavori di ristrutturazione dell’ex colonia “Di Donato” ammonterebbe a complessivi euro 950.000,00 e non ad euro 1.000.00,00 e che essendo stati effettuati pagamenti alla impresa appaltatrice dei lavori per euro 401.581,25, la somma utilizzata dall’IPAB per spese correnti ammonterebbe ad euro 548.415,75 e non ad euro 598.415,75. Insiste, poi, nel sostenere che la spesa di euro 401.581,25 non rappresenterebbe danno erariale, in quanto con essa sarebbe stata realizzata la finalità tecnico-funzionale perseguita, e cioè la realizzazione di opere di consolidamento di un immobile in condizioni fatiscenti. L’appellante rileva, inoltre, che né la quota di danno connessa al mancato completamento dei lavori e alla conseguente inutilizzabilità dell’immobile (pari ad euro 548.415,75) poteva essergli imputata, atteso che sia la decisione di non far eseguire i lavori principali di completamento (II° lotto) che quella di rinunciare al finanziamento della Regione Lazio erano state assunte nell’anno 2015, in via del tutto autonoma, dagli amministratori in carica all’epoca. Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell’art.1 l.n.20/1994. Erroneità dei presupposti di fatto e di diritto; carenza di danno erariale; c.d. “motivazione apparente”. Nullità della sentenza. L’appellante sostiene che, diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata, con riferimento alla quota di finanziamento utilizzato per spese correnti non sussisterebbe “… un danno, ma solo l’obbligo dell’IPAB di ricostituire con proprie risorse libere la quota di fondo vincolato utilizzata a suo tempo per spese correnti (pagamento stipendi ai dipendenti dell’Ente) e di restituire tale somma alla Regione Lazio, evidenziandosi che il mancato adempimento di tale obbligo realizza un non consentito indebito arricchimento dell’IPAB nei confronti della Regione Lazio”. Pertanto, secondo l’appellante, la responsabilità del danno sarebbe da imputare al Responsabile dell’Ufficio di Ragioneria dell’IPAB, al direttore della filiale di Gaeta della Banca Tesoriere ed al Revisore dei conti dell’Ente, ciascuno per quanto di propria competenza. La sentenza sarebbe, perciò, affetta da vizio di “motivazione apparente” ossia di mancato esame di punti decisivi della controversia e di insanabile contrasto tra le argomentazioni addotte, tale da rendere l’esposizione non idonea a far rilevare le ragioni della decisione. Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell’art.1 l.n.20/1994. Mancata valutazione dei vantaggi comunque conseguiti. L’appellante rileva l’erroneità della sentenza anche laddove ha affermato che “la revoca totale del finanziamento esclude ogni valutazione in termini di vantaggio che possa essere derivato all’Ente per la parte di finanziamento impiegato…”. Il giudice di prime cure avrebbe, quindi, errato nel non aver tenuto conto dei vantaggi conseguiti dall’Amministrazione attesa la asserita obbligatorietà di tale valutazione ai sensi dell’art.1 della legge n.20/1994. L’esecuzione dei lavori urgenti (I° lotto) regolarmente eseguiti, collaudati ed approvati dall’IPAB, secondo l’appellante, avrebbero impedito l’aggravarsi dello stato di deterioramento della struttura della costruzione rappresentando così un valore aggiunto per l’immobile restaurato. Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione art.1 l.n.20/1994. Carenza di colpa grave. Erronea indicazione presupposti di fatto. L’appellante, infine, contesta che possa essergli imputata una condotta gravemente colposa atteso che egli ha agito sulla base di una delega speciale conferitagli dal C.d.A. dell’IPAB, all’unanimità dei presenti, ed utilizzata nei limiti di legge e nell’interesse esclusivo dell’Ente. L’appellante ha, quindi, concluso per il rigetto della domanda attrice per assenza degli elementi strutturali della responsabilità, in particolare, per l’assenza di danno erariale e della colpa grave, nonché per carenza di legittimazione passiva con riferimento alla quota di danno asseritamente conseguita dal mancato utilizzo dell’immobile e, comunque, per la riforma della sentenza in considerazione dell’apporto causale di altri soggetti non evocati in giudizio e dei vantaggi comunque conseguiti dall’IPAB e dalla collettività locale a seguito dei lavori straordinari ed urgenti effettuati e collaudati. Con liquidazione delle competenze professionali spettanti per il presente grado di giudizio con distrazione in favore del procuratore antistatario ai sensi dell’art. 93 c.p.c. In data 29.01.2021 si è costituita anche la Regione Lazio, già interveniente nel giudizio di primo grado ai sensi dell’art.85 c.g.c., chiedendo il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata nonché il favore delle spese di lite. La Procura generale con memoria in data 31 gennaio 2022, contrastando le pretese avversarie e concludendo per il rigetto dell’appello, ha concluso, in sintesi, nei seguenti termini: - in via preliminare, inammissibilità, per tardività, della produzione documentale ai sensi del combinato disposto degli artt.194 e 93, comma 11, c.g.c., nonostante l’appellante abbia scelto di rimanere contumace in primo grado; - nel merito, premessa la coerenza motivazionale della sentenza sotto il profilo logico-giuridico, con riferimento all’utilizzo del finanziamento per la copertura di spese correnti ha evidenziato che il De. Fi. avrebbe dovuto provvedere alla ricostituzione dello stesso nel minor tempo possibile non potendo rinviare l’adempimento ad esercizi finanziari successivi; - con riferimento all’invocata “esimente politica” ne ha rilevato l’inapplicabilità in tutte le ipotesi in cui, come nel caso di specie, risulti essere stato alterato il fisiologico riparto di competenze e funzioni nonché violato il divieto di interferenza reciproca; - non sarebbe ipotizzabile alcun vantaggio per l’IPAB né per la collettività atteso che il bene è rimasto abbandonato ed inutilizzato e che le opere di rafforzamento non risultano neanche approvate dal competente Ufficio del Genio civile; - la responsabilità dell’appellante, per colpa grave, sarebbe stata adeguatamente provata e motivata dal giudice di prime cure. In data 1° febbraio 2022, l’appellante ha presentato ulteriori note difensive nelle quali ha sostanzialmente richiamato tutti i motivi di gravame riportati nell’atto di appello. All’udienza pubblica del 25 febbraio 2022 le parti hanno ampiamente illustrato le contrapposte tesi insistendo per l’accoglimento delle rispettive richieste. La causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO In via preliminare, il Collegio ritiene che le produzioni documentali effettuate dall’appellante nel presente giudizio, identificate ai numeri 2, 9, 10, 12, 13, 20, 22, 29, 30, 31, 32, 37 e 38 dei documenti prodotti con l’atto di appello siano inammissibili, ai sensi dell’art.194 c.g.c., come rilevato dalla Procura generale nelle sue conclusioni, trattandosi di documenti nuovi, non prodotti nel precedente grado di giudizio, in assenza della prova di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa non imputabile alla parte interessata. Tale preclusione, come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza, opera anche nei confronti della parte che, come l’odierno appellante, sia rimasta contumace nel giudizio di primo grado. Con riferimento alle doglianze rappresentate dall’appellante deve affrontarsi, in primo luogo, il motivo di gravame con il quale il costui lamenta che la sentenza n.439/2020 della Sezione territoriale sia viziata da “motivazione apparente” e conseguentemente da nullità. Orbene, la “motivazione apparente” si realizza quando la motivazione si estrinsechi in argomentazioni del tutto inidonee a rivelare la ratio decidendi del provvedimento impugnato, come, ad esempio, nel caso in cui il Giudice pur avendo indicato gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento, tuttavia li ha indicati senza una approfondita disamina logica e giuridica, ovvero in modo tale da renderli fra loro logicamente inconciliabili o, comunque, obiettivamente incomprensibili (motivazione perplessa), di modo che sia impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del proprio ragionamento. La giurisprudenza ritiene, infatti, che il vizio di motivazione apparente sussista allorquando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nell’indicazione del criterio logico che ha condotto il Giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade nell’ipotesi in cui non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (ex multis, Corte Ca(omissis) n.3819/2020). Va rilevato, inoltre, che il vizio della sentenza lamentato dall’appellante non può essere accolto quando la questione giuridica sottesa sia comunque da disattendere, non essendovi motivo per cui un tale principio, formulato rispetto al caso di omesso esame di un motivo di appello, e fondato sui principi di economia e ragionevole durata del processo, non debba trovare applicazione anche rispetto al caso, del tutto assimilabile, in cui la motivazione del giudice di primo grado sia suscettibile di essere corretta (in tali termini, Corte Ca(omissis) n.6145/2019). Nel caso in esame, in cui viene contestata la statuizione del Giudice di prime cure in ordine alla responsabilità da attribuire all’odierno appellante, la motivazione dell’impugnata sentenza non è inficiata dal vizio di cd. apparente motivazione, in quanto il Giudice nella sentenza n.439/2020, non soltanto ha indicato compiutamente gli elementi di prova posti a fondamento del proprio convincimento, ma ha anche fornito un’ampia e dettagliata illustrazione dell’iter logico_giuridico che lo ha condotto ad assumere la decisione, concludendo con l’affermazione del coinvolgimento dell’appellante nella fattispecie di responsabilità contestata. Escludendosi la sussistenza di una ipotesi di motivazione apparente, il motivo di impugnazione è da respingere. Venendo al merito della vicenda, l’appellante lamenta l’erroneità della sentenza n.439/2020, per violazione e falsa applicazione dell’art.1 della legge n.20/1994 nella parte in cui, con riferimento allo svolgimento dei lavori del I° lotto, ovvero i lavori straordinari ed urgenti per la messa in sicurezza dell’immobile adibito ad ”ex colonia Di Donato” il Giudice di prime cure ha affermato che “tutti gli atti ed i decreti assunti dal presidente dell’IPAB con riguardo a tale procedura amministrativa si appalesano violativi della normativa specifica edilizia” e che il De. Fi. “si è inserito personalmente nella gestione dei lavori” nonché, con specifico riguardo alle procedure di spesa, che vi è stato “un utilizzo in termini di cassa di entrate aventi specifica destinazione per il finanziamento di “spese correnti”, senza che poi, sia seguito il reintegro delle somme” omissione, quest’ultima, da cui sarebbe conseguita la mancata realizzazione dei lavori di ristrutturazione ed il danno erariale di cui è causa. Sono, quindi, due i profili che connotano la complessa vicenda oggetto della sentenza impugnata e precisamente: un profilo legato alle procedure amministrative seguite dall’IPAB per l’accesso ai finanziamenti e ai lavori di consolidamento (I° lotto) eseguiti sul complesso; altro profilo connesso alle procedure di spesa seguite dall’IPAB che hanno comportato lo sviamento del finanziamento ricevuto dalla Regione Lazio dalle finalità pubbliche per le quali era stato concesso. Con riferimento al primo aspetto, dalla documentazione agli atti del giudizio, la procedura tecnico-amministrativa seguita dall’IPAB “(OMISSIS) Annunziata” per l’appalto dei lavori in questione, diversamente da quanto ritenuto dal Giudice territoriale, risulta, in realtà, aderente alla normativa di settore all’epoca vigente e, in particolare, alle disposizioni contenute nel d. lgs 12.04.2006 n.163 (cd. Codice degli appalti) e nei successivi interventi correttivi e/o integrativi (legge n.228/2006, d.lgs n.152/2008 e d.P.R. n.207/2010) per cui, concordando con la doglianza dell’appellante sul punto, non può affermarsi che costui abbia agito in violazione “della normativa specifica in materia di edilizia”. Né può essere ritenuta irrilevante, ai fini di una esenzione di responsabilità del De. Fi., la circostanza per la quale costui, con deliberazione n.73 del 18.11.2011, era stato espressamente delegato dal Consiglio di Amministrazione dell’IPAB, “ad adottare tutti gli atti necessari e conseguenti per la realizzazione ed il completamento del progetto”. Tale deliberazione, del resto, adottata dal C.d.A. in modo del tutto legittimo, non è mai stata fatta oggetto di contestazione. Anzi, proprio alla luce di tale delega, deve ritenersi che il De Filippis abbia adottato tutti i provvedimenti inerenti alla procedura di assegnazione e svolgimento dei lavori del I° lotto sulla base di una piena legittimazione ad agire, tanto più che tutti i provvedimenti risultano essere stati adottati sulla base ed in conseguenza di atti tecnici redatti e sottoscritti dal Direttore dei lavori e dal r.u.p. (quali perizie, atti di aggiudicazione, relazioni specifiche, ecc…) in osservanza della normativa in materia di lavori pubblici. Tant’è che - diversamente da quanto evidenziato nella sentenza impugnata - la Regione Lazio, a cui nel mese di marzo 2014 (nota prot. 139 del 21.03.2014) risulta inviata tutta la documentazione relativa alla contabilità finale dei lavori del I° lotto (comprese le due perizie di variante), nulla ha eccepito od osservato né in merito al rendiconto contabile né in merito alla documentazione tecnica ad essa allegata, confermandone in tal modo la totale legittimità. Del resto, la legittimità dell’operato del De. Fi., sia pure con riferimento solo alla fase attinente alle procedure amministrativo_contabili connesse all’affidamento ed allo svolgimento dei lavori del I° lotto, ha, poi, trovato conferma nella recente sentenza n.193/2021 dell’11.02.2021, con la quale il Tribunale civile di Cassino, nel riconoscere il diritto della società SA. srl - società appaltatrice dei lavori - ad ottenere il pagamento del saldo del corrispettivo dell’appalto, sulla base di specifica CTU, ha accertato, fra l’altro, “ che le opere realizzate sono conformi a quanto previsto nel contratto e dagli elaborati progettuali compresi gli atti di sottomissione approvato dalla stazione appaltante come risultanti dal certificato di regolare esecuzione” e “che pertanto nella fattispecie, il certificato di regolare esecuzione emesso dal committente è conforme al dettato normativo sopra indicato” e ancora “che la verifica di tutte le opere eseguite ha palesato la piena rispondenza a regola d’arte salvo minime sfasature”. Atteso quanto sopra, questo Collegio ritiene, quindi, di poter accogliere le doglianze dell’appellante avverso il primo profilo della vicenda ovvero avverso la valutazione di irregolarità/illegittimità delle procedure amministrative adottate dal De. Fi. per l’accesso al finanziamento e ai lavori eseguiti sul complesso. L’accoglimento, del motivo di appello relativo al suddetto profilo rende, poi, superfluo soffermarsi sull’ulteriore e connesso motivo di gravame con il quale l’appellante reclama l’applicazione della cd. “esimente politica”, di cui all’art.1, comma 1 ter della legge n.20/1994, ai provvedimenti amministrativi adottati in riferimento ai lavori del I° lotto. Differenti sono, invece, le conclusioni cui perviene questo Collegio in merito alle doglianze rivolte sull’altro profilo della vicenda ovvero in merito alle procedure di spesa, seguite dal De. Fi., che hanno comportato lo sviamento di quota parte del finanziamento dalle finalità pubbliche per le quali quest’ultimo era stato concesso con la conseguente inutilità delle opere già realizzate. Con riferimento all’utilizzo nell’anno 2013, della quota di finanziamento pari ad euro 598.418,75 per la copertura di spese correnti, nello specifico gli stipendi del personale dell’IPAB, l’appellante, al fine di giustificare la correttezza del proprio operato, richiama il dispositivo di cui all’art.195 del TUEL. Tale norma, infatti, ai sensi del primo comma, consente la possibilità per gli enti locali di “disporre l’utilizzo, in termini di cassa, di entrate aventi specifica destinazione per il finanziamento di spese correnti, anche se provenienti dall’assunzione di mutui con istituti diversi dalla Cassa Depositi e prestiti, per un importo non superiore all’anticipazione di tesoreria disponibile ai sensi dell’articolo 222.”. Tuttavia, deve sottolinearsi che la suddetta operazione, a mente del secondo comma del citato articolo, “presuppone l’adozione della deliberazione della giunta relativa all’anticipazione di tesoreria di cui all’art.222, comma 1, e viene deliberato in termini generali all’inizio di ciascun esercizio ed è attivato dal tesoriere su specifiche richieste del servizio finanziario dell’ente” Inoltre, la norma, al comma 3, dispone che “.... Con i primi introiti non soggetti a vincolo di destinazione viene ricostituita la consistenza delle somme vincolate che sono state utilizzate per il pagamento delle spese correnti”. Orbene, se è vero che, come sostenuto dall’appellante l’IPAB poteva legittimamente utilizzare la parte di finanziamento destinato al saldo dei lavori effettuati dalla SA. srl, alla copertura della spesa corrente urgente - quale senz’altro poteva considerarsi il pagamento degli stipendi del 2013 - tuttavia è pur vero che, come puntualmente rilevato dal Giudice di primo grado, per adottare tale decisione, il De Filippis avrebbe dovuto acquisire, quanto meno, la preventiva autorizzazione del Consiglio di Amministrazione, quale organo di amministrazione dell’Istituto, oltre a dover seguire la relativa legittima procedura contabile. Dagli atti del giudizio risulta, invece, non solo che non è stata preventivamente acquisita alcuna autorizzazione, ma anche che le procedure contabili non o rispettate, tant’è che sono emerse difficoltà nell’effettuare i riscontri in merito alla situazione contabile delle entrate costituite dal finanziamento e delle spese conseguenti. L’individuazione della reale destinazione della quota di finanziamento in questione (copertura delle spese per gli stipendi) è avvenuta, infatti, solo a seguito delle deduzioni opposte dal De Filippis all’invito a dedurre di cui all’art.67 c.g.c.. L’appellato, inoltre, avrebbe anche dovuto provvedere ad un rapido reintegro delle somme utilizzate così come richiesto dalla citata norma, attività della quale non si è affatto preoccupato. Né può valere, quale esimente della responsabilità, la circostanza che il De. Fi. abbia lasciato l’IPAB nel mese di gennaio 2014, atteso che proprio il mancato rispetto delle regole procedurali e contabili hanno reso la contabilità particolarmente confusa e disordinata anche ai suoi successori. Tuttavia, questo Collegio deve rilevare che, come anche obiettato dall’appellante con specifico motivo di gravame e come, peraltro, adombrato dallo stesso Giudice di prime cure “Per la regolarità di tali operazioni è necessario il contributo sia del servizio finanziario, del tesoriere, che non dovrebbe accettare gli ordinativi di incasso, nel caso in cui i vincoli di destinazione non risultano regolarmente apposti e degli stessi revisori dei conti nell’ambito delle ordinarie verifiche di cassa dovendo accertare le modalità di gestione delle entrate aventi specifica destinazione e della concordanza fra contabilità dell’ente e contabilità del tesoriere in relazione a tali poste”. E’, perciò, evidente che lo sviamento dei finanziamenti vincolati ad altra finalità (copertura delle spese correnti) ed il successivo mancato reintegro degli stessi non si sarebbero potuti realizzare se anche altri soggetti, interni all’IPAB (il Responsabile dell’Ufficio finanziario e il Direttore generale) o ad essa legati da specifici obblighi di verifica e controllo della contabilità (il Tesoriere ed il Revisore dei conti), avessero svolto il proprio ruolo con la diligenza ad essi richiesta, stante i ruoli rivestiti e se fossero stai, quanto meno, osservanti del principio del buon andamento dell’azione amministrativa. Tanto più che, come emerge dagli atti, nel mese di gennaio 2014, dopo che il De. Fi. ha lasciato l’IPAB, è stato proprio il vice Presidente, a questi succeduto, a firmare in data 31 gennaio 2014, una serie di reversali di incasso (pari complessivamente ad euro 500.000,00) con le quali sono state regolarizzate altrettante carte contabili del 2013. Costui, pertanto, pur perfettamente in grado di avvedersi della situazione contabile e, quindi, dell’avvenuto sviamento delle risorse finanziarie vincolate, non ha posto in essere alcuna attività per procedere al reintegro delle somme, in modo da consentire il regolare prosieguo dei lavori di cui al II° lotto; lavori, peraltro, già regolarmente aggiudicati alla SA. srl nell’autunno del 2013. Anzi, è proprio il Presidente f.f., nel gennaio del 2015, a comunicare al presidente della Regione Lazio ed al Sindaco del comune di Formia (nota prot. 15 del 14.01.2015) l’impossibilità dell’IPAB di completare almeno il 50% dei lavori di ristrutturazione nel termine dei successivi sei mesi anche per la assoluta assenza di personale tecnico. Da qui, poi, la decisione della Regione Lazio di procedere con la revoca dell’intero finanziamento e l’insorgenza del correlato danno erariale. Da quanto sopra, è evidente che, in accoglimento dello specifico motivo di gravame, la responsabilità del danno di cui è causa non può essere imputata all’odierno appellante, in via esclusiva, dovendo, invece, la stessa essere ripartita con altri soggetti, sia pure non convenuti in giudizio, i quali, con le proprie condotte e per i motivi sopra esposti, hanno ugualmente concorso alla produzione del danno di cui è causa: nello specifico, il Vice Presidente dell’IPAB, il Direttore generale e il Responsabile dell’Ufficio finanziario dello stesso Istituto, nonché la Banca tesoriera ed il Revisore dei conti. In ordine, poi, alle doglianze svolte in merito alla quantificazione del finanziamento oggetto di revoca, e quindi del danno per cui è causa, il Collegio rileva che la Sezione territoriale ha compiutamente individuato tutte le voci indicate dall’appellante giungendo all’accertamento di una incuria del De. Fi. nella gestione del contributo regionale laddove ha utilizzato parte del finanziamento per la copertura di spese correnti, “… tanto più grave se si considera che l’Ente concedente ha proceduto alla revoca dell’intera quota parte del finanziamento erogato dall’IPAB. Anche in punto di quantificazione del danno questo Collegio condivide la tesi della Procura che chiede la restituzione dell’intero ammontare del contributo riconosciuto. Ciò in quanto nella fattispecie di cui è causa si è, da una parte, verificato un improprio e scorretto utilizzo delle risorse vincolate per “spese correnti” e quindi non più recuperabili, e per la restante parte, sebbene impiegata per l’appalto dei lavori, va pretesa in restituzione, trattandosi di danno da perdita di finanziamento, in conseguenza dell’inadempimento dell’obbligazione assunta al momento della concessione del finanziamento”. Avendo la Regione Lazio disposto la revoca dell’intero finanziamento e, quindi, anche di tutta la parte di esso già erogata, non vi è alcun dubbio che anche le somme spese per realizzare i lavori del I° lotto ed effettivamente pagate alla SA. srl rappresentino il danno da rifondere alla Regione Lazio. Tale somma ammonta senza dubbio ad euro 1.000.000,00: come provato dalla documentazione depositata agli atti del giudizio ed acquisita dalla Guardia di Finanza (cfr. informativa prot.073691 del 15.02.2018), l’IPAB ha introitato al proprio bilancio la prima tranche del finanziamento mediante le reversali di incasso emesse nelle date del 24 gennaio 2012 (euro 50.000,00), del 20 dicembre 2012 (per complessivi euro 450.000,00) e del 31 gennaio 2014 (per complessivi euro 500.000,00). In quest’ultima data le reversali sono state emesse quali regolarizzazioni di carte contabili del 2013. E’, quindi, evidente, che l’ammontare del danno sia stato correttamente quantificato dal Giudice di prime cure in euro 1.000.000,00 (un milione). Il motivo di gravame deve, perciò, essere rigettato. Con ulteriore motivo di gravame l’appellante ha lamentato la mancata considerazione, da parte del giudice di prime cure, dei vantaggi che sarebbero comunque conseguiti alla comunità dalla realizzazione dei lavori straordinari di consolidamento della struttura relativa all’ex colonia Di Donato. A tal proposito, questo Collegio non può che concordare con quanto statuito nella sentenza impugnata laddove si afferma che “La revoca totale del finanziamento concesso da parte dell’Ente concedente esclude qualsiasi valutazione in termini di vantaggio che possa essere derivato all’ente per quella parte del finanziamento impiegato per le opere eseguite, stante la sostanziale inutilizzabilità della struttura e il mancato conseguimento dello scopo per cui è stato concesso il finanziamento” Inoltre, deve osservarsi che l’appellante, a fronte del mancato utilizzo dell’immobile da parte del comune di Formia, a cui è stato restituito nel 2015, nonché di prove fotografiche che certificano lo stato di completo abbandono dello stesso, non ha fornito alcun elemento concreto idoneo a rendere ragionevole la sussistenza dei vantaggi che sarebbero comunque conseguiti alla collettività. Il motivo di gravame va, perciò, respinto. Con altro motivo di gravame, l’appellante ha censurato la sentenza n.439/2020 anche con riferimento alla qualificazione, quale gravemente colposa, della condotta dal medesimo serbata nella vicenda. In disparte quanto sopra affermato in merito alla corresponsabilità nella vicenda di altri soggetti, con riferimento alla dedotta assenza di colpa grave in capo all’appellante, il Collegio rileva che, al contrario di quanto da quest’ultimo affermato, la stessa emerge chiaramente dagli atti processuali, in considerazione dell’accertata negligenza ed imperizia con la quale l’appellante ha sviato dalla sua destinazione vincolata una parte consistente dei finanziamenti ricevuti dalla Regione Lazio, impedendo, in tal modo, il completamento del progetto di riqualificazione dell’ex colonia “Di Donato”. Il De. Fi., infatti, come sopra già evidenziato, ha disatteso e violato le regole per l’utilizzo delle risorse vincolate contravvenendo ai principi generali dell’ordinamento, fra tutti quello del buon andamento, laddove non solo ha utilizzato, in termini di cassa, parte del finanziamento per il pagamento di spese correnti senza l’osservanza della procedura disposta all’art.195 del TUEL (si ricorda che non vi è neanche stata l’autorizzazione del C.d.A.), ma non si è neanche adoperato per la celere ricostituzione del contributo rendendo in tal modo impossibile la prosecuzione dei lavori da parte della SA. srl, a cui quelli del II° lotto erano stati medio tempore assegnati. Anche tale ultimo motivo di appello deve, quindi, essere respinto. In conclusione, ed atteso tutto quanto fino ad ora considerato, questo Collegio ritiene che debba trovare conferma la sussistenza di un grave danno patrimoniale a carico della Regione Lazio, quale conseguenza della condotta gravemente colposa serbata dal De Filippis (e non solo) nella gestione di quota parte dei finanziamenti ricevuti dall’IPAB “(OMISSIS) Annunziata” per la realizzazione di un Centro regionale polivalente a servizio dei migranti. Tuttavia, come sopra ampiamente esposto, in accoglimento parziale dei motivi di doglianza dell’appellato ed in parziale riforma di quanto statuito con la sentenza n.439/2020, stante la ritenuta partecipazione, alla produzione del danno di cui è causa, di altri soggetti mai convenuti in giudizio (Responsabile Ufficio finanziario dell’IPAB, Segretario generale dell’IPAB, vice Presidente dell’IPAB, Revisore dei conti e Banca tesoriera) ed in applicazione dall’art.83, comma 2, c.g.c. a mente del quale “Quando il fatto dannoso è causato da più persone ed alcune di esse non sono state convenute nello stesso processo, se si tratta di responsabilità parziaria, il giudice tiene conto di tale circostanza ai fini della determinazione della minor somma da porre a carico dei condebitori nei confronti dei quali pronuncia sentenza”, questo Collegio ritiene che il De. Fi. debba essere chiamato a rispondere del danno erariale, non più per l’intera somma (euro 1.000.000,00), ma solo nella misura del 15% (euro 150.000,00), peraltro, da intendersi già comprensiva di rivalutazione monetaria. In ragione della soccombenza reciproca, ai sensi dell’art. 31 c.g.c., le spese del giudizio sono compensate fra tutte le parti, ivi compresa l’interveniente Regione Lazio. PQM La Corte dei conti, Sezione Prima Centrale d’Appello definitivamente pronunciando sul giudizio iscritto al n.57999 del ruolo generale, accoglie l’appello nei termini di cui in motivazione e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza n. 439/2020 resa dalla Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, condanna il sig. De Filippis Ra. Vi. a rifondere, alla Regione Lazio, la somma di euro 150.000,00 (centocinquantamila/00) da intendersi già comprensiva della rivalutazione monetaria. Sulla suddetta somma sono dovuti gli interessi legali, dal deposito della sentenza di primo grado fino all’effettivo soddisfo. Le spese del giudizio sono integralmente compensate fra le parti ivi compresa l’interveniente Regione Lazio. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 25 febbraio 2022. IL CONSIGLIERE ESTENSORE F.to Carmela de Gennaro IL PRESIDENTE F.to Massimo Lasalvia Depositata in segreteria il 4 aprile 2022 IL DIRIGENTE F.to Sebastiano Alvise Rota
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MESSINI D'AGOSTINI Piero - Presidente Dott. PELLEGRINO Andre - Consigliere Dott. SGADARI - est. Consigliere Dott. PERROTTI Massi - Consigliere Dott. SARACO Anton - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: 1) (OMISSIS), nato a (OMISSIS); 2) (OMISSIS), nato a (OMISSIS); 3) Comune di Pisticci, parte civile; avverso la sentenza del 17/05/2021 della Corte di appello di Salerno; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; udita la relazione della causa svolta dal consigliere Dr. Giuseppe Sgadari; sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Lori Perla, che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio in ordine alla parte civile Comune di Pisticci; annullamento con rinvio al giudice penale in ordine alla qualificazione giuridica del fatto con riguardo alla posizione degli imputati; sentiti i difensori delle parti civili: avv. (OMISSIS) per (OMISSIS) e (OMISSIS); avv. (OMISSIS), per (OMISSIS), che hanno concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilita' o il rigetto dei ricorsi degli imputati depositando comparsa conclusionale e nota spese; avv. (OMISSIS), nell'interesse del Comune di Pisticci, che ha chiesto l'accoglimento del proprio ricorso e l'inammissibilita' o il rigetto dei ricorsi degli imputati con condanna di questi ultimi secondo comparsa conclusionale e nota spese che deposita; sentiti i difensori degli imputati: avv. (OMISSIS), anche in sostituzione dell'avv. (OMISSIS), per (OMISSIS); avv. (OMISSIS) per (OMISSIS) che hanno concluso chiedendo l'accoglimento dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. In punto di fatto - e come ben sintetizzato dalla sentenza di annullamento con rinvio della Corte di cassazione del 9 gennaio 2020 - il ricorrente (OMISSIS), in qualita' di dipendente-geometra in servizio presso l'ufficio tecnico del Comune di Pisticci, e quindi pubblico ufficiale, in concorso con il correo separatamente giudicato (OMISSIS), in servizio presso l'ufficio ragioneria, in alcuni casi predisponeva, o faceva predisporre da altri, false determinazioni di liquidazione in favore della ditta del ricorrente (OMISSIS), sottoponendole alla firma del dirigente dell'ufficio tecnico e di altri dirigenti, che firmavano senza effettuare alcun controllo anche in merito alla copertura finanziaria, in virtu' del rapporto di fiducia che si era instaurato; in altri casi falsificava direttamente la firma del dirigente su detti atti amministrativi, con la conseguente emissione di falsi mandati di pagamento da parte di (OMISSIS) che aveva la disponibilita' del denaro del Comune, il cui importo veniva incassato da (OMISSIS) il quale poi lo divideva con (OMISSIS) e gli altri correi. La somma complessivamente incassata da (OMISSIS) ammontava a Euro 836.685,35. Tanto, con riguardo ai reati di peculato e falso di cui al capo A) della imputazione, relativo a 106 mandati di pagamento, partitamente divisi, in favore del ricorrente (OMISSIS). Altre similari imputazioni - di cui ai capi C),D),E),F) e G) - erano ascritte al ricorrente (OMISSIS) in relazione ad analoghe condotte commesse in beneficio di altri soggetti diversi dal (OMISSIS), come l'originario coimputato non ricorrente (OMISSIS). 2. Il Tribunale di Matera, con sentenza del 18 dicembre 2014, aveva ritenuto (OMISSIS) colpevole di tutti i reati ascrittigli, eccezion fatta per le condotte di cui al capo A) relative ai mandati di pagamento indicati con i numeri da 1 a 29, che aveva dichiarato prescritte ed ai reati di peculato di cui ai capi C) ed F), ritenuti non sussistenti al contrario dei reati di falso ex articolo 476 c.p., comma 2, pure contestati in tali ultime imputazioni. Era stata, altresi', disposta, a carico degli imputati, la confisca per equivalente del prezzo del reato (ritenuto pari a 450.000 Euro) e la loro condanna al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili, ivi compreso il Comune di Pisticci. 3. La Corte di appello di Potenza, con sentenza del 28 marzo 2019, dichiarava inammissibili per genericita' gli appelli proposti dagli odierni ricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS). 4. La Corte di cassazione, con la sentenza prima richiamata del 9 gennaio 2020, accogliendo i ricorsi di questi ultimi avverso la pronuncia di inammissibilita' degli appelli, annullava senza rinvio la sentenza in allora impugnata ritenendo prescritte, riguardo ad entrambi gli imputati, le condotte loro contestate al capo A) come indicate ai numeri da 30 ad 87 oltre che, in relazione al solo (OMISSIS), i reati di cui ai capi C), E), F) e G) della imputazione. Si disponeva, invece, l'annullamento con rinvio per nuovo giudizio, quanto ai due imputati, in ordine alle condotte di reato di cui al capo A) indicate ai numeri da 88 a 106 ed anche, in relazione al solo (OMISSIS), per il reato di cui al capo D, oltre che per quanto concerne la confisca e le statuizioni civili. 5. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Salerno, in sede di giudizio di rinvio, assolveva (OMISSIS) da tutte le residue condotte di reato di cui al capo A) indicate ai numeri da 88 a 106, cosi' non residuando alcun reato meritevole di pena, essendosi pronunciata e ribadita la declaratoria di prescrizione delle condotte di cui al capo A dal n. 31 al numero 87 e dichiarata la prescrizione anche per il reato di cui al capo D. Per quanto attiene, invece, al ricorrente (OMISSIS), la Corte di appello dichiarava prescritte tutte le condotte di reato di cui al capo A), ad eccezione di quelle indicate ai numeri da 99 a 105 ed a quella relativa al solo reato di falso contenuta nel numero 106. In relazione a tali ultime condotte, la Corte rideterminava la pena nei confronti di (OMISSIS) in quella di anni quattro e giorni cinque di reclusione. La Corte rideterminava anche gli importi della confisca distinguendoli in relazione alle condotte di reato ascritte agli imputati. Infine, si dichiarava l'inammissibilita' della costituzione di parte civile del Comune di Pisticci, per l'effetto revocando le statuizioni disposte nel di lei favore e confermando nel resto la sentenza di primo grado. 6. Ricorrono per cassazione gli imputati e la parte civile Comune di Pisticci, con distinti atti. 6.1. (OMISSIS) deduce: 1) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla accertata responsabilita' in relazione a tutte le condotte di reato dichiarate prescritte. Secondo il ricorrente, la Corte avrebbe travisato le prove testimoniali dei colleghi dell'imputato, dirigenti e capi servizio dell'Ufficio Tecnico del Comune di Pisticci, a proposito della riconducibilita' al ricorrente della firma apposta sui visti di congruita' dei mandati di pagamento irregolari, che costoro, contrariamente a quanto sostenuto dalla sentenza impugnata, avevano negato. Per avvalorare l'assunto, ai fgg. 7 e segg. del ricorso, si richiamano le dichiarazioni rese in dibattimento dall'architetto (OMISSIS), capo del settore urbanistica del Comune, bene a conoscenza della calligrafia del (OMISSIS), in relazione alle condotte ascritte al ricorrente al capo A) ai numeri 3,12,13,14,15,1647,18,19,20 ed ai numeri 58,59,63,64,65,67,73,77,80,81,85,86, nonche' alle condotte di cui ai reati sub D) e G). Anche il teste Leone, responsabile per un breve periodo dell'Ufficio Tecnico del Comune, non avrebbe riconosciuto la firma del ricorrente sul visto di congruita' dei mandati di pagamento riferibili ai nn. 38, 63 e 87 del capo A). Si censura la sentenza impugnata anche per quanto attiene alla ritenuta non affidabilita' della consulenza grafologica difensiva, dal momento che il consulente tecnico aveva escluso con certezza la riconducibilita' al ricorrente delle firme sui visti di congruita' dei mandati di pagamento, attraverso l'esame di caratteri della grafia non modificabili nel tempo, ritenendo che le firme fossero state apposte da piu' soggetti non identificabili nell'imputato. Gli esiti della consulenza riscontrerebbero le dichiarazioni dei testi (OMISSIS) e (OMISSIS) prima indicate. Alla luce di questi dati, ci si duole del rigetto della richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale finalizzata all'espletamento di una perizia grafologica d'ufficio. La motivazione sarebbe illogica anche in relazione alle condotte relative ai mandati di pagamento privi del visto di congruita', posto che la teste (OMISSIS) avrebbe escluso che i mandati di pagamento potessero essere stati da lei esitati in assenza del visto. Pertanto, i mandati irregolari di cui ai nn. 66,68,69,71,72,75,76,78,82,83,84 del capo A) e 4 del capo G) sarebbero stati manomessi all'insaputa del ricorrente e della teste (OMISSIS) in quanto privi del visto di congruita'. Peraltro, il ricorrente lavorava con altri soggetti abilitati a compiere le stesse operazioni a lui attribuite, anche in relazione all'annotazione del numero di ogni mandato di pagamento in apposito registro di facile accessibilita', come riferito dal teste (OMISSIS), capo servizio impianti elettrici e dal teste (OMISSIS), impiegato dell'Ufficio Tecnico; 2) vizio della motivazione per non avere la Corte ritenuto di estendere le motivazioni che l'hanno portata ad assolvere il ricorrente dalle condotte di cui al capo A) dal n. 88 al 106 anche in relazione alle altre condotte, posto che la teste (OMISSIS) Ada, capoufficio segreteria del Comune, avrebbe dichiarato che i mandati presentatigli dal ricorrente erano tutti regolari, mentre si appuro' che non lo erano quelli presentati dal coimputato (OMISSIS); e cio', con riferimento al periodo precedente al dicembre del 2004, termine ultimo della condotta del ricorrente che non aveva piu' potuto operare illecitamente per la presenza di un dirigente piu' attento dei suoi predecessori. Nel ricorso si sostiene l'estraneita' del ricorrente con riferimento ai mandati n. 21, 22,23,24,25,26,27,28,29,32,34,35,36,40,41,42,43 relativi agli anni 2001 e 2002 e l'ipotesi che egli potesse essere stato tratto a sua volta in inganno dai veri responsabili ed, in particolare, dal (OMISSIS) (fg. 24 del ricorso). Anche il teste (OMISSIS) aveva dichiarato che le pratiche portate alla sua firma dall'imputato erano regolari, mentre ne disconosceva altre (n. 44,45,47,48 del capo A, n. 1 del capo F) e n. 2 del capo G). Nello stesso senso della regolarita' delle pratiche portate dal (OMISSIS) anche le dichiarazioni dell'ing. (OMISSIS); 3) violazione di legge per la mancata assunzione di una prova decisiva, consistente in una perizia grafologica sulle firme apposte sui visti di congruita' ed esecuzione dei lavori; 4) vizio della motivazione in ordine alla sussistenza del concorso nei reati da parte del ricorrente, posto che sarebbe mancata la prova di una sua collaborazione con il coimputato (OMISSIS) o di spartizioni di danaro o di sospette capienze patrimoniali dell'imputato; 5) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla appartenenza all'imputato dei beni confiscati, trattandosi di immobili intestati ai suoi figli, in loro possesso ancor prima che venissero loro donati dal ricorrente come provato per via documentale. La Corte avrebbe apoditticamente affermato la natura fittizia della donazione senza confrontarsi con le ragioni difensive ricordate ai fgg. 33-35 del ricorso; 6) violazione di legge e vizio di motivazione per non avere la Corte valutato la circostanza che i beni immobili oggetto di confisca erano stati donati ai figli del ricorrente non solo da lui ma anche dalla moglie che ne era comproprietaria, sicche' quantomeno la meta' appartenente al coniuge del ricorrente, soggetto estraneo alla vicenda processuale, non avrebbe potuto essere oggetto di ablazione; 7) violazione di legge per avere la Corte ritenuto la sussistenza dei vari reati di peculato anziche' qualificare tali condotte come ipotesi di truffa, posto che tanto il ricorrente quanto il coimputato (OMISSIS) non avrebbero mai avuto la disponibilita' materiale o giuridica del denaro di cui ai mandati di pagamento, cosi' da doversi servire di artifici falsificatori per ottenere il loro scopo. In questo senso si sarebbe orientata, nei limiti della delibazione sulla ammissibilita' degli appelli, anche la Corte di cassazione nella sentenza di annullamento con rinvio. 6.2. (OMISSIS) deduce: 1) violazione di legge per avere la Corte ritenuto la sussistenza dei vari reati di peculato anziche' qualificare tali condotte come ipotesi di truffa, per ragioni sovrapponibili a quelle esposte nel settimo motivo di ricorso del ricorrente (OMISSIS) ed anche tenuto conto della necessita' dei correi di servirsi del (OMISSIS) per commettere i reati. L'emissione dei mandati di pagamento, anche in ragione della loro numerazione, erano appannaggio solo del dirigente dell'ufficio. Non sarebbero emerse combutte del ricorrente con i correi, avendo egli effettuato i lavori per i quali era stato pagato ed anche altri di natura privata in favore di (OMISSIS); 2) vizio della motivazione per non avere la Corte escluso la responsabilita' del ricorrente in relazione a tutte le ipotesi nelle quali egli aveva disconosciuto la propria firma per l'incasso dei mandati di pagamento, avendo egli ammesso di aver firmato molti di essi. Il reato di peculato, inoltre, si sarebbe perfezionato senza il contributo del ricorrente, essendosi egli limitato alla sola riscossione dei mandati di pagamento, fase successiva alla gia' avvenuta interversione del possesso ed alla consumazione del delitto. La sentenza non sarebbe adeguatamente motivata anche in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche ed al trattamento sanzionatorio, tenuto conto del ruolo del ricorrente rispetto a quello ben piu' grave dei suoi correi. Sarebbe immotivato, inoltre, il diniego dell'attenuante di cui all'articolo 62 c.p., comma 1, n. 6, giustificata dalla presentazione spontanea del ricorrente ai carabinieri e dalla richiesta di essere sentito. Infine, non sarebbe sussistente l'aggravante di cui all'articolo 476 c.p., comma 2, non avendo i coimputati del ricorrente firmato alcun mandato di pagamento, sicche' non avrebbero attestato alcunche' ed i mandati sarebbero stati emessi da un pubblico ufficiale non autorizzato; 3) vizio della motivazione in ordine al calcolo aritmetico della pena, la quale risulta superiore a quanto indicato in motivazione in relazione ai vari passaggi necessari per giungere alla sua quantificazione finale. 6.3. Il Comune di Pisticci, parte civile, deduce: 1) violazione di legge per avere la Corte dichiarato l'inammissibilita' della costituzione di parte civile in relazione al fatto che la firma apposta dal Sindaco del Comune di Pisticci in calce alla procura speciale a suo tempo rilasciata non recasse l'autentica del difensore. La Corte non avrebbe tenuto conto del fatto che la firma del difensore e procuratore speciale nel corpo dell'atto di costituzione di parte civile, assolveva alla duplice funzione di autenticazione della sottoscrizione del danneggiato e di sottoscrizione del difensore ai sensi dell'articolo 78 c.p.p., comma 1, lettera e); 2) violazione di legge per non avere la Corte ritenuto che la mancata autenticazione del difensore della firma del soggetto danneggiato posta in calce alla procura speciale costituisse una mera irregolarita' non idonea a determinare la nullita' della procura ad litem e, per essa, l'inammissibilita' della costituzione di parte civile, anche tenuto conto che non era mai stata sollevata alcuna questione volta a mettere in dubbio l'autenticita' della firma del sindaco del Comune di Pisticci; 3) violazione di legge per non avere la Corte ritenuto non necessaria l'autenticazione della firma del danneggiato da parte del difensore, posto che si trattava di un ente pubblico e la procura speciale era firmata dal sindaco del Comune, soggetto a cui l'ordinamento riconosce direttamente il potere di autentica della sottoscrizione di atti per i quali e' prevista tale formalita', ex articolo 39 disp. att.; 4) violazione di legge per non avere la Corte ritenuto che il termine preclusivo per la costituzione di parte civile fosse costituito dalla dichiarazione di apertura del dibattimento, non ancora avvenuta nel momento in cui e' stata decisa la questione sulla ammissione della parte al processo con l'eliminazione della irregolarita' in una udienza successiva a quella nella quale era stata sollevata l'eccezione da parte degli imputati. La ricorrente, trattandosi di questione sulla quale vi e' contrasto giurisprudenziale, sollecita una eventuale rimessione alle Sezioni Unite. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso di (OMISSIS) e' infondato. Tutti i reati ascritti al ricorrente sono stati dichiarati prescritti nei gradi di giudizio precedenti, alcune condotte delittuose contestate al capo A) fin dal primo grado (quelle relative ai mandati di pagamento dai numeri 1 a 29), altre nelle statuizioni successive, sia di merito che di legittimita'. Stante la condanna del ricorrente al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili "private" (trattandosi di funzionari del Comune di Pisticci) - che non ha subito modifiche nei gradi di merito - la sentenza impugnata si e' ampiamente soffermata, sia pure ai soli effetti civili ed ai fini della confisca, sugli elementi di prova ritenuti idonei ad integrare la responsabilita' del ricorrente, decidendo in senso conforme a quanto statuito dal Tribunale tranne che per le condotte di peculato e falso indicate al capo A) e relative ai mandati di pagamento dai numeri 88 a 106, in ordine alle quali e' stata pronunciata sentenza di assoluzione del ricorrente per non avere commesso il fatto. 1,1. Quanto al primo motivo di ricorso, con il quale si censura la sentenza impugnata sotto il profilo dell'accertamento sostanziale della responsabilita', il ricorrente pretenderebbe una nuova ed in questa sede impossibile rivalutazione di alcune prove testimoniali, sostenendo che i giudici di merito le avrebbero travisate. Vi e' da osservare, in primo luogo, che in ricorso si sorvola su alcuni elementi di prova che, prima il Tribunale e poi la Corte di appello, hanno ritenuto decisivi in danno dell'imputato. Essi sono costituiti: dalla circostanza che tutti i numerosissimi mandati di pagamento irregolari indicati nelle imputazioni (oltre 110) erano riconducibili al Settore Segreteria ed al Settore Tecnico del Comune di Pisticci ed, in particolare, a quelle competenze del Settore Tecnico cui era adibito il ricorrente (lavori di manutenzione delle strade e delle opere pubbliche fino ad un certo importo e lavori di manutenzione di edifici scolastici gravanti finanziariamente sul servizio Segreteria). L'imputato, nei relativi procedimenti, aveva il compito di verificare che i lavori fossero eseguiti a regola d'arte, apponendo all'esito di tale accertamento il visto di congruita' sulle fatture esibite dalle imprese affidatarie e preparava materialmente le determine di liquidazione, poi sottoposte per la firma al dirigente o al caposervizio competenti e curate dal punto di vista dell'accertamento della copertura finanziaria e di altri adempimenti dal coimputato separatamente giudicato (OMISSIS), che ha definito la sua posizione con l'applicazione della pena e sulla cui responsabilita' non vi e' discussione quale soggetto addetto al Settore Ragioneria ed in particolare alla gestione della contabilita' del Comune; dalla circostanza che i mandati di pagamento riguardavano lavori effettuati sempre da determinati beneficiari ed, in particolare, dal ricorrente (OMISSIS), il quale aveva dichiarato al dibattimento che il suo referente presso il Comune di Pisticci era proprio il (OMISSIS); dalla circostanza che tra i due odierni ricorrenti vi fosse un rapporto di amicizia personale, tanto che l'imprenditore era stato invitato al matrimonio del figlio del (OMISSIS); dalla circostanza che in un file in uso al ricorrente erano state ritrovate fatture integralmente compilate (che avrebbero dovuto essere in possesso delle imprese) identiche a quelle irregolari; dalla circostanza che, dopo l'emersione dei fatti illeciti, (OMISSIS) fu sorpreso da una collega, (OMISSIS), seduto nella sua postazione ed intento a cancellare alcuni files contenuti nel computer di costei che precedentemente era stato in possesso dello stesso imputato; in particolare, la teste aveva riferito che l'intrusione di quest'ultimo aveva avuto ad oggetto un file di una delle imprese beneficiarie dei mandati di pagamento falsi. Inoltre, l'imputato, dopo qualche tempo, aveva chiesto nuovamente alla collega di poter accedere al suo computer per cancellare dei dati (fg.216 della sentenza del Tribunale). In secondo luogo, dall'esame della sentenza di primo grado, richiamata da quella impugnata, non risulta affatto smentita, contrariamente a quanto si sostiene in ricorso, la circostanza che alcuni funzionari, anche costituitisi al processo quali parti civili, avessero riconosciuto la grafia del ricorrente in alcune sigle apposte sui visti di congruita' delle fatture, cosi' come affermato dalla Corte di appello. Proprio la teste citata in ricorso, (OMISSIS), parte civile, aveva riconosciuto la grafia del (OMISSIS) in alcune sigle relative a molteplici pratiche irregolari (fg. 166 della sentenza del Tribunale). Lo stesso dicasi per i testi (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) (fgg.168-174 della sentenza di primo grado). La complessiva ricostruzione dei fatti di causa ha permesso di stabilire che non sempre nelle pratiche incriminate erano presenti i visti di congruita' che avrebbe dovuto predisporre (OMISSIS) e che le irregolarita' riscontrate potevano di volta in volta essere differenti, alcune attenendo alla mancanza di documentazione tecnica illustrativa delle prestazioni correlate alle fatture medesime, alla omessa annotazione nel registro in uso all'ufficio che le aveva adottate, all'assenza del protocollo di arrivo delle fatture, alla firma apocrifa del dirigente. Tuttavia, a fronte dei dati prima segnalati e non indicati in ricorso, il Tribunale e la Corte di appello hanno ritenuto che il ricorrente avesse concorso alla formazione delle pratiche irregolari in quanto sempre ad esse addetto nei termini prima descritti. Per il che, il motivo di ricorso si rivela anche generico nell'aver fatto riferimento a questa o quella testimonianza o a questa o a quella pratica, senza indicare adeguatamente a quali "categorie" di irregolarita' andavano a riferirsi, perdendo di vista l'insieme degli elementi a carico dell'imputato, il grandissimo numero di pratiche irregolari aventi analoga eziologia e, comunque, la singola attribuzione di ogni pratica irregolare alle competenze del ricorrente (e non di possibili altri soggetti come si ventila in ricorso) nei termini indicati nella lunga elencazione del Tribunale, al di la' delle formali e variegate anomalie di volta in volta presenti in ciascuna di esse. Sempre in relazione al primo motivo, risulta immune da vizi logico-giuridici la decisione del Tribunale e della Corte di appello di non ritenere efficaci ad elidere la responsabilita' del ricorrente le conclusioni della consulenza tecnica difensiva di natura grafologica. Cio', sia per la indicata convergenza di tutti gli elementi di prova prima sintetizzati e messi in luce da entrambe le sentenze di merito in modo conforme, sia perche' la Corte di appello, a fg. 28 della sentenza impugnata, ha sottolineato che la valutazione grafologica presentava in se' delle incertezze, tanto per il fatto di essere stata effettuata su sole sigle e non su scritti od anche firme estese, quanto per il fatto che l'accertamento tecnico sulla grafia - peraltro, per sua natura, non affidato a regole scientifiche certe - fosse stato effettuato a distanza di tantissimi anni dalla apposizione delle sigle, circostanza che, come affermato dallo stesso consulente, poteva incidere sui caratteri grafici, non sempre caratterizzati da tratti immodificabili nel tempo. Le diverse argomentazioni difensive sul punto, se si tiene conto dell'insieme di tutte le valutazioni dei giudici del Tribunale e della Corte sulle quali il ricorso ha sorvolato, rimangono relegate al merito del giudizio. Ne consegue - e per le stesse ragioni dette a proposito della incertezza di fondo insita nell'accertamento tecnico e per la presenza di tutti gli altri elementi di prova a carico del ricorrente - come non sia passibile di alcuna censura la decisione della Corte di appello di non rinnovare l'istruzione dibattimentale al fine di effettuare una perizia grafologica sulle sigle apposte sui visti di congruita' di alcune delle pratiche irregolari. Si ricordi, in punto di diritto, che la rinnovazione dell'istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell'istruttoria espletata in primo grado, e' un istituto di carattere eccezionale al quale puo' farsi ricorso esclusivamente allorche' il giudice ritenga, nella sua discrezionalita', di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. U, n. 12602 del 2015, dep. 2016, Rv. 266820). Inoltre, in tema di ricorso per cassazione, puo' essere censurata la mancata rinnovazione in appello dell'istruttoria dibattimentale qualora si dimostri l'esistenza nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicita', ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all'assunzione di determinate prove in appello (Sez. 5, n. 32379 del 12/04/2018, Impellizzeri, Rv. 273577; Sez, 6, n. 1400 del 22/10/2014, dep.2015, PR., Rv. 261799). Ed infine, nel giudizio di appello, la rinnovazione di una perizia puo' essere disposta solo se il giudice ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, ed il rigetto della relativa richiesta, se logicamente e congruamente motivato, e' incensurabile in sede di legittimita', trattandosi di un giudizio di fatto (Sez. 1, n. 11168 del 18/02/2019, Caratelli, Rv. 274996). Tanto supera ed assorbe ogni altra deduzione difensiva contenuta nel primo motivo di ricorso. 1.2. Quanto al secondo motivo, le censure del ricorrente in ordine alla sua responsabilita' per le condotte di reato antecedenti al dicembre del 2004 rimangono assorbite da quanto precisato in ordine al primo motivo. Non si rinviene, inoltre, alcuna contraddizione interna alla motivazione della Corte di appello a proposito della diversa valutazione fornita, in termini di responsabilita', riguardo alle condotte dell'imputato antecedenti a tale indicazione temporale rispetto alle condotte successive, essendo stato egli assolto per i reati di peculato e falso commessi dopo il dicembre del 2004 siccome contestati al capo A) ai numeri da 88 a 106. Infatti, la sentenza di appello ha spiegato, a fg. 32, che dal dicembre del 2004, il nuovo dirigente dell'ufficio comunale preposto al settore ove lavorava il (OMISSIS) e aveva esercitato, sulle pratiche di pagamento, un doveroso controllo, molto piu' stringente dei suoi predecessori, sicche' il ricorrente - al contrario del (OMISSIS) che aveva continuato a delinquere con riguardo a pratiche provenienti da altro settore ammnistrativo fuori dalle competenze del (OMISSIS) - non avrebbe piu' potuto commettere le stesse condotte di reato prima dimostrate, circostanza che, come rilevato dal Tribunale (fg. 214 della sentenza di primo grado), finiva per dimostrare ulteriormente come l'imputato (oltre che il (OMISSIS)) facessero affidamento sulla superficialita' dei controlli dei dirigenti comunali per ottenere il risultato illecito. 1.3. Con il terzo motivo si ribadisce la censura in ordine al mancato espletamento della perizia grafologica, questione gia' trattata e superata esaminando il primo motivo di ricorso, al quale si rinvia. 1.4. Anche il quarto motivo e' assorbito dalla disamina fin qui svolta, posto che la evidenziazione del concorso del ricorrente - nei limiti gia' indicati temporalmente nei reati certamente commessi dal (OMISSIS) fino al dicembre del 2004, discende dall'insieme delle prove a carico del (OMISSIS) che si sono sintetizzate analizzando il primo motivo di ricorso ed avendo la Corte ritenuto irrilevante, senza alcun vizio logico ed a fronte di tali dati processuali, l'acquisizione della prova positiva che i due coimputati si fossero spartiti i proventi illeciti ricavati attraverso la commissione dei reati, circostanza che i giudici di merito hanno dedotto dai fatti di causa con logica ineccepibile. 1.5. In ordine al quinto motivo, il ricorrente deduce argomenti generici e da relegare al merito del giudizio a proposito della confisca per equivalente, ex articolo 322-ter c.p., dei beni immobili disposta dal Tribunale e confermata dalla Corte di appello. La sentenza impugnata si conforma alla decisione di primo grado, le cui motivazioni danno conto del fatto che tali immobili, sebbene intestati ai figli dell'imputato, dovevano ritenersi nella sua disponibilita' cosi' come richiesto dalla norma richiamata, essendo stati oggetto di trasferimento a titolo gratuito ai discendenti in epoca nella quale il ricorrente era a conoscenza del procedimento penale e, dunque, al precipuo scopo di evitare il provvedimento ablativo, a ragione temuto (fg. 229 della sentenza del Tribunale, fg. 47 della sentenza di appello). In ogni caso, deve ricordarsi il principio di diritto, di analogica applicazione al caso in esame, secondo cui, in tema di confisca allargata ai sensi del Decreto Legge 8 giugno 1992, n. 306, articolo 12-sexies (ora articolo 240-bis c.p.), l'imputato nei cui confronti si proceda per uno dei titoli di reato contemplati dalla norma non ha interesse a proporre impugnazione in ordine al provvedimento ablatorio caduto su beni intestati a terzi, ancorche' considerati nella sua disponibilita' indiretta, poiche', non potendo vantare alcun diritto alla loro restituzione, non puo' ottenere alcun effetto favorevole dalla decisione (In motivazione la Corte ha precisato che e' solo il terzo ad avere un interesse personale e diretto a provare la legittima acquisizione dei beni ovvero l'assenza di fittizia intestazione degli stessi) (Sez. 2, n. 4160 del 19/12/2019, dep. 2020, Bevilacqua, Rv. 278592). 1.6. Quanto al sesto motivo, vale quanto appena affermato, fermo restando che la circostanza che gli immobili confiscati fossero intestati anche alla moglie del ricorrente - e, pertanto, almeno per meta' non passibili di confisca - non risulta essere stata dedotta con i motivi di appello, nel complesso alquanto generici in ordine alle censure sulla misura reale in allora disposta. Il ricorrente, sul punto, chiede alla Corte una impossibile verifica di tale circostanza di fatto, non portata all'attenzione del giudice di merito con l'atto di impugnazione. 1.7. E' infondato anche l'ultimo motivo. Il ricorrente reitera una questione giuridica che ha formato oggetto di ampio esame nei gradi precedenti del processo e che attiene alla qualificazione giuridica dei fatti ritenuti integrativi dei reati di peculato, i quali, secondo la prospettazione difensiva, avrebbero dovuto essere sussunti nella fattispecie di truffa aggravata. La tesi del ricorrente non puo' essere condivisa. La sentenza impugnata, con valutazioni tratte dal merito del giudizio, non piu' rivedibile in questa sede, ha stabilito che il coimputato separatamente giudicato (OMISSIS) avesse avuto ab origine - e, cioe', prima di ogni condotta illecita - la disponibilita' giuridica del danaro del Comune di Pisticci. Cio', in ragione delle funzioni sostanzialmente in allora esercitate, quale soggetto che, grazie all'uso del sistema informatico inerente alla contabilita' dell'ente pubblico, controllava il bilancio comunale e le procedure relative alle sue movimentazioni, ivi comprese, per quel che qui interessa, quelle contestate nei capi di imputazione ed in ordine alle quali e' stata accertata definitivamente la sua responsabilita'. Tale ricostruzione non e' mai mutata nel corso del processo. Infatti, la sentenza di primo grado, a fg. 207, cosi' si era espressa: (OMISSIS) "sfruttando la particolare conoscenza del software di contabilita' in uso presso l'Ufficio Ragioneria" - "aveva assunto in fatto e sebbene non avesse mai avuto (se non per brevi periodi, come specificato da alcuni testi) alcuna competenza a firmare mandati di pagamento e visti di conformita' finanziaria, l'effettiva disponibilita' giuridica del danaro e dei fondi presenti nel bilancio comunale", per questo riuscendo a "far confluire ingenti somme di danaro in favore degli imprenditori beneficiati indicati nei capi di imputazione". La Corte di appello, che ha approfonditamente esaminato la questione ai fgg. 33 e segg. della sentenza impugnata (in particolare, per quel che attiene alla posizione del (OMISSIS), a fg. 37), ha ribadito il suo pensiero negli stessi termini. Detto questo, il ricorso neanche contesta il principio di diritto secondo cui, in tema di peculato, il possesso qualificato dalla ragione dell'ufficio o del servizio non e' solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilita' della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto corretta la sentenza impugnata che aveva ravvisato la configurabilita' del peculato nella condotta del presidente di una societa' gia' concessionaria per la gestione di immobili dell'INPDAP, il quale, dopo la fine della convenzione, si era appropriato di fondi depositati sul conto corrente relativo alla gestione degli immobili attraverso la liquidazione di alcune fatture in favore della societa', eludendo la procedura di controllo e pagamento di competenza dell'ente pubblico) (Sez. 6, n. 33254 del 19/05/2016, Caruso, Rv. 267525). Tale principio, sempre con riguardo a (OMISSIS), era, del resto, stato gia' espresso dalla sentenza della Corte di cassazione emessa in sede cautelare nell'ambito di questo stesso procedimento (Sez. 6, n. 39039 del 15/04/2013, Malvaso, Rv. 257096). A fg. 5 della motivazione di quella statuizione, si legge, infatti: "non puo' che concordarsi con le conclusioni raggiunte dal giudice del riesame secondo cui la disponibilita' ed il possesso non possono essere ricondotti alle nozioni civilistiche e cio' comporta che si ha disponibilita' rilevante ai fini del peculato non soltanto la' dove si abbia la materiale disponibilita' di danaro ma anche quella giuridica. Qualora l'agente pubblico, anche in virtu' di prassi consolidate nell'organizzazione dell'ufficio, abbia adottato, nell'ambito della propria competenza, atti di disposizione di danaro pubblico, non puo' che ritenersi integrato il reato di pecu lato". (OMISSIS) "aveva la disponibilita' giuridica del danaro anche se i mandati predisposti in favore dei vari imprenditori erano poi firmati dal dirigente o dal funzionario competente ad emetterli". Il ricorso, pertanto, erra nel ritenere non integrata in capo al coimputato (OMISSIS) la prova che egli avesse avuto fin dall'inizio la disponibilita' giuridica del danaro, circostanza che aveva aperto la strada alla sua ormai definitiva condanna per i molti reati di peculato ascrittigli, come ribadito dalla sentenza emessa da questa Corte il 14.1.2015 che aveva rigettato il ricorso del (OMISSIS) avverso la sentenza di applicazione della pena nei suoi confronti. Tanto premesso, la posizione del (OMISSIS) - ed anche quella del ricorrente (OMISSIS), come meglio si evidenziera' trattando della sua posizione processuale - e' stata ricostruita, in ragione di quanto fin qui evidenziato, in termini di concorso nel reato proprio commesso dal (OMISSIS), quale contributo penalmente rilevante di soggetto estraneo alla condotta del coimputato che aveva assunto di fatto le funzioni di pubblico ufficiale, ben note al ricorrente (cfr. fg. 38 della sentenza impugnata). A ben vedere, la Corte di appello si e' mossa lungo il solco gia' tracciato dal Tribunale. Infatti, a fg. 209 della sentenza di primo grado, si legge, questa volta con riferimento al (OMISSIS): "l'accertata mancanza del potere di sottoscrivere determine di liquidazione e mandati di pagamento - pur laddove non intenda attribuirsi allo stesso, per le mansioni realmente svolte, la qualita' di funzionario di fatto non puo' di per se' escludere la sua partecipazione, anche quale soggetto extraneus, alla realizzazione dei reati di falso e di peculato contestati, posto che, l'imputato medesimo e' accusato di aver partecipato, con la sua fattiva collaborazione, alle condotte di falsificazione commesse dal soggetto intraneus che aveva, di fatto, la disponibilita' giuridica dei fondi del bilancio comunale e cioe' (OMISSIS)". La qualificazione delle condotte del ricorrente nell'ambito del reato di peculato (in disparte i reati di falso) non e' scalfita dalla circostanza che per raggiungere lo scopo illecito i due coimputati avessero posto in essere artifici e raggiri; in particolare, secondo le modalita' delle condotte conclamate al processo, attraverso la falsificazione delle firme dei dirigenti ovvero l'induzione in errore di costoro a che firmassero mandati di pagamento non regolari, confidando, (OMISSIS) e (OMISSIS), sulla superficialita' del controllo dei loro superiori. L'inserzione di una modalita' decettiva nella condotta illecita complessiva non consente di ritenere sussistente il reato di truffa aggravata invece di quello di peculato, poiche' il discrimine e' dato dalla assenza (per la truffa) o dalla presenza (per il peculato) della disponibilita' originaria in capo all'agente, anche giuridica o mediata, del danaro pubblico. Una disponibilita' originaria (vale a dire precedente alla commissione degli artifici e raggiri) che, nelle particolari procedure complesse e frammentate che connotano l'agire della pubblica amministrazione, di norma non e' esclusiva ma puo' essere parcellizzata tra piu' organi e, dunque, tra piu' persone fisiche. Il caso in esame non fa eccezione. E' la segmentazione dell'azione amministrativa che puo' determinare la necessita' nell'agente di orchestrare artifici e raggiri volti a superare l'ostacolo rappresentato dal fatto che anche altri pubblici ufficiali non compiacenti posseggano una "fetta" di disponibilita', materiale o giuridica, del danaro pubblico, sicche' occorre ingannarli, piu' o meno direttamente, affinche', tramite il loro operato, si porti a termine il procedimento amministrativo nel distorto senso auspicato dall'autore del reato proprio e dai suoi eventuali consorti estranei. Tanto si e' verificato nella specie e le conclusioni adottate dalla Corte di appello nella piena liberta' di giudizio che le era stata assegnata dalla sentenza di annullamento con rinvio della Corte di cassazione, sia nella ricostruzione del fatto che nelle sue conseguenze giuridiche (cfr. fg. 11 di quella statuizione di legittimita') - si conformano alla consolidata giurisprudenza di legittimita' che qui si intende condividere. Intanto, e' la ridetta sentenza dalla Corte di cassazione emessa in sede cautelare nell'ambito di questo stesso procedimento ad esprimersi in tal senso, richiamando anche due risalenti arresti: "Questa Corte si e' espressa nel senso che, ai fini della configurabilita' del delitto di peculato, il possesso del denaro della pubblica amministrazione puo' essere anche mediato e far capo congiuntamente a piu' pubblici ufficiali qualora le norme interne dell'ente pubblico prevedano che l'atto dispositivo sia posto in essere con il concorso di piu' organi (Sez. 6, 8 novembre 1971, dep. 18 gennaio 1972, n. 139; Sez. 6, 11 gennaio 1996, dep. 4 giugno 1996, n. 5502). E' proprio il caso delle procedure per la formazione dei titoli di spesa nel cui ambito puo' essere chiamato a rispondere di peculato anche il funzionario che abbia istruito la pratica che legittima l'erogazione del danaro cui e' chiamato altro funzionario-dirigente della pubblica amministrazione". Piu' di recente e solo per citare le sentenze piu' aderenti al caso in esame: Sez. 6, n. 20666 del 08/04/2016, De Sena, Rv. 268030: commette il delitto di peculato il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che eroghi denaro pubblico di cui possa disporre attraverso l'adozione di atti amministrativi di sua competenza sottoposti da terzi a controlli meramente formali, tali da non consentire un esame approfondito del titolo di pagamento. (Fattispecie relativa a mandati di pagamento falsi, formati da impiegati comunali addetti ai servizi finanziari nella consapevolezza di non incontrare nessun effettivo ostacolo in sede di controllo da parte del pubblico ufficiale avente il potere di firma e di autorizzazione al pagamento). Sez. 6, n. 10762 del 01/12/2018, Gambino, Rv. 272761: risponde di peculato mediante induzione in errore, ex articoli 48 e 314 c.p., e non di truffa aggravata, il pubblico ufficiale, preposto all'organo competente all'istruttoria della pratica ed alla predisposizione del provvedimento finale, che, inducendo in errore il consiglio di amministrazione di un ente sulla legittimita' della delibera di spesa, ne ottiene l'approvazione con conseguente erogazione a taluni dipendenti di compensi di importo superiore a quello dovuto. Sez. 6, n. 30367 del 22/10/2020, De Luca, Rv. 279884: integra il delitto di peculato e non quello di truffa aggravata la condotta del pubblico ufficiale che si appropri di denaro pubblico anche nel caso in cui, per effetto delle norme interne dell'ente che prevedono l'intervento di piu' organi ai fini dell'adozione dell'atto dispositivo, il soggetto che formalmente emette l'atto finale del procedimento non concorra nel reato per essere stato indotto in errore da coloro che si occupano della fase istruttoria. (Fattispecie relativa all'appropriazione da parte del segretario di un IPAB di somme di pertinenza dell'ente, attraverso l'emissione di mandati di pagamento in proprio favore formalmente sottoscritti dal presidente, senza che quest'ultimo esercitasse alcun reale controllo sui presupposti dell'atto dispositivo). Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 2. E' infondato anche il ricorso di (OMISSIS). 2.1. Quanto al primo motivo, inerente alla qualificazione giuridica dei fatti, si rinvia a quanto appena evidenziato in relazione alla posizione del ricorrente (OMISSIS), trattandosi di questione comune alla posizione dei due imputati, le cui ragioni sono infondate e lo sono, per (OMISSIS), anche in relazione a quanto qui di seguito evidenziato a proposito del suo ruolo e della sua responsabilita'. 2.2. E' manifestamente infondato il secondo motivo. 2.2.1. Il ricorrente, segnalando di avere comunque ammesso la paternita' della grafia a proposito della riscossione di alcuni mandati di pagamento irregolari, non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata (fg. 28) a proposito della circostanza - gia' messa in luce con riguardo al (OMISSIS) alla cui posizione, sotto questo profilo, si rinvia - che egli era stato il beneficiario "preferito" della gran parte dei mandati di pagamento falsi, alcuni dei quali neanche annotati nella contabilita' della propria azienda ed inerenti a lavori per nulla documentati nella loro effettiva realizzazione. Inoltre, nel ricorso si sorvola sulla ammissione dell'imputato di avere sempre avuto a che fare con il coimputato (OMISSIS) in relazione agli appalti presso il Comune di Pisticci ed anche sulla circostanza di intrattenere con quegli un rapporto personale eccedente l'ambito lavorativo, essendo stato invitato al matrimonio del figlio del coimputato. Si obliterano, ancora, le osservazioni della Corte a proposito della patente inverosimiglianza della versione difensiva resa al dibattimento ma non piu' coltivata in ricorso, secondo la quale il ricorrente non si sarebbe reso conto che gli ingenti pagamenti avvenuti negli anni, per oltre 800 mila Euro, fossero relativi a lavori presso il Comune anziche' a lavori privatamente svolti per il coimputato (OMISSIS), a documentare, qui si osserva, anche il rapporto personale con quest'ultimo. L'assunto che (OMISSIS) fosse intervenuto solo "a cose fatte", e, cioe', al momento della riscossione dei mandati, e' del tutto eccentrica rispetto a tutta la ricostruzione della vicenda operata dalle sentenze di merito, che hanno tratteggiato il ricorrente come un correo consapevole che aveva partecipato al confezionamento dei reati contribuendo da extraneus alla riuscita del progetto criminoso attraverso la predisposizione di false fatture per lavori non eseguiti o comunque non dimostrati a dovere. Tanto assorbe ogni diversa argomentazione difensiva in punto di responsabilita'. 2.2.2. In ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche, del quale il ricorrente si duole sempre con il secondo motivo di ricorso, la Corte ha reputato essenziale il suo ruolo nella vicenda illecita ed ha apprezzato negativamente il suo comportamento processuale, volto a dare dei fatti una rappresentazione inverosimile smentendo precedenti affermazioni rese (fg. 40 della sentenza impugnata). La motivazione della Corte di Appello sul punto e' ampiamente esauriente, facendo espresso riferimento ad alcuni parametri di cui all'articolo 133 c.p., dovendosi rammentare che ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche e' sufficiente che il giudice di merito prenda in esame quello, tra gli elementi indicati dall'articolo 133 c.p., che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno la concessione del beneficio; ed anche un solo elemento che attiene alla personalita' del colpevole o all'entita' del reato ed alle modalita' di esecuzione di esso puo' essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti medesime (da ultimo, Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549). 2.2.3. Inoltre, la Corte ha escluso che le ammissioni del ricorrente avessero il fine di elidere le conseguenze del reato e non ha rinvenuto alcun altro comportamento volto ad attenuarne le conseguenze, rimaste indenni da qualunque gesto di resipiscenza o risarcitorio. Nel che, la corretta esclusione dell'attenuante di cui all'articolo 62 c.p., comma 1, n. 6, peraltro del tutto genericamente invocata dal ricorrente. Si deve richiamare, in proposito, il principio di diritto secondo il quale, la confessione utile ai fini dell'accertamento del reato ma priva di incidenza in ordine alla elisione o attenuazione delle sue conseguenze dannose e, quindi, dei suoi effetti non spiega rilevanza ai fini dell'applicabilita' della circostanza attenuante di cui all'articolo 62 c.p., comma 1, n. 6, (riparazione del danno e ravvedimento operoso) (Sez. 5, n. 3404 del 15/12/2004, dep. 2005, Alloisio, Rv. 231412). 2.2.4. L'ulteriore censura in ordine alla insussistenza dell'aggravante di cui all'articolo 476 c.p., comma 2, e' infondata e non tiene conto del principio di diritto, richiamato dalla Corte di appello, secondo cui, ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico, costituiscono atti pubblici non solo quelli destinati ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, ma anche gli atti cosiddetti interni, cioe', sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, sia quelli che si collocano nel contesto di un complesso "iter" conforme o meno allo schema tipico - ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi (Sez. 5, n. 38455 del 10/05/2019, Carta, Rv. 277092; Sez. 5, n. 9368 del 19/11/2013, dep. 2014, Budetta, Rv. 258952). (I rilievo difensivo e', invece, eccentrico in relazione a quelle condotte di falso materiale commesse attraverso la diretta falsificazione della firma del dirigente sull'atto di fede privilegiata. Il rigetto del ricorso del ricorrente (OMISSIS) in ordine ai profili fin qui esaminati, comporta la declaratoria di prescrizione di tutti i residui reati in relazione ai quali e' intervenuta condanna, l'ultimo dei quali e' stato commesso, secondo l'imputazione sub capo A), l'(OMISSIS). AI termine di prescrizione di dodici anni e sei mesi devono essere sommati i periodi di sospensione complessivamente pari ad anni due, mesi sei e giorni diciannove, per un totale di anni quindici e giorni diciannove: dunque, la prescrizione e' maturata il 30 ottobre del 2021. Rimangono assorbiti da tale rilievo i motivi di ricorso inerenti al trattamento sanzionatorio, mentre restano indenni, ex articolo 578 c.p.p., le statuizioni civili in allora adottate con riferimento alle parti private. 3. E' fondato il ricorso della parte civile Comune di Pisticci. Devono ricordarsi i pacifici principi di diritto secondo i quali, la sottoscrizione del difensore, apposta in calce o a margine della dichiarazione di costituzione di parte civile, vale ad escludere l'inammissibilita' della stessa, assolvendo alla doppia funzione di autenticazione della sottoscrizione del danneggiato e di sottoscrizione del difensore ai sensi dell'articolo 78 c.p.p., comma 1, lettera e), (Sez. 1, n. 23013 del 14/05/2009, Messina, Rv. 244112). Inoltre, con decisione analogicamente estendibile al caso in esame, si e' stabilito in sede civile che,,, la mancata certificazione, da parte del difensore, dell'autografia della firma da parte del ricorrente, apposta sulla procura speciale in calce o a margine del ricorso per cassazione (e quindi a maggior ragione nella copia notificata), costituisce una mera irregolarita', che non comporta la nullita' della procura "ad litem" perche' tale nullita' non e' comminata dalla legge, ne' detta formalita' incide sui requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell'atto, individuabile nella formazione del rapporto processuale attraverso la costituzione in giudizio del procuratore nominato, salvo che la controparte non contesti, con valide e specifiche ragioni e prove, l'autografia della firma non autenticata (Sez. U., civili, n. 12625 del 1998, Consorzio Conaco). Ne consegue, con assorbimento dei restanti motivi, che la Corte di appello non avrebbe dovuto dichiarare l'inammissibilita' della parte civile Comune di Pisticci sulla sola base del fatto che non era stata autenticata dal difensore, attraverso la sua sottoscrizione, la firma del danneggiato nella procura speciale, non essendo contestato che il difensore della parte civile avesse regolarmente firmato l'atto di costituzione. Sul punto, sebbene la soluzione qui adottata tronchi in diritto ogni questione sulla ammissibilita' della parte civile, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio al giudice civile limitatamente all'esame delle censure subordinate che la Corte di merito, a fg. 43, ha ritenuto assorbite e che necessitano di accertamenti in fatto non effettuabili in questa sede e potenzialmente refluenti sulla quantificazione del danno. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di (OMISSIS) perche' i reati per i quali ha subito condanna sono estinti per prescrizione. Rigetta nel resto il ricorso e conferma le statuizioni civili nei confronti delle parti civili private. Annulla la sentenza impugnata quanto alla declaratoria di inammissibilita' della costituzione di parte civile del Comune di Pisticci e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello. Rigetta il ricorso di (OMISSIS) e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna i ricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS), in solido, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalle parti civili (OMISSIS) e (OMISSIS), che liquida in Euro 4000,00 per ciascuna di esse, oltre accessori di legge. Spese al definitivo per la parte civile Comune di Pisticci.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, della legge della Regione Basilicata 30 dicembre 2017, n. 39 (Disposizioni in materia di scadenza di termini legislativi e nei vari settori di intervento della Regione Basilicata), promosso dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Basilicata, nel giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione Basilicata, per l’esercizio finanziario 2018, con ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta al n. 31 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2021. Visto l’atto di costituzione della Regione Basilicata; udito nell’udienza pubblica del 23 novembre 2021 il Presidente Giancarlo Coraggio, il quale, sentito il Giudice relatore Angelo Buscema, dispone che sia omessa la relazione; deliberato nella camera di consiglio del 23 novembre 2021. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza iscritta al reg. n. 31 del 2021, la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Basilicata, nel corso del giudizio di parificazione del rendiconto della medesima Regione per l’esercizio finanziario 2018, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, della legge della Regione Basilicata 30 dicembre 2017, n. 39 (Disposizioni in materia di scadenza di termini legislativi e nei vari settori di intervento della Regione Basilicata), in riferimento agli artt. 81, 97, primo comma, e 117, terzo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1, commi 557 e seguenti della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)». Ai sensi dell’art. 5, comma 2, della legge reg. Basilicata n. 39 del 2017, «la quota aggiuntiva di spesa di personale connessa alla mobilità in entrata del personale a tempo indeterminato del soppresso ruolo speciale ad esaurimento, non rileva ai fini delle disposizioni di cui all’articolo 1, commi 557 e 562, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 e successive modificazioni e integrazioni, e all’articolo 76, comma 7, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni e integrazioni, nello stretto limite delle risorse riconducibili alla copertura della spesa già sostenuta per tali dipendenti dagli enti di provenienza». 1.1.– Il giudice rimettente premette in fatto che il risultato di amministrazione del rendiconto 2018 avrebbe registrato un disavanzo pari a euro 22.270.848,97, con una tendenza al peggioramento, essendo previsto per il 2019 un disavanzo pari a euro 46.851.307,46, dati che confermerebbero la «fragilità» della tenuta degli equilibri di bilancio della Regione Basilicata, già oggetto di riscontro da parte della medesima sezione regionale di controllo nel corso dei giudizi di parificazione dei rendiconti relativi agli esercizi 2015, 2016 e 2017 (sono richiamate le decisioni della Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Basilicata, n. 45 del 2016 e n. 73 del 2017 sul giudizio di parifica del rendiconto 2015, n. 33 del 2018 sul rendiconto 2016, n. 57 del 2019 sul rendiconto 2017 e n. 42 del 2020 sul rendiconto 2018). Nonostante la presenza di tale disavanzo, il bilancio regionale avrebbe registrato, almeno dal 2015, un progressivo e costante aumento della spesa per il personale, passando da circa 55,9 milioni di euro nel 2015, a circa 72 milioni di euro nel 2018, in violazione dei vincoli di spesa di cui ai commi 557 e seguenti dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006. Osserva il rimettente che dal «Prospetto dimostrativo del rispetto delle disposizioni di cui all’art. 1, comma 557, della legge 296/2006» – trasmesso dalla Regione Basilicata alla sezione di controllo (nota 5616/12A2 del 14 gennaio 2020) – lo sforamento del vincolo di spesa previsto dal menzionato parametro interposto per l’esercizio 2018 risulterebbe pari a euro 36.647. A parere del rimettente, però, tale sforamento sarebbe sottostimato, poiché la Regione avrebbe in realtà sostenuto spese per il personale per importi ben superiori, benché, per effetto di «eccentriche costruzioni dei parametri di calcolo», tali importi siano stati espunti dal calcolo complessivo. All’importo indicato, pari ad euro 36.647, si dovrebbe, infatti, aggiungere anche la somma di euro 1.000.867, sostenuta a titolo di contributi per il personale contrattualizzato dai gruppi consiliari, nonché euro 5.911.123,32, corrispondente agli oneri sostenuti per il personale delle ex Comunità montane. L’amministrazione regionale avrebbe escluso il primo importo, relativo ai gruppi consiliari, ai sensi dell’art. 10, comma 11, della legge Regione Basilicata 2 febbraio 1998, n. 8 (Nuova disciplina delle strutture di assistenza agli organi di direzione politica ed ai Gruppi Consiliari della Regione Basilicata). Tale operazione è stata criticata dal giudice rimettente, poiché dalla lettura testuale e sistematica della richiamata normativa regionale non emergerebbe alcun elemento volto a suffragare l’esclusione di tali voci dall’aggregato regionale. L’esclusione delle spese relative al personale delle ex Comunità montane, invece, sarebbe la conseguenza della espressa deroga prevista dall’art. 5, comma 2, della legge reg. Basilicata n. 39 del 2017, su cui la sezione regionale ha manifestato dubbi di legittimità costituzionale. Alla luce di quanto osservato, la Corte dei conti ha sospeso il giudizio di parifica con riferimento alla parte del risultato di amministrazione del rendiconto 2018, rispetto al quale ritiene siano state contabilizzate spese di personale sostenute in violazione del richiamato parametro interposto, e ha conseguentemente sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, della legge reg. Basilicata n. 39 del 2017 per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. nonché «per ridondanza del vizio» sugli artt. 81 e 97, primo comma, Cost. 1.2.– Quanto alla propria legittimazione a sollevare questione di legittimità costituzionale nel corso del giudizio di parificazione del rendiconto della Regione, il giudice rimettente evoca «[l’]ormai pacifica» giurisprudenza di questa Corte sul carattere giurisdizionale dell’attività svolta dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti nei giudizi di parificazione (sono citate le sentenze n. 112 del 2020, n. 146 e n. 138 del 2019, n. 196 del 2018 e n. 89 del 2017). La verifica dell’assenza di irregolarità ovvero di illegittimità suscettibili di pregiudicare, anche in prospettiva, gli equilibri economico-finanziari del bilancio regionale rappresenterebbe il parametro portante dei controlli svolti dalla Corte dei conti nell’ambito del richiamato giudizio. Osserva il giudice a quo che il perimetro di tale controllo, oltre a comprendere i parametri costituzionali a tutela della sana gestione finanziaria del bilancio – ossia gli artt. 81, 97 e 119 Cost. – comprenderebbe anche i principi sul riparto di competenze Stato-Regioni, che ne costituirebbero «l’indefettibile parametro-presupposto», ossia l’art. 117 Cost., poiché al di fuori della propria competenza, «la Regione manca per definizione della prerogativa di allocare risorse. Pertanto, in tali materie, non vi è intervento regionale produttivo di spesa che non si traduca immediatamente nell’alterazione dei criteri dettati dall’ordinamento ai fini della sana gestione della finanza pubblica allargata» (è citata la sentenza di questa Corte n. 196 del 2018). Con riferimento al caso di specie, la Corte rimettente sostiene che la competenza dello Stato a fissare i principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., rappresenterebbe uno strumento necessario per assicurare l’unità economica e finanziaria della Repubblica, nonché il rispetto degli impegni assunti anche a livello sovranazionale «a tutela della sostenibilità attuale e prospettica degli equilibri di bilancio». In questa prospettiva, i vincoli alla spesa per il personale sarebbero strategici ai fini del conseguimento degli equilibri sostanziali del bilancio pubblico consolidato, e pertanto sarebbero inderogabili, salvo i casi in cui sia «lo stesso legislatore nazionale a rimodularne gli ambiti ovvero ad abrogarne l’efficacia» (è citata la sentenza n. 54 del 2014). 1.3.– In punto di rilevanza, osserva il giudice rimettente che la legge sospettata di illegittimità costituzionale avrebbe gravato il sistema di bilancio regionale con oneri «sostenuti “in deroga” ai vincoli di spesa» di cui ai commi 557 e seguenti dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006. Tali spese avrebbero sottratto risorse al sistema finanziario regionale, erodendone la capacità di spesa effettiva. In mancanza di sospensione del giudizio di parificazione per promovimento delle presenti questioni di legittimità costituzionale, la Sezione regionale rimettente avrebbe dovuto parificare – ossia certificare la legittimità di – un risultato di amministrazione che registra spese ritenute illegittime, per contrasto con il più volte evocato parametro interposto, con conseguente ripercussione sugli equilibri complessivi di bilancio, peraltro in una situazione di riscontrata fragilità complessiva. Il sollevamento della questione di legittimità costituzionale rappresenterebbe in quest’ottica un dovere della stessa Sezione regionale, ai sensi delle funzioni che le sarebbero affidate dagli artt. 100, secondo comma, e 103, secondo comma, Cost.; nonché dall’art. 1, commi 1 e 5, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, nella legge 7 dicembre 2012, n. 213, ai sensi dei quali la Corte dei conti nel giudizio di parifica contribuisce a «rafforzare il coordinamento della finanza pubblica, in particolare tra i livelli di governo statale e regionale, e [a] garantire il rispetto dei vincoli finanziari derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea», specie nell’ambito del giudizio di parificazione dei rendiconti regionali, in cui la magistratura contabile effettua un controllo sulla regolarità e legittimità della gestione finanziaria dell’esercizio (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 138 del 2019). 1.4.– In punto di non manifesta infondatezza, la Corte rimettente ripercorre l’evoluzione normativa della soppressione delle Comunità montane in Basilicata, intervenuta ai sensi dell’art. 23, comma 7, della legge Regione Basilicata 30 dicembre 2010, n. 33 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione annuale e pluriennale della Regione Basilicata. Legge finanziaria 2011). In proposito, la Corte dei conti osserva che dal 1° maggio 2012 al 31 dicembre 2017 il personale delle ex Comunità montane avrebbe dovuto essere collocato in un «Ruolo speciale ad esaurimento», ai sensi dell’art. 28 della legge Regione Basilicata 4 agosto 2011, n. 17 (Assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2011 e del bilancio pluriennale per il triennio 2011-2013). Contestualmente, ai sensi dell’art. 36 della legge Regione Basilicata 8 agosto 2012, n. 16 (Assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2012 e del bilancio pluriennale per il triennio 2012/2014), avrebbe dovuto essere approvato un piano di mobilità per la definitiva ripartizione del personale a tempo indeterminato delle soppresse Comunità montane nelle dotazioni organiche dei Comuni convenzionalmente aderenti nell’Area programma, poi confluite nelle costituende Unioni di Comuni. Le risorse destinate al trattamento economico fondamentale avrebbero dovuto essere trasferite dalla Regione alle Aree programma (nonché alle Unioni di Comuni) destinatarie della mobilità in entrata del personale a tempo indeterminato delle ex Comunità montane. Questo progetto però, ad avviso del rimettente, non si sarebbe mai realizzato e, per effetto della norma censurata, il legislatore lucano avrebbe previsto, a decorrere dal 1° gennaio 2018, la riassunzione in capo alla Regione delle funzioni delegate a seguito della soppressione delle Comunità montane e la cessazione del menzionato ruolo speciale ad esaurimento. Tale trasferimento avrebbe comportato la rideterminazione della dotazione organica della Regione, il riassorbimento del personale con qualifica dirigenziale a valere sulle posizioni vacanti del ruolo unico regionale, nonché l’ampliamento del fondo per la contrattazione decentrata del personale della Regione con le risorse destinate al personale collocato nell’albo speciale. Infine, quanto all’originaria gestione “extra-vincoli finanziari” (di cui al ruolo speciale ad esaurimento) delle correlate spese (anomalia oggetto di numerosi rilievi da parte della medesima sezione regionale, fin dal primo giudizio sulla parificazione del rendiconto 2012), la Regione avrebbe portato tale deroga a sistema, prevedendo, con il censurato comma 2 dell’art. 5 della legge reg. Basilicata n. 39 del 2017, che la quota aggiuntiva di spesa di personale, connessa alla mobilità in entrata del personale a tempo indeterminato del soppresso ruolo speciale ad esaurimento, non rilevi ai fini dei limiti di cui al più volte richiamato parametro interposto. Rileva il rimettente, peraltro, che la normativa censurata sembrerebbe limitare il quantum della deroga alle «risorse riconducibili alla copertura della spesa già sostenuta per tali dipendenti dagli enti di provenienza» (è riportato l’ultimo periodo del censurato art. 5, comma 2), come se il trasferimento del personale fosse intervenuto tra enti sottoposti a medesimi vincoli e, pertanto, la mobilità in entrata fosse neutra per il bilancio regionale. In realtà, nella fattispecie in esame, gli enti di provenienza sarebbero stati soppressi e il ruolo speciale ad esaurimento non sarebbe mai esistito come autonomo soggetto giuridico. Pertanto, osserva la Sezione regionale, tale ruolo speciale avrebbe rappresentato esclusivamente un «escamotage contabile per rendicontare separatamente (rispetto all’aggregato della spesa di personale) gli oneri di personale ex Comunità montane sostenuti a valere sul bilancio regionale, nel periodo 2012-2017, senza mai essere inclusi nel perimetro di rilevanza dei vincoli di cui ai commi 557 e ss. dell’art. 1 della legge 296/2006». Il combinato disposto dei richiamati commi 557 e 557-quater detterebbe un preciso vincolo di coordinamento della finanza pubblica, consistente nella riduzione della spesa da assicurare nell’ambito della programmazione triennale dei fabbisogni del personale, con riferimento al valore medio della spesa di personale sostenuta nel triennio 2011-2013. Secondo la Sezione regionale, l’assorbimento nei ruoli regionali del personale delle ex Comunità montane avrebbe comportato la lievitazione della spesa, con conseguente mancato rispetto dell’obbligo di assicurare il plafond di spesa del triennio 2011-2013. Complessivamente, l’aggregato della spesa di personale sostenuta in violazione dei suddetti vincoli finanziari ammonterebbe a 6.948.636 euro (comprensivi delle spese per i gruppi consiliari e per il personale delle ex Comunità montane). Tali spese “extra vincolo” avrebbero eroso la capacità di spesa effettiva della Regione, pregiudicando gli equilibri di bilancio e la sostenibilità prospettica delle scelte allocative, nella misura in cui le risorse, in luogo di essere utilizzate a copertura degli asseriti oneri illegittimi, avrebbero potuto concorrere al miglioramento della situazione di disavanzo cronico registrato dall’Ente a decorrere dal 2016. Il danno al bilancio – sostiene il giudice a quo – sarebbe pertanto duplice, configurandosi sia in termini di aggravio di oneri che in termini di erosione di risorse, in entrambi i casi in assenza di legittima copertura normativa. Sarebbe conseguentemente evidente «l’inscindibile correlazione funzionale» tra rispetto del riparto competenziale, violazione dei vincoli finanziari e tutela degli equilibri di bilancio anche prospettici (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 143 del 2020). La disposizione censurata sarebbe infine insuscettibile di interpretazione costituzionalmente orientata, poiché dal tenore letterale emergerebbe la chiara e univoca volontà del legislatore regionale di escludere dal perimetro di rilevanza dei vincoli di cui al comma 557 e seguenti gli oneri per la spesa di personale ex Comunità montane trasferito nei ruoli regionali. 1.5.– La Sezione regionale, pertanto, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, della legge reg. n. 39 del 2017, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione ai parametri interposti costituiti dai commi 557 e seguenti (viene in particolare indicato il comma 557-quater) dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, nonché per ridondanza del vizio, in riferimento agli artt. 81 e 97, primo comma, Cost., stante la intrinseca correlazione teleologico-funzionale di tutti i menzionati principi costituzionali e correlati parametri interposti, ai fini della tutela degli equilibri del bilancio regionale e, di riflesso, della finanza pubblica allargata. 2.– Con memoria depositata il 2 aprile 2021, si è costituita in giudizio la Regione Basilicata, rappresentata e difesa dall’avvocatura regionale, sostenendo la «manifesta infondatezza» delle questioni sollevate con l’ordinanza in epigrafe. Dopo aver ricostruito l’evoluzione normativa del processo di soppressione e riordino delle 14 Comunità montane della Regione Basilicata, confluite in 7 Aree programma a scala locale, la difesa regionale evidenzia che l’immissione nei ruoli organici regionali del personale di cui al ruolo speciale ad esaurimento, proveniente dalle disciolte Comunità montane, sarebbe connessa alla parallela riallocazione in capo alla Regione di tutte le funzioni prima intestate alle medesime Comunità e poi delegate alle indicate Aree programma. L’immissione del personale ex Comunità montane nei ruoli regionali configurerebbe pertanto una semplice ipotesi di riorganizzazione dell’ente pubblico, rientrante nelle competenze residuali regionali. La censurata disposizione regionale, in quest’ottica, intendendo fare salvi i rapporti di lavoro a tempo indeterminato in essere con le medesime Comunità montane, avrebbe previsto «l’irrilevanza finanziaria» dei limiti alle assunzioni e alla spesa di personale previste per gli enti locali, stante la invarianza dei saldi di finanza pubblica all’interno del comparto regionale. Secondo la difesa regionale, infatti, l’irrilevanza finanziaria discenderebbe dalla peculiare natura della fattispecie in esame, in cui l’ente cedente è destinato ad essere soppresso e le risorse impiegate per la copertura della spesa corrispondono a quanto già sostenuto dalla Regione per i dipendenti delle originarie Comunità montane (ossia i trasferimenti ordinari della Regione alle Comunità montane). Pertanto, la normativa censurata avrebbe quale unico obiettivo quello di «sterilizzare gli effetti del riordino e della soppressione delle comunità montane, evitando di porre a carico degli enti subentranti i conseguenti effetti di spesa». A sostegno di questa ricostruzione, la difesa regionale evoca norme non dissimili di altre Regioni che disporrebbero analogamente in materia, prevedendo la non rilevanza dei limiti di spesa per il personale regionalizzato delle ex Comunità montane; segnatamente, sono citati: la legge della Regione Emilia-Romagna 21 dicembre 2012, n. 21 (Misure per assicurare il Governo territoriale delle funzioni amministrative secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza) (art. 18); l’art. 18 (recte: art. 10) della legge della Regione Liguria 12 aprile 2011, n. 7 (Disciplina di riordino e razionalizzazione delle funzioni svolte dalle Comunità montane soppresse e norme di attuazione per la liquidazione); l’art. 18 della legge della Regione Piemonte 28 settembre 2012, n. 11 (Disposizioni organiche in materia di enti locali). Le questioni sarebbero manifestamente infondate poiché la ratio della disposizione censurata non sarebbe di derogare a un principio di coordinamento della finanza pubblica, bensì di prevedere una «gestione separata del personale citato». Sostiene la difesa regionale che le norme statali di riordino delle Comunità montane, peraltro, costituirebbero già di per sé principi di coordinamento della finanza pubblica, che tuttavia porrebbero obiettivi di contenimento della spesa assai inferiori a quelli che la medesima Regione avrebbe conseguito, pur facendo salvi i rapporti di lavoro a tempo indeterminato in essere a quella data, che sarebbero stati collocati nel ruolo speciale ad esaurimento per questa ragione. In conseguenza del riordino della materia, tale voce si sarebbe nondimeno contenuta entro il valore medio di spesa del triennio 2011-2013. Infine, la Regione asserisce che, nella denegata ipotesi in cui si ritenesse che anche la spesa per il personale delle ex Comunità montane debba essere ricondotta nella spesa di personale della Regione – con le relative conseguenze in termini di sottoposizione ai vincoli di finanza pubblica – occorrerebbe computare nell’ambito della spesa di personale della Regione del triennio 2011-2013 anche la spesa effettivamente sostenuta per il personale ex Comunità montane per il medesimo periodo [sotto la voce “trasferimenti”]. È richiamato in proposito il parere della Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, n. 80 del 2009, in cui si affermerebbe che anche le spese sostenute in quota parte dall’ente per l’utilizzo di personale di altre amministrazioni devono essere computate tra le spese del personale. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza iscritta al reg. n. 31 del 2021, la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Basilicata, nel corso del giudizio di parificazione del rendiconto della medesima Regione per l’esercizio finanziario 2018, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, della legge della Regione Basilicata 30 dicembre 2017, n. 39 (Disposizioni in materia di scadenza di termini legislativi e nei vari settori di intervento della Regione Basilicata), in riferimento agli artt. 81, 97, primo comma, e 117, terzo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1, commi 557 e seguenti, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)». Ai sensi dell’art. 5, comma 2, della legge reg. Basilicata n. 39 del 2017, «la quota aggiuntiva di spesa di personale connessa alla mobilità in entrata del personale a tempo indeterminato del soppresso ruolo speciale ad esaurimento, non rileva ai fini delle disposizioni di cui all’articolo 1, commi 557 e 562, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 e successive modificazioni e integrazioni, e all’articolo 76, comma 7, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni e integrazioni, nello stretto limite delle risorse riconducibili alla copertura della spesa già sostenuta per tali dipendenti dagli enti di provenienza». 1.2.– Sostiene il giudice a quo che nell’esercizio 2018 la Regione avrebbe sostenuto spese per il personale per importi maggiori di quelli indicati nel «Prospetto dimostrativo del rispetto delle disposizioni di cui all’art. 1, comma 557, della legge 296/2006» e che, tuttavia, per effetto di «eccentriche costruzioni» contabili, tali spese sarebbero state espunte dal calcolo complessivo. All’importo indicato, pari a euro 36.647, si dovrebbe, infatti, aggiungere anche la somma di euro 5.911.123,32, relativa agli oneri per il personale delle ex Comunità montane. L’amministrazione regionale avrebbe però escluso dal computo le menzionate spese in conseguenza dell’espressa deroga prevista dal censurato art. 5, comma 2, della legge reg. Basilicata n. 39 del 2017. Alla luce di quanto osservato, la Corte dei conti ha sospeso il giudizio di parificazione con riferimento alla parte del risultato di amministrazione del rendiconto 2018, rispetto al quale ritiene siano state contabilizzate spese di personale sostenute in violazione del richiamato parametro interposto, e ha conseguentemente sollevato le descritte questioni di legittimità costituzionale. 2.– Preliminarmente, deve riconoscersi la legittimazione del giudice a quo a sollevare le presenti questioni, poiché, come di recente ribadito da questa Corte, «la Corte dei conti, in sede di giudizio di parificazione del bilancio, è legittimata a promuovere questione di legittimità costituzionale avverso le disposizioni di legge che determinano, nell’articolazione e nella gestione del bilancio stesso, effetti non consentiti dai principi posti a tutela degli equilibri economico-finanziari e dagli altri precetti costituzionali, che custodiscono la sana gestione finanziaria» (ex plurimis, sentenza n. 89 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 196 del 2018), «giacché nella parifica del rendiconto regionale ricorrono integralmente tutte le condizioni per le quali è ammessa la possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale in via incidentale […] e la situazione è “analoga a quella in cui si trova un qualsiasi giudice (ordinario o speciale), allorché procede a raffrontare i fatti e gli atti dei quali deve giudicare alle leggi che li concernono” (sentenza n. 89 del 2017)» (sentenza n. 215 del 2021). Tale legittimazione ricorre anche nei casi in cui la lesione dei precetti finanziari sia la conseguenza della violazione di parametri attinenti al riparto delle competenze, allorquando la suddetta invasione sia funzionalmente correlata alla violazione degli artt. 81 e 97, primo comma, Cost., per aver determinato un incremento delle poste passive del bilancio in riferimento al costo del personale (da ultimo, ancora sentenza n. 215 del 2021). Nel presente giudizio, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti rimettente ha sollevato questioni di legittimità costituzionale per la violazione di limiti di spesa fissati da principi di coordinamento della finanza pubblica, sostenendo che tale sforamento – che comporta la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. – sia «funzionalmente correlato» alla lesione degli artt. 81 e 97, primo comma, Cost., in quanto destinato a riverberarsi anche sulla copertura delle spese e sull’equilibrio complessivo del bilancio regionale. Di qui, l’ammissibilità delle questioni. 3.– Sempre in via preliminare, deve rilevarsi d’ufficio che, sebbene il dispositivo dell’ordinanza censuri genericamente l’art. 5, comma 2, della legge reg. Basilicata n. 39 del 2017 che esclude le menzionate spese dai limiti di cui all’art. 1, commi 557 e 562, della legge n. 296 del 2006, e all’art. 76, comma 7, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni e integrazioni – il rimettente evoca, quale parametro interposto, esclusivamente l’art. 1, «commi 557 e ss.», della legge n. 296 del 2006. Più precisamente, dal corpo motivazionale e dall’intera ordinanza emerge che i limiti asseritamente violati sono quelli di cui al combinato disposto dei commi 557, 557-bis – che circoscrivono le voci di spesa per il personale da ridurre, includendovi «anche quelle sostenute per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, per la somministrazione di lavoro, per il personale di cui all’art. 110 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), nonché per tutti i soggetti a vario titolo utilizzati, senza estinzione del rapporto di pubblico impiego, in strutture e organismi variamente denominati partecipati o comunque facenti capo all’ente» – e 557-quater, che stabilisce, per l’appunto, il tetto di spesa, dato dal «valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della presente disposizione», ossia, nel caso in esame, il triennio compreso fra il 2011 e il 2013. Va infine rilevato che l’art. 76, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito, è stato abrogato dall’art. 3, comma 5, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, ossia in epoca precedente all’esercizio finanziario del 2018, a cui il giudizio di parificazione si riferisce. Il thema decidendum deve pertanto essere circoscritto alla sola disposizione che, per le spese del personale delle ex Comunità montane confluito nel comparto regionale, esclude l’applicabilità dei limiti di cui all’art. 1, comma 557, come meglio precisati dai commi 557-bis e 557-quater, della legge n. 296 del 2006. 4.– Tanto premesso, le descritte questioni di legittimità costituzionale devono ritenersi ammissibili. In punto di rilevanza, in particolare, questa Corte ha costantemente affermato che, «essenziale e sufficiente a conferire rilevanza alla questione prospettata è “che il giudice debba effettivamente applicare la disposizione della cui legittimità costituzionale dubita nel procedimento pendente avanti a sé (sentenza n. 253 del 2019) e che la pronuncia della Corte ‘influi[sca] sull’esercizio della funzione giurisdizionale, quantomeno sotto il profilo del percorso argomentativo che sostiene la decisione del processo principale (tra le molte, sentenza n. 28 del 2010)’ (sentenza n. 20 del 2016)” (sentenza n. 84 del 2021)» (sentenza n. 215 del 2021). In proposito, il giudice a quo, con riferimento ai parametri finanziari sopra richiamati, ha sostenuto di dover necessariamente applicare la norma censurata – che esclude le spese del personale delle ex Comunità montane dal limite di cui all’art. 1, commi 557 e seguenti, della legge n. 296 del 2006 – nelle valutazioni funzionali alla parificazione del rendiconto generale della Regione. In particolare, la Corte rimettente ha osservato come l’esito della parifica relativa all’esercizio 2018 sia direttamente influenzato dalla disposizione censurata, in quanto, in applicazione della stessa, avrebbe dovuto parificare – ossia validare – un risultato di amministrazione che registra spese ritenute illegittime, per contrasto con il più volte evocato parametro interposto, con conseguente ripercussione sugli equilibri complessivi di bilancio, peraltro in una situazione di fragilità finanziaria complessiva. 5.– Esclusa, in base al tenore letterale della disposizione censurata, la possibilità di esperirne una interpretazione costituzionalmente orientata, ai fini della decisione del merito, occorre brevemente ricostruire il contesto normativo di riferimento sul riordino delle Comunità montane. L’art. 2, comma 17, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)», aveva attribuito alle Regioni il compito di riordinare la disciplina delle Comunità montane presenti sui rispettivi territori attraverso la riduzione del loro numero, del numero dei componenti degli organi rappresentativi e delle loro indennità, allo scopo di ridurre di almeno un terzo la quota del Fondo ordinario con cui lo Stato finanziava le Comunità stesse. In seguito, l’art. 2, comma 187, della legge 23 dicembre 2009, n. 191, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010)», aveva disposto l’abolizione del finanziamento statale, scelta peraltro giudicata in parte costituzionalmente illegittima (sentenza n. 326 del 2010). Si tratta di disposizioni che hanno sostanzialmente condizionato la successiva legislazione regionale di disciplina delle Comunità montane, che sono state soppresse in quasi tutte le Regioni e trasformate, salvo poche eccezioni, in Unioni di Comuni montani o Unioni montane, mediante procedimenti di riordino e riduzione della spesa. Con riferimento alla Regione Basilicata, dal 1° maggio 2012 al 31 dicembre 2017 il personale delle ex Comunità montane avrebbe dovuto essere collocato in un «Ruolo speciale ad esaurimento», ai sensi dell’art. 28 della legge della Regione Basilicata 4 agosto 2011, n. 17 (Assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2011 e del bilancio pluriennale per il triennio 2011-2013). Contestualmente, ai sensi dell’art. 36 della legge della Regione Basilicata 8 agosto 2012, n. 16 (Assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2012 e del bilancio pluriennale per il triennio 2012/2014), avrebbe dovuto essere approvato un piano di mobilità per la definitiva ripartizione del personale a tempo indeterminato delle soppresse Comunità montane nelle dotazioni organiche dei Comuni, convenzionalmente aderenti alle Aree programma, poi confluiti nelle costituende Unioni di Comuni. Le risorse destinate al trattamento economico fondamentale avrebbero dovuto essere trasferite dalla Regione alle Aree programma (nonché alle Unioni di Comuni) destinatarie della mobilità in entrata del personale a tempo indeterminato delle ex Comunità montane. Questo progetto, però, non si è mai compiutamente realizzato e, per effetto della norma censurata, il legislatore lucano ha previsto, a decorrere dal 1° gennaio 2018, la riassunzione in capo alla Regione delle funzioni delegate a seguito della soppressione delle Comunità montane e il venir meno del menzionato ruolo speciale a esaurimento. 6.– Ciò posto, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, della legge reg. Basilicata n. 39 del 2017 in riferimento agli artt. 81, 97, primo comma, e 117, terzo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1, commi 557, 557-bis e 557-quater, della legge n. 296 del 2006, sono fondate. 6.1.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, le disposizioni evocate a parametro interposto rappresentano principi di coordinamento della finanza pubblica che dettano sia limiti alla spesa per il personale degli enti territoriali, sia limiti di assunzione (ex plurimis, sentenza n. 269 del 2014). Le indicate norme interposte essendo «ispirate alla finalità del contenimento della spesa pubblica» (sentenza n. 289 del 2013), si qualificano come «principi generali di coordinamento della finanza pubblica» (sentenza n. 27 del 2014) che tutti gli enti devono osservare, in quanto diretti «ad assicurare il rispetto dei limiti di spesa mediante la previsione di sanzioni nel caso di inosservanza delle prescrizioni di contenimento» (sentenza n. 148 del 2012). Va poi precisato che i commi da 557 a 557-quater sono rivolti agli enti sottoposti al patto di stabilità interno (ora sostituito dall’obbligo del saldo di bilancio non negativo) e impongono, per ciascun esercizio, di non superare, rispettivamente, la media della spesa del triennio 2011-2013, sommando tutte le spese di personale di competenza; in caso di mancata riduzione della spesa (comma 557), è previsto il divieto di assunzioni (comma 557-ter). Quanto alla fattispecie in esame, essa non involge tanto il passaggio di personale fra enti, entrambi esistenti e ai quali continuerebbero ad applicarsi i rispettivi limiti di spesa, ma presuppone la soppressione dell’ente cedente e il successivo assorbimento del personale nel comparto regionale. Questa Corte, nell’occuparsi del caso dell’assorbimento da parte dei Comuni del personale delle disciolte istituzioni di pubblica assistenza e beneficienza (IPAB), ha affermato che «[n]ella prospettiva della finanza pubblica allargata […] la presenza di enti già impegnati nel settore dei servizi sociali […] e per di più soggetti ad un riordino che ne determina l’integrazione funzionale a livello infraregionale, comporta la necessità di un coordinamento complessivo onde evitare che il riordino possa diventare occasione per il superamento di quei limiti di spesa di personale» (sentenza n. 161 del 2012). Con la stessa pronuncia si è pertanto, precisato che è la «natura finanziaria strutturale» dei principi di coordinamento della finanza pubblica che «induce a ritenere che agli stessi parametri sia soggetta la gestione delle IPAB, soprattutto nel momento transitorio del trapasso dalle vecchie Istituzioni alle nuove Aziende». Peraltro, in altre circostanze, ma sempre inerenti alla concreta attuazione dei limiti di spesa per il personale, questa Corte ha ribadito che tali limiti devono applicarsi a tutte le voci del comparto, in forza della natura del rendiconto della Regione, in cui confluiscono tutte le spese sostenute dall’ente (sentenza n. 39 del 2014), «poiché anche esso costituisce un mero documento di sintesi ex post delle risultanze contabili della gestione finanziaria e patrimoniale dell’ente» (sentenza n. 235 del 2015). Di conseguenza, «non sono ammissibili deroghe ai princìpi di coordinamento della finanza pubblica, salvo quelle espressamente previste dal legislatore statale» (da ultimo, sentenza n. 215 del 2021). Non coglie nel segno, pertanto, la difesa regionale quando, a sostegno della non fondatezza delle doglianze, osserva che l’operazione prevista dalla disposizione censurata sarebbe finanziariamente neutra, avendo la Regione sempre contribuito al finanziamento del personale delle ex Comunità montane, confluito a partire dal 2012 nel ruolo speciale ad esaurimento. Benché la verifica operata sui relativi capitoli di bilancio (segnatamente, sul capitolo n. 36681) dimostri che la Regione ne ha effettivamente sostenuto il costo fin dal momento del riordino, il fatto che esso sia sempre stato escluso dal calcolo della spesa complessiva del personale corrobora la tesi sostenuta dal rimettente, ossia che tale ruolo speciale a esaurimento abbia rappresentato un espediente contabile, al fine di eludere i vincoli di spesa in materia di personale. L’accoglimento della questione consente di far riemergere le voci di spesa che, per effetto del descritto meccanismo contabile, fin dal 2012 venivano escluse, e si riflette sugli esiti del giudizio di parificazione, poiché con riferimento all’esercizio finanziario 2018, la Regione Basilicata registra una maggiore violazione del vincolo di spesa di cui all’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006. 6.2.– La disposizione censurata, provocando una duplice espansione della spesa, sia in termini di aggravio di oneri, sia in termini di erosione di risorse – in entrambi i casi, in assenza di legittima copertura – determina anche la lesione degli artt. 81 e 97, primo comma, Cost., stante la correlazione funzionale tra riparto delle competenze, rispetto dei vincoli finanziari e tutela degli equilibri di bilancio (ex plurimis, sentenza n. 215 del 2021). Come questa Corte ha recentemente affermato, infatti, «[l]a competenza dello Stato a fissare i principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., rappresenta uno strumento necessario per assicurare l’unità economica e finanziaria della Repubblica, nonché il rispetto degli impegni assunti anche a livello sovranazionale, a tutela della sostenibilità attuale e prospettica degli equilibri di bilancio. In quest’ottica, i vincoli alla spesa per il personale sono strategici ai fini del conseguimento degli equilibri sostanziali del bilancio pubblico consolidato e pertanto sono inderogabili, salvo i casi in cui sia lo stesso legislatore nazionale a rimodularne gli ambiti ovvero ad abrogarne l’efficacia (sentenza n. 54 del 2014)» (ancora sentenza n. 215 del 2021). In definitiva, l’esclusione delle spese sostenute per il personale delle ex Comunità montane dai limiti di finanza pubblica stabiliti dallo Stato non solo viola il parametro di competenza di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., ma, incidendo sulla corretta copertura delle stesse, determina anche la lesione indiretta dei parametri finanziari di cui agli artt. 81 e 97, primo comma, Cost., mettendo a repentaglio il già fragile equilibrio del bilancio della Regione Basilicata. Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, della legge reg. Basilicata n. 39 del 2017, nella parte in cui esclude le spese per il personale delle soppresse Comunità montane dai limiti di cui all’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, con conseguente violazione anche dei successivi commi 557-bis e 557-quater. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, della legge della Regione Basilicata 30 dicembre 2017, n. 39 (Disposizioni in materia di scadenza di termini legislativi e nei vari settori di intervento della Regione Basilicata), nella parte in cui prevede che la quota aggiuntiva di spesa di personale connessa alla mobilità in entrata del personale a tempo indeterminato del soppresso ruolo speciale ad esaurimento, non rileva ai fini delle disposizioni di cui all’art. 1, comma 557, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)» e successive modificazioni e integrazioni, nello stretto limite delle risorse riconducibili alla copertura della spesa già sostenuta per tali dipendenti dagli enti di provenienza. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 novembre 2021. F.to: Giancarlo CORAGGIO, Presidente Angelo BUSCEMA, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 21 dicembre 2021. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. D'ASCOLA Pasquale - Presidente Dott. ORILIA Lorenzo - Consigliere Dott. TEDESCO Giuseppe - Consigliere Dott. SCARPA Antonio - rel. Consigliere Dott. FORTUNATO Giuseppe - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso 6948/2018 proposto da: (OMISSIS), (OMISSIS), difesi dall'avvocato (OMISSIS); - ricorrenti - contro (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall'avvocato (OMISSIS); - controricorrente - avverso l'ordinanza del TRIBUNALE di TRANI, depositata il 29/01/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/09/2021 dal Consigliere ANTONIO SCARPA; udito il P.M. in persona della Sostituta del Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, la quale ha chiesto di dichiarare inammissibile o rigettare il ricorso; udito l'Avvocato (OMISSIS) per delega dell'Avvocato (OMISSIS). FATTI DI CAUSA Lo (OMISSIS) e l'avvocato (OMISSIS) hanno proposto ricorso articolato in tre motivi avverso l'ordinanza n. 558/2018 del Tribunale di Trani, pubblicata il 29 gennaio 2018. Resiste con controricorso (OMISSIS). Con ricorso per procedimento sommario Decreto Legislativo n. 150 del 2011, ex articolo 14, proposto davanti al Tribunale di Trani dallo (OMISSIS), e successivo intervento in giudizio dell'avvocato (OMISSIS), vennero richiesti a (OMISSIS) i compensi per le prestazioni professionali svolte in tre giudizi civili ed in sede stragiudiziale, relativamente alle questioni insorte tra il (OMISSIS) e la ex (OMISSIS), riguardo all'aggiudicazione di un immobile sito in (OMISSIS). In particolare, l'associazione professionale richiedeva i compensi per l'attivita' professionale svolta dal professionista associato avv. (OMISSIS), che aveva eseguito direttamente la prestazione di assistenza stragiudiziale in sede amministrativa di gara e negli atti successivi. Uno dei tre giudizi era stato definito con sentenza dichiarativa del difetto di giurisdizione, mentre gli altri due erano ancora pendenti al momento della rinuncia al mandato del difensore intervenuta nel luglio del 2016. Il convenuto (OMISSIS) eccepi' il difetto di legittimazione attiva dell'associazione professionale, essendo stato conferito il mandato difensivo al solo avvocato (OMISSIS); dedusse altresi' la responsabilita' professionale del legale ed eventualmente dello studio, chiedendo il relativo risarcimento del danno; eccepi' la prescrizione del diritto al compenso e l'inammissibilita' delle forme ex articolo 702 bis c.p.c., sussistendo contestazioni sull'an oltre che sul quantum del compenso. Il Tribunale di Trani ha disatteso l'eccezione d'inammissibilita' del ricorso al rito sommario di cognizione ed ha invece accolto l'eccezione di difetto di titolarita' in capo all'associazione professionale del lato attivo del rapporto obbligatorio. L'ordinanza impugnata ha, invero, evidenziato che il mandato alle liti per i giudizi rg. 880/2012, rg. 1850/2012 (riunito al primo) e rg. 7485/2014 era stato conferito all'avvocato (OMISSIS), mentre per il giudizio rg. 2601/2007 il mandato era stato rilasciato agli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), senza alcun riferimento all'Associazione professionale Studio legale (OMISSIS). Ad avviso del Tribunale, la documentazione inerente ai tre giudizi svoltisi dinanzi al Tribunale di Trani non dimostrava che il rapporto professionale fosse riconducibile all'associazione, mentre le previsioni contenute nell'atto costitutivo dell'associazione stessa, relative al conferimento dei compensi percepiti dai singoli nell'associazione, atterrebbero unicamente ai rapporti interni tra gli avvocati aderenti allo studio. Quanto ai pretesi compensi per l'attivita' stragiudiziale (quantificati in Euro 20.674,97), ritenuti gli stessi soggetti al rito di cui al Decreto Legislativo n. 150 del 2011, articolo 14, in quanto costituenti prestazioni strumentali e complementari rispetto alla difesa processuale, il Tribunale ha esposto che si trattava per lo piu' di contatti tramite corrispondenza elettronica o per posta ordinaria svolti tra il 2009 ed il 2013 con i referenti della (OMISSIS), controparte del proprio cliente. La conclusione del Tribunale e' stata, pertanto, che il compenso dell'attivita' stragiudiziale svolta dall'avvocato (OMISSIS) per la questione dell'aggiudicazione dell'immobile della Ipab rimanesse inclusa in quello gia' liquidato per le prestazioni giudiziali, connotandosi quelle come non particolarmente difficoltose e piuttosto strettamente dipendenti dall'adempimento del mandato difensivo per l'assistenza nel processo. In definitiva, il Tribunale ha rigettato la domanda dello Studio legale (OMISSIS) ed ha condannato (OMISSIS) al pagamento in favore dell'avvocato (OMISSIS) degli importi di Euro 2.850,00 oltre accessori e di Euro 14.330,00 oltre accessori. La Sostituta del Procuratore Generale FRANCESCA CERONI ha depositato memoria contenente conclusioni motivate, chiedendo di dichiarare inammissibile o rigettare il ricorso. I ricorrenti ed il controricorrente hanno presentato memorie. RAGIONI DELLA DECISIONE Non e' ammissibile l'eccezione pregiudiziale del controricorrente di inammissibilita' del ricorso per cassazione, fondata sulla inapplicabilita' del rito di cui al Decreto Legislativo n. 150 del 2011, articolo 14, alla luce delle contestazione sollevate relative all'an debeatur e della proposizione di domanda riconvenzionale per l'accertamento della responsabilita' dall'avvocato (OMISSIS). L'ordinanza impugnata ha risolto esplicitamente, in senso sfavorevole al convenuto (OMISSIS), tale questione pregiudiziale, sicche' il ricorso per cassazione degli avversari imponeva a detta parte, al fine di sottoporre all'esame della Corte la questione stessa, la formulazione di un ricorso incidentale condizionato, non potendosi limitare a riproporre la questione col controricorso, in quanto il giudizio di legittimita' non soggiace alla disciplina dettata per l'appello dall'articolo 346 c.p.c. (tra le tante, Cass. Sez. 6 - 2, 4/04/2015, n. 7523). E' peraltro conforme alla giurisprudenza di questa Corte l'affermazione secondo cui la controversia di cui alla L. n. 794 del 1942, articolo 28, introdotta sia ai sensi dell'articolo 702 bis c.p.c., sia in via monitoria, avente ad oggetto la domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell'avvocato, resta soggetta al rito di cui al Decreto Legislativo n. 150 del 2011, articolo 14, anche quando il cliente sollevi contestazioni relative all'esistenza del rapporto o, in genere, all'an debeatur. Soltanto qualora il convenuto ampli l'oggetto del giudizio con la proposizione di una domanda (riconvenzionale, di compensazione o di accertamento pregiudiziale) non esorbitante dalla competenza del giudice adito ai sensi dell'articolo 14, Decreto Legislativo cit., la trattazione di quest'ultima dovra' avvenire, ove si presti ad un'istruttoria sommaria, con il rito sommario (congiuntamente a quella proposta ex articolo 14, dal professionista) e, in caso contrario, con il rito ordinario a cognizione piena (ed eventualmente con un rito speciale a cognizione piena), previa separazione delle domande. Qualora la domanda introdotta dal cliente non appartenga, invece, alla competenza del giudice adito, troveranno applicazione gli articoli 34, 35 e 36 c.p.c., che eventualmente possono comportare lo spostamento della competenza sulla domanda, ai sensi dell'articolo 14 (Cass. Sez. U, 23/02/2018, n. 4485). 1. Il primo motivo del ricorso dello (OMISSIS) e dell'avvocato (OMISSIS) denuncia la violazione dell'articolo 36 c.c., e dell'articolo 25 Decreto Legislativo n. 96 del 2001, nonche' l'omesso esame circa un fatto decisivo, per non avere il Tribunale valutato i contenuti dell'atto costitutivo dell'associazione professionale registrato il 10 gennaio 1996, ed in particolare degli articoli 7 ed 8 di questo, i quali espressamente attribuiscono alla stessa associazione la titolarita' dei compensi dell'attivita' professionale svolta hai singoli associati. Si invoca altresi' il disposto del Decreto Legislativo n. 96 del 2001, articolo 25, comma 1, che conclamerebbe la legittimazione dell'associazione professionale a riscuotere il credito. La censura deduce inoltre l'avvenuto pagamento all'Associazione da parte del (OMISSIS) dei compensi relativi ad altri contenziosi e prospetta altrimenti la configurabilita' di una cessione del credito del professionista in favore dell'Associazione. 1.1. Il primo motivo di ricorso denota una carenza di immediata riferibilita' alla ratio decidendi dell'ordinanza impugnata, agli effetti dell'articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4, ed e' comunque da rigettare. 1.2. Il Tribunale di Trani ha riconosciuto la titolarita' dei crediti professionali azionati all'avvocato (OMISSIS) e non all'Associazione professionale Studio legale (OMISSIS) sul presupposto argomentativo che i mandati alle liti per i relativi giudizi civili erano stati conferiti al primo, mancando ogni riscontro probatorio che i rapporti contrattuali fossero altrimenti riferibili all'Associazione, e potendo rilevare le disposizioni contenute nell'atto costitutivo dell'associazione, in punto di compensi percepiti dai singoli associati, unicamente nei rapporti interni tra gli avvocati. 1.3. La conclusione raggiunta dalla ordinanza impugnata non contraddice l'interpretazione che della questione di diritto presceglie questa Corte, secondo cui, al fine di individuare il soggetto obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore, occorre distinguere tra rapporto endoprocessuale nascente dal rilascio della procura "ad litem" e rapporto che si instaura tra il professionista incaricato ed il soggetto che ha conferito l'incarico, il quale puo' essere anche diverso da colui che ha rilasciato la procura. Piu' in generale, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, il rapporto di prestazione d'opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del diritto al compenso, postula l'avvenuto conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volonta' di avvalersi della sua attivita' e della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso. Cio' comporta che il cliente del professionista non e' necessariamente colui nel cui interesse viene eseguita la prestazione d'opera intellettuale, ma colui che, stipulando il relativo contratto, ha conferito incarico al professionista ed e' conseguentemente tenuto al pagamento del corrispettivo (Cass. Sez. 6 - 2, 12/03/2020, n. 7037; Cass. Sez. 3, 03/08/2016, n. 16261; Cass. Sez. 2, 29/09/2004, n. 19596; Cass. Sez. 1, 02/06/2000, n. 7309; Cass. Sez. 3, 04/02/2000, n. 1244). La prova dell'avvenuto conferimento dell'incarico, quando il diritto al compenso sia dal convenuto contestato sotto il profilo della mancata instaurazione di un siffatto rapporto, puo' essere data dall'attore con ogni mezzo istruttorio, anche per presunzioni, mentre compete al giudice di merito valutare se, nel caso concreto, questa prova possa o meno ritenersi fornita, sottraendosi il risultato del relativo accertamento, se adeguatamente e coerentemente motivato, al sindacato di legittimita' (Cass. Sez. 2, 24/01/2017, n. 1792; Cass. Sez. 2, 03/08/2016, n. 16261; Cass. Sez. 2, 10/02/2006, n. 3016; Cass. Sez. 2, 29/09/2004, n. 19596; Cass. Sez. 1, 02/06/2000, n. 7309; Cass. Sez. 3, 04/02/2000, n. 1244; Cass. Sez. 2, 01/03/1995, n. 2345). 1.4. Il Tribunale di Trani non ha, dunque, affatto negato la astratta capacita' all'Associazione professionale Studio legale (OMISSIS) (in quanto centro di imputazione di situazioni giuridiche autonomo e distinto rispetto al singolo associato: cfr. Cass. Sez. 1, 24/05/2019, n. 14321) di stipulare contratti ed acquisire cosi' diritti di credito per le prestazioni svolte dai singoli professionisti associati in favore dei clienti. I giudici di primo grado hanno piuttosto accertato ed affermato che le prestazioni difensive rese dall'avvocato (OMISSIS) erano state oggetto di incarico attribuito personalmente al professionista, e non erano invece imputabili all'Associazione professionale Studio legale (OMISSIS). 1.5. E' certo nell'interpretazione di questa Corte che, poiche' l'articolo 36 c.c., stabilisce che l'ordinamento interno e l'amministrazione delle associazioni non riconosciute sono regolati dagli accordi tra gli associati, i quali possono attribuire all'associazione la legittimazione a stipulare contratti e ad acquisire la titolarita' di rapporti, poi delegati ai singoli aderenti e da essi personalmente curati, sempre che il giudice del merito accerti tale circostanza, sussiste la legittimazione attiva dello studio professionale associato - cui la legge attribuisce la capacita' di porsi come autonomo centro d'imputazione di rapporti giuridici - rispetto ai crediti per le prestazioni svolte dai singoli professionisti a favore del cliente conferente l'incarico, in quanto il fenomeno associativo tra professionisti puo' non essere univocamente finalizzato alla divisione delle spese ed alla gestione congiunta dei proventi (Cass. Sez. 2, 02/07/2019, n. 17718; Cass. Sez. 2, 25/01/2018, n. 1890; Cass. Sez. 1, 26/07/2016, n. 15417; Cass. Sez. 1, 15/07/2011, n. 15694). Quel che il Tribunale ha tuttavia acclarato e' la mancata dimostrazione in giudizio che le prestazioni difensive svolte in favore del (OMISSIS) erano state espletate sulla base di contratto stipulato dal cliente con l'Associazione professionale Studio legale (OMISSIS), negando a quest'ultima percio' il titolo per domandare il pagamento del rispettivo credito. Rimane, peraltro, all'apprezzamento dei giudici del merito, in quanto accertamento di fatto, la verifica del mancato conferimento di un incarico professionale all'associazione, accertamento che il Tribunale ha compiuto attingendo alle varie circostanze idonee a precisare e chiarire i termini dell'affare. 1.6. Non ha alcun rilievo il generico riferimento alle modalita' di pagamento dei compensi "in altri contenziosi giudiziari", come da "fatture esibite in giudizio"; a parte la palese inosservanza dell'articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non assume certo un valore decisivo, al fine di individuare quale sia il soggetto titolare dei diritti e degli obblighi derivanti da un contratto, la considerazione del comportamento avuto da uno dei contraenti nell'adempiere debiti derivanti da distinti rapporti pregressi. 1.7. Ancora, e' del tutto inconferente, nella specie, il richiamo alla disciplina di cui al Decreto Legislativo n. 96 del 2001, articolo 16 e segg., ed in particolare all'articolo 25, comma 1 (disciplina poi sostituita dalla L. n. 247 del 2012, articolo 4 bis), attenendo essa all'esercizio della professione di avvocato in forma societaria, secondo il tipo della societa' tra avvocati. 1.8. Non puo' mancarsi infine di rilevare come il primo motivo del ricorso congiuntamente proposto dallo (OMISSIS) e dall'avvocato (OMISSIS), prospettando la titolarita' originaria del credito in capo all'Associazione, ovvero, in alternativa, l'avvenuta cessione del credito verso il cliente in favore della stessa, denota una intrinseca contraddittorieta', giacche' tanto la prima ricostruzione che la seconda deporrebbero per la esclusiva legittimazione della medesima associazione professionale a pretendere i crediti oggetto di lite. 2.11 secondo motivo di ricorso denuncia l'omesso esame, ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, della documentazione in atti relativa all'attivita' stragiudiziale, che viene elencata con rinvio a ventidue documenti. Il terzo motivo di ricorso deduce la violazione del Decreto Ministeriale n. 127 del 2004, articolo 2, e del Decreto Ministeriale n. 140 del 2012, articolo 3. Ad avviso dei ricorrenti l'attivita' stragiudiziale svolta in favore di (OMISSIS), distinta in tre differenti fasi, nuovamente contraddistinte dall'elenco di documenti, non ha alcuna attinenza con quella giudiziale e percio' meritava autonoma remunerazione. Tale attivita' era consentita dapprima nella "rimozione dei presunti ostacoli tecnici procedimentali e giuridici che impedivano alla (OMISSIS) di trasferire il bene immobile", poi "l'assistenza del (OMISSIS) nell'asta pubblica del 2009 e nei ricorsi amministrativi", infine nel trasferimento dell'immobile, nell'accertamento dei vincoli e nello scioglimento dall'aggiudicazione. 2.1 Secondo e terzo motivo di ricorso vanno esaminati congiuntamente, perche' connessi, e rivelano profili di inammissibilita', oltre ad essere infondati. 2.2. Il secondo motivo non e' coerente con il parametro dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, in quanto non denuncia l'omesso esame di un fatto storico, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo. La censura si riduce, piuttosto, ad un elenco numerato di documenti, che si assumono genericamente offerti in produzione nelle pregresse fasi di merito, dei quali viene genericamente indicato il contenuto e non viene precisato il "come" e il "quando" siano stati allegati, senza cosi' rispettare la previsione dell'articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6. I ricorrenti, nel secondo motivo, come nel terzo motivo, allorche' per ciascuna delle tre "fasi" ipotizzate vengono ritrascritti gli elenchi numerati, auspicano, in sostanza, che la Corte di cassazione tragga dai richiamati documenti un apprezzamento di fatto difforme da quello espresso dai giudici del merito, circa lo svolgimento da parte dell'avvocato (OMISSIS) di prestazioni stragiudiziali non connesse e complementari con quelle giudiziali, cosi' da giustificarne una distinta remunerazione. Le censure cosi' sollecitano una rivalutazione delle risultanze probatorie nel senso piu' favorevole alle tesi difensive dei ricorrenti, il che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, attivita' non consentita in sede di legittimita'. 2.3. Il Tribunale di Trani ha osservato come l'attivita' stragiudiziale svolta dall'avvocato (OMISSIS) tra il 2009 e il 2013 aveva riguardato l'aggiudicazione dell'immobile al (OMISSIS) dapprima a trattativa privata e poi, a seguito di revoca di quella, in base a gara pubblica, vertendo i giudizi appunto sull'acquisto maturato in forza della prima aggiudicazione e sulla restituzione della cauzione versata per la gara. Per i giudici del merito, l'attivita' stragiudiziale era consistita in contatti mediante corrispondenza elettronica o posta ordinaria con i referenti della (OMISSIS), controparte del proprio cliente: con riguardo a tali attivita', non particolarmente difficoltose e strettamente dipendenti dall'adempimento del mandato difensivo per l'assistenza nel processo, il compenso doveva percio' dirsi incluso in quello gia' liquidato per le prestazioni giudiziali. Ora, risultando che il mandato difensivo conferito dal (OMISSIS) all'avvocato (OMISSIS) ha avuto termine nel 2016, occorre far capo al Decreto Ministeriale 10 marzo 2014, n. 55, recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense. Il Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, articolo 4, nel dettare i parametri generali per la determinazione dei compensi in sede giudiziale, al comma 1, impone di tener conto, in ordine alla difficolta' dell'affare, altresi' "della quantita' e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti". Il Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, articolo 20, in relazione all'attivita' stragiudiziale svolta prima o in concomitanza con l'attivita' giudiziale, dispone poi che vengano liquidati in base agli appositi parametri dei compensi per le prestazioni stragiudiziali, le sole attivita' che rivestano una "autonoma rilevanza" rispetto all'attivita' svolta in giudizio. Possono pertanto ribadirsi gli approdi cui era pervenuta la giurisprudenza gia' nella vigenza del Decreto Ministeriale n. 127 del 2004, articolo 2, nel senso che i compensi previsti per le prestazioni stragiudiziali sono dovuti dal cliente quand'anche il professionista abbia prestato la sua opera in giudizio, sempre che dette prestazioni non siano connesse e complementari con quelle giudiziali, si' da costituirne il naturale completamento, ma rivelino, appunto, come dispone il sopravvenuto Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, articolo 20, una "autonoma rilevanza" rispetto all'attivita' svolta in giudizio. Ove non sussista tale autonoma rilevanza delle prestazioni stragiudiziali, all'avvocato compete solo il compenso per l'assistenza giudiziale, nella liquidazione del quale si potra' tener conto altresi' dell'attivita' stragiudiziale prestata, in relazione all'importanza, alla natura, alla difficolta' ed al valore dell'affare. Spetta al giudice del merito l'accertamento della connessione o della complementarieta', o, viceversa, dell'autonomia, delle prestazioni in parola rispetto alle attivita' propriamente processuali, verificandone in concreto la corrispondenza con le tipologie contemplate dalla tariffa giudiziale (cfr. Cass. Sez. 2, 07/10/2020, n. 21565; Cass. Sez. 1, 19/10/2017, n. 24682; Cass. Sez. U, 24/07/2009, n. 17357). Tale accertamento e' stato compiutamente svolto dal Tribunale di Trani e non e' percio' censurabile in questa sede rivalutandone gli esiti fattuali, come auspicano i ricorrenti. 3. Sono inammissibili le domande svolte dai ricorrenti nelle conclusioni del ricorso, volte ad ottenere la condanna del "convenuto" al "pagamento dei compensi per la difesa penale spettanti, nonche' degli interessi legali ai sensi dell'articolo 1284 c.c., comma 4", atteso che il giudizio di cassazione ha, per sua natura, la funzione di controllare la difformita' della decisione del giudice di merito dalle norme e dai principi di diritto, mentre sono in esso precluse le domande nuove, come piu' in generale la deduzione di questioni che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito. 4. Il ricorso va percio' rigettato. Le spese del giudizio di cassazione si regolano secondo soccombenza con condanna in solido dei ricorrenti in favore del controricorrente nell'importo liquidato in dispositivo. Sussistono i presupposti processuali per il versamento - ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, - da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da' atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Palermo, in funzione di Giudice del Lavoro, in composizione monocratica, nella persona del Giudice Dott. Fabio Civiletti, nella causa iscritta al n. 5069 R.G. anno 2019 promossa DA (...), rappresentato e difeso dagli Avv.ti Pi.Bi. e An.Ta., giusta procura in atti, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di questi, sito in Palermo, Via (...); - Ricorrente - CONTRO I.P.A.B. ISTITUTO ASSISTENZIALE "(...)", in persona del Commissario pro tempore, - Convenuto contumace - E ASSESSORATO REGIONALE DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO, in persona dell'Assessore pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura dello Stato ed elettivamente domiciliato presso la sede distrettuale di questa in Palermo, via (...); - Resistente - E NEI CONFRONTI DI ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del proprio rappresentante legale pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avv. Ma.Fa., giusta procura in atti, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di questi sito in Palermo, Via (...). - Resistente - OGGETTO: OMESSO VERSAMENTO CONTRIBUTI PREVIDENZIALI E RISARCIMENTO DEL DANNO. SENTENZA avente il seguente dispositivo e contenente l'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso depositato in data 2 maggio 2019, (...), attualmente dipendente dell'I.P.A.B. - Istituto Assistenziale Burgio - Corsello, avente sede in CANICATTI' (AG), con la qualifica di Segretario - Direttore ( cat. D1) adì questo Tribunale, in funzione di Giudice del Lavoro, e premesso che la suddetta I.P.A.B., in stato di dissesto finanziario e per la quale era stata avviata la procedura di estinzione, non aveva versato all'I.N.P.S. i contributi previdenziali relativi alla sua posizione per il periodo dal 2013 al 2018, convenne in giudizio quest'ultima e l'Assessorato Regionale della Famiglia, delle Politiche sociali e del Lavoro della Regione Siciliana, cui spettava la vigilanza sull'Ente, per ottenerne la condanna, in solido fra loro, al risarcimento dei danni per omissione contributiva, ai sensi dell'art. 2116 cod. civ., da liquidarsi in Euro in Euro. 50.308,19, pari ai contributi previdenziali non pagati o comunque in misura corrispondente al capitale occorrente per la costituzione della rendita vitalizia, di cui all'art. 13 L. n. 1338 del 1962, ovvero in quella minore o maggiore somma da determinarsi in corso di causa. L'I.P.A.B. - Istituto assistenziale Burgio - Corsello, nonostante la rituale notifica del ricorso, non si è costituito e ne va, quindi, dichiarata la contumacia. L'Assessorato Regionale della Famiglia e delle Politiche Sociali e del Lavoro, ritualmente costituitosi, ha chiesto, in via principale, la declaratoria del proprio difetto di legittimazione passiva nonché, in subordine, il rigetto delle domande avversarie, contestando in ogni caso il quantum richiesto. L'I.N.P.S., ritualmente costituitosi con memoria difensiva, ha eccepito il difetto di giurisdizione dell'A.G.O. in favore della Corte dei Conti ed, in subordine, ha chiesto la condanna dell'I.P.A.B. Burgio - Corsello al pagamento della contribuzione non prescritta. All'udienza del 31/03/2021, tenutasi con la modalità della trattazione scritta, ai sensi dell'art. 221, comma quarto, D.L. n. 34 del 2020 conv. in L. n. 77 del 2020 e succ. mod., la causa, previo deposito a cura di parte ricorrente delle relative note di trattazione, è stata posta in decisione. Va preliminarmente disattesa l'eccezione di giurisdizione dell'A.G.O., sollevata dall'Istituto previdenziale, che ritiene la controversia afferente alla giurisdizione della Corte dei Conti, atteso che la domanda del R. è in via principale, diretta a conseguire dal proprio datore di lavoro ed in solido dall'Assessorato vigilante il risarcimento del danno subito a causa dell'omissione contributiva, ai sensi dell'art. 2116 cod. civ. e pertanto è attribuita al giudice del rapporto di lavoro ( che nel caso di specie è un rapporto di lavoro pubblico privatizzato, le cui controversie sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, laddove si tratti di pretese relative a periodi posteriori al 30/06/1998). È altresì riconducibile alla giurisdizione del giudice del lavoro la controversia relativa alla domanda dell'I.N.P.S. avente ad oggetto la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi non versati. In entrambi i casi deve, infatti, ribadirsi il principio secondo cui Ai fini del riparto di giurisdizione nelle controversie funzionali al diritto alla pensione dei pubblici dipendenti, occorre distinguere tra domanda proposta nel corso del rapporto e che attiene agli obblighi, pur con connotazione previdenziale, del datore di lavoro e domanda, formulata dal dipendente già in quiescenza, diretta ad incidere esclusivamente sul rapporto previdenziale, dovendosi ritenere che mentre nel primo caso la controversia è devoluta al giudice del rapporto di lavoro, - e, quindi, al giudice amministrativo per le vicende anteriori al 30 giugno 1998 ed al giudice ordinario per quelle successive - nel secondo la lite appartiene alla giurisdizione della Corte dei Conti" (v. Cass., Sez. Un., ordinanza del 19 giugno 2017, n. 15057 e giurisprudenza ivi richiamata). Ciò premesso, deve in primo luogo esaminarsi la domanda risarcitoria formulata dal ricorrente nei confronti dell'I.P.A.B. Burgio - Corsello, da cui dipende, e dell'Assessorato Regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro, in quanto organo vigilante sul medesimo Ente. Tale domanda non può trovare accoglimento. La giurisprudenza di legittimità, con un indirizzo ormai consolidato (v. Cass. 30/10/2018 n. 27660, che richiama Cass. n.14680/99) ha distinto le forme di tutela del lavoratore in ipotesi di omissioni contributive precisando come, prima della maturazione della prescrizione dell'obbligo contributivo, sussista, oltre all'azione diretta dell'Inps, anche la possibilità per il lavoratore di chiedere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi in favore dell'Istituto medesimo (Cass. n. 720 del 1984) ovvero una pronuncia di mero accertamento dell'omissione contributiva (Cass. n. 3933 del 1979). Una volta maturata la prescrizione dei contributi omessi, il lavoratore ha anzitutto una ragione di danno risarcibile. Infatti, in generale l'art. 2116 c.c., comma 2, accorda al lavoratore un'azione risarcitoria del danno subito, consistente nella perdita del trattamento pensionistico ovvero nella percezione di un trattamento pensionistico inferiore a quello altrimenti spettante. L'azione risarcitoria può quindi essere esercitata nel momento in cui il danno (costituito dalla perdita totale o parziale della prestazione previdenziale) si determina, ossia nel momento in cui avrebbe potuto essere attivato (per esserne maturati i requisiti) ovvero è stato attivato il trattamento previdenziale rispettivamente perso ovvero goduto in misura inferiore al dovuto. Prima di questo momento (e dopo la data di prescrizione dei contributi omessi) il lavoratore soffre solo un danno potenziale nel senso che ha una posizione assicurativa carente (o addirittura, in caso di omissione totale dei contributi, è privo di alcuna posizione assicurativa). Tale mera potenzialità del danno comunque consente al lavoratore da una parte di richiedere misure cautelari conservative della garanzia patrimoniale del datore di lavoro, d'altra parte - secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 2630 del 2014; Cass. 22751 del 2004; Cass. n. 3963 del 2001; Cass. n. 5825 del 1995) di domandare una pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno. Nel caso in esame il ricorrente è un dipendente in attività di servizio, che non ha allegato di aver raggiunto i requisiti per il collocamento a riposo (alla data della domanda non aveva neppure compiuto 61 anni), cosicché nessun danno si è ancora determinato in termini di perdita totale o parziale del trattamento previdenziale. Neppure, si è verificato nella fattispecie, il c.d. danno potenziale, che insorge prima del suddetto momento e dopo la maturazione del termine di prescrizione dei contributi omessi e che lungi dal consentire un azione risarcitoria in forma specifica, quale quella esercitata dal (...), attribuisce una tutela, soltanto nei limiti di una pronuncia di condanna generica. Invero, alla luce della disciplina speciale attualmente in vigore, applicabile al rapporto previdenziale del (...), che è iscritto all'I.N.P.S. Gestione dipendenti pubblici (ex C.P.D.E.L.), la prescrizione dei contributi non è neppure maturata. Ed, infatti, l'art. 3, comma 10 bis, L. n. 335 del 1995 (inserito dall'articolo 19, comma 1, del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla L. 28 marzo 2019, n. 26 e successivamente sostituito dall'articolo 11, comma 5, del D.L. 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni dalla L. 28 febbraio 2020, n. 8) prevede che per le gestioni previdenziali esclusive e per i fondi per i trattamenti di previdenza i trattamenti di fine rapporto ed i trattamenti di fine servizio amministrati dall'INPS cui sono iscritti i lavoratori dipendenti delle Amministrazioni pubbliche di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 i termini di prescrizione di cui ai commi 9 e 10 riferiti agli obblighi relativi alle contribuzioni di previdenza e assistenza sociale obbligatoria afferenti ai periodi di competenza fino al 31/12/2015 non si applicano fino al 31/12/2022, fatti salvi gli effetti di provvedimenti giurisdizionali passati in giudicato nonché il diritto all'integrale trattamento pensionistico del lavoratore. Pertanto, per effetto di tale ius superveniens per i contributi dovuti sino al 2015, il termine quinquennale non si applica sino al 31/12/2022 e comunque resta salvo per il lavoratore il diritto all'integrale trattamento pensionistico. Per i contributi non versati dovuti dal Febbraio 2016 in poi ( v. estratto contributivo), attualmente soggetti alla prescrizione quinquennale, in amplissima parte non ancora maturata, resta comunque ferma l'applicazione dell'art. 31 L. n. 24 maggio 1952, n. 610 che prevede che la liquidazione del trattamento di quiescenza si effettua tenendo presente l'intero servizio utile, comprendendo anche gli eventuali servizi di obbligatoria iscrizione non assistiti dal versamento dei contributi o dalla predetta sistemazione, principio che disancora la liquidazione del trattamento pensionistico all'effettivo versamento dei contributi da parte del datore di lavoro pubblico e di cui l'ultimo periodo dell'art. 3, comma 10 bis, L. n. 335 del 1995 cit., laddove fa salvo il diritto all'integrale trattamento pensionistico del lavoratore, costituisce conferma della perdurante vigenza, tra l'altro ribadita dalla circolare INPS n. 25 del 13/02/2020. Pertanto, nella fattispecie, non può configurarsi, come già affermato, il lamentato danno, che è escluso in radice da queste ultime disposizioni normative. Alla luce di ciò, la domanda risarcitoria proposta dal (...), con il ricorso introduttivo del giudizio, non sussistendo né il danno attuale, né quello potenziale, va integralmente respinta sia nei confronti dell'I.P.A.B. (...) che dell'Assessorato Regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro, il quale difetta in ogni caso di legittimazione passiva nella presente controversia, non potendosi ravvisare, neppure in astratto, una responsabilità solidale con l'I.P.A.B. per l'omesso versamento dei contributi previdenziali in relazione alla funzione tutoria da esso esercitata. Ed, invero, l'asserita solidarietà tra l'IPAB e l'Assessorato convenuto viene sostenuta a partire dal dato normativo contenuto nell'art. 12 lett. f) della L. n. 22 del 1986 cit., che recita: "1. La Regione, in conformità ai principi di cui al titolo I, svolge nella materia di cui alla presente legge attività di programmazione, coordinamento, controllo, assistenza tecnica ed incentivazione finanziaria. 2. Per l'espletamento dei compiti di cui al precedente comma la Regione: a) predispone, in conformità all'art. 15, piani triennali dei servizi socio-assistenziali, al fine di perseguire le finalità indicate nella legge; b) promuovere attraverso incentivi finanziari, piani di organizzazione e di sviluppo dei servizi socio - assistenziali, che prevedano interventi in aree di maggiore rischio sociale; c) predetermina, tenuto conto dei servizi da erogare e delle indicazioni degli enti erogatori, la consistenza numerica degli operatori sociali in rapporto al territorio e ne garantisce la qualificazione; d) promuove convenzioni con istituti universitari, enti ed organismi qualificati per iniziative di studio, di ricerca e di formazione, di aggiornamento e di riqualificazione degli operatori sociali; e) istituisce l'albo regionale delle istituzioni assistenziali di cui all'art. 26; f) esercita il controllo sugli adempimenti attribuiti dalla presente legge agli enti locali e dispone, se necessario, interventi di assistenza tecnica per garantirne la efficacia, nonché interventi sostituitivi a carico degli organi inadempienti". La disposizione citata, a ben vedere, attribuisce alla Regione poteri specifici solo ed esclusivamente al fine di espletare i compiti ad essa attribuiti dalla legge stessa, tra i quali non figura la gestione dei rapporti di lavoro con il personale dipendente delle Istituzioni, cosicché l'Amministrazione Regionale non aveva alcun obbligo di sostituirsi all'I.P.A.B. nell'adempimento degli oneri previdenziali scaturenti dai rapporti di lavoro da questa instaurati. Né può sostenersi che la legge imponga un finanziamento diretto da parte della Regione per il pagamento dei debiti delle II.PP.A.B. poiché, sebbene il decreto assessoriale 10 febbraio 2000 (pubblicato nella GURS del 25 febbraio 2000, Parte I, n. 8) preveda l'introduzione di contributi in favore delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, che non abbiano raggiunto l'equilibrio economico finanziario attraverso le modalità previste dall'art. 66 della L.R. 9 maggio 1986, n. 22, ivi compresi gli enti per cui sono in corso le procedure previste dall'art. 34 della L.R. 9 maggio 1986, n. 22, per fronteggiare gli oneri derivanti dalla applicazione dei contratti nazionali di lavoro, tale intervento è subordinato, da un lato, alla presentazione di una istanza da parte dell'Istituzione e, dall'altro, alla previa determinazione della dotazione annuale in seno al bilancio della Regione. Ciò posto, rilevato che il (...) non ha proposto in ricorso alcuna domanda di condanna dell'I.P.A.B. Burgio - Corsello al pagamento dei contributi non prescritti nei confronti dell'I.N.P.S., la domanda avanzata in tal senso dall'Istituto, sia pur in via subordinata, nella memoria di costituzione, va qualificata come domanda c.d. trasversale, che doveva essere proposta con le forme e nel rispetto degli oneri previsti dall'art. 418 cod. proc. civ. per la riconvenzionale nel rito del lavoro, tra cui anche l'istanza per il differimento dell'udienza, la cui mancata formulazione, ha determinato la decadenza dell'Istituto, con conseguente inammissibilità della medesima. In virtù delle suesposte considerazioni, la domanda proposta dal (...) con il ricorso introduttivo del giudizio deve essere respinta, mentre va dichiarata inammissibile la domanda dell'I.N.P.S. Attesa la natura e la novità delle questioni giuridiche trattate ed in considerazione del ius superveniens, ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, analoghe a quelle di cui all'art. 92, comma 2, cod. proc. civ. per compensare interamente fra tutte le parti le spese processuali. DISPOSITIVO Definitivamente pronunciando, nel contraddittorio delle parti costituite e nella contumacia dell'I.P.A.B.- Istituto assistenziale Burgio-Corsello, che qui si dichiara; Rigetta la domanda proposta da (...) nei confronti dell'I.P.A.B.-Istituto Assistenziale Burgio-Corsello e dell'Assessorato Regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro. Dichiara inammissibile la domanda formulata dall'I.N.P.S. nella memoria di costituzione. Dichiara interamente compensate, fra tutte le parti, le spese di lite. Così deciso in Palermo il 31 marzo 2021. Depositata in Cancelleria il 22 aprile 2021.
CORTE DEI CONTI SEZIONE REGIONALE DI CONTROLLO PER L'EMILIA-ROMAGNA composta dai magistrati (*): dott. Marco Pieroni - presidente dott. Massimo Romano - consigliere dott. Tiziano Tessaro - consigliere dott.ssa Gerarda Maria Pantalone - consigliere dott. Marco Scognamiglio - referendario dott.ssa Khelena Nikifarava - referendario dott.ssa Elisa Borelli - referendario dott.ssa Ilaria Pais Greco - referendario (relatore) (*) riuniti mediante collegamento telematico Adunanza del 7 aprile 2021 Richiesta di parere del Comune di (omissis) Visto l'art. 100, secondo comma, della Costituzione; Vista la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3; Visto il testo unico delle leggi sull'ordinamento della Corte dei conti, approvato con il regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214 e successive modificazioni; Visti la legge 14 gennaio 1994, n. 20 e il decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito con modificazioni dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, recanti disposizioni in materia di giurisdizione e di controllo della Corte dei conti; Visto il regolamento per l'organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti di cui alla deliberazione delle Sezioni Riunite del 16 giugno 2000, n. 14, e successive modificazioni; Vista la legge 5 giugno 2003, n. 131, recante disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3; Vista la legge della Regione Emilia-Romagna 9 ottobre 2009, n. 13, istitutiva del Consiglio delle autonomie locali; Vista la deliberazione della Sezione delle autonomie del 4 giugno 2009 n. 9/SEZAUT/2009/INPR; Vista la deliberazione della Sezione delle autonomie del 19 febbraio 2014 n. 3/SEZAUT/2014/QMIG; Viste le deliberazioni delle Sezioni Riunite in sede di controllo n. 8 del 26 marzo 2010 e n. 54 del 17 novembre 2010; Visto l'articolo 17, comma 31, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102; Visto l'articolo 6, comma 4, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213; Vista la richiesta di parere avanzata dal Sindaco del Comune di (omissis) e trasmessa a questa Sezione tramite il Consiglio delle Autonomie locali in data 18 dicembre 2020; Vista la nota di sintesi del Consiglio delle Autonomie locali della Regione Emilia-Romagna del 15 febbraio 2021; Vista l'ordinanza presidenziale n. 33 del 6 aprile 2021 con la quale la Sezione è stata convocata, tramite piattaforma Teams, per la camera di consiglio del 7 aprile 2021; Udita nella camera di consiglio la relatrice Dottoressa Ilaria Pais Greco; Fatto Il Comune di (omissis) ha richiesto a questa Sezione il seguente parere: "[...] dato atto: che questo Comune di (omissis) gestisce nella forma dell'Istituzione Comunale ex art. 114 Tuel sin dal 2002 la Casa Residenza Anziani C. Spighi (d'ora in poi CRA) a cui sono comandati 25 dipendenti di ruolo; che la CRA è una struttura Autorizzata al Funzionamento e regolarmente Accreditata nell'ambito del sistema regionale delineato dalla delibera di G.R n. 564/2000 e s.m.i. ed è convenzionata per n. 32 posti con ASL e l'Unione Valle Savio i cui rapporti giuridici ed economici sono regolati da specifico contratto di servizio che definisce altresì i parametri di assistenza sulla base dei LEA di riferimento a cui la struttura deve attenersi e orientare la gestione; che l'accreditamento è un provvedimento a carattere concessorio, che instaura un nesso di servizio pubblico tra l'Unione ed ASL committenti ed il soggetto gestore, abilitando quest'ultimo ad esercitare il servizio oggetto di accreditamento come attività di servizio pubblico, per conto del titolare del servizio stesso, affidandogli il compito di intrattenere un rapporto diretto con l'utente nel rispetto delle condizioni dettate dalla disciplina regionale e dai regolamenti di riferimento, oltre che dal contratto di servizio, che regola il rapporto tra il titolare del servizio ed il soggetto accreditato ai fini dell'erogazione del servizio stesso; 3 4. che le attività, le prestazioni e gli standard che devono essere mantenuti dalla CRA sono riferiti alle disposizioni introdotte con DGR n. 1378/1999 (e successive modificazioni ed integrazioni), dalla DGR n. 514/2009 e s.m.i, dalla DGR n. 715/2015 e dalla DGR n. 273/2016; che ai sensi dell'art. 114, comma 4, Tuel la Cra conforma la sua attività a criteri di efficacia, efficienza ed economicità ed ha l'obbligo dell'equilibrio economico, considerando anche i proventi derivanti dai trasferimenti, fermo restando, l'obbligo del pareggio finanziario; che la CRA è dotata di propria autonomia finanziaria le cui voci di entrata sono in larga parte rappresentate dalle risorse trasferite derivanti: a) dal Fondo Sanitario Regionale (FSR); b) dal Fondo Regionale per la Non Autosufficienza (FRNA); c) dalle rette degli ospiti; che le entrate della CRA - come sopra evidenziate - sono idonee e sufficienti a coprire interamente le spese di funzionamento e gestionali tra cui quelle di personale al fine di assicurare un livello di prestazioni socio-assistenziali e socio-sanitarie coerenti con il sistema dei LEA regionali di riferimento. che con delibera di G.R. n. 273/2016 è stato definito il sistema di remunerazione dei servizi socio-sanitari accreditati provvisoriamente e/o definitivamente la cui ratio è quella di garantire con il trasferimento di risorse regionali, la sostenibilità al sistema dei servizi socio-sanitari e di ampliamento della capacità di risposta ai bisogni delle persone anziane e disabili attraverso interventi coordinati volti fra l'altro a compensare le gestioni pubbliche che sono destinatarie dei CCNL del pubblico impiego comportanti maggiori oneri ad es. in termini di assunzione diretta delle spese per sostituzioni e IRAP; che la CRA orienta le proprie politiche di assunzione del personale avvalendosi delle deroghe previste dall'art. 18 d.l. n. 112/2008 (Comma inserito dall'art. 19, comma 1, d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla l. 3 agosto 2009, n. 102, e sostituito dall'art. 1, comma 557, l. 27 dicembre 2013, n. 147, a decorrere dal 1 gennaio 2014 e, successivamente, dall'art. 4, comma 12-bis, d.l. 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla l. 23 giugno 2014, n. 89. infine, il presente comma è stato così modificato dall'art. 3, comma 5-quinquies, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, e dall'art. 27, comma 1, lett. b), d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175), secondo cui: Le aziende speciali e le istituzioni si attengono al principio di riduzione dei costi del personale, attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale. A tal fine l'ente controllante, con proprio atto di indirizzo, tenuto anche conto delle disposizioni che stabiliscono, a suo carico, divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, definisce, per ciascuno dei soggetti di cui al precedente periodo, specifici criteri e modalità di attuazione del principio di contenimento dei costi del personale, tenendo conto del 4 settore in cui ciascun soggetto opera. Le aziende speciali e le istituzioni adottano tali indirizzi con propri provvedimenti e, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, gli stessi vengono recepiti in sede di contrattazione di secondo livello. Le aziende speciali e le istituzioni che gestiscono servizi socio-assistenziali ed educativi, scolastici e per l'infanzia, culturali e alla persona (ex IPAB) e le farmacie sono escluse dai limiti di cui al precedente periodo, fermo restando l'obbligo di mantenere un livello dei costi del personale coerente rispetto alla quantità di servizi erogati. che il Comune di (omissis) non sostiene e/o contribuisce con proprie risorse nessun costo dell'Istituzione Comunale ed anzi si limita ad introitare nel proprio bilancio - fra l'altro - il rimborso delle spese di personale comandato che anticipa a favore della CRA. Tutto ciò premesso ed esposto: questo Comune di (omissis), intende ottenere un chiarimento interpretativo su una norma di coordinamento della finanza pubblica (art. 33, comma 2, del d.l. n. 34 del 2019, convertito dalla legge n. 58 del 2019, specificata nel successivo DM 17 marzo 2020), che ha introdotto significative modificazioni in merito alle modalità di calcolo dei limiti posti alle capacità assunzionali dei comuni rappresentando che: a) se il Comune di (omissis) consolidasse il proprio bilancio con quello della CRA il rapporto spesa di personale/entrate unitamente al parametro della popolazione configurerebbe l'ente come non virtuoso attestandosi la spesa del personale ben oltre il limite della Tabella 3 di cui all'art. 6 del D.M. 17/03/2020 con un rapporto percentuale pari al 31.82% e quindi oltre il 30.9% che ne costituisce il limite; b) se viceversa si considerasse la possibilità di escludere dal computo le spese di personale della CRA finanziate con il FRNA in ragione di quanto disposto con delibera di G.R. 273/2016 ed a mente del comma 3-septies dell'art. 57 del decreto-legge n. 104 del 2020 se ed in quanto applicabile, il Comune si collocherebbe all'interno della Tabella 1 art 4 D.M. 17/03/2020, tra gli enti virtuosi attestandosi ampiamente al di sotto della percentuale del 26.9%. L'ipotesi di cui alla lettera a) muove da una interpretazione formale dell'art. 2 del D.M. 17/03/2020. Il Comune di (omissis) si vedrebbe costretto a ridurre la spesa del personale entro il 2025 nel limite della Tabella 3 dell'art. 6 del D.M. 17/03/2020 rinunciando alla sostituzione di personale comunale di prossima cessazione non potendo in alcun modo ridurre il personale della CRA in quanto struttura accreditata. L'ipotesi a) inoltre non terrebbe in alcun modo conto della piena ed autonoma sostenibilità finanziaria delle spese di personale tanto dell'ente quanto della CRA che beneficia delle relative fonti di finanziamento regionali all'uopo dedicate. L'ipotesi di cui alla lett. b) muove da una serie di presupposti argomentativi. Le disposizioni dettate dalla normativa precedente al d.l. n. 34/2019 in materia di capacità 5 assunzionali sono da ritenere superate, ma le singole amministrazioni devono raccordare le nuove regole con quelle precedenti potendo valutare un insieme di voci da stralciare dalla spesa effettiva del personale, non travolte dal nuovo sistema di calcolo dello spazio assunzionale che con esso vanno armonizzate. Tra gli argomenti a sostegno si pongono questi: principio della prevalenza della sostanza sulla forma: a mente dei principi generali del bilancio di cui al decreto legislativo 118 del 2011 e, nel caso di specie, il principio n.18 (prevalenza della sostanza sulla forma) che si riporta integralmente: "Se l'informazione contabile deve rappresentare fedelmente ed in modo veritiero le operazioni ed i fatti che sono accaduti durante l'esercizio, è necessario che essi siano rilevati contabilmente secondo la loro natura finanziaria, economica e patrimoniale in conformità alla loro sostanza effettiva e quindi alla realtà economica che li ha generati e ai contenuti della stessa, e non solamente secondo le regole e le norme vigenti che ne disciplinano la contabilizzazione formale. La sostanza economica, finanziaria e patrimoniale delle operazioni pubbliche della gestione di ogni amministrazione rappresenta l'elemento prevalente per la contabilizzazione, valutazione ed esposizione nella rappresentazione dei fatti amministrativi nei documenti del sistema di bilancio". La Cra è esente da limiti di spesa del personale in quanto tenuta ad assicurare un livello di prestazioni socio-assistenziali coerenti con gli standard fissati dal regime dell'accreditamento regionale. Il numero degli operatori e dei profili professionali che costituiscono la spesa di personale non dipendono da scelte discrezionali dell'Istituzione Comunale e in alcun modo possono essere riferibili ad un rapporto parametrato alla popolazione residente. La Cra rientra nel sistema di remunerazione previsto dalla delibera di G.R. 273/2016. A mente di talune pronunce della Sezione Regionale di Controllo (ad es. Corte Liguria nella deliberazione n. 116/2018/PAR) è stato precisato che "risulta possibile, anche ai fini del rispetto del limite posto alla spesa complessiva per il personale, escludere le spese coperte da specifico finanziamento finalizzato proveniente da altro ente pubblico, purché vi sia assenza di ulteriori oneri a carico del bilancio dell'ente locale (principio della neutralità finanziaria) e correlazione fra l'ammontare dei finanziamenti e le assunzioni effettuate (anche sotto il profilo temporale)", interpretazione ripresa da altre Sezioni regionali (Friuli Venezia Giulia n. 17/2019/PAR e per il Piemonte, n. 17/2019/PAR) e avente fonte in pronunce assunte in sede nomofilattica dalle Sezioni riunite in sede di controllo (ex art. 17, comma 31, del d.l. n. 78 del 2009, convertito dalla legge n. 102 del 2009), prima, e dalla Sezione delle autonomie, dopo (ex art. 6, comma 4, del d.l. n. 174 del 2012, convertito dalla legge n. 213 del 2012). Nello specifico, il comma 3-septies dell'art. 57 del decreto-legge n. 104 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 126 del 2020, ha disposto che "a decorrere dall'anno 2021 le spese di personale riferite alle assunzioni, effettuate in data 6 successiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, finanziate integralmente da risorse provenienti da altri soggetti, espressamente finalizzate a nuove assunzioni e previste da apposita normativa, e le corrispondenti entrate correnti poste a copertura delle stesse non rilevano ai fini della verifica del rispetto del valore soglia di cui ai commi 1, 1-bis e 2 dell'articolo 33 del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 giugno 2019, n. 58, per il periodo in cui è garantito il predetto finanziamento. In caso di finanziamento parziale, ai fini del predetto valore soglia non rilevano l'entrata e la spesa di personale per un importo corrispondente". La precisazione legislativa, che conferma il principio di carattere generale dell'esclusione, ai fini dell'osservanza di norme di finanza pubblica da parte degli enti territoriali, delle spese aventi fonte in finanziamenti finalizzati provenienti da altri, si pone in continuità con deroghe similari, già previste dal legislatore in casi specifici o emerse nell'elaborazione della giurisprudenza contabile degli ultimi anni. In base ai recenti approdi della giurisprudenza contabile, risulterebbe possibile, ai fini dell'osservanza dei limiti posti alla spesa complessiva per il personale, non conteggiare le spese coperte da specifico finanziamento finalizzato proveniente da altro ente pubblico (e, ove la norma sia costruita in termini di rapporto, la corrispondente entrata), purché vi sia assenza di ulteriori oneri a carico del bilancio dell'ente locale (principio di neutralità finanziaria) e correlazione fra l'ammontare del finanziamento ricevuto e spesa di personale, ciò che in sostanza avviene nella fattispecie tra l'Istituzione CRA Spighi ed il sistema regionale di remunerazione delle strutture pubbliche accreditate. Tutto ciò premesso ritenuto ed argomentato si chiede in via principale: se il Comune di (omissis) stante l'autonomia finanziaria intercorrente tra l'ente e l'Istituzione Comunale CRA Spighi costituita ex art. 114 TUEL accreditata nell'ambito dei servizi socio-assistenziali ai sensi della delibera di G.R. 564/2000 e s.m.i., possa non procedere al consolidamento delle spese di personale con quest'ultima in ragione della totale assenza di oneri a carico del bilancio dell'ente locale; in subordine, se il Comune di (omissis) - ai fini dell'osservanza dei limiti posti alla spesa complessiva per il personale - possa in fase di consolidamento del bilancio con quello dell'Istituzione CRA Spighi, non conteggiare le spese coperte dal F.R.N.A. di cui al vigente sistema di remunerazione delineato dalla delibera di G.R. n. 273/2016 valevole per le strutture accreditate in quanto finanziamento proveniente da altro ente pubblico (e quindi anche la corrispondente entrata) e stante l'assenza di oneri a carico del bilancio dell'ente comunale." Diritto 1. Ammissibilità soggettiva La richiesta di parere risulta ammissibile sotto l'aspetto soggettivo e procedurale in 7 quanto presentata dal Comune, ente legittimato a rappresentare l'ente ai sensi dell'art. 50 del T.U.E.L., e sottoscritta dal Sindaco. Ammissibilità oggettiva Sotto il profilo oggettivo la richiesta di parere, pur presentando due dei requisiti di ammissibilità consistenti nell'attinenza del quesito alla materia della contabilità pubblica e nella non interferenza con altre funzioni svolte dalla magistratura contabile o di diverso ordine giurisdizionale, con riferimento alle modalità di formulazione presenta profili di specificità e concretezza che vanno espunti al fine di consentire alla Corte di esplicare la funzione consultiva nei termini generali e astratti che le sono propri. 2.1. Attinenza del quesito alla materia della contabilità pubblica Quanto al primo aspetto - attinenza alla materia della contabilità pubblica della questione posta al vaglio della Corte - il Collegio ritiene che il quesito sia ammissibile in quanto volto a ottenere un chiarimento interpretativo su una norma di coordinamento della finanza pubblica (art. 33, comma 2, del d.l. n. 34 del 2019, convertito dalla legge n. 58 del 2019) e, in particolare, sulla possibilità di esclusione, ai fini del calcolo della capacità assunzionale dell'ente, delle spese di un organismo strumentale finanziate integralmente da terzi. La questione, avente ad oggetto una norma di contenimento della spesa del personale, rientra nella nozione unitaria di contabilità pubblica come delineata dalla Corte dei conti - Sezioni Riunite in sede di controllo nella deliberazione n. 54/2010, incentrata sul "sistema di principi e di norme che regolano l'attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici" da intendersi in senso dinamico anche in relazione alle materie che incidono sulla gestione del bilancio e sui suoi equilibri. 2.2 Non interferenza con altre funzioni intestate alla Corte o ad altre giurisdizioni Il Collegio ritiene altresì sussistente l'ulteriore requisito di ammissibilità oggettiva del quesito esplicantesi nella non interferenza della valutazione con altre funzioni intestate alla stessa Corte dei conti ad altri organi giurisdizionali o a soggetti pubblici investiti dalla legge di funzioni di controllo o consulenza in determinate materie. 2.3 Generalità e astrattezza della questione posta all'esame della Corte Quanto al terzo profilo oggettivo di ammissibilità -generalità e astrattezza della questione posta all'esame della Corte - il Collegio ritiene che la delimitazione della spesa complessiva di personale da rapportare alle entrate correnti ai fini del calcolo 8 del valore-soglia cui parametrare le assunzioni a tempo indeterminato dell'ente, rappresenti questione suscettibile di interessare gli enti in generale escludendo ogni valutazione su atti o casi specifici che determinerebbe un'ingerenza della Corte nella concreta attività del Comune e, in ultima analisi, una compartecipazione all'amministrazione attiva, incompatibile con la posizione di terzietà ed indipendenza riconosciuta alla Corte dei conti dalla Costituzione. Nel merito, la richiesta del Comune di (omissis) si articola nei seguenti due quesiti. 3.1. Se il Comune di (omissis), stante l'autonomia finanziaria intercorrente tra l'ente e l'Istituzione Comunale CRA Spighi, costituita ex art. 114 del TUEL e accreditata nell'ambito dei servizi socio-assistenziali ai sensi della delibera di G.R. 564/2000 e s.m.i., possa non procedere al consolidamento delle spese di personale con quest'ultima in ragione della totale assenza di oneri a carico del bilancio dell'ente locale. 3.2 in subordine, se il Comune di (omissis) - ai fini dell'osservanza dei limiti posti alla spesa complessiva per il personale - possa, in fase di consolidamento del bilancio con quello dell'Istituzione CRA Spighi, non conteggiare le spese coperte dal F.R.N.A. di cui al vigente sistema di remunerazione delineato dalla delibera di G.R. n. 273/2016, valevole per le strutture accreditate in quanto finanziamento proveniente da altro ente pubblico e stante l'assenza di oneri a carico del bilancio dell'ente comunale. Natura dell'Istituzione L'Istituzione è un organismo strumentale dell'ente locale dotato di autonomia gestionale, non avente propria personalità giuridica (art. 114 del d.lgs. n. 267/2000 TUEL) e chiamata a gestire servizi sociali rilevanti nel sistema dei valori della comunità locale. Tratto caratterizzante dell'Istituzione è l'ambito oggettivo della sua attività che si riferisce alla gestione di servizi sociali privi di rilevanza economica, qualificati come tali, secondo l'accezione invalsa nell'elaborazione dottrinale, in quanto non gestiti con metodo imprenditoriale poiché la tariffa richiesta all'utente non riesce a coprire integralmente i loro costi di gestione e l'attività può svolgersi soltanto grazie ai trasferimenti operati dall'ente locale. Il ricorso al modello dell'Istituzione consente al Comune di realizzare una gestione autonoma di servizi a vocazione sociale preservando il proprio ruolo di indirizzo. L'Istituzione è dotata di un proprio bilancio, distinto da quello del Comune. A fronte dell'autonomia contabile, che si traduce in autonomia gestionale, l'Istituzione è una mera articolazione organizzativa dell'ente, non avente personalità giuridica né potestà statutaria o regolamentare, spettando all'ente territoriale stabilirne, nel proprio statuto, l'ordinamento ed il funzionamento. Sotto l'aspetto economico-patrimoniale e finanziario, l'Istituzione è dotata di un capitale conferito dall'ente di appartenenza che ne determina anche le finalità e gli indirizzi e ne approva gli atti fondamentali (piano-programma, bilancio di previsione pluriennale e annuale, conto consuntivo) (art. 114, comma 7, del TUEL). Inoltre, in base al comma 2 dell'art. 114 del TUEL, "L'istituzione conforma la propria gestione ai principi contabili generali e applicati allegati al decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 e successive modificazioni e integrazioni e adotta il medesimo sistema contabile dell'ente locale che lo ha istituito, nel rispetto di quanto previsto dall'art. 151, comma 2 (...)". Tale obbligo conformativo è un ulteriore elemento a riprova della soggezione dell'Istituzione all'ente locale di appartenenza anche sotto il versante tecnico contabile. Limiti all'assunzione del personale delle Istituzioni La normativa in materia di limiti all'assunzione del personale degli enti locali ha interessato anche gli organismi dagli stessi controllati ed esercenti pubblici servizi locali. La legge di stabilità del 20141, estendendo a tali organismi tutti i divieti e le limitazioni previsti per l'amministrazione controllante, aveva previsto, con la sostituzione del comma 2-bis dell'art. 18 del d.l. n. 112/2008, che i divieti o le limitazioni alle assunzioni di personale stabiliti per le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 (e, quindi, anche gli enti locali) dovessero applicarsi anche le spese di personale sostenute dalle aziende speciali ed istituzioni. Con il successivo d.l. n. 66/2014, convertito dalla l. n. 89/2014, il legislatore ha allentato i vincoli alla gestione del personale di Istituzioni e aziende pubbliche che si occupano di farmacie, servizi socioassistenziali ed educativi, scolastici e per l'infanzia, culturali e alla persona, escludendo detti soggetti dall'applicazione dei limiti all'assunzione di personale e alla relativa spesa, senza però incidere sui vincoli indiretti esistenti in capo agli enti locali di riferimento. In particolare, il d.l. n. 66/2014 (art. 4, comma 12-bis) ha escluso l'Istituzione intestataria di servizi socio-assistenziali dal principio di riduzione del costo del personale stabilito in generale, dalla prima parte dell'art 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112/2008, per aziende speciali, istituzioni e società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo. Tale esclusione è avvenuta sulla scorta della posizione espressa in più occasioni dalla Corte dei conti (ex multis, Corte dei conti Sezione per l'Emilia Romagna 283/2013/PAR, secondo cui sono escluse dall'applicazione dei limiti assunzionali "(...) le istituzioni che gestiscono servizi socio-assistenziali ed educativi"2; ed ancora Sezione Emilia-Romagna, nella pronuncia 34/2015/PAR, afferma che "Con tale modifica introdotta dall'art. 4, comma 12-bis, d.l. 66/2014 il legislatore ha voluto prevedere per 1 L. 27 dicembre 2013, n.147, art. 1, comma 558. 2 Corte dei conti, Sezione Regionale Emilia-Romagna, deliberazione n. 283/2013 del 26 novembre 2013. 1gli organismi che operano in settori cd. sensibili, nei quali il contingente di personale occupato può incidere sull'erogazione di prestazioni volte alla cura di interessi costituzionalmente protetti (art. 32 Cost. diritto alla salute) un vincolo alla spesa di personale diverso da quelli previsti per gli enti locali soci tenuti a rispettare, se assoggettati alla disciplina del patto di stabilità, vincoli assunzionali (art. 3, comma 5, d.l. 90/2014) e di riduzione della spesa storica di personale (art. 1, comma 557, l. n. 296/2006). Per la spesa di personale degli organismi operanti in settori sensibili è stato introdotto un principio di matrice prettamente "azienda listica", che non si basa sui tetti di spesa ma che impone ai predetti organismi [...] di parametrare il livello dei costi del personale alla quantità dei servizi erogati. Ciò premesso, la Sezione ritiene che il predetto principio vada applicato per il personale [...] direttamente assunto dall'ASP, in quanto si tratta di personale "proprio". Viceversa, per il personale che i comuni soci occupano presso l'ASP per l'erogazione di servizi socio-assistenziali che, sulla base di contratti di servizio, sono stati affidati al predetto ente, ma il cui rapporto di pubblico impiego continua ad intercorrere con il comune stesso, la disposizione normativa cui fare riferimento è quella contenuta nell'articolo 1, comma 557bis, l. n. 296/2006"). Il successivo d.l. n. 90/2014 (art. 3, comma 5) ha modificato la disciplina applicabile alle regioni e agli enti locali sottoposti al patto di stabilità interno, prevedendo la possibilità di assunzioni a tempo indeterminato nei limiti di un contingente di personale corrispondente ad una spesa percentuale di quella relativa al personale cessato nell'anno precedente, la permanente vigenza delle disposizioni previste dall'articolo 1, commi 557, 557-bis e 557-ter, della l. 296/2006, e l'abrogazione dell'articolo 76, comma 7, d.l. 112/2008 che, nel computo del rapporto tra spesa per il personale e spesa corrente ai fini delle nuove capacità assunzionali degli enti locali, disponeva doversi calcolare anche le spese sostenute da aziende speciali, istituzioni e società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali. Se il d.l. n. 90/2014 da un lato ha riespanso la facoltà assunzionale - prevedendo addirittura dal 2018 un turn over al 100% - dall'altro, proprio in considerazione della rilevanza dei servizi e delle funzioni gestite dalle Istituzioni, ha abrogato il cd. "consolidato della spesa di personale" previsto dall'art. 76, comma 7, del citato d.l. n. 118 del 2008, facendo sì che l'assunzione di personale da parte degli organismi strumentali non fosse considerata ai fini del rispetto delle percentuali di assunzione di personale da parte del medesimo ente di appartenenza. Tuttavia, lo stesso art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014 ha conservato, in ogni caso, in capo all'ente di appartenenza l'obbligo di cui all' art. 18 comma 2 bis del d.l. 112/2008 "di mantenere un livello dei costi del personale coerente con la quantità dei servizi erogati", attribuendo il controllo di tale rapporto in capo al medesimo ente di appartenenza con la definizione del piano-programma e la fissazione dei livelli di erogazione del servizio da perseguire e il relativo fabbisogno di personale. Tale controllo da parte dell'ente è stato ritenuto coerente dalla magistratura contabile3 per la quale "anche per le deroghe (ndr ai vincoli assunzionali) nei c.d. settori esclusi resta infatti ferma la necessità per l'ente locale di perseguire, in un'ottica consolidata e avvalendosi dei propri poteri di controllo, il contenimento della crescita complessiva del personale in considerazione della dotazione organica dei propri organismi partecipati. Diversamente ragionando, infatti, il divieto di assunzioni e la ratio perseguita dalla norma sarebbero facilmente aggirabili avvalendosi della capacità assunzionale dei propri organismi partecipati, non direttamente interessati, in ipotesi, dalla portata limitativa dei divieti e delle limitazioni". Pertanto, lungi dall' escludere in maniera assoluta dal calcolo della spesa degli enti locali la quota di spesa per il personale assunto presso organismi controllati come l'Istituzione, il legislatore del 2014, conservando in capo all'ente di appartenenza il controllo "di un livello dei costi del personale coerente con la quantità dei servizi erogati", ha comunque mantenuto un argine all'espansione della spesa dei suddetti organismi. Anche successivamente all'abrogazione, ad opera dell'articolo 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014, del "consolidato del personale" delle Istituzioni, continua tuttavia a permanere per gli enti locali, come espressamente disposto dal citato articolo, il tetto fisso alla spesa di personale, stabilito dalla legge 296 del 2006 (artt. 557 e segg.), "per tutti i soggetti a vario titolo utilizzati, senza estinzione del rapporto di pubblico impiego, in strutture e organismi variamente denominati partecipati o comunque facenti capo all'ente". Il che vale a dire che il personale dipendente dall'ente locale di appartenenza, ma utilizzato presso tali organismi variamente denominati, continua a essere considerato nel limite di spesa di personale dell'ente, con cui è in essere il rapporto di pubblico impiego. La stessa Corte dei conti ha precisato al riguardo che "il comune deve computare nella propria spesa di personale la quota relativa al personale occupato presso l'azienda di servizi alla persona solo ai fini del rispetto dell'art. 1, comma 557-bis, legge n. 296 del 2006, ma non dovrà procedere a nessun'altra tipologia di consolidamento diversa da quella appena descritta, essendo stato abrogato l'art. 76, comma 7, d.l. n. 112 del 2008, che imponeva agli enti locali di computare nella propria spesa di personale (da mettere in rapporto con la spesa corrente ai fini della misurazione della propria capacità assunzionale) anche la spesa del personale delle proprie società partecipate, aziende speciali e istituzioni. I predetti organismi che operano in settori "sensibili", tra cui le Asp, dovranno comunque attenersi al principio fissato nel novellato art. 18, comma 2-bis, d.l. n. 112 del 2008, che impone coerenza tra il livello dei costi del personale e la quantità dei servizi erogati" (cfr. C. Conti Sez. reg. contr. Emilia-Romagna, delib. 7 luglio 2014, n. 170 e delib. 7 luglio 2014, n. 172). 3 Corte dei conti, Sez. reg. contr. Lombardia, deliberazione 202/2014/PAR. Dall'esposta evoluzione emerge pertanto, da un lato, l'emersione della possibilità per gli enti di scomputare, nel calcolo del rapporto percentuale della propria spesa di personale rispetto alla spesa corrente ai fini della misurazione dei limiti assunzionali, la spesa di personale degli organismi variamente denominati (fra cui le Istituzioni intestatarie di servizi socio assistenziali) facenti capo all'ente locale di appartenenza, dall'altro l'onere per i medesimi enti locali di appartenenza di computare la spesa del proprio personale dipendente e occupato con rapporto di pubblico impiego presso dette Istituzioni ai fini del rispetto del tetto di spesa imposto dagli artt. 557 e segg. della legge 296 del 2006. Gli oneri della spesa di personale dell'ente "coperti" da eterofinanziamenti specifici pubblici 6.1. Sulla possibilità di escludere le spese eterofinanziate dal computo delle spese di personale ai fini del comma 557 dell'art. 1 della legge 296 del 2006, si è espressa in un primo tempo la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti (deliberazione 21/SEZAUT/2014): intervenuta a dirimere un contrasto fra Sezioni regionali di controllo sulla possibilità o meno per l'ente locale di "escludere dal computo delle spese di personale, ai sensi del comma 557 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007) e s.m.i., gli oneri coperti mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici pubblici, in ragione della specifica destinazione conferita da norme di legge e nei limiti di quanto regolarmente speso e rendicontato", ha rammentato che "considerata la vigente normativa (art. 31, comma 10, della legge 12 novembre 2011, n. 183, legge di stabilità per il 2012), nel saldo finanziario di competenza mista non sono ricomprese le risorse provenienti direttamente o indirettamente dall'Unione Europea, né le relative spese di parte corrente o in conto capitale sostenute dagli enti (cfr. sul punto anche le indicazioni operative fornite dalla Ragioneria Generale dello Stato nella circolare n. 6 del 18 febbraio 2014.) L'esclusione non opera, invece, per i cofinanziamenti nazionali ossia [...] per le spese connesse alla quota di cofinanziamento a carico dello Stato, delle Regioni o delle Province, alla luce della ratio stessa dell'esclusione delle risorse provenienti dall'UE, che deve essere ricercata nella necessità di non ritardare l'attuazione di interventi che vedano la partecipazione di più paesi europei". "In quest'ottica - prosegue la Sezione delle autonomie nella menzionata deliberazione - può essere ribadito l'indirizzo che fino ad ora ha considerato che, al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dal legislatore, solo la quota di oneri per assunzioni a tempo determinato, sostenuti facendo ricorso a risorse comunitarie possa essere esclusa dal computo del limite del 50% della spesa sostenuta per la stessa finalità nel 2009. Ciò in linea con l'orientamento espresso da alcune Sezioni Regionali di controllo e con l'interpretazione fornita in materia di spesa per il personale anche dalla circolare Mef n. 9 del 17 febbraio 2006, che esclude alcune voci di spesa, fra cui quella relativa ad assunzioni totalmente a carico i finanziamenti comunitari." "Infine - prosegue la Sezione - a proposito degli obblighi di riduzione della 13 spesa di personale previsti dall'art. 1 comma 557 della legge 296/2006, [...] nel ribadire quanto affermato dalle Sezioni Riunite - ndr nella delibera n. 27/CONTR/2011 - a proposito delle disposizioni recate dal comma 557 dell'articolo unico della legge finanziaria per il 2007 (legge 296/2006) [...] nonché degli obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, che connotano l'intera disciplina vincolistica e che costituiscono un canone di riferimento di un regime normativo specificamente definito, [...] i vincoli imposti dal legislatore statale all'incremento dell'aggregato "spesa di personale" devono considerarsi cogenti ed, in assenza di una specifica previsione normativa, si ritiene di poter escludere dal computo della spesa di personale, ai fini della verifica del rispetto dei limiti fissati dal predetto comma 557, solo gli importi derivanti da contratti di assunzione, il cui costo sia totalmente finanziato a valere su fondi dell'Unione Europea o privati. Ciò in considerazione della finalità stessa della vigente disciplina in materia di riduzione della spesa di personale, che si innesta nel concorso delle autonomie locali al rispetto degli obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, che connotano, coerentemente con gli obblighi assunti nei confronti dell'Unione Europea, l'intera disciplina vincolistica in materia di spesa di personale [...]". 6.2. In conclusione, la Sezione delle autonomie, nella citata deliberazione, ha affermato il principio per cui "In assenza di una specifica previsione normativa, l'esclusione dal computo della spesa di personale ai fini della verifica del rispetto dei limiti fissati dall'art.1, comma 557, della legge n.296/2006 deve considerarsi limitata, in ragione della specifica fonte di finanziamento, agli importi derivanti da contratti di assunzione, il cui costo sia totalmente finanziato a valere su fondi dell'Unione Europea o privati". Con successiva pronuncia, in ordine alla possibilità di escludere la spesa per il personale dei Corecom, destinatari delle funzioni delegate e dei contributi devoluti dall'AGCOM, dal computo del calcolo della spesa per il personale ai fini del rispetto del limite fissato all'articolo 1, comma 557 e seguenti, della legge n. 296/2006, la medesima Sezione delle Autonomie (deliberazione 23/SEZAUT/2017) ha ritenuto che "l'eventuale spesa aggiuntiva per l'assunzione di risorse umane non debba essere compresa ai fini del calcolo dei limiti imposti dalla normativa per la spesa di personale". Le condizioni evidenziate dalla Sezione per una tale esclusione sono l'assenza di oneri a carico del bilancio regionale, trattandosi di operazione che deve rimanere assolutamente neutra sul bilancio regionale che neanche in minima parte può assumersi un onere di contribuzione, nonché la stretta correlazione fra durata della delega, durata dei contratti e relativi finanziamenti. 6.3. Ma quel che più rileva ai presenti fini è che l'organo nomofilattico della Corte addiviene alla suddetta affermazione di principio sul presupposto che i contributi erogati da AGCOM a favore dei Corecom siano da considerarsi pubblici, attesa la natura pubblica del delegante. 1In altri termini la Sezione giunge a sostenere, a determinate condizioni, l'esclusione, dal limite di spesa del personale, della spesa eterofinanziata anche da soggetti pubblici, non solo quindi da soggetti UE e privati come affermato nella precedente pronuncia. La disciplina introdotta dal d.l. n. 34/2019 (cd. decreto crescita) convertito dalla l. n. 58 del 2019 7.1. Sull'impianto normativo risultante dalle disposizioni stratificatesi negli ultimi anni in materia di limiti finanziari alle assunzioni di personale da parte degli enti locali, ha inciso da ultimo l'art. 33 del decreto-legge n. 34 del 2019, convertito dalla legge n. 58 del 2019. La riforma ha introdotto, ai fini del calcolo della capacità assunzionale degli enti, la presenza di un equilibrato rapporto fra spesa complessiva di personale e media delle entrate correnti dell'ultimo triennio, sostituendo il previgente sistema dei contingenti assunzionali parametrati ai risparmi derivanti dalle cessazioni intervenute nell'esercizio precedente o negli esercizi precedenti (cd. turn- over). In particolare, l'art. 33, comma 2, del d.l. n. 34 del 2019 stabilisce che i comuni, a decorrere dalla data individuata dal decreto ministeriale previsto dal medesimo comma (20 aprile 2020), possono procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato, in coerenza con i piani triennali dei fabbisogni di personale e fermo restando il rispetto pluriennale dell'equilibrio di bilancio asseverato dall'organo di revisione, sino ad una spesa complessiva, per tutto il personale dipendente (al lordo degli oneri riflessi a carico dell'amministrazione), non superiore ad un valore soglia determinato come percentuale, differenziata per fascia demografica, rispetto alla media delle entrate correnti relative agli ultimi tre rendiconti approvati (considerate al netto del fondo crediti dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione). Il DM del 17 marzo 2020, attuativo della predetta norma, definisce la spesa del personale, quale numeratore da rapportare in termini percentuali alla media delle entrate correnti ai fini del calcolo del possibile incremento di personale a tempo indeterminato, come "impegni di competenza per spesa complessiva per tutto il personale dipendente a tempo indeterminato e determinato, per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, per la somministrazione di lavoro, per il personale di cui all'art. 110 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nonché per tutti i soggetti a vario titolo utilizzati, senza estinzione del rapporto di pubblico impiego, in strutture e organismi variamente denominati partecipati o comunque facenti capo all'ente, al lordo degli oneri riflessi ed al netto dell'IRAP, come rilevati nell'ultimo rendiconto della gestione approvato"; individua poi le "fasce demografiche", i "relativi valori soglia prossimi al valore medio per fascia demografica" e le "relative percentuali massime annuali di incremento del personale in servizio per i comuni che si collocano al di sotto del valore soglia prossimo al valore medio", nonché "un valore soglia superiore cui convergono i comuni con una spesa di personale eccedente la predetta soglia". 15 7.2. La nuova disciplina, ai fini del calcolo della capacità assunzionale a tempo indeterminato, ha quindi considerato quale numeratore da computare rispetto alla media delle entrate correnti dell'ultimo triennio, la spesa complessiva di personale includendovi la spesa per il personale di "organismi variamente denominati partecipati o comunque facenti capo all'ente". Esclusione delle assunzioni eterofinanziate dal computo della spesa complessiva del personale 8.1 Il legislatore, da ultimo, sulla scorta dei precedenti giurisprudenziali richiamati, ha espressamente statuito, al ricorrere di una serie di condizioni, l'irrilevanza della spesa connotata da neutralità finanziaria ai fini del rispetto della capacità assunzionale a tempo indeterminato prevista dall'art. 33 del d.l. n. 34 del 2019. Il comma 3-septies dell'art. 57 del decreto-legge n. 104 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 126 del 2020, dispone che "a decorrere dall'anno 2021 le spese di personale riferite alle assunzioni, effettuate in data successiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, finanziate integralmente da risorse provenienti da altri soggetti, espressamente finalizzate a nuove assunzioni e previste da apposita normativa, e le corrispondenti entrate correnti poste a copertura delle stesse non rilevano ai fini della verifica del rispetto del valore soglia di cui ai commi 1, 1-bis e 2 dell'articolo 33 del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 giugno 2019, n. 58, per il periodo in cui è garantito il predetto finanziamento. In caso di finanziamento parziale, ai fini del predetto valore soglia non rilevano l'entrata e la spesa di personale per un importo corrispondente". 8.2. L'intervento normativo afferma in sostanza il principio, già espresso nella richiamata pronuncia nomofilattica (23/SEZAUT/2017) e ripreso in via pretoria dalla giurisprudenza contabile4, dell'irrilevanza, ai fini del computo del limite, della spesa finanziata integralmente da altri soggetti, senza alcuna distinzione fra soggetti privati e pubblici. La risposta ai quesiti 4 In termini Sezione di controllo Liguria nella deliberazione 91/20/PAR secondo cui possono "[...] essere esclusi, ai fini della corretta determinazione delle capacità assunzionali di personale a tempo indeterminato, disciplinate dall'art. 33, comma 2, del d.l. n. 34 del 2019, come specificate dal DM 17 marzo 2020, le spese impegnate per il reclutamento di personale a tempo determinato a valere sui finanziamenti, finalizzati e temporalmente limitati, attribuiti dallo Stato ai sensi dell'art. 2 del d.l. n. 109 del 2018, convertito dalla legge n. 162 del 2019. Il tenore letterale della disposizione in parola appare coerente con i recenti approdi della giurisprudenza contabile, in base ai quali risulta possibile, ai fini dell'osservanza dei limiti posti alla spesa complessiva per il personale, non conteggiare le spese coperte da specifico finanziamento finalizzato proveniente da altro ente pubblico (e, ove la norma sia costruita in termini di rapporto, la corrispondente entrata), purché vi sia assenza di ulteriori oneri a carico del bilancio dell'ente locale (principio di neutralità finanziaria) e correlazione fra l'ammontare del finanziamento ricevuto e le assunzioni effettuate (anche sotto il profilo temporale)". Alla luce dell'evoluzione del quadro normativo e giurisprudenziale riportato, in ordine ai due quesiti posti dal Comune, il Collegio esprime il parere nei seguenti termini: - A) le Istituzioni sono organismi strumentali dell'ente locale e, in quanto tali, sono già ricomprese nel rendiconto consolidato dello stesso non potendo essere considerate quale soggetto distinto dall'ente-capogruppo ma, di questo, mere articolazioni organizzative. In particolare, va ricordato che l'allegato 4/4 al d.lgs. 118 del 2011, contenente il relativo principio contabile, indica quali componenti del "gruppo amministrazione pubblica" oltre agli enti strumentali e alle società controllate e partecipate da un'amministrazione pubblica, anche "gli organismi strumentali dell'amministrazione pubblica capogruppo [...], in quanto trattasi delle articolazioni organizzative della capogruppo stessa e, di conseguenza, già compresi nel rendiconto consolidato della capogruppo. Rientrano all'interno di tale categoria gli organismi che sebbene dotati di una propria autonomia contabile sono privi di personalità giuridica". Il medesimo d.lgs. 118/2011 definisce, all'art. 1 comma 2 lett. b), gli organismi strumentali delle regioni e degli enti locali come "le loro articolazioni organizzative, anche a livello territoriale, dotate di autonomia gestionale e contabile, prive di personalità giuridica" definendo espressamente le "gestioni fuori bilancio autorizzate da legge e le istituzioni di cui all'art. 114, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267" quali organismi strumentali degli enti territoriali; - B) quanto alla subordinata questione se il Comune, ai fini dell'osservanza dei limiti posti alla spesa complessiva per il personale, possa in fase di consolidamento del bilancio con quello dell'Istituzione, non conteggiare le spese coperte da un finanziamento proveniente da altro ente pubblico (e quindi anche la corrispondente entrata), stante l'assenza di oneri a carico del bilancio dell'ente comunale, questa Sezione, conformemente ai recenti approdi della Sezione delle autonomie e della successiva giurisprudenza contabile, nonché al disposto di cui all'art. 57, comma 3-septies, del decreto-legge n. 104 del 2020 dettato per le assunzioni successive all'entrata in vigore della legge di conversione del decreto, ritiene che l'ente possa escludere, dalla spesa complessiva di personale da rapportare alle entrate correnti dell'ultimo triennio ai fini del calcolo del valore soglia cui le assunzioni a tempo indeterminato devono convergere, le spese coperte da specifico finanziamento proveniente da altro ente pubblico, al ricorrere di una serie di condizioni enucleate dagli stessi interventi pretori ed espressamente previste anche dalla norma da ultimo emanata. Dette condizioni, considerata la cogenza delle norme previste in materia di contenimento alla spesa di personale degli enti locali, sono state individuate: a) nella totale assenza di oneri per il bilancio dell'ente; b) nell'esistenza di una espressa previsione normativa dei finanziamenti; c) nella finalizzazione di questi alla spesa per nuove assunzioni; d) nella correlazione temporale dei finanziamenti e della corrispondente spesa per assunzioni come si evince dalla lettera della norma da ultimo richiamata per cui la spese e le corrispondenti entrate correnti non rilevano ai fini della verifica del rispetto del valore soglia "[...] per il periodo in cui è garantito il predetto finanziamento [...]". Sicché, esclusivamente al ricorrere delle predette condizioni, il Collegio ritiene che il Comune possa scomputare la spesa eterofinanziata da quella complessiva assunta a base di calcolo, in rapporto alle entrate correnti, della capacità assunzionale a tempo indeterminato. Viceversa, in difetto dei suddetti presupposti, le risorse e i contributi del FRNA andranno conteggiati nell'ambito delle entrate del Comune, determinando un beneficio per il Comune nel calcolo del valore soglia e quindi incidendo sulla sostenibilità finanziaria della spesa di personale come previsto dalla disposizione legislativa di cui all'art. 33, comma 2, del d.l. n. 34/2019. P.Q.M. La Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l'Emilia-Romagna esprime il proprio parere nei termini di cui in motivazione. DISPONE - che la deliberazione sia trasmessa - mediante posta elettronica certificata - al Sindaco del Comune di (omissis) e al Presidente del Consiglio delle Autonomie locali della Regione Emilia-Romagna; - che l'originale resti depositato presso la segreteria di questa Sezione regionale di controllo; - invita il Comune alla pubblicazione della presenta deliberazione sul sito istituzionale ai sensi dell'articolo 1, comma 9, lett. f), della legge 6 novembre 2012, n. 190, che consente di individuare specifici obblighi di trasparenza ulteriori rispetto a quelli previsti da disposizioni di legge, e nel rispetto del principio generale della trasparenza, intesa come accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, anche al fine di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33. Così deliberato nell'adunanza da remoto del 7 aprile 2021. Il relatore - Ilaria Pais Greco - firmato digitalmente Il Presidente - Roberto Iovinelli - firmato digitalmente Depositata in segreteria nella data di apposizione della firma del funzionario preposto. Il funzionario preposto Marco Pieroni firmato digitalmente
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 915 del 2017, proposto dalle signore Li. Vi. ed altre, rappresentate e difese dall'avvocato Gi. Ru., con domicilio eletto presso il suo studio in Palermo, via (...); contro Comune di (omissis) in persona del Sindaco e legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Be. Mi., con domicilio eletto presso il suo studio in Palermo, via (...); nei confronti I.P.A.B. "Istituto Re. El. e Vi. Em. II", in persona del legale rappresentante p.t. e Commissario Straordinario della stessa, non costituiti in giudizio; Regione Siciliana, Presidenza della Regione Siciliana ed Assessorato regionale della famiglia, delle politiche sociali e del lavoro, in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura dello Stato presso la cui sede distrettuale, in Palermo, via (...), sono ex lege domiciliati; per la riforma della sentenza n. 2122 del 4.9.2017, resa dal T.A.R. Sicilia di Palermo, Sez. III^; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni regionali e del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Nominato relatore nell'udienza di smaltimento del giorno 23 febbraio 2021 - svoltasi mediante collegamento da remoto ai sensi dell'art. 25, d.l. n. 137/2020 - il Cons. Carlo Modica de Mohac; Vista la richiesta di passaggio decisione senza discussione presentata dall'Avvocatura dello Stato con nota di carattere generale a firma dell'Avvocato distrettuale del 2 febbraio 2021; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con nota prot. n. 36467 dell'1 ottobre 2013 l'Assessorato della famiglia, delle politiche sociali e del lavoro della Regione siciliana chiedeva al Comune di (omissis) il parere del Consiglio Comunale in ordine all'estinzione dell'istituzione pubblica di assistenza e beneficienza "Istituto Re. El. e Vi. Em. II di (omissis)" (d'ora in poi denominata, per brevità, I.P.A.B.), con consequenziale subentro dell'Amministrazione comunale in tutti i rapporti attivi e passivi nonché nella titolarità del rapporto d'impiego con i dipendenti già facenti capo all'Ente assistenziale. Sia la Giunta Municipale (deliberazione n. 398 del 5 dicembre 2013) che il Consiglio comunale (deliberazione n. 93 del 10 dicembre 2013) esprimevano parere sfavorevole in ordine all'ipotesi di devoluzione di ogni rapporto attivo e passivo dell'I.P.A.B. in capo al Comune. Non ostante ciò , con decreto presidenziale n. 179 del 10.5.2016, il Presidente della Regione disponeva l'estinzione della I.P.A.B. in questione, stabilendo la devoluzione al Comune di "ogni rapporto attivo e passivo" e l'"assorbimento" del personale dipendente in capo all'Ente locale; e con decreto assessorile n. 1227 del 31.5.2016 il competente Assessore regionale nominava un "Commissario Straordinario" con il compito di provvedere alla immediata esecuzione del D.P. n. 179 del 10.5.2016. 2. Con ricorso innanzi al Tar di Palermo, il Comune di (omissis) impugnava i predetti decreti e gli atti e provvedimenti ad essi presupposti, consequenziali e comunque connessi, chiedendone l'annullamento per le conseguenti statuizioni reintegratorie e di condanna. Lamentava: 1) con il primo mezzo di gravame, violazione e falsa applicazione dell'art. 62 della l. n. 6972 del 1890 ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, deducendo che nei decreti impugnati non v'è menzione dei pareri negativi espressi dal Consiglio comunale e dalla Giunta Municipale, e che difetta - nei predetti decreti - anche qualsiasi motivazione in ordine alle ragioni che hanno condotto l'Amministrazione regionale a discostarsene; 2) con il secondo motivo, violazione e falsa applicazione dell'art. 3, comma 5, del d.l. 24.6.2014 n. 90, convertito in l. 11.8.2014 n. 114, nonché dell'art. 34, comma 2, della l.r. 9.5.1986 n. 22 e dell'art. 248, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, deducendo che l'automatico trasferimento del personale della I.P.A.B. nei ruoli organici dell'Ente locale confligge con i limiti posti dalla vigente normativa in materia di contenimento della spesa per le assunzioni a tempo indeterminato negli enti locali; 3) e con il terzo motivo, violazione e falsa applicazione dell'art. 35 del d.lgs. 30.3.2001 n. 165, dell'art. 3 del d.P.R. 10.12.1957 n. 3, dell'art. 5 del d.l. 10.11.1978 n. 702 e degli artt. 5 e 6 della l. 20.3.1975 n. 70, nonché eccesso di potere per carenza istruttoria e difetto di motivazione, deducendo che il previsto assorbimento del personale deve essere interpretato "in maniera costituzionalmente orientata", con conseguente passaggio all'ente locale solamente del personale che sia stato reclutato tramite pubblico concorso; e che pertanto i decreti impugnati vanno annullati nella parte in cui non provvedono in conformità . Nel contesto argomentativo del suddetto terzo mezzo di gravame, il ricorrente Comune chiedeva che fosse sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, co. 2, della l.r. n. 22/1986 per contrasto con gli artt. 81, 97, comma 1 e 3, 117 e 119 della Costituzione, deducendo che l'automatico subentro dell'ente locale in tutti i rapporti attivi e passivi dell'I.P.A.B., a prescindere dalla verifica dei limiti di spesa per le assunzioni e della modalità di assunzione del personale, confligge con i principii e con le disposizioni introdotte dalle predette norme costituzionali. Ritualmente costituitasi, l'Amministrazione regionale si opponeva all'accoglimento del ricorso di primo grado. Con ricorso per motivi aggiunti il Comune impugnava gli atti consequenziali ed esecutivi in epigrafe indicati, ribadendo le censure formulate col ricorso principale. Si costituivano in primo grado altresì le intimate signore Li. Vi. e Sa. Be., dipendenti della I.P.A.B, che chiedevano il rigetto del ricorso; nonché, mediante un atto d'intervento ad opponendum, le signore Ag. Ga. ed altri, anch'esse dipendenti della I.P.A.B., che si associavano alla richiesta di rigetto del ricorso. 3. Con sentenza n. 2122 del 4.9.2017 il TAR accoglieva il ricorso del Comune avendo ritenuto fondati tutti i motivi di gravame; ed annullava, per l'effetto, i provvedimenti impugnati compensando le spese di giudizio. 4. Con l'appello in esame le signore Li. Vi. ed altre, dipendenti della I.P.A.B., hanno impugnato la sentenza in questione e ne chiedono la riforma per le conseguenti statuizioni conformative e di condanna. Con il primo mezzo di gravame le appellanti lamentano l'ingiustizia dell'impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 62 della l. n. 6972 del 1890 ed eccesso di potere per difetto di motivazione, deducendo che il Giudice di primo grado avrebbe errato nell'affermare che l'assorbimento da parte del Comune dei dipendenti dell'IPAB estinta dev'essere subordinata alla verifica della sussistenza delle risorse finanziarie dell'ente locale; ed ha ulteriormente errato nel non aver valutato che il parere sfavorevole di quest'ultimo non è assistito da una sufficiente e congrua motivazione. Con il secondo mezzo di gravame le appellanti lamentano l'ingiustizia dell'impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 3, comma 5, del d.l. 24.6.2014 n. 90 convertito in legge 11.8.2014 n. 114, nonché dell'art. 34, comma 2, della l.r. 9.5.1986 n. 22 e dell'art. 248, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, deducendo che il Giudice di primo grado avrebbe errato altresì nell'aver ritenuto operanti - ed applicabili alla fattispecie - le limitazioni alle assunzioni di personale (rectius: i divieti di assunzione) introdotti dalla l. n. 114/2014 cit. al fine di contenere la spesa pubblica. Con il terzo mezzo di gravame le appellanti lamentano l'ingiustizia dell'impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 35 del d.lgs. 30.3.2001 n. 165, dell'art. 3 del d.P.R. 10.12.1957 n. 3, dell'art. 5 del d.l. 10.11.1978 n. 702, degli artt. 5 e 6 della l. 20.3.1975 n. 70 e per difetto di motivazione, deducendo che il Giudice di primo grado avrebbe errato anche nell'affermare che occorre interpretare l'art. 34 cit. "in maniera costituzionalmente orientata"; e, conseguentemente, nel ritenere legittimo il trasferimento di personale nei ruoli del Comune solamente per i soggetti che fossero stati assunti dalla I.P.A.B., illo tempore, a seguito di un pubblico concorso. Con il quarto ed ultimo mezzo di gravame le appellanti lamentano - infine - l'ingiustizia delle impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto affetti dal vizio di illegittimità derivata taluni atti esecutivi del decreto di estinzione impugnato. Ritualmente costituitosi, il Comune di (omissis) ha eccepito l'infondatezza del gravame. L'Amministrazione regionale si è costituita per aderire all'appello principale, contestando anche essa la sentenza di primo grado. 5. Nel corso del giudizio di appello, con ordinanza n. 556 del 15 ottobre 2018, il Collegio ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 97, secondo e quarto comma, 117 lett. 'è, e 119, primo, secondo, quinto, sesto, settimo ed ottavo della Costituzione, nonché con l'art. 15, secondo comma dello Statuto regionale siciliano - sia unitamente che separatamente considerati - dell'art. 34 della l.r. 9.5.1986 n. 22 della Regione siciliana, nella parte in cui obbliga i Comuni ad assorbire il patrimonio ed il personale delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza soppresse autoritativamente dall'Amministrazione regionale, e ciò anche in deroga alle norme sul contenimento della spesa pubblica (comprese quelle che introducono divieti di assunzioni o limitazioni alle assunzioni di personale) e sull'equilibrio dei bilanci pubblici (non ostante tali norme siano espressione del principio fondamentale del coordinamento della finanza pubblica). 6. Con sentenza n. 135 del 6 luglio 2020 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana 9 maggio 1986, n. 22 (Riordino dei servizi e delle attività socio-assistenziali in Sicilia), nella parte in cui prevede: "e i beni patrimoniali sono devoluti al comune, che assorbe anche il personale dipendente, facendone salvi i diritti acquisiti in rapporto al maturato economico". In forza di tale sentenza l'art. 34, comma 2, della legge regionale in questione dev'essere letto nel senso che allorquando il procedimento volto alla fusione dell'IPAB (che non sia più in grado di realizzare i propri fini) o alla riconversione delle sue strutture si concluda senza alcun utile esito, il Presidente della Regione ben può decretare l'estinzione dell'istituzione, ma senza devolverne il patrimonio al Comune nel cui territorio si trova e senza disporre che il personale venga assunto dall'ente locale. 7. A seguito della conclusione del sub-procedimento incidentale sopra descritto, fissata l'udienza pubblica per la discussione conclusiva, innanzi a questo Consiglio di giustizia amministrativa, sul merito dell'appello, la causa è stata posta in decisione. DIRITTO 8. L'appello è improcedibile. Con la sentenza n. 135 del 6 luglio 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana 9 maggio 1986, n. 22 (Riordino dei servizi e delle attività socio-assistenziali in Sicilia), nella parte in cui prevede che "... i beni patrimoniali sono devoluti al comune, che assorbe anche il personale dipendente, facendone salvi i diritti acquisiti in rapporto al maturato economico". In forza di tale sentenza, l'art. 34, comma 2, della legge regionale sopra citata dev'essere letto nel senso che allorquando il procedimento volto alla fusione dell'I.P.A.B. (che non sia più in grado di realizzare i propri fini) o alla riconversione delle sue strutture, si concluda senza alcun utile esito, il Presidente della Regione, pur potendo comunque decretare l'estinzione dell'istituzione, non può devolverne il patrimonio al Comune (nel cui territorio ha sede) né disporre che il personale venga assunto dall'ente locale. Da ciò discende che quand'anche la sentenza che ha accolto il ricorso proposto dal Comune di (omissis) dovesse essere in qualche modo riformata (ma non se ne vede la ragione, visto che le statuizioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale hanno confermato la fondatezza delle doglianze di quest'ultimo), le appellanti non trarrebbero dalla statuizione alcuna concreta e diretta utilità , posto che la norma di legge che consentiva al Presidente della Regione di disporre che esse (in esito all'estinzione dell'I.P.A.B.), venissero assunte dal Comune, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima e non può dunque essere utilizzata "a copertura" (rectius: come titolo fondativo e legittimante) dell'operazione di trasferimento del personale; e che pertanto quand'anche il provvedimento di estinzione "sopravvivesse" (s'intende: in parte, e precisamente in quella non incisa dalla pronunzia sopra indicata), ciò non determinerebbe la soddisfazione del loro interesse. 9. Non resta, pertanto, che dichiarare la improcedibilità dell'appello per il consequenziale effetto confermativo delle statuizioni contenute nella sentenza appellata. In considerazione del fatto che l'esito del giudizio d'appello è dipeso anche dall'intervento risolutivo della Corte Costituzionale - in mancanza del quale la questione appariva di non agevole soluzione - si ravvisano giuste ragioni per compensare le spese fra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana dichiara improcedibile l'appello, confermando - per l'effetto - le statuizioni della sentenza impugnata. Compensa le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 23 febbraio 2021 con l'intervento dei signori magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Marco Buricelli - Consigliere Carlo Modica de Mohac - Consigliere, Estensore Giovanni Ardizzone - Consigliere Antonino Caleca - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3294 del 2014, proposto dal signor Em. Te., rappresentato e difeso dagli avvocati Te. An. Ma. Lo. e An. Ma., con domicilio eletto presso lo studio del secondo in Roma, Corso (...), contro la Fondazione Do. Mo. D'A., in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati An. Co. e An. Ma., con domicilio eletto presso lo studio del secondo in Roma, via (...), per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione Terza, n. 1194/2013, resa tra le parti, concernente l'annullamento d'ufficio della nomina a segretario-direttore dell'Ente. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Fondazione Do. Mo. D'A.; Vista l'ordinanza di questa Sezione n. 2244 del 28 maggio 2014; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 22 dicembre 2020, il Cons. Antonella Manzione. L'udienza si svolge, ai sensi dell'art. 4, comma 1, del d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla l. 25 giugno 2020, n. 70, e dell'art. 25, commi 1 e 2, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176, attraverso videoconferenza con l'utilizzo di piattaforma "Microsoft Teams", come previsto dalla circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa. Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con ricorso al T.A.R. per il Veneto n. r.g. 1276 del 2013 il signor Em. Te. ha impugnato la deliberazione del Consiglio d'amministrazione della Fondazione Do. Mo. D'A. n. 58 del 19 agosto 2013, con la quale è stato disposto l'annullamento d'ufficio della precedente delibera n. 112 del 18 dicembre 2010, concernente la sua nomina a segretario e direttore dell'ente in questione. Il Tribunale adito ha respinto il ricorso con sentenza n. 1194 del 22 ottobre 2013, compensando le spese, sull'assunto che l'interesse pubblico all'esercizio dell'autotutela era da ravvisare nell'esigenza di procedere in modo corretto al conferimento dell'incarico, evitando di mantenere le funzioni in capo a un soggetto nominato illegittimamente. Ha poi richiamato l'avvenuto rispetto delle garanzie di partecipazione al procedimento e della tempistica riveniente, nel caso di specie, dalla disciplina speciale di cui all'art. 1, comma 136, della l. 30 dicembre 2004, n. 311, cui sarebbe da ricondurre la materia del pubblico impiego. 2. Il signor Te. ha impugnato la richiamata sentenza articolando sei motivi di censura, alcuni dei quali suscettibili di disamina congiunta in quanto connotati da sostanziale omogeneità di contenuto giuridico. Con un primo motivo di ricorso, egli censura la sentenza per ultrapetizione, laddove qualifica il concorso di cui è causa come "indebitamente riservato a personale interno", circostanza, oltre che errata, non in contestazione tra le parti nella sua diversa realtà storica (motivo sub 1); con il secondo motivo, difende la legittimità della procedura sfociata nella sua nomina, in quanto la pubblicizzazione del bando, attraverso l'affissione all'Albo pretorio e la pubblicazione sul sito internet dell'Amministrazione, era rispettosa delle previsioni di cui all'art. 11 del Regolamento sulle modalità di reclutamento del personale (motivo sub 2); non sarebbero state rispettate le regole di cui all'art. 21 nonies della l. 7 agosto 1990, n. 241 per l'esercizio dell'autotutela, mancando la motivazione della scelta, l'esplicitazione dell'interesse pubblico all'annullamento, in assoluto e in comparazione con quello del privato alla conservazione del provvedimento (motivi sub 3, 4 e 5); l'annullamento sarebbe sopraggiunto ad eccessiva distanza di tempo dall'adozione dell'atto, stante l'inconferenza del richiamo al termine di tre anni di cui all'art. 1, comma 136, della l. n. 311 del 2004, che si riferisce ai casi in cui la finalità dell'autotutela è quella di "conseguire risparmi o minori oneri finanziari ", mentre nel caso di specie la Fondazione, attribuendo un posto vacante ad un dipendente già di ruolo nella struttura con la qualifica di istruttore direttivo, ha addirittura ottenuto un risparmio (motivo sub 6, che richiama quanto già detto sub 4 in relazione alla mancanza di interesse pubblico all'annullamento). 3. Si è costituita in giudizio la Fondazione Do. Mo. D'A. (d'ora in avanti, solo la Fondazione) con memoria in controdeduzione. In particolare, ha dequotato il presunto vizio di ultrapetizione ad enfatizzazione di un mero dato di fatto da parte del primo giudice, senza tuttavia farne scaturire alcuna conseguenza in termini di decisione. In effetti, la selezione non aveva carattere riservato agli interni, intesi quali dipendenti della Fondazione, perché la relativa dicitura, seppur riportata nell'oggetto del bando, era da intendersi nella diversa accezione di limitare l'accesso ai soli dipendenti pubblici del comparto enti locali, cui l'ente era a sua volta da ricondurre. Ha altresì richiamato i contenuti dei rilievi mossi alla procedura concorsuale dall'organo di vigilanza regionale, che, nell'intimarle l'adozione dei necessari atti di regolarizzazione delle illegittimità segnalate, le aveva formalmente prospettato il commissariamento in caso di inadempienza, siccome previsto dall'art. 3 della l.r. n. 23 del 2007, che ne attribuisce il potere alla Giunta regionale. 4. Con l'ordinanza n. 2244 del 2014, citata in epigrafe, è stata respinta la domanda di sospensione dell'efficacia della sentenza presentata in via incidentale dalla parte appellante, in quanto "le censure dedotte non appaiono prima facie assistite da ragionevole previsione di accoglimento, attesa l'illegittimità della procedura concorsuale per violazione dell'art. 11 del Regolamento delle assunzioni e la doverosità dell'atto di annullamento in autotutela sollecitato dalla Regione in funzione di organo di controllo", essendo altresì il pregiudizio lamentato di natura economica, e quindi comunque risarcibile. 5. Successivamente le parti si sono scambiate memorie e memorie di replica. L'appellante ha ritenuto di trarre dalla ricostruzione dell'Amministrazione, che ha difeso la portata "aperta" della selezione, un implicito riconoscimento della sua legittimità, con la sola eccezione del mancato rispetto delle disposizioni sulla pubblicità del bando, per la quale ha al contrario ribadito la conformità alle prescrizioni dell'art. 11 del regolamento della Fondazione in materia di procedure concorsuali. Quanto all'art. 1, comma 136, della legge n. 311/2004, esso era inapplicabile in quanto implicitamente abrogato dall'art. 21 nonies, introdotto nella l. n. 241/1990 dalla novella del 2005, che ha limitato la possibilità di ritiro dell'atto viziato ad un termine "ragionevole". La successiva quantificazione dello stesso in 18 mesi, infine, avvenuta ad opera della l. 7 agosto 2015, n. 124 (c.d. "delega Madia"), non può non costituire il parametro di riferimento alla stregua del quale valutare ridetta "ragionevolezza", anche in relazione ai procedimenti antecedenti la sua entrata in vigore, siccome affermato in recenti arresti del Consiglio di Stato (v. Cons. Stato, sez. II, 23 marzo 2020, n. 2007). La natura dirimente di tale profilo di illegittimità della delibera n. 58 del 19 agosto 2013, intervenuta a distanza di quasi tre anni dalla delibera n. 112 del 18 dicembre 2010, su cui va ad incidere, implica la richiesta della parte che il Collegio la valuti in via prioritaria rispetto alle rimanenti censure, seppure prospettata quale ultimo motivo di appello. Quanto al ribadito vizio di ultrapetizione, esso pure si paleserebbe assorbente, perché idoneo ex se a determinare l'annullamento della decisione impugnata. La difesa della Fondazione ha eccepito a sua volta l'inammissibilità dell'avvenuta riformulazione del vizio di tardività, la cui prospettazione era stata in precedenza basata esclusivamente sulla ritenuta non attinenza del richiamo al termine di tre anni di cui alla l. n. 311/2004, in quanto inapplicabile ratione materiae. 6. Alla pubblica udienza del 22 dicembre 2020, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 7. Il Collegio ritiene l'appello infondato. 8. I riferimenti al rapporto tra la disciplina di cui alla l. n. 311 del 2004 e quella generale di cui all'art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990, sia nella sua formulazione originaria, sia in quella conseguita alla riforma del 2015, per quanto introdotti effettivamente in violazione del divieto dei nova e come tali inammissibili, si palesano tuttavia necessari ai fini di una corretta ricostruzione della cornice normativa entro la quale collocare la controversia. Punto essenziale per la decisione è, infatti, come da ultimo riconosciuto dall'appellante che ne fa il perno della propria argomentazione difensiva, la valutazione in termini di "ragionevolezza" o meno del tempo trascorso tra l'adozione della delibera con la quale era stato assunto come segretario-direttore dell'ente (delibera n. 112 del 18 dicembre 2010) e il suo successivo annullamento (delibera n. 58 del 19 agosto 2013). E' indubbio, infatti, che l'esigenza, intrinseca all'ordinamento, di non ammettere un'autotutela ad libitum e sine die, tale cioè da mantenere in una situazione di perenne incertezza il titolare di qualsivoglia posizione giuridica soggettiva, è stata da sempre sentita e sviluppata nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale sulla materia. Di ciò è prova proprio nella scelta del legislatore della finanziaria del 2005, che da un lato ha inteso cristallizzare la priorità degli interessi dell'erario su quelli dei privati alla conservazione dei provvedimenti, ammettendone l'annullamento a tutela dei primi senza limiti di tempo; dall'altro, tuttavia, ha inteso porvi un argine, individuato in tre anni, laddove si tratti di "provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati". 9. La vicenda di cui è causa, dunque, resta disciplinata dalla l. n. 311/2004, che costituiva una declinazione di settore di un istituto ampiamente teorizzato, ma non ancora fatto oggetto di una previsione generale fino alla l. n. 15 del 2005. I tre anni ivi previsti costituivano quindi all'epoca il difficile punto di equilibrio tra le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche costituite da provvedimenti ampliativi della sfera giuridica ed economica dei privati e quelle pubbliche di rispetto del - e di conformazione, anche successiva, al - principio di legalità . L'introduzione dell'art. 21 nonies nella l. n. 241 del 1990 ad opera della novella attuata dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15, non contemplando invece alcuna indicazione temporale precisa, non ha affatto inciso sulla portata precettiva delle disposizioni previgenti, che, al contrario, tale parametro contenevano. La successiva modifica della norma attuata con la riforma del 2015, a sua volta, non può che operare pro futuro, siccome affermato dall'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, ai cui principi il Collegio intende fare integrale richiamo (Cons. Stato, A.P., 17 ottobre 2017, n. 8). Quanto detto non implica certo il disconoscimento degli orientamenti giurisprudenziali richiamati da parte appellante che, in chiave garantista e in maniera apparentemente difforme, tendono ad attribuire all'indicazione del parametro temporale normativamente determinato la valenza di canone ermeneutico cui ispirare comunque lo scrutinio della "ragionevolezza", anche avuto riguardo a fattispecie perfezionatesi in epoca precedente. Trattasi, infatti, di una indicazione di massima, non traducibile in un vincolo cogente e imprescindibile, tale da inficiare scelte motivatamente diverse in ragione del contesto e della peculiarità in cui si inseriscono. Anche a tale riguardo, peraltro, sovvengono i principi elaborati nella richiamata pronuncia dell'Adunanza plenaria, laddove ha chiarito che la locuzione "termine ragionevole", con riferimento ai procedimenti anteriori alla l. n. 124/2015, privi di indicazioni "numeriche" precise cui fare riferimento, "richiama evidentemente un concetto non parametrico ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti" nel singolo caso. E ancora: "la nozione di ragionevolezza del termine è strettamente connessa a quella di esigibilità in capo all'amministrazione, ragione per cui è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione 'ragionevolè ) decorra soltanto dal momento in cui l'amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell'atto". Concetto, peraltro, immanente alla disamina dello stesso finanche all'interno dei parametri temporali predeterminati. 10. Confermata, dunque, per quanto sopra detto, la correttezza del richiamo alla l. n. 311/2004, ne discende l'infondatezza di tutte le censure di difetto di motivazione del provvedimento impugnato. La norma in questione, infatti, "rappresentava il più evidente richiamo alla nozione di interesse pubblico in re ipsa", esemplificativamente citata dall'Adunanza plenaria, a conforto di tesi superate sulla tipologia di vizio dell'atto da rimuovere. Non senza precisare, peraltro, che essa è stata espunta dall'ordinamento solo dal comma 2 dell'articolo 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124, come poc'anzi ricordato (cfr. ancora Cons. Stato, A.P., n. 8 del 2017, cit. supra). L'applicabilità della relativa previsione, dunque, rendeva superflua qualsivoglia integrazione motivazionale aggiuntiva. 11. Calando con maggior dettaglio il paradigma generale delineato dall'Adunanza Plenaria al caso di specie, tuttavia, va ancora rilevato che, come peraltro ben evidenziato in sede di decisione cautelare, il ravvedimento dell'Amministrazione non è conseguito ad un autonomo ripensamento del proprio provvedimento, ma a precisi rilievi dell'organo di controllo, formalizzati da ultimo nella nota del dirigente regionale prot. n. 330630 del 2 agosto 2013 di avvio del procedimento di cui all'art. 3, comma 2, della l.r. 16 agosto 2007, n. 23, destinato a sfociare nel commissariamento dell'ente. La relazione ispettiva del 20 giugno 2013, a sua volta, sottesa all'inoltro della richiamata nota-diffida, evidenzia plurimi profili di illegittimità, tanto da adombrare addirittura un tentativo di sanatoria postuma della procedura posta in essere, commutando la sua originaria funzionalizzazione alla copertura del ruolo di segretario-direttore sulla base delle originarie previsioni regolamentari. Non è casuale, né priva di rilievo, infatti, la circostanza che in sede ispettiva venga stigmatizzata anche la coincidenza temporale tra modifiche regolamentari ai requisiti di accesso alla funzione e approvazione del bando per il suo conferimento, deliberati in pari data. Non è chi non veda come la mancata - recte, del tutto inadeguata - pubblicizzazione della selezione divenga mero epifenomeno di una variegata serie di potenziali irregolarità, tutte puntualmente segnalate, oltre che elemento di irregolarità essa stessa, che seppure non fatte oggetto di censura, e come tali estranee al perimetro della decisione, non possono non contestualizzarla. Il che è esattamente quanto accaduto, seppure nella forma necessariamente sintetica della sentenza breve, da parte del primo giudice. Non consentendo, infatti, la conoscenza della procedura concorsuale al maggior numero possibile di aspiranti candidati, essa diviene "riservata" in fatto, al di là delle diverse intenzioni dell'Amministrazione, peraltro mal esplicitate giusta l'utilizzo di un linguaggio quanto meno ambiguo negli atti in controversia. L'art. 11 del Regolamento, rubricato "Pubblicità e diffusione", infatti, da un lato consente la pubblicizzazione delle sole selezioni interne mediante affissione all'Albo (comma 9); dall'altro evidenzia la necessità di dare "la più ampia pubblicità possibile" nel caso, opposto, in cui si voglia assicurare la massima partecipazione (comma 3). L'utilizzo dell'Albo dell'ente e della pubblicazione sul sito internet, costituisce il livello minimo che va garantito "in ogni caso", che non soddisfa certo le esigenze di conoscibilità della selezione richiamate dalla medesima norma, ove effettivamente perseguite. La caratterizzazione del concorso, dunque, come "indebitamente" interno, riferita in sentenza, lungi dall'assumere una qualche portata caducante, non richiesta dalle parti, ben ricostruisce la peculiarità della situazione, risoltasi in un concorso che, seppure dichiaratamente pubblico, non annovera soggetti astrattamente in possesso dei (nuovi) requisiti richiesti neppure fra i dipendenti della Fondazione, come pure puntualmente rilevato in sede ispettiva. Da qui, l'efficace sintesi riportata nella relazione dell'organo di controllo, che conclude le proprie censure evidenziando una tale violazione "dei principi di pubblicità, trasparenza, selettività, buon andamento e legalità ", da essersi risolta nella "partecipazione di un solo concorrente, poi risultato vincitore". 12. E' vero dunque che sull'Amministrazione, in via generale e al di fuori dell'ipotesi specifica di cui alla legge finanziaria del 2005, grava in via di principio l'onere di motivare puntualmente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell'atto, tenendo altresì conto di quello del destinatario al mantenimento dei relativi effetti. Ma anche approcciando gli atti prescindendo dalla finalità di tutela erariale richiesta dalla legge finanziaria del 2005, essi si palesano esenti da censure in termini di adeguatezza e congruità della motivazione, ove non esaminati in maniera strumentalmente parcellizzata. La delibera impugnata, infatti, richiama espressamente, quale suo antecedente logico e giuridico, la precedente n. 55 del 2 agosto 2013, la quale a sua volta ingloba dichiaratamente nel proprio contenuto sia il verbale di ispezione, sia la nota con cui il dirigente regionale ha richiesto entro un termine prestabilito "copia conforme degli atti adottati al fine di regolarizzare tempestivamente la situazione onde evitare ulteriori problemi alla gestione dell'IPAB, in considerazione del ruolo dell'organo di gestione dell'Ente". La lettura necessariamente congiunta dei provvedimenti e dei documenti citati, integrando per relationem il contenuto del provvedimento impugnato, rende non solo chiara la ricostruzione in fatto della vicenda, ma anche di agevole comprensione la ratio della scelta, che, nelle varie contestazioni emerse, ne estrapola una a carattere apparentemente formale, senza tuttavia contestare le altre, ritenendo non solo doveroso, ma anche "conveniente" per scongiurare il prospettato commissariamento, annullare l'atto contestato. Come peraltro ricordato dal primo giudice, di quanto sopra l'appellante era stato reso pienamente edotto, avendo ricevuto la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento della delibera n. 112 del 2010 in data 2 agosto 2013 (consegna a mano), recante in allegato anche la delibera n. 55 di pari data. Comunicazione alla quale l'interessato non aveva inteso replicare con alcuna osservazione o memoria. Ciò a tacere infine, rileva il Collegio, della inevitabile conoscenza della vicenda, contrassegnata da precedenti carteggi tra i due enti (Regione e Fondazione), stante il ruolo di funzionario apicale in concreto rivestito dall'appellante. 13. Alla luce di quanto sopra, l'appello deve essere respinto. 14. La complessità della vicenda, nonché il comportamento dell'Amministrazione, anche in relazione ai contenuti della difesa esperita, giustificano la compensazione delle spese del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese del giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso dalla Sezione Quinta del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 dicembre 2020, tenutasi con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati: Carmine Volpe - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Francesco Gambato Spisani - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Antonella Manzione - Consigliere, Estensore
CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA PUGLIA composta dai seguenti magistrati: Romanelli Francesco Paolo - Presidente Daddabbo Pasquale - Consigliere relatore De Corato Rossana - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 35210 del registro di Segreteria, promosso dalla Procura regionale presso la Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per la Puglia nei confronti dei sig.ri: - DI SA. Ni., nato a (omissis) il (omissis)e ivi residente in via (omissis), Codice fiscale (omissis), rappresentato e difeso dall'Avv. Ra. Ir., con domicilio eletto presso il relativo studio legale in (omissis), via (…), pec: (…); - MI. Pi. Ur., nato a (omissis) il (omissis), residente a (omissis), in via (omissis), Codice fiscale (omissis), rappresentato e difeso, dall'Avv. Fr. Lo.(C.F. (omissis)), PEC: (…), ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell'Avv. Gi. St. in (…), Bari; - TA. Ar., nata a (omissis) il (omissis) e ivi residente in IV vico Corso (…), Codice fiscale (omissis), elettivamente domiciliata in Roma alla (…), presso lo studio dell'avvocato Cr. Fu., del Foro di Roma, che la rappresenta e difende e dichiara di voler ricevere le comunicazioni a mezzo PEC all'indirizzo (…). Visto l'atto di citazione depositato in data 4 luglio 2019 presso la Segreteria di questa Sezione Giurisdizionale. Esaminati gli atti ed i documenti tutti della causa. Uditi, nella pubblica udienza dell'8 ottobre 2020, con l'assistenza del segretario, dott. Francesco Gisotti, il relatore, Consigliere Pasquale Daddabbo, il Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. Pierlorenzo Campa, e gli Avv.ti Ra. Ir., Fr. Lo.e Cr. Fu. per i convenuti. FATTO Con atto di citazione depositato in data 4 luglio 2019, la Procura regionale ha agito in giudizio nei confronti dei sig.ri Ni. Di Sa., Pi. Ur. Mi. e Ar. Ta. - nella rispettiva qualità di Presidente, il primo, e di componenti, gli altri due, del consiglio di amministrazione dell'Azienda Pubblica di Servizi alla Persona "Dr. Vi. Za." (di seguito solo ASP) di (omissis) - per sentirli condannare al pagamento, in favore del predetto ente, della somma di euro 95.073,22, oltre accessori di legge, da ripartirsi, in virtù di ciascun apporto causale, nella misura del 50%, pari a 47.536,61 euro, a carico di Ni. Di Sa. e nella misura del 25% ciascuno, pari ad euro 23.768,31 ciascuno, a carico di Pi. Ur. Mi. E Ar. Ta.. Tale importo si riferisce, secondo l'impostazione accusatoria, al danno indiretto patito dalla predetta ASP in relazione all'ordinanza del Tribunale di Lucera, depositata il 22 gennaio 2013, che, valutata la deliberazione del C.d.A. dell'ASP n.28 del 6 ottobre 2012 - con la quale veniva disposto, con effetto immediato, la risoluzione del contratto e la decadenza dalla carica di direttore generale dell'Avv. Immacolata Pa. - aveva ordinato, su ricorso di quest'ultima, di procedere alla reintegrazione nel rapporto di lavoro e nell'incarico di direttore generale e aveva condannato la stessa Azienda al pagamento delle spese di giudizio; ordinanza monocratica che veniva successivamente confermata, a seguito di reclamo dell'ASP, con ordinanza collegiale depositata il 9 luglio 2013. Le voci di danno riconducibili, ad avviso della Procura regionale, alle statuizioni del Tribunale di Trani ed ammontanti complessivamente ad E. 95.073,22, sono: - E. 2.294,97 (mandato n.159 del 6 maggio 2014) per spese legali in favore dell'Avv. Giuseppe Russo (difensore della Pa.); - E. 40.822,00 (mandato n.424 del 22 settembre 2015), E. 82,74 (mandato n.425 del 22 settembre 2015) ed E. 21.918,58 (mandato n.426 del 22 settembre 2015) per emolumenti alla Pa.; - E. 14.951,95 (mandato n.427 del 22 settembre 2015), E. 1.809,32 (mandato n.428 del 22 settembre 2015), E. 5.641,12 (mandato n.429 del 22 settembre 2015), E. 293,97 (mandato n.430 del 22 settembre 2015), E. 1.256,47 (mandato n.431 del 22 settembre 2015) ed E. 219,89 (mandato n.432 del 22 settembre 2015) per oneri previdenziali e assistenziali; - E. 1.975,81 (mandato n.508 del 28 ottobre 2015) per interessi su retribuzioni pregresse; - E. 3.806,40 (mandato n.421 del 7 ottobre 2014) per compensi al difensore Avv. Ra. Ir. (legale dell'ASP). Ha illustrato la Procura regionale che il Tribunale di Lucera aveva considerato illegittimo il licenziamento disposto dall'Azienda atteso che, con immediata successione cronologica, nella stessa seduta del 6 ottobre 2012, per i motivi espressi nella relazione del presidente, il consiglio di amministrazione, dopo che contestualmente si era proceduto ad individuare i criteri di valutazione, ad applicare i suddetti criteri con esame del grado di raggiungimento degli obiettivi e a valutare negativamente l'operato del direttore generale Pa., aveva disposto, con effetto immediato, la risoluzione del contratto e la decadenza dalla carica di costei. Il requirente ha inoltre evidenziato che il Tribunale di Lucera aveva anche precisato che "sarebbe stato dunque necessario portare a conoscenza della Pa. la nota di valutazione del Presidente del 6/10/2012 e assicurarle un termine per far valere il diritto di difesa e replica" e, inoltre, che "il diritto di difesa non è limitato alle sole ipotesi di procedimento disciplinare ma anche di valutazione della gestione e dei risultati, tanto più in mancanza di uno specifico regolamento" (nel giudizio l'Azienda aveva imputato alla Pa. la mancata approvazione del suddetto regolamento). La Procura regionale dopo aver menzionato la documentazione acquisita - tra cui anche la deliberazione del C.d.A. n. 40 del 16 settembre 2013 che reintegrava la Pa. in esecuzione di quanto disposto dal Giudice del lavoro e la deliberazione del C.d.A. n.23 del 29 maggio 2014 relativa alla richiesta di risarcimento della Pa. - e evidenziato che in sede istruttoria l'ASP aveva riferito che, dopo le suddette ordinanze del Tribunale di Lucera, non risultava svolta ulteriore attività giudiziaria, ha dedotto che l'illegittimo licenziamento della Pa., disposto dal consiglio di amministrazione dell'ASP con la censurata deliberazione n.28/2012, ha determinato il pagamento di spese legali e, soprattutto, di emolumenti, in favore della Pa., in assenza di una controprestazione lavorativa da parte della stessa perché illegittimamente licenziata. La Procura regionale, considerando che di tale pregiudizio patrimoniale sopportato dall'Ente fossero responsabili, in via esclusiva, coloro che hanno adottato la deliberazione del C.d.A. n.28 del 6 ottobre 2012, ossia l'allora Presidente dell'ASP Ni. Di Sa. e gli allora componenti del C.d.A. Pi. Ur. Mi. e Ar. Ta., ha allegato di aver inoltrato a costoro appositi inviti a dedurre. In merito alle argomentazioni difensive degli intimati il requirente ha sostenuto: - l'irrilevanza del carattere provvisorio e non definitivo del provvedimento reso dal Tribunale di Lucera ex art.700 c.p.c., richiamando pronunce della Corte dei conti ove si afferma non essere necessaria la definitività della pronuncia alla base del danno indiretto ma solamente la certezza del danno che è data dal pagamento al terzo danneggiato, a prescindere dalla continuazione o meno del giudizio originario (Sez. I Appello, 26 settembre 2018, n.362); - la sussistenza della colpa grave in quanto l'illegittimità dell'atto o, comunque, la sua idoneità ad arrecare un pregiudizio erariale era chiaramente percepibile anche da persona di media avvedutezza e la delicatezza della questione avrebbe inoltre dovuto indurre i componenti del consiglio di amministrazione ad una maggiore prudenza ed attenzione nella approvazione della deliberazione n. 28/2012, avvenuta in assenza di un contraddittorio con la dirigente interessata: ai fini dell'integrazione dell'elemento soggettivo della colpa grave, non è necessaria l'effettiva consapevolezza, da parte dei soggetti agenti, del carattere antigiuridico della propria condotta, che comunque nel caso specifico non può affatto escludersi, essendo sufficiente il fatto che tali soggetti avrebbero dovuto esserne consapevoli con l'uso della diligenza minima loro richiesta nel caso specifico; - la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti attesa la natura pubblica dell'ASP, confermata dal nome completo dell'Azienda stessa, ed il riconoscimento della personalità giuridica di diritto pubblico, espressamente previsto dallo statuto e dall'art.15 della legge regionale n.15/2004; - l'irrilevanza, ai fini della responsabilità amministrativa dei convenuti, sia dell'eventuale condanna dell'ex direttore generale per il reato di cui all'art.368 c.p., che riguarderebbe peraltro come persona offesa solo il Presidente dell'ASP, sia di una non dimostrata volontà della Pa. di recare nocumento all'Azienda; - la circostanza che i componenti del consiglio di amministrazione che hanno adottato la deliberazione contestata non fossero esperti di diritto non costituirebbe un elemento esimente o attenuante ma confermerebbe la gravità della colpa in quanto avrebbe dovuto indurre costoro ad una maggiore prudenza e, quindi, all'adozione dell'atto censurato solo a seguito di una adeguata istruttoria e, eventualmente, previa acquisizione di un parere legale; - irrilevante sarebbe pure la circostanza che la Regione, in occasione di una attività ispettiva svolta poco tempo dopo l'adozione della deliberazione censurata, avesse acquisito conoscenza della stessa non essendo previsto un obbligo per la Regione medesima di avviare una procedura di annullamento degli atti ritenuti illegittimi. Così confutate le deduzioni presentate dagli intimati, la Procura regionale li ha convenuti in giudizio formulando la richiesta di condanna in precedenza riportata. Il convenuto Ni. Di Sa. si è costituito in giudizio con il patrocinio dell'avv. Ra. Ir. che ha depositato memoria di costituzione in data 12.11.2019. Dopo una lunga premessa tesa ad evidenziare tutte le mancanze del direttore generale Pa. in relazione alle varie vicende amministrative rientranti nella sfera di competenza della stessa e a sottolineare che, per contro, il subentrante direttore generale in un periodo di tempo assai limitato si era occupato efficacemente di numerose questioni lasciate in sospeso dalla Pa., ha eccepito quanto segue: - il difetto di giurisdizione della Corte dei conti deducendo che le Aziende pubbliche di servizi alla persona non rientrano nel novero delle pubbliche amministrazioni, di cui all'art. 1, comma 2, del d. lgs. 31.3.2001, n. 165 e non impiegano "risorse finanziarie di natura pubblica"; - l'insussistenza di un danno conclamato e definitivo: da un lato il comma 6 dell'art. 669-octies c.p.c. esclude - per i provvedimenti emessi ex art. 700 c.p.c. - l'imposizione di un termine perentorio per l'inizio della causa di merito, che, comunque, può essere avviata da "ciascuna parte", sicché nel caso di specie non essendo ancora trascorso il termine di prescrizione sarebbe ancora possibile introdurre la causa di merito; dall'altro il titolo giudiziale in questione derivante da una pronuncia a seguito di ricorso ex art. 700 c.p.c. avrebbe perduto efficacia a causa della mancata proposizione, da parte dell'ex D.G., di un'azione ex art. 414 c.p.c., e ciò abiliterebbe la ASP Za. a ripetere dall'avv. Immacolata Pa. la somma corrisposta, da ritenersi indebito oggettivo. - l'insussistenza dell'obbligo di avvio del procedimento in caso di valutazione negativa, ex artt. 32, comma 5, e 28 della L.R. 15 del 2004, art. 23, comma 5, dello Statuto della ASP Za., artt. 3, comma 4, e 10 del contratto individuale di lavoro: la fiduciarietà nel conferimento dell'incarico di direttore generale comporterebbe che tra la ASP e il D.G. si sarebbe instaurato non un rapporto di pubblico impiego bensì un rapporto avente ad oggetto prestazioni d'opera intellettuale la cui disciplina prevede che il cliente (nel caso di specie l'ASP Za.) conserva il diritto di recesso ad nutum. - la mancata adozione del Regolamento di valutazione della dirigenza era imputabile all'inerzia della stessa Pa. e comunque la ASP aveva assicurato ampie garanzie partecipative in favore del D.G.: con nota prot. n. 488 del 28.3.2012, il Presidente del C.d.A. aveva contestato all'avv. Pa. che la stessa "entro i sessanta giorni dalla chiusura dell'esercizio (avrebbe dovuto) presentare una relazione sull'attività svolta nell'anno precedente; l'avv. Pa., pur a conoscenza della Relazione del Presidente, agli atti, nulla rilevava in ordine alla decisione del C.d.A. di sottoporla a verifica e però il giorno prima comunicava che non avrebbe partecipato alla seduta consiliare in cui era all'ordine del giorno la sua valutazione; nel tempo erano stati trasmessi alla Pa. una serie di atti, dettagliatamente riepilogati, con cui venivano contestate numerose mancanze. - da quanto rilevato nei precedenti punti, unitamente alla circostanza che la Regione Puglia pur avendo acquisito in sede ispettiva la deliberazione di risoluzione del contratto nulla aveva eccepito, emergerebbe l'assenza di colpa grave in capo al convenuto Di Sa.. - l'Ente e, soprattutto, la comunità amministrata, vale a dire i bambini poveri e disagiati per i quali il fondatore aveva profuso denaro ed energie, hanno beneficiato, quasi contestualmente, della rimozione di un soggetto inadempiente e della nomina di un nuovo direttore generale che si era reso artefice di numerose iniziative sicché andrebbe tenuto conto dei benefici derivanti dalla rimozione dalla carica della Pa.. - l'errata quantificazione del danno in quanto, ad eccezione delle somme pagate dall'Ente il 6.5.2014 (E. 2.294,97), il 28.10.2015 (E. 1.975,81) ed il 7.10.2014 (E. 3.806,40) per complessivi E. 8.077,18, tutti gli altri importi attengono a emolumenti che la ASP Za. avrebbe comunque pagato alla Pa., laddove in servizio. - inesattezza della pretesa in danno nei confronti di DI SA. Ni. in quanto non vi sarebbero motivi per distinguere la sua posizione dagli altri componenti del C.d.A.. - il mancato riconoscimento della utilità del recesso e conseguente riduzione in misura significativa dell'addebito. In base alle sopra sintetizzate eccezioni e deduzioni difensive il convenuto Di Sa. ha concluso chiedendo, in via istruttoria, di acquisire prova testimoniale e documentale e nel merito di respingere integralmente la domanda dell'attore pubblico, in quanto inammissibile e infondata, anche previo riconoscimento dei vantaggi conseguiti dall'Ente, ex art. 1, comma 1-bis, della L. 20/1994; in subordine, ha chiesto di ridurre l'ammontare della pretesa, sia in termini complessivi, che per la parte a sé addebitata; in ulteriore subordine, ha chiesto di riconoscere la utilità del recesso e ridurre in misura significativa l'addebito. Il convenuto Pi. Ur. Mi. si è costituito in giudizio con il patrocinio dell'avv. Fr. Lo. che ha depositato apposita memoria in data 14.11.2019. Al pari del convenuto Di Sa. ha preliminarmente narrato delle inadempienze e dei ritardi attribuibili al direttore generale nell'ambito della trattazione delle varie questioni rilevanti per l'ASP Za.. Ha poi rappresentato che i corrispondenti addebiti, cristallizzati nella relazione del presidente del consiglio di amministrazione, erano stati contestati al direttore generale nella seduta del C.d.A. del 25.07.2012, seduta sospesa al fine di avere un confronto con il direttore generale Pa., la quale però negava ogni addebito, sicché la valutazione della stessa veniva nuovamente posta all'ordine del giorno nella seduta del 6 ottobre 2012. Dopo aver richiamato l'esito dell'azione ex art. 700 c.p.c., promossa dalla Pa. e gli atti amministrativi intervenuti successivamente, il convenuto, in merito alle contestazioni formulate dalla Procura regionale, ha dedotto l'assenza di alcun comportamento illecito causativo di danno per i seguenti motivi: - il Tribunale di Lucera, con ordinanza di reintegra del 22.01.2013, confermata dall'ordinanza del 09.07.2013 resa all'esito del reclamo interposto dall'ASP Za., avrebbe erroneamente ritenuto applicabile nel caso di specie la disciplina relativa ai rapporti di lavoro subordinati mentre come avviene nell'alta dirigenza delle ASL o per i dirigenti generali degli enti locali, anche il rapporto instaurato con la Pa. era regolato da un contratto di diritto privato a tempo determinato al quale andavano applicate le norme sul lavoro autonomo di cui agli artt. 2222 e ss. c.c. sicché il consiglio di amministrazione, attese le peculiarità del rapporto di lavoro in questione, aveva correttamente ritenuto che lo stesso fosse suscettibile di recesso attese le gravi inadempienze poste in essere dall'avv. Pa.; - contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale di Lucera, la Pa. era stata messa nelle condizioni di difendersi sebbene il suo rapporto di lavoro di dirigente apicale non prevedesse formalità in tal senso; - la nullità o annullabilità del contratto in quanto il direttore generale Pa. aveva conservato la sua iscrizione all'ordine degli Avvocati di Foggia e pertanto aveva gravemente violato le disposizioni previste dal contratto di assunzione nonché dalla L. 15/04 e dallo Statuto della Azienda, che prevedevano l'incompatibilità con qualsiasi altra attività lavorativa, autonoma o subordinata; - anche se il rapporto di lavoro del Direttore Generale fosse configurabile, così come affermato dal Tribunale del Lavoro, quale rapporto di lavoro subordinato, trattandosi di incarico fiduciario di dirigente apicale, la mancata osservanza della procedura avrebbe potuto comportare esclusivamente la corresponsione di una indennità risarcitoria e mai la reintegra, come erroneamente disposta dal Tribunale; - attesa la controvertibilità delle decisioni assunte dal Tribunale di Lucera, trattandosi di un settore di attività amministrativa la cui normativa da applicare era oggetto di incertezze interpretative, in mancanza di un consolidato orientamento giurisprudenziale che indichi una precisa linea di condotta agli operatori, non è ravvisabile alcuna colpa grave nel comportamento dell'agente che abbia assunto comportamenti non conformi alla predetta normativa. In base a tali deduzioni difensive anche il convenuto Mi. ha chiesto, in via principale, di dichiarare inammissibile e comunque rigettare per infondatezza la domanda proposta dalla Procura attrice; in subordine, di ridurre l'addebito posto a suo carico nell'esercizio del potere riduttivo nella sua massima estensione. La convenuta Ar. Ta. si è costituta in giudizio con il patrocinio dell'avv. Cr. Fu. che ha depositato apposita comparsa in data 14 novembre 2019. La convenuta ha eccepito preliminarmente: - il difetto di giurisdizione sia perché ha fatto parte del consiglio di amministrazione dell'ASP quale soggetto privato e non era un pubblico dipendente, sia perché gli esborsi effettuati non sono avvenuti con denaro pubblico, ma attingendo integralmente al patrimonio dell'Ente che è un ente economico con bilancio di esclusiva natura privatistica e che per legge gode di totale autonomia "statutaria, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica"; - l'intervenuta prescrizione dell'unico danno erariale ipoteticamente nascente dalla soccombenza nella causa civile, ossia quello relativo alle spese legali: queste erano state liquidate con l'ordinanza del Giudice del Lavoro depositata il 22 Gennaio 2013 e pagate con mandato n. 159 del 6 Maggio 2014 mentre l'invito a dedurre sarebbe stato notificato oltre il quinquennio. Nel merito la convenuta Ta. ha anch'essa evidenziato che l'ordinanza cautelare del Giudice del Lavoro di Lucera e quella confermativa del Collegio resa in sede di reclamo non sono in alcun modo vincolanti per la Corte dei conti, non essendo idonee ad assumere autorità di cosa giudicata ex art. 2909 c.c. e 669 octies c.p.c.: tali pronunce sono state poi espressamente contestate per gli stessi motivi esplicitati dagli altri convenuti, ossia: - l'avv. Pa. conosceva almeno dal luglio 2012 tutti gli addebiti che il presidente del consiglio di amministrazione, ai sensi dell'articolo 32, comma 5, della Legge regionale n. 15/2004, le aveva mosso nella sua relazione, predisposta a luglio 2012 in occasione del primo C.d.A. che venne rinviato; - non si sarebbe attuato un licenziamento c.d. "disciplinare" ma una risoluzione per giusta causa di un dirigente apicale, come previsto ai sensi dell'articolo 2119 c.c., che ben consentiva il licenziamento ad nutum del dirigente. In ogni caso, l'incertezza giurisprudenziale sul punto rileverebbe al fine di escludere l'elemento psicologico della responsabilità amministrativa così come la sussistenza di fondati motivi di merito per l'allontanamento della Pa. disposto dal C.d.A., di cui la Ta., al pari degli altri convenuti, ha dato ampia rappresentazione. La convenuta ha anche eccepito l'insussistenza del nesso di causalità tra il presunto danno contabile e la delibera 28/2012 evidenziando la circostanza che le ordinanze del Tribunale del Lavoro avevano ordinato esclusivamente il reintegro della direttrice generale, senza condannare l'amministrazione ad alcun esborso pecuniario, ad eccezione della refusione delle spese legali della prima fase (ossia 1.800 euro oltre accessori di legge, per un importo pari ad euro 2.294,97), rigettando il ricorso della Pa. sul punto della richiesta di risarcimento del danno; al più potrebbe configurarsi un nesso causale rispetto all'esborso relativo al periodo dal 6 Ottobre 2012 al 22 Gennaio 2013, data del deposito dell'ordinanza di reintegra; decisione che, in realtà, non sarebbe stata eseguita subito solo per inerzia ed assenza di interesse della ricorrente nel ritornare alle proprie funzioni. Inoltre, la convenuta ha eccepito l'assenza anche della colpa grave evidenziando che era una consigliera politica di minoranza, in possesso di un diploma di scuola secondaria e del tutto priva di nozioni giuridiche, spinta solo dall'impellente necessità di interesse generale di allontanare un Direttore generale che male aveva operato per l'Istituzione a favore dei minori e dei poveri. In base a tali eccezioni e deduzioni la convenuta ha concluso chiedendo, in via preliminare, di dichiarare il difetto di giurisdizione della Corte dei conti e comunque la prescrizione dell'asserito danno erariale indiretto; nel merito di rigettare la domanda risarcitoria ed in subordine di ritenere il danno indiretto esclusivamente pari ad euro 2.294,97, ossia alle spese di giudizio liquidate nell'ordinanza ex art. 700 c.p.c. dal Tribunale di Lucera ed in ogni caso, di procedere alla riduzione massima dell'importo dell'addebito contestato. All'udienza di discussione dell'8 ottobre 2020 il pubblico ministero ha confermato le argomentazioni e conclusioni contenute nell'atto di citazione mentre i difensori dei convenuti hanno illustrato diffusamente i propri scritti difensivi ed hanno concluso insistendo per le conclusioni ivi rassegnate. Il giudizio, all'esito della discussione, è stato trattenuto per la decisione. DIRITTO Il presente giudizio riguarda la responsabilità amministrativa contestata ai componenti del consiglio di Amministrazione dell'Azienda Pubblica dei Servizi alla Persona (ASP) "dr. Vi. Za." di (omissis), in relazione ad esborsi di somme di denaro che configurano, ad avviso della Procura regionale, un danno indiretto derivante da pronunce emesse dal Tribunale di Lucera a seguito di ricorso proposto dal direttore generale, avv. Pa., avverso la risoluzione del rapporto di lavoro con l'Azienda, disposta con delibera n. 28 del 6 ottobre 2012. Preliminarmente occorre verificare la sussistenza della giurisdizione di questa Corte dei conti anche in considerazione delle espresse eccezioni in tal senso formulate dai convenuti Di Sa. e Ta.. Ai fini dell'esame della questione è necessario inquadrare la disciplina legislativa concernente le Aziende Pubbliche dei Servizi alla Persona. L'art. 10 della legge n. 328 dell'8 novembre 2000, "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali", ha delegato il Governo ad emanare un decreto legislativo recante una nuova disciplina delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) di cui alla legge 17 luglio 1890, n. 6972, fissando alcuni princìpi e criteri direttivi. Per ciò che interessa in questa sede, si stabiliva che il decreto legislativo dovesse prevedere, nell'àmbito del riordino della disciplina, la trasformazione della forma giuridica delle IPAB al fine di garantire l'obiettivo di un'efficace ed efficiente gestione, assicurando autonomia statutaria, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, compatibile con il mantenimento della personalità giuridica pubblica. Il D. Lgs. n. 207 del 4 aprile 2001 ha dato attuazione alla delega prevista dalla legge 328/2000 e l'art. 5 ha stabilito che "Le istituzioni che svolgono direttamente attività di erogazione di servizi assistenziali sono tenute a trasformarsi in aziende pubbliche di servizi alla persona e ad adeguare i propri statuti alle previsioni del presente capo entro due anni dall'entrata in vigore del presente decreto legislativo. Sono escluse da tale obbligo le istituzioni nei confronti delle quali siano accertate le caratteristiche di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 16 febbraio 1990, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 45 del 23 febbraio 1990, recante: "Direttiva alle regioni in materia di riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza a carattere regionale e infraregionale", o per le quali ricorrano le altre ipotesi previste dal presente decreto legislativo". Inoltre, va sottolineato che l'art. 6, comma 1, dello stesso D. Lgs. n. 207/201 prevede che "L'azienda pubblica di servizi alla persona non ha fini di lucro, ha personalità giuridica di diritto pubblico, autonomia statutaria, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica ed opera con criteri imprenditoriali. Essa informa la propria attività di gestione a criteri di efficienza, efficacia ed economicità, nel rispetto del pareggio di bilancio da perseguire attraverso l'equilibrio dei costi e dei ricavi, in questi compresi i trasferimenti". La legge regionale della Puglia n. 15 del 30 settembre 2004, recante la "Riforma delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) e disciplina delle aziende pubbliche dei servizi alle persone" ha poi previsto che tutte le ex IPAB, in possesso dei requisiti previsti dalla stessa legge per le rispettive tipologie, sono trasformate, fermo restando l'esclusione di fini di lucro, in a) aziende pubbliche di servizi alla persona o b) persone giuridiche di diritto privato. La legge regionale ha disciplinato, inoltre, il procedimento per la trasformazione che prende l'avvio con la presentazione alla Regione, da parte dei competenti organi statutari delle istituzioni che intendono ottenere la trasformazione in azienda pubblica di servizi alla persona, di una formale e motivata deliberazione di trasformazione e della proposta di approvazione dello Statuto, adeguato al nuovo assetto istituzionale. La legge regionale ha inoltre stabilito dei requisiti per accedere alla trasformazione in azienda quali: il perseguimento dei fini statutari in ambito socio-assistenziale negli ultimi anni; una capacità patrimoniale non inferiore a euro 500 mila e in ogni caso congrua al perseguimento dei fini statutari di natura socio-assistenziale; un volume di bilancio non inferiore a euro 250 mila. L'art. 15 della legge regionale ribadisce, infine, quanto già previsto dall'art. 6, comma 1, del D. Lgs. n. 2007/2001 circa la personalità giuridica di diritto pubblico con finalità socio-assistenziali delle Aziende pubbliche di servizi alla persona. Il quadro normativo di riferimento appena descritto depone per la sicura inclusione di tali Aziende pubbliche nell'ambito degli enti pubblici di cui all'art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001 (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 03-01-2017, n. 58 e richiami ivi contenuti). Nel caso di specie la rilevanza pubblicistica dell'attività assistenziale svolta e il riconoscimento ex lege della natura pubblica dell'Azienda, unitamente all'effettiva intervenuta trasformazione della Fondazione "Za.", già Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficenza, in Azienda pubblica dei Servizi alla Persona, rendono ininfluente la circostanza, evidenziata dai predetti convenuti, che la stessa non si avvalga di entrate pubbliche e che svolga la sua attività con ampia autonomia. La mancata acquisizione di risorse pubbliche è invero irrilevante posto che la stessa qualificazione pubblica dell'Ente comporta l'assoggettamento alle regole di sana ed efficace azione amministrativo contabile con ogni conseguenza di legge anche sotto il profilo della responsabilità amministrativa. Gli amministratori di tali Aziende, sono assoggettati, perciò, al pari dei dipendenti, alla responsabilità amministrativa come disciplinata dall'art. 1 della legge 20/1994 essendo anche in questo caso ininfluente la provenienza degli stessi e la natura dell'ente che ha effettuato la designazione alla rispettiva carica. Sussiste, dunque, la giurisdizione di questa Corte in ordine alla responsabilità amministrativa imputata dalla Procura regionale ai componenti del consiglio di amministrazione dell'Azienda dei Servizi alla Persona "Za." di Lucera. Nel merito vanno verificati gli elementi della responsabilità amministrativa imputata ai convenuti. 3.a La Procura regionale ha ritenuto dannosi i seguenti esborsi sopportati dall'Azienda pubblica, per un importo complessivo di E. 95.073,22, configurandoli quali danni indiretti derivanti dalla pronuncia di condanna del Tribunale di Trani e collegandoli all'adozione della deliberazione del consiglio di amministrazione n. 28 del 6 ottobre 2012: E. 2.294,97 per spese legali in favore dell'Avv. Giuseppe Russo, difensore della Pa.; E. 62.823,32 per emolumenti alla Pa.; E. 24.172,72 per oneri previdenziali e assistenziali; E. 1.975,81 per interessi su retribuzioni pregresse; E. 3.806,40 per spese legali all'Avv. Ra. Ir., legale dell'ASP. Ad avviso del Collegio la maggior parte delle predette poste di danno non sono da inquadrare nell'ambito del c.d. danno indiretto in quanto solo alcune si collegano alla condanna dell'Ente disposta con le pronunce del Tribunale di Trani. In proposito va evidenziato che il direttore generale Pa. proponeva ricorso cautelare - ex artt. 669bis e 700 c.p.c. contestando la risoluzione del contratto, disposta dal consiglio di amministrazione della ASP "Za." con la deliberazione n. 28 del 6.10.2012 e chiedendo la reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento dei danni corrispondenti alle retribuzioni non percepite dalla data della risoluzione a quella delle effettiva reintegrazione, con accessori di legge e conseguente regolarizzazione della posizione previdenziale. Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Lucera, con ordinanza monocratica depositata in data 22 gennaio 2013, ordinava la reintegrazione della ricorrente nel rapporto di lavoro e nell'incarico di Direttore generale, rigettava per il resto il ricorso non ritenendo configurarsi in relazione alla richiesta risarcitoria il presupposto del periculum in mora e condannava l'Azienda resistente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in E. 1.800. A seguito del reclamo proposto dall'Azienda pubblica di che trattasi, la pronuncia del giudie monocratico veniva confermata dal Tribunale di Lucera, in composizione collegiale, con ordinanza n. 173/2013, depositata in data 9.7.2013. Ciò premesso va, quindi, rilevato che - in disparte la questione, su cui ha pure insistito il difensore del convenuto Di Sa., circa la sopravvenuta inefficacia del provvedimento d'urgenza e cautelare emesso dal Giudice del Lavoro di Lucera, per non essere mai stato avviato il giudizio di merito - le spese che l'Azienda ha dovuto sopportare in conseguenza delle pronunce del giudice (sia in sede monocratica che collegiale) risultano essere soltanto quelle riferite al pagamento delle spese di giudizio a favore del difensore di controparte (E. 2.294,97) e quelle per il pagamento del proprio difensore (E. 3.806,40). Invero, gli ulteriori esborsi per gli emolumenti alla Pa. (E. 62.823,32), oneri previdenziali e assistenziali (E. 24.172,72) e per interessi su tali emolumenti (E. 1.975,81) sono stati riconosciuti dalla Azienda, seppure a seguito della esplicita richiesta del difensore della Pa. stessa, in assenza di un titolo giudiziale, nemmeno provvisorio. Deve, però, osservarsi che indipendentemente dalla configurazione giuridica quale danno indiretto anche gli appena menzionati esborsi per il pagamento alla Pa. degli emolumenti, oneri riflessi ed interessi, costituiscono - contrariamente a quanto sostenuto dai convenuti - sicuro danno finanziario per l'Azienda trattandosi di spesa non correlata alla prestazione dell'attività lavorativa da parte del predetto direttore generale Pa.. Il difensore del convenuto Di Sa., nel sostenere la perdita di efficacia del provvedimento cautelare pronunciato dal Giudice del Lavoro di Lucera e la possibilità di intraprendere un giudizio di merito entro il termine di prescrizione decorrente dalla reintegra nel posto di lavoro della stessa, ha sostenuto l'insussistenza di un danno erariale conclamato e definitivo potendo l'instaurando giudizio di merito concludersi per la condanna della Pa. al rimborso di quanto percepito. L'assunto, pur suggestivo, appare irrilevante ai fini del presente giudizio in quanto all'attualità l'esborso è già intervenuto; non è stato dimostrato che l'Azienda abbia intrapreso ulteriori iniziative giudiziarie, né è possibile censurare in questa sede la decisione del Giudice del Lavoro di Lucera che ha ritenuto applicabile la disciplina prevista per il contrato di lavoro subordinato dei dirigenti pubblici anziché quella sul recesso del contratto di prestazione di opera intellettuale prevista dall'art. 2237 cod. civ., come pretendono i difensori dei convenuti.. Peraltro, tale assunto contraddice pure il parere reso dallo stesso difensore del Di Sa., nella precedente veste di legale dell'ASP in occasione del contenzioso con la Pa., allorquando non rappresentò l'opportunità di intraprendere il giudizio di merito per ottenere una pronuncia favorevole all'Azienda di segno opposto a quelle rese in sede cautelare. La questione della possibilità di intraprendere un futuro giudizio in danno della Pa. risulta comunque solo parzialmente rilevante in questa sede posto che a livello causale il pagamento degli emolumenti pregressi per il periodo di mancata prestazione lavorativa della Pa., come si dirà a breve, è riconducibile solo in parte al recesso disposto con la deliberazione n. 28 del 6.10.2012; d'altronde laddove l'Ente avesse voluto intraprendere un giudizio di merito l'avrebbe senz'altro fatto allorquando la Pa., tramite il proprio legale, reclamava le competenze arretrate. In ogni caso, qualora entro il termine di prescrizione indicato dal difensore del Di Sa. l'Azienda intraprenda un giudizio per il recupero delle somme corrisposte alla Pa. e lo stesso abbia esito favorevole è evidente che gli odierni convenuti potranno chiedere il rimborso all'Ente nei limiti degli importi di condanna disposta con la presente sentenza. A completamento dell'esame dell'individuazione del danno finanziario patito dall'ASP nella vicenda di cha trattasi va disattesa l'eccezione di prescrizione della posta riguardante il pagamento dei compensi al difensore della Pa. (E. 2.294,97) in quanto tra la data di effettivo esborso (mandato di pagamento del 6 maggio 2014) e quella della notifica dell'invito a dedurre con contestuale costituzione in mora (24 aprile 2019) risultano decorsi meno di cinque anni. 3.b Appurata la sussistenza del danno complessivamente azionato dalla Procura regionale, va ora verificato se anche gli esborsi riferiti agli emolumenti pagati alla Pa. siano riconducibili sotto il profilo causale a quanto disposto con la deliberazione n. 28/2012, la cui adozione il requirente ha contestato ai convenuti. In proposito va rimarcato che le pronunce giudiziali emesse a seguito della risoluzione del rapporto di lavoro disposto con la predetta deliberazione si sono limitate ad ordinare il reintegro nel posto di lavoro mentre il pagamento degli emolumenti alla Pa. per il periodo di mancata attività lavorativa è stato disposto in esecuzione della successiva deliberazione n. 26 del 9.6.2015 (adottata peraltro con la presenza anche di un quarto componente del consiglio di amministrazione). Con tale successivo provvedimento, che si basa sul parere espresso con nota del 17.11.2014 dal legale dell'Ente (a seguito dell'incarico di assistenza, affidato con precedente deliberazione n. 23 del 29.5.2014, per valutare i provvedimenti da adottare e l'eventuale transazione al fine di evitare l'insorgere di una nuova controversia), si dava mandato al subentrato direttore generale ed al responsabile del settore finanziario di liquidare le competenze, comprensive di oneri riflessi ed interessi all'avv. Pa. per il periodo dal 7.10.2012 al 16.9.2013, data quest'ultima di reintegrazione nell'incarico di direttore generale. Da quanto sopra evidenziato emerge, quindi, non solo che la configurazione dell'intero pregiudizio finanziario quale ipotesi di danno indiretto non sia corretta, essendosi concluso il giudizio cautelare e d'urgenza tra l'Azienda e la cessata dirigente Pa. con la declaratoria di illegittimità della disposta risoluzione anticipata del rapporto di lavoro senza alcuna condanna al risarcimento, ma anche che il danno complessivamente contestato dalla Procura regionale non è tutto collegabile causalmente all'illegittimo recesso dal contratto di lavoro con il direttore generale Pa.. La parte di danno riguardante gli emolumenti ed accessori riferibili all'intervallo temporale che va dalla data di deposito dell'ordinanza cautelare monocratica (22.1.2013) a quella di effettiva reintegra nell'incarico della Pa. (17.9.2013) non è, infatti, riconducibile all'illegittimo licenziamento disposto con la deliberazione n. 28 del 6.10.2012 ma al ritardo con cui l'Ente ha dato esecuzione al provvedimento cautelare stesso; circostanza questa, però, non contestata dalla Procura regionale agli odierni convenuti. Dalla lettura degli atti di causa, in particolare le due ordinanze emesse dal Tribunale di Lucera (prima in composizione monocratica e poi collegiale) risulta che la prima pronuncia è stata oggetto di reclamo ex art. 669terdecies c.p.c. ma che alcun provvedimento di sospensione della stessa è stato emesso in pendenza di reclamo. Ciò comporta sotto il profilo causale che il dannoso aggravio di spese riconducibili all'adozione della deliberazione n. 28/2012 riguarda, oltre al pagamento dei compensi al legale dell'ASP ed a quello di controparte, la quota di emolumenti, oneri riflessi ed interessi pagati alla Pa. per solo una parte del periodo in cui la stessa non ha prestato attività lavorativa ed esattamente per il periodo che va dal 7 ottobre 2012 al 22 gennaio 2013 (circa 3 mesi e mezzo). Considerata la spesa complessiva di E. 88.971,85 (E. 62.823,32 per emolumenti, E. 24.172,72 per oneri previdenziali e assistenziali ed E. 1.975,81 per interessi) per l'intero periodo di assenza della Pa. durato 344 giorni (dal 7.10.2012 al 16.9.2013), proporzionalmente per il predetto periodo di assenza di 108 giorni (dal 7.10.2012 al 22.1.2013) la spesa riconducibile causalmente all'adozione della predetta deliberazione n. 28/2012 ammonta ad E. 27.933,02. In definitiva il danno riconducibile alla sola condotta contestata dalla Procura regionale agli odierni convenuti, ossia l'adozione della deliberazione del C.d.A. dell'ASP n. 28 del 6.10.2012, risulta pari ad E. 6.101,37 (E. 2.294,97+E. 3.806,40) per compensi dei difensori ed E. 27.933,02 per pagamento di parte degli emolumenti alla Pa. (oltre oneri riflessi ed interessi) per un totale di E. 34.034,39. 3.c Il requirente ha imputato ai componenti del consiglio di amministrazione, che hanno adottato la deliberazione n. 28 del 6.10.2012, una condotta gravemente colposa per aver arbitrariamente licenziato la Pa., in assenza di un contraddittorio con l'interessata: si contesta loro di aver approvato la deliberazione su una questione particolarmente delicata (ritenendo non necessaria l'acquisizione del parere del direttore generale stesso e del responsabile del II settore) senza adeguata istruttoria e senza l'eventuale acquisizione di un parere legale nell'ipotesi in cui avessero ritenuto di non avere sufficienti conoscenze in campo di diritto. Reputa il Collegio che dall'esame complessivo della vicenda emergano effettivamente profili di grave colpevolezza a carico degli odierni convenuti. Il Giudice del Lavoro ha sottolineato l'illegittimo recesso dell'Azienda dal rapporto di lavoro con il Direttore Generale Pa. motivando che "non risulta effettuata alcuna preventiva contestazione degli addebiti e, soprattutto, non si è mai provveduto a realizzare un momento di reale instaurazione del contraddittorio per consentire a parte ricorrente di rispondere agli addebiti che alla stessa venivano contestati" (ordinanza monocratica) ed ancora, che "il diritto di difesa non è limitato alle sole ipotesi di procedimento disciplinare ma anche di valutazione della gestione e dei risultati, tanto più in mancanza di uno specifico regolamento" ed inoltre che "il macroscopico difetto procedimentale rende annullabile il provvedimento di risoluzione unilaterale" (ordinanza collegiale). Il giudice del lavoro è giunto a tali conclusioni sulla base della giurisprudenza costituzionale che con riferimento alla disciplina della dirigenza pubblica ha da tempo chiarito che "l'applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni previste dal codice di procedura civile comporta non già che la pubblica amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso, ma semplicemente che la valutazione dell'idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo - assistite da un'ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio - a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso" (Sent. n. 313/1996). Orbene i principi affermati già da tempo dalla giurisprudenza corrispondono peraltro ai criteri di buon senso che qualsiasi amministratore pubblico dovrebbe seguire nel caso voglia disporre la cessazione anticipata di un rapporto di lavoro di un dirigente. E' evidente, infatti, che corrisponde ad un principio di civiltà giuridica prima ancora che di diritto quello di consentire al dipendente ed a maggior ragione al dirigente di cui si lamenta la bontà dell'operato di produrre le proprie giustificazioni prima di adottare provvedimenti incidenti sulla prosecuzione del rapporto. Nella specie, poi, non può condividersi quanto dedotto dai convenuti, ossia che il contradditorio con la Pa. sarebbe stato attivato sin dal luglio 2012 allorquando era stata già posta all'ordine del giorno del consiglio di amministrazione la valutazione del Direttore generale: invero la personale e formale contestazione del mancato raggiungimento di obiettivi non può essere confusa con la conoscenza, in qualità di Direttore generale, del contenuto delle proposte di deliberazioni poste all'ordine del giorno della seduta di luglio 2012 e del 6 ottobre 2012 in quanto una tale situazione non è minimamente equiparabile alla corretta procedura da osservare per il caso di contestazione di addebiti al dirigente. D'altra parte, la assoluta superficialità con cui il consiglio di amministrazione nella seduta del 6 ottobre 2012 ha disposto la rimozione della Pa. dall'incarico di direttore generale emerge anche dal fatto che i componenti dell'organo hanno proceduto alla risoluzione del rapporto di lavoro senza nemmeno premurarsi di effettuare una previa istruttoria, come ha stigmatizzato il requirente e come previsto dal CCNL area dirigenza del comparto Regioni e Autonomie Locali alla cui disciplina rinviava l'art. 8 del contratto di lavoro stipulato con la Pa.. Ed infatti l'art. 3 del CCNL del 22.2.2010 prevedeva che il provvedimento di recesso per responsabilità dirigenziale dovesse essere preceduto a livello istruttorio, proprio da un'apposita contestazione scritta degli addebiti con convocazione del dirigente. In definitiva la risoluzione del rapporto di lavoro in assenza di un previo contradditorio si poneva in contrasto sia con i basilari principi di diritto e di civiltà giuridica che con i criteri previsti dalla contrattazione collettiva che regolavano l'istruttoria del procedimento per far valere la responsabilità dirigenziale. L'adozione della deliberazione del consiglio di amministrazione cha ha disposto la risoluzione del rapporto di lavoro della Pa. in violazione dei predetti principi e criteri generali depone per la grave colpevolezza degli odierni convenuti, Presidente e componenti del predetto organo. Circa la quantificazione del danno da imputare a costoro reputa il Collegio che alcune situazioni di seguito elencate depongono per l'esercizio del potere riduttivo: - la circostanza che le doglianze circa l'attività svolta dalla Pa. fossero oggetto di dettagliata relazione da parte del Presidente dell'ASP; - l'assenza di apposito regolamento che avrebbe dovuto disciplinare gli strumenti di controllo interno per la valutazione della dirigenza; - l'assenza nel contratto di lavoro della Pa. di una espressa disciplina del procedimento da attuare per giungere alla risoluzione del rapporto di lavoro in caso di valutazione negativa. Tenuto conto di quanto appena evidenziato reputa la Sezione che il danno complessivo sopra quantificato, come riconducibile alla contestata condotta gravemente colposa esplicatasi nell'adozione della deliberazione n. 28 del 6.10.2012 (34.034,39), debba essere imputato ai convenuti nella ridotta complessiva misura di E. 20.000,00, comprensiva di rivalutazione monetaria. Circa il riparto di tale danno tra i convenuti appare condivisibile il criterio indicato dalla Procura regionale che addebita la metà al Di Sa. in qualità di Presidente dell'ASP ed un quarto ciascuno agli altri convenuti, Mi. e Ta. in qualità di componenti del C.d.A. dell'Azienda. E' corretto, infatti, addossare una maggior quota di danno al convenuto Di Sa. in quanto costui ha posto in essere l'iniziativa che ha portato alla risoluzione ad nutum del rapporto di lavoro predisponendo una relazione con cui ha accorpato obiettivi, risultati, criteri di valutazione e proposta di risoluzione del rapporto di lavoro senza farsi carico di proporre al consiglio di amministrazione una previa notifica della relazione stessa alla Pa. per ottenere le eventuali formali giustificazioni sul proprio operato. In definitiva il convenuto Di Sa. va condannato al risarcimento del danno nei confronti dell'ASP nella misura di E. 10.000,00 mentre i convenuti Mi. e Ta. devono essere condannati al risarcimento del danno nei limiti di E. 5.000,00 ciascuno. P.Q.M. definitivamente pronunciando nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 35210 del registro di segreteria. CONDANNA i convenuti Ni. Di Sa., Pi. Ur. Mi. e Ar. Ta. al risarcimento del danno di E. 20.000,00 in favore dell'Azienda dei Servizi alla Persona "de. Vi. Za." di (omissis), posta a carico del primo per euro 10.000,00 (diecimila/00) ed a carico degli altri per euro 5.000,00 (cinquemila/00) ciascuno. Condanna, altresì, i convenuti, nella stessa proporzione sopra indicata, al pagamento delle spese di giudizio, quali liquidate dalle Segreteria con nota in calce. Così deciso in Bari, nella camera di consiglio dell'8 ottobre 2020. Estensore - f.to Pasquale Daddabbo Presidente - f.to Francesco Paolo Romanelli Ai sensi dell'art. 31, comma 5, del D. Lgs. 26 Agosto 2016 n. 174, le spese di giustizia del presente giudizio, sino a questa decisione, si liquidano in E. 224,00. Depositata in segreteria il 13/11/2020 Il Funzionario f.to Dott. Francesco Gisotti
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7310 del 2019, proposto dalla Regione Lazio, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Ti. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); contro Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Ce. Ma. Bi. e dall'Avvocato Pi. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato Ce. Ma. Bi. in Roma, via (...); Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma, in persona del Prefetto pro tempore, Commissario ad acta nominato dal Prefetto di Roma ai sensi dell'art. 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, tutti rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via (...); nei confronti Città Metropolitana di Roma Capitale, in persona della Sindaca pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Gi. Al. e dall'Avvocato Ma. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dell'Avvocato Ma. Si. in Roma, via (...); Roma Capitale, in persona della Sindaca pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Pier Lu. Pa., domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza Sa. Ma., non costituito in giudizio; Da. Br., non costituito in giudizio; sul ricorso numero di registro generale 7423 del 2019, proposto dall'Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficienza Sa. Ma., in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocato To. Di Ni. e dall'Avvocato Gi. Ru., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato To. Di Ni. in Roma, via (...); contro Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Ce. Ma. Bi., e dall'Avvocato Pi. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato Ce. Ma. Bi. in Roma, via (....); Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma, in persona del Prefetto pro tempore, Commissario ad acta nominato dal Prefetto di Roma ai sensi dell'art. 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, tutti rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via (...); Roma Capitale, in persona della Sindaca pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocato Pi. Lu. Pa., domiciliatario ex lege in Roma, via (...); nei confronti Regione Lazio, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Ti. Ci., domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Città Metropolitana di Roma Capitale, in persona della Sindaca pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Gi. Al. e dall'Avvocato Ma. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato Ma. Si. in Roma, via (...); Da. Br., non costituito in giudizio; Ro. Ci., non costituita in giudizio; Lu. Pi., non costituito in giudizio; Ro. So., non costituito in giudizio; sul ricorso numero di registro generale 7493 del 2019, proposto da Roma Capitale, in persona della Sindaca pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Pi. Lu. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato Pi. Lu. Pa. in Roma, via (...); contro Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Ce. Ma. Bi. e dall'Avvocato Pi. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato Ce. Ma. Bi. in Roma, via (...); Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma, in persona del Prefetto pro tempore, Commissario ad acta nominato dal Prefetto di Roma ai sensi dell'art. 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, tutti rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via (...); nei confronti Regione Lazio, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Ti. Ci., domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Città Metropolitana di Roma Capitale, in persona della Sindaca pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Gi. Al. e dall'Avvocato Ma. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato Ma. Si. in Roma, via (...); Istituto di Pubblica Assistenza e Beneficenza Sa. Ma., non costituito in giudizio; Da. Br., non costituito in giudizio; Ro. Ci., non costituita in giudizio; Lu. Pi., non costituito in giudizio; Ro. So., non costituito in giudizio; sul ricorso numero di registro generale 7578 del 2019, proposto dalla Città Metropolitana di Roma Capitale, in persona della Sindaca pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Gi. Al. e dall'Avvocato Ma. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato Ma. Si. in Roma, via (...); contro Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Ce. Ma. Bi. e dall'Avvocato Pi. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato Ce. Ma. Bi. in Roma, via (...); Ministero dell'Interno, Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma, Commissario ad acta nominato dal Prefetto di Roma ai sensi dell'art. 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, non costituiti in giudizio; nei confronti Regione Lazio, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Ti. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); Roma Capitale, in persona della Sindaca pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Pi. Lu. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato Pi. Lu. Pa. in Roma, via (...); Da. Br., non costituito in giudizio; Ro. Ci., non costituita in giudizio; Lu. Pi., non costituito in giudizio; Ro. So., non costituito in giudizio; per la riforma quanto al ricorso n. 7310 del 2019, quanto al ricorso n. 7423 del 2019, quanto al ricorso n. 7493 del 2019 e quanto al ricorso n. 7578 del 2019, tutti riuniti ai sensi dell'art. 96 c.p.a.: della sentenza n. 7355 del 6 giugno 2019 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. I, resa tra le parti, concernente a) il decreto del 23 luglio 2018 adottato dal Commissario ad acta, Prefetto Ri. Ca., nominato dal Prefetto di Roma per gli adempimenti di cui all'art. 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, ivi compresi i suoi allegati, trasmessi all'Istituto ricorrente con nota prot. n. 0281709 del 23 luglio 2018 ed avente ad oggetto l'accertamento dei requisiti per la trasformazione dell'Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza Sa. Ma. in fondazione di diritto privato con riconoscimento della titolarità della rappresentanza e della gestione alla Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu.; b) il decreto del 28 settembre 2018 adottato dal Commissario ad acta, Prefetto Ri. Ca., nominato dal Prefetto di Roma per gli adempimenti di cui all'art. 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, ivi compresi i suoi allegati, trasmesso all'Istituto ricorrente con nota prot. n. 0361808 del 1° ottobre 2018 ed avente ad oggetto l'approvazione dell'atto costitutivo e lo statuto della Fondazione presentato dalla Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu.; c) ogni atto a questi connesso e/o presupposto ed allo stato non conosciuto. visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione nei rispettivi giudizi, qui riuniti, del Ministero dell'Interno, del dell'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma e del Commissario ad acta nominato ai sensi dell'art. 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, della Regione Lazio, di Città Metropolitana di Roma Capitale, di Roma Capitale nonché della Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu.; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 gennaio 2020 il Consigliere Massimiliano Noccelli e uditi per la Regione Lazio l'Avvocato Ti. Ci., per la Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu. l'Avvocato Ce. Ma. Bi., per la Città Metropolitana di Roma Capitale l'Avvocato Ma. Si., per Roma Capitale l'Avvocato Pi. Lu. Pa., per l'Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza Sa. Ma. l'Avvocato To. Di Ni. e per il Ministero dell'Interno, l'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma e il Commissario ad acta nominato ai sensi dell'art. 16 del d.lgs. n. 207 del 2001 l'Avvocato dello Stato Wa. Fe.; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con il ricorso iscritto al R.G. n. 11495/2018, l'Istituto Pubblico di Beneficienza e Assistenza Sa. Ma. - di qui in avanti, per brevità, l'Istituto o l'IPAB - ha impugnato avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, il decreto del 23 luglio 2018 con cui il Commissario ad acta nominato dal Prefetto di Roma per gli adempimenti di cui all'art. 16 del d.lgs. n. 207 del 2001 - di qui in avanti, per brevità, il Commissario - ha accertato la sussistenza dei requisiti per la trasformazione dell'Istituto, odierno appellante, in fondazione di diritto privato, con il riconoscimento della titolarità della rappresentanza e della gestione alla Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu., ed il successivo decreto del 28 settembre 2018 avente ad oggetto l'approvazione dell'atto costitutivo e lo statuto della Fondazione presentato dalla Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu.. 1.1. L'Istituto è una Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficienza (IPAB) costituita a seguito della trasformazione disposta per effetto della legge del 17 luglio 1890, n. 6972, (c.c. legge Crispi) e persegue lo scopo di accogliere, mantenere ed assistere persone anziane anche tramite la gestione di una casa di riposo; è titolare di immobili, alcuni dei quali adibiti proprio alla gestione della casa di riposo, ed è oggi gestito da un Commissario straordinario nominato dalla Regione Lazio, in attesa della ricostituzione del consiglio di amministrazione. 1.2. L'ente è stato fondato nel 1879 dal frate An. Ma. da Sorrento, in religione Padre Si. della Na., con la denominazione di "Ospizio di Sa. Ma.", e alcuni anni dopo la sua fondazione, su istanza del proprio fondatore, è stato istituito come ente morale, con R.D. del 1° febbraio 1885, che ne ha approvato lo statuto. 1.3. Tale statuto ha subito nel corso del tempo una serie di modifiche, la prima delle quali risale al 1908 fino all'ultima, avvenuta nel 1998. 1.4. Con il proprio testamento Padre Si. ha poi dettato alcune disposizioni sull'Istituto stesso, prevedendo, tra l'altro, che le Su. Te. Fr. dette "Ma.", il cui ordine è stato istituto il 21 febbraio 1886 e che nel 1903 ha cambiato denominazione assumendo quella di "Congregazione Su. Fr. dei Sa. Cu." - di qui in avanti, per brevità, la Congregazione - fossero le sole direttrici e istitutrici dell'Ospizio. 1.5. In seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 396 del 1988, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890 n. 6972, "nella parte in cui non prevedeva che le IPAB regionali ed infraregionali possano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato qualora abbiano tuttora i requisiti di un'istituzione privata", è stato emanato il d.P.C.M. 16 febbraio 1990, con il quale sono dettate direttive alle Regioni in materia di riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato. 1.6. Il decreto prescrive, per quelle istituzioni che intendono ottenere il riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato, l'obbligo di presentare un'apposita istanza, da valutare sulla base di indici sintomatici, pure previsti dal medesimo decreto: in particolare, secondo l'articolo 3 del predetto d.P.C.M., "sono riconosciute di natura privata quelle istituzioni che continuino a perseguire le proprie finalità nell'ambito dell'assistenza, in ordine alle quali sia alternativamente accertato: a) il carattere associativo; b) il carattere di istituzione promossa ed amministrata da privati; c) l'ispirazione religiosa". 1.7. I successivi articoli 4, 5 e 6 individuano i requisiti concorrenti (e non dunque alternativi) che le istituzioni istanti devono possedere per il riconoscimento rispettivamente del carattere associativo (art. 4), della natura di istituzione promossa ed amministrata da privati (art. 5) e della finalità religiosa (art. 6). 2. Al predetto D.P.C.M. ha fatto seguito la legge 8 novembre 2000, n. 328 ed il d.lgs. 4 maggio 2001, n. 207, il quale contiene norme in materia di "Riordino del sistema delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza, a norma dell'art. 10 della legge 8 novembre 2000 n. 328". 2.1. Con i suddetti atti normativi l'antica legge n. 6972/1890 è stata abrogata. 2.2. L'art. 5 del d.lgs. n. 207 del 2001 prevede la trasformazione delle IPAB in aziende di servizi alla persona (con personalità di diritto pubblico, autonomia statutaria, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica), escludendo da tale obbligo quelle istituzioni per le quali le Regioni riconoscano il possesso di quelle caratteristiche previste dall'art. 3 del d.P.C.M. sopra citato e cioè, come detto, alternativamente: a) il carattere associativo; b) il carattere di istituzione promossa ed amministrata da privati; c) l'ispirazione religiosa per le quali è prevista. 2.3. Per gli enti aventi, viceversa, i caratteri individuati dall'art. 3 del d.P.C.M., l'art. 16 dello stesso d.lgs. n. 207 del 2001 prevede la possibilità di trasformarsi in associazioni o fondazioni di diritto privato, come tali disciplinate dal codice civile. 2.4. La disposizione stabilisce, altresì, un termine di due anni dall'entrata in vigore della stessa per la trasformazione in enti di diritto privato, prevedendo che, decorso inutilmente il predetto termine "le Regioni nominano un commissario che provvede alla trasformazione" ed ancora che, ove fosse decorso anche l'ulteriore termine di sei mesi senza che le Regioni avessero provveduto alla nomina del commissario, "essa è effettuata dal prefetto del luogo in cui l'istituzione ha la sede legale". 3. Con l'istanza, presentata in data 4 aprile 2016, la Congregazione ha chiesto al Prefetto per la Provincia di Roma, ai sensi dell'articolo 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, di "voler disporre la trasformazione dell'IPAB Sa. Ma. in Roma in fondazione di diritto privato con titolarità di rappresentanza e gestione in capo alla Congregazione Su. Fr. dei Sa. Cu.". 3.1. Nell'inerzia dell'amministrazione, la Congregazione ha proposto ricorso innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, chiedendo l'accertamento e la declaratoria della sussistenza dei requisiti di legge per la trasformazione dell'IPAB in fondazione di diritto privato con titolarità di rappresentanza e gestione in capo alla Congregazione, e del correlato obbligo del Prefetto di provvedere sull'istanza e, per l'effetto, di disporre la trasformazione dell'IPAB in fondazione di diritto privato. 3.2. Con la sentenza del n. 4305 del 6 aprile 2017, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, ha accolto il ricorso proposto ai sensi dell'art. 31 c.p.a., dichiarando l'obbligo della Prefettura, previsto dall'art. 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, di Roma di portare a termine il procedimento avviato con l'istanza avente ad oggetto la trasformazione dell'IPAB in fondazione di diritto privato, ma respingendo nel contempo la domanda di accertamento della fondatezza della istanza e, dunque, l'accertamento della ricorrenza dei presupposti per la trasformazione dell'ente in fondazione di diritto privato, residuando in capo alla pubblica amministrazione procedente ampi margini di discrezionalità in ordine all'esame nel merito dell'istanza. 3.3. A seguito dell'appello proposto dalla Prefettura di Roma, questo Consiglio di Stato, con la decisione n. 745 del 5 febbraio 2018, ha confermato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, poiché ha ritenuto sussistente l'obbligo dell'amministrazione di pronunciarsi in merito all'istanza della Congregazione circa la trasformazione in fondazione di diritto privato e ha ribadito che l'attività richiesta alla Prefettura in ordine alla sussistenza dei presupposti per la trasformazione in ente di diritto privato aveva natura ampiamente discrezionale. 3.4. In ottemperanza a queste pronunce, il Prefetto per la Provincia di Roma ha nominato un commissario ad acta con l'incarico di valutare la sussistenza dei presupposti per la trasformazione dell'IPAB in ente di diritto privato e il Commissario ha concluso in senso affermativo, ritenendo meritevole di accoglimento la domanda della Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu. circa la depubblicizzazione dell'IPAB Sa. Ma.. 3.5. Ciò sia sulla base dell'ispirazione religiosa di cui all'art. 3, lett. c), del richiamato d.P.C.M. sia per la sussistenza di entrambi gli elementi richiesti dall'art. 6 del d.P.C.M. per individuare il requisito dell'ispirazione religiosa (attività istituzionale che persegua indirizzi religiosi o comunque inquadri l'opera di beneficienza nell'ambito di una più generale finalità religiosa; collegamento dell'istituzione ad una confessione religiosa realizzato per il tramite della designazione, prevista da disposizione statutarie, di ministri del culto, di appartenenti ad istituti religiosi, di rappresentanti di attività o di associazioni religiose ovvero attraverso la collaborazione di personale religioso come modo qualificante di gestione del servizio). 3.6. Con il decreto del 23 luglio 2018 il Commissario ad acta ha quindi concluso nel senso che l'IPAB Sa. Ma. "è in possesso dei requisiti per la trasformazione in fondazione di diritto privato con titolarità di rappresentanza e di gestione in capo alla Congregazione Su. Fr. dei Sa. Cu.", sospendendo la trasformazione "fino alla data di effettivo riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato ai sensi del DPR n. 361 del 10 febbraio 2000" e chiedendo poi alla Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu. di produrre una bozza aggiornata dell'atto costitutivo e dello statuto con alcune modifiche indicate nella relazione. 3.7. Con il decreto del 28 settembre 2018, trasmesso all'IPAB il 1° ottobre 2018, il Commissario ad acta ha da ultimo approvato lo statuto e l'atto costitutivo della fondazione di diritto privato da istituire per effetto della trasformazione dell'Istituto Sa. Ma., avendo la Congregazione delle Suore Francescane apportato le modifiche richieste con la relazione allegata al decreto commissariale del 23 luglio 2018. 4. A sostegno del ricorso proposto in primo grado, avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, l'IPAB ha proposto le seguenti censure. 4.1. Con un primo motivo sono stati dedotti in prime cure la violazione e la falsa applicazione degli artt. 5 e 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, la violazione e la falsa applicazione del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990, l'eccesso di potere sotto tutte le figure sintomatiche e, in particolare, per la carenza di istruttoria, il travisamento dei fatti, lo sviamento della causa, la manifesta contraddittorietà, con riferimento all'accertamento dell'esistenza del requisito dell'"ispirazione religiosa" di cui all'art. 3 del d.P.C.M. del 22 febbraio 1990. 4.1.1. Il Commissario ad acta avrebbe ritenuto che l'IPAB persegua nella sua attività istituzionale indirizzi religiosi e che la sua attività si possa comunque inquadrare nell'ambito di una più generale finalità religiosa sulla base del testamento del 1898 del fondatore del Pio Ospizio Padre Si., dello statuto del 1895, dello statuto del 1908 e del regolamento organico del 1948, ma non avrebbe verificato se tali richiami siano ancora attuali e, quindi, sufficienti a far ritenere accertata la continuità nel tempo del perseguimento di indirizzi religiosi e di una più generale finalità religiosa, nel rispetto dei principi posti dalla sentenza n. 396 del 1988 della Corte costituzionale, secondo la quale la trasformazione delle IPAB in persone giuridiche di diritto privato deve ritenersi consentita qualora dette istituzioni "abbiano tutt'ora i requisiti di un'istituzione privata". 4.1.2. L'Istituto in questione, invece, avrebbe perduto nel corso del tempo ogni finalità religiosa, come si evince già dallo statuto del 1908, che ha individuato lo scopo dell'Istituzione nel provvedere "al ricovero, al mantenimento ed all'assistenza dei poveri di ambo i sessi, inabili al lavoro" (art. 1), escludendo espressamente, all'art. 11, che potesse essere imposta ai ricoverati alcuna pratica religiosa. 4.1.3. Inoltre, per accertare la finalità religiosa sarebbe inconferente il riferimento al testamento di Padre Si., redatto nel 1898 e, quindi, dopo che nel 1885, su istanza dello stesso Padre Si., l'Istituto, al quale il fondatore aveva dichiarato di cedere la proprietà dello stabile in cui si svolgeva l'attività dell'Ospizio, era stato eretto in ente morale dotato di un proprio statuto. 4.1.4. Il testamento di Padre Si. non potrebbe quindi costituire la tavola di fondazione dell'Istituto, che dev'essere rinvenuta nello statuto del 1885. 4.1.5. Secondo l'IPAB, che ha ribadito le proprie tesi anche nel ricorso in appello, se si esamina tale statuto nessuna chiara finalità religiosa può dirsi sussistente, in quanto, secondo l'art. 1 dello statuto, l'ente ha lo scopo "di riabilitare alla vita sociale e cristiana quelle giovani donne [...] le quali mostrano la volontà di abbandonare la vita cattiva [...] e d'impedire che tante infelici giovinette si prostituiscano [...]" e non si tratterebbe, pertanto, di rieducazione religiosa, ma del reinserimento sociale delle donne di malaffare attraverso un percorso di riavvicinamento al lavoro e ai valori della cristianità intesi come principali valori di riferimento dell'epoca. 4.1.6. Né in tal senso rileverebbe, a differenza di quanto affermato nel provvedimento commissariale impugnato, la composizione del consiglio di cmministrazione, regolata dall'articolo XIX dello statuto stesso. 4.1.8. La norma non prevede, infatti, che il Presidente e il Vice Presidente fossero scelti "dall'"opera pia" - rectius: Ospizio S. Ma. - nel proprio seno" mentre i restanti dal Prefetto, dal Consiglio comunale e da quello provinciale di Roma, ma, invece, che dei 5 consiglieri d'amministrazione "tre sono nominati dal Prefetto, uno dal Consiglio Provinciale e uno dal Consiglio Comunale di Roma" e che "il Presidente e il Vice Presidente sono scelti dal Consiglio di amministrazione della Opera Pia nel proprio seno", ossia all'interno dello stesso Consiglio di amministrazione tutto formato da componenti di nomina pubblica e non certamente designati dall'Opera Pia. 4.1.9. Del pari inconferente sarebbe l'art. 37 del regolamento organico del 1948, che "disciplina l'assistenza religiosa prevedendo che il servizio religioso è affidato ad un cappellano nominato dal Consiglio di amministrazione su designazione del Cardinale vicario che ha l'obbligo di provvedere alla assistenza religiosa e morale dei ricoverati e di esercitare le funzioni inerenti al suo ministero nell'annessa Chiesa di S. Ba.". 4.1.10. La presenza di un sacerdote che esercita le proprie funzioni sarebbe, infatti, un fatto comune a qualsiasi ospedale o a qualsiasi casa di riposo e, quindi, non dimostrerebbe "un atteggiarsi dell'attività istituzionale dell'Istituto S. Ma. ispirata alla realizzazione di una più generale finalità religiosa". 4.1.11. Inoltre, secondo l'IPAB, la previsione contenuta nel regolamento organico del 1948 non sarebbe più vigente da decenni in quanto superata da atti successivi. 4.2. Con un secondo motivo sono stati dedotti in prime cure la violazione e la falsa applicazione degli artt. 5 e 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, la violazione e falsa applicazione del d.P.C.M. 16 febbraio 1990, l'eccesso di potere sotto tutte le figure sintomatiche e, in particolare, per la carenza di istruttoria, il travisamento dei fatti, lo sviamento della causa, la manifesta contraddittorietà . 4.2.1. Nel caso di specie difetterebbe, poi, anche il requisito di cui alla lett. b) dell'art. 6 del d.P.C.M. del 1990 e, cioè, il "collegamento dell'istituzione ad una confessione religiosa", integrato o "per il tramite della designazione, prevista da disposizioni statutarie, di ministri del culto, di appartenenti ad istituti religiosi, di rappresentanti di attività religiose" ovvero "attraverso la collaborazione di personale religioso come modo qualificante di gestione del servizio". 4.2.2. Secondo il Commissario ad acta, infatti, tale requisito risulterebbe soddisfatto tenuto conto della designazione delle Suore Ma. come direttrici ed istitutrici dell'ospizio e della stipula, da parte dell'Istituto, di due convenzioni con ordini religiosi. 4.2.3. Di contro il primo parametro indicato dall'art. 6 lett. b) sarebbe inesistente, atteso che sin dallo statuto del 1908 l'Istituzione è retta da un Consiglio di amministrazione composto di cinque membri, tre sono nominati dal prefetto, uno dal consiglio provinciale ed uno dal consiglio comunale di Roma. 4.2.4. Inoltre l'art. 34 dello statuto affidava la direzione del Pio Istituto alla Congregazione delle Fi. Po. di S. Pi. D'a., tuttora esistente e diversa da quella delle Su. Fr. dei Sa. Cu., istituita solo nel 1886 sotto l'originaria denominazione di Suore Ma. e, dunque, inesistente al momento della istituzione dell'ente morale. 4.2.5. Sarebbe poi inconferente la circostanza, addotta nella relazione, della stipulazione da parte dell'Istituto ricorrente di due convenzioni con due congregazioni religiose, essendo tale scelta collegata a un processo di valutazione comparativa, che ha anche riguardato l'aspetto economico, tenuto conto della natura onerosa delle prestazioni, senza considerare, peraltro, che la durata delle convenzioni è di un anno, anche se rinnovabile. 4.3. Con un terzo motivo l'IPAB ha dedotto in prime cure l'eccesso di potere per il difetto d'istruttoria, per il difetto di motivazione e per il difetto dei presupposti, nella parte in cui è stata attribuita alla Congregazione, odierna appellata, la titolarità di rappresentanza e gestione dell'Istituto, non essendo stato effettuato alcun accertamento in ordine all'esistenza in capo alla Congregazione di una situazione giuridica idonea a giustificare il conferimento della titolarità di rappresentanza e di gestione dell'Istituto, che produce l'effetto di trasferire in capo alla Congregazione la gestione di un ingente patrimonio immobiliare, formatosi senza che la Congregazione abbia avuto alcun rilievo specifico e, in gran parte, proveniente dal lascito derivante dal testamento di Ar. Vi. Bi. che, nel 1970, epoca in cui non era certamente nemmeno ipotizzabile l'esistenza di una finalità religiosa nell'attività della IPAB, ha lasciato all'Istituto la nuda proprietà di tutti i suoi beni immobili. 4.4. Con un quarto motivo l'IPAB ricorrente ha dedotto la violazione del principio del giusto procedimento, non essendo stata consentita la partecipazione al procedimento di tutti i soggetti pubblici e privati qualificabili alla stregua di controinteressati procedimentali. 4.5. Infine, con un sesto motivo, l'Istituto ha dedotto in prime cure avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, l'illegittimità, per invalidità derivata, del decreto del Commissario ad acta del 28 settembre 2018, che ha ad oggetto l'approvazione dello statuto e dell'atto costitutivo della fondazione nascente per effetto della trasformazione dell'IPAB. 4.6. Si sono costituite nel primo grado del giudizio, resistendo al ricorso, la Congregazione, che ha eccepito l'inammissibilità del gravame per difetto di legittimazione del Commissario straordinario dell'IPAB, e il Ministero dell'Interno e l'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma e si sono costituiti, altresì, la Regione Lazio, la Città Metropolitana di Roma Capitale, Roma Capitale, e gli intervenuti ad adiuvandum Da. Br., Ro. So., Lu. Pi. e Ro. Ci., che hanno invece chiesto l'accoglimento del ricorso. 5. Con il ricorso iscritto al R.G. n. 12092/2018, la Regione Lazio ha impugnato avanti al medesimo Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, gli stessi provvedimenti, deducendo i seguenti vizi: 1) la violazione e la falsa applicazione degli artt. 5 e 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, la violazione e la falsa applicazione del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990, l'eccesso di potere sotto tutte le figure sintomatiche e, in particolare, per la carenza di istruttoria, il travisamento dei fatti, lo sviamento della causa, la manifesta contraddittorietà, con riferimento all'accertamento dell'esistenza del requisito dell'"ispirazione religiosa" di cui all'art. 3 del D.P.C.M. del 22 febbraio 1990; 2) la violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, la violazione e la falsa applicazione del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990, l'eccesso di potere sotto tutte le figure sintomatiche e, in particolare, per carenza di istruttoria, il travisamento dei fatti, lo sviamento della causa, la manifesta contraddittorietà ; 3) la violazione degli artt. 7 e ss. della l. n. 241 del 1990. 5.1. Si sono costituiti nel primo grado del giudizio la Città Metropolitana di Roma Capitale, Roma Capitale, Da. Br., Ro. Ci., Lu. Pi. e Ro. So. aderendo alle conclusioni di cui al ricorso, mentre il Ministero dell'Interno, l'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma e la Congregazione hanno resistito al ricorso. 6. Con il ricorso iscritto al R.G. n. 12141/2018, la Città Metropolitana di Roma Capitale ha impugnato avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, i due decreti prefettizi citati, deducendo le seguenti censure: 1) la violazione degli artt. 7 e 8 della l. n, 241 del 1990, dell'art. 9 della l. n. 6972 del 1890, dell'art. 5 del d.lgs. n. 328 del 2001, l'omessa comunicazione di avvio del procedimento e l'illegittima trattazione del procedimento di valutazione senza la partecipazione di tutti gli interessati, la violazione di legge (art. 7 della l. n. 241 del 1990) e l'eccesso di potere per la mancanza di completo contraddittorio; 2) la violazione e la falsa applicazione del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990 per l'erroneo/illegittimo accertamento dei requisiti di trasformazione, l'astrattezza formale della valutazione correlata al difetto di concreta istruttoria con i contributi partecipativi necessari, l'eccesso di potere per carenza di istruttoria, il difetto dei presupposti, il travisamento dei fatti, la manifesta illogicità e contraddittorietà, nonché l'illegittimità derivata del provvedimento del 28 settembre 2018. 6.1. Si sono costituiti in giudizio Roma Capitale, la Regione Lazio, Da. Br., Ro. Ci., Lu. Pi. e Ro. So., aderendo alle conclusioni del ricorso, mentre il Ministero dell'Interno, l'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma e la Congregazione ne hanno chiesto il rigetto. 7. Con il ricorso iscritto al R.G. n. 12226/2018, Roma Capitale ha impugnato avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, gli stessi decreti commissariali, sopra indicati deducendo: 1) la violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, la violazione e la falsa applicazione del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990, l'eccesso di potere sotto tutte le figure sintomatiche e, in particolare, per la carenza di istruttoria, il travisamento dei fatti, lo sviamento della causa e la manifesta contraddittorietà ; 2) la violazione e la falsa applicazione degli artt. 5 e 16 del d.lgs. n. 207 del 2001, la violazione e la falsa applicazione del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990, l'eccesso di potere sotto tutte le figure sintomatiche e, in particolare, per la carenza di istruttoria, il travisamento dei fatti, lo sviamento della causa, la manifesta contraddittorietà ; 3) l'eccesso di potere per difetto d'istruttoria, per il difetto di motivazione e per il difetto dei presupposti, nella parte in cui viene attribuita alla Congregazione la titolarità di rappresentanza e gestione dell'Istituto; 4) la violazione del principio del giusto procedimento, non essendo stata consentita la partecipazione al procedimento; 5) l'illegittimità, per invalidità derivata, del decreto del Commissario ad acta del 28 settembre 2018, che ha ad oggetto l'approvazione dello statuto e dell'atto costitutivo della fondazione nascente per effetto della trasformazione dell'IPAB. 7.1. Si sono costituiti il Ministero dell'Interno, l'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma e la Congregazione, per resistere al ricorso, mentre la Regione Lazio, la Città Metropolitana di Roma Capitale, Da. Br., Ro. Sa., Ro. Ci. e Lu. Pi. hanno aderito alle conclusioni della ricorrente. 8. Infine, con il ricorso iscritto al R.G. n. 12014/2018 i medesimi decreti sono stati impugnati sempre avanti allo stesso Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, da Da. Br., Ro. Ci., Lu. Pi. e Ro. So., dipendenti in regime di diritto pubblico, con applicazione del CCNL Regioni ed Autonomie locali, dell'IPAB, interessati a non veder modificare in peius le condizioni di lavoro e il regime di stabilità del relativo contratto. 8.1. A sostegno del ricorso in prime cure essi hanno formulato le seguenti censure: 1) la violazione e falsa applicazione della legge 17 luglio 1890, n. 6972, del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990, del d.lgs. n. 207 del 2001, della L.R. n. 11 del 2016, del d.P.R. n. 616 del 1977 e del d.P.C.M. del 21 dicembre 1978, l'eccesso di potere per il difetto di motivazione e di istruttoria, l'illogicità, la contraddittorietà e il difetto di proporzionalità, l'irragionevolezza, il travisamento di atti e fatti, lo sviamento, la manifesta ingiustizia, non avendo il Commissario prefettizio accertato la sussistenza allo stato attuale dei requisiti per la trasformazione dell'ente ed avendo lo stesso erroneamente fondato l'accertamento dell'ispirazione religiosa dell'Istituto sul testamento di Padre Si., anziché sullo Statuto del 1885 e su quello del 1908, anche con riferimento alla composizione del consiglio di amministrazione; 2) la violazione e la falsa applicazione della legge 17 luglio 1890, n. 6972, del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990, del d.lgs. n. 207 del 2001, della L.R. n. 11 del 2016, del d.P.R. n. 616 del 1977 e del d.P.C.M. del 21 dicembre 1978 sotto un ulteriore e autonomo profilo, l'eccesso di potere per il difetto di motivazione e di istruttoria, l'illogicità, la contraddittorietà e il difetto di proporzionalità, l'irragionevolezza, il travisamento di atti e fatti, lo sviamento, la manifesta ingiustizia sotto un ulteriore e autonomo profilo, con riferimento al trasferimento alla Congregazione della titolarità e rappresentanza dell'Istituto, in quanto tale determinazione non rientrava tra i compiti del Commissario, così come accertati dalle sentenze del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, e di questo Consiglio di Stato sull'obbligo di concludere il procedimento attivato per la trasformazione dell'IPAB in fondazione di diritto provato, né è stata sorretta da adeguata istruttoria e motivazione; 3) la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e ss. della l. n. 241 del 1990, la violazione del principio del giusto procedimento, l'eccesso di potere per il difetto di motivazione e di istruttoria, l'illogicità, la contraddittorietà e il difetto di proporzionalità, l'irragionevolezza, il travisamento di atti e fatti, lo sviamento, la manifesta ingiustizia sotto un ulteriore e autonomo profilo, non essendo stata consentita la partecipazione al procedimento degli enti controinteressati (Regione Lazio, Roma Capitale e Città Metropolitana di Roma Capitale), titolari del potere di nomina dei consiglieri di amministrazione dell'ente. 8.3. Si sono costituiti nel primo grado giudizio la Regione Lazio, Roma Capitale, la Città Metropolitana di Roma Capitale, chiedendo l'accoglimento del ricorso, mentre il Ministero dell'Interno, l'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma e la Congregazione ne hanno chiesto il rigetto. 9. I cinque ricorsi, così proposti, sono stati trattenuti in decisione dal primo giudice all'udienza pubblica del 9 aprile 2019. 10. Infine, con la sentenza n. 7355 del 6 giugno 2019, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, dopo avere riunito i cinque ricorsi rispettivamente iscritti al R.G. n. 11495/2018, al R.G. n. 12104/2018, al R.G. n. 12092/2018, al R.G. n. 12141/2018 e al R.G. n. 12226/2018, li ha respinti tutti e ha compensato integralmente tra le parti le spese di lite. 11. Avverso tale sentenza ha proposto appello avanti a questo Consiglio di Stato la Regione Lazio, con ricorso iscritto al R.G. n. 7310/2019, e nell'articolare tre motivi di censura che di seguito saranno esaminati, ne ha chiesto, previa sospensione dell'esecutività, la riforma. 11.1. Si sono costituiti il Ministero dell'Interno, l'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma e il Commissario nonché la Congregazione per chiedere la reiezione dell'appello, mentre la Città Metropolitana di Roma Capitale e Roma Capitale, pure costituitisi, ne hanno chiesto l'accoglimento. 11.2. Avverso la sentenza ha pure proposto avanti a questo Consiglio di Stato l'Istituto, con un separato ricorso iscritto al R.G. n. 7423/2019, e nell'articolare cinque motivi di censura che di seguito saranno esaminati, ne ha chiesto, previa sospensione dell'esecutività, la riforma. 11.3. Si sono costituiti il Ministero dell'Interno, l'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma e il Commissario nonché la Congregazione per chiedere la reiezione dell'appello, mentre la Città Metropolitana di Roma Capitale e Roma Capitale, pure costituitisi, ne hanno chiesto l'accoglimento. 11.4. Avverso la sentenza ha pure proposto avanti a questo Consiglio di Stato Roma Capitale, con un ulteriore distinto ricorso iscritto al R.G. n. 7493/2019, e nell'articolare cinque motivi di censura che di seguito saranno esaminati, ne ha chiesto, previa sospensione dell'esecutività, la riforma. 11.5. Si sono costituiti il Ministero dell'Interno, l'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma e il Commissario nonché la Congregazione per chiedere la reiezione dell'appello, mentre la Regione Lazio e la Città Metropolitana di Roma Capitale, pure costituitisi, ne hanno chiesto l'accoglimento. 11.6. Avverso la sentenza ha pure proposto avanti a questo Consiglio di Stato Città Metropolitana di Roma Capitale, con un ulteriore distinto ricorso iscritto al R.G. n. 7578/2019, e nell'articolare cinque motivi di censura che di seguito saranno esaminati, ne ha chiesto, previa sospensione dell'esecutività, la riforma. 11.7. Si sono costituiti il Ministero dell'Interno, l'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Roma e il Commissario nonché la Congregazione per chiedere la reiezione dell'appello, mentre la Regione Lazio e Roma Capitale, pure costituitisi, ne hanno chiesto l'accoglimento. 11.8. Nella camera di consiglio del 10 ottobre 2019, fissata per l'esame delle domande sospensive proposte dalle quattro parti appellanti, il Collegio, sul consenso di tutti i difensori, ritenuto di dovere decidere la controversia con sollecitudine nel merito, ne ha rinviato la trattazione all'udienza pubblica del 23 gennaio 2020. 11.9. Infine, nell'udienza pubblica del 23 gennaio 2020, il Collegio, dopo avere sentito i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in decisione. 12. Preliminarmente, ai sensi dell'art. 96 c.p.a., deve essere disposta la riunione dei quattro appelli in quanto proposti contro la stessa sentenza n. 7355 del 6 giugno 2019 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma. 13. Gli appelli, ciò premesso, sono tutti infondati. 13.1. È controversa nel presente giudizio la trasformazione dell'IPAB in fondazione di diritto privato, disposta dal Commissario ad acta prefettizio dopo la sentenza n. 745 del 5 febbraio 2018 di questo Consiglio di Stato, che ha accertato l'obbligo di provvedere in ordine all'istanza proposta dalla Congregazione, odierna appellata, ai sensi dell'art. 16, comma 2, del d.lgs. n. 207 del 2001, che dè tta disposizioni sul riordino del sistema delle IPAB nel nostro ordinamento. 14. Possono essere unitariamente esaminate, anzitutto, le censure con le quali la Regione Lazio (pp. 6-14 del ricorso), l'IPAB (pp. 10-17 del ricorso), Roma Capitale (pp. 11-22 del ricorso) e Città Metropolitana di Roma Capitale (pp. 15-18 del ricorso) lamentano che il primo giudice avrebbe erroneamente ritenuto, in violazione dell'art. 1, commi 3, lett. c), e 6, lett. a), del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990, che l'Istituto abbia avuto e mantenga tuttora una fondamentale ispirazione religiosa, presupposto necessario affinché si possa procedere alla trasformazione dell'IPAB nel caso di specie. 14.1. Le censure sono prive di fondamento. 14.2. Il primo giudice non ha ravvisato, invero, alcuna differenza di rilievo tra lo scopo, come riportato dal Commissario ad acta, di "riabilitare alla vita religiosa e cristiana", e quello di "riabilitare alla vita sociale e cristiana" nella dizione dello Statuto del 1885, essendo, di contro, evidente che la finalità di riabilitazione risulta, in ogni caso, connotata dall'impronta religiosa e spirituale come elemento caratterizzante imprescindibile dell'attività dell'Istituto. 14.3. Sotto tale profilo, pertanto, le considerazioni espresse nella relazione del Commissario ad acta si rivelerebbero, secondo la sentenza impugnata, del tutto aderenti a quanto emerge dall'esame degli atti fondativi. 14.4. Peraltro, anche la tesi dell'irrilevanza, a tal fine, del contenuto del testamento del 1898 si paleserebbe infondata, in quanto, pur tenendo conto della successione temporale che ha fatto sì che il testamento fosse intervenuto dopo il riconoscimento dell'ente e la destinazione ad esso dei beni del fondatore, le volontà di quest'ultimo assumono senz'altro rilievo al fine di ricostruire le finalità originarie della fondazione, anche considerato che il testamento ha avuto esecuzione da allora e non è stato mai successivamente contestato. 14.5. A ciò si aggiungerebbe che, come correttamente evidenziato dal Commissario a pag. 12 della relazione allegata al primo decreto, è la stessa disciplina in materia che impone di tener conto, nell'amministrazione delle vicende di enti quali quello in esame, del rispetto delle originarie finalità statutarie (art. 16 del d.lgs. n. 207 del 2001) e della coerenza con le tavole fondative e la volontà dei benefattori (art. 38, comma 4, della L.R. n. 11 del 2016). 14.6. Del pari infondata sarebbe, ad avviso del primo giudice, la doglianza incentrata, sempre nell'ambito delle censure qui in esame, sulla composizione del consiglio di amministrazione dell'Istituto, in quanto il Commissario avrebbe travisato quanto disposto dallo Statuto del 1908, ritenendo che il Presidente e il Vice Presidente del consiglio di amministrazione sarebbero dovuto essere scelti dall'Opera Pia, mentre, in realtà le due cariche avrebbero dovuto essere attribuite a due tra i componenti dell'organo, tutti di nomina pubblica. 14.7. La disposizione dello Statuto del 1908 prevedeva, infatti, che il Presidente e il Vice Presidente dell'Istituto fossero scelti dal consiglio di amministrazione dell'Opera Pia "nel proprio seno". 14.8. Orbene, anche interpretando la disposizione nel senso che le due cariche erano da attribuire a due membri dell'organo consiliare, comunque la circostanza non implicherebbe, ex se, l'esclusione dell'ispirazione religiosa dell'ente. 14.9. Come correttamente evidenziato dal Prefetto, infatti, richiamando la giurisprudenza della Cassazione in materia, il fatto che il consiglio di amministrazione sia designato da enti pubblici, circostanza non infrequente con riferimento a queste istituzioni di origine privata e ricondotte nel regime pubblicistico dalla citata legge Crispi, non impedisce che l'ente osservi e persegua una finalità religiosa. 14.10. Sempre secondo la sentenza impugnata tali disposizioni statutarie sarebbero state previste, infatti, in coerenza con il regime pubblicistico cui l'ente è stato assoggettato a partire dalla legge Crispi, e non possono essere intese, pertanto, come ostative al riconoscimento di una connotazione religiosa dello stesso ai fini della sua trasformazione, a sua volta espressamente prevista dagli interventi normativi successivi nel rispetto dei principi affermati dalla Corte costituzionale. 14.11. Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, ha anche confutato l'argomento, volto a smentire l'ispirazione religiosa dell'ente, secondo cui, sempre sulla base dello Statuto del 1908, era espressamente escluso che potesse essere imposta ai ricoverati alcuna pratica religiosa. 14.12. Il Commissario ad acta ha preso in esame tale disposizione, secondo la quale non poteva essere imposta nessuna pratica religiosa ai ricoverati che avrebbero potuto farsi assistere dal ministro di culto di appartenenza, rilevando, in modo convincente, che la stessa non poteva essere intesa quale elemento atto a smentire l'ispirazione religiosa dell'ente, essendo piuttosto preposta a tutelare la libertà di culto. 14.13. Né potrebbe sostenersi, come dedotto dai ricorrenti in prime cure, che la previsione della figura del cappellano all'interno dell'ente non assuma alcun rilievo rispetto alla questione controversa, poiché l'inserimento stabile, nell'organico dell'Istituto, di un cappellano per l'assistenza ai ricoverati e lo svolgimento regolare delle funzioni religiose corrisponde alla finalità di caratterizzare in tal modo l'attività assistenziale dell'ente, rimarcandone l'ispirazione religiosa. 14.14. A tale riguardo l'Istituto ricorrente ha poi dedotto che tale previsione, contenuta nello statuto del 1948, non sarebbe, a differenza di quanto ritenuto dal Commissario, più vigente. 14.15. In realtà le disposizioni sul personale non sono contenute nello statuto del 1948, ma nel Regolamento organico allegato allo stesso e tali disposizioni devono ritenersi attualmente vigenti, non essendo state sostituite da un nuovo regolamento al momento dell'approvazione dello statuto del 1997, tanto che quest'ultimo dispone espressamente che per tutto quanto non disciplinato troveranno applicazione le disposizioni legislative e regolamentari vigenti, ivi compreso, quindi, il regolamento allegato al precedente statuto. 14.17. Come evidenziato dalla Congregazione, la tabella organica annessa al regolamento citato prevede, oltre agli impiegati nel settore dell'amministrazione, un sanitario, sedici suore e un cappellano e sono poi previste espressamente le mansioni della Madre Superiora e delle suore. 14.18. Sulla base di tali considerazioni il primo giudice ha quindi concluso che l'accertamento operato dal Commissario ad acta con riferimento alla sussistenza dell'ispirazione religiosa dell'ente risulta coerente con gli elementi che emergono dagli atti prodotti e correttamente argomentato. 15. Le argomentazioni del primo giudice, così complessivamente riassunte, resistono alle censure qui in esame. 15.1. Gli appellanti sostengono che il primo giudice avrebbe confuso la riabilitazione alla vita religiosa e cristiana con la riabilitazione alla vita sociale e cristiana, prevista dall'art. 1 dello Statuto del 1885, senza considerare che l'art. 1 si prefiggeva lo scopo di "riabilitare alla vita sociale e cristiana quelle giovani donne [...] le quali mostrano la volontà di abbandonare la vita cattiva [...] e d'impedire che tante infelici giovinette si prostituiscano". 15.2. Altro sarebbe, essi deducono, la riabilitazione delle giovani donne traviate alla stregua della rieducazione alla vita religiosa e cristiana e altro, invece, la riabilitazione volta all'inserimento di una persona nella vita sociale, con il suo riavvicinamento ai valori della vita cristiana, oggetto dell'attività perseguita, più laicamente, dall'ente. 15.3. Un simile argomento, tuttavia, contrasta con la previsione dell'art. 1, comma 6, lett. a), del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990, laddove questo espressamente prevede, tra i requisiti per la trasformazione delle istituzioni aventi finalità religiosa in enti di diritto privato, che l'attività istituzionale "persegua indirizzi religiosi o comunque inquadri l'opera di beneficenza e assistenza nell'ambito di una più generale finalità religiosa". 15.4. Lo Statuto del 1885, anche se non persegue direttamente indirizzi religiosi, ha comunque inquadrato l'opera di beneficenza, inizialmente prevista in favore delle giovani emancipatesi dall'esercizio della prostituzione (e ora, come si dirà, in favore degli anziani disabili), nell'ambito di una rieducazione alla vita cristiana, con l'intenzione di riconvertirle ai valori del cristianesimo, perché l'endiadi "vita sociale e cristiana" non necessariamente implica la dedizione esclusiva alla vita religiosa (e/o l'ingresso in un ordine religioso), ma semplicemente la riconversione del soggetto ospitato e/o ricoverato, in base ad una volontaria adesione, ai principî della religione cattolica. 15.5. Se così è, e se questa è stata nel corso del tempo l'ispirazione di fondo impressa all'Istituto, non si vede come possa negarsi che l'opera di assistenza si inquadri nel più ampio e alto perseguimento di una finalità religiosa da parte di un ente che, nel mentre si propone l'obiettivo materiale di aiutare i più bisognosi o gli infermi, si prefigge nel contempo, e inscindibilmente, il fine spirituale di riavviarli anche ai valori della fede cristiana. 15.6. Negare o sminuire questa seconda, inequivocabile, concomitante finalità, come pretendono gli appellanti, significherebbe svalutare del tutto l'originaria, e mai rinnegata, "filosofia ispiratrice" impressa all'Istituto dal suo fondatore, non risultando invero che l'ente abbia mai perso nel tempo questa fondamentale impostazione, indipendentemente dal succedersi dei vari testamenti di Padre Si. della Na. e delle modifiche statutarie. 15.7. Anche ove si volesse considerare infatti l'art. 2 dell'attuale Statuto, approvato con la delibera della Giunta Regionale dell'11 novembre 1997, secondo cui l'Istituto ha per scopo di "accogliere, ricoverare, mantenere ed assistere persone anziane di ambo i sessi autosufficienti, le quali percepiscano la pensione di vecchiaia o l'assegno sociale, che siano incapaci di provvedere al mantenimento o siano privi di assistenza da parte dei congiunti che siano tenuti, per legge, all'obbligo di mantenimento", non si giungerebbe a conclusione diversa, perché questo scopo, attualmente perseguito, non contrasta con la finalità religiosa, nel senso sopra precisato, mai rinnegata dall'Istituto nel corso del tempo, e mantenuta quale impronta caratterizzante della sua attività per l'espresso volere del suo fondatore, Padre Si. della Na. . 15.8. Nemmeno gli odierni appellanti, si noti, hanno saputo affermare e comunque dimostrare che questa doppia "anima" dell'ente, nato per sovvenire alle necessità materiali e spirituali dei più bisognosi, sia venuta meno nel corso del tempo perché anche il solo sostenere il contrario implicherebbe tradire e smentire la sua ratio essendi fin dalla primigenia volontà fondativa. 16. Né in senso contrario giova opporre, come fa l'appellante IPAB (p. 12 del ricorso), che l'art. 11 dello Statuto del 1908, nel prevedere già al tempo che l'Istituto provvedesse, "laicamente", al ricovero e al mantenimento dei poveri di ambo i sessi inabili al lavoro (art. 1), escludesse espressamente, all'art. 11, che potesse essere imposta ai ricoverati alcuna pratica religiosa, in quanto un ente di ispirazione religiosa cristiana mai impone l'adesione al credo e alle sue pratiche ad un soggetto solo perché bisognoso, ma solo se sinceramente convinto della propria riabilitazione anche alla vita cristiana. 16.1. In questa prospettiva si colloca e si spiega anche la presenza di un cappellano, prevista stabilmente nell'organico dell'Istituto a far data dal regolamento del 1948, "per l'assistenza ai ricoverati e lo svolgimento regolare delle funzioni religiose", che gli appellanti contestano essere indice significativo dell'elemento teleologico di cui all'art. 1, comma 6, lett. a), del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990. 16.2. Essi sostengono, infatti, che tutti gli ospedali pubblici e persino le forze armate prevedono la presenza di un cappellano, senza che per ciò possa affermarsi la natura religiosa dei relativi enti, ma si tratta di un argomento che prova troppo perché, mentre la presenza di un cappellano per detti enti è prevista dalla legge, nel caso di specie essa è invece prevista dal regolamento dell'ente proprio per fornire ai ricoverati l'assistenza religiosa, che consiste un unicum inscindibile e imprescindibile con l'assistenza materiale, sicché non avrebbe senso se l'ente non si proponesse quella riabilitazione anche cristiana che accompagna, inseparabilmente, quella sociale. 16.3. Negli ospedali e nelle altre istituzioni pubbliche è previsto l'ingresso di religiosi facoltizzati ad esercitare il loro ufficio, mentre il cappellano dell'Istituto non è una presenza occasionale, come ha ben rilevato anche la difesa della Congregazione appellata, ma una figura incardinata dallo Statuto in pianta stabile e insediata con l'espresso obbligo statutario di curare l'assistenza religiosa dei ricoverati e di svolgere la funzione religiosa dell'Istituto nell'annessa chiesa di Santa Balbina. 17. Quanto alla nomina dei componenti del consiglio di amministrazione, tutti di provenienza pubblica (tre nominati dal Prefetto, uno dalla Provincia di Roma e, ora, dalla Città Metropolitana di Roma Capitale e uno, infine, da Roma Capitale), bene ha rilevato il primo giudice - sulla scia di Cass., Sez. Un., 18 settembre 2002, n. 13666 - che nulla impedisce che, in relazione allo scopo assegnato all'ente dallo statuto, alle motivazioni che presiedettero alla sua costituzione, alla tradizione radicata nella coscienza della collettività interessata alla sua azione e alle concrete modalità con le quali viene perseguito il suo scopo, un organismo amministrativo non formato da religiosi, in quanto costituito solo da soggetti nominati da enti pubblici, obbedisca nelle sue determinazioni ad un indirizzo religioso, nel senso che si è appena precisato. 17.1. Proprio come nel caso esaminato dalla citata sentenza della Cass., Sez. Un., 18 settembre 2002, n. 13666, si deve dunque escludere "l'attrazione nell'orbita delle organizzazioni rispetto alla cui azione la genericità del momento etico non consente l'emersione dalla specificità dell'elemento religioso". 17.2. Tale emersione specifica, nella costante volontà ribadita dal suo fondatore anche dopo l'erezione dell'Istituto in ente morale e per le modalità in cui si è manifestata (di cui ora meglio si dirà ), ne ha costantemente caratterizzato l'impegno pratico e l'orientamento teleologico. 17.2. Ciò basta ad affermarne la natura religiosa, anche indipendentemente da ogni questione relativa al testamento olografo del 1898 di Padre Si., che non fa che ribadire l'ispirazione religiosa dell'ente nel senso che si è precisato. 18. Possono essere ora esaminate le censure proposte dalla Regione Lazio (pp. 14-18 del ricorso), dall'IPAB (pp. 17-19 del ricorso), da Roma Capitale (pp. 22-25 del ricorso) e da Città Metropolitana di Roma Capitale (pp. 19-22 del ricorso), con cui si contesta l'erroneità della sentenza impugnata nell'avere ritenuto esistente il collegamento con una confessione religiosa attraverso la collaborazione del personale religioso come modo qualificante di gestione del servizio ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. b), del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990. 18.1. Il Commissario ad acta ha correttamente che l'attività di assistenza agli anziani ricoverati nell'Istituto si svolge con il prevalente apporto di almeno 8 religiose, con un solo dipendente con la qualifica di operatore socio-sanitario, dando atto, come si legge nella sentenza impugnata, di avere acquisito dall'Istituto le due convenzioni attualmente in corso con gli ordini religiosi e, in particolare, con la Congregazione per la messa a disposizione di non meno di 4 religiose per "l'aiuto all'ospite per il soddisfacimento di tutti i bisogni della persona" e con la Congregation fa. des di. du Ch., con lo stesso scopo. 18.2. Secondo la sentenza impugnata non si potrebbe sostenere, come hanno eccepito i ricorrenti in prime cure, che l'opera delle religiose sia prestata nell'ambito della convenzione dietro corrispettivo e, quindi, non sia qualificata dall'ispirazione religiosa, in quanto entrambe le convenzioni specificano chiaramente, come riportato dalla Commissione ad acta, che la collaborazione è prestata religionis causa. 18.3. Gli appellanti contestano queste valutazioni e assumono che le suore che prestano l'attività lo fanno in virtù di due convenzioni (annuali) e che, quindi, vengono remunerate per il lavoro svolto, non religionis causa, mentre l'attività di assistenza viene svolta in realtà da una dotazione di otto unità, tutto personale laico, al quale si affiancano anche un medico, un infermiere, un fisioterapista, oltre agli addetti (otto) preposti alla preparazione e alla somministrazione del vitto, alle pulizie dell'istituto (quattro) e al servizio di lavanderia. 18.4. Anche queste censure, però, sono prive di fondamento, in quanto l'attività svolta dalle otto suore costituisce, per così dire, il cuore e il tratto saliente dell'opera attualmente svolta dall'Istituto, consistente nell'assistenza agli anziani ospiti, mentre le altre attività svolte dal personale laico, pur essenziali per la cura degli ospiti, hanno una funzione servente e ancillare rispetto a quella svolta dalle suore. 18.5. Non vi è dubbio che l'assistenza prestata dalle religiose, al di là del mero dato numerico rispetto al novero degli altri addetti, costituisce il tratto saliente e distintivo dell'opera assistenziale dell'Istituto e tale elemento deve essere ponderato, ai fini che qui rilevano, in senso qualitativo e non già quantitativo, non comprendendosi altrimenti perché, nonostante l'assunzione del personale laico così enfatizzato dagli appellanti, l'Istituto avrebbe dovuto avvertire l'esigenza di stipulare due convenzioni a titolo oneroso, con inutile aggravio di costi, per "assumere" otto suore nella gestione del delicato servizio di assistenza, materiale e morale, agli anziani disabili ospiti dell'Istituto. 18.6. È evidente, già sol per questo e al di là di ogni illazione sul carattere oneroso delle convenzioni, l'impronta religiosa dell'Istituto, nell'ottica di cui all'art. 1, comma 6, lett. b), del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990, non rilevando in senso contrario che la collaborazione con le due Congregazioni abbia carattere temporaneo e contingente, sulla base di due convenzioni annuali a titolo oneroso e rinnovabili. 18.7. Di qui l'infondatezza di tutte le censure proposte sul punto, seppure con diversità di accenti, dai quattro appellanti. 19. Anche le censure relative al difetto di legittimazione in capo alla Congregazione proposte rispettivamente dalla Regione Lazio (pp. 18-21 del ricorso), dall'IPAB (pp. 19-21 del ricorso) e da Roma Capitale (pp. 25-29 del ricorso) sono infondate. 19.1. La sentenza n. 745 del 5 febbraio 2018 di questo Consiglio di Stato, con l'efficacia del giudicato, ha già sancito la legittimazione della Congregazione ad ottenere la titolarità dell'istituenda fondazione, in quanto costituisce circostanza pacifica che la Congregazione, prima per volontà del fondatore dell'Istituto nel testamento di Padre Si., laddove nel 1898 istituì le Su. Fr. dei Sa. Cu. come direttrici ed istitutrici dell'ente, e poi de facto nel corso degli anni, ha sempre gestito in modo prevalente e comunque connotante l'attività di assistenza materiale e morale ai bisognosi ed è l'unica ad avere quindi titolo, per l'ispirazione religiosa che contraddistingue, nei sensi sopra chiariti, l'attività dell'Istituto, a poter vantare, ed ottenere, la rappresentanza e la gestione dell'ente privato. 19.2. Non si può trascurare invero il dato, ben colto dal Tribunale nel valorizzare doverosamente la volontà del fondatore, che Padre Si. stesso nel 1886 ha fondato la Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu., designandole nel proprio testamento come direttrici, appunto, e istitutrici dell'ente e precisando, altresì, che alle stesse appartengono tutti gli attrezzi e le macchine che si trovavano all'ospizio, quale "frutto della loro fatica". 19.3. Il ruolo essenziale delle suore nell'opera di assistenza agli infermi da parte dell'Istituto, svolto costantemente nel corso del tempo, non può essere sminuito dal rilievo che il patrimonio dell'ente si sia arricchito negli anni per effetto dei lasciti da parte di vari benefattori, donatori o testatori, perché anche tali beni costituiscono, idealmente, il frutto della fatica quale tangibile riconoscimento nullo cogente animo dell'opera di essenziale assistenza prestata dalle suore, effettuato da soggetti terzi per riconoscenza, devozione o carità cristiana. 19.4. La sentenza n. 745 del 5 febbraio 2018 di questo Consiglio di Stato ha già acclarato che "si tratta della Congregazione nella quale si è trasformata la Congregazione delle Su. Te. Fr. (che originariamente gestivano l'ospizio ed erano state individuate nel testamento di Padre Si. quali direttrici dell'ospizio erede della proprietà immobiliare), e che quindi può presumersi le sia succeduta nelle situazioni giuridiche soggettive", anche e soprattutto alla luce della "posizione storicamente assunta dalla Congregazione (senza contare che, a quanto sembra, le suore prestano tuttora assistenza nella casa di cura), se appena si considera che l'art. 38 della L.R. 11/2016, al comma 7, individua ai fini della valutazione della trasformazione il criterio della "coerenza con le tavole fondative e la volontà dei benefattori, tenendo conto delle specificità delle IPAB" e che, in ogni caso, anche i criteri previsti dal d.P.C.M. 16 febbraio 1990 sottintendono la rilevanza dei collegamenti con l'istituzione religiosa". 19.5. Proprio alla luce di siffatte considerazioni, che qui hanno trovato conferma, non si può contestare la legittimazione della Congregazione, odierna appellata, ad assumere la rappresentanza e la gestione dell'istituenda fondazione di diritto privato. 20. Vanno infine respinte tutte le censure proposte dalla Regione Lazio (pp. 18-19 del ricorso), dall'IPAB (pp. 21-23 del ricorso), da Roma Capitale (pp. 29-31 del ricorso) e da Città Metropolitana di Roma Capitale (pp. 21-22 del ricorso) in ordine alla violazione delle garanzie procedimentali, previste dall'art. 7 della l. n. 241 del 1990, e del principio del giusto procedimento nei confronti di Città Metropolitana di Roma Capitale e Roma Capitale, che non sono state informate preventivamente dell'esito del procedimento. 20.1. Si tratta di censura formalistica perché, anche volendo riconoscere, per ipotesi, alla Città Metropolitana di Roma Capitale e Roma Capitale il ruolo sostanziale di controinteressate rispetto all'esito del procedimento di cui si controverte, esse non hanno in alcun modo dimostrato, anche mediante un principio di prova, gli elementi conoscitivi rivelatori di una pur minima utilità del loro apporto procedimentale, poiché non basta alla parte interessata allegare la generica, apodittica, violazione dell'art. 7 della l. n. 241 del 1990 senza nel contempo offrire al giudice amministrativo un embrionale principio di prova circa l'effettività dell'apporto procedimentale mancato, risolvendosi altrimenti la denuncia della lesione del principio del giusto procedimento in un'astratta, ininfluente, affermazione di principio o declaratoria iuris che non avrebbe mutato, per l'inesistenza di tale apporto anche laddove consentito, non già a valle le sorti della concreta vicenda amministrativa, ma a monte l'iter stesso del procedimento. 20.2. Nel caso di specie l'esistenza di uno specifico apporto partecipativo, ulteriore e differenziale rispetto a quello, conoscitivo e documentale, dei soggetti più direttamente investiti dalla vicenda (l'IPAB e la Regione), non è stata nemmeno adombrata in modo sufficientemente dettagliato da Città Metropolitana di Roma Capitale e Roma Capitale, che pure lamentano la loro pretermissione dal contraddittorio procedimentale, con la conseguenza che la censura, difettando di apprezzabile concretezza, se non addirittura inammissibile per difetto di reale interesse partecipativo, è senz'altro infondata nel merito per le ragioni esposte. 21. Discende da quanto esposto che gli appelli, infondati in tutte le loro plurime articolate censure mosse, sia per illegittimità propria che derivata, contro atti commissariali gravati, debbano essere respinti, con la conseguente integrale conferma della sentenza impugnata, anche per le ragioni tutte sopra esposte. 22. La depubblicizzazione dell'Istituto portata a termine dal Commissario ad acta, e in questo giudizio contestata senza fondamento alcuno dagli odierni appellanti, risponde pienamente ai principî e ai criterî sanciti dall'art. 1, commi 3 e 6, del d.P.C.M. del 16 febbraio 1990 e dalle disposizioni dettate d.lgs. n. 207 e del 2001 per il riordino delle IPAB, principî già affermati nelle fondamentali sentenze n. 396 del 7 aprile 1998 e n. 466 del 16 ottobre 1990 della Corte costituzionale in questa materia, e si iscrive armonicamente, peraltro, in quel complesso, ma ormai inarrestabile percorso sempre più decisamente intrapreso dall'ordinamento nella valorizzazione degli enti del c.d. terzo settore, con l'approvazione, peraltro e di recente, del relativo Codice (d.lgs. n. 117 del 2017), per la penetrazione via via maggiore, nella realtà vivente dell'esperienza giuridica, della c.d. sussidiarietà orizzontale (art. 118, comma quarto, Cost.), in base alla quale, con una nuova visione dei rapporti tra istituzioni e società e tra enti pubblici e privati, "le realtà organizzative espressive della comunità vengono così investite di compiti tradizionalmente riservati alla sfera pubblica, secondo un modello che dal 2001 ha trovato un riconoscimento anche costituzionale del nuovo quarto comma dell'art. 118 Cost." (Cons. St., comm. spec., 14 giugno 2017, n. 1405). 23. Di tale percorso la legittima trasformazione dell'IPAB in fondazione di diritto privato, qui controversa, costituisce emblematica espressione. 24. Le spese del presente grado del giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza, in solido, degli appellanti nei confronti del Ministero dell'Interno e della Congregazione, che entrambi hanno svolto attività difensiva nei giudizi qui riuniti. 24.1. Rimane definitivamente a carico degli appellanti, sempre per la soccombenza, il contributo unificato rispettivamente richiesto per la proposizione di ciascun gravame. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sugli appelli, rispettivamente proposti dalla Regione Lazio, dalla Città Metropolitana di Roma Capitale, da Roma Capitale e dall'Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza Sa. Ma., previa loro riunione, li respinge tutti e, per l'effetto, conferma anche ai sensi di cui in motivazione la sentenza n. 7355 del 6 giugno 2019 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma. Condanna in solido la Regione Lazio, la Città Metropolitana di Roma Capitale, Roma Capitale e l'Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza Sa. Ma. a rifondere in favore del Ministero dell'Interno le spese del presente grado del giudizio, che liquida nell'importo di Euro 5.000,00, oltre gli accessori come per legge. Condanna in solido la Regione Lazio, la Città Metropolitana di Roma Capitale, Roma Capitale e l'Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza Sa. Ma. a rifondere in favore della Congregazione delle Su. Fr. dei Sa. Cu. le spese del presente grado del giudizio, che liquida nell'importo di Euro 5.000,00, oltre gli accessori come per legge. Pone definitivamente a carico della Regione Lazio, della Città Metropolitana di Roma Capitale, di Roma Capitale e dell'Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza Sa. Ma. il contributo unificato richiesto per la proposizione dei rispettivi appelli. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 23 gennaio 2020, con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere, Estensore Stefania Santoleri - Consigliere Giulia Ferrari - Consigliere Solveig Cogliani - Consigliere
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