Sentenze recenti Diritto di famiglia

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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina A.R. - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ca.Gi., nato a C il (omissis); avverso la sentenza del 22/09/2022 della Corte di appello di Catania; Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Maria Sabina Vigna; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Mariella De Masellis, che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito l'avvocato Fr.Ca., quale sostituto processuale dell'avvocato Gi.Ia., in difesa di Mu.Af. (in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sul minore), che ha chiesto il rigetto del ricorso e ha depositato conclusioni scritte e nota spese; udito l'avvocato Ma.Ga., in difesa di Ca.Gi., che ha insistito per l'accoglimento dei motivi di ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Catania ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Ragusa il 22 ottobre 2018, che condannava Ca.Gi. per il reato di cui all'art. 570, secondo comma, n. 2, cod. pen., in relazione all'omesso versamento dell'assegno di mantenimento - posto suo carico con provvedimento del giudice - a favore della ex moglie e del figlio minore di età. 2. Avverso la sentenza ricorre per cassazione l'imputato deducendo i seguenti motivi: 2.1. Violazioni di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dello stato di bisogno in capo alla signora Mu.Af. e al figlio minore. Sul punto la motivazione della sentenza impugnata non tiene in alcuna considerazione: - che l'imputato, sino al 2015, ha contribuito alle spese scolastiche di suo figlio, facendogli anche dei regali; - che la casa coniugale, rimasta alla signora Mu.Af., dopo la separazione era stata acquistata con le risorse dell'imputato; - che, a partire dal 2015, il padre dell'imputato era subentrato al prevenuto nella obbligazione economica in favore della parte civile, in ragione della incapacità economica dell'imputato e in forza di una scrittura privata intervenuta tra le parti e ratificata dal tribunale; - che, per alcuni periodi, il figlio minore ha vissuto insieme al padre e al nonno, i quali hanno, necessariamente, provveduto al suo sostentamento quotidiano. Tali fatti sono stati confermati in dibattimento anche dalla parte civile. 2.2. Violazione di legge in relazione alla ritenuta capacità da parte dell'imputato di far fronte agli obblighi posti a suo carico con provvedimento del 26 novembre 2011. È stato provato che l'imputato versava in condizioni di notevoli difficoltà economiche; ciò nonostante, la Corte territoriale non ha ritenuto assoluta l'incapacità economica dell'imputato. Secondo il recente orientamento giurisprudenziale, l'imputato non si presume più economicamente capace a meno che non dimostri uno stato di totale indigenza; la capacità economica dell'imputato rientra tra gli elementi che vanno provati per potersi affermare la sua responsabilità. A tal fine, occorre tenere in considerazione tutte le peculiarità del caso specifico, senza dimenticare che l'imputato ha diritto di provvedere anche alle proprie esigenze di vita egualmente indispensabili. Tale principio non ha trovato alcun riconoscimento da parte della Corte di appello. 2.3. Violazione di legge in ordine alla ritenuta configurabilità del reato anche dopo la scrittura privata intervenuta tra le parti nel 2015, mediante la quale il padre dell'imputato volontariamente si impegnava a subentrare al figlio nell'adempimento dell'obbligo posto a suo carico. Non è configurabile il reato contestato qualora gli ex coniugi si siano attenuti ad accordi transattivi conclusi in sede stragiudiziale. Almeno da quel momento, la Corte di appello avrebbe dovuto escludere la sussistenza del reato. 2.4. Vizio di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche. La Corte territoriale non si è confrontata con le deduzioni della difesa che aveva evidenziato l'incensuratezza dell'imputato e il suo comportamento processuale. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati. 2. Occorre premettere che la condanna è intervenuta in relazione all'intero periodo in contestazione (e cioè dal 2014 fino alla sentenza di primo grado del 22 ottobre 2018). 2.1. Con riferimento al periodo 2014/2015 (esaminato nel secondo motivo di ricorso), la Corte di appello si è, correttamente, adeguata al principio di diritto, secondo il quale, in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, integra il reato di cui all'art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., la condotta del soggetto obbligato che, non versando in uno stato di indigenza, determinante l'assoluta impossibilità di contribuire al mantenimento della prole, si limita ad effettuare versamenti occasionali, ovvero sostituisce arbitrariamente la somma di danaro stabilita dal giudice civile con "regalie" di beni voluttuari o comunque inidonei ad assicurare il quotidiano soddisfacimento delle esigenze primarie. Quanto alla dedotta incapacità di adempiere, la Corte di appello ha puntualmente evidenziato che il predetto non aveva dimostrato la propria assoluta impossibilità di adempiere e che risultava provato, invece, che svolgeva l'attività lavorativa di bracciante agricolo presso l'azienda agricola di famiglia e usufruisse di altri fonti reddituali in nero. Deve, a questo proposito essere ribadita la regala iuris in base alla quale incombe all'interessato l'onere di allegare gli elementi dai quali possa desumersi l'impossibilità di adempiere alla relativa obbligazione, di talché la sua responsabilità non può essere esclusa in base alla mera documentazione formale dello stato di disoccupazione (Sez. 6, n. 7372 del 29/01/2013, S.f Rv. 254515 - 01). Il diverso orientamento di questa Corte citato dal difensore attiene, invece, alla diversa ipotesi di cui all'art. 570-bis cod. pen, che punisce gli inadempimenti degli obblighi economici originati dal procedimento di separazione dei coniugi, tanto nei confronti dei figli, quanto nel caso in cui tali obblighi siano imposti in favore del coniuge separato. Alla materia che accomuna entrambe le fattispecie -obbligo di assistenza materiale, quale proiezione del dovere di cura - solo nel caso di cui all'art. 570, comma secondo, n. 2 cod. pen., si aggiunge l'elemento specializzante dello stato di bisogno, correlato alla mancanza di mezzi di sussistenza, che giustifica un diverso bilanciamento dei beni in conflitto. In ogni caso, deve ritenersi che, avendo l'art. 570-bis ad oggetto l'inadempimento a una obbligazione civile, non può aversi alcuna inversione dell'onere della prova. 2.2. In relazione al periodo dal 2015 fino al 22 ottobre 2018 (preso in esame dai primo e dal terzo motivo di ricorso), la sentenza impugnata non si confronta, invece, con il fatto che, dal 2015, con scrittura ratificata dal Tribunale, il nonno paterno si era assunto l'obbligazione civile relativa al mantenimento del figlio. Il padre dell'imputato, pertanto, ha, a tutti gli effetti, pagato per conto dell'imputato la somma determinata da giudice civile. Si tratta di una ipotesi ben diversa da quella di percezione di eventuali elargizioni a carico della pubblica assistenza (Sez. 6, n. 46060 del 22/10/2014, D.M. Rv. 260823 - 01.), ovvero da quella nella quale i genitori delle parti intervengono in ausilio dei figli donando quanto nelle loro possibilità, così contribuendo su base volontaria al mantenimento dei nipoti, o, ancora, da quella in cui provveda in tutto o in parte al mantenimento l'altro genitore con i proventi del proprio lavoro. Tale sostituzione non elimina, infatti, lo stato di bisogno in cui versa il soggetto passivo del quale, viceversa, costituisce la prova (Sez. 6, n. 14906 del 03/02/2010, B., Rv. 247022 - 01; Sez. 6, n. 38125 del 24/09/2008, N., Rv. 241191- 01). Nel caso in cui, invece, un congiunto dell'imputato assuma formalmente l'obbligazione del predetto deve, a tutti, gli effetti, ritenersi che lo stesso, a mezzo del terzo, abbia adempiuto al versamento dell'assegno di mantenimento. 2.3.La sentenza impugnata deve, quindi, essere annullata in relazione a tale punto affinché la Corte di appello, in sede di rinvio, adeguandosi al principio di diritto sopra dettato, rivalutati, dal 2015, la sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato. 4. Il quarto motivo, avente ad oggetto la concessione delle circostanze attenuanti generiche, deve ritenersi assorbito dall'accoglimento degli altri motivi. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Catania. Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 3 giugno 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 508 del 2020, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Iv. Po., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale di (...); contro Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fi. Lo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); Dipartimento Politiche Abitative Roma Capitale, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. -OMISSIS-, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Roberta Ravasio e udito per le parti costituite l'avvocato I. Po.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. L'appellante -OMISSIS- dal 1999 risiede in Roma, via -OMISSIS-, in appartamento di proprietà di Roma Capitale della quale la assegnataria era la di lui madre, signora -OMISSIS-: 2. La stessa, appunto nel 1999, decideva di trasferire la propria residenza in altro Comune, e ad abitare l'appartamento subentrava l'odierno appellante con la sua famiglia: ciò, tuttavia, senza darne comunicazione alcuna al Dipartimento Politiche Abitative di Roma. 3. L'11 ottobre 2007 il sig. -OMISSIS- presentava istanza di regolarizzazione ai sensi dell'art. 53 della L.R. Lazio n. 57/2006. Detta istanza veniva esitata con nota del 22 dicembre 2016 con la quale si comunicava al sig. -OMISSIS- il diniego: a motivo della decisione il Dipartimento Politiche Abitative di Roma allegava che alla data del 20 novembre 2006 l'appartamento era ancora assegnato alla signora -OMISSIS-, deceduta il 9 gennaio 2007 e che l'uso dell'appartamento da parte del sig. -OMISSIS- non integrava abusiva occupazione dell'immobile che legittimava la regolarizzazione ai sensi dell'art. 53 della L.R. 27/2006. 4. Avverso tale determinazione il sig. -OMISSIS- ha proposto impugnazione al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, e con motivi aggiunti ha anche impugnato il decreto di rilascio n. 25917 del 28 marzo 2019, a mezzo del quale si intimava al sig. -OMISSIS- lo sgombero dell'immobile entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento. 5. Con la sentenza in epigrafe indicata il TAR ha respinto il ricorso e i motivi aggiunti. 4.1. A motivo della decisione il TAR ha ritenuto circostanza pacifica quella secondo cui la signora -OMISSIS- era legittima assegnataria dell'immobile, presso il quale aveva conservato la propria residenza sino al decesso, avvenuto il 9 gennaio 2007. Di conseguenza l'utilizzo dell'appartamento da parte del figlio avrebbe potuto configurare occupazione abusiva di esso solo se avvenuta dopo il decesso della assegnataria, tenuto conto del fatto che la morte dell'assegnatario determina la decadenza dal provvedimento amministrativo ad personam e la risoluzione di diritto del contratto di locazione per la stretta interdipendenza esistente tra il provvedimento concessorio (assegnazione) e il negozio stipulato tra amministrazione e privato. Ha inoltre precisato il TAR, in replica agli argomenti dell'appellante, che l'allontanamento dell'appartamento da parte della signora -OMISSIS- e il subentro del sig. -OMISSIS- nell'utilizzo di esso integrava parziale cessione dell'alloggio, implicante, ai sensi di quanto previsto dall'art. 53, comma 5, della L.R. n. 27/2006, decadenza dalla assegnazione che preclude all'occupante l'acquisto dell'immobile o la regolarizzazione della posizione amministrativa. 5. Avverso tale decisione ha proposto appello il sig. -OMISSIS-. 6. Roma Capitale si è costituita in giudizio per resistere al gravame. 7. La causa è stata chiamata e trattenuta in decisione all'udienza straordinaria del 6 marzo 2024. DIRITTO 8. Con il primo motivo d'appello si denuncia l'erroneità della sentenza per non aver ritenuto formato il silenzio-assenso sulla istanza di regolarizzazione presentata dall'appellante, secondo quanto previsto dall'art. 20 della L. n. 241/90, tenuto conto del fatto che l'istanza dell'11 ottobre 2007 è stata evasa solo il 22 dicembre 2016. 8.1. La censura è infondata. La giurisprudenza è consolidata nel senso di affermare che l'art. 20 della L. n. 241/90 non si applica alla materia dell'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica (Cons. Stato, Sez. V, n. 1013 del 19 febbraio 2018 e n. 4014 del 23 giugno 2020; Cass. Civ. SS.UU. n. 20761 del 20 luglio 2021; Corte d'Appello di Roma, n. 6316 del 4 ottobre 2023). 9. Con il secondo motivo d'appello si deduce violazione dell'art. 53 della L.R. 27/2006: rileva l'appellante che l'allontanamento della madre dall'alloggio non era stato evidenziato, nel corso del procedimento, e quindi il provvedimento impugnato non poteva aver esaminato tale circostanza ai fini della decisione; sotto diverso profilo l'appellante contesta la statuizione del TAR secondo cui vi sarebbe stata cessione parziale dell'immobile, tenuto conto del fatto che la signora -OMISSIS-, pacificamente, si era stabilmente trasferita da tempo a vivere con la propria figlia. 9.1. La censura è irrilevante. 9.1. Infatti, anche a voler ritenere che la signora -OMISSIS- si fosse effettivamente trasferita dalla figlia, rimane il fatto, correttamente indicato nel provvedimento impugnato, che il subentro del figlio nell'appartamento non può aver integrato una ipotesi di occupazione "senza titolo". Sebbene l'allontanamento o l'abbandono dell'alloggio in assegnazione, così come la cessione a terzi di esso, sia causa di decadenza, questa non si verifica automaticamente, ma deve essere accertata dall'amministrazione, ragione per cui la decadenza dalla assegnazione opera solo dal momento dell'accertamento (art. 13, comma 1, L.R. n. 12/1999). Ne consegue che, correttamente, l'amministrazione, che non ha mai accertato l'inveramento di una causa di decadenza a carico della signora -OMISSIS-, nel provvedimento impugnato ha ritenuto la stessa legittima assegnataria sino al suo decesso, avvenuto nel 2007. 9.2. Ai fini della regolarizzazione l'art. 53 della L.R. n. 27/2006 presuppone(va) che alla data del 20 novembre 2006 il richiedente la regolarizzazione occupasse l'immobile "senza titolo": ma nella fattispecie il sig. -OMISSIS- legittimamente occupava l'alloggio in forza del titolo di assegnazione rilasciato alla madre, considerato che l'assegnazione consente l'uso del bene a tutti i componenti del nucleo famigliare, che comprende anche i figli legittimi con i loro conviventi. 9.3. Pertanto è evidente che nel caso di specie non ricorrevano i presupposti perché l'istanza di regolarizzazione presentata dal sig. -OMISSIS- potesse essere accolta, ragione per cui il provvedimento impugnato non potrebbe comunque essere annullato in applicazione dell'art. 21 octies della L. n. 241/90. 10. L'appello va, conclusivamente, respinto. 11. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante al pagamento, nei confronti di Roma Capitale, delle spese relative al presente grado di giudizio, che si liquidano in Euro. 3.000,00 (tremila), oltre accessori, se per legge dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 marzo 2024, celebrata in videoconferenza ai sensi del combinato disposto degli artt. 87, comma 4 bis, c.p.a. e 13 quater disp. att. c.p.a., aggiunti dall'art. 17, comma 7, d.l. 9 giugno 2021, n. 80, recante "Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l'efficienza della giustizia", convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Oreste Mario Caputo - Presidente FF Giovanni Tulumello - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Ugo De Carlo - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per l' Umbria Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA 1. sul ricorso numero di registro generale 1017 del 2023, integrato da motivi aggiunti, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro - Ministero dell'Interno, Ufficio Territoriale del Governo di Perugia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, anche domiciliataria ex lege in Perugia, via (...); - Questura di Perugia, non costituita in giudizio; 2. sul ricorso numero di registro generale 30 del 2024, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Al. Fo., El. Ma. e An. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Interno, Ufficio Territoriale del Governo di Perugia, Questura di Perugia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, anche domiciliataria ex lege in Perugia, via (...); nei confronti -OMISSIS-, non costituito in giudizio; per l'annullamento 1. quanto al ricorso n. 1017 del 2023: per quanto riguarda il ricorso introduttivo: - del decreto della Prefettura di Perugia - Ufficio Territoriale del Governo prot. n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, Area I - Ordine e Sicurezza Pubblica e Tutela della Legalità Territoriale, notificato il -OMISSIS-, con il quale "è fatto divieto (al ricorrente) di detenere le armi e le munizioni in suo possesso, che dovranno essere ritirate dal Comando Stazione Carabinieri di -OMISSIS-, unitamente alla licenza di porto di fucile di cui il predetto è titolare, all'atto della notifica del presente decreto. Si ingiunge al predetto di cedere le stesse a persona non convivente entro e non oltre il termine di 150 giorni dalla data di notifica del presente decreto, ammonendolo che, scaduto tale termine, se inadempiente, le armi e le munizioni si intenderanno confiscate e saranno versate, a cura della Stazione Carabinieri di -OMISSIS- e in assenza di ulteriori comunicazioni da parte di questa Prefettura, alla competente Direzione Artiglieria, ai sensi e per gli effetti dell'art. 6 della Legge 22.5.1975, n. 152", con ogni riconnessa sanzione e/o conseguenza pregiudizievole; - nonché di ogni altro atto o provvedimento connesso, presupposto e/o consequenziale, anche allo stato non conosciuto ove lesivo degli interessi del ricorrente, ivi inclusa la nota della Stazione Carabinieri di -OMISSIS- n. -OMISSIS--1 del -OMISSIS-; per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati il 16/2/2024: - del decreto prot. n. -OMISSIS-, emesso in data -OMISSIS-, notificato il -OMISSIS-, con il quale il Questore di Perugia ha revocato al ricorrente il porto d'armi ad uso venatorio n. -OMISSIS- per quanto riguarda gli ulteriori motivi aggiunti presentati il 19/4/2024: del decreto della Prefettura di Perugia n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, notificato il -OMISSIS-, con il quale è stato definito il procedimento amministrativo avviato in esecuzione dell'Ordinanza del TAR Umbria n. -OMISSIS- e confermato il precedente provvedimento n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, con il quale è stato fatto divieto al ricorrente di detenere armi e munizioni. 2. quanto al ricorso n. 30 del 2024: - del decreto nr. -OMISSIS- del -OMISSIS- della Prefettura di Perugia - Ufficio Territoriale del Governo, notificato in pari data, con il quale è stato "fatto divieto al (ricorrente) di detenere le armi e le munizioni in suo possesso"; - del decreto prot. nr. -OMISSIS- emesso in data -OMISSIS- dal Questore della Provincia di Perugia e notificato il -OMISSIS-, con il quale è stata revocata la licenza di porto d'armi uso venatorio n. -OMISSIS-, rilasciata al (ricorrente) il -OMISSIS- dal Commissariato di P.S. di -OMISSIS-; di ogni altro atto presupposto, connesso, consequenziale o comunque collegato. Visti i ricorsi i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno, Ufficio Territoriale del Governo di Perugia e Questura di Perugia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 maggio 2024 il dott. Pierfrancesco Ungari e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. All'origine delle cause in esame vi è la conflittualità esistente tra gli odierni ricorrenti, padre e figlio, residenti in appartamenti ubicati in piani diversi dello stesso stabile. 1.1. In particolare, in data -OMISSIS-, si è verificata tra i due un'accesa lite (con minacce da parte del figlio) all'interno della stazione dei Carabinieri di -OMISSIS-; venti giorni prima, a dire del padre, il figlio lo aveva aggredito fisicamente, causandogli un ematoma all'addome. 1.2. Secondo quanto riferito nel rapporto redatto dai Carabinieri in quell'occasione (e non confutato, sotto il profilo fattuale, dagli interessati, salvo quanto appresso specificato), il figlio rimprovera al padre di intrattenere una relazione sentimentale, di aver trascurato ed offeso la madre, da cui è separato, malgrado sia affetta da una grave malattia che richiede assistenza quotidiana, e di aver sperperato il patrimonio di famiglia; mentre il padre, lamenta che il figlio non perda occasione per insultarlo ed abbia un carattere aggressivo. 1.3. Ciò ha indotto l'UTG di Perugia a disporre, nei loro confronti, mediante distinti provvedimenti in data -OMISSIS-, il divieto di detenzione di armi e munizioni, in applicazione dell'art. 39, del TULPS; e, conseguentemente, il Questore di Perugia a revocare, mediante distinti provvedimenti in data -OMISSIS-, le licenze di porto d'armi ad uso venatorio da essi possedute. 1.4. Nei provvedimenti di divieto si sottolinea che le armi di entrambi sono custodite all'interno di un caveau, ubicato nel sottoscala dell'edificio; e si afferma, in sintesi, che "La richiamata situazione di conflittualità famigliare, tenuto conto della sua attualità e gravità, risulta del tutto incompatibile con una sicura detenzione delle armi da parte di tutti i soggetti coinvolti" (nel provvedimento riguardante il figlio, viene sottolineata anche "un'insufficiente capacità di controllo dei propri impulsi ed emozioni"). 2. Il primo dei ricorsi in esame (NRG -OMISSIS-) è stato proposto dal padre nei confronti del provvedimento di divieto. 2.1. Il ricorrente ha lamentato, in sostanza: la mancanza dei presupposti richiesti dall'art. 39, in combinato disposto con l'art. 11, del TULPS, in ragione dell'omessa considerazione della sua situazione personale complessiva (ha la licenza di caccia da cinquant'anni e non ha mai dato adito a rilievi negativi); il travisamento dei fatti (essendo l'accaduto, ed in particolare l'atteggiamento violento, interamente addebitabili al figlio, abitando i due in diverse unità immobiliari ed essendo le armi custodite in un caveau di cui il ricorrente ha la esclusiva disponibilità ); l'ingiustificata omissione della partecipazione procedimentale. In conclusione, i provvedimenti risulterebbero sproporzionati, impedendo al ricorrente di svolgere la propria attività lavorativa (è -OMISSIS- di un'azienda agrituristico-venatoria). 2.2. Questo Tribunale ha esaminato il ricorso in sede cautelare, accogliendo con ordinanza n. -OMISSIS- la domanda di sospensiva, ai soli fini del riesame. 2.3. Con motivi aggiunti, il ricorrente ha poi impugnato il provvedimento di revoca, riproponendo, oltre a censure di invalidità derivata, quelle dedotte con il ricorso introduttivo. 2.4. L'UTG di Perugia ha eseguito il riesame, adottando in data -OMISSIS- un provvedimento che conferma il divieto di detenzione, sulla base di una motivazione più argomentata, che prende in considerazione (oltre all'esistenza di alcune denunce pregresse nei confronti del ricorrente, laddove nel primo divieto risultava indicata solo la pendenza di un procedimento penale per -OMISSIS-): - la situazione di conflittualità famigliare, e sottolinea, in particolare, come "la circostanza di risiedere nel medesimo immobile favorisce di per sé la possibilità di frequenti incontri tra i predetti, che potrebbero costituire occasione di ulteriori, gravi alterchi; (...) pur non risultando imputabili al (ricorrente per motivi aggiunti) i comportamenti aggressivi verificatisi in ambito familiare, la detenzione di armi da parte del predetto appare comunque inopportuna. Non può, infatti, escludersi, sulla base di un giudizio prognostico, il pericolo di abuso delle stesse, sia da parte del medesimo (...) a seguito di reazioni inconsulte che potrebbero derivare da ulteriori accesi alterchi con il figlio (...), sia da parte di quest'ultimo, il quale potrebbe impossessarsi delle armi del genitore custodite nel caveau (ad uso promiscuo) di famiglia"; - l'incidenza del divieto sull'attività lavorativa, sottolineando che non preclude il mantenimento dell'incarico di -OMISSIS- dell'azienda agrituristica venatoria, potendo la vigilanza durante le battute di caccia essere delegata a guardiacaccia, di cui l'azienda dispone. 2.5. Il ricorrente lo ha impugnato mediante ulteriori motivi aggiunti, sostenendo il carattere meramente confermativo del provvedimento, e comunque riproponendo, con argomentazioni più articolate, le censure sostanzialmente già dedotte. In particolare, ha stigmatizzato che non sia stata adeguatamente considerata la motivazione del remand, in cui era stata sottolineata la possibilità "che la doverosa cautela nel rilascio (mantenimento) dei titoli autorizzativi relativi alle armi venga assicurata mediante strumenti diversi dal divieto di detenzione nei confronti del ricorrente", ed ha ribadito le caratteristiche di sicurezza ed accesso controllato del caveau dove sono custodite le armi. 3. Il secondo ricorso (NRG n. -OMISSIS-) è stato proposto dal figlio avverso entrambi i provvedimenti che lo riguardano, il quale ha lamentato, in sostanza, l'ingiustificata omissione della partecipazione procedimentale, la mancanza dei presupposti richiesti dagli artt. 11, 39 e 43 del TULPS, il travisamento dei fatti. 3.1. Il giudizio di inaffidabilità non sarebbe supportato da un'adeguata istruttoria e motivazione, anche considerato che si è trattato di uno semplice "sfogo tra padre e figlio", senza alcun episodio di violenza (l'episodio dell'aggressione riferito dal padre sarebbe "del tutto indimostrato e privo di qualsiasi riscontro oggettivo") e senza che sia stata presa in esame la complessiva personalità e condotta di vita del ricorrente. 3.2. Il divieto difetta comunque di proporzionalità ; l'accaduto avrebbe ben potuto ed anzi dovuto indurre l'Amministrazione a disporre, in via cautelativa, la sospensione temporanea della licenza, in applicazione dell'art. 10 del TULPS, in considerazione dei rilevanti profili di incertezza e indeterminatezza che connotano la vicenda, tali da non permettere un'attendibile valutazione sulla pericolosità e non affidabilità del ricorrente. 3.3. Anche il secondo ricorrente sottolinea il pregiudizio alla propria attività lavorativa di -OMISSIS- di sistemi di sicurezza, compresi quelli di puntamento delle armi. 4. In entrambi i giudizi, l'Amministrazione si è costituita ed ha controdedotto puntualmente, ribadendo che la condotta dei ricorrenti e la situazione in cui si trovano giustificava l'adozione del divieto, e chiedendo il rigetto dei ricorsi. 5. Le parti hanno depositato memorie e repliche, puntualizzando le rispettive difese. 6. I ricorsi possono essere riuniti, risultando evidente la loro connessione oggettiva e soggettiva. 7. Occorre anzitutto precisare che il provvedimento adottato in esecuzione della misura cautelare di riesame (NRG -OMISSIS-) non ha carattere meramente confermativo, come sostiene il ricorrente, bensì confermativo in senso proprio, risultando l'esito di un approfondimento degli elementi rilevanti, supportato da una più estesa motivazione. 8. Il Collegio sottolinea poi che, a seguito dei depositi documentali in corso di giudizio, non è più in discussione l'incidenza negativa concreta del divieto sullo svolgimento delle attività lavorative dei ricorrenti. Peraltro, risulta anche accertato che tale incidenza investe solo una parte delle attività potenzialmente ricomprese nei rispettivi incarichi professionali, e sarebbe in qualche modo ovviabile (anche se, è presumibile, ciò comporterebbe oneri o svantaggi). 9. Le acquisizioni processuali hanno anche consentito di accertare che le armi erano e sono custodite in un caveau situato al piano terra dell'immobile in cui entrambi i ricorrenti (ancorché in distinte unità immobiliari) risiedono, le cui chiavi sono attualmente detenute da un altro figlio, estraneo (così come un terzo figlio) alla conflittualità in questione. 10. Occorre a questo punto ricordare, sul piano dei principi, che, secondo la giurisprudenza consolidata (cfr., di recente e riassuntivamente, Cons. Stato, III, n. 358-OMISSIS- e n. 923/2023; TAR Umbria, n. 655/2023; vedi anche, idem, n. -OMISSIS-): - il potere di rilasciare le licenze in materia di armi costituisce una deroga al divieto sancito dall'art. 699 c.p. e dall'art. 4, comma 1, legge 110/1975; la regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l'autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell'Autorità di pubblica sicurezza prevenire; - infatti, la Corte Costituzionale ha sottolineato, sin dalla sentenza n. 440/1993, che "il porto d'armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse" e che "dalla eccezionale permissività del porto d'armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell'autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli e situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti"; cosicché "deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell'ambito di bilanciamenti che - entro il limite della non manifesta irragionevolezza - mirino a contemperare l'interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d'armi per motivi giudicati leciti dall'ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l'incolumità pubblica: beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi" (sent. n. 109/2019); - la giurisprudenza amministrativa, nel solco dei principi affermati dalla Corte Costituzionale, è consolidata nel ritenere che il porto d'armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, rappresentando un'eccezione al normale divieto di detenere armi e potendo essere riconosciuto soltanto a fronte della perfetta e completa sicurezza circa il loro buon uso, in modo da scongiurare dubbi o perplessità, sotto il profilo prognostico, per l'ordine pubblico e per la tranquilla convivenza della collettività (cfr., ex multis, Cons. Stato, III, n. 1972/2019 e n. 3435/2018); - ai sensi degli artt. 11, 39 e 43 del TULPS, l'Amministrazione può legittimamente fondare il giudizio di "non affidabilità " del titolare del porto d'armi valorizzando il verificarsi di situazioni genericamente non ascrivibili alla "buona condotta" dell'interessato, non rendendosi necessario al riguardo né un giudizio di pericolosità sociale del soggetto né un comprovato abuso nell'utilizzo delle armi (Cons. Stato, III, nn. 6812/2018, 4955/2018, 2404/2017, 4518/2016, 2987/2014, 4121/2014; VI, n. 107/2017) in quanto, ai fini della revoca della licenza, l'Autorità di pubblica sicurezza può apprezzare discrezionalmente, quali indici rivelatori della possibilità di abuso delle armi, fatti o episodi anche privi di rilievo penale, indipendentemente dalla riconducibilità degli stessi alla responsabilità dell'interessato, purché l'apprezzamento non sia irrazionale e sia motivato in modo congruo (Cons. Stato, VI, n. 107/2017; III, nn. 3502/2018, 2974 del 2018), trattandosi di un provvedimento, privo di intento sanzionatorio o punitivo, avente natura cautelare al fine di prevenire possibili abusi nell'uso delle armi a tutela delle esigenze di incolumità di tutti i consociati (Cons. Stato, III, n. 2974/2018); - il giudizio che riguardo a detti profili compie l'Autorità di pubblica sicurezza è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che presuppone una analisi comparativa dell'interesse pubblico primario, degli interessi pubblici secondari, nonché degli interessi dei privati, oltre che un giudizio di completa affidabilità del soggetto istante basato su rigorosi parametri tecnici; nello specifico settore delle armi, tale valutazione comparativa si connota in modo peculiare rispetto al giudizio che tradizionalmente l'Amministrazione compie nell'adottare provvedimenti permissivi di tipo diverso; la peculiarità deriva dal fatto che, stante la ricordata assenza di un diritto assoluto al porto d'armi, nella valutazione comparativa degli interessi coinvolti assume carattere prevalente, nella scelta selettiva dell'Amministrazione, quello di rilievo pubblico, inerente alla sicurezza e all'incolumità delle persone, rispetto a quello del privato; - l'apprezzamento discrezionale rimesso all'Autorità di pubblica sicurezza involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene le armi o aspira ad ottenerne il porto; a tal fine, l'Amministrazione è chiamata a compiere una valutazione in ordine al pericolo di abuso delle armi, secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico; - tale esegesi è peraltro confermata sul piano legislativo dalla formulazione dell'art. 39 del TULPS, laddove, nel prevedere che "il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, denunciate ai termini dell'articolo precedente, alle persone ritenute capaci di abusarne", considera sufficiente l'esistenza di elementi che fondino solo una ragionevole previsione di un uso inappropriato. 11. Con specifico riferimento a vicende analoghe a quella in esame, è stato ritenuto, condivisibilmente, che una situazione di conflittualità familiare nella sua oggettività è valido motivo per l'emanazione di provvedimenti interdittivi in tema di armi, a prescindere dalla responsabilità della sua causazione (cfr. TAR Toscana, II, n. 1305/2022). In tali situazioni, infatti, ciò che l'amministrazione è chiamata a valutare è il pericolo che la situazione di conflitto familiare in atto, nella sua oggettività ed a prescindere da chi ne sia responsabile, possa degenerare in fatti antigiuridici, le cui conseguenze potrebbero essere ulteriormente aggravate dalla disponibilità delle armi (cfr. TAR Umbria, n. 303/2023). 12. Ciò stante, la conflittualità tra i ricorrenti - che, secondo quanto emerge dagli atti, è dovuta a vicende personali, ha radici profonde e non è venuta meno - la vicinanza delle abitazioni dei ricorrenti e l'ubicazione del luogo di custodia delle armi (ancorché il caveau sia sottoposto a sistemi di videosorveglianza) fanno sì che risulti tutt'altro che illogico il giudizio di inaffidabilità nella detenzione delle stesse formulato dall'Amministrazione nei confronti di entrambi, quali che possano ritenersi le responsabilità di ciascuno di essi nell'aver determinato tale situazione. 13. In altri termini, la situazione fattuale è stata presa in esame dall'Amministrazione e ritenuta, con valutazione che risulta immune dalle censure formulate dai ricorrenti, sufficiente a giustificare il divieto di detenzione delle armi e la revoca dei titoli autorizzatori di p.s. conseguenti (che del primo costituisce una conseguenza naturale e praticamente vincolata - cfr. Cons. Stato, III, nn. 3583/2024, 1292/2013). Detta situazione, si ripete, a prescindere da ogni ulteriore considerazione in ordine alle condotte dei ricorrenti, è stata reputata suscettibile di costituire il sostrato di fatti antigiuridici ben più gravi ed una simile valutazione non risulta irragionevole, tenuto conto che lo scopo del potere attribuito in materia alla pubblica amministrazione è proprio quello di evitare che tali fatti abbiano a verificarsi. Pertanto, non può nemmeno ritenersi sproporzionata l'utilizzazione dello strumento cautelare del divieto (con correlata sottrazione della disponibilità materiale delle stesse), non essendo sufficiente a conseguire lo scopo la mera sospensione della licenza di uso delle armi. 14. In conclusione, i ricorsi sono infondati e devono pertanto essere respinti. 15. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Umbria Sezione Prima, definitivamente pronunciando sui ricorsi, come in epigrafe proposti, previa riunione, li respinge. Condanna i ricorrenti al pagamento in favore dell'Amministrazione, della somma di euro 1.000,00 (mille/00), oltre agli oneri ed accessori di legge, ciascuno, per spese di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare i ricorrenti. Così deciso in Perugia nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Pierfrancesco Ungari - Presidente, Estensore Daniela Carrarelli - Primo Referendario Davide De Grazia - Primo Referendario

  • REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto LUCIO NAPOLITANO Presidente LUCIANO CIAFARDINI Consigliere RICCARDO ROSETTI Consigliere UP – 09/05/2024 FEDERICO LUME Consigliere ROSANNA ANGARANO Consigliere rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 28141/2016 R.G. proposto da: FARMA CARMINE PETRONE S.R.L. E FIN POSILLIPO S.P.A. rappresentate e difese dall’Avv. Michele di Fiore ed elettivamente domiciliate presso l’indirizzo pec di quest’ultimo micheledifiore@ avvocatinapoli.legalmail.it – ricorrenti – contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende, – controricorrente – IRAP IRES AVVISO ACCERTAMENTO 2 avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. CAMPANIA n. 6891/2016, depositata il 15 luglio 2016. udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 maggio 2024 dal Consigliere Rosanna Angarano; dato atto che il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto il rigetto dei primi tre motivi di ricorso e l’accoglimento del quarto. sentiti l’Avv. Michele Di Fiore per i ricorrenti e l’Avv. dello Stato Eva Ferretti per l’Agenzia delle entrate. FATTI DI CAUSA 1. La Farma Carmine Petrone s.r.l. e la Fin Posillipo s.p.a., nelle rispettive qualità di consolidata e consolidante, ricorrono nei confronti dell’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha rigettato l’appello delle contribuenti avverso la sentenza della C.t.p. di Napoli che, a propria volta, aveva rigettato il ricorso avverso l’avviso di accertamento con il quale, per l’anno di imposta 2008, l’Ufficio aveva recuperato a tassazione un maggiore imponibile. 2. L’Ufficio, con una prima ripresa, riteneva che gli importi erogati per liberalità alla associazione con personalità giuridica «Zia Agnesina», riconducibile alla famiglia Petrone, cui facevano pure capo la società erogante e la sua consolidante, non potessero essere dedotti ai sensi dell’art. 100, comma 2, lett. a) t.u.i.r., in quanto la beneficiaria, di fatto, non svolgeva, né aveva mai svolto, l’attività di assistenza sociale e sanitaria prevista nello Statuto.; con una seconda ripresa, riteneva non deducibili i costi di manutenzione sostenuti su un immobile di proprietà di terzi e detenuto in locazione dalla Farma Carmine Petrone s.r.l. RAGIONI DELLA DECISIONE 3 1. Con il primo motivo (§. 2) le società ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 101, comma 2, lett. a) t.u.i.r. Censurano la sentenza impugnata per aver negato la deducibilità delle erogazioni liberali in favore dell’Associazione «zia Agensina» sul presupposto che quest’ultima avesse utilizzato le somme ricevute per investimenti in strumenti finanziari ed in quanto la somma erogata non era stata effettivamente destinata all’attività solidale. Osservano che il reimpiego delle somme (per la parte eccedente il 12 per cento destinato all’attività solidaristica) in strumenti finanziari non può essere considerato esercizio di ulteriore attività in quanto funzionale a salvaguardarne il valore in attesa dell’utilizzo e valutabile come mera attività di gestione ed amministrazione del patrimonio, non idonea ad integrare un’attività commerciale. Aggiungono che l’utilizzo solo del 12 per cento delle liberalità per lo scopo solidaristico, pure accertato, è circostanza irrilevante in quanto la disposizione non prevede un termine, né l’impiego integrale dei contributi ricevuti. 2. Con il secondo motivo (§ 3) denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 36 d.gs. 29 dicembre 1992, n. 546 e la nullità della sentenza per motivazione apparente e, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 101, comma 2, lett. a) t.u.i.r. Criticano la sentenza impugnata per avere «implicitamente» aderito alla tesi dell’Ufficio secondo la quale le erogazioni ricevute dalla beneficiaria avrebbero dovuto essere impiegate «per intero e subito» e muovono due diverse censure. Con la prima assumono la carenza di motivazione perché resa in forma implicita. In via subordinata osservano che la norma richiamata non richiede un termine entro il quale il beneficiario deve impiegare i contributi ricevuti e non condiziona la deducibilità ad una valutazione 4 quantitativa del raggiungimento delle finalità istituzionali, occorrendo solo che il beneficiario svolga «esclusivamente» l’attività solidaristica; censurano, quindi, la sentenza impugnata per aver ritenuto non sufficiente l’impiego parziale (nella misura del 12 per cento dei contributi ricevuti) a soddisfare il requisito di cui all’art. 100 cit. 3. Con il terzo motivo (§ 4) denunciano in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. In premessa osservano che la statuizione con la quale la C.t.p. aveva affermato l’esistenza di una commistione di interessi tra erogante e beneficiaria ed aveva sostenuto che l’Associazione fosse stata utilizzata dalla famiglia Petrone, cui erano entrambe riconducibili, al fine di abusare del diritto alla deduzione degli oneri, andrebbe valutata alla stregua di obiter dictum; ciononostante, per l’ipotesi subordinata in cui, invece, si ritenesse che detta affermazione fosse espressione di una seconda ratio decidendi, censurano la sentenza impugnata per non essersi pronunciata sul vizio di ultra-petizione, già proposto con l’appello, e motivato in ragione del fatto che si trattava di argomento non speso dall’Ufficio. 4. Con il quarto motivo (§ 5) denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 109, comma 5, t.u.i.r. Censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la deducibilità delle quote di ammortamento delle spese di ristrutturazione dell’immobile tratto in locazione sul presupposto che, beneficiandone solo il locatore, mancherebbe l’inerenza, la quale ultima, invece, presupporrebbe che i miglioramenti siano eseguiti su immobili destinati all’esercizio di un’attività destinata a produrre utili. Assumono che tale distinzione non è presente nell’art. 109 t.u.i.r. per il quale rileva il solo collegamento funzionale tra spese ed attività 5 che dà luogo ai ricavi e che, diversamente opinando, la norma dovrebbe ritenersi incostituzionale. 5. Va preliminarmente esaminata la prima censura di cui al secondo motivo in quanto con la medesima si denuncia un error in procedendo, ravvisato nella parvenza della motivazione per mero rinvio alla tesi dell’Ufficio; detto vizio, infatti, ove esistente, determinerebbe la nullità della sentenza. La censura è infondata. 5.1. La C.t.r. ha ritenuto, con riferimento alla prima ripresa fiscale, che non sussistevano le condizioni per la deduzione in quanto l’ente beneficiario, costituito nel 1998 dalla famiglia Petrone, non aveva effettivamente destinato le somme erogate all’attività sociale, stante le modalità di utilizzazione di queste ultime. Ha rilevato, infatti, che dal controllo effettuato era risultato che l’Associazione aveva investito la liquidità raccolta in strumenti finanziari; che le spese istituzionali coprivano meno del 12 per cento di quanto incassato nell’anno; che, data la commistione di interessi tra erogante e beneficiario, entrambi facenti capo alla famiglia Petrone, le scelte di gestione delle somme ricevute erano sostanzialmente riconducibili al soggetto erogante. Ha aggiunto che la ratio dell’agevolazione risiedeva nel principio di sussidiarietà e che la deduzione era vincolata all’affettivo beneficio sociale di natura solidaristica. 5.2. La ratio decidendi, così come sopra sintetizzata,sottesa alla statuizione di indeducibilità, non soltanto non risulta esposta in modo implicito, ma nemmeno riproducendo pedissequamente atti dell’Amministrazione. Per altro, questa Corte, a Sezioni Unite, ha anche chiarito che nel processo tributario, così come in quello civile, non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte, eventualmente senza nulla aggiungere ad esso, qualora le ragioni della decisione 6 siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato. Si è precisato, infatti, che una volta assunta la decisione ed individuate le ragioni, giuridiche e di fatto, che la sostengono, deve riconoscersi al giudice la possibilità di esporle nel modo che egli reputi più idoneo - purché in lingua italiana, succintamente ed in maniera chiara, univoca ed esaustiva - perciò anche (se lo ritiene) attraverso le «voci» dei soggetti che hanno partecipato al processo (parti, periti). E può farlo sia richiamando i relativi atti sia direttamente riportandoli (in tutto o in parte) nella sentenza. (Cass. Sez. U. 16/01/2015, n. 642). 6. Il primo motivo e la seconda censura di cui al secondo motivo sono infondati. 6.1. La deducibilità delle erogazioni liberali, ai sensi dell'art. 100, comma 2, lett. a), t.u.i.r., è condizionata, oltre a requisito soggettivo del beneficiario, che deve essere una persona giudica, anche al requisito oggettivo dell’attività svolta da quest’ultimo il quale deve perseguire «esclusivamente» finalità comprese fra quelle indicate nel precedente comma 1, tra le quali, per quanto di rilievo, finalità di assistenza sociale e sanitaria. Tale previsione, come già chiarito da questa Corte, si giustifica in relazione al principio di sussidiarietà, c.d. orizzontale, e costituisce una deroga al principio di inerenza, rendendo deducibili dal reddito di impresa elargizioni, in via di principio, redditualmente non rilevanti. L’elenco degli oneri di utilità sociale deducibili è tassativo atteso che l’art. 100, comma 4, t.u.i.r. stabilisce che le erogazione diverse da 7 quelle di cui ai precedenti commi (e diverse da quelle di cui all’art. 95 comma 1 t.u.i.r. che non rileva nella fattispecie in esame) non sono ammesse in deduzione. Il riconoscimento statutario dell'esclusività del fine costituisce requisito formale necessario, ma non sufficiente, dovendo trovare riscontro nell'effettiva attività svolta dalla beneficiato atteso il carattere eccezionale delle disposizioni derogatorie e la natura della finalità solidaristica, a cui può essere assegnato rilievo solo se sia concreta e non si traduca in una mera enunciazione (Cass. 02/08/2017, n. 19192 e Cass. 12/05/2017 n. 11872 entrambe rese nei confronti delle società contribuenti con riferimento agli anni di imposta 2004 e 2005). Trattandosi di norma agevolativa, l’onere della prova spetta al contribuente che, ai sensi dell'art. 2697 cod. civ., ha l'onere di dimostrare, in seguito alla contestazione dell'Ufficio, i fatti che palesino il raggiungimento dello scopo sotteso all’agevolazione, ovverosia l'effettiva realizzazione dell'intento dichiarato, perché tale intento rappresenta un elemento costitutivo per il conseguimento del beneficio fiscale richiesto (Cass. 24/06/2011, n. 13954). Sebbene la norma non richieda una corrispondenza immediata e diretta tra l’elargizione liberale e l’impiego di una delle finalità di cui all’art. 100, comma 1, t.u.i.r., occorre, tuttavia, che la destinataria svolga concretamente un’attività ivi riconducibile avvalendosi delle erogazioni ricevute. In sintesi, affinché le erogazioni liberali di cui all’art. 100, comma 2, lett. a) t.u.i.r. siano deducibili, occorre, non soltanto il riconoscimento statutario dell'esclusività del fine, ma anche l’effettivo svolgimento di attività funzionale alla sua realizzazione. 6.2. La C.t.r. si è attenuta a questi principi in quanto, dopo aver rilevato che l’Associazione beneficiaria aveva destinato i capitali raccolti solo in via irrisoria alla realizzazione delle finalità sociali, 8 reinvestendone la gran parte in strumenti finanziari, ha escluso che dette modalità fossero rispettose del dettato di cui all’art. 100 t.u.i.r. in quanto incompatibili con l’effettiva destinazione all’attività sociale. 6.3. Vanno disattese, pertanto, le considerazioni dei ricorrenti secondo il quale la norma in esame non imporrebbe né un limite quantitativo di utilizzo delle elargizioni né un termine né, tanto meno, imporrebbe all’erogante di controllare l’utilizzo delle somme da parte del beneficiario. Gli argomenti non colgono la ratio della sentenza impugnata che, in una valutazione complessiva dell’attività svolta dalla beneficiaria, sin dalla sua istituzione risalente al 1998, ha escluso che quest’ultima svolgesse concretamente quella per la quale era stata costituita. Il riferimento al dato temporale, alle risorse, minime, impiegate per i fini statutari, all’impiego massiccio delle elargizioni in investimenti finanziari, non può essere inteso nel senso che la C.t.r. abbia posto dei limiti per il perseguimento del fine, non previsti dalla norma: piuttosto, si tratta di argomenti evidentemente volti a corroborare l’assunto secondo il quale l’Associazione non svolgeva, e non aveva mai svolto, l’attività di utilità sociale in ragione della quale si giustificava la deduzione del reddito. Inoltre, le censure di parte contribuente sollecitano una rivalutazione del ragionamento decisorio che ha portato il giudice del merito ad escludere che la beneficiaria avesse concretamente svolto l’attività sociale di cui allo statuto. Così facendo, parte ricorrente, pur deducendo apparentemente, una violazione di norme di legge, mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. 04/07/ 2017, n. 8758). Oggetto del giudizio che si vorrebbe demandare a questa Corte non è l’analisi e l’applicazione delle norme, bensì l’apprezzamento delle 9 prove, rimesso alla valutazione del giudice di merito (Cass. 13/05/2022, n. 17744, Cass. 05/02/ 2019, n. 3340; Cass. 14/01/2019, n. 640; Cass. 13/10/ 2017, n. 24155; Cass. 04/04/2013, n. 8315). Quanto poi, alla tesi del contribuente secondo cui la C.t.r. avrebbe posto a carico del beneficiante un onere di controllo dell’attività del beneficiato, basti osservare che è la stessa disposizione dell’art. 100 t.u.i.r. a prevedere il requisito oggettivo in capo a quest’ultimo. 7. Il terzo motivo è inammissibile. La ricorrente assume che il giudice del primo grado, nell’escludere la deduzione ravvisando la fattispecie dell’elusione fiscale, abbia reso un obiter dictum; che, tuttavia, ove l’affermazione possa essere valutata alla stregua di ratio decidendi, la sentenza della C.t.r. sarebbe viziata per non aver scrutinato il motivo di appello con il quale si era dedotto che la C.t.p. era andata ultrapetita. Il motivo, tuttavia, censura una statuizione della sentenza di primo grado che, con specifico riferimento alla ricostruzione di una fattispecie elusiva, non risulta riprodotta nella sentenza di secondo grado con la quale, invece, il ricorrente non si confronta. 8. Il quarto motivo è fondato. 8.1. Le Sezioni Unite della Corte sono intervenute sulla questione della detrazione dell’Iva con riguardo a lavori di manutenzione o ristrutturazione su immobili di terzi e condotti in locazione ed hanno affermato che deve «riconoscersi il diritto alla detrazione Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in ipotesi di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l'attività d'impresa o professionale, anche se quest'ultima [...] non abbia poi potuto concretamente esercitarsi» (Cass. Sez. U. 10/05/2018 n. 11533). Le medesime considerazioni, tuttavia, sono valide anche ai fini delle imposte dirette, dovendosi considerare unitario – per la sua derivazione 10 dalla nozione di reddito d'impresa – il principio di inerenza dei costi. Pertanto, l'esercente attività d'impresa o professionale può dedurre dai redditi d'impresa i costi occorsi per i lavori di ristrutturazione o manutenzione di un immobile condotto in locazione, anche se si tratta di un bene di proprietà di terzi, purché sussista il requisito dell'inerenza, avente valenza qualitativa, e quindi da intendersi come nesso di strumentalità, anche solo potenziale, tra il bene e l'attività svolta (Cass. 27/09/2018, n. 23278). 8.2. La C.t.r., nell’escludere l’inerenza dei costi all’attività di impresa nell’ipotesi di immobili detenuti in locazione, assumendo che in tal caso l’unico beneficiario sarebbe il locatore, non si è attenuta a questi principi. 9. In conclusione, va accolto il quarto motivo di ricorso, rigettati il primo ed il secondo e dichiarato inammissibile il terzo; la sentenza impugnata va cassata quanto al motivo accolto con rinvio alla Commissione tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, che si pronuncerà anche sulle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il quarto motivo ricorso, disattesi gli ulteriori; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, 9 maggio 2024. Il Consigliere est. Il Presidente (Rosanna Angarano) (Lucio Napolitano)

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ig.Gi. , nato a R il (Omissis); avverso l'ordinanza del 13/09/2023 emessa dal Tribunale di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Fabrizio D'Arcangelo; udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Silvia Salvadori, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; udito il difensore, avvocato Vi.Ca., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata, il Tribunale di Roma ha rigettato l'appello cautelare proposto avverso il provvedimento del 19 gennaio 2023 con il quale la Corte di Appello di Roma ha rigettato la richiesta di revoca dell'ordinanza di ripristino della misura cautelare della custodia in carcere disposta nei confronti di Ig.Gi. Il ricorrente è stato condannato, all'esito del giudizio di primo grado, alla pena di due anni e sei mesi di reclusione per il delitto di maltrattamenti in famiglia ai danni di Ki.He. , di lesioni personali ai danni della stessa e di resistenza a pubblico ufficiale. 2. L'avvocato Vi.Ca., nell'interesse dell'Ig.Gi. , ricorre avverso tale ordinanza e ne chiede l'annullamento. Con un unico motivo, il difensore censura la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. Rileva il difensore che il Tribunale di Roma non avrebbe considerato che l'imputato, dopo la sentenza di condanna di primo grado, non ha tenuto condotte violente ai danni delle persone offese. Precisa, inoltre, il difensore che la persona offesa, nelle sommarie informazioni rese in data 26 novembre 2022, ha escluso che, in occasione dell'ultima violazione contestata del divieto di avvicinamento, l'imputato avesse usato violenza nei suoi confronti e ha precisato che era stata lei stessa a chiedergli di incontrarsi, per trascorre del tempo insieme e fargli conoscere il loro figlio, nato pochi mesi prima; la persona offesa, peraltro, avrebbe espresso "parere favorevole alla scarcerazione" del ricorrente, depositato personalmente in data 16 gennaio 2023 presso la cancelleria della Corte di appello di Roma. Ad avviso del difensore, dunque, anche in ragione dei sette mesi già trascorsi dall'imputato in carcere, non sussisterebbe più alcuna esigenza cautelare e, comunque, la misura della custodia cautelare in carcere si rivelerebbe, ormai, sproporzionata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in quanto in quanto i motivi proposti sono manifestamente infondati e, comunque, diversi da quelli consentiti dalla legge. 2. Con un unico motivo, il difensore censura congiuntamente la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. 3. Il motivo è, tuttavia, inammissibile, in quanto si risolve nella confutazione in fatto delle argomentazioni espresse dal Tribunale di Roma, senza dimostrarne la manifesta illogicità, e, dunque, in una sollecitazione a pervenire a nuovo esame in ordine alle esigenze cautelari ravvisabile nel caso di specie. Occorre, tuttavia, rilevare che esula dalle funzioni della Corte di cassazione la valutazione della sussistenza o meno dei gravi indizi e delle esigenze cautelari, essendo questo compito primario ed esclusivo dei giudici di merito. Il ricorso per cassazione che deduca l'assenza esigenze cautelari è, dunque, ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (ex plurimis: Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628; Sez. 4, n. 18795 del 02/03/2017, Di Iasi, Rv. 269884 - 01). Muovendo da tali premesse, deve rilevarsi che il Tribunale di Roma ha argomentato congruamente la permanente attualità delle esigenze cautelari in ragione della propensione a delinquere del ricorrente e della sua acclarata e costante inaffidabilità, in ragione delle plurime violazioni accertate alla misura coercitiva del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa. Il Tribunale ha rilevato, infatti, che l'imputato ha maltrattato la persona offesa e cagionato lesioni alla stessa nelle date del 15 settembre 2021, del 27 ottobre 2021, del 28 novembre 2021, del 15 dicembre 2021 e del 10 marzo 2022, quando, in occasione dell'arresto, ha commesso anche il reato di resistenza a pubblico ufficiale; ulteriori episodi di aggressività e di violenza nei confronti anche dei familiari della persona offesa erano stati denunciati dalla stessa in data 27 dicembre 2021 e in data 8 gennaio 2022. In data 24 novembre 2022, inoltre, l'imputato ha violato il divieto di avvicinamento impostogli dall'autorità giudiziaria, accettando di incontrare la persona offesa e trascorrendo con lei un giorno e una notte. Il Tribunale ha, inoltre, congruamente ritenuto che tali elementi siano così significativi da rendere subvalente il consenso della persona offesa all'ultimo incontro e l'assenza di violenza e di maltrattamenti da parte dell'imputato nel corso dello stesso. D'altra parte, il consenso della persona offesa all'incontro con l'imputato, sottoposto al divieto di avvicinamento di cui all'art. 282 - ter cod. proc. pen. , non elide la volontarietà della violazione accertata, né la giustifica, in quanto non può derogare alla misura coercitiva imposta dall'autorità giudiziaria. Nella valutazione, non certo illogica, del Tribunale, dunque, le reiterate condotte violente poste in essere dall'imputato, anche quando la persona offesa era in stato di gravidanza e nei confronti dei suoi famigliari, rendono necessario il ricorso ad un presidio cautelare non rimesso all'autodisciplina dell'imputato e l'unica misura coercitiva adeguata e proporzionata all'intensità delle esigenze cautelari ravvisate nel caso di specie è la custodia cautelare in carcere. 4. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. , al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso siano stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata invia equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1 - ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 7 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. COSTANZO Angelo - Presidente Dott. RICCIARDELLI Massimo - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere-Rel. Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso presentato da Pubblico Ministero presso il Tribunale di Bari nel procedimento a carico di Sc.Ge., nato a B il (Omissis); avverso l'ordinanza del 14 dicembre 2023 emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione del consigliere D'Arcangelo Fabrizio; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Piccirillo Raffaele, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, nel procedimento penale pendente nei confronti di Sc.Ge. per il delitto di maltrattamenti in famiglia, ha rigettato la richiesta di incidente probatorio presentata dal Pubblico Ministero, ai sensi dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., per l'assunzione della testimonianza delle persone offese e, in particolare, della moglie della persona sottoposta ad indagine (La.Ma.) e delle due figlie minorenni (Sc.Vi. e Sc.Ca.). Il Giudice per le indagini preliminari nel provvedimento impugnato, citando i principi affermati da Sez. 1, n. 46821 del 08/06/2023, Favia, Rv. 285455 - 01, ha rilevato che la moglie e le figlie dell'indagato sono state già sentite nel corso delle indagini e non versano in condizioni di particolare vulnerabilità (in ragione dell'età prossima alla maggiore età delle figlie, dell'inserimento sociale e della reazione opposta all'aggressore); nel caso di specie, peraltro, la persona offesa sarebbe solo la moglie dell'indagato, in quanto il delitto di maltrattamenti in famiglia sarebbe aggravato solo dalla c.d. violenza assistita e non commessa ai danni delle figlie. L'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., inoltre, non sancisce un obbligo per il giudice di accogliere la richiesta di prova anticipata in ragione dei reati per i quali si procede e/o delle condizioni di vulnerabilità della vittima e, comunque, il rigetto di tale richiesta, secondo l'ordinamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, non determina l'abnormità dell'atto. 2. Il Pubblico Ministero ricorre avverso tale ordinanza e ne chiede l'annullamento, deducendone l'abnormità. Il Pubblico Ministero ricorrente, citando i principi affermati dalle sentenze Sez. 3, n. 34091 del 16/05/2019, P., Rv. 277686 - 01, e Sez. 3, n. 47572 del 10/10/2019, P., Rv. 277756 - 01, deduce l'abnormità dell'ordinanza del giudice per le indagini preliminari che respinga la richiesta di incidente probatorio formulata del pubblico ministero ai sensi dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. Il provvedimento impugnato, infatti, disapplicherebbe una regola generale di assunzione anticipata della prova, introdotta in ottemperanza agli obblighi assunti dallo Stato e derivanti dalle convenzioni internazionali, per evitare la vittimizzazione secondaria delle persone offese di reati sessuali e di maltrattamenti; il giudice per le indagini preliminari sarebbe, dunque, obbligato a disporre l'incidente probatorio sulla base del mero titolo di reato iscritto. Il Giudice per le indagini preliminari, peraltro, avrebbe errato nell'escludere che le vittime fossero in condizione di particolare vulnerabilità, in quanto le figlie hanno una dipendenza affettiva dall'autore del reato e tutte le persone offese dal reato per cui si procede subirebbero una dipendenza economica dall'indagato, che le costringerebbe a vivere in condizioni di estrema difficoltà. Errata sarebbe, inoltre, l'esclusione della qualità di persone offese delle figlie minori, in quanto l'art. 572, quarto comma, cod. pen., sancisce che "Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato". 3. Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 23 aprile 2024, il Procuratore generale, Piccirillo Raffaele, ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso. Con memoria depositata in data 29 marzo 2023, l'avvocato Di.Sa., difensore della persona sottoposta ad indagine, ha chiesto di rigettare il ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Ritiene la Corte che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, in quanto il motivo proposto è manifestamente infondato. 2. L'art. 392, comma 1 -bis cod. proc. pen., contempla un'ipotesi di incidente probatorio ritenuto "speciale o atipico" (come rilevato anche da Corte Cost., sentenza n. 92 del 2018), in quanto, essendo svincolato dall'ordinario presupposto della non rinviabilità della prova al dibattimento, deroga rispetto agli ordinari presupposti che governano la formazione anticipata della prova rispetto a tale fase. Tale disposizione, introdotta con la L. 15 febbraio 1996 n. 66, di contrasto alla violenza sessuale, e sostituita dalla L. 1 ottobre 2012 n. 172, di ratifica ed esecuzione della Convenzione firmata a Lanzarote nel 2007, per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale, offre la possibilità alla persona sottoposta alle indagini e al pubblico ministero, anche su richiesta della persona offesa, di chiedere l'assunzione della testimonianza della persona offesa minorenne, ovvero maggiorenne, che sia stata vittima di gravi reati, tra i quali il delitto di maltrattamenti in famiglia di cui all'art. 572 cod. pen., "anche al di fuori delle ipotesi del comma 1". La disposizione in esame è stata integrata, da ultimo, dal D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, che recepisce la direttiva 2012/29/UE, in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, consentendo l'audizione della vittima mediante incidente probatorio, indipendentemente dal reato per cui si procede, qualora essa "versi in condizione di particolare vulnerabilità". Come emerge dai lavori parlamentari, il legislatore, nel conformarsi all'assetto normativo sovranazionale con l'introduzione dell'incidente probatorio speciale, ha inteso perseguire una duplice finalità: anzitutto, evitare la vittimizzazione secondaria, ovvero "quel processo che porta il testimone persona offesa a rivivere i sentimenti di paura, di ansia e di dolore provati al momento della commissione del fatto" (come definito da C. Cost., sentenza n. 92 del 2018); in secondo luogo, salvaguardare, per quanto possibile, la genuinità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, specialmente là dove queste rappresentino la principale prova d'accusa, atteso che l'assunzione delle stesse in un momento quanto più prossimo alla commissione del fatto costituisce anche una garanzia per l'imputato, perché lo tutela dal rischio di deperimento dell'apporto cognitivo che contrassegna, in particolare, il mantenimento del ricordo del minore. 3. Controversa è statatila valutazione della giurisprudenza di legittimità la possibilità di considerare abnorme il provvedimento con cui il giudice delle indagini preliminari rigetti la richiesta di esame in incidente probatorio, ex art. 392, comma 1 - bis, cod. proc. pen., della persona offesa vulnerabile. Una sentenza della Terza Sezione ha ritenuto abnorme l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari che, in ragione dell'assenza di motivi di urgenza che non consentano l'espletamento della prova nel dibattimento, respinga l'istanza del pubblico ministero di incidente probatorio presentata ai sensi dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. per l'assunzione della testimonianza della vittima di uno dei reati elencati dalla disposizione citata (che nella specie era quello di violenza sessuale), con ciò sostanzialmente disapplicando una regola generale di assunzione della prova, prevista in ottemperanza agli obblighi dello Stato derivanti dalle convenzioni internazionali per evitare la vittimizzazione secondaria delle persone offese di reati sessuali (Sez. 3, n. 34091 del 16/05/2019, P., Rv. 277686). Il principio affermato da questa sentenza è stato ripreso da un'altra pronuncia della stessa Sezione che ha ritenuto parimenti abnorme il provvedimento di rigetto della richiesta di assunzione della testimonianza della persona offesa nelle forme dell'incidente probatorio ai sensi del citato art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. perché non preceduta dall'acquisizione di sommarie informazioni testimoniali rese da parte della medesima persona offesa (Sez. 3, n. 47572 del 10/10/2019, P., Rv. 277756). Secondo tali pronunce l'art. 35 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali, conclusa a L, in data 25 ottobre 2007, e ratificata dall'Italia con la L. 1 ottobre 2012, n. 172, l'art. 18 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata ad I, in data 11 maggio 2011, ratificata dall'Italia con L. 23 giugno 2013, n. 77, gli artt. 18 e 20 della Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime del reato e sostituisce la precedente Decisione-quadro 2001/220/GAI, recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 imporrebbero l'obbligatoria assunzione dell'incidente probatorio al fine di salvaguardare l'integrità fisica psicologica del soggetto vulnerabile e di contenere il rischio di vittimizzazione secondaria legato alla reiterazione dell'atto istruttorio. Entrambe le pronunce affermano, dunque, un vero e proprio obbligo del giudice di ammettere l'incidente probatorio finalizzato all'assunzione della deposizione di un soggetto vulnerabile richiesto ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis, cod. pen. pen., consentendogli di rigettare la relativa richiesta esclusivamente qualora rilevi il difetto dei presupposti normativamente configurati che legittimano l'anticipazione dell'atto istruttorio (e cioè che la richiesta provenga dal pubblico ministero o dall'indagato, venga presentata nel corso delle indagini preliminari per uno dei reati elencati dalla disposizione citata, che abbia ad oggetto la testimonianza di un minore ovvero di un maggiorenne, se si tratta della persona offesa del reato o di soggetto che versa in stato di particolare vulnerabilità) anche in assenza delle condizioni generali stabilite dal comma 1 dello stesso articolo. Il giudice, nella fattispecie prevista dall'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., sarebbe titolare di un mero onere di verifica della legittimità della richiesta e, al contempo, privo di qualsiasi potere discrezionale di valutarne la fondatezza in riferimento agli ordinari indici di ammissione della prova previsti dall'art. 190, comma 1, cod. proc. pen. 4. Secondo l'orientamento prevalente e ormai largamente dominante nella giurisprudenza di legittimità, non è, invece, abnorme il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari rigetta la richiesta, ex art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., di esame in incidente probatorio della persona offesa vulnerabile, trattandosi di provvedimento che non si pone al di fuori del sistema processuale, che rimette al potere discrezionale del giudice la decisione sulla fondatezza della istanza, né determina la stasi del procedimento (Sez. 3, n. 29594 del 28/05/2021, P. Rv. 281878; Sez. 3, n. 29594 del 28/05/2021, P., Rv. 281718; Sez. 6, n. 46109 del 28/10/2021, P., Rv. 282354 - 01; Sez. 4, n. 3982 del 21/01/2021, Pmt. contro Orlandini, Rv. 280378; Sez. 5, n. 2554 dell'I 1/12/2020, P., Rv. 280337; Sez. 6, n. 24996 del 15/07/2020, P., Rv. 279604). 5. Ritiene il Collegio di condividere quest'ultimo orientamento. Non ricorrono, infatti, nella specie gli estremi strutturali o funzionali dell'atto abnorme; secondo l'elaborazione delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 7 del 26/04/1989, Goria, Rv. 181303; Sez. U, n. 11 del 09/07/1997, Quarantelli, Rv. 208221; Sez. U, n. 17 del 10/12/1997, dep. 1998, Di Battista, Rv. 209603; Sez. Un., 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv 215094; Sez. U, n. 33 del 22/11/2000, Boniotti, Rv. 217244; Sez. U, n. 4 del 31/01/2001, Romano, Rv. 217760; Sez. Un., 31/5/2005 n. 22909, Minervini, Rv. 231163; Sez. U, n. 5307 del 20/12/2007, dep. 2008, P.M. in proc. Battistella, Rv. 238240; Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, P.M. in proc. Toni e altro, Rv. 243590; Sez. U, n. 21243 del 25/03/2010, P.G. in proc. Zedda, Rv. 246910; Sez. U, n. 40984 del 22/03/2018, Gianforte, Rv. 273581) può, infatti, ritenersi abnorme il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del suo contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale, ovvero che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite; il vizio di abnormità può riguardare sia il profilo strutturale, allorché l'atto si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, sia il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo. Alla luce di tali consolidate coordinate interpretative il provvedimento di rigetto dell'incidente probatorio richiesto ai sensi dell'art. 392, comma 1 - bis, cod. proc. pen., risulta riconducibile ad uno schema tipico contemplato dalla legge processuale (e, segnatamente, dall'art. 398 cod. proc. pen.) ed il suo contenuto non diverge in maniera irragionevole dai limiti che la stessa pone al giudice; men che meno determina, poi, una stasi del procedimento e, dunque, non può essere considerato abnorme, costituendo l'estrinsecazione di un potere discrezionale del giudice che risulta inidoneo a paralizzare lo sviluppo processuale (ex multis: Sez. 4, n. 2678 del 30/11/2000, dep. 2001, PM in proc. D'Amiano ed altri, Rv. 218480; Sez. 2, n. 47075 del 13/11/2003, Manzi, Rv. 227086). Al fine della qualificazione dell'atto come abnorme, del resto, non può attribuirsi rilevanza all'interesse "terzo" della persona offesa, di per sé è estraneo alla nozione della abnormità funzionale (Sez. 3, n. 29594 del 28/05/2012, P. Rv. 281878) e strutturale. Per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, l'ordinanza di rigetto della richiesta di incidente probatorio è, del resto, inoppugnabile (ex multis Sez. 5 n. 49030 del 17/07/2017, Palmeri e altri, Rv. 271776) e tale regola non subisce eccezione solo perché l'incidente probatorio viene promosso ai sensi dell'art. 392, comma 1 - bis, cod. proc. pen., come questa Corte ha già avuto occasione di affermare (Sez. 3, n. 21930 del 13/03/2013, P.M. in proc. Bertolini, Rv. 25548301). Deve, dunque, ribadirsi che il provvedimento di rigetto dell'incidente probatorio non è impugnabile e non può considerarsi abnorme, nemmeno qualora la relativa richiesta sia stata proposta ai sensi ed ai fini di cui all'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. 6. L'interpretazione adottata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto in ordine all'esistenza di un sindacato discrezionale del giudice sull'ammissione dell'incidente probatorio di persona vulnerabile, del resto, è pienamente legittima. La deroga introdotta dall'art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen. alla disciplina generale dell'ammissione dell'incidente probatorio attiene, infatti, esclusivamente all'irrilevanza in tale fattispecie del presupposto della non rinviabilità della prova al dibattimento e non già agli ulteriori profili della delibazione richiesta al giudice. Nell'esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento dei contrastanti interessi legati, da un lato, alle esigenze di tutela della vittima e, dall'altro, alle garanzie processuali del diritto di difesa dell'imputato, il giudice, al quale è rimessa la decisione sulla richiesta presentata ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis cod. proc. pen., è tenuto a vagliare, in un primo momento, i requisiti di ammissibilità della richiesta e, successivamente, la fondatezza della stessa; valutazione, quest'ultima, che egli compie, nella prospettiva della rilevanza della prova ai fini della decisione dibattimentale, sulla base sia delle argomentazioni addotte dalla parte istante (ex art. 393, comma 1, cod. proc. pen.), sia delle eventuali deduzioni presentate dalla parte avversa, in ragione del contraddittorio cartolare sviluppatosi sulla richiesta, quale diritto egualmente riconosciuto alle parti dall'art. 396, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 24996 del 15/07/2020, P., Rv. 279604). 7. Gli obblighi internazionali invocati dal Pubblico Ministero ricorrente, del resto, vincolano lo Stato italiano e il giudice quanto allo scopo di evitare la vittimizzazione secondaria del soggetto debole per effetto della reiterazione dell'atto istruttorio, ma non sanciscono l'obbligo incondizionato di assunzione delle dichiarazioni di tale soggetto nelle forme dell'incidente probatorio, escludendo ogni sindacato giudiziale sul punto. L'art. 20, par. 1, della direttiva 2012/29/UE sancisce, infatti, che "fatti salvi i diritti della difesa e nel rispetto della discrezionalità giudiziale, gli Stati membri provvedono a che durante le indagini penali: a) l'audizione della vittima si svolga senza indebito ritardo dopo la presentazione della denuncia relativa a un reato presso l'autorità competente". Il diritto dell'Unione Europea, come evidenziato anche dal considerando 58 di tale direttiva, pertanto, non elide ma anzi lascia espressamente integro l'ambito di discrezionalità del giudice nella decisione in ordine all'assunzione della prova nelle forme dell'incidente probatorio. Proprio l'indefettibile assunzione dell'incidente probatorio potrebbe, del resto, risultare sproporzionata rispetto allo scopo legittimo di tutelare la personalità e la dignità del soggetto vulnerabile, ad esempio nei casi in cui la sua escussione si riveli irrilevante o superflua, perché la prova sia stata raggiunta aliunde, o perché le condizioni della vittima, per effetto della condotta delittuosa o di altra causa, sconsiglino l'immediata assunzione della testimonianza nella fase delle indagini. Il diritto dell'Unione Europea, dunque, riserva al giudice il bilanciamento tra contrapposti interessi, quali quello alla tutela della dignità e della personalità della vittima, all'accertamento processuale dei reati e alla tutela del diritto fondamentale di difesa della persona sottoposta ad indagini. Tale bilanciamento deve prioritariamente tendere a scongiurare il rischio di vittimizzazione secondaria del soggetto vulnerabile chiamato a deporre ma il perseguimento di tale fondamentale fine non fonda un obbligo di incondizionata assunzione dell'incidente probatorio. 8. L'assenza di un obbligo, in capo al giudice, di disporre l'assunzione delle prove dichiarative della persona offesa vulnerabile a seguito della presentazione di una richiesta di incidente probatorio formulata ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen. non è neppure censurabile sul piano costituzionale. La scelta discrezionale del legislatore - legata alla necessità di speditezza della fase delle indagini e a quella di non "appesantire oltre modo una parentesi istruttoria che la ratio del sistema vuole quanto più possibile snella" - non si pone in contrasto con le fonti internazionali, dalle quali emerge esclusivamente "un interesse primario all'adozione di misure finalizzate alla limitazione delle audizioni della vittima" e non anche un "automatismo probatorio legato all'introduzione di un vero e proprio obbligo, in capo al giudice, di disporre l'assunzione delle prove dichiarative della persona offesa vulnerabile a seguito della mera presentazione di una richiesta di incidente probatorio" (Sez. 6, n. 24996 del 15/07/2020, P., Rv. 279604). La Corte costituzionale nella sentenza n. 529 del 2002, del resto, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale della formulazione originaria dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 2 e 32 della Costituzione, nella parte in cui non prevedeva che si potesse procedere con incidente probatorio all'assunzione della testimonianza di un minore di anni sedici, ha significativamente affermato che "tutela della personalità del minore e genuinità della prova sono certo interessi costituzionalmente garantiti: non lo è però lo specifico strumento, consistente nell'anticipazione, con incidente probatorio, delle testimonianze in questione". Anche in tale prospettiva, dunque, il rilievo fondamentale accordato alla tutela della vittima vulnerabile non si traduce nella costituzionalizzazione dell'obbligo di procedere all'assunzione della prova nelle forme dell'incidente probatorio. 9. Una volta escluso che il provvedimento di rigetto della richiesta di incidente probatorio, anche se formulata ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen., possa integrare un atto abnorme, le modalità concrete di esercizio della discrezionalità accordata da tale disposizione al giudice esulano dal sindacato di legittimità della Corte di cassazione. 10. Alla stregua dei rilievi che precedono il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. P.Q.M. Dichiara il ricorso inammissibile. Così deciso in Roma, l'8 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. RICCIARELLI Massimo - Consigliere Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere Dott. APRILE Ercole - Consigliere Dott. PATERNÒ RADDUSA Benedetto - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ca.Em., nato a T il (Omissis); avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 4 aprile 2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Benedetto Paterno Raddusa; Letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Roberto Aniello, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata senza rinvio limitatamente alla disposta applicazione della misura di sicurezza e la inammissibilità del ricorso nel resto. RITENUTO IN FATTO 1. Ca.Em. è stato condannato dal Tribunale di Latina alla pena di anni due e mesi sei di reclusione perché giudicato colpevole dei reati allo stesso ascritti e segnatamente dei maltrattamenti ex art. 572 cod. pen. e delle lesioni aggravate realizzate ai danni della convivente, Sa.Ta. 2. Interposto appello, con la sentenza descritta in epigrafe, la Corte di appello di Roma, fermo il giudizio di responsabilità, ha ridotto la pena irrogata (da due anni e sei mesi a due anni) in ragione della ritenuta presenza del vizio parziale di mente rivendicato dalla difesa e, al contempo, ha applicato al Ca.Em. la misura di sicurezza della libertà vigilata, con la prescrizione di sottoporsi ad un programma terapeutico individuato dai servizi territoriali competenti. 3. Propone ricorso la difesa dell'imputato e lamenta: - in relazione all'applicazione della misura di sicurezza, violazione dell'art. 597, comma 3, cod. proc. pen., essendo stata disposta dalla Corte in presenza di un gravame proposto solo dall'imputato, nonché degli artt. 203 e 228 cod. pen. perché il giudizio di pericolosità sarebbe stato reso senza considerare la condotta del ricorrente successiva alla commissione dei reati né valorizzare il comportamento tenuto in carcere; - in relazione alla configurabilità dei maltrattamenti, l'inadeguatezza degli elementi probatori indicati a supporto del relativo giudizio di responsabilità considerato sia il narrato della persona offesa - dal quale sarebbe emerso un singolo e occasionale fatto di violenza, quello documentato dal referto ospedaliero, non altrimenti sostenuto dalle altre deposizioni, così da rendere la condotta a giudizio distante dal reato di cui all'art. 572 cod. pen. per l'assenza di abitualità degli agiti vessatori, sia l'insussistenza del dolo unitario che connota il reato in contestazione, sia, infine, la mancanza del contesto sociale, la convivenza, nel quale si sarebbero innestate le condotte ascritte al ricorrente; - violazione di legge e omessa motivazione in relazione alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso merita l'accoglimento limitatamente alla sola applicazione della misura di sicurezza disposta con la sentenza gravata, che va dunque annullata in parte qua. Per il resto, va rilevata l'infondatezza degli altri motivi di impugnazione. 2. Modificando l'ordine di prospettazione delle censure, viene scrutinata per prima, per la sua assorbente priorità logico giuridica, quella inerente al giudizio di responsabilità reso, con duplice valutazione conforme, dai giudici del merito in relazione ai contestati maltrattamenti in famiglia ascritti al Ca.Em. Sul tema, devoluto dal terzo motivo di ricorso, ritiene la Corte che sentenza gravata regga l'urto delle censure prospettate dall'impugnazione che occupa. 2.1. Le due sentenze di merito fanno coerentemente leva sulle dichiarazioni della persona offesa, tali da cristallizzare, senza incertezze, i costituiti oggettivi dei maltrattamenti contestati in ragione delle riferite, molteplici e ripetute, iniziative aggressive, verbali e fisiche, realizzate ai danni della stessa dall'imputato nel torno di tempo coperto dall'imputazione, tali da rendere all'evidenza intollerabile il clima inerente alla relativa convivenza. Certa, né contrastata dal ricorso, la attendibilità soggettiva della dichiarante, i giudici del merito hanno affrontato e superato, con argomentare immune a manifeste incongruenze logiche, le criticità offerte dal narrato dibattimentale della persona offesa mettendo in evidenza il fatto che le contraddittorietà emerse rispetto alla deposizione resa nel corso delle indagini - avendo la teste dichiarato, a differenza di quanto riferito in precedenza, che solo in una occasione si era recata in ospedale in conseguenza delle aggressioni del compagno, mentre gli altri referti acquisiti si sarebbero riferiti ad eventi accidentali - erano da ritenersi giustificate dall'intenzione di ridimensionare i profili di responsabilità dell'imputato, cristallizzati dalle originarie propalazioni; e ciò, del resto in coerenza con la scelta di non denunziare il Ca.Em. in precedenza e soprattutto con la maturata volontà di non costituirsi parte civile nel processo che occupa. Di contro, l'insieme di altri elementi acquisiti in esito alla relativa attività istruttoria, hanno consentito ai giudici del merito, anche in parte qua senza incorrere in vizi di sorta, di limitare le incertezze afferenti alla credibilità del narrato della persona offesa solo a questa parte della relativa deposizione dibattimentale (in particolare, viene dato puntuale rilievo al contenuto del referto ospedaliero del 17 luglio 2020, all'evidenza coerente con la tipologia di agiti violenti riferiti alle condotte del Ca.Em., cosi come ben precisato anche dalle sentenza di primo grado, tal da smentire la relativa dichiarazione dibattimentale sul punto). 2.2. Del resto, come messo in rilievo dalla decisione gravata, in linea con il portato complessivo delle dichiarazioni della persona offesa, le violente aggressioni realizzate dall'imputato nel caso hanno trovato definitivo riscontro non solo nelle stesse dichiarazioni dell'imputato, che si è dichiarato responsabile dei fatti allo stesso ascritti; ma anche e soprattutto nel contenuto delle deposizioni rese dagli altri soggetti escussi (in particolare, i testi Bi.e Gu.), che hanno riferito fatti ai quali hanno assistito personalmente e altre vicende loro riferite dalla persona offesa. 2.3. Ferma, dunque, la riscontrata natura vessatoria e la abitualità delle condotte realizzate dal Ca.Em., la difesa, nel contestare la configurabilità dell'ipotesi di reato ascritta all'imputato, ha altresì introdotto con il ricorso temi non devoluti con l'appello. In particolare, è stato messo in discussione il contesto sociale di verificazione delle condotte in questione, che sarebbero state realizzate in assenza di un rapporto di convivenza tra l'imputato e la persona offesa: aspetto in fatto, quest'ultimo, non contrastato dal gravame di merito, così da non poter essere scrutinato, per la prima volta, in sede di legittimità, risultando così precluso ogni ulteriore sviluppo sul tema in punto di diritto. Né, ancora, l'appello muoveva censure specifiche sulle, peraltro puntuali, argomentazioni svolte in relazione al dolo con la sentenza di primo grado, (si veda la pagina 6, ultimo capoverso), sicché oggi non risulta consentito l'addotto difetto di motivazione su tale versante del giudizio di responsabilità. Da qui la infondatezza del terzo motivo di ricorso. 3. Coglie, invece, nel segno il primo motivo di impugnazione, con il quale si lamenta la violazione del disposto di cui all'art. 597 del codice di rito perchè la Corte del merito, una volta riconosciuto il vizio parziale di mente rivendicato con l'appello, ha ridotto la pena irrogata in primo grado ma al contempo ha applicato al Ca.Em. la misura di sicurezza della libertà vigilata, pur in presenza di un appello unicamente interposto dall'imputato. 3.1. Secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, nell'ipotesi in cui il pubblico ministero non abbia proposto impugnazione, il giudice d'appello, anche quando la misura di sicurezza sia obbligatoria e sia stata illegittimamente esclusa o non ritenuta dal giudice di primo grado, non può disporla, modificando in danno dell'imputato la sentenza da quest'ultimo impugnata, in quanto l'art. 597, comma 3, del codice di rito estende il divieto di reformatio in peius anche all'applicazione di una misura di sicurezza nuova o più grave (Sez. 3, n. 12999 del 12/11/2014, dep. 2015, Rv. 262991; Sez. 1, n. 20004 del 30/04/2009, Rv. 243779; da ultimo, Sezione 6, n. 27928 del 30/3/2022, n.m.). 3.2. Vero è che, secondo una lettura opposta, siffatta scelta interpretativa non consentirebbe all'organo dell'accusa di ovviare alle ipotesi nelle quali i presupposti funzionali all'adozione della misura di sicurezza siano emersi in appello a fronte di una accertata, in tale grado, incapacità parziale o totale di mente, si che risulterebbero così sacrificate radicalmente le istanze di tutela collettiva immediatamente correlate alle situazioni di pericolosità sociale dirette a giustificare l'intervento in prevenzione garantito dalle misure stesse. 3.3. Quale che sia il grado di condivisibilità di tale rilievo critico, va comunque messo in evidenza che la realtà processuale in esame ne rende indifferente il portato. Dalla stessa lettura della decisione impugnata emerge, infatti, come già in primo grado fossero emersi aspetti che, in linea di principio, potevano giustificare, l'adozione della misura di sicurezza alla luce delle risultanze della perizia all'epoca disposta. Nel confermare l'imputabilità del Ca.Em., si metteva al contempo in evidenza come l'imputato non fosse in grado di autogestirsi e che, potendosi prevedere una sua incapacità di non ricadere nell'abuso di sostanze che, a sua volta, lo avrebbe indotto a tenere nuovi comportamenti pericolosi per sè e per i terzi, doveva comunque ritenersi necessario collocarlo presso una struttura territoriale di riabilitazione. Ciò, all'evidenza, in termini non diversi da quanto da quanto ora prescritto dalla Corte territoriale con la decisione impugnata. Per quel che qui interessa, una siffatta situazione consentiva alla Procura di impugnare la sentenza di condanna, nella parte in cui non prevedeva l'applicazione della misura di sicurezza correlata alla riscontrata pericolosità del ricorrente; e tanto finisce per neutralizzare, nel caso, le incertezze interpretative sopra rassegnate. 3.4. La fondatezza della rilevata violazione del terzo comma di cui all'art. 597 del codice di rito porta con sé l'annullamento della sentenza impugnata in parte qua e, al contempo, assorbe e rende indifferente la disamina degli ulteriori rilievi critici prospettati nel merito quanto alla ricorrenza dei presupposti utili a giustificare l'adozione della misura di sicurezza. 4.L'ultimo motivo di ricorso non merita l'accoglimento. In tesi, l'annullamento della misura di sicurezza potrebbe rimettere in gioco il tema della sospensione condizionale della pena, applicabile d'ufficio e comunque precluso nei precedenti gradi di merito per ragioni distinte (in primo grado in considerazione della misura della pena irrogata e in appello, in esito alla riduzione di pena, divenuta non più ostativa, per la disposta applicazione della misura di sicurezza, in virtù di quanto previsto dall'art. 164, comma 3, cod. proc. pen.). Una valutazione nel merito della possibilità di concedere il detto beneficio, possibile conseguenza di un annullamento con rinvio della decisione impugnata anche su tale punto, risulta nella specie, tuttavia, concretamente vanificata dalla puntualità e dalla linearità delle considerazioni spese dalla Corte territoriale in relazione al giudizio di pericolosità apprezzato a sostegno della misura di sicurezza ora annullata per motivi processuali, per nulla scalfite dai rilievi prospettati dal ricorso seppur in relazione al profilo inerente all'applicazione della libertà vigilata. Va infatti ricordato che il giudizio sotteso all'applicazione delle misure di sicurezza si pone in termini di inconciliabilità con il giudizio prognostico funzionale al riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale e che tale incompatibilità costituisce la ragione fondante del disposto di cui all'art. 164, comma 3, cod. proc. pen.: l'applicazione della misura di sicurezza, quando sia accertata la pericolosità, è, infatti incompatibile con la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, che per l'appunto presuppone una prognosi di astensione dalla commissione di altri reati, contraddetta dall'accertata pericolosità. Né consegue che, non ritenendosi censurabile il detto giudizio speso nel valutare la pericolosità del Ca.Em., il relativo portato ben può essere recuperato e valorizzato in questa sede nel ritenere già presente, in termini correttamente e coerentemente ostativi, la valutazione di merito inerente alla sospensione condizionale, sollecitata con l'ultimo motivo di ricorso. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla applicazione della misura di sicurezza che elimina. Rigetta nel resto il ricorso. Così deciso il 20 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1534 del 2019, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Bi. e Ma. Ca., con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia; contro il Comune (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ag. Se. e Gi. Ca., con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia; Regione Siciliana - Assessorato Famiglia, Politiche Sociali e Lavoro - Centro per l'impiego di Catania, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Catania, con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia; nei confronti di -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, non costituito in giudizio; per l'annullamento - della determinazione dirigenziale n. -OMISSIS- con la quale il Comune di Comune (omissis) disponeva l'esclusione del ricorrente e lo scorrimento ed approvazione della nuova graduatoria del concorso di cui infra; - della nota prot. n. -OMISSIS- del 10.5.2019 con la quale l'Assessorato Regionale della Famiglia - Centro per l'Impiego di Catania dichiarava la non compatibilità delle condizioni del ricorrente con l'espletamento delle mansioni di giardiniere; - della successiva Deliberazione G.M. di Comune (omissis) -OMISSIS- del 28.6.2019 con la quale si disponeva l'assunzione dei vincitori; - del rigetto dell'istanza di archiviazione dei motivi ostativi all'assunzione dell'odierno deducente di cui alla nota trasmessa in data 13.6.2019 e della presupposta e sconosciuta prot. n. -OMISSIS- del 28.5.2019; - della nota comunale del 3.6.2019; - della nota comunale prot. n. -OMISSIS- del 19.7.2019; - del Contratto di assunzione se medio tempore stipulato con il soggetto subentrato in graduatoria in luogo del ricorrente; - di qualsiasi ulteriore provvedimento presupposto, connesso e/o consequenziale, nonché per il risarcimento del danno derivato al ricorrente dalla ritardata assunzione nel posto di lavoro. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune (omissis) e dell'amministrazione regionale intimata; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Comune (omissis) e dell'Assessorato regionale della famiglia delle politiche sociali e del lavoro; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod. proc. amm.; Relatore all'udienza ex art. 87, comma 4-bis c.p.a., del 4 marzo 2024 il dott. Calogero Commandatore e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; FATTO e DIRITTO Il ricorrente, con ricorso notificato in data 26 settembre 2019, ha impugnato i provvedimenti in epigrafe chiedendone l'annullamento. In fatto ha esposto che: - il Comune di Comune (omissis), giusta Determinazione n. 20 del 23.2.2018, indiceva il "Concorso pubblico per titoli, colloquio e prova pratica, per la copertura di n. 6 posti a tempo pieno e indeterminato di categoria A/1 di cui n. 3 afferenti il profilo professionale di giardiniere e n. 3 afferenti il profilo professionale di operai generici, esclusivamente riservato ai soggetti disabili di cui all'art. 1, L. 68/1999 e s.m.i."; - il concorso era espressamente regolato dal Capo IV del Regolamento per la disciplina dei concorsi, il quale, all'art. 8, prevedeva che la procedura si sarebbe imperniata su un colloquio e una prova pratica; - egli è laureato in Scienze e tecnologie agrarie e affetto da morbo di Parkinson determinante un'invalidità nella misura del 100% (attestata da verbale INPS del 15.02.2015) e ha partecipato per il posto di giardiniere; - con Determinazione Dirigenziale n. -OMISSIS- veniva pubblicata la graduatoria ed egli si collocava al primo posto con 103,16 punti; - a seguito di una verifica della documentazione da parte del Centro per l'Impiego di Catania (prot. n. -OMISSIS- del 10 maggio 2019), veniva dichiarato che i medici ritenevano le mansioni di giardiniere incompatibili con la diagnosi di invalidità civile; - il Comune faceva, quindi, pervenire comunicazione del 17 maggio 2019 di sussistenza di motivi ostativi all'assunzione assegnando termine per controdedurre; - in data 21 maggio 2019, presentava istanza di accesso con la quale chiedeva copia del suddetto provvedimento del Centro per l'Impiego di Catania e del presupposto verbale della seduta del Comitato di accertamento disabili dell'8 maggio 2019; - il successivo 27 maggio, trasmetteva poi proprie note di partecipazione procedimentale nelle quali contestava: a) la competenza della Commissione del Centro per l'Impiego di Catania; b) l'inidoneità della documentazione di invalidità civile a fungere da presupposto per la valutazione della capacità lavorativa, così definendo la collocabilità o non collocabilità del disabile che non spetta né dipende da valutazioni dell'INPS; c) che il giudizio di incompatibilità con le mansioni fosse in contrasto con il decorso positivo della patologia e la pressoché normalità delle sue condizioni di vita (abita in casa da solo, guida la macchina, etc.); d) l'abnormità di un accertamento effettuato solo sulla lettura dei documenti, senza procedere ad una visita medica; - con nota del 3 giugno 2019 il Comune esitava l'istanza di accesso trasmettendo la nota n. -OMISSIS-/2019 del Centro per l'Impiego di Catania, dando atto di non essere in condizione di trasmettere il verbale del Comitato contenente la valutazione medica degli interessati; - l'Amministrazione, con pec del 13 giugno 2019, disattendeva le istanze di annullamento in autotutela del procedimento, confermando l'inidoneità ; - con Determinazione Dirigenziale -OMISSIS- venivano approvati gli atti del procedimento e la graduatoria finale del concorso e con Deliberazione G.M. -OMISSIS- del 28 giugno 2019 veniva disposta l'assunzione dei vincitori di concorso; - in data 5 luglio 2019, egli inoltrava una duplice istanza di accesso e contestazione con la quale, tra l'altro, chiedeva di conoscere - anche al fine di acquisire gli estremi dei controinteressati in un eventuale giudizio - nominativi, riferimenti e documentazione concorsuale dei soggetti utilmente collocati in graduatoria; - il Comune confermava le sanzioni espulsive irrogate e, con riferimento all'accesso ai dati e documenti degli altri concorrenti, dichiarava di dover acquisire il loro consenso prima di poter riscontrare l'accesso. Non avendo ottenuto alcun riscontro, l'odierno ricorrente ha impugnato i suddetti provvedimenti, sulla base dei motivi che seguono. I. Incompetenza della Commissione di verifica dell'idoneità : - violazione e falsa applicazione Regolamento Comunale Concorsi, Capo IV, art. 55; - violazione e falsa applicazione artt. 1, comma 4, L. n. 68/1999, 4, comma 1, L. n. 104/1992 e 1, commi 1-4, L. n. 285/1990. Il ricorrente lamenta che il Comitato di accertamento disabili sedente presso il Centro per l'Impiego di Catania sarebbe privo di competenza e non legittimato ad intervenire all'interno della selezione indetta dal Comune. Quest'ultima, infatti, risulterebbe espressamente regolata dal Regolamento del Comune di Comune (omissis) approvato con Deliberazione G.M. n. 32/2017, il quale all'art. 55, con riferimento alle assunzioni obbligatorie di lavoratori appartenenti alle categorie protette e disabili, prevede che l'ente possa richiedere alla competente Commissione medica dell'Azienda U.S.L. di sottoporli a visita medica al fine di verificare che la causa invalidante non sia incompatibile con le mansioni da svolgere. Ciò, peraltro, in coerenza con quanto previsto dall'art. 1, comma 4, L. n. 68/1999 (in forza della quale veniva bandito il concorso) il quale rinvia alle medesime Commissioni istituite presso le AUSL di cui all'art. 4 della L. n. 104/1992. A sua volta, il suddetto art. 4 richiama l'art. 1 della L. 295/1990, il quale indica la composizione e le modalità operative della Commissione in parola: "esse sono composte da un medico specialista in medicina legale che assume le funzioni di presidente e da due medici di cui uno scelto prioritariamente tra gli specialisti in medicina del lavoro. (...) In sede di accertamento sanitario, la persona interessata può farsi assistere dal proprio medico di fiducia". Sulla base del vigente quadro legislativo, dunque, i soli organi legittimati a pronunciarsi sulla residua capacità lavorativa dei disabili ex art. 1, L. n. 68/1999, sono le Commissioni costituite presso l'AUSL territorialmente competente, operanti con una composizione qualificata e specializzata, che, dietro accertamento sanitario diretto sul soggetto interessato si pronunceranno sulla idoneità a ricoprire il posto di lavoro messo a concorso. II. Illegittimità della verifica documentale effettuata in danno del ricorrente: - violazione e falsa applicazione Regolamento Comunale Concorsi, Capo IV, art. 55, comma 5, sotto altro profilo; - violazione e falsa applicazione artt. 1, comma 4, L. n. 68/1999, 4, comma 1, L. n. 104/1992 e 1, commi 1-4, L. n. 285/1990, sotto altro profilo; - eccesso di potere per irrazionalità evidente e manifesta, sviamento di potere e difetto di istruttoria. Il quadro normativo suddetto evidenzierebbe, altresì, l'inadeguatezza di un'attività di verifica documentale per l'accertamento della compatibilità del candidato con l'espletamento delle mansioni del posto messo a concorso, esigendosi, invece, un accertamento sanitario sul soggetto valutato. Nel caso del Comune di Comune (omissis), peraltro, quest'obbligo emergerebbe in maniera ancor più netta derivando dal citato art. 55 del regolamento comunale concorsi che imporrebbe che i concorrenti siano "sottoposti a visita medica". Nel caso in esame, al contrario, si è proceduto ad un accertamento cartolare, esaminando un documento risalente, peraltro, a più di quattro anni prima, che, per di più, è il verbale INPS di accertamento dell'invalidità civile, atto che non ha la finalità di verificare l'idoneità lavorativa residua del concorrente (che non compete all'INPS), ma solo di comprovare, ai fini dell'ammissione, il grado di invalidità civile riconosciuto per come previsto dall'art. 4, comma 1, lettera q), del Bando di concorso. III. Eccesso di potere sotto vari profili: - illogicità ed irrazionalità delle modalità di accertamento e difetto di istruttoria; - contraddittorietà con certificazioni in data odierna provenienti da strutture pubbliche. Sebbene le valutazioni discrezionali degli organi tecnici dell'Amministrazione non possano essere sindacate dagli organi giurisdizionali in quanto riguardanti il merito delle scelte amministrative, questo limite può essere superato allorché si dimostri che l'Ente pubblico ha agito in manifesta assenza di criteri di razionalità operative e/o in difetto di istruttoria o travisamento dei fatti, circostanza che, secondo la prospettazione di parte ricorrente, si sarebbe verificata nella fattispecie in esame, essendo basato il giudizio su dati e circostanze non più attuali, omettendo di verificare direttamente le condizioni dell'interessato, le quali, peraltro, potevano presumersi congrue col posto messo a concorso, avendo egli superato brillantemente la prova pratica. Parte ricorrente evidenzia, infatti, come dal certificato del 25.5.2019 di visita neurologica effettuata presso l'IRCCS - Ce. Ne. Bo. Pu. di Me. allegato, emerga che: "...la malattia è ben controllata dalla terapia farmacologica. Il compenso motorio e cognitivo è ottimale e non vi sono in atto elementi che possano controindicare o inficiare in alcun modo lo svolgimento delle varie attività della vita quotidiana in ambito privato e/o sociale né le attività lavorative". IV. Violazione art. 3, L. n. 241/1990: - difetto di motivazione. L'accertamento effettuato dal Comitato di accertamento disabili nella seduta dell'8.5.2019 con cui si stabiliva l'estromissione dalla selezione dell'odierno ricorrente non è neanche stato comunicato a quest'ultimo. Gli è stata trasmessa soltanto la nota prot. n. -OMISSIS-/2019 del Centro per l'Impiego di Catania riportante la genericissima dicitura: "... in relazione alla diagnosi del verbale di invalidità civile ed alla scheda della diagnosi funzionale le mansioni di giardiniere non sono compatibili...", in violazione dell'obbligo motivazionale di cui all'art. 3 L. 241/90. Parte ricorrente chiede, altresì, il risarcimento per equivalente del danno che dovesse patire a causa della ritardata assunzione causata dall'illegittimità degli atti comunali gravati secondo le quantificazioni economiche che si articoleranno in corso di giudizio. Il Comune si è costituito in giudizio in data 28 ottobre 2019 al fine di resistere al ricorso. Nonostante la regolarità della notifica del ricorso introduttivo, i controinteressati non si sono costituiti in giudizio. In data 28 novembre 2019, le Amministrazioni intimate si sono costituite in giudizio, eccependo, in sintesi: la legittimità della valutazione compiuta dal Comitato di accertamento disabili, presieduto dal Direttore dell'UPLMO o da un suo delegato e composto da due medici specializzati in medicina legale e del lavoro designati dall'ASP, due componenti designati dalle Associazioni maggiormente rappresentative dei disabili, un rappresentante delle OO.SS. dei lavoratori ed uno delle associazioni dei datori di lavoro; proprio l'alta qualifica dei componenti, la tipologia del parere che rende il comitato e la funzione che esso svolge in sede di inserimento lavorativo del disabile renderebbero le sue determinazioni espressione di discrezionalità tecnica, sindacabili solo ove controparte dimostri un travisamento dei fatti o una macroscopica illogicità del suddetto parere, cosa non avvenuta nel caso di specie; se il candidato avesse ritenuto che quanto risultante dalla documentazione non fosse più aggiornato, avrebbe dovuto sottoporsi ad una nuova visita medica dinnanzi alla ASP o all'INPS. In data 4 maggio 2022, il Comune ha depositato una memoria nella quale ha eccepito l'infondatezza dei motivi di ricorso. All'udienza ex art. 87, comma 4-bis, c.p.a., tenutasi il 4 marzo 2024, la causa è stata posta in decisione. Il ricorso è fondato e va accolto nei sensi e nei limiti infraprecisati. Il primo motivo di ricorso non merita accoglimento poiché l'art. 8, comma 1-bis del d.lgs. n. 68/1999 prevede espressamente la competenza per la valutazione della capacità lavorative, nell'ambito del collocamento mirato, sicché la norma - in ragione del criterio di gerarchia delle fonti e di specialità - deve ritenersi prevalente sulle disposizioni regolamentari difformi che, peraltro, si riferiscono chiaramente al sistema antecedente alla novella portata dal d.lgs. n. 151/2015. Meritano accoglimento, invece, gli altri motivi di ricorso. E invero, se è indubbia l'ampia discrezionalità tecnica riservata al comitato tecnico ex art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 68/1999, sindacabile dal giudice amministrativo solo con riguardo al controllo formale ed estrinseco del percorso logico seguito dall'Amministrazione e avente a oggetto la sola attendibilità delle operazioni tecniche sul piano della loro correttezza quanto a criterio tecnico e a procedimento applicativo, deve evidenziarsi come l'evidente assenza o la grave insufficienza della motivazione del parere può, ancorché sotto il solo profilo sintomatico, evidenziare un distorto esercizio della facoltà attribuito per eccesso di potere. Orbene, con riguardo a quanto sopra riportato, ad avviso del Collegio, anche avuto riguardo alla particolare delicatezza della questione, le valutazioni espresse nella fattispecie dal Comitato sulla base degli elementi esaminati non appaiono convincenti e, nella sostanza, risultano prive di un'adeguata motivazione in relazione alle circostanze evidenziate dal ricorrente. E invero, seppure astrattamente può affermarsi che la valutazione del Comitato può basarsi solo sulla documentazione prodotta, senza che sia sempre necessaria e obbligatoriamente la visita medica, occorre sottolineare come, in concreto, tale facoltà debba necessariamente conciliarsi con il necessario approfondimento istruttorio necessariamente emergente dalla motivazione. Nel caso che ci occupa, il giudizio del Comitato si è fondato unicamente su un solo documento - il verbale d'invalidità civile del 5 febbraio 2015 - senza in alcun modo motivare in ordine alla persistente validità di diagnosi effettuate in epoca risalente (più di quattro anni prima) e limitandosi laconicamente ad affermare che "... in relazione alla diagnosi del verbale di invalidità civile ed alla scheda della diagnosi funzionale le mansioni di giardiniere non sono compatibili...". Insufficienza di tale motivazione che costituisce sintomo di un difetto istruttorio anche in ragione della certificazione medica del 25.5.2019 - emessa all'esito di visita neurologica del ricorrente effettuata presso l'IRCCS - Ce. Ne. Bo. Pu. di Me. - ove è emerso che: "...la malattia è ben controllata dalla terapia farmacologica. Il compenso motorio e cognitivo è ottimale e non vi sono in atto elementi che possano controindicare o inficiare in alcun modo lo svolgimento delle varie attività della vita quotidiana in ambito privato e/o sociale né le attività lavorative". In tale contesto l'accertamento svolto dal Comitato, successivamente recepito dal Comune intimato, non è esaustivo, dal che consegue l'annullamento degli atti impugnati con la precisazione che, all'esito della presente pronuncia, l'Amministrazione resistente dovrà nuovamente pronunciarsi sull'istanza dell'interessato, attenendosi a tutti i canoni motivazionali sopra enunciati. L'Amministrazione dovrà quindi riesaminare l'affare nella sua interezza entro 120 (centoventi) giorni dalla comunicazione in via amministrativa della presente decisione, o dalla notificazione della stessa, se anteriormente effettuata. L'assenza di un giudizio sull'effettiva spettanza del bene della vita preclude - allo stato - la possibilità di accogliere la domanda risarcitoria. Stante l'assenza di una valutazione sulla spettanza del bene della vita e il rigetto della domanda risarcitoria sussistono i presupposti per compensare per metà le spese di lite che, per la restante meta, seguono la soccombenza e vengono liquidate nella misura indicata in motivazione. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi e nei limiti indicati in motivazione; rigetta la domanda risarcitoria. Compensa per metà le spese di lite e condanna le amministrazioni resistenti, in solido fra loro, al pagamento della restante metà che si liquidano, in tale frazione, in euro 2.000,00 (duemila/00) oltre al rimborso delle spese forfettarie ex art., 2, comma 2, del d.m. n. 55/2014, oltre alla C.P.A. e all'IVA. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità . Così deciso in Catania nelle camere di consiglio dei giorni 4 marzo 2024, 22 maggio 2024, tenutosi tramite collegamento da remoto, con l'intervento dei magistrati: Aurora Lento - Presidente Calogero Commandatore - Primo Referendario, Estensore Arturo Levato - Primo Referendario

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. APRILE Ercole - Relatore Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ma.Lo., nato a R il (Omissis); avverso la sentenza del 26/05/2023 della Corte di appello di Roma; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Raffele Gargiulo, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; letta la memoria dell'Avv. Sc.Ma., difensore del ricorrente, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Roma riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, assolvendo l'imputato dal reato ascrittogli al capo 1) e rideterminando la pena, e confermava nel resto la medesima pronuncia del 4 marzo 2021 con la quale il Tribunale di Roma aveva condannato Ma.Lo. in relazione al reato di cui all'art. 572 cod. pen., per avere, tra il novembre e il 20 dicembre 2019, maltrattato la madre Sa.Ad. e le sorelle Ma.Si. e Ma.Ar., sottoponendole a continue vessazioni e a violenze psicologiche, in particolare aggredendole verbalmente e talora anche fisicamente, nonché danneggiando i mobili dell'appartamento, in quanto le stesse si erano rifiutate di consegnargli il denaro che egli aveva ripetutamente richiesto. 2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso Ma.Lo., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale, con un unico punto, ha dedotto la violazione di legge, in relazione all'art. 572 cod. pen., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto sussistente l'elemento psicologico necessario per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, tenuto conto che l'imputato non era stato animato dall'intento di ledere con abitualità l'integrità fisica e morale dei propri congiunti, ma esclusivamente dall'interesse contingente a soddisfare la sua personale esigenza di acquistare e consumare sostanza stupefacente: situazione nella quale egli avrebbe dovuto essere chiamato, al più, a rispondere dei singoli episodi di minacce e di percosse. 3. Il procedimento è stato trattato nell'odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le modalità di cui all'art. 23, commi 8 e 9, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati da successive modifiche legislative. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell'interesse di Ma.Lo. vada rigettato. 2. Il motivo dedotto con il ricorso è infondato. Costituisce espressione di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale, nel delitto di maltrattamenti in famiglia, il dolo non richiede la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale sia finalizzata, fin dalla loro rappresentazione iniziale, la serie di condotte tale da cagionare le abituali sofferenze fisiche o morali della vittima, essendo, invece, sufficiente la sola consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima (così, tra le altre, Sez. 1, n. 13013 del 28/01/2020, O., Rv. 279326; Sez. 6, n. 15146 del 19/03/2014, D., Rv. 259677; Sez. 6, n. 25183 del 19/06/2012, Scardaccione, Rv. 253042). Di tale criterio interpretativo la Corte di appello di Roma ha fatto corretta applicazione, rilevando come nel caso di specie la sussistenza della indicata consapevolezza dell'odierno ricorrente di persistere in un'attività vessatoria ai danni dei propri familiari fosse stata dimostrata dalla pervicacia e continuità con le quali il prevenuto aveva formulato quelle minacciose e violente richieste di denaro, che avevano provocato uno stato di prostrazione nelle congiunte, le quali si erano viste spesso costrette a chiudersi nelle proprie stanze e a chiedere l'intervento delle forze dell'ordine (v. pag. 3 sent. impugn.). In tale determinazione non è ravvisabile alcuna delle prospettate violazioni di legge, in quanto il difensore del ricorrente ha sostanzialmente confuso la prova della esistenza dell'elemento psicologico del reato contestato con il movente che, in quelle circostanze, aveva animato le iniziative aggressive del prevenuto: essendo pacifico che, ai fini della sussistenza del delitto di maltrattamenti in famiglia, il movente non esclude il dolo, alla cui nozione è estraneo, ma lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti e numerosi atti lesivi (così Sez. 6, n. 5541 del 02/04/1996, T., Rv. 204874; in senso conforme Sez. 5, n. 25936 del 13/02/2017, S., Rv. 270345). 3. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 30 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. APRILE Ercole - Relatore Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Sa.Fr., nato a M il (Omissis); avverso la sentenza del 04/10/2023 della Corte di appello di Messina; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Raffaele Gargiulo, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; letta la memoria dell'Avv. Gi.Ab., difensore del ricorrente, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Messina riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, rideterminando la pena finale, e confermava nel resto la medesima pronuncia del 16 gennaio 2023 con la quale il Tribunale di Messina aveva condannato Sa.Fr. in relazione al reato di cui all'art. 572 cod. pen. (in esso assorbito il reato già contestato ai sensi dell'art. 612-bis cod. pen.), per avere, dal 2003 ed almeno sino al settembre 2014, maltrattato abitualmente la compagna Ma.An.. tirandole addosso oggetti, spintonandola, picchiandola, minacciandola di morte e ingiuriandola. 2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il Sa.Fr., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti motivi. 2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 572 cod. pen., 192 e 546 cod. proc. pen., 111 Cost., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte territoriale confermato la pronuncia di condanna di primo grado, benché le dichiarazioni della persona offesa fossero risultate inattendibili per le evidenti reticenze e ingiustificate contraddizioni, e per l'anomalia delle condotte tenute durante il suo esame, avendo ella "gonfiato" il suo narrato ed essendo apparsa soggettivamente e intrinsecamente non credibile. 2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 572 cod. pen., 192 e 546 cod. proc. pen., 111 Cost., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte distrettuale omesso di considerare che i comportamenti aggressivi denunciati erano stati reciproci tra le parti del rapporto, con un grado di gravità e di intensità equivalenti. 2.3. Violazione di legge, in relazione agli artt. 612-bis, 157, 160 e 161 cod. pen., 111 Cost., e vizio di motivazione, per avere la Corte di merito omesso di dichiarare l'intervenuta estinzione per prescrizione del reato di atti persecutori, originariamente contestato al capo b), commesso fino al 2014. 2.4. Violazione di legge, in relazione agli artt. 572 e 612-bis, 111 Cost., e vizio di motivazione, per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto le condotte del capo b) "assorbite" in quelle del capo a), nonostante la convivenza tra i compagni fosse cessata nel 2014. 2.5. Violazione di legge, in relazione agli artt. 62-bis, 132 e 133 cod. pen., 27 e 111 Cost., e vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale ingiustificatamente negato all'imputato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, benché il prevenuto sia incensurato e non abbia più avvicinato la persona offesa dopo la presentazione della denuncia. 3. Il procedimento è stato trattato nell'odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le modalità di cui all'art. 23, commi 8 e 9, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati da successive modifiche legislative. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell'interesse di Sa.Fr. vada accolto, sia pur nei limiti e con gli effetti di seguito precisati. 2. I primi due motivi del ricorso, strettamente connessi tra loro, non superano il vaglio preliminare di ammissibilità perché contenenti la deduzione di ragioni diverse da quelle per le quali la legge consente tale impugnazione. Il ricorrente solo formalmente ha denunciato una serie di vizi di carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione della decisione gravata, senza però prospettare alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell'argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; né è riconoscibile alcuna delle denunciate violazioni di norme di legge. Il ricorrente si è limitato a criticare - peraltro, talora in maniera indeterminata - il significato che la Corte di appello di Messina aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante il giudizio di primo grado, sollecitando un'inammissibile rivalutazione dell'intero materiale conoscitivo, rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell'ambito di un sistema motivazionale logicamente completo ed esauriente. In particolare, i giudici di merito hanno chiarito, con motivazione che resta esente da qualsivoglia censura di manifesta illogicità, come la prova della sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di maltrattamenti per il quale vi è stata condanna, fosse desumibile dalla deposizione della persona offesa, intrinsecamente attendibili per la loro sufficiente precisione e linearità, la cui valenza non era stata inficiata dall'atteggiamento assunto nel processo dalla donna: la quale, dopo essersi oramai riappacificata con l'imputato, a distanza di tre anni dalla denuncia, oltre che decidere di non costituirsi parte civile, aveva cercato di ridimensionare le accuse e di sostenere, molto genericamente, che le sue precedenti indicazioni fossero state da lei "gonfiate", senza però essere stata in grado, significativamente, di precisare quali riferimenti non corrispondessero al vero. Per giunta, la testimonianza della prevenuta - che aveva, comunque, raffigurato una sua sottoposizione ad un regime vessatorio e degradante - era risultata riscontrata, nei suoi aspetti essenziali, dalle deposizioni dei di lei genitori, nonché dalle dichiarazioni di un sottufficiale dei carabinieri (v. pagg. 5-7 sent. impugn.; pagg. 6 ss. sent. primo grado). 3. Il terzo e quarto motivo del ricorso sono, invece, fondati. Richiamando quanto puntualizzato dal giudice del primo grado, la Corte territoriale ha ritenuto che le condotte contestate in termini di atti persecutori nel capo d'imputazione b) della rubrica, dovessero considerarsi assorbite nel più ampio addebito di maltrattamenti in famiglia del capo a), benché le prime fosse state tenute quando il rapporto di convivenza tra i due era oramai cessato, la donna aveva instaurato una nuova relazione sentimentale con un altro uomo e le relazioni tra i due ex conviventi erano proseguite solo per affrontare le esigenze dei figli minori che la coppia aveva in precedenza avuto (v. pagg. 7-8 sent. impugn.; pagg. 10-12 sent. primo grado). Tale impostazione esegetica, tuttora sostenuta da un indirizzo giurisprudenziale minoritario (per il quale si veda, da ultimo, Sez. 2, n. 43846 del 29/09/2023, V., Rv. 285330), non è condivisa da questo Collegio: apparendo preferibile il contrario orientamento esegetico secondo il quale, in tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" di cui all'art. 572 cod. pen. nell'accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continuativa: sicché è configurabile l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., e non il reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall'imputato dopo la cessazione della convivenza "more uxorio" con la persona offesa (così, tra le molte, Sez. 6, n. 31390 del 30/03/2023, P., Rv. 285087; Sez. 6, Sentenza n. 38336 del 28/09/2022, D., Rv. 283939; Sez. 6, n. 15883 del 16/03/2022, D., Rv. 283436; Sez. 6, n. 10626 del 16/02/2022, L. Rv. 283003; Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398). È indispensabile, infatti, rispettare la lettera della norma incriminatrice di diritto sostanziale in argomento e non modificarne la portata operativa in termini tali da formulare opzioni applicative fondate su soluzioni che rispondono ad una logica di interpretazione analogica in malam partem, non consentita in materia penale. In tale contesto è significativa la presa di posizione della Corte Costituzionale che, nell'esaminare una specifica questione processuale avente ad oggetto l'art. 521 cod. proc. pen., ha evidenziato il rischio che l'esercizio del relativo potere da parte del giudice possa determinare una violazione del principio di tassatività sancito dall'art. 25 Cost., che impone che "in materia penale il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione". Ciò la Consulta ha fatto proprio con riferimento al rapporto tra le due norme incriminatrici previste dagli artt. 572 e 612-bis cod. pen., sottolineando come "il divieto di analogia in malam partem impon(ga) di chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di "convivenza"...(e se)... davvero possa sostenersi che la sussistenza di una (tale) relazione consenta di qualificare quest'ultima come persona appartenente alla medesima "famiglia" dell'imputato (...). In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572 cod. pen. in casi siffatti - in luogo dell'art, 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice" (Corte cost., sent. n. 98 del 2021). In buona sostanza, alla luce di una esegesi rispettosa del principio costituzionale di legalità, ai fini della applicazione della norma incriminatrice dell'art. 572 cod. pen., di "convivenza" si può parlare solamente laddove risulti acclarata l'esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità: lungi dall'essere confuso con la mera coabitazione, il concetto di convivenza deve essere espressione di una stabile relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza materiale e spirituale di vita. Seguendo questa impostazione la motivazione della sentenza impugnata, mentre si presenta corretta nella parte in cui ha ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia fino al momento in cui vi era stata convivenza tra il soggetto attivo e la persona offesa, è invece errata nella parte in cui ha sostenuto che il delitto di cui all'art. 572 cod. pen. fosse configurabile anche per le condotte tenute dall'odierno ricorrente in danno della ex compagna nel periodo in cui era cessata la loro convivenza: periodo con riferimento al quale andrà valutata, ovviamente nel rispetto del divieto di reformatio in peius, la possibilità di qualificare i fatti ai sensi dell'art, 612-bis cod. pen., con ogni conseguenza di legge in ordine all'eventuale declaratoria di estinzione del reato del capo b) e alle rideterminazione della pena per il reato del capo a). 4. Nel riconoscimento della fondatezza del terzo e del quarto motivo, resta assorbito l'esame del quinto motivo, poiché la delimitazione cronologica del riconosciuto reato di maltrattamenti in famiglia e la rideterminazione del trattamento sanzionatorio imporranno al giudice di rinvio di rivalutare la questione concernente il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche. La sentenza impugnata va, dunque, annullata limitatamente al dichiarato assorbimento del reato del capo b) in quello del capo a), nonché al trattamento sanzionatorio, con rinvio, per nuovo giudizio su tali punti, ad altra sezione della Corte di appello di Messina. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Messina. Così deciso il 30 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 357 del 2022, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Ca. e Ar. Pl., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Brescia, via (...); per l'annullamento - del provvedimento disciplinare del 31 gennaio 2022 numero 333/SSA/I/232778, notificato all'interessato in data 8 febbraio 2022 Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 maggio 2024 la dott.ssa Marilena Di Paolo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con ricorso notificato il 1° aprile 2022, l'odierno ricorrente, -OMISSIS-, agente scelto della Polizia di Stato, ha impugnato il decreto del Capo della Polizia - Direttore generale della pubblica sicurezza emesso il 31 gennaio 2022, notificato l'8 febbraio 2022, con il quale è stata irrogata la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per mesi uno, ai sensi dell'art. 6, n. 1 e n. 4, in relazione all'art. 4, n. 3 del d.P.R. n. 737/1981. 2. Il provvedimento disciplinare risulta fondato sulla seguente motivazione: "dall'aprile del 2020 al febbraio del 2021 manteneva, al di fuori di esigenze di servizio, relazioni con compagnie non confacenti al proprio stato. Inoltre, in violazione dei doveri inerenti alle funzioni, rivelava notizie ed informazioni di uffici riguardanti le attività di Polizia giudiziaria e controllo del territorio, turbando la regolarità del servizio". 3. In particolare, il procedimento disciplinare era stato avviato dopo l'arresto di S.A., pregiudicato, avvenuto in Lecco in data 30 ottobre 2020, in concorso con il cittadino albanese F.C., per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, in quanto trovati in possesso di 450 gr di cocaina, oltre 2,3 kg. di hashish e circa 7 gr. di marijuana. 4. Dall'analisi del cellulare di S.A. e dai successivi riscontri sui tabulati telefonici acquisiti in sede di indagine, erano emersi numerosi ed assidui contatti dell'agente scelto -OMISSIS- con il pregiudicato sopraindicato e con i familiari di quest'ultimo, anche dopo il suo arresto. 5. In particolare, tale stretta frequentazione, quasi fraterna, era emersa dai numerosi contatti telefonici, dall'analisi delle chat wh. e da Fa., intrattenuti fino alla mattina del giorno in cui S.A. è stato tratto in arresto, di cui viene dato ampiamente conto nell'annotazione redatta in data 26 febbraio 2021 da personale della Squadra Mobile della Questura di Lecco. 6. Nelle chat intercorse, inoltre, erano state rilevate alcune richieste di informazioni relative al servizio di controllo del territorio svolto dalle volanti che S.A. aveva rivolto a -OMISSIS-, confidando sulla sua disponibilità ; in ben quattro occasioni, tutte documentate, S.A., mentre si trovava in alcuni locali della Provincia di Lecco, aveva inviato all'agente scelto -OMISSIS-, tramite wh., le foto di alcuni avventori, chiedendogli se appartenessero alle FF.OO.: una volta il -OMISSIS- aveva confermato che uno dei soggetti fotografati era effettivamente un appartenente all'Arma dei Carabinieri. In un'altra circostanza, sempre mediante lo stesso mezzo di comunicazione, aveva informato l'amico sulla propria posizione durate il servizio di volante e gli aveva inviato foto raffiguranti sia l'autovettura di servizio che colleghi e persone sottoposte a controlli documentali. 7. Era inoltre emerso un altro rapporto di conoscenza dell'agente scelto -OMISSIS- con altri soggetti trovati in possesso di sostanze stupefacenti e tratti in arresto in data 21 luglio 2020 dalla Polizia Ferroviaria di Milano e il 28 ottobre 2020 dalla Squadra Mobile di Lecco. 8. Pertanto, l'agente scelto -OMISSIS- era stato deferito alla locale A.G. per il reato di rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio. 9. In data 20 aprile 2021, il Pubblico Ministero titolare dell'indagine aveva formulato richiesta di archiviazione per speciale tenuità del fatto, rilevando che: "- non ricorrono le condizioni per dover richiedere l'archiviazione per infondatezza della notizia di reato; - il reato per cui si procede rientra nella cornice edittale prevista dall'art. 131-bis, commi 1 e 4 c.p.; - non ricorrono le cause ostative di cui all'art. 131-bis, co. 2 e 3 c.p; - le dichiarazioni rese dall'indagato in sede di interrogatorio portano a ritenere le condotte di reato di particolare tenuità, attese le motivazioni addotte alla base delle stesse, ascrivibili ad una superficiale valutazione delle conseguenze penali in relazione alla rivelazione di segreti d'ufficio; - l'instaurazione di un giudizio penale non appare coerente con le finalità per cui questo è stato disegnato dal Legislatore". 10. In data 9 giugno 2021 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecco aveva accolto la richiesta del Pubblico Ministero, emettendo decreto di archiviazione del procedimento penale. 11. Il Questore di Lecco, acquisito il citato decreto in data 29 giugno 2021, a seguito di formale istanza finalizzata a conoscere lo stato del procedimento penale, avviava l'inchiesta disciplinare, ai sensi dell'art. 19 del d.P.R. n. 737/1981, nominando, con atto del 10 settembre 2021, notificato il 13 settembre 2021, il funzionario istruttore, il quale, a sua volta, in data 21 settembre 2021, formalizzava la contestazione degli addebiti, individuando ex art. 6, commi 1, 4 e 7 della citata normativa, in relazione alla condotta tenuta dall'agente, la sanzione della "sospensione dal servizio". 12. L'agente De Beo, in data 17 ottobre 2021, presentava memoria difensiva, con la quale negava di conoscere i pregiudizi penali a carico di S.A. e dei suoi familiari, nonché contestava di aver rivelato segreti d'ufficio. 13. Il procedimento disciplinare si è concluso con l'adozione del provvedimento disciplinare oggetto dell'odierno ricorso. 14. Si è costituito in giudizio il Ministero dell'Interno per resistere al ricorso depositando documenti e memorie e insistendo per il rigetto del ricorso. 15. All'udienza pubblica del 22 maggio 2024 la causa è passata in decisione. DIRITTO 1. Il ricorso è affidato a tre motivi di illegittimità . 2. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 9, comma 6, dPR 737/81: il ricorrente sostiene che siano stati violati i termini per l'esercizio del potere disciplinare. A suo dire la contestazione degli addebiti sarebbe avvenuta oltre i 40 giorni dalla comunicazione del decreto di archiviazione, e ciò in violazione dell'art. 9, comma 6, d.P.R. 737/81 che prevede "Quando da un procedimento penale, comunque definito, emergono fatti e circostanze che rendano l'appartenente ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di giorni 120 dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all'Amministrazione". 2.1. Il motivo è infondato. 2.2. Si osserva che l'art. 9, comma 6, del d.P.R. 737/81 presuppone che sia stata pronunciata una sentenza, sia essa di condanna o di assoluzione, con la quale sia stato definito il processo penale, situazione che non ricorre nel caso di specie, dove invece non è stata esercitata l'azione penale - si evidenzia - non per infondatezza della notitia criminis, ma per la speciale tenuità del fatto. 2.3. Il citato articolo, inoltre, fa decorrere il dies a quo del termine di decadenza per la contestazione degli addebiti, che coincide con l'inizio del procedimento disciplinare, dalla pubblicazione o dalla notificazione della sentenza, adempimenti non prescritti per il decreto di archiviazione. 2.4. Non trattandosi dunque di casi simili, il citato art. 9, comma 6, non può trovare applicazione analogica come invece sostiene parte ricorrente, dal momento che l'art. 12 delle preleggi prevede che se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe, salvo il divieto di analogia in malam partem, sancito dal successivo art. 14, per le leggi penali e leggi eccezionali. 2.5. Ebbene, nel caso di specie, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 31 del d.P.R. n. 737/1981, ai procedimenti disciplinari dell'Amministrazione di pubblica sicurezza è applicabile analogicamente l'art. 103 d.P.R. n. 3/1957, secondo il quale "l'ufficio del personale che abbia comunque notizia di una infrazione disciplinare commessa da un impiegato svolge gli opportuni accertamenti preliminari e, ove ritenga che il fatto sia punibile con la sanzione della censura, rimette gli atti al competente capo ufficio; negli altri casi contesta subito gli addebiti all'impiegato invitandolo a presentare le giustificazioni". 2.6. Per costante giurisprudenza la norma ora citata, secondo cui la contestazione degli addebiti deve avvenire "subito", non mira a vincolare l'Amministrazione all'osservanza di un termine prestabilito e puntuale, tale da comportare col suo decorso la decadenza dell'azione disciplinare, bensì indica una regola di ragionevole prontezza e tempestività, da valutarsi caso per caso in relazione alla gravità dei fatti e alla complessità degli accertamenti preliminari, nonché allo svolgimento effettivo dell'iter procedimentale (ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 6 febbraio 2023, n. 1212). 2.7. Non è infatti previsto, all'art. 12, d.P.R. 25 ottobre 1981 n. 737 - che costituisce la normativa speciale rispetto a quella generale dettata dal d.P.R. n. 3 del 1957 -, alcun termine perentorio per la contestazione degli addebiti disciplinari a carico degli agenti della Polizia di Stato, con la conseguenza che l'Amministrazione procedente deve ottemperare solo ad una regola di ragionevole prontezza nell'effettuare detta contestazione; inoltre, l'uso del termine "subito" nel contesto dell'art. 103, d.P.R. n. 3 del 1957, ai fini della contestazione degli addebiti, per l'orientamento giurisprudenziale consolidato, presenta una mera valenza sollecitatoria, sicché residua all'Amministrazione un ampio spazio di azione ai fini dell'espletamento degli adempimenti finalizzati al reperimento e alla valutazione degli elementi relativi alle vicende oggetto di esame; infatti, nel procedimento disciplinare a carico dell'agente di Polizia di Stato - che ha inizio con la contestazione degli addebiti e termina con l'adozione del provvedimento sanzionatorio o con il proscioglimento dell'incolpato - vanno distinti i termini inderogabili, che sono quelli posti a garanzia dell'inquisito, e cioè quelli previsti per la presentazione delle giustificazioni, la presa di visione degli atti e, appunto, per il preavviso di trattazione davanti alla Commissione, da quelli ordinatori o sollecitatori, che sono tutti gli altri termini (Consiglio di Stato sez. III 20 giugno 2018 n. 3779, T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. V, 23 febbraio 2024, n. 718). 2.8. Ciò chiarito, va ulteriormente precisato che il d.P.R. n. 737/1981 non indica puntualmente quale sia l'atto di avvio del procedimento disciplinare, ossia quello che materialmente impedisce la decadenza dal potere, sicché spetta all'interprete individuarlo. 2.9. Orbene, analizzando il corpus normativo va rilevato come per l'irrogazione del richiamo scritto, della pena pecuniaria e della deplorazione il procedimento si avvia con la contestazione scritta degli addebiti (v. artt. 17 e 18 d.P.R. 737 cit.); viceversa, nel caso delle sanzioni più gravi, il primo atto del procedimento è la nomina del funzionario istruttore (art. 19, comma 2 d.P.R. 737 cit.), il quale comunica l'avvio (rectius, contesta per iscritto gli addebiti) al dipendente entro 10 giorni. 2.10. Nel caso di specie, dunque, il termine di riferimento è da individuarsi nel 13 settembre 2021, data in cui il Questore di Lecco aveva disposto l'espletamento di una inchiesta disciplinare notificando la nomina del funzionario istruttore, e la contestazione degli addebiti è avvenuta il 21 settembre 2021. 2.11. Sulla ragionevolezza dei termini per la contestazione degli addebiti, considerata la natura afflittiva del procedimento disciplinare, si osserva inoltre che nella disciplina del procedimento sanzionatorio contenuta nella L. 689/81, l'art. 14 prescrive che la contestazione degli addebiti deve essere fatta "immediatamente" e se la contestazione non è avvenuta immediatamente, deve essere fatta entro il termine di 90 giorni. Da ciò si trae dunque un ulteriore argomento per sostenere la ragionevolezza del termine entro il quale è avvenuta la contestazione degli addebiti e cioè nel termine di 85 giorni. 2.12. Ebbene, il periodo intercorso tra il fatto, la segnalazione (29 giugno 2021) e l'avvio del procedimento disciplinare, considerando anche l'approssimarsi del periodo estivo (luglio - agosto) in cui l'attività lavorativa subisce un naturale rallentamento legato al godimento delle ferie da parte del personale, si è manifestato in linea con quei criteri di ragionevole prontezza e tempestività di cui sopra, rendendo manifestamente infondata la doglianza del ricorrente. 3. Con il secondo motivo il ricorrente deduce il vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti posti a fondamento della sanzione, violazione della sfera della discrezionalità della P.A., violazione e falsa applicazione dell'art. 6 d.P.R. 737/81: in sintesi, il ricorrente sostiene che l'Amministrazione avrebbe erroneamente riportato la sua condotta alle fattispecie previste dall'art. 6 comma III, cioè ai casi in cui: - vengono poste in essere in modo abituale o reiterato le mancanze sanzionate con la pena pecuniaria; - si sia ricevuta una condanna, con sentenza passata in giudicato, per delitto non colposo che non comporti la destituzione di diritto; - l'aver denigrato l'Amministrazione o i superiori; - l'aver tenuto un comportamento che produce turbamento nella regolarità o nella continuità del servizio di istituto; - l'aver tollerato abusi commessi da dipendenti; - aver compiuto atti contrari ai doveri derivanti dalla subordinazione; - l'assidua frequenza, senza necessità di servizio ed in maniera da suscitare pubblico scandalo, di persone dedite ad attività immorale o contro il buon costume ovvero di pregiudicati; - l'uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope risultante da referto medico 8 legale; - l'allontanamento senza autorizzazione, dalla sede di servizio per un periodo superiore a cinque giorni; - l'omessa o ritardata presentazione in servizio per un periodo superiore a quarantotto ore e inferiore a cinque giorni o, comunque, nei casi in cui l'omissione o la ritardata presentazione in servizio di cui all'art. 4, n. 10, provochi gravi disservizi ovvero sia reiterata o abituale. Non solo la condotta tenuta dall'odierno ricorrente non rientrerebbe affatto nelle fattispecie sopra descritte ma, a suo dire, l'Amministrazione non avrebbe considerato che il decreto di archiviazione avrebbe ritenuto non gravi i fatti e il giudice penale non avrebbe svolto alcun tipo di accertamento dei fatti. Infine, il ricorrente esclude la consapevolezza e la conoscenza dei precedenti penali a carico del soggetto tratto in arresto. 4. Il motivo non è fondato. 4.1. Innanzitutto si osserva che il provvedimento impugnato si fonda sui fatti tipici di cui all'art. 6, n. 1 e n. 4, in relazione all'art. 4, n. 3 del d.P.R. n. 737/1981. 4.2. La fattispecie di cui al combinato disposto degli artt. 6, n. 1 e n. 4, e 4, n. 3, del d.P.R. n. 737/1981 contempla le "mancanze...di particolare gravità ovvero...reiterate o abituali" in relazione al "mantenimento, al di fuori di esigenze di servizio, di relazioni con persone che notoriamente non godono in pubblico estimazione o la frequenza di locali o compagnie non confacenti al proprio stato" nonché in relazione ad un "comportamento che produce turbamento nella regolarità o nella continuità del servizio di istituto". 4.3. Per quanto riguarda l'infrazione di cui all'art. 4 n. 3 del d.P.R. n. 737/1981, vale a dire il "mantenimento, al di fuori di esigenze di servizio, di relazioni con persone che notoriamente non godono in pubblico estimazione o la frequenza di locali o compagnie non confacenti al proprio stato" dai tabulati telefonici versati negli atti delle indagini preliminari, è emerso che l'agente scelto -OMISSIS- frequentava e aveva instaurato un rapporto di amicizia quasi fraterno con S.A. e con la sua famiglia, rapporto che andava ben al di là di quello di semplice avventore del ristorante di quest'ultimo. Risulta infatti che -OMISSIS- e S.A. si sono tenuti in contatto telefonico e tramite messaggi via chat con una costante frequenza fino alla mattina dell'arresto di S.A. e risulta inoltre che -OMISSIS-, il 23 luglio 2020, aveva scritto a S.A. "-OMISSIS-torna tra noi" informandolo come quest'ultimo, arrestato per droga, fosse stato scarcerato e sottoposto al regime degli arresti domiciliari. Dalla relazione istruttoria redatta dal funzionario istruttore emergono inoltre ulteriori elementi a supporto dello stretto legame instaurato dal -OMISSIS- con la famiglia di S.A.; in particolare, il funzionario istruttore aveva allegato una nota investigativa redatta dal Dirigente della DIGOS di Lecco, che aveva documentato, dopo l'arresto di S.A., un incontro conviviale e amichevole di -OMISSIS- con i parenti di S.A., presso il bar del palazzetto dello sport di Me.. Si legge inoltre che dagli stessi accertamenti investigativi, emergevano altresì contatti del -OMISSIS-, non motivati da finalità istituzionali, con un dipendente di un esercizio commerciale destinatario di una misura interdittiva antimafia e di un cittadino kossovaro, tale -OMISSIS-, entrambi arrestati per reati connessi allo spaccio di sostanze stupefacenti. 4.4. Quanto al procedimento penale a carico del -OMISSIS-, assumono rilevanza le chat che riportano le richieste di informazioni che S.A. gli rivolgeva per identificare eventuali appartenenti alle forze dell'ordine presenti nei locali dallo stesso frequentati e per conoscere la localizzazione delle pattuglie sul territorio, informazioni evidentemente utili per poter svolgere la sua illecita attività di spaccio lontano dalle forze dell'ordine. 4.5. Contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente - la quale sostiene che in sede penale non sarebbe stato svolto alcun accertamento sui fatti - il decreto di archiviazione ex art. 131-bis c.p. per la speciale tenuità del fatto è stato emesso in quanto "le dichiarazioni rese dall'indagato in sede di interrogatorio portano a ritenere le condotte di reato di particolare tenuità, attese le motivazioni addotte alla base delle stesse, ascrivibili ad una superficiale valutazione delle conseguenze penali in relazione alla rivelazione di segreti d'ufficio" e dunque esso è stato adottato sul presupposto di un giudizio di fondatezza della notitia criminis, considerato che l'art. 131-bis c.p. non esclude la responsabilità penale ma prevede una causa di non punibilità per i reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione, applicabile nel caso di specie. 5. Non può quindi negarsi che il comportamento contestato al ricorrente in sede disciplinare sia in contrasto coi doveri del personale della Polizia di Stato e capace di arrecare grave nocumento alla credibilità e al prestigio di quest'ultima, in considerazione delle sue funzioni istituzionali, né è dato cogliere profili di irragionevolezza nella valutazione dell'Amministrazione in merito alla gravità della condotta dell'incolpato, il quale, ancora dopo l'arresto del pregiudicato aveva continuato a mantenere rapporti di convivialità con i parenti dell'arrestato. 6. Occorre rammentare che per il regolamento di servizio dell'Amministrazione della pubblica sicurezza il personale della Polizia di Stato ha il precipuo dovere di "non mantenere, al di fuori di esigenze di servizio, relazioni con persone che notoriamente non godono pubblica estimazione, non frequentare locali o compagnie non confacenti alla dignità della funzione" (art. 12, n. 4, d.P.R. 28 ottobre 1985, n. 782) e di "non frequentare senza necessità di servizio o in maniera da suscitare pubblico scandalo persone dedite ad attività immorali o contro il buon costume ovvero pregiudicate" (art. 12, n. 5, d.P.R. n. 782/85) e, in generale, "deve mantenere una condotta irreprensibile, operando con senso di responsabilità, nella piena coscienza delle finalità e delle conseguenze delle proprie azioni in modo da riscuotere la stima, la fiducia ed il rispetto della collettività, la cui collaborazione deve ritenersi essenziale per un migliore esercizio dei compiti istituzionali, e deve astenersi da comportamenti o atteggiamenti che arrecano pregiudizio al decoro dell'Amministrazione" tenendo anche fuori servizio una "condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni" (art. 13 d.P.R. n. 782/85). 6.1. Alla luce degli elementi in atti, il Collegio ritiene che l'apprezzamento dell'Amministrazione dell'Interno in ordine alla sussistenza dei presupposti degli illeciti disciplinari ascritti al dipendente sia esente da palese travisamento dei fatti. 7. Con il terzo e ultimo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'eccessività della sanzione inflitta: a dire del ricorrente, la sanzione sarebbe del tutto sproporzionata rispetto alla condotta contestata, tenuto anche conto del fatto che, a mente dell'art. 13, comma 1, del d.P.R.737/81, l'organo competente ad infliggere la sanzione deve tener conto di tutte le circostanze attenuanti, dei precedenti disciplinari e di servizio del trasgressore, del carattere, dell'età, della qualifica e della anzianità di servizio e sanzionare con maggior rigore le mancanze commesse in servizio o che abbiano prodotto più gravi conseguenze per il servizio, quelle commesse in presenza o in concorso con inferiori o indicanti scarso senso morale e quelle recidive o abituali. Nel caso di specie non vi sarebbe alcuna prova che la mancanza descritta nella nota di contestazione del 21 settembre 2021, anche alla luce del giudizio di tenuità proposto dal P.M. ed accolto dal G.I.P. di Lecco, sia stata reiterata o abituale, o che abbia gettato scandalo nell'Amministrazione. 8. Il motivo è infondato. 8.1. Occorre premettere che per costante giurisprudenza, in punto di individuazione e dosimetria della sanzione disciplinare, l'Amministrazione gode di ampia discrezionalità, sindacabile dal giudice amministrativo solo ab externo nei casi di manifesta irrazionalità, insostenibile illogicità o palese arbitrarietà (ex multis, Cons. St., sez. II, 31 gennaio 2023, n. 1103, cit.; Cons. St., sez. IV, 21 gennaio 2020, n. 484; T.A.R. Piemonte, sez. I, 13 febbraio 2022, n. 124). 8.2. Nel caso di specie, il funzionario istruttore ha tenuto conto di tutte le circostanze, esposte a pag. 5 della relazione istruttoria, ritenendo prevalente la gravità della condotta in quanto le frequentazioni del -OMISSIS- con soggetti dediti ad attività criminose quali spaccio di sostanze stupefacenti, non sono deontologicamente conformi al regolamento di servizio, cui un appartenente ai ruoli della Polizia di stato ha il dovere di uniformarsi e ciò è stato considerato come altamente lesive del vincolo fiduciario di appartenenza che lega la Polizia di Stato ai propri dipendenti. 8.3. A fronte di un simile riprovevole comportamento, di particolare gravità per il decoro e l'immagine della Polizia di Stato, la sanzione inflitta al ricorrente non appare sproporzionata né illogica. 8.4. Quanto al trasferimento d'ufficio, la giurisprudenza ha chiarito che il trasferimento per motivi di opportunità ed incompatibilità ambientale dell'appartenente alla Polizia di Stato, disposto ai sensi della norma appena citata, "non ha carattere sanzionatorio né disciplinare, non postulando comportamenti sanzionabili in sede penale o disciplinare, ed è condizionato solo alla valutazione del suo presupposto essenziale costituito dalla sussistenza oggettiva di una situazione di fatto lesiva del prestigio, decoro o funzionalità dell'amministrazione che sia, da un lato, riferibile alla presenza del dipendente in una determinata sede e, dall'altro lato, suscettibile di rimozione attraverso l'assegnazione del medesimo ad altra sede" (T.A.R. Milano, sez. III, 30/04/2018, n. 1156; T.A.R. Palermo, sez. I, 18/11/2022, n. 3273; T.A.R. Reggio Calabria, sez. I, 07/12/2021, n. 928; T.A.R. Cagliari, sez. II, 03/07/2019, n. 599). 9. Per quanto sopra esposto il ricorso va dunque respinto. 10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite nei confronti del Ministero dell'Interno che liquida in Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) oltre accessori se previsti dalla legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente. Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Angelo Gabbricci - Presidente Alessandro Fede - Referendario Marilena Di Paolo - Referendario, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. DE AMICIS Gaetano - Presidente Dott. APRILE Ercole - Consigliere Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria - Consigliere Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ma.An. , nato a R il (Omissis) avverso la sentenza del 17/11/2023 emessa dal Tribunale di Velletri visti gli atti, la sentenza e il ricorso; udita la relazione del consigliere Paolo Di Geronimo; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Luigi Giordano, che ha chiesto l'annullamento della sentenza; RITENUTO IN FATTO 1. Il giudice per le indagini preliminari applicava all'imputato la pena concordata con il pubblico ministero, relativamente ai reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali, condannando altresì il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore della parte civile. 2. Avverso tale sentenza, il ricorrente ha formulato tre motivi di impugnazione. 2.1. Con il primo motivo, deduce la violazione degli artt. 78, 29, 447 e 448 cod. proc. pen. in relazione alla condanna alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, evidenziando come l'accordo sulla pena si era formato prima ancora dell'esercizio dell'azione penale e la sentenza era stata emessa nell'udienza appositamente fissata, alla quale non doveva essere neppure consentita la costituzione della parte civile. 2.2. Con il secondo motivo, deduce la violazione degli artt. 446 e 448 cod. proc. pen. , assumendo che il giudice per le indagini preliminari aveva erroneamente ritenuto che il ricorrente, all'udienza del 17 novembre 2023, avesse revocato la richiesta di applicazione della pena. Invero, la volontà espressa era diretta a mantenere fermo l'accordo sulla pena che, tuttavia, doveva essere sostituita con i lavori di pubblica utilità, in base alla nuova disciplina delle sanzioni sostitutive. Il giudice, invece, era incorso in un vero e proprio travisamento della volontà dell'imputato, posto che, se questi avesse inteso revocare la precedente richiesta di patteggiamento, non avrebbe avuto alcun senso logico il deposito della procura speciale con la quale si affermava la volontà di addivenire alla sostituzione della pena già concordata. Alla luce di tali elementi, il giudice avrebbe dovuto accertare la reale volontà del ricorrente e non procedere all'applicazione della pena, anche in considerazione del diniego immotivato espresso dal pubblico ministero. In ogni caso, pur interpretando la volontà dell'imputato come una mera revoca del consenso precedentemente espresso, si sarebbe dovuto dare applicazione all'orientamento giurisprudenziale, contrario rispetto a quello indicato in sentenza, che consente la revoca fin quando l'accordo non è ratificato dal giudice. 2.3. Con il terzo motivo, infine, il ricorrente rappresenta che, il 5 dicembre 2023, la persona offesa ha rimesso la querela con conseguente accettazione, sicché il reato di lesioni personali deve ritenersi non più procedibile, il che imporrebbe in ogni caso l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata. 3. Il ricorso è stato trattato con rito cartolare. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito specificati. 2. Il primo motivo, concernente l'illegittima condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di difesa in favore della parte civile, è fondato. Occorre premettere che, nel caso in esame, l'accordo sulla pena è stato raggiunto dopo la notifica dell'avviso ex art. 415 - bis cod. proc. pen. e prima ancora che il pubblico ministero esercitasse l'azione penale. Si tratta, pertanto, di un'ipotesi di patteggiamento nel corso delle indagini preliminari, a fronte della quale il giudice ha correttamente fissato apposita udienza in camera di consiglio, finalizzata esclusivamente al vaglio della richiesta di applicazione della pena. Per consolidata giurisprudenza, nell'udienza fissata a seguito della richiesta di applicazione della pena presentata nel corso delle indagini preliminari non è consentita la costituzione di parte civile ed è pertanto illegittima la condanna dell'imputato al pagamento delle spese sostenute dal danneggiato dal reato la cui costituzione sia stata ammessa dal giudice nonostante tale divieto (Sez.U, n. 47803 del 27/11/2008, D'Avino, Rv. 241356). 3. Il secondo motivo, concernente il rigetto della richiesta di sostituzione della pena detentiva, pur essendo infondato, risulta assorbito dall'accoglimento del terzo motivo. 3.1 Per mera completezza espositiva, è opportuno esaminare ugualmente la questione, ricostruendo nel dettaglio i singoli passaggi processuali rilevanti dai quali emerge che: - a seguito di richiesta dell'indagato, il pubblico ministero prestava il consenso all'applicazione della pena in data 31 agosto 2023; - l'accordo prevedeva esclusivamente l'applicazione della pena detentiva, non facendo in alcun modo riferimento alla sostituzione della stessa; - all'udienza del 17 novembre 2023, il difensore dell'indagato concludeva depositando "revoca al consenso del patteggiamento" sulla base di una procura speciale, del 16 novembre 2023, con la quale si conferiva al difensore il potere di "prestare il consenso all'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. unicamente se subordinato all'accesso al beneficio della pena sostitutiva"; - il pubblico ministero non prestava il suo consenso alla revoca del patteggiamento; - il giudice rigettava la richiesta di revoca e decideva in conformità all'accordo sulla pena formulato dalle parti. Orbene, sulla base di tali dati di fatto - risultanti dall'esame degli atti e, in particolare, del verbale di udienza - deve escludersi che il giudice abbia mal interpretato la volontà del ricorrente, posto che la richiesta formulata a verbale era espressamente nel senso di revocare il consenso già prestato. Si ritiene, pertanto, che il giudice abbia correttamente escluso la legittimità della revoca, applicando il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la richiesta di applicazione della pena non è più revocabile una volta che su di essa sia espresso il consenso della parte, in quanto la formazione dell'accordo determina effetti irreversibili ed è sottoposto solo al controllo giudiziale (Sez.4, n. 38051 del 3/7/2012, Rv. 254367). 3.2 Tanto premesso, deve ritenersi che il ricorrente, stante l'accordo raggiunto con la parte pubblica, non poteva invocare l'applicazione della disciplina delle pene sostitutive a fronte di un accordo che non le prevedeva in alcun modo. A tal proposito, infatti, deve sottolinearsi come le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 150 del 2022 impongono alle parti di indicare ab origine se l'accordo prevede o meno la sostituzione, tant'è che il novellato art. 444, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce espressamente che "l'imputato e il pubblico ministero possono chiede l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una pena sostitutiva o di una pena pecuniaria" ovvero della pena detentiva. Il tenore letterale della norma impone, senza possibilità di interpretazioni difformi, che l'accordo sottoposto al giudice contempli già l'esatta individuazione della pena detentiva, pecuniaria o sostitutiva, non essendo consentito - come invece avviene nel rito ordinario - la scissione della fase di determinazione della pena, con la determinazione della sanzione ordinaria cui far seguire, eventualmente, la sostituzione della stessa (a supporto di tale soluzione si veda Sez.6, n. 30767 del 28/4/2023, Lombardo, Rv. 284978; Sez.2, n. 50010 del 10/10/2023, Melluso, Rv. 285690). 4 Risulta fondato e assorbente il terzo motivo con il quale si rappresenta la sopravvenuta remissione della querela in ordine al reato di lesioni personali. Occorre preliminarmente dare atto che, dalla lettura dell'imputazione, non risulta contestata alcuna delle aggravanti che, in base ai novellati artt. 582 e 585 cod. pen. , renderebbe il reato procedibile d'ufficio. Ne consegue che, stante l'accettazione della remissione della querela, deve dichiararsi l'estinzione del reato, in applicazione del consolidato principio secondo cui la remissione di querela, intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e ritualmente accettata, determina l'estinzione del reato che prevale anche su eventuali cause di inammissibilità e va rilevata e dichiarata dal giudice di legittimità, purché il ricorso sia stato tempestivamente proposto (Sez.U, n, 24246 del 25/2/2004, Chiasserini, Rv. 227681). 5 Ritiene la Corte, tuttavia, che non si possa procedere alla mera rideterminazione della pena concordata tra le parti, posto che l'eliminazione di uno dei reati oggetto dell'accordo comporta il venir meno dello stesso, non essendo consentito al giudice - come invece avviene nel caso di ordinaria sentenza di condanna - di rimodulare la sanzione inflitta. La natura dell'applicazione della pena su accordo delle parti comporta, infatti, che il contenuto dello stesso e, quindi, la determinazione finale della pena da applicare, è rimessa unicamente all'atto negoziale, rispetto al quale il giudice è privo di un autonomo potere di rimodulazione della pena. Applicando tale principio, ne consegue che la sentenza di applicazione della pena deve essere annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti al Pubblico ministero, posto che la sentenza è stata emessa in fase di indagini preliminari e prima ancora che fosse fissata l'udienza preliminare. Il ricorrente, per effetto dell'annullamento, potrà procedere a formulare una nuova richiesta di applicazione della pena, eventualmente concordando anche la pena sostitutiva, ovvero, si potrà procedere nelle forme ordinarie. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone la trasmissione degli atti al P.M. presso il Tribunale di Velietri. Così deciso il 17 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Quinta Bis ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5296 del 2019, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi.Sa., Ka.Ta., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi.Sa. in Parma, (...); contro Ministero dell'Interno, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per l'annullamento del decreto emesso dal Ministero dell'Interno relativo all'istanza -OMISSIS- datato 17.01.2019 e notificato alla ricorrente in data 13.02.2019 mediante il quale veniva respinta l'istanza di concessione della cittadinanza italiana richiesta ai sensi dell'art. 9, comma 1, lettera f) della Legge 5 febbraio 1991 n. 92 Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 febbraio 2024 la dott.ssa Antonietta Giudice e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO I. - La ricorrente ha presentato istanza intesa ad ottenere la concessione della cittadinanza italiana, ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 91/1992, in data 3 febbraio 2014. II. - Esperita l’istruttoria di rito, l’Amministrazione con DM 17 gennaio 2019 ha respinto la domanda, previa comunicazione ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 e a seguito del contraddittorio con l’interessata, essendo risultati a carico del figlio convivente i seguenti elementi di controindicazione: - in data 2.7.2005: indagato in stato di libertà dalla stazione CC di Omissisdalla Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Bologna, per il reato di cui all’art. 110,624,625 n. 2, 61 n. 7 c.p. (furto aggravato in concorso); - in data 15.3.2008: notifica decreto divieto di ritorno nel Comune di Piacenza per anni tre, datato 27.2.2008 adottato dal Questore di Piacenza; - in data 25.2.2008: contestata violazione amministrativa dalla Prevenzione Generale e Soccorso Pubblico di Piacenza, per violazione dell’art. 688 c.p. (manifesta ubriachezza); - in data 25.02.2008: notizie di reato all’A.G. dalla Prevenzione Generale e Soccorso Pubblico di Piacenza per violazione dell’art. 582 e 588 c.p. (lesioni personali e rissa); - in data 11.11.2009: decreto penale del G.I.P. presso il Tribunale di Parma, divenuto esecutivo in data 18.12.2009, per il reato di cui all’art. 659, 175 c.p. (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone). III. - Avverso il suddetto provvedimento di diniego la ricorrente insorge con l’odierno gravame, chiedendone l’annullamento, in quanto asseritamente affetto dai vizi di: 1. Eccesso di potere per incongrua e carente motivazione, travisamento dei fatti posti alla base del provvedimento di diniego; 2. Violazione dell’art. 3 della legge 7.8.1990, n. 241, provvedimento non sufficientemente motivato. La parte censura il provvedimento in quanto non adottato a seguito di una compiuta valutazione della posizione della richiedente che afferma di essere socialmente integrata nel tessuto sociale italiano di non aver subìto condanne penali e di non aver avuto alcun coinvolgimento nelle vicende penali dl figlio, il quale è in ogni caso in possesso di una carta di soggiorno di lungo periodo. IV. - Il Ministero dell’interno, costituito in giudizio per resistere al ricorso, ha depositato documenti del fascicolo del procedimento e una relazione difensiva, contestando nel merito le censure ex adverso svolte e concludendo per il rigetto della domanda di annullamento del diniego impugnato. V. - All’udienza pubblica del 28 febbraio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO I. - Il ricorso è infondato. II. - Il Collegio reputa utile una premessa di carattere teorico in ordine al potere attribuito all’amministrazione in materia, all’interesse pubblico protetto e alla natura del relativo provvedimento (vedi, da ultimo, TAR Lazio, sez. V bis, n. 2943, 2944, 2945, 3018 e 3471/2022). L'acquisizione dello status di cittadino italiano per naturalizzazione è oggetto di un provvedimento di concessione, che presuppone l'esplicarsi di un'amplissima discrezionalità in capo all'Amministrazione. Ciò si desume ictu oculi, dalla norma attributiva del potere, l’art. 9, comma 1, della legge n. 91/1992, a tenore del quale la cittadinanza "può" - e non "deve" - essere concessa. La dilatata discrezionalità in questo procedimento si estrinseca attraverso l’esercizio di un potere valutativo che si traduce in un apprezzamento di opportunità in ordine al definitivo inserimento dell'istante all'interno della comunità nazionale, apprezzamento influenzato e conformato dalla circostanza che al conferimento dello status civitatis è collegata una capacità giuridica speciale, propria del cittadino, che comporta non solo diritti - consistenti, sostanzialmente, oltre nel diritto di incolato, nei "diritti politici" di elettorato attivo e passivo (che consentono, mediante l’espressione del voto alle elezioni politiche, la partecipazione all’autodeterminazione della vita del Paese di cui si entra a far parte e la possibilità di assunzione di cariche pubbliche) - ma anche doveri nei confronti dello Stato-comunità - consistente nel dovere di difenderla anche a costo della propria vita in caso di guerra ("il sacro dovere di difendere la Patria" sancito, a carico dei soli cittadini, dall’art. 52 della Costituzione), nonché, in tempo di pace, nell'adempimento dei "doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale", consistenti nell’apportare il proprio attivo contributo alla Comunità di cui entra a far parte (art. 2 e 53 Cost.). A differenza dei normali procedimenti concessori, che esplicano i loro effetti esclusivamente sul piano di uno specifico rapporto Amministrazione/Amministrato, l’ammissione di un nuovo componente nell’elemento costitutivo dello Stato (Popolo), incide sul rapporto individuo/Stato-Comunità, con implicazioni d’ordine politico-amministrativo; si tratta, pertanto, di determinazioni che rappresentano un'esplicazione del potere sovrano dello Stato di ampliare il numero dei propri cittadini (vedi, da ultimo, Consiglio di Stato, sez. III, 7.1.2022 n. 104; cfr. Cons. Stato, AG, n. 9/1999; sez. IV n. 798/1999; n. 4460/2000; n. 195/2005; sez, I, n. 1796/2008; sez. VI, n. 3006/2011; Sez. III, n. 6374/2018; n. 1390/2019, n. 4121/2021; TAR Lazio, Sez. II quater, n. 10588 e 10590 del 2012; n. 3920/2013; 4199/2013). È stato, in proposito, anche osservato che il provvedimento di concessione della cittadinanza refluisce nel novero degli atti di alta amministrazione, che sottende una valutazione di opportunità politico-amministrativa, caratterizzata da un altissimo grado di discrezionalità nella valutazione dei fatti accertati e acquisiti al procedimento: l'interesse dell'istante ad ottenere la cittadinanza deve necessariamente coniugarsi con l'interesse pubblico ad inserire lo stesso a pieno titolo nella comunità nazionale. E se si considera il particolare atteggiarsi di siffatto interesse pubblico, avente natura "composita", in quanto coevamente teso alla tutela della sicurezza, della stabilità economico-sociale, del rispetto dell’identità nazionale, è facile comprendere il significativo condizionamento che ne deriva sul piano dell’agere del soggetto alla cui cura lo stesso è affidato. In questo quadro, pertanto, l’amministrazione ha il compito di verificare che nel soggetto istante risiedano e si concentrino le qualità ritenute necessarie per ottenere la cittadinanza, quali l’assenza di precedenti penali, la sussistenza di redditi sufficienti a sostenersi, una condotta di vita che esprime integrazione sociale e rispetto dei valori di convivenza civile. La concessione della cittadinanza deve rappresentare il suggello sul piano giuridico di un processo di integrazione che nei fatti sia già stato portato a compimento, la formalizzazione di una preesistente situazione di "cittadinanza sostanziale" che giustifica l’attribuzione dello status giuridico (in proposito, Tar Lazio, Sez. II quater, sent. n. 621/2016: "concessione che costituisce l’effetto della compiuta appartenenza alla comunità nazionale e non causa della stessa"). In altre parole, si tratta di valutare il possesso di ogni requisito atto ad assicurare l’inserimento in modo duraturo nella comunità, mediante un giudizio prognostico che escluda che il richiedente possa successivamente creare problemi all’ordine e alla sicurezza nazionale, disattendere le regole di civile convivenza ovvero violare i valori identitari dello Stato, gravare sulla finanza pubblica (cfr. ex multis, Tar Lazio, Roma, Sez. I ter, n. 3227 e n. 12006 del 2021 e sez. II quater, n. 12568/ 2009; Cons. Stato, sez. III, n. 104/2022; n. 4121/2021; n. 7036 e n. 8233 del 2020; n. 1930, n. 7122 e n. 2131 del 2019; n. 657/2017; n. 2601/2015; sez. VI, n. 3103/2006; n. 798/1999). III. - Se, dunque, il potere dell’Amministrazione ha natura discrezionale, il sindacato giurisdizionale sulla valutazione dell’effettiva e compiuta integrazione nella comunità nazionale deve essere contenuto entro i ristretti argini del controllo estrinseco e formale, esaurendosi nello scrutinio del vizio di eccesso di potere, nelle particolari figure sintomatiche dell’inadeguatezza del procedimento istruttorio, illogicità, contraddittorietà, ingiustizia manifesta, arbitrarietà, irragionevolezza della scelta adottata o difetto di motivazione, con preclusione di un’autonoma valutazione delle circostanze di fatto e di diritto oggetto del giudizio di idoneità richiesto per l’acquisizione dello status di cui è causa; il vaglio giurisdizionale non deve sconfinare nell’esame del merito della scelta adottata, riservata all’autonoma valutazione discrezionale dell’Amministrazione (ex multis, Cons. Stato, sez. III, 7.1.2022 n. 104; Sez. IV, n. 6473/2021; Sez. VI, n. 5913/2011; n. 4862/2010; n. 3456/2006; Tar Lazio, Sez. I ter, n. 3226/2021, Sez. II quater, n. 5665/2012). IV. - Alla luce del quadro ricostruito, questo Collegio ritiene che l’operato della p.a. sia immune dai vizi dedotti dalla parte che, in quanto strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente. Dalla lettura del provvedimento, il Collegio ritiene che sia possibile ricostruire, contrariamente a quanto dedotto nell’atto introduttivo del ricorso, il percorso logico-giuridico che ha condotto l’amministrazione - sulla base delle risultanze istruttorie raccolte, tenuto conto in particolare del rapporto informativo della Legione Carabinieri Emilia Romagna del 15 febbraio 2017 nonché del certificato del casellario giudiziale n. 2588349/2018/R - all’adozione di una determinazione sfavorevole per la richiedente, essendo stata profilata una situazione critica nell’ambito familiare. La determinazione avversata è fondata sulla rilevanza attribuita dall’amministrazione al rapporto di parentela stabile e al legame affettivo della richiedente con il figlio risultato incline a violare le regole di civile convivenza, in quanto suscettibile di suggerire scelte emotive volte ad agevolare, per mere ragioni di coinvolgimento affettivo-emotivo, comportamenti non aderenti ai valori della Repubblica. Ebbene in proposito, il Collegio ritiene utile evidenziare che all’autorità procedente nei procedimenti di concessione della cittadinanza si richiede di estendere la valutazione circa l'avvenuta integrazione dello straniero nella comunità nazionale sotto i molteplici profili della sua condizione lavorativa, economica, familiare e di irreprensibilità della condotta anche al nucleo familiare (cfr. Cons. Stato, sez. I, n. 2674/2018; Id., sez. I, n. 2660/2017, secondo cui la concessione della particolare capacità connessa allo status di cittadino impone che "si valutino, anche sotto il profilo indiziario, le prospettive di ottimale inserimento del soggetto interessato nel contesto sociale del paese ospitante, sotto il profilo dell’apporto lavorativo e del rispetto delle regole del paese stesso. E in tale ottica, non può ritenersi censurabile l’estensione della valutazione anzidetta al nucleo familiare"). D'altronde, come condivisibilmente rilevato da questo Tribunale (cfr. Sez. I ter n. 13300 del 10 dicembre 2020; Sez. II quater n. 1840 del 2 febbraio 2015), la natura altamente discrezionale del provvedimento di concessione della cittadinanza italiana per naturalizzazione, infatti, fa sì che possano essere presi in considerazione dall’amministrazione per le proprie determinazioni tutti gli aspetti, riguardanti l’istante, ritenuti indicativi della sua effettiva e piena integrazione (sull’estensione del giudizio di opportunità del rilascio dello status alla condotta del nucleo familiare dell’aspirante cittadino, Tar Lazio, Sez. V bis, n. 3673 del 6 marzo 2023, ha chiarito: "in tal modo evidenziando l’ambito soggettivo di tale valutazione, che non si limita alla sola persona del richiedente, ma investe la cerchia dei familiari, in quanto nucleo elementare in cui si forma, si sviluppa e si manifesta la personalità individuale e che, pertanto, costituisce "l’ambiente" in cui va particolarmente studiato il comportamento dei soggetti"). I comportamenti penalmente rilevanti anche dei familiari di primo grado, quando si tratta di familiari conviventi, dunque possono essere considerati al fine di motivare il diniego della cittadinanza italiana del padre, in quanto sono sintomatici della integrazione del nucleo familiare nel quale l’istante vive. I due aspetti della convivenza e dello stretto grado di parentela costituiscono, infatti, elementi significativi della sicura influenza svolta dal familiare, che abbia commesso reati, sull’istante o viceversa e dunque sono stati legittimamente valorizzati dalla amministrazione ai fini di una motivazione di rigetto della cittadinanza italiana. In particolare, nel caso di specie è venuta in emersione la riconducibilità al figlio di una pluralità di illeciti - furto aggravato in concorso di cui agli artt. 110, 624, 625 n. 2, 61 n. 7 c.p.; manifesta ubriachezza per violazione dell’art. 688 c.p.; lesioni personali e rissa per violazione dell’art. 582 e 588 c.p.; disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone per il reato di cui all’art. 659, 175 c.p. - commessi in un caso anche durante la minore età dello stesso e in ogni caso tutti verificatesi nel c.d. "periodo di osservazione", il decennio antecedente la domanda, in relazione al quale deve essere raccolto da parte della p.a. ogni elemento utile sul conto del richiedente lo status al fine della formulazione del giudizio prognostico di ottimale inserimento in maniera stabile nella comunità nazionale. Dette condotte contestate al figlio convivente, che sono anche sfociate in un provvedimento di condanna e in un provvedimento di divieto di ritorno nel Comune di Piacenza, sono da considerare, da un lato, violative di beni-interessi fondamentali per l’ordinamento - tra i quali l’integrità fisica e il patrimonio della persona, la tranquillità pubblica - tutelati in tutte le manifestazioni e in ogni momento della vita associativa dall’ordinamento italiano, dentro e fuori la famiglia, dall’altro, indicative - in ragione di una valutazione non atomistica delle stesse - di un cattivo rapporto ovvero mancato rispetto delle istituzioni dell’ordinamento in cui il nucleo familiare intende radicarsi; pertanto sono state, ad avviso del Collegio, non irragionevolmente ritenute rilevanti al fine della valutazione del livello di integrazione complessivo dei componenti della famiglia, nonché in generale ai fini della formulazione del giudizio di idoneità dell’aspirante cittadino, senza contare la possibilità dei benefici previsti dal legislatore in favore dei familiari conviventi del cittadino. V. - In altre parole, il diniego avversato - lungi peraltro dal violare il principio della personalità della responsabilità penale, vista la limitazione dei relativi effetti al piano amministrativo (cfr. Cons. Stato, sez. I, parere n. 316/2023: "Con il diniego della cittadinanza l’amministrazione non ha esteso al richiedente le conseguenze penali dei reati commessi da un membro del nucleo familiare, ma ha ritenuto di non potere escludere che i significativi precedenti penali dei figli siano indicativi di una situazione di insufficiente integrazione del nucleo familiare nella collettività nazionale e di una situazione di probabile rischio di conseguenze dannose per la stessa collettività ") - si innesta sul pericolo di danno alla comunità nazionale in conseguenza dell’applicazione dei benefici ai parenti del cittadino [cfr. Tar Lazio, sez. V bis, n. 3673/2023 citata: "il richiamo al principio della "responsabilità personale" risulta inconferente in quanto nel contenzioso sulla cittadinanza non viene in considerazione solo la condotta del richiedente, ma anche quella dell’intero nucleo familiare, apprezzato in un’ottica oggettiva, tenendo conto delle conseguenze negative che dalla "infelice" concessione della cittadinanza deriverebbero per l’intera collettività (la cui salvaguardia costituisce una finalità di valore preminente rispetto all’aspirazione dell’istante a prendere parte alla vita politica nazionale dato che questo è, in sostanza, il quid pluris conferito con il provvedimento di naturalizzazione)"]. I molteplici elementi di controindicazione emersi sul conto del figlio convivente della ricorrente, ricadenti nel c.d. "periodo di osservazione" (vale a dire all’interno dell’arco temporale, che coincide con il decennio antecedente la domanda, assunto dalla giurisprudenza prevalente quale frangente di riferimento per valutare l’effettiva integrazione in ragione dell’acquisizione e conservazione dei requisiti all’uopo richiesti: cfr. ex plurimis, Parere del Consiglio di Stato, sez. I, n. 635/2022; Tar Lazio, sez,. V bis, sentenza n. 9494/2023) si caratterizzano dunque nel loro complesso per il forte disvalore sociale, tanto da aver non irragionevolmente spinto la p.a. a determinarsi negativamente nella formulazione del giudizio prognostico di meritevolezza della cittadinanza della madre, avendo escluso l’opportunità rebus sic stantibus di concedere uno status giuridico irreversibile quale la cittadinanza, che postula non soltanto l’interesse da parte del richiedente e il suo inserimento nella collettività che lo ospita ma anche un interesse da parte di quest’ultima ad accogliere lo stesso. VI. - È opinione del Collegio, peraltro, che dette conclusioni sulla correttezza dell’operato della p.a. - che, previo contraddittorio con l’istante, non ha escluso il rischio di un danno alla collettività in conseguenza del rilascio del richiesto status a causa di quanto emerso sul conto del figlio della richiedente - non possono essere scalfite neppure alla luce dell’allegata stabile situazione economico-lavorativa dell’interessata. Sul punto questa Sezione, peraltro, ha più volte chiarito che lo stabile inserimento socio-economico non rappresenta un elemento degno di speciale merito, in grado di far venir meno i constatati motivi ostativi alla concessione dello status anelato, esso è solo il prerequisito della richiesta di cittadinanza, in quanto presupposto minimo per conservare il titolo di soggiorno, che autorizza la permanenza dello straniero sul territorio nazionale (ex multis, Tar Lazio, Sez. V bis, nn. 2945 e 4295 del 2022). L’inserimento sociale e professionale del richiedente rappresenta un elemento sintomatico di una raggiunta situazione di normalità che consente la permanenza dello straniero in Italia, ma non consiste in una particolare benemerenza tale da indurre la Pubblica Amministrazione a ritenere l’interesse pubblico ad integrare nella comunità nazionale un elemento anche ove residuino dubbi sull’effettiva condivisione dei valori fondamentali dell'ordinamento di cui egli chiede di far parte con il riconoscimento della cittadinanza. Neppure colgono nel segno le argomentazioni che fanno leva sull’avvenuto rilascio del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo CE al figlio, in quanto il cittadino straniero lungosoggiornante nello Stato può essere comunque espulso ove ne ricorrano i presupposti e in questa prospettiva le vicende penali del figlio della richiedente possono assumere ulteriore rilevanza nell’ambito della valutazione del rilascio dello status in considerazione del combinato disposto degli artt. 19, comma 2, lett. c) e 30, comma 1, lett. c) del d.lgs. 25.07.1998, n. 286 e successive modificazioni ed integrazioni, secondo cui gli stranieri conviventi con parenti di nazionalità italiana non sono soggetti ad espulsione e possono ottenere un permesso di soggiorno per motivi familiari. VII. - In ogni caso, si tenga conto che il diniego della cittadinanza non preclude all’interessato di ripresentare l’istanza nel futuro (già dopo un anno dal primo rifiuto), per cui le conseguenze discendenti dal provvedimento negativo sono solo temporanee e non comportano alcuna "interferenza nella vita privata e familiare del ricorrente" (art. 8 CEDU, art. 7 Patto internazionale diritti civili e politici) - dato che l’interessato può continuare a rimanere in Italia ed a condurvi la propria esistenza alle medesime condizioni di prima. Quindi, per il provvedimento impugnato, con cui, nel bilanciamento degli interessi pubblici e privati in gioco, si è ritenuto recessivo l'interesse del privato ad essere ammesso come componente aggiuntivo del Popolo italiano, l’irragionevolezza è altresì esclusa alla luce della circostanza che il diniego di cittadinanza provoca il solo svantaggio temporale sopraindicato, il quale risulta "giustificato" ove si consideri la rilevanza degli interessi in gioco e l’irreversibilità degli effetti connessi alla concessione dello status di cittadino. Da tale punto di vista, infatti, risulta inopportuno ampliare la platea dei cittadini mediante l'inserimento di un nuovo componente ove sussistano dubbi sulla sua attitudine a rispettare i valori fondamentali per la comunità di cui diviene parte essenziale con piena partecipazione all’autodeterminazione delle scelte di natura politica. VIII. - Il Collegio, pertanto, ritiene, sulla scorta dei postulati enucleati, che le conclusioni a cui è giunta l’Amministrazione siano immuni dai vizi dedotti con i motivi di ricorso. IX. - In conclusione, per quanto osservato, il ricorso deve essere respinto perché infondato. X. - Sussistono giustificati motivi, tenuto conto della specificità della fattispecie trattata, per disporre la compensazione delle spese. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Quinta Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Floriana Rizzetto - Presidente Enrico Mattei - Consigliere Antonietta Giudice, Referendario, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA ex art. 60 cod. proc. amm.; sul ricorso numero di registro generale 846 del 2024, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Ga. Re., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Interno, Ufficio Territoriale del Governo Messina, Agea - Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, Regione Siciliana Assessorato Regionale Agricoltura Sviluppo Rurale e Pesca Mediterranea, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Catania, via (...); per l'annullamento, previa sospensione: 1) dell'informazione interdittiva emessa dalla Prefettura di Messina - Antimafia - prot. Interno n. -OMISSIS-del 08/02/2024 unitamente a tutti gli altri atti connessi, presupposti e/o conseguenziali, ivi compreso, il parere reso dal Gruppo Interforze; 2) delle richieste di informazione antimafia non conosciute perché non citate; 3) delle "informazioni rese dagli Organi di Polizia", non meglio specificate per data e numero di protocollo, come genericamente richiamate nella citata interdittiva; 4) del provvedimento - non conosciuto - di sospensione dall'erogazione dei contributi comunitari mediante apposizione di anomalia D12 di sospensione nel procedimento amministrativo telematico di AGEA; 5) di ogni altro atto presupposto, connesso o, comunque, conseguenziale. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno, dell'Ufficio Territoriale del Governo Messina, dell'A.G.E.A. e dell'Assessorato Regionale Agricoltura Sviluppo Rurale e Pesca Mediterranea; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024 la dott.ssa Agnese Anna Barone e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO La ditta ricorrente è un'impresa agricola individuale con sede a -OMISSIS-il cui titolare è il sig. -OMISSIS-. Con comunicazione del 28 agosto 2023 la Prefettura di Messina comunicava che dall'istruttoria svolta era emerso il pericolo di infiltrazione della criminalità sulla base di diversi elementi riconducibili: a) alle vicende giudiziarie del titolare; b) alle vicende giudiziarie della coniuge convivente; c) ai rapporti di parentela con 4 diversi soggetti (fratello e 3 nipoti) a vario e diverso titolo coinvolti in procedimenti penali per criminalità organizzata; d) alle frequentazioni con soggetti controindicati; e) a specifiche cointeressenze economiche nell'ambito della famiglia. Con nota del 18 settembre 2024, l'interessato presentava le proprie osservazioni precisando che: - le segnalazioni a carico del titolare risalenti ad oltre 30 anni fa, analogamente a quelle più recenti per reati di truffa, non sono mai sfociate in procedimenti penali; - le condanne per il reato di favoreggiamento personale risalgono al 1993 e al 1997; - i rapporti parentali sarebbero insufficienti a supportare il rischio di infiltrazione e comunque l'amministrazione non avrebbe considerato che uno dei nipoti citati nel provvedimento (arrestato nell'ambito dell'operazione -OMISSIS-) sarebbe stato successivamente assolto; - le cointeressenze familiari sarebbero state determinate dal fatto che i terreni sono il cespite dell'eredità del padre defunto. Con provvedimento dell'8 febbraio 2024 il Prefetto di Messina riteneva le osservazioni inidonee ad incidere sui numerosi e convergenti elementi acquisiti nel corso dell'istruttoria che valutati complessivamente evidenziavano l'esistenza di possibili tentativi di infiltrazione mafiosa ai sensi dell'art 91 del Codice Antimafia. Con il ricorso in esame, ritualmente notificato e depositato, l'interessato ha chiesto l'annullamento della citata misura interdittiva per i seguenti motivi: 1) Violazione e falsa applicazione dell'art. 92 comma 2 bis del D.lgs. n. 159/2011 sotto il duplice profilo: a) della violazione del termine di sessanta giorni ivi indicato; b) dell'omesso riscontro delle osservazioni difensive della parte ricorrente. 2) Violazione e falsa applicazione dell'art. 94 bis del D.lgs. 159/2011, difetto di istruttoria e di motivazione in ordine alla mancata valutazione dell'esistenza dei presupposti per l'applicazione della misura di prevenzione collaborativa. 3) Violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 97 Cost con riferimento alla libertà economica e alla imparzialità della P.A.; violazione dell'art. 84 del D.lgs. n. 159/2011; irragionevolezza; ingiustizia manifesta; difetto di istruttoria e difetto di motivazione con riferimento alle seguenti circostanze: - le vicende giudiziarie in cui è stato coinvolto il titolare dell'impresa sono tutte collegate a reati di pascolo abusivo e non costituiscono "reati spia", né fattispecie di "maggiore allarme sociale"; - le condanne per favoreggiamento del titolare risalgono a 30 anni fa. 4) Violazione e falsa applicazione degli artt. 84, 85 e 91 del D.lgs. n. 159/2011 e degli artt. 3 e 6 della legge n. 241/1990; difetto di motivazione e carenza di istruttoria in relazione alla mancata esternazioni delle modalità con le quali i parenti indicati nel provvedimento sarebbero in grado di condizionare la gestione dell'impresa. L'amministrazione intimata si è costituita in giudizio per resistere al ricorso e ha puntualmente controdedotto ai motivi di ricorso; ha, inoltre, depositato gli atti dell'istruttoria tra cui le informazioni rese dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Messina Alla camera di consiglio del 28 maggio 2024, il ricorso è stato trattenuto in decisione, ai sensi dell'art. 60 c.p.a., previo avviso alle parti. DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 2. Partendo dalle contestazioni di ordine procedimentale va osservato che: - il termine di sessanta giorni di cui all'art. 92 comma 2 bis invocato dalla parte ricorrente si riferisce espressamente alla durata complessiva della fase (infra)procedimentale del contraddittorio e non al termine di definizione del procedimento che rimane regolato dalle disposizione dell'art. 92, comma 2° del D.lgs. n. 159/2011 (e che, peraltro, rimane sospeso durante la fase del contraddittorio tra le parti, cfr. in termini: Cons. Stato, Sez. III, 8 marzo 2024, n. 2260; T.A.R. Sicilia - Catania, Sez. V, 10 maggio 2024, n. 1749); - in ogni caso, in mancanza di una espressa qualificazione dei termini come "perentori", essi vanno intesi come termini sollecitatorio o ordinatori, sicché il loro eventuale superamento non determina l'illegittimità dell'atto (cfr. in termini, C.G.A. 5 giugno 2023, n. 388); - non è ravvisabile, inoltre, alcuna violazione dell'art. 92, comma 2bis per la ritenuta omessa valutazione delle memorie di parte ricorrente atteso che alle pag. 6 e segg. del provvedimento sono esternate le ragioni della ritenuta inidoneità delle osservazioni a modificare la valenza del quadro fattuale e indiziario. Ne consegue il rigetto del primo motivo di ricorso. 3. Quanto alle censure mosse dal ricorrente circa la presunta insussistenza a carico dello stesso delle condizioni per l'adozione di un provvedimento interdittivo, il Collegio rileva come la misura sia stata adottata ai sensi degli artt. 84, 91 e 94 del Codice Antimafia, i quali non richiedono né la sussistenza di condanne, né la necessità di altri provvedimenti del giudice penale (rinvio a giudizio, misure cautelari, misure di prevenzione) ai fini della complessiva valutazione sul grado di permeabilità della criminalità organizzata. Invero, il sistema della prevenzione - per come disciplinato dal Codice Antimafia - si presenta come "binario", inducendo in via automatica da alcune categorie di reati il rischio di infiltrazione mafiosa e lasciando, invece, negli altri casi, al prudente apprezzamento dell'autorità prefettizia la valutazione "atipica" di una serie di elementi sintomatici elaborati dalla giurisprudenza. I presupposti per l'emanazione di un provvedimento interdittivo costituiscono, quindi, un cata aperto da cui l'Autorità può desumere gli indizi corroboranti il giudizio prognostico sotteso all'apprezzamento del rischio infiltrativo; quindi, la sussistenza di un provvedimento di condanna, ancorché non definitivo non è presupposto tassativo, potendo essere doppiato e traguardato dalle altre situazioni sintomatico-presuntive di cui all'art. 84, comma 4° del D.lgs. n. 159/2011 o dalla clausola aperta compendiata nei "concreti elementi" di cui all'art. 91, 6° comma, D.lgs. n. 159/2011. 3.1 Al riguardo, la giurisprudenza è da tempo consolidata nel ritenere che i provvedimenti prefettizi interdittivi possano essere adeguatamente motivati con riferimento a riscontri che danno vita a valutazioni che sono espressione di ampia discrezionalità e che non devono necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell'impresa con organizzazioni malavitose (e, quindi, del condizionamento in atto dell'attività di impresa), ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergono sufficienti elementi di pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell'attività imprenditoriale della criminalità organizzata (cfr. tra le tante: C.G.A. 14 maggio 2021, n. 431; Cons. Stato, sez. III 4 giugno 2021, n. 4293; 27 aprile 2021, n. 3379; T.A.R. Sicilia - Catania, Sez. I, 19 gennaio 2018, n. 148 e 29 settembre 2017 n. 2258). Il "tentativo di infiltrazione" deve essere, quindi, valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere raggiungere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell'accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere "più probabile che non", appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa (Cons. Stato, Ad. Plen. 6 aprile 2018, n. 3; Cons. Stato, Sez. III, 25 novembre 2021, n. 7890; 30 gennaio 2019, n. 758; 18 aprile 2018, n. 2343). Lo stesso legislatore, del resto, laddove fa riferimento (art. 84, comma 3°, D.lgs. n. 159 del 2011) agli "eventuali tentativi" di infiltrazione mafiosa "tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate" richiama nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo di infiltrazione mafiosa è, dunque, la probabilità che si verifichi l'evento secondo una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un'ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso (cfr. in termini, tra le più recenti, Cons. Stato Sez. III, 6 settembre 2021, n. 6225 e 3 agosto 2021, n. 5734 con ampi richiami giurisprudenziali). 3.2 Venendo alla fattispecie oggetto di giudizio, gli elementi su cui il provvedimento interdittivo ha fondato la sua prognosi indiziaria sono costituiti: - da varie vicende giudiziarie del ricorrente e della coniuge convivente; - dalle frequentazioni, tutte recenti (v. pag. 5 del provvedimento), con soggetti pregiudicati; - dai rapporti di parentela con soggetti coinvolti a vario titolo in procedimenti penali per associazione di tipo mafioso (pagg. 2 e segg. del provvedimento) e dalle cointeressenze economiche con i membri della famiglia derivanti dai numerosi contratti di affitto indicati alle pagg. 5-6 del provvedimento. In particolare, il ricorrente è : 1) fratello di -OMISSIS-(attualmente detenuto, come riferito dallo stesso ricorrente), rimasto coinvolto nell'ambito nelle operazioni di polizia denominate -OMISSIS- (per il reato di associazione di tipo mafioso, riqualificato, con apposita Ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame di Palermo, nel reato di favoreggiamento personale aggravato dal metodo mafioso) e -OMISSIS- (in ordine ai reati di concorso esterno in associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori aggravato; 2) zio di -OMISSIS- (figlio del fratello sopra indicato) socio amministratore insieme ad altro soggetto di impresa agricola operante nel medesimo territorio e già destinataria, nel 2018, di provvedimento interdittivo; 3) zio di -OMISSIS-, titolare di altra impresa destinataria, nel 2021, di interdittiva; 4) zio di -OMISSIS- (anch'egli figlio del fratello indicato sub 1) arrestato nel 2019 nell'ambito dell'operazione -OMISSIS- per i reati di concorso in associazione di tipo mafioso, concorso in truffa aggravata e trasferimento fraudolento di valori; 5) zio di -OMISSIS- (figlio di altro fratello del ricorrente): a) segnalato, tra l'altro, nel 2016 per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso in concorso con esponenti del mandamento mafioso di -OMISSIS- e condannato, per tali reati, nel 2019 (sentenza del 2019 indicata nel provvedimento) alla pena di anni 6 di reclusione e 4.000,00 euro di multa; b) coinvolto, sempre nel 2016, nel procedimento penale convenzionalmente denominato -OMISSIS-per il reato di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis commi 1,3, 4, 5 e 6 c.p.), quale appartenente alla famiglia mafiosa inserita nel mandamento di -OMISSIS-, successivamente arrestato, nel 2018, in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare e, infine, assolto nel 2019 "per non avere commesso il fatto"; di tale assoluzione da espressamente atto il provvedimento impugnato precisando che la circostanza non elide la contiguità ai contesti malavitosi comunque ritraibili dalle dinamiche relazioni emerse dall'ordinanza di custodia cautelare (pag. 7 del provvedimento); c) segnalato, nel 2018, e successivamente sottoposto, unitamente ad altri 3 familiari (-OMISSIS-), a misure cautelari nell'ambito dell'operazione -OMISSIS- poiché responsabili, a vario titolo, dei reati di concorso esterno in associazione mafiosa, trasferimento fraudolento di valori con l'aggravante di aver commesso il fatto per agevolare l'organizzazione mafiosa e concorso in truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche; - citato nell'ordinanza di custodia cautelare emessa nell'ambito dell'operazione denominata -OMISSIS-da cui emerge l'inserimento in un contesto criminale dedito principalmente alla commissione di estorsioni in danno di imprese edili. Risultano, infine, indicati 5 contratti di affitto di fondi rustici (uno risalente al 2015, gli altri molto più recenti) tra il ricorrente e altri fratelli in qualità di dante causa con controparti appartenenti alla medesima famiglia; tra questi soggetti figurano, tra gli altri, i soggetti indicati sub 1), 2), 3) e 4.c). 3.3 Ciò premesso il Collegio ritiene che i riferiti elementi, complessivamente valutati, danno vita ad un quadro indiziario sufficiente per ritenere correttamente formulato il giudizio del Prefetto circa l'attualità del pericolo di infiltrazione mafiosa nella gestione dell'attività economica ed imprenditoriale riconducibile alla ditta del ricorrente, ove si consideri la funzione di tutela sociale significativamente anticipatoria assegnata dal legislatore alle misure previste dalla normativa antimafia. Non si può disconoscere che un ruolo centrale nell'impianto motivazionale è costituito dai rapporti parentali che - come più volte affermato anche da questo TAR - da soli e astrattamente considerati non avrebbero potuto sostenere un'informazione interdittiva, dato che la pericolosità sociale non si trasferisce automaticamente da un parente all'altro essendo comunque necessario un concreto rischio che dalla parentela possa scaturire un pericolo di condizionamento. Invero, il solo legame parentale, nella sua mera esistenza, non si presta - in mancanza di ulteriori elementi idonei ad attribuirgli concreta rilevanza indiziaria nella prospettiva della valutazione antimafia - a fondare il pericolo di condizionamento, ciò in quanto il rapporto familiare, genericamente inteso, in quanto ontologicamente esistente in una dimensione non solo extra-criminale, ma anche extra-imprenditoriale, può alternativamente costituire, dal punto di vista della valutazione interdittiva, un elemento "inerte" o neutrale, in quanto privo di concreto significato ai fini preventivi e confinato esclusivamente nella sfera personale, ovvero un elemento "dinamico" e rilevante, in quanto idoneo ad innescare il flusso inferenziale che fa da sfondo alla ricostruzione indiziaria del pericolo di condizionamento. A determinare il passaggio "qualitativo" del vincolo parentale dall'una all'altra dimensione valutativa è la specifica caratterizzazione dello stesso, soprattutto in determinati contesti socio economici nella doverosa constatazione che l'organizzazione mafiosa tende a strutturarsi secondo un modello "clanico" che si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della famiglia, con la conseguenza che il vincolo parentale unitamente al contesto ambientale e sociale nel quale opera l'impresa attinta da informativa possono rilevare quali elementi sintomatici accessori tanto il contesto ambientale e parentale nel quale opera l'impresa attinta da informativa, quanto la sua struttura organizzativa o societaria, possono rilevare quali elementi sintomatici accessori (cfr. in termini, C.G.A. 6 novembre 2023, n. 762; 6 marzo 2023, n. 200; Cons. Stato, sez. III, 21 marzo 2022, n. 2167; 17 marzo 2022, n. 1935; 7 marzo 2022, n. 1622). Orbene, nel caso di specie, ciò che assume profonda valenza in chiave prognostica, non è solo il coinvolgimento dei familiari del ricorrente in vari procedimenti penali anche per reati associativi, risultando determinanti anche le cointeressenze economiche comprovate dall'affitto dei fondi rustici (alcuni dei quali con familiari già destinatari di interdittive) in uno specifico contesto socio economico e in un limitato ambito territoriale (caratterizzato da una pervasiva presenza del fenomeno mafioso espressione della regia clanico-familiare delle attività in agricoltura) ove il pericolo di contaminazione mafiosa assume connotazioni più pregnanti. 3.4 A ciò si aggiunga il fatto che altro elemento indiziario è costituito da una serie di recenti frequentazioni con soggetti fortemente controindicati con pregiudizi, tra gli altri, per sequestro di persona a scopo di estorsione, concorso in associazione di tipo mafioso, rapina e truffa aggravata. Anche i predetti elementi, esaminati nelle loro specifica consistenza e valutati nel contesto territoriale e sociale in cui opera l'impresa agricola sono idonei a sorreggere, in una logica di prevenzione, l'impianto dei due provvedimenti in termini di indici sintomatici dell'infiltrazione mafiosa. 3.5 Quindi, il Collegio - tenuto anche conto dei limiti di sindacato su un provvedimento assistito dalla lata discrezionalità amministrativa, censurabile soltanto per parametri quali l'irragionevolezza, l'arbitrarietà, il travisamento del fatto, elementi questi che non connotano la fattispecie - ritiene che risultino persuasivamente ricostruiti i rapporti familiari connotati da cointeressenze economiche e gli ulteriori rapporti tra il ricorrente e soggetti pregiudicati per reati gravi che consentono appieno di ritenere soddisfatto il requisito del "più probabile che non" dato che non vi è stata un'automatica ed apodittica valutazione del solo dato del rapporto parentale, bensì l'apprezzamento di un insieme di indici considerati nel loro insieme, che hanno condotto ad un giudizio di verosimile e probabile condizionamento delle scelte e degli indirizzi dell'impresa. 4. Gli elementi sopra richiamati, per le loro oggettive caratteristiche, la continuità nel tempo e per il loro significato in termini prognostici esprimono, inoltre, un pericolo di infiltrazione avente una natura e dimensione tale, anche in relazione alle caratteristiche del soggetto economico in questione, da non potere essere adeguatamente fronteggiate da strumenti diversi da quello interdittivo, sicché la scelta della Prefettura di ricorrere all'informativa interdittiva (in luogo delle misure di collaborazione preventiva) risulta formalmente coerente all'impianto motivazionale posto a fondamento dell'atto. 5. In conclusione, per tutto quanto sopra esposto il ricorso è infondato e va respinto. 6. Le spese seguono la soccombenza, nei rapporti tra la parte ricorrente e il Ministero dell'Interno - UTG di Enna, secondo la liquidazione operata in dispositivo tenendo anche conto dell'immediata definizione del giudizio in sede cautelare. Le spese sono, invece, compensate con le altre parti costituite. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del Ministero dell'Interno - UTG di Enna che liquida nella somma complessiva di Euro 1500,00 (millecinquecento/00), oltre accessori di legge. Compensa le spese con le altre parti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente e delle generalità delle altre persone fisiche citate del provvedimento. Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Agnese Anna Barone - Presidente, Estensore Giuseppina Alessandra Sidoti - Consigliere Salvatore Accolla - Primo Referendario

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. CRISCUOLO Anna - Presidente Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria - Consigliere - Relatore Dott. TRAVAGLINI Paola Di Nicola - Consigliere Dott. RICCIO Stefania - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da Di.Ma. , nata a R C il (Omissis) Mo.Lu. , nato a V V il (Omissis) avverso l'ordinanza del 7/12/2023 del Tribunale di Reggio Calabria Visti gli atti, l'ordinanza impugnata e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere Giuseppina Anna Rosaria Pacilli; udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Nicola Lettieri, che ha concluso chiedendo di dichiarare l'inammissibilità dei ricorsi; udito l'Avv. Gi.Ia., difensore dei ricorrenti, che ha chiesto l'accoglimento dei ricorsi RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 7 dicembre 2023 il Tribunale di Reggio Calabria ha confermato il provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari della stessa città ha applicato a Di.Ma. e Mo.Lu. la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione ai delitti di cui agli artt. 591 e 572 cod. pen. 2. Avverso l'anzidetta ordinanza gli indagati, tramite difensore, hanno proposto due ricorsi per cassazione, sovrapponibili tra loro, deducendo i motivi di seguito indicati. 2.1. Con il primo motivo hanno dedotto la violazione dell'art. 273 cod. proc. pen. , per non avere il Tribunale valutato che le persone ospitate nella struttura non erano mai state prive di assistenza né esposte a una rilevante possibilità di danno per la vita o l'incolumità personale, anche perché mai sarebbe venuto meno il numero di personale adeguato alla loro cura. Peraltro, se i familiari degli ospiti avessero riscontrato le condizioni descritte nel provvedimento impugnato, avrebbero sicuramente trasferito i propri parenti in altre strutture. Per di più, il quadro indiziario, valorizzato dal Tribunale, sarebbe stato tratto da una singola ispezione dei Nas, operata nelle prime ore della mattina, quando ancora il personale della struttura si sarebbe dovuto attivare per le pulizie. 2.2. Con il secondo motivo hanno dedotto la violazione dell'art. 274 cod. proc. pen. , per avere il Tribunale desunto le plurime condotte degli indagati soltanto da una singola ispezione dei Nas e dalle sommarie informazioni di alcuni familiari degli ospiti e per non avere valutato l'attualità e la concretezza del pericolo. Sarebbe poi illogica la conclusione secondo cui sarebbe inadatta allo scopo cautelare la misura interdittiva del divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali o professionali, atteso che non risulterebbe alcun dato da cui trarre che gli indagati abbiano concretamente assunto accordi con soggetti terzi, a cui riservare il ruolo di teste di legno in una futura gestione di altre strutture o a cui affidare la formale amministrazione di ulteriori case di cura. Anche alla luce della rinuncia alle cariche da parte degli indagati non potrebbe dirsi sussistente il concreto e attuale pericolo di reiterazione dei reati. 3. Sono pervenute memorie nell'interesse dei ricorrenti, in cui si deduce che il Tribunale non avrebbe considerato che le condizioni, in cui sono stati trovati i locali della struttura al momento dell'accesso dei Nas, erano dovute all'orario mattutino, in cui è stata effettuata l'ispezione. Inoltre, il Tribunale non avrebbe argomentato in ordine al pericolo per l'incolumità del soggetto, che è elemento richiesto per la configurabilità del reato di cui all'art. 591 cod. pen. , e non avrebbe indicato quale fosse stata la condotta dei ricorrenti produttiva di un tale pericolo; per di più, non avrebbe considerato che nessuno avrebbe mai avvisato i ricorrenti della sussistenza di criticità, che avrebbero imposto un intervento. In considerazione delle caratteristiche della struttura, non sarebbe ravvisabile nemmeno l'esistenza di un rapporto di parafamiliarità. In ultimo, il Tribunale avrebbe errato nel non riconoscere un rapporto di consunzione tra i due reati contestati ai ricorrenti. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono inammissibili. 2. Deve ribadirsi che, in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica e i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628 - 01; Sez. 6, n. 11194 dell'8/3/2012, Lupo, Rv. 252178 - 01). 3. Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche deve rilevarsi che il provvedimento impugnato è immune da vizi, rilevabili in questa sede. Il Tribunale, infatti, nell'affermare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dei ricorrenti con riferimento ai reati loro contestati ai capi 1) e 2) della provvisoria imputazione, ha rilevato che il resoconto sulle condizioni di salute degli ospiti, offerto dai parenti di alcuni degli stessi, le dichiarazioni di Sa.Ar. , An.Ma. e dello stesso ospite An.Ma. nonché gli esiti degli accertamenti svolti dai Nas avevano consentito di accertare che i residenti della struttura erano abbandonati in uno stato di forte incuria e degrado, privati delle più basilari tutele igieniche, alloggiati in una struttura di fatto abusiva e priva di adeguato personale, costretti così a vivere in ambienti nauseabondi tra le proprie deiezioni, a contatto con lenzuola e abiti non lavati, in assenza dei minimi presidi di controllo e in violazione delle più basilari regole sanitarie. Le modalità di gestione e organizzazione del personale, l'assenza di figure professionali specializzate per la cura e l'assistenza degli anziani, lo stato di sporcizia e degrado, in cui versavano tutti gli anziani, costituivano elementi dai quali trarre incontrovertibili indizi circa la sussistenza a carico dei ricorrenti della gravità indiziaria del delitto di abbandono di incapaci. Il Tribunale ha aggiunto che le condotte di mancata cura, di privazioni igieniche, sanitarie, assistenziali, perpetrate dagli indagati nei confronti di anziani non autosufficienti, o comunque di disabili loro affidati e che vivevano presso la residenza dagli stessi diretta e organizzata, peraltro dietro pagamento di una retta mensile da parte delle famiglie, integravano gli estremi oggettivi anche del reato di maltrattamenti. Le condotte lesive e mortificanti erano spalmate lungo un arco temporale di vari mesi, che avevano costretto gli ospiti, persone fragili in condizioni di soggezione e minorità rispetto agli indagati, a un regime intollerabile di vita, privati di dignità, di sicurezza alimentare e medica, di igiene, del diritto a vivere la propria quotidianità in un ambiente salubre e non pericoloso per la loro salute fisica e psichica. 4. Trattasi di argomentazioni che sfuggono a ogni rilievo censorio. Il Tribunale, infatti, nell'indicare le ripetute condotte, poste in essere dagli indagati, di mancata cura e assistenza, che avevano creato un complessivo clima vessatorio e di sistematica sopraffazione ed umiliazione, per giunta in danno di soggetti inermi e incapaci di reagire, ha correttamente e convincentemente sottolineato che gli elementi probatori acquisiti (dettagliatamente analizzati) non solo conclamavano la sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie tipica prefigurata nell'art. 572 cod. pen. , ma consentivano anche di ribadire la sussistenza dell'elemento psicologico correlativo (potendosi inferire dalle circostanze esteriori, dalla reiterazione degli atti e dal loro carattere, la volontà unitaria di vessare abitualmente i soggetti passivi). Non è superfluo ricordare al riguardo che il delitto di maltrattamenti è integrato dalla sottoposizione dei soggetti tutelati a una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l'esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo: è, pertanto, necessario che la condotta sia abituale e si estrinsechi in una pluralità di atti (Sez. 6, n. 7192 del 4/12/2003, dep. 19 febbraio 2004, Camiscia, Rv. 228461). Sotto il profilo psicologico, il reato è integrato dal dolo generico; non occorre, quindi, che l'agente sia animato dal fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un'abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza con la propria condotta abitualmente offensiva (Sez. 6, n. 15680 del 28/3/2012, F. , Rv. 252586 - 01; Sez. 6, n. 27048 del 18/3/2008, D.S. , Rv. 240879 - 01). 5. Giova inoltre precisare che questa Corte ha già avuto modo di affermare che, in tema di maltrattamenti in famiglia, l'art. 572 cod. pen. è applicabile anche quando le condotte siano realizzate nell'ambito di una situazione di para familiarità, intesa come sottoposizione di una persona all'autorità di un'altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie delle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all'azione di chi ha la posizione di supremazia (Sez. 3, n. 13815 del 4/02/2021, P. , Rv. 281588 - 01). Situazioni queste che è innegabile sussistono nel caso in esame, in cui gli ospiti della struttura erano affidati ai gestori della stessa in un contesto di prossimità permanente. 6. Posto poi che, ai fini dell'integrazione del delitto di cui all'art. 591 cod. pen. , il necessario "abbandono" è integrato da qualunque azione od omissione contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia) che grava sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o per l'incolumità del soggetto passivo, deve rilevarsi che il Tribunale, in piena consonanza con tale disposizione normativa, ha affermato che gi indagati, pur avendo - sulla base dei contratti sottoscritti con gli ospiti della struttura o nell'interesse di questi ultimi - il dovere di cura nei loro confronti, avevano posto in essere una serie di condotte di mancanza di adeguata cura e assistenza, tali da avere creato condizioni di scarsa igiene, pericolose per la salute. Né tale conclusione può essere scalfita dal rilievo difensivo sulla mancata segnalazione di criticità da parte dei familiari degli ospiti. È agevole, infatti, osservare che i ricorrenti erano i gestori della struttura e, dunque, avevano una posizione di garanzia che li rendeva obbligati ad assicurare condizioni di cura e assistenza adeguate, senza necessità che qualcuno segnalasse criticità, che loro stessi erano tenuti non solo a verificare ed eliminare,ma anche, ove possibile, a prevenire. 7. A fronte della motivazione del provvedimento impugnato i ricorrenti hanno proposto doglianze tese ad ottenere una diversa ricostruzione della vicenda e una diversa valutazione degli elementi acquisiti: operazione, questa, non consentita al giudice di legittimità. 8. Né coglie nel segno la deduzione secondo cui fra i reati ascritti agli indagati sussiste un rapporto di consunzione. 8.1. Le pronunce più recenti delle Sezioni unite di questa Corte, al fine della soluzione del problema relativo alla selezione delle fattispecie penali astrattamente applicabili a fronte della realizzazione di un'unica condotta materiale, sono partite dalla considerazione dei principi vigenti sul concorso apparente di norme, regolamentato dall'art. 15 cod. pen. , e hanno affermato che da tale norma si trae il principio generale che, ove si escluda il concorso apparente, è possibile derogare alla regola del concorso di reati solo quando la legge contenga l'espressione delle c.d. clausole di riserva, le quali, inserite nella singola disposizione, testualmente impongono l'applicazione di una sola norma incriminatrice prevalente, che si individua seguendo una logica diversa da quella di specialità. Le Sezioni unite hanno escluso la possibilità di ricorrere alle figure dell'assorbimento, della consunzione e dell'ante - fatto o post - fatto non punibile, ritenute prive di sicure basi ricostruttive, poiché individuano elementi incerti quale dato di discrimine, come l'identità del bene giuridico, tutelato dalle norme in comparazione, e la sua astratta graduazione in termini di maggiore o minore intensità, di non univoca individuazione, e per questo suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti (tra le altre: Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668 - 01; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722 - 01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248865 - 01; Sez. U. , n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, Rv. 235962 - 01). Posto, quindi, che il principio di specialità assurge a criterio euristico di riferimento, si è precisato che deve definirsi norma speciale quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l'ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell'ambito operativo della norma generale (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, cit.). In tale ambito ricostruttivo, si è chiarito che il criterio di specialità deve intendersi e applicarsi in senso logico - formale. Il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dall'art. 15 cod. pen, risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato (Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, cit.; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, Di Lorenzo, cit.). 8.2. Tale elaborazione, fondata sul principio di specialità quale criterio dirimente, consente di escludere che tra le due fattispecie di cui agli artt. 572 e 591 cod. pen. , sussista un rapporto di specialità. Le figure di reato in questione sono caratterizzate da condotte diverse (non riguardando, quindi, lo "stesso fatto"), poiché l'una è integrata dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico - fisici ai danni di persone di famiglia, l'altra dall'abbandono ingiustificato di un soggetto incapace di provvedere a sé stesso e che si abbia l'obbligo giuridico di custodire, che lo esponga ad un pericolo anche solo potenziale. In questo senso si è già espressa questa Corte (Sez. 2, n. 10994 del 6/12/2012, Rv. 255174 - 01) e tale conclusione, per le ragioni anzidette può essere ora ribadita. 9. Anche il motivo dei ricorsi sulle esigenze cautelari è teso ad ottenere una inammissibile rivalutazione. Il Tribunale ha posto in evidenza che le plurime condotte, poste in essere dagli indagati, connotate da forte gravità e allarme sociale in quanto perpetrate in danno di persone fragili e incapaci di reagire ai soprusi, subiti lungo un apprezzabile arco temporale, senza soluzione di continuità, dimostravano l'assoluta spregiudicatezza di entrambi i ricorrenti nel portare avanti il loro progetto criminoso di incontrollato arricchimento a discapito della salute, della fiducia, del benessere psicofisico e della dignità di anziani e disabili, affidati alle loro cure. Peraltro, le condotte, fotografate nell'odierno procedimento, lungi dal costituire una isolata parentesi nella storia degli indagati, rappresentavano, invece, soltanto uno dei tasselli di un già rodato schema imprenditoriale che aveva già condotto al sequestro preventivo di due strutture socioassistenziali per anziani, precedentemente gestite dagli stessi con le stesse spregiudicate modalità operative. Siffatta motivazione, con cui il Collegio del riesame ha dato contezza del pericolo concreto e attuale di reiterazione del reato, in quanto logica e non inficiata da violazioni di legge, è esente da ogni vizio rilevabile in questa sede. 10. In definitiva, i ricorsi sono inammissibili e ciò comporta la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. , al pagamento delle spese processuali nonché - non sussistendo ragioni di esonero (Corte cost. , 13 giugno 2000 n. 186) - della sanzione pecuniaria di euro tremila, equitativamente determinata, in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 23 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

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