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  • REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto LUCIO NAPOLITANO Presidente LUCIANO CIAFARDINI Consigliere RICCARDO ROSETTI Consigliere UP – 09/05/2024 FEDERICO LUME Consigliere ROSANNA ANGARANO Consigliere rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 28141/2016 R.G. proposto da: FARMA CARMINE PETRONE S.R.L. E FIN POSILLIPO S.P.A. rappresentate e difese dall’Avv. Michele di Fiore ed elettivamente domiciliate presso l’indirizzo pec di quest’ultimo micheledifiore@ avvocatinapoli.legalmail.it – ricorrenti – contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende, – controricorrente – IRAP IRES AVVISO ACCERTAMENTO 2 avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. CAMPANIA n. 6891/2016, depositata il 15 luglio 2016. udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 maggio 2024 dal Consigliere Rosanna Angarano; dato atto che il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto il rigetto dei primi tre motivi di ricorso e l’accoglimento del quarto. sentiti l’Avv. Michele Di Fiore per i ricorrenti e l’Avv. dello Stato Eva Ferretti per l’Agenzia delle entrate. FATTI DI CAUSA 1. La Farma Carmine Petrone s.r.l. e la Fin Posillipo s.p.a., nelle rispettive qualità di consolidata e consolidante, ricorrono nei confronti dell’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha rigettato l’appello delle contribuenti avverso la sentenza della C.t.p. di Napoli che, a propria volta, aveva rigettato il ricorso avverso l’avviso di accertamento con il quale, per l’anno di imposta 2008, l’Ufficio aveva recuperato a tassazione un maggiore imponibile. 2. L’Ufficio, con una prima ripresa, riteneva che gli importi erogati per liberalità alla associazione con personalità giuridica «Zia Agnesina», riconducibile alla famiglia Petrone, cui facevano pure capo la società erogante e la sua consolidante, non potessero essere dedotti ai sensi dell’art. 100, comma 2, lett. a) t.u.i.r., in quanto la beneficiaria, di fatto, non svolgeva, né aveva mai svolto, l’attività di assistenza sociale e sanitaria prevista nello Statuto.; con una seconda ripresa, riteneva non deducibili i costi di manutenzione sostenuti su un immobile di proprietà di terzi e detenuto in locazione dalla Farma Carmine Petrone s.r.l. RAGIONI DELLA DECISIONE 3 1. Con il primo motivo (§. 2) le società ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 101, comma 2, lett. a) t.u.i.r. Censurano la sentenza impugnata per aver negato la deducibilità delle erogazioni liberali in favore dell’Associazione «zia Agensina» sul presupposto che quest’ultima avesse utilizzato le somme ricevute per investimenti in strumenti finanziari ed in quanto la somma erogata non era stata effettivamente destinata all’attività solidale. Osservano che il reimpiego delle somme (per la parte eccedente il 12 per cento destinato all’attività solidaristica) in strumenti finanziari non può essere considerato esercizio di ulteriore attività in quanto funzionale a salvaguardarne il valore in attesa dell’utilizzo e valutabile come mera attività di gestione ed amministrazione del patrimonio, non idonea ad integrare un’attività commerciale. Aggiungono che l’utilizzo solo del 12 per cento delle liberalità per lo scopo solidaristico, pure accertato, è circostanza irrilevante in quanto la disposizione non prevede un termine, né l’impiego integrale dei contributi ricevuti. 2. Con il secondo motivo (§ 3) denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 36 d.gs. 29 dicembre 1992, n. 546 e la nullità della sentenza per motivazione apparente e, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 101, comma 2, lett. a) t.u.i.r. Criticano la sentenza impugnata per avere «implicitamente» aderito alla tesi dell’Ufficio secondo la quale le erogazioni ricevute dalla beneficiaria avrebbero dovuto essere impiegate «per intero e subito» e muovono due diverse censure. Con la prima assumono la carenza di motivazione perché resa in forma implicita. In via subordinata osservano che la norma richiamata non richiede un termine entro il quale il beneficiario deve impiegare i contributi ricevuti e non condiziona la deducibilità ad una valutazione 4 quantitativa del raggiungimento delle finalità istituzionali, occorrendo solo che il beneficiario svolga «esclusivamente» l’attività solidaristica; censurano, quindi, la sentenza impugnata per aver ritenuto non sufficiente l’impiego parziale (nella misura del 12 per cento dei contributi ricevuti) a soddisfare il requisito di cui all’art. 100 cit. 3. Con il terzo motivo (§ 4) denunciano in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. In premessa osservano che la statuizione con la quale la C.t.p. aveva affermato l’esistenza di una commistione di interessi tra erogante e beneficiaria ed aveva sostenuto che l’Associazione fosse stata utilizzata dalla famiglia Petrone, cui erano entrambe riconducibili, al fine di abusare del diritto alla deduzione degli oneri, andrebbe valutata alla stregua di obiter dictum; ciononostante, per l’ipotesi subordinata in cui, invece, si ritenesse che detta affermazione fosse espressione di una seconda ratio decidendi, censurano la sentenza impugnata per non essersi pronunciata sul vizio di ultra-petizione, già proposto con l’appello, e motivato in ragione del fatto che si trattava di argomento non speso dall’Ufficio. 4. Con il quarto motivo (§ 5) denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 109, comma 5, t.u.i.r. Censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la deducibilità delle quote di ammortamento delle spese di ristrutturazione dell’immobile tratto in locazione sul presupposto che, beneficiandone solo il locatore, mancherebbe l’inerenza, la quale ultima, invece, presupporrebbe che i miglioramenti siano eseguiti su immobili destinati all’esercizio di un’attività destinata a produrre utili. Assumono che tale distinzione non è presente nell’art. 109 t.u.i.r. per il quale rileva il solo collegamento funzionale tra spese ed attività 5 che dà luogo ai ricavi e che, diversamente opinando, la norma dovrebbe ritenersi incostituzionale. 5. Va preliminarmente esaminata la prima censura di cui al secondo motivo in quanto con la medesima si denuncia un error in procedendo, ravvisato nella parvenza della motivazione per mero rinvio alla tesi dell’Ufficio; detto vizio, infatti, ove esistente, determinerebbe la nullità della sentenza. La censura è infondata. 5.1. La C.t.r. ha ritenuto, con riferimento alla prima ripresa fiscale, che non sussistevano le condizioni per la deduzione in quanto l’ente beneficiario, costituito nel 1998 dalla famiglia Petrone, non aveva effettivamente destinato le somme erogate all’attività sociale, stante le modalità di utilizzazione di queste ultime. Ha rilevato, infatti, che dal controllo effettuato era risultato che l’Associazione aveva investito la liquidità raccolta in strumenti finanziari; che le spese istituzionali coprivano meno del 12 per cento di quanto incassato nell’anno; che, data la commistione di interessi tra erogante e beneficiario, entrambi facenti capo alla famiglia Petrone, le scelte di gestione delle somme ricevute erano sostanzialmente riconducibili al soggetto erogante. Ha aggiunto che la ratio dell’agevolazione risiedeva nel principio di sussidiarietà e che la deduzione era vincolata all’affettivo beneficio sociale di natura solidaristica. 5.2. La ratio decidendi, così come sopra sintetizzata,sottesa alla statuizione di indeducibilità, non soltanto non risulta esposta in modo implicito, ma nemmeno riproducendo pedissequamente atti dell’Amministrazione. Per altro, questa Corte, a Sezioni Unite, ha anche chiarito che nel processo tributario, così come in quello civile, non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte, eventualmente senza nulla aggiungere ad esso, qualora le ragioni della decisione 6 siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato. Si è precisato, infatti, che una volta assunta la decisione ed individuate le ragioni, giuridiche e di fatto, che la sostengono, deve riconoscersi al giudice la possibilità di esporle nel modo che egli reputi più idoneo - purché in lingua italiana, succintamente ed in maniera chiara, univoca ed esaustiva - perciò anche (se lo ritiene) attraverso le «voci» dei soggetti che hanno partecipato al processo (parti, periti). E può farlo sia richiamando i relativi atti sia direttamente riportandoli (in tutto o in parte) nella sentenza. (Cass. Sez. U. 16/01/2015, n. 642). 6. Il primo motivo e la seconda censura di cui al secondo motivo sono infondati. 6.1. La deducibilità delle erogazioni liberali, ai sensi dell'art. 100, comma 2, lett. a), t.u.i.r., è condizionata, oltre a requisito soggettivo del beneficiario, che deve essere una persona giudica, anche al requisito oggettivo dell’attività svolta da quest’ultimo il quale deve perseguire «esclusivamente» finalità comprese fra quelle indicate nel precedente comma 1, tra le quali, per quanto di rilievo, finalità di assistenza sociale e sanitaria. Tale previsione, come già chiarito da questa Corte, si giustifica in relazione al principio di sussidiarietà, c.d. orizzontale, e costituisce una deroga al principio di inerenza, rendendo deducibili dal reddito di impresa elargizioni, in via di principio, redditualmente non rilevanti. L’elenco degli oneri di utilità sociale deducibili è tassativo atteso che l’art. 100, comma 4, t.u.i.r. stabilisce che le erogazione diverse da 7 quelle di cui ai precedenti commi (e diverse da quelle di cui all’art. 95 comma 1 t.u.i.r. che non rileva nella fattispecie in esame) non sono ammesse in deduzione. Il riconoscimento statutario dell'esclusività del fine costituisce requisito formale necessario, ma non sufficiente, dovendo trovare riscontro nell'effettiva attività svolta dalla beneficiato atteso il carattere eccezionale delle disposizioni derogatorie e la natura della finalità solidaristica, a cui può essere assegnato rilievo solo se sia concreta e non si traduca in una mera enunciazione (Cass. 02/08/2017, n. 19192 e Cass. 12/05/2017 n. 11872 entrambe rese nei confronti delle società contribuenti con riferimento agli anni di imposta 2004 e 2005). Trattandosi di norma agevolativa, l’onere della prova spetta al contribuente che, ai sensi dell'art. 2697 cod. civ., ha l'onere di dimostrare, in seguito alla contestazione dell'Ufficio, i fatti che palesino il raggiungimento dello scopo sotteso all’agevolazione, ovverosia l'effettiva realizzazione dell'intento dichiarato, perché tale intento rappresenta un elemento costitutivo per il conseguimento del beneficio fiscale richiesto (Cass. 24/06/2011, n. 13954). Sebbene la norma non richieda una corrispondenza immediata e diretta tra l’elargizione liberale e l’impiego di una delle finalità di cui all’art. 100, comma 1, t.u.i.r., occorre, tuttavia, che la destinataria svolga concretamente un’attività ivi riconducibile avvalendosi delle erogazioni ricevute. In sintesi, affinché le erogazioni liberali di cui all’art. 100, comma 2, lett. a) t.u.i.r. siano deducibili, occorre, non soltanto il riconoscimento statutario dell'esclusività del fine, ma anche l’effettivo svolgimento di attività funzionale alla sua realizzazione. 6.2. La C.t.r. si è attenuta a questi principi in quanto, dopo aver rilevato che l’Associazione beneficiaria aveva destinato i capitali raccolti solo in via irrisoria alla realizzazione delle finalità sociali, 8 reinvestendone la gran parte in strumenti finanziari, ha escluso che dette modalità fossero rispettose del dettato di cui all’art. 100 t.u.i.r. in quanto incompatibili con l’effettiva destinazione all’attività sociale. 6.3. Vanno disattese, pertanto, le considerazioni dei ricorrenti secondo il quale la norma in esame non imporrebbe né un limite quantitativo di utilizzo delle elargizioni né un termine né, tanto meno, imporrebbe all’erogante di controllare l’utilizzo delle somme da parte del beneficiario. Gli argomenti non colgono la ratio della sentenza impugnata che, in una valutazione complessiva dell’attività svolta dalla beneficiaria, sin dalla sua istituzione risalente al 1998, ha escluso che quest’ultima svolgesse concretamente quella per la quale era stata costituita. Il riferimento al dato temporale, alle risorse, minime, impiegate per i fini statutari, all’impiego massiccio delle elargizioni in investimenti finanziari, non può essere inteso nel senso che la C.t.r. abbia posto dei limiti per il perseguimento del fine, non previsti dalla norma: piuttosto, si tratta di argomenti evidentemente volti a corroborare l’assunto secondo il quale l’Associazione non svolgeva, e non aveva mai svolto, l’attività di utilità sociale in ragione della quale si giustificava la deduzione del reddito. Inoltre, le censure di parte contribuente sollecitano una rivalutazione del ragionamento decisorio che ha portato il giudice del merito ad escludere che la beneficiaria avesse concretamente svolto l’attività sociale di cui allo statuto. Così facendo, parte ricorrente, pur deducendo apparentemente, una violazione di norme di legge, mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. 04/07/ 2017, n. 8758). Oggetto del giudizio che si vorrebbe demandare a questa Corte non è l’analisi e l’applicazione delle norme, bensì l’apprezzamento delle 9 prove, rimesso alla valutazione del giudice di merito (Cass. 13/05/2022, n. 17744, Cass. 05/02/ 2019, n. 3340; Cass. 14/01/2019, n. 640; Cass. 13/10/ 2017, n. 24155; Cass. 04/04/2013, n. 8315). Quanto poi, alla tesi del contribuente secondo cui la C.t.r. avrebbe posto a carico del beneficiante un onere di controllo dell’attività del beneficiato, basti osservare che è la stessa disposizione dell’art. 100 t.u.i.r. a prevedere il requisito oggettivo in capo a quest’ultimo. 7. Il terzo motivo è inammissibile. La ricorrente assume che il giudice del primo grado, nell’escludere la deduzione ravvisando la fattispecie dell’elusione fiscale, abbia reso un obiter dictum; che, tuttavia, ove l’affermazione possa essere valutata alla stregua di ratio decidendi, la sentenza della C.t.r. sarebbe viziata per non aver scrutinato il motivo di appello con il quale si era dedotto che la C.t.p. era andata ultrapetita. Il motivo, tuttavia, censura una statuizione della sentenza di primo grado che, con specifico riferimento alla ricostruzione di una fattispecie elusiva, non risulta riprodotta nella sentenza di secondo grado con la quale, invece, il ricorrente non si confronta. 8. Il quarto motivo è fondato. 8.1. Le Sezioni Unite della Corte sono intervenute sulla questione della detrazione dell’Iva con riguardo a lavori di manutenzione o ristrutturazione su immobili di terzi e condotti in locazione ed hanno affermato che deve «riconoscersi il diritto alla detrazione Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in ipotesi di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l'attività d'impresa o professionale, anche se quest'ultima [...] non abbia poi potuto concretamente esercitarsi» (Cass. Sez. U. 10/05/2018 n. 11533). Le medesime considerazioni, tuttavia, sono valide anche ai fini delle imposte dirette, dovendosi considerare unitario – per la sua derivazione 10 dalla nozione di reddito d'impresa – il principio di inerenza dei costi. Pertanto, l'esercente attività d'impresa o professionale può dedurre dai redditi d'impresa i costi occorsi per i lavori di ristrutturazione o manutenzione di un immobile condotto in locazione, anche se si tratta di un bene di proprietà di terzi, purché sussista il requisito dell'inerenza, avente valenza qualitativa, e quindi da intendersi come nesso di strumentalità, anche solo potenziale, tra il bene e l'attività svolta (Cass. 27/09/2018, n. 23278). 8.2. La C.t.r., nell’escludere l’inerenza dei costi all’attività di impresa nell’ipotesi di immobili detenuti in locazione, assumendo che in tal caso l’unico beneficiario sarebbe il locatore, non si è attenuta a questi principi. 9. In conclusione, va accolto il quarto motivo di ricorso, rigettati il primo ed il secondo e dichiarato inammissibile il terzo; la sentenza impugnata va cassata quanto al motivo accolto con rinvio alla Commissione tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, che si pronuncerà anche sulle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il quarto motivo ricorso, disattesi gli ulteriori; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, 9 maggio 2024. Il Consigliere est. Il Presidente (Rosanna Angarano) (Lucio Napolitano)

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. APRILE Ercole - Relatore Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ma.Lo., nato a R il (Omissis); avverso la sentenza del 26/05/2023 della Corte di appello di Roma; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Raffele Gargiulo, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; letta la memoria dell'Avv. Sc.Ma., difensore del ricorrente, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Roma riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, assolvendo l'imputato dal reato ascrittogli al capo 1) e rideterminando la pena, e confermava nel resto la medesima pronuncia del 4 marzo 2021 con la quale il Tribunale di Roma aveva condannato Ma.Lo. in relazione al reato di cui all'art. 572 cod. pen., per avere, tra il novembre e il 20 dicembre 2019, maltrattato la madre Sa.Ad. e le sorelle Ma.Si. e Ma.Ar., sottoponendole a continue vessazioni e a violenze psicologiche, in particolare aggredendole verbalmente e talora anche fisicamente, nonché danneggiando i mobili dell'appartamento, in quanto le stesse si erano rifiutate di consegnargli il denaro che egli aveva ripetutamente richiesto. 2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso Ma.Lo., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale, con un unico punto, ha dedotto la violazione di legge, in relazione all'art. 572 cod. pen., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto sussistente l'elemento psicologico necessario per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, tenuto conto che l'imputato non era stato animato dall'intento di ledere con abitualità l'integrità fisica e morale dei propri congiunti, ma esclusivamente dall'interesse contingente a soddisfare la sua personale esigenza di acquistare e consumare sostanza stupefacente: situazione nella quale egli avrebbe dovuto essere chiamato, al più, a rispondere dei singoli episodi di minacce e di percosse. 3. Il procedimento è stato trattato nell'odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le modalità di cui all'art. 23, commi 8 e 9, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati da successive modifiche legislative. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell'interesse di Ma.Lo. vada rigettato. 2. Il motivo dedotto con il ricorso è infondato. Costituisce espressione di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale, nel delitto di maltrattamenti in famiglia, il dolo non richiede la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale sia finalizzata, fin dalla loro rappresentazione iniziale, la serie di condotte tale da cagionare le abituali sofferenze fisiche o morali della vittima, essendo, invece, sufficiente la sola consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima (così, tra le altre, Sez. 1, n. 13013 del 28/01/2020, O., Rv. 279326; Sez. 6, n. 15146 del 19/03/2014, D., Rv. 259677; Sez. 6, n. 25183 del 19/06/2012, Scardaccione, Rv. 253042). Di tale criterio interpretativo la Corte di appello di Roma ha fatto corretta applicazione, rilevando come nel caso di specie la sussistenza della indicata consapevolezza dell'odierno ricorrente di persistere in un'attività vessatoria ai danni dei propri familiari fosse stata dimostrata dalla pervicacia e continuità con le quali il prevenuto aveva formulato quelle minacciose e violente richieste di denaro, che avevano provocato uno stato di prostrazione nelle congiunte, le quali si erano viste spesso costrette a chiudersi nelle proprie stanze e a chiedere l'intervento delle forze dell'ordine (v. pag. 3 sent. impugn.). In tale determinazione non è ravvisabile alcuna delle prospettate violazioni di legge, in quanto il difensore del ricorrente ha sostanzialmente confuso la prova della esistenza dell'elemento psicologico del reato contestato con il movente che, in quelle circostanze, aveva animato le iniziative aggressive del prevenuto: essendo pacifico che, ai fini della sussistenza del delitto di maltrattamenti in famiglia, il movente non esclude il dolo, alla cui nozione è estraneo, ma lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti e numerosi atti lesivi (così Sez. 6, n. 5541 del 02/04/1996, T., Rv. 204874; in senso conforme Sez. 5, n. 25936 del 13/02/2017, S., Rv. 270345). 3. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 30 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. RICCIARELLI Massimo - Consigliere Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere Dott. APRILE Ercole - Consigliere Dott. PATERNÒ RADDUSA Benedetto - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ca.Em., nato a T il (Omissis); avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 4 aprile 2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Benedetto Paterno Raddusa; Letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Roberto Aniello, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata senza rinvio limitatamente alla disposta applicazione della misura di sicurezza e la inammissibilità del ricorso nel resto. RITENUTO IN FATTO 1. Ca.Em. è stato condannato dal Tribunale di Latina alla pena di anni due e mesi sei di reclusione perché giudicato colpevole dei reati allo stesso ascritti e segnatamente dei maltrattamenti ex art. 572 cod. pen. e delle lesioni aggravate realizzate ai danni della convivente, Sa.Ta. 2. Interposto appello, con la sentenza descritta in epigrafe, la Corte di appello di Roma, fermo il giudizio di responsabilità, ha ridotto la pena irrogata (da due anni e sei mesi a due anni) in ragione della ritenuta presenza del vizio parziale di mente rivendicato dalla difesa e, al contempo, ha applicato al Ca.Em. la misura di sicurezza della libertà vigilata, con la prescrizione di sottoporsi ad un programma terapeutico individuato dai servizi territoriali competenti. 3. Propone ricorso la difesa dell'imputato e lamenta: - in relazione all'applicazione della misura di sicurezza, violazione dell'art. 597, comma 3, cod. proc. pen., essendo stata disposta dalla Corte in presenza di un gravame proposto solo dall'imputato, nonché degli artt. 203 e 228 cod. pen. perché il giudizio di pericolosità sarebbe stato reso senza considerare la condotta del ricorrente successiva alla commissione dei reati né valorizzare il comportamento tenuto in carcere; - in relazione alla configurabilità dei maltrattamenti, l'inadeguatezza degli elementi probatori indicati a supporto del relativo giudizio di responsabilità considerato sia il narrato della persona offesa - dal quale sarebbe emerso un singolo e occasionale fatto di violenza, quello documentato dal referto ospedaliero, non altrimenti sostenuto dalle altre deposizioni, così da rendere la condotta a giudizio distante dal reato di cui all'art. 572 cod. pen. per l'assenza di abitualità degli agiti vessatori, sia l'insussistenza del dolo unitario che connota il reato in contestazione, sia, infine, la mancanza del contesto sociale, la convivenza, nel quale si sarebbero innestate le condotte ascritte al ricorrente; - violazione di legge e omessa motivazione in relazione alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso merita l'accoglimento limitatamente alla sola applicazione della misura di sicurezza disposta con la sentenza gravata, che va dunque annullata in parte qua. Per il resto, va rilevata l'infondatezza degli altri motivi di impugnazione. 2. Modificando l'ordine di prospettazione delle censure, viene scrutinata per prima, per la sua assorbente priorità logico giuridica, quella inerente al giudizio di responsabilità reso, con duplice valutazione conforme, dai giudici del merito in relazione ai contestati maltrattamenti in famiglia ascritti al Ca.Em. Sul tema, devoluto dal terzo motivo di ricorso, ritiene la Corte che sentenza gravata regga l'urto delle censure prospettate dall'impugnazione che occupa. 2.1. Le due sentenze di merito fanno coerentemente leva sulle dichiarazioni della persona offesa, tali da cristallizzare, senza incertezze, i costituiti oggettivi dei maltrattamenti contestati in ragione delle riferite, molteplici e ripetute, iniziative aggressive, verbali e fisiche, realizzate ai danni della stessa dall'imputato nel torno di tempo coperto dall'imputazione, tali da rendere all'evidenza intollerabile il clima inerente alla relativa convivenza. Certa, né contrastata dal ricorso, la attendibilità soggettiva della dichiarante, i giudici del merito hanno affrontato e superato, con argomentare immune a manifeste incongruenze logiche, le criticità offerte dal narrato dibattimentale della persona offesa mettendo in evidenza il fatto che le contraddittorietà emerse rispetto alla deposizione resa nel corso delle indagini - avendo la teste dichiarato, a differenza di quanto riferito in precedenza, che solo in una occasione si era recata in ospedale in conseguenza delle aggressioni del compagno, mentre gli altri referti acquisiti si sarebbero riferiti ad eventi accidentali - erano da ritenersi giustificate dall'intenzione di ridimensionare i profili di responsabilità dell'imputato, cristallizzati dalle originarie propalazioni; e ciò, del resto in coerenza con la scelta di non denunziare il Ca.Em. in precedenza e soprattutto con la maturata volontà di non costituirsi parte civile nel processo che occupa. Di contro, l'insieme di altri elementi acquisiti in esito alla relativa attività istruttoria, hanno consentito ai giudici del merito, anche in parte qua senza incorrere in vizi di sorta, di limitare le incertezze afferenti alla credibilità del narrato della persona offesa solo a questa parte della relativa deposizione dibattimentale (in particolare, viene dato puntuale rilievo al contenuto del referto ospedaliero del 17 luglio 2020, all'evidenza coerente con la tipologia di agiti violenti riferiti alle condotte del Ca.Em., cosi come ben precisato anche dalle sentenza di primo grado, tal da smentire la relativa dichiarazione dibattimentale sul punto). 2.2. Del resto, come messo in rilievo dalla decisione gravata, in linea con il portato complessivo delle dichiarazioni della persona offesa, le violente aggressioni realizzate dall'imputato nel caso hanno trovato definitivo riscontro non solo nelle stesse dichiarazioni dell'imputato, che si è dichiarato responsabile dei fatti allo stesso ascritti; ma anche e soprattutto nel contenuto delle deposizioni rese dagli altri soggetti escussi (in particolare, i testi Bi.e Gu.), che hanno riferito fatti ai quali hanno assistito personalmente e altre vicende loro riferite dalla persona offesa. 2.3. Ferma, dunque, la riscontrata natura vessatoria e la abitualità delle condotte realizzate dal Ca.Em., la difesa, nel contestare la configurabilità dell'ipotesi di reato ascritta all'imputato, ha altresì introdotto con il ricorso temi non devoluti con l'appello. In particolare, è stato messo in discussione il contesto sociale di verificazione delle condotte in questione, che sarebbero state realizzate in assenza di un rapporto di convivenza tra l'imputato e la persona offesa: aspetto in fatto, quest'ultimo, non contrastato dal gravame di merito, così da non poter essere scrutinato, per la prima volta, in sede di legittimità, risultando così precluso ogni ulteriore sviluppo sul tema in punto di diritto. Né, ancora, l'appello muoveva censure specifiche sulle, peraltro puntuali, argomentazioni svolte in relazione al dolo con la sentenza di primo grado, (si veda la pagina 6, ultimo capoverso), sicché oggi non risulta consentito l'addotto difetto di motivazione su tale versante del giudizio di responsabilità. Da qui la infondatezza del terzo motivo di ricorso. 3. Coglie, invece, nel segno il primo motivo di impugnazione, con il quale si lamenta la violazione del disposto di cui all'art. 597 del codice di rito perchè la Corte del merito, una volta riconosciuto il vizio parziale di mente rivendicato con l'appello, ha ridotto la pena irrogata in primo grado ma al contempo ha applicato al Ca.Em. la misura di sicurezza della libertà vigilata, pur in presenza di un appello unicamente interposto dall'imputato. 3.1. Secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, nell'ipotesi in cui il pubblico ministero non abbia proposto impugnazione, il giudice d'appello, anche quando la misura di sicurezza sia obbligatoria e sia stata illegittimamente esclusa o non ritenuta dal giudice di primo grado, non può disporla, modificando in danno dell'imputato la sentenza da quest'ultimo impugnata, in quanto l'art. 597, comma 3, del codice di rito estende il divieto di reformatio in peius anche all'applicazione di una misura di sicurezza nuova o più grave (Sez. 3, n. 12999 del 12/11/2014, dep. 2015, Rv. 262991; Sez. 1, n. 20004 del 30/04/2009, Rv. 243779; da ultimo, Sezione 6, n. 27928 del 30/3/2022, n.m.). 3.2. Vero è che, secondo una lettura opposta, siffatta scelta interpretativa non consentirebbe all'organo dell'accusa di ovviare alle ipotesi nelle quali i presupposti funzionali all'adozione della misura di sicurezza siano emersi in appello a fronte di una accertata, in tale grado, incapacità parziale o totale di mente, si che risulterebbero così sacrificate radicalmente le istanze di tutela collettiva immediatamente correlate alle situazioni di pericolosità sociale dirette a giustificare l'intervento in prevenzione garantito dalle misure stesse. 3.3. Quale che sia il grado di condivisibilità di tale rilievo critico, va comunque messo in evidenza che la realtà processuale in esame ne rende indifferente il portato. Dalla stessa lettura della decisione impugnata emerge, infatti, come già in primo grado fossero emersi aspetti che, in linea di principio, potevano giustificare, l'adozione della misura di sicurezza alla luce delle risultanze della perizia all'epoca disposta. Nel confermare l'imputabilità del Ca.Em., si metteva al contempo in evidenza come l'imputato non fosse in grado di autogestirsi e che, potendosi prevedere una sua incapacità di non ricadere nell'abuso di sostanze che, a sua volta, lo avrebbe indotto a tenere nuovi comportamenti pericolosi per sè e per i terzi, doveva comunque ritenersi necessario collocarlo presso una struttura territoriale di riabilitazione. Ciò, all'evidenza, in termini non diversi da quanto da quanto ora prescritto dalla Corte territoriale con la decisione impugnata. Per quel che qui interessa, una siffatta situazione consentiva alla Procura di impugnare la sentenza di condanna, nella parte in cui non prevedeva l'applicazione della misura di sicurezza correlata alla riscontrata pericolosità del ricorrente; e tanto finisce per neutralizzare, nel caso, le incertezze interpretative sopra rassegnate. 3.4. La fondatezza della rilevata violazione del terzo comma di cui all'art. 597 del codice di rito porta con sé l'annullamento della sentenza impugnata in parte qua e, al contempo, assorbe e rende indifferente la disamina degli ulteriori rilievi critici prospettati nel merito quanto alla ricorrenza dei presupposti utili a giustificare l'adozione della misura di sicurezza. 4.L'ultimo motivo di ricorso non merita l'accoglimento. In tesi, l'annullamento della misura di sicurezza potrebbe rimettere in gioco il tema della sospensione condizionale della pena, applicabile d'ufficio e comunque precluso nei precedenti gradi di merito per ragioni distinte (in primo grado in considerazione della misura della pena irrogata e in appello, in esito alla riduzione di pena, divenuta non più ostativa, per la disposta applicazione della misura di sicurezza, in virtù di quanto previsto dall'art. 164, comma 3, cod. proc. pen.). Una valutazione nel merito della possibilità di concedere il detto beneficio, possibile conseguenza di un annullamento con rinvio della decisione impugnata anche su tale punto, risulta nella specie, tuttavia, concretamente vanificata dalla puntualità e dalla linearità delle considerazioni spese dalla Corte territoriale in relazione al giudizio di pericolosità apprezzato a sostegno della misura di sicurezza ora annullata per motivi processuali, per nulla scalfite dai rilievi prospettati dal ricorso seppur in relazione al profilo inerente all'applicazione della libertà vigilata. Va infatti ricordato che il giudizio sotteso all'applicazione delle misure di sicurezza si pone in termini di inconciliabilità con il giudizio prognostico funzionale al riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale e che tale incompatibilità costituisce la ragione fondante del disposto di cui all'art. 164, comma 3, cod. proc. pen.: l'applicazione della misura di sicurezza, quando sia accertata la pericolosità, è, infatti incompatibile con la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, che per l'appunto presuppone una prognosi di astensione dalla commissione di altri reati, contraddetta dall'accertata pericolosità. Né consegue che, non ritenendosi censurabile il detto giudizio speso nel valutare la pericolosità del Ca.Em., il relativo portato ben può essere recuperato e valorizzato in questa sede nel ritenere già presente, in termini correttamente e coerentemente ostativi, la valutazione di merito inerente alla sospensione condizionale, sollecitata con l'ultimo motivo di ricorso. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla applicazione della misura di sicurezza che elimina. Rigetta nel resto il ricorso. Così deciso il 20 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. APRILE Ercole - Relatore Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Sa.Fr., nato a M il (Omissis); avverso la sentenza del 04/10/2023 della Corte di appello di Messina; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Raffaele Gargiulo, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; letta la memoria dell'Avv. Gi.Ab., difensore del ricorrente, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Messina riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, rideterminando la pena finale, e confermava nel resto la medesima pronuncia del 16 gennaio 2023 con la quale il Tribunale di Messina aveva condannato Sa.Fr. in relazione al reato di cui all'art. 572 cod. pen. (in esso assorbito il reato già contestato ai sensi dell'art. 612-bis cod. pen.), per avere, dal 2003 ed almeno sino al settembre 2014, maltrattato abitualmente la compagna Ma.An.. tirandole addosso oggetti, spintonandola, picchiandola, minacciandola di morte e ingiuriandola. 2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il Sa.Fr., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti motivi. 2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 572 cod. pen., 192 e 546 cod. proc. pen., 111 Cost., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte territoriale confermato la pronuncia di condanna di primo grado, benché le dichiarazioni della persona offesa fossero risultate inattendibili per le evidenti reticenze e ingiustificate contraddizioni, e per l'anomalia delle condotte tenute durante il suo esame, avendo ella "gonfiato" il suo narrato ed essendo apparsa soggettivamente e intrinsecamente non credibile. 2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 572 cod. pen., 192 e 546 cod. proc. pen., 111 Cost., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte distrettuale omesso di considerare che i comportamenti aggressivi denunciati erano stati reciproci tra le parti del rapporto, con un grado di gravità e di intensità equivalenti. 2.3. Violazione di legge, in relazione agli artt. 612-bis, 157, 160 e 161 cod. pen., 111 Cost., e vizio di motivazione, per avere la Corte di merito omesso di dichiarare l'intervenuta estinzione per prescrizione del reato di atti persecutori, originariamente contestato al capo b), commesso fino al 2014. 2.4. Violazione di legge, in relazione agli artt. 572 e 612-bis, 111 Cost., e vizio di motivazione, per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto le condotte del capo b) "assorbite" in quelle del capo a), nonostante la convivenza tra i compagni fosse cessata nel 2014. 2.5. Violazione di legge, in relazione agli artt. 62-bis, 132 e 133 cod. pen., 27 e 111 Cost., e vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale ingiustificatamente negato all'imputato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, benché il prevenuto sia incensurato e non abbia più avvicinato la persona offesa dopo la presentazione della denuncia. 3. Il procedimento è stato trattato nell'odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le modalità di cui all'art. 23, commi 8 e 9, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati da successive modifiche legislative. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell'interesse di Sa.Fr. vada accolto, sia pur nei limiti e con gli effetti di seguito precisati. 2. I primi due motivi del ricorso, strettamente connessi tra loro, non superano il vaglio preliminare di ammissibilità perché contenenti la deduzione di ragioni diverse da quelle per le quali la legge consente tale impugnazione. Il ricorrente solo formalmente ha denunciato una serie di vizi di carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione della decisione gravata, senza però prospettare alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell'argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; né è riconoscibile alcuna delle denunciate violazioni di norme di legge. Il ricorrente si è limitato a criticare - peraltro, talora in maniera indeterminata - il significato che la Corte di appello di Messina aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante il giudizio di primo grado, sollecitando un'inammissibile rivalutazione dell'intero materiale conoscitivo, rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell'ambito di un sistema motivazionale logicamente completo ed esauriente. In particolare, i giudici di merito hanno chiarito, con motivazione che resta esente da qualsivoglia censura di manifesta illogicità, come la prova della sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di maltrattamenti per il quale vi è stata condanna, fosse desumibile dalla deposizione della persona offesa, intrinsecamente attendibili per la loro sufficiente precisione e linearità, la cui valenza non era stata inficiata dall'atteggiamento assunto nel processo dalla donna: la quale, dopo essersi oramai riappacificata con l'imputato, a distanza di tre anni dalla denuncia, oltre che decidere di non costituirsi parte civile, aveva cercato di ridimensionare le accuse e di sostenere, molto genericamente, che le sue precedenti indicazioni fossero state da lei "gonfiate", senza però essere stata in grado, significativamente, di precisare quali riferimenti non corrispondessero al vero. Per giunta, la testimonianza della prevenuta - che aveva, comunque, raffigurato una sua sottoposizione ad un regime vessatorio e degradante - era risultata riscontrata, nei suoi aspetti essenziali, dalle deposizioni dei di lei genitori, nonché dalle dichiarazioni di un sottufficiale dei carabinieri (v. pagg. 5-7 sent. impugn.; pagg. 6 ss. sent. primo grado). 3. Il terzo e quarto motivo del ricorso sono, invece, fondati. Richiamando quanto puntualizzato dal giudice del primo grado, la Corte territoriale ha ritenuto che le condotte contestate in termini di atti persecutori nel capo d'imputazione b) della rubrica, dovessero considerarsi assorbite nel più ampio addebito di maltrattamenti in famiglia del capo a), benché le prime fosse state tenute quando il rapporto di convivenza tra i due era oramai cessato, la donna aveva instaurato una nuova relazione sentimentale con un altro uomo e le relazioni tra i due ex conviventi erano proseguite solo per affrontare le esigenze dei figli minori che la coppia aveva in precedenza avuto (v. pagg. 7-8 sent. impugn.; pagg. 10-12 sent. primo grado). Tale impostazione esegetica, tuttora sostenuta da un indirizzo giurisprudenziale minoritario (per il quale si veda, da ultimo, Sez. 2, n. 43846 del 29/09/2023, V., Rv. 285330), non è condivisa da questo Collegio: apparendo preferibile il contrario orientamento esegetico secondo il quale, in tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" di cui all'art. 572 cod. pen. nell'accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continuativa: sicché è configurabile l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., e non il reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall'imputato dopo la cessazione della convivenza "more uxorio" con la persona offesa (così, tra le molte, Sez. 6, n. 31390 del 30/03/2023, P., Rv. 285087; Sez. 6, Sentenza n. 38336 del 28/09/2022, D., Rv. 283939; Sez. 6, n. 15883 del 16/03/2022, D., Rv. 283436; Sez. 6, n. 10626 del 16/02/2022, L. Rv. 283003; Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398). È indispensabile, infatti, rispettare la lettera della norma incriminatrice di diritto sostanziale in argomento e non modificarne la portata operativa in termini tali da formulare opzioni applicative fondate su soluzioni che rispondono ad una logica di interpretazione analogica in malam partem, non consentita in materia penale. In tale contesto è significativa la presa di posizione della Corte Costituzionale che, nell'esaminare una specifica questione processuale avente ad oggetto l'art. 521 cod. proc. pen., ha evidenziato il rischio che l'esercizio del relativo potere da parte del giudice possa determinare una violazione del principio di tassatività sancito dall'art. 25 Cost., che impone che "in materia penale il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione". Ciò la Consulta ha fatto proprio con riferimento al rapporto tra le due norme incriminatrici previste dagli artt. 572 e 612-bis cod. pen., sottolineando come "il divieto di analogia in malam partem impon(ga) di chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di "convivenza"...(e se)... davvero possa sostenersi che la sussistenza di una (tale) relazione consenta di qualificare quest'ultima come persona appartenente alla medesima "famiglia" dell'imputato (...). In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572 cod. pen. in casi siffatti - in luogo dell'art, 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice" (Corte cost., sent. n. 98 del 2021). In buona sostanza, alla luce di una esegesi rispettosa del principio costituzionale di legalità, ai fini della applicazione della norma incriminatrice dell'art. 572 cod. pen., di "convivenza" si può parlare solamente laddove risulti acclarata l'esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità: lungi dall'essere confuso con la mera coabitazione, il concetto di convivenza deve essere espressione di una stabile relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza materiale e spirituale di vita. Seguendo questa impostazione la motivazione della sentenza impugnata, mentre si presenta corretta nella parte in cui ha ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia fino al momento in cui vi era stata convivenza tra il soggetto attivo e la persona offesa, è invece errata nella parte in cui ha sostenuto che il delitto di cui all'art. 572 cod. pen. fosse configurabile anche per le condotte tenute dall'odierno ricorrente in danno della ex compagna nel periodo in cui era cessata la loro convivenza: periodo con riferimento al quale andrà valutata, ovviamente nel rispetto del divieto di reformatio in peius, la possibilità di qualificare i fatti ai sensi dell'art, 612-bis cod. pen., con ogni conseguenza di legge in ordine all'eventuale declaratoria di estinzione del reato del capo b) e alle rideterminazione della pena per il reato del capo a). 4. Nel riconoscimento della fondatezza del terzo e del quarto motivo, resta assorbito l'esame del quinto motivo, poiché la delimitazione cronologica del riconosciuto reato di maltrattamenti in famiglia e la rideterminazione del trattamento sanzionatorio imporranno al giudice di rinvio di rivalutare la questione concernente il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche. La sentenza impugnata va, dunque, annullata limitatamente al dichiarato assorbimento del reato del capo b) in quello del capo a), nonché al trattamento sanzionatorio, con rinvio, per nuovo giudizio su tali punti, ad altra sezione della Corte di appello di Messina. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Messina. Così deciso il 30 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. COSTANZO Angelo - Presidente Dott. RICCIARDELLI Massimo - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere-Rel. Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso presentato da Pubblico Ministero presso il Tribunale di Bari nel procedimento a carico di Sc.Ge., nato a B il (Omissis); avverso l'ordinanza del 14 dicembre 2023 emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione del consigliere D'Arcangelo Fabrizio; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Piccirillo Raffaele, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, nel procedimento penale pendente nei confronti di Sc.Ge. per il delitto di maltrattamenti in famiglia, ha rigettato la richiesta di incidente probatorio presentata dal Pubblico Ministero, ai sensi dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., per l'assunzione della testimonianza delle persone offese e, in particolare, della moglie della persona sottoposta ad indagine (La.Ma.) e delle due figlie minorenni (Sc.Vi. e Sc.Ca.). Il Giudice per le indagini preliminari nel provvedimento impugnato, citando i principi affermati da Sez. 1, n. 46821 del 08/06/2023, Favia, Rv. 285455 - 01, ha rilevato che la moglie e le figlie dell'indagato sono state già sentite nel corso delle indagini e non versano in condizioni di particolare vulnerabilità (in ragione dell'età prossima alla maggiore età delle figlie, dell'inserimento sociale e della reazione opposta all'aggressore); nel caso di specie, peraltro, la persona offesa sarebbe solo la moglie dell'indagato, in quanto il delitto di maltrattamenti in famiglia sarebbe aggravato solo dalla c.d. violenza assistita e non commessa ai danni delle figlie. L'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., inoltre, non sancisce un obbligo per il giudice di accogliere la richiesta di prova anticipata in ragione dei reati per i quali si procede e/o delle condizioni di vulnerabilità della vittima e, comunque, il rigetto di tale richiesta, secondo l'ordinamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, non determina l'abnormità dell'atto. 2. Il Pubblico Ministero ricorre avverso tale ordinanza e ne chiede l'annullamento, deducendone l'abnormità. Il Pubblico Ministero ricorrente, citando i principi affermati dalle sentenze Sez. 3, n. 34091 del 16/05/2019, P., Rv. 277686 - 01, e Sez. 3, n. 47572 del 10/10/2019, P., Rv. 277756 - 01, deduce l'abnormità dell'ordinanza del giudice per le indagini preliminari che respinga la richiesta di incidente probatorio formulata del pubblico ministero ai sensi dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. Il provvedimento impugnato, infatti, disapplicherebbe una regola generale di assunzione anticipata della prova, introdotta in ottemperanza agli obblighi assunti dallo Stato e derivanti dalle convenzioni internazionali, per evitare la vittimizzazione secondaria delle persone offese di reati sessuali e di maltrattamenti; il giudice per le indagini preliminari sarebbe, dunque, obbligato a disporre l'incidente probatorio sulla base del mero titolo di reato iscritto. Il Giudice per le indagini preliminari, peraltro, avrebbe errato nell'escludere che le vittime fossero in condizione di particolare vulnerabilità, in quanto le figlie hanno una dipendenza affettiva dall'autore del reato e tutte le persone offese dal reato per cui si procede subirebbero una dipendenza economica dall'indagato, che le costringerebbe a vivere in condizioni di estrema difficoltà. Errata sarebbe, inoltre, l'esclusione della qualità di persone offese delle figlie minori, in quanto l'art. 572, quarto comma, cod. pen., sancisce che "Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato". 3. Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 23 aprile 2024, il Procuratore generale, Piccirillo Raffaele, ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso. Con memoria depositata in data 29 marzo 2023, l'avvocato Di.Sa., difensore della persona sottoposta ad indagine, ha chiesto di rigettare il ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Ritiene la Corte che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, in quanto il motivo proposto è manifestamente infondato. 2. L'art. 392, comma 1 -bis cod. proc. pen., contempla un'ipotesi di incidente probatorio ritenuto "speciale o atipico" (come rilevato anche da Corte Cost., sentenza n. 92 del 2018), in quanto, essendo svincolato dall'ordinario presupposto della non rinviabilità della prova al dibattimento, deroga rispetto agli ordinari presupposti che governano la formazione anticipata della prova rispetto a tale fase. Tale disposizione, introdotta con la L. 15 febbraio 1996 n. 66, di contrasto alla violenza sessuale, e sostituita dalla L. 1 ottobre 2012 n. 172, di ratifica ed esecuzione della Convenzione firmata a Lanzarote nel 2007, per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale, offre la possibilità alla persona sottoposta alle indagini e al pubblico ministero, anche su richiesta della persona offesa, di chiedere l'assunzione della testimonianza della persona offesa minorenne, ovvero maggiorenne, che sia stata vittima di gravi reati, tra i quali il delitto di maltrattamenti in famiglia di cui all'art. 572 cod. pen., "anche al di fuori delle ipotesi del comma 1". La disposizione in esame è stata integrata, da ultimo, dal D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, che recepisce la direttiva 2012/29/UE, in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, consentendo l'audizione della vittima mediante incidente probatorio, indipendentemente dal reato per cui si procede, qualora essa "versi in condizione di particolare vulnerabilità". Come emerge dai lavori parlamentari, il legislatore, nel conformarsi all'assetto normativo sovranazionale con l'introduzione dell'incidente probatorio speciale, ha inteso perseguire una duplice finalità: anzitutto, evitare la vittimizzazione secondaria, ovvero "quel processo che porta il testimone persona offesa a rivivere i sentimenti di paura, di ansia e di dolore provati al momento della commissione del fatto" (come definito da C. Cost., sentenza n. 92 del 2018); in secondo luogo, salvaguardare, per quanto possibile, la genuinità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, specialmente là dove queste rappresentino la principale prova d'accusa, atteso che l'assunzione delle stesse in un momento quanto più prossimo alla commissione del fatto costituisce anche una garanzia per l'imputato, perché lo tutela dal rischio di deperimento dell'apporto cognitivo che contrassegna, in particolare, il mantenimento del ricordo del minore. 3. Controversa è statatila valutazione della giurisprudenza di legittimità la possibilità di considerare abnorme il provvedimento con cui il giudice delle indagini preliminari rigetti la richiesta di esame in incidente probatorio, ex art. 392, comma 1 - bis, cod. proc. pen., della persona offesa vulnerabile. Una sentenza della Terza Sezione ha ritenuto abnorme l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari che, in ragione dell'assenza di motivi di urgenza che non consentano l'espletamento della prova nel dibattimento, respinga l'istanza del pubblico ministero di incidente probatorio presentata ai sensi dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. per l'assunzione della testimonianza della vittima di uno dei reati elencati dalla disposizione citata (che nella specie era quello di violenza sessuale), con ciò sostanzialmente disapplicando una regola generale di assunzione della prova, prevista in ottemperanza agli obblighi dello Stato derivanti dalle convenzioni internazionali per evitare la vittimizzazione secondaria delle persone offese di reati sessuali (Sez. 3, n. 34091 del 16/05/2019, P., Rv. 277686). Il principio affermato da questa sentenza è stato ripreso da un'altra pronuncia della stessa Sezione che ha ritenuto parimenti abnorme il provvedimento di rigetto della richiesta di assunzione della testimonianza della persona offesa nelle forme dell'incidente probatorio ai sensi del citato art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. perché non preceduta dall'acquisizione di sommarie informazioni testimoniali rese da parte della medesima persona offesa (Sez. 3, n. 47572 del 10/10/2019, P., Rv. 277756). Secondo tali pronunce l'art. 35 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali, conclusa a L, in data 25 ottobre 2007, e ratificata dall'Italia con la L. 1 ottobre 2012, n. 172, l'art. 18 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata ad I, in data 11 maggio 2011, ratificata dall'Italia con L. 23 giugno 2013, n. 77, gli artt. 18 e 20 della Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime del reato e sostituisce la precedente Decisione-quadro 2001/220/GAI, recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 imporrebbero l'obbligatoria assunzione dell'incidente probatorio al fine di salvaguardare l'integrità fisica psicologica del soggetto vulnerabile e di contenere il rischio di vittimizzazione secondaria legato alla reiterazione dell'atto istruttorio. Entrambe le pronunce affermano, dunque, un vero e proprio obbligo del giudice di ammettere l'incidente probatorio finalizzato all'assunzione della deposizione di un soggetto vulnerabile richiesto ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis, cod. pen. pen., consentendogli di rigettare la relativa richiesta esclusivamente qualora rilevi il difetto dei presupposti normativamente configurati che legittimano l'anticipazione dell'atto istruttorio (e cioè che la richiesta provenga dal pubblico ministero o dall'indagato, venga presentata nel corso delle indagini preliminari per uno dei reati elencati dalla disposizione citata, che abbia ad oggetto la testimonianza di un minore ovvero di un maggiorenne, se si tratta della persona offesa del reato o di soggetto che versa in stato di particolare vulnerabilità) anche in assenza delle condizioni generali stabilite dal comma 1 dello stesso articolo. Il giudice, nella fattispecie prevista dall'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., sarebbe titolare di un mero onere di verifica della legittimità della richiesta e, al contempo, privo di qualsiasi potere discrezionale di valutarne la fondatezza in riferimento agli ordinari indici di ammissione della prova previsti dall'art. 190, comma 1, cod. proc. pen. 4. Secondo l'orientamento prevalente e ormai largamente dominante nella giurisprudenza di legittimità, non è, invece, abnorme il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari rigetta la richiesta, ex art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., di esame in incidente probatorio della persona offesa vulnerabile, trattandosi di provvedimento che non si pone al di fuori del sistema processuale, che rimette al potere discrezionale del giudice la decisione sulla fondatezza della istanza, né determina la stasi del procedimento (Sez. 3, n. 29594 del 28/05/2021, P. Rv. 281878; Sez. 3, n. 29594 del 28/05/2021, P., Rv. 281718; Sez. 6, n. 46109 del 28/10/2021, P., Rv. 282354 - 01; Sez. 4, n. 3982 del 21/01/2021, Pmt. contro Orlandini, Rv. 280378; Sez. 5, n. 2554 dell'I 1/12/2020, P., Rv. 280337; Sez. 6, n. 24996 del 15/07/2020, P., Rv. 279604). 5. Ritiene il Collegio di condividere quest'ultimo orientamento. Non ricorrono, infatti, nella specie gli estremi strutturali o funzionali dell'atto abnorme; secondo l'elaborazione delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 7 del 26/04/1989, Goria, Rv. 181303; Sez. U, n. 11 del 09/07/1997, Quarantelli, Rv. 208221; Sez. U, n. 17 del 10/12/1997, dep. 1998, Di Battista, Rv. 209603; Sez. Un., 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv 215094; Sez. U, n. 33 del 22/11/2000, Boniotti, Rv. 217244; Sez. U, n. 4 del 31/01/2001, Romano, Rv. 217760; Sez. Un., 31/5/2005 n. 22909, Minervini, Rv. 231163; Sez. U, n. 5307 del 20/12/2007, dep. 2008, P.M. in proc. Battistella, Rv. 238240; Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, P.M. in proc. Toni e altro, Rv. 243590; Sez. U, n. 21243 del 25/03/2010, P.G. in proc. Zedda, Rv. 246910; Sez. U, n. 40984 del 22/03/2018, Gianforte, Rv. 273581) può, infatti, ritenersi abnorme il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del suo contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale, ovvero che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite; il vizio di abnormità può riguardare sia il profilo strutturale, allorché l'atto si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, sia il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo. Alla luce di tali consolidate coordinate interpretative il provvedimento di rigetto dell'incidente probatorio richiesto ai sensi dell'art. 392, comma 1 - bis, cod. proc. pen., risulta riconducibile ad uno schema tipico contemplato dalla legge processuale (e, segnatamente, dall'art. 398 cod. proc. pen.) ed il suo contenuto non diverge in maniera irragionevole dai limiti che la stessa pone al giudice; men che meno determina, poi, una stasi del procedimento e, dunque, non può essere considerato abnorme, costituendo l'estrinsecazione di un potere discrezionale del giudice che risulta inidoneo a paralizzare lo sviluppo processuale (ex multis: Sez. 4, n. 2678 del 30/11/2000, dep. 2001, PM in proc. D'Amiano ed altri, Rv. 218480; Sez. 2, n. 47075 del 13/11/2003, Manzi, Rv. 227086). Al fine della qualificazione dell'atto come abnorme, del resto, non può attribuirsi rilevanza all'interesse "terzo" della persona offesa, di per sé è estraneo alla nozione della abnormità funzionale (Sez. 3, n. 29594 del 28/05/2012, P. Rv. 281878) e strutturale. Per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, l'ordinanza di rigetto della richiesta di incidente probatorio è, del resto, inoppugnabile (ex multis Sez. 5 n. 49030 del 17/07/2017, Palmeri e altri, Rv. 271776) e tale regola non subisce eccezione solo perché l'incidente probatorio viene promosso ai sensi dell'art. 392, comma 1 - bis, cod. proc. pen., come questa Corte ha già avuto occasione di affermare (Sez. 3, n. 21930 del 13/03/2013, P.M. in proc. Bertolini, Rv. 25548301). Deve, dunque, ribadirsi che il provvedimento di rigetto dell'incidente probatorio non è impugnabile e non può considerarsi abnorme, nemmeno qualora la relativa richiesta sia stata proposta ai sensi ed ai fini di cui all'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. 6. L'interpretazione adottata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto in ordine all'esistenza di un sindacato discrezionale del giudice sull'ammissione dell'incidente probatorio di persona vulnerabile, del resto, è pienamente legittima. La deroga introdotta dall'art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen. alla disciplina generale dell'ammissione dell'incidente probatorio attiene, infatti, esclusivamente all'irrilevanza in tale fattispecie del presupposto della non rinviabilità della prova al dibattimento e non già agli ulteriori profili della delibazione richiesta al giudice. Nell'esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento dei contrastanti interessi legati, da un lato, alle esigenze di tutela della vittima e, dall'altro, alle garanzie processuali del diritto di difesa dell'imputato, il giudice, al quale è rimessa la decisione sulla richiesta presentata ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis cod. proc. pen., è tenuto a vagliare, in un primo momento, i requisiti di ammissibilità della richiesta e, successivamente, la fondatezza della stessa; valutazione, quest'ultima, che egli compie, nella prospettiva della rilevanza della prova ai fini della decisione dibattimentale, sulla base sia delle argomentazioni addotte dalla parte istante (ex art. 393, comma 1, cod. proc. pen.), sia delle eventuali deduzioni presentate dalla parte avversa, in ragione del contraddittorio cartolare sviluppatosi sulla richiesta, quale diritto egualmente riconosciuto alle parti dall'art. 396, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 24996 del 15/07/2020, P., Rv. 279604). 7. Gli obblighi internazionali invocati dal Pubblico Ministero ricorrente, del resto, vincolano lo Stato italiano e il giudice quanto allo scopo di evitare la vittimizzazione secondaria del soggetto debole per effetto della reiterazione dell'atto istruttorio, ma non sanciscono l'obbligo incondizionato di assunzione delle dichiarazioni di tale soggetto nelle forme dell'incidente probatorio, escludendo ogni sindacato giudiziale sul punto. L'art. 20, par. 1, della direttiva 2012/29/UE sancisce, infatti, che "fatti salvi i diritti della difesa e nel rispetto della discrezionalità giudiziale, gli Stati membri provvedono a che durante le indagini penali: a) l'audizione della vittima si svolga senza indebito ritardo dopo la presentazione della denuncia relativa a un reato presso l'autorità competente". Il diritto dell'Unione Europea, come evidenziato anche dal considerando 58 di tale direttiva, pertanto, non elide ma anzi lascia espressamente integro l'ambito di discrezionalità del giudice nella decisione in ordine all'assunzione della prova nelle forme dell'incidente probatorio. Proprio l'indefettibile assunzione dell'incidente probatorio potrebbe, del resto, risultare sproporzionata rispetto allo scopo legittimo di tutelare la personalità e la dignità del soggetto vulnerabile, ad esempio nei casi in cui la sua escussione si riveli irrilevante o superflua, perché la prova sia stata raggiunta aliunde, o perché le condizioni della vittima, per effetto della condotta delittuosa o di altra causa, sconsiglino l'immediata assunzione della testimonianza nella fase delle indagini. Il diritto dell'Unione Europea, dunque, riserva al giudice il bilanciamento tra contrapposti interessi, quali quello alla tutela della dignità e della personalità della vittima, all'accertamento processuale dei reati e alla tutela del diritto fondamentale di difesa della persona sottoposta ad indagini. Tale bilanciamento deve prioritariamente tendere a scongiurare il rischio di vittimizzazione secondaria del soggetto vulnerabile chiamato a deporre ma il perseguimento di tale fondamentale fine non fonda un obbligo di incondizionata assunzione dell'incidente probatorio. 8. L'assenza di un obbligo, in capo al giudice, di disporre l'assunzione delle prove dichiarative della persona offesa vulnerabile a seguito della presentazione di una richiesta di incidente probatorio formulata ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen. non è neppure censurabile sul piano costituzionale. La scelta discrezionale del legislatore - legata alla necessità di speditezza della fase delle indagini e a quella di non "appesantire oltre modo una parentesi istruttoria che la ratio del sistema vuole quanto più possibile snella" - non si pone in contrasto con le fonti internazionali, dalle quali emerge esclusivamente "un interesse primario all'adozione di misure finalizzate alla limitazione delle audizioni della vittima" e non anche un "automatismo probatorio legato all'introduzione di un vero e proprio obbligo, in capo al giudice, di disporre l'assunzione delle prove dichiarative della persona offesa vulnerabile a seguito della mera presentazione di una richiesta di incidente probatorio" (Sez. 6, n. 24996 del 15/07/2020, P., Rv. 279604). La Corte costituzionale nella sentenza n. 529 del 2002, del resto, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale della formulazione originaria dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 2 e 32 della Costituzione, nella parte in cui non prevedeva che si potesse procedere con incidente probatorio all'assunzione della testimonianza di un minore di anni sedici, ha significativamente affermato che "tutela della personalità del minore e genuinità della prova sono certo interessi costituzionalmente garantiti: non lo è però lo specifico strumento, consistente nell'anticipazione, con incidente probatorio, delle testimonianze in questione". Anche in tale prospettiva, dunque, il rilievo fondamentale accordato alla tutela della vittima vulnerabile non si traduce nella costituzionalizzazione dell'obbligo di procedere all'assunzione della prova nelle forme dell'incidente probatorio. 9. Una volta escluso che il provvedimento di rigetto della richiesta di incidente probatorio, anche se formulata ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen., possa integrare un atto abnorme, le modalità concrete di esercizio della discrezionalità accordata da tale disposizione al giudice esulano dal sindacato di legittimità della Corte di cassazione. 10. Alla stregua dei rilievi che precedono il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. P.Q.M. Dichiara il ricorso inammissibile. Così deciso in Roma, l'8 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ig.Gi. , nato a R il (Omissis); avverso l'ordinanza del 13/09/2023 emessa dal Tribunale di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Fabrizio D'Arcangelo; udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Silvia Salvadori, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; udito il difensore, avvocato Vi.Ca., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata, il Tribunale di Roma ha rigettato l'appello cautelare proposto avverso il provvedimento del 19 gennaio 2023 con il quale la Corte di Appello di Roma ha rigettato la richiesta di revoca dell'ordinanza di ripristino della misura cautelare della custodia in carcere disposta nei confronti di Ig.Gi. Il ricorrente è stato condannato, all'esito del giudizio di primo grado, alla pena di due anni e sei mesi di reclusione per il delitto di maltrattamenti in famiglia ai danni di Ki.He. , di lesioni personali ai danni della stessa e di resistenza a pubblico ufficiale. 2. L'avvocato Vi.Ca., nell'interesse dell'Ig.Gi. , ricorre avverso tale ordinanza e ne chiede l'annullamento. Con un unico motivo, il difensore censura la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. Rileva il difensore che il Tribunale di Roma non avrebbe considerato che l'imputato, dopo la sentenza di condanna di primo grado, non ha tenuto condotte violente ai danni delle persone offese. Precisa, inoltre, il difensore che la persona offesa, nelle sommarie informazioni rese in data 26 novembre 2022, ha escluso che, in occasione dell'ultima violazione contestata del divieto di avvicinamento, l'imputato avesse usato violenza nei suoi confronti e ha precisato che era stata lei stessa a chiedergli di incontrarsi, per trascorre del tempo insieme e fargli conoscere il loro figlio, nato pochi mesi prima; la persona offesa, peraltro, avrebbe espresso "parere favorevole alla scarcerazione" del ricorrente, depositato personalmente in data 16 gennaio 2023 presso la cancelleria della Corte di appello di Roma. Ad avviso del difensore, dunque, anche in ragione dei sette mesi già trascorsi dall'imputato in carcere, non sussisterebbe più alcuna esigenza cautelare e, comunque, la misura della custodia cautelare in carcere si rivelerebbe, ormai, sproporzionata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in quanto in quanto i motivi proposti sono manifestamente infondati e, comunque, diversi da quelli consentiti dalla legge. 2. Con un unico motivo, il difensore censura congiuntamente la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. 3. Il motivo è, tuttavia, inammissibile, in quanto si risolve nella confutazione in fatto delle argomentazioni espresse dal Tribunale di Roma, senza dimostrarne la manifesta illogicità, e, dunque, in una sollecitazione a pervenire a nuovo esame in ordine alle esigenze cautelari ravvisabile nel caso di specie. Occorre, tuttavia, rilevare che esula dalle funzioni della Corte di cassazione la valutazione della sussistenza o meno dei gravi indizi e delle esigenze cautelari, essendo questo compito primario ed esclusivo dei giudici di merito. Il ricorso per cassazione che deduca l'assenza esigenze cautelari è, dunque, ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (ex plurimis: Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628; Sez. 4, n. 18795 del 02/03/2017, Di Iasi, Rv. 269884 - 01). Muovendo da tali premesse, deve rilevarsi che il Tribunale di Roma ha argomentato congruamente la permanente attualità delle esigenze cautelari in ragione della propensione a delinquere del ricorrente e della sua acclarata e costante inaffidabilità, in ragione delle plurime violazioni accertate alla misura coercitiva del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa. Il Tribunale ha rilevato, infatti, che l'imputato ha maltrattato la persona offesa e cagionato lesioni alla stessa nelle date del 15 settembre 2021, del 27 ottobre 2021, del 28 novembre 2021, del 15 dicembre 2021 e del 10 marzo 2022, quando, in occasione dell'arresto, ha commesso anche il reato di resistenza a pubblico ufficiale; ulteriori episodi di aggressività e di violenza nei confronti anche dei familiari della persona offesa erano stati denunciati dalla stessa in data 27 dicembre 2021 e in data 8 gennaio 2022. In data 24 novembre 2022, inoltre, l'imputato ha violato il divieto di avvicinamento impostogli dall'autorità giudiziaria, accettando di incontrare la persona offesa e trascorrendo con lei un giorno e una notte. Il Tribunale ha, inoltre, congruamente ritenuto che tali elementi siano così significativi da rendere subvalente il consenso della persona offesa all'ultimo incontro e l'assenza di violenza e di maltrattamenti da parte dell'imputato nel corso dello stesso. D'altra parte, il consenso della persona offesa all'incontro con l'imputato, sottoposto al divieto di avvicinamento di cui all'art. 282 - ter cod. proc. pen. , non elide la volontarietà della violazione accertata, né la giustifica, in quanto non può derogare alla misura coercitiva imposta dall'autorità giudiziaria. Nella valutazione, non certo illogica, del Tribunale, dunque, le reiterate condotte violente poste in essere dall'imputato, anche quando la persona offesa era in stato di gravidanza e nei confronti dei suoi famigliari, rendono necessario il ricorso ad un presidio cautelare non rimesso all'autodisciplina dell'imputato e l'unica misura coercitiva adeguata e proporzionata all'intensità delle esigenze cautelari ravvisate nel caso di specie è la custodia cautelare in carcere. 4. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. , al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso siano stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata invia equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1 - ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 7 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. CRISCUOLO Anna - Presidente Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria - Consigliere - Relatore Dott. TRAVAGLINI Paola Di Nicola - Consigliere Dott. RICCIO Stefania - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da Di.Ma. , nata a R C il (Omissis) Mo.Lu. , nato a V V il (Omissis) avverso l'ordinanza del 7/12/2023 del Tribunale di Reggio Calabria Visti gli atti, l'ordinanza impugnata e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere Giuseppina Anna Rosaria Pacilli; udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Nicola Lettieri, che ha concluso chiedendo di dichiarare l'inammissibilità dei ricorsi; udito l'Avv. Gi.Ia., difensore dei ricorrenti, che ha chiesto l'accoglimento dei ricorsi RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 7 dicembre 2023 il Tribunale di Reggio Calabria ha confermato il provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari della stessa città ha applicato a Di.Ma. e Mo.Lu. la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione ai delitti di cui agli artt. 591 e 572 cod. pen. 2. Avverso l'anzidetta ordinanza gli indagati, tramite difensore, hanno proposto due ricorsi per cassazione, sovrapponibili tra loro, deducendo i motivi di seguito indicati. 2.1. Con il primo motivo hanno dedotto la violazione dell'art. 273 cod. proc. pen. , per non avere il Tribunale valutato che le persone ospitate nella struttura non erano mai state prive di assistenza né esposte a una rilevante possibilità di danno per la vita o l'incolumità personale, anche perché mai sarebbe venuto meno il numero di personale adeguato alla loro cura. Peraltro, se i familiari degli ospiti avessero riscontrato le condizioni descritte nel provvedimento impugnato, avrebbero sicuramente trasferito i propri parenti in altre strutture. Per di più, il quadro indiziario, valorizzato dal Tribunale, sarebbe stato tratto da una singola ispezione dei Nas, operata nelle prime ore della mattina, quando ancora il personale della struttura si sarebbe dovuto attivare per le pulizie. 2.2. Con il secondo motivo hanno dedotto la violazione dell'art. 274 cod. proc. pen. , per avere il Tribunale desunto le plurime condotte degli indagati soltanto da una singola ispezione dei Nas e dalle sommarie informazioni di alcuni familiari degli ospiti e per non avere valutato l'attualità e la concretezza del pericolo. Sarebbe poi illogica la conclusione secondo cui sarebbe inadatta allo scopo cautelare la misura interdittiva del divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali o professionali, atteso che non risulterebbe alcun dato da cui trarre che gli indagati abbiano concretamente assunto accordi con soggetti terzi, a cui riservare il ruolo di teste di legno in una futura gestione di altre strutture o a cui affidare la formale amministrazione di ulteriori case di cura. Anche alla luce della rinuncia alle cariche da parte degli indagati non potrebbe dirsi sussistente il concreto e attuale pericolo di reiterazione dei reati. 3. Sono pervenute memorie nell'interesse dei ricorrenti, in cui si deduce che il Tribunale non avrebbe considerato che le condizioni, in cui sono stati trovati i locali della struttura al momento dell'accesso dei Nas, erano dovute all'orario mattutino, in cui è stata effettuata l'ispezione. Inoltre, il Tribunale non avrebbe argomentato in ordine al pericolo per l'incolumità del soggetto, che è elemento richiesto per la configurabilità del reato di cui all'art. 591 cod. pen. , e non avrebbe indicato quale fosse stata la condotta dei ricorrenti produttiva di un tale pericolo; per di più, non avrebbe considerato che nessuno avrebbe mai avvisato i ricorrenti della sussistenza di criticità, che avrebbero imposto un intervento. In considerazione delle caratteristiche della struttura, non sarebbe ravvisabile nemmeno l'esistenza di un rapporto di parafamiliarità. In ultimo, il Tribunale avrebbe errato nel non riconoscere un rapporto di consunzione tra i due reati contestati ai ricorrenti. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono inammissibili. 2. Deve ribadirsi che, in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica e i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628 - 01; Sez. 6, n. 11194 dell'8/3/2012, Lupo, Rv. 252178 - 01). 3. Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche deve rilevarsi che il provvedimento impugnato è immune da vizi, rilevabili in questa sede. Il Tribunale, infatti, nell'affermare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dei ricorrenti con riferimento ai reati loro contestati ai capi 1) e 2) della provvisoria imputazione, ha rilevato che il resoconto sulle condizioni di salute degli ospiti, offerto dai parenti di alcuni degli stessi, le dichiarazioni di Sa.Ar. , An.Ma. e dello stesso ospite An.Ma. nonché gli esiti degli accertamenti svolti dai Nas avevano consentito di accertare che i residenti della struttura erano abbandonati in uno stato di forte incuria e degrado, privati delle più basilari tutele igieniche, alloggiati in una struttura di fatto abusiva e priva di adeguato personale, costretti così a vivere in ambienti nauseabondi tra le proprie deiezioni, a contatto con lenzuola e abiti non lavati, in assenza dei minimi presidi di controllo e in violazione delle più basilari regole sanitarie. Le modalità di gestione e organizzazione del personale, l'assenza di figure professionali specializzate per la cura e l'assistenza degli anziani, lo stato di sporcizia e degrado, in cui versavano tutti gli anziani, costituivano elementi dai quali trarre incontrovertibili indizi circa la sussistenza a carico dei ricorrenti della gravità indiziaria del delitto di abbandono di incapaci. Il Tribunale ha aggiunto che le condotte di mancata cura, di privazioni igieniche, sanitarie, assistenziali, perpetrate dagli indagati nei confronti di anziani non autosufficienti, o comunque di disabili loro affidati e che vivevano presso la residenza dagli stessi diretta e organizzata, peraltro dietro pagamento di una retta mensile da parte delle famiglie, integravano gli estremi oggettivi anche del reato di maltrattamenti. Le condotte lesive e mortificanti erano spalmate lungo un arco temporale di vari mesi, che avevano costretto gli ospiti, persone fragili in condizioni di soggezione e minorità rispetto agli indagati, a un regime intollerabile di vita, privati di dignità, di sicurezza alimentare e medica, di igiene, del diritto a vivere la propria quotidianità in un ambiente salubre e non pericoloso per la loro salute fisica e psichica. 4. Trattasi di argomentazioni che sfuggono a ogni rilievo censorio. Il Tribunale, infatti, nell'indicare le ripetute condotte, poste in essere dagli indagati, di mancata cura e assistenza, che avevano creato un complessivo clima vessatorio e di sistematica sopraffazione ed umiliazione, per giunta in danno di soggetti inermi e incapaci di reagire, ha correttamente e convincentemente sottolineato che gli elementi probatori acquisiti (dettagliatamente analizzati) non solo conclamavano la sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie tipica prefigurata nell'art. 572 cod. pen. , ma consentivano anche di ribadire la sussistenza dell'elemento psicologico correlativo (potendosi inferire dalle circostanze esteriori, dalla reiterazione degli atti e dal loro carattere, la volontà unitaria di vessare abitualmente i soggetti passivi). Non è superfluo ricordare al riguardo che il delitto di maltrattamenti è integrato dalla sottoposizione dei soggetti tutelati a una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l'esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo: è, pertanto, necessario che la condotta sia abituale e si estrinsechi in una pluralità di atti (Sez. 6, n. 7192 del 4/12/2003, dep. 19 febbraio 2004, Camiscia, Rv. 228461). Sotto il profilo psicologico, il reato è integrato dal dolo generico; non occorre, quindi, che l'agente sia animato dal fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un'abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza con la propria condotta abitualmente offensiva (Sez. 6, n. 15680 del 28/3/2012, F. , Rv. 252586 - 01; Sez. 6, n. 27048 del 18/3/2008, D.S. , Rv. 240879 - 01). 5. Giova inoltre precisare che questa Corte ha già avuto modo di affermare che, in tema di maltrattamenti in famiglia, l'art. 572 cod. pen. è applicabile anche quando le condotte siano realizzate nell'ambito di una situazione di para familiarità, intesa come sottoposizione di una persona all'autorità di un'altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie delle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all'azione di chi ha la posizione di supremazia (Sez. 3, n. 13815 del 4/02/2021, P. , Rv. 281588 - 01). Situazioni queste che è innegabile sussistono nel caso in esame, in cui gli ospiti della struttura erano affidati ai gestori della stessa in un contesto di prossimità permanente. 6. Posto poi che, ai fini dell'integrazione del delitto di cui all'art. 591 cod. pen. , il necessario "abbandono" è integrato da qualunque azione od omissione contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia) che grava sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o per l'incolumità del soggetto passivo, deve rilevarsi che il Tribunale, in piena consonanza con tale disposizione normativa, ha affermato che gi indagati, pur avendo - sulla base dei contratti sottoscritti con gli ospiti della struttura o nell'interesse di questi ultimi - il dovere di cura nei loro confronti, avevano posto in essere una serie di condotte di mancanza di adeguata cura e assistenza, tali da avere creato condizioni di scarsa igiene, pericolose per la salute. Né tale conclusione può essere scalfita dal rilievo difensivo sulla mancata segnalazione di criticità da parte dei familiari degli ospiti. È agevole, infatti, osservare che i ricorrenti erano i gestori della struttura e, dunque, avevano una posizione di garanzia che li rendeva obbligati ad assicurare condizioni di cura e assistenza adeguate, senza necessità che qualcuno segnalasse criticità, che loro stessi erano tenuti non solo a verificare ed eliminare,ma anche, ove possibile, a prevenire. 7. A fronte della motivazione del provvedimento impugnato i ricorrenti hanno proposto doglianze tese ad ottenere una diversa ricostruzione della vicenda e una diversa valutazione degli elementi acquisiti: operazione, questa, non consentita al giudice di legittimità. 8. Né coglie nel segno la deduzione secondo cui fra i reati ascritti agli indagati sussiste un rapporto di consunzione. 8.1. Le pronunce più recenti delle Sezioni unite di questa Corte, al fine della soluzione del problema relativo alla selezione delle fattispecie penali astrattamente applicabili a fronte della realizzazione di un'unica condotta materiale, sono partite dalla considerazione dei principi vigenti sul concorso apparente di norme, regolamentato dall'art. 15 cod. pen. , e hanno affermato che da tale norma si trae il principio generale che, ove si escluda il concorso apparente, è possibile derogare alla regola del concorso di reati solo quando la legge contenga l'espressione delle c.d. clausole di riserva, le quali, inserite nella singola disposizione, testualmente impongono l'applicazione di una sola norma incriminatrice prevalente, che si individua seguendo una logica diversa da quella di specialità. Le Sezioni unite hanno escluso la possibilità di ricorrere alle figure dell'assorbimento, della consunzione e dell'ante - fatto o post - fatto non punibile, ritenute prive di sicure basi ricostruttive, poiché individuano elementi incerti quale dato di discrimine, come l'identità del bene giuridico, tutelato dalle norme in comparazione, e la sua astratta graduazione in termini di maggiore o minore intensità, di non univoca individuazione, e per questo suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti (tra le altre: Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668 - 01; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722 - 01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248865 - 01; Sez. U. , n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, Rv. 235962 - 01). Posto, quindi, che il principio di specialità assurge a criterio euristico di riferimento, si è precisato che deve definirsi norma speciale quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l'ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell'ambito operativo della norma generale (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, cit.). In tale ambito ricostruttivo, si è chiarito che il criterio di specialità deve intendersi e applicarsi in senso logico - formale. Il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dall'art. 15 cod. pen, risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato (Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, cit.; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, Di Lorenzo, cit.). 8.2. Tale elaborazione, fondata sul principio di specialità quale criterio dirimente, consente di escludere che tra le due fattispecie di cui agli artt. 572 e 591 cod. pen. , sussista un rapporto di specialità. Le figure di reato in questione sono caratterizzate da condotte diverse (non riguardando, quindi, lo "stesso fatto"), poiché l'una è integrata dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico - fisici ai danni di persone di famiglia, l'altra dall'abbandono ingiustificato di un soggetto incapace di provvedere a sé stesso e che si abbia l'obbligo giuridico di custodire, che lo esponga ad un pericolo anche solo potenziale. In questo senso si è già espressa questa Corte (Sez. 2, n. 10994 del 6/12/2012, Rv. 255174 - 01) e tale conclusione, per le ragioni anzidette può essere ora ribadita. 9. Anche il motivo dei ricorsi sulle esigenze cautelari è teso ad ottenere una inammissibile rivalutazione. Il Tribunale ha posto in evidenza che le plurime condotte, poste in essere dagli indagati, connotate da forte gravità e allarme sociale in quanto perpetrate in danno di persone fragili e incapaci di reagire ai soprusi, subiti lungo un apprezzabile arco temporale, senza soluzione di continuità, dimostravano l'assoluta spregiudicatezza di entrambi i ricorrenti nel portare avanti il loro progetto criminoso di incontrollato arricchimento a discapito della salute, della fiducia, del benessere psicofisico e della dignità di anziani e disabili, affidati alle loro cure. Peraltro, le condotte, fotografate nell'odierno procedimento, lungi dal costituire una isolata parentesi nella storia degli indagati, rappresentavano, invece, soltanto uno dei tasselli di un già rodato schema imprenditoriale che aveva già condotto al sequestro preventivo di due strutture socioassistenziali per anziani, precedentemente gestite dagli stessi con le stesse spregiudicate modalità operative. Siffatta motivazione, con cui il Collegio del riesame ha dato contezza del pericolo concreto e attuale di reiterazione del reato, in quanto logica e non inficiata da violazioni di legge, è esente da ogni vizio rilevabile in questa sede. 10. In definitiva, i ricorsi sono inammissibili e ciò comporta la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. , al pagamento delle spese processuali nonché - non sussistendo ragioni di esonero (Corte cost. , 13 giugno 2000 n. 186) - della sanzione pecuniaria di euro tremila, equitativamente determinata, in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 23 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. DE AMICIS Gaetano - Presidente Dott. APRILE Ercole - Consigliere Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria - Consigliere Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ma.An. , nato a R il (Omissis) avverso la sentenza del 17/11/2023 emessa dal Tribunale di Velletri visti gli atti, la sentenza e il ricorso; udita la relazione del consigliere Paolo Di Geronimo; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Luigi Giordano, che ha chiesto l'annullamento della sentenza; RITENUTO IN FATTO 1. Il giudice per le indagini preliminari applicava all'imputato la pena concordata con il pubblico ministero, relativamente ai reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali, condannando altresì il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore della parte civile. 2. Avverso tale sentenza, il ricorrente ha formulato tre motivi di impugnazione. 2.1. Con il primo motivo, deduce la violazione degli artt. 78, 29, 447 e 448 cod. proc. pen. in relazione alla condanna alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, evidenziando come l'accordo sulla pena si era formato prima ancora dell'esercizio dell'azione penale e la sentenza era stata emessa nell'udienza appositamente fissata, alla quale non doveva essere neppure consentita la costituzione della parte civile. 2.2. Con il secondo motivo, deduce la violazione degli artt. 446 e 448 cod. proc. pen. , assumendo che il giudice per le indagini preliminari aveva erroneamente ritenuto che il ricorrente, all'udienza del 17 novembre 2023, avesse revocato la richiesta di applicazione della pena. Invero, la volontà espressa era diretta a mantenere fermo l'accordo sulla pena che, tuttavia, doveva essere sostituita con i lavori di pubblica utilità, in base alla nuova disciplina delle sanzioni sostitutive. Il giudice, invece, era incorso in un vero e proprio travisamento della volontà dell'imputato, posto che, se questi avesse inteso revocare la precedente richiesta di patteggiamento, non avrebbe avuto alcun senso logico il deposito della procura speciale con la quale si affermava la volontà di addivenire alla sostituzione della pena già concordata. Alla luce di tali elementi, il giudice avrebbe dovuto accertare la reale volontà del ricorrente e non procedere all'applicazione della pena, anche in considerazione del diniego immotivato espresso dal pubblico ministero. In ogni caso, pur interpretando la volontà dell'imputato come una mera revoca del consenso precedentemente espresso, si sarebbe dovuto dare applicazione all'orientamento giurisprudenziale, contrario rispetto a quello indicato in sentenza, che consente la revoca fin quando l'accordo non è ratificato dal giudice. 2.3. Con il terzo motivo, infine, il ricorrente rappresenta che, il 5 dicembre 2023, la persona offesa ha rimesso la querela con conseguente accettazione, sicché il reato di lesioni personali deve ritenersi non più procedibile, il che imporrebbe in ogni caso l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata. 3. Il ricorso è stato trattato con rito cartolare. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito specificati. 2. Il primo motivo, concernente l'illegittima condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di difesa in favore della parte civile, è fondato. Occorre premettere che, nel caso in esame, l'accordo sulla pena è stato raggiunto dopo la notifica dell'avviso ex art. 415 - bis cod. proc. pen. e prima ancora che il pubblico ministero esercitasse l'azione penale. Si tratta, pertanto, di un'ipotesi di patteggiamento nel corso delle indagini preliminari, a fronte della quale il giudice ha correttamente fissato apposita udienza in camera di consiglio, finalizzata esclusivamente al vaglio della richiesta di applicazione della pena. Per consolidata giurisprudenza, nell'udienza fissata a seguito della richiesta di applicazione della pena presentata nel corso delle indagini preliminari non è consentita la costituzione di parte civile ed è pertanto illegittima la condanna dell'imputato al pagamento delle spese sostenute dal danneggiato dal reato la cui costituzione sia stata ammessa dal giudice nonostante tale divieto (Sez.U, n. 47803 del 27/11/2008, D'Avino, Rv. 241356). 3. Il secondo motivo, concernente il rigetto della richiesta di sostituzione della pena detentiva, pur essendo infondato, risulta assorbito dall'accoglimento del terzo motivo. 3.1 Per mera completezza espositiva, è opportuno esaminare ugualmente la questione, ricostruendo nel dettaglio i singoli passaggi processuali rilevanti dai quali emerge che: - a seguito di richiesta dell'indagato, il pubblico ministero prestava il consenso all'applicazione della pena in data 31 agosto 2023; - l'accordo prevedeva esclusivamente l'applicazione della pena detentiva, non facendo in alcun modo riferimento alla sostituzione della stessa; - all'udienza del 17 novembre 2023, il difensore dell'indagato concludeva depositando "revoca al consenso del patteggiamento" sulla base di una procura speciale, del 16 novembre 2023, con la quale si conferiva al difensore il potere di "prestare il consenso all'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. unicamente se subordinato all'accesso al beneficio della pena sostitutiva"; - il pubblico ministero non prestava il suo consenso alla revoca del patteggiamento; - il giudice rigettava la richiesta di revoca e decideva in conformità all'accordo sulla pena formulato dalle parti. Orbene, sulla base di tali dati di fatto - risultanti dall'esame degli atti e, in particolare, del verbale di udienza - deve escludersi che il giudice abbia mal interpretato la volontà del ricorrente, posto che la richiesta formulata a verbale era espressamente nel senso di revocare il consenso già prestato. Si ritiene, pertanto, che il giudice abbia correttamente escluso la legittimità della revoca, applicando il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la richiesta di applicazione della pena non è più revocabile una volta che su di essa sia espresso il consenso della parte, in quanto la formazione dell'accordo determina effetti irreversibili ed è sottoposto solo al controllo giudiziale (Sez.4, n. 38051 del 3/7/2012, Rv. 254367). 3.2 Tanto premesso, deve ritenersi che il ricorrente, stante l'accordo raggiunto con la parte pubblica, non poteva invocare l'applicazione della disciplina delle pene sostitutive a fronte di un accordo che non le prevedeva in alcun modo. A tal proposito, infatti, deve sottolinearsi come le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 150 del 2022 impongono alle parti di indicare ab origine se l'accordo prevede o meno la sostituzione, tant'è che il novellato art. 444, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce espressamente che "l'imputato e il pubblico ministero possono chiede l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una pena sostitutiva o di una pena pecuniaria" ovvero della pena detentiva. Il tenore letterale della norma impone, senza possibilità di interpretazioni difformi, che l'accordo sottoposto al giudice contempli già l'esatta individuazione della pena detentiva, pecuniaria o sostitutiva, non essendo consentito - come invece avviene nel rito ordinario - la scissione della fase di determinazione della pena, con la determinazione della sanzione ordinaria cui far seguire, eventualmente, la sostituzione della stessa (a supporto di tale soluzione si veda Sez.6, n. 30767 del 28/4/2023, Lombardo, Rv. 284978; Sez.2, n. 50010 del 10/10/2023, Melluso, Rv. 285690). 4 Risulta fondato e assorbente il terzo motivo con il quale si rappresenta la sopravvenuta remissione della querela in ordine al reato di lesioni personali. Occorre preliminarmente dare atto che, dalla lettura dell'imputazione, non risulta contestata alcuna delle aggravanti che, in base ai novellati artt. 582 e 585 cod. pen. , renderebbe il reato procedibile d'ufficio. Ne consegue che, stante l'accettazione della remissione della querela, deve dichiararsi l'estinzione del reato, in applicazione del consolidato principio secondo cui la remissione di querela, intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e ritualmente accettata, determina l'estinzione del reato che prevale anche su eventuali cause di inammissibilità e va rilevata e dichiarata dal giudice di legittimità, purché il ricorso sia stato tempestivamente proposto (Sez.U, n, 24246 del 25/2/2004, Chiasserini, Rv. 227681). 5 Ritiene la Corte, tuttavia, che non si possa procedere alla mera rideterminazione della pena concordata tra le parti, posto che l'eliminazione di uno dei reati oggetto dell'accordo comporta il venir meno dello stesso, non essendo consentito al giudice - come invece avviene nel caso di ordinaria sentenza di condanna - di rimodulare la sanzione inflitta. La natura dell'applicazione della pena su accordo delle parti comporta, infatti, che il contenuto dello stesso e, quindi, la determinazione finale della pena da applicare, è rimessa unicamente all'atto negoziale, rispetto al quale il giudice è privo di un autonomo potere di rimodulazione della pena. Applicando tale principio, ne consegue che la sentenza di applicazione della pena deve essere annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti al Pubblico ministero, posto che la sentenza è stata emessa in fase di indagini preliminari e prima ancora che fosse fissata l'udienza preliminare. Il ricorrente, per effetto dell'annullamento, potrà procedere a formulare una nuova richiesta di applicazione della pena, eventualmente concordando anche la pena sostitutiva, ovvero, si potrà procedere nelle forme ordinarie. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone la trasmissione degli atti al P.M. presso il Tribunale di Velietri. Così deciso il 17 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina A.R. - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ma.Mi. nato a T il (Omissis) avverso la sentenza del 20/06/2023 del Tribunale di Trento Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Maria Sabina Vigna; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pasquale Serrao D'Aquino, che ha chiesto l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza impugnata, il Tribunale di Trento applicava a Ma.Mi., in relazione ai reati di concorso, anche omissivo, con la compagna convivente, nei reati di maltrattamenti nei confronti dei due figli e di lesioni aggravate, previo riconoscimento della circostanza attenuante dell'avvenuto risarcimento del danno prevalente sulle circostanze aggravanti, riconosciuta la continuazione con il reato di lesioni aggravate, contestato al capo 2), la pena di anni quattro e mesi otto di reclusione. 2. Avverso la sentenza, ricorre per Cassazione l'imputato, deducendo i seguenti motivi: 2.1. Violazione dell'art. 448, comma 2-bis, cod. pen., per erronea qualificazione giuridica del fatto in relazione al mancato assorbimento nel reato di concorso in maltrattamenti in famiglia di cui al capo 1), del reato di concorso in lesioni di cui al capo 2) in violazione dell'art. 15 cod. pen. e del principio del ne bis in idem. 2.2. Violazione dell'art. 448, comma 2-bis, cod. pen. per illegalità della pena in relazione alla errata qualificazione giuridica del fatto di cui al punto precedente e della conseguente omessa in riduzione obbligatoria della pena per il rito in violazione del principio di legalità della pena. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Il primo motivo è manifestamente infondato, non ravvisandosi alcuna erronea qualificazione giuridica del fatto. Osserva il Collegio che costituisce principio di diritto consolidato quello in base al quale è configurabile il concorso formale - e non l'assorbimento - tra le fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 572 e 582 cod. pen. quando le lesioni risultano consumate in occasione della commissione del delitto di maltrattamenti, con conseguente sussistenza dell'aggravante dell'art. 576, comma primo, n. 5, cod. pen.: in tal caso, infatti, non ricorre l'ipotesi del reato complesso, per la cui configurabilità non è sufficiente che le particolari modalità di realizzazione in concreto del fatto tipico determinino un'occasionale convergenza di più norme e, quindi, un concorso di reati, ma è necessario che sia la legge a prevedere un reato come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro (Sez. 6, n. 17872 del 22/04/2022, C., Rv. 283154 - 01). Il Tribunale si è quindi correttamente conformata al principio sopra richiamato. 3. Conseguentemente, anche il secondo motivo è manifestamente infondato, essendo correttamente stato operato l'aumento della pena in continuazione con il reato di lesione e la riduzione della stessa per la scelta del rito. 4. Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. Considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro, in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 28 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE composta da Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina A.R. - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da De.Si. nato a C il (Omissis) avverso la sentenza del 01/03/2023 della Corte di appello di Trento Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Maria Sabina Vigna; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Mariella De Masellis, che ha chiesto il rigetto del ricorso; letta la memoria della difesa di De.Si., che ha insistito per l'annullamento della sentenza; lette le conclusioni scritte della parte civile, che ha insistito per l'inammissibilità o il rigetto del ricorso e ha depositando nota spese. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Trento, all'esito di rito abbreviato, ha confermato la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Trento del 25 gennaio 2022, che dichiarava De.Si. responsabile del reato di maltrattamenti nei confronti della ex compagna Ve.Ma. (erroneamente indicata come ex moglie nel capo di imputazione} e lo condannava la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione. La sentenza, pur precisando l'assenza di un vincolo familiare e/o di convivenza tra imputato e persona offesa, sottolineava che le condotte vessatorie erano state attuate dall'imputato nell'ambito di un rapporto di convivenza, di non trascurabile durata, connotato da non irrilevante stabilità e da aspettative di mutua solidarietà. In particolare, l'imputato, quando già era cessata la relazione more uxorio con la Ve.Ma., veniva ospitato per alcuni mesi dalla stessa, perché non riusciva a trovare altra sistemazione; nel febbraio 2020 la donna lo allontanava da casa e, a partire da quel momento, veniva percossa, minacciata e ingiuriata fino ad ottobre 2020. 2. Avverso la sentenza ricorre per cassazione l'imputato, deducendo seguenti motivi: 2.1. Vizio di motivazione nella parte in cui il giudice di secondo grado, pur accertando e dichiarando che i fatti erano tutti stati commessi in periodo in cui l'imputato non abitava con la persona offesa, desumeva da tali fatti il raggiungimento della prova circa la sussistenza del rapporto familiare. È manifestamente illogica la motivazione dell'impugnata sentenza nella parte in cui, pur dando atto che il rapporto more uxorio era cessato nel 2011, ritiene che la ospitalità offerta all'imputato dalla persona offesa dal dicembre 2019 al gennaio 2020 - fosse caratterizzata da non irrilevante stabilità e da aspettative di mutua solidarietà. Sin dall'avvio della ospitalità, infatti, la Ve.Ma. aveva precisato che si trattava di disponibilità provvisoria e aveva intimato all'imputato di cercare immediatamente un proprio alloggio. I fatti per i quali De.Si. è imputato si sono tutti verificati mesi dopo il febbraio 2020: uno nel marzo 2020, altri nel settembre 2020 e altri ancora nell'ottobre 2020. 2.2. Violazione di legge con riferimento agli artt. 572 e 612-bis cod. pen., 25 Cost. e 14 delle disposizioni preliminari, con riferimento alla asserita sussistenza, allorché si sono consumate le condotte, di un rapporto di natura familiare o di convivenza tra la persona offesa e l'imputato. La difesa richiama sul punto la sentenza della Corte costituzionale che ha espressamente ammonito contro l'applicazione analogica dell'art. 572 cod. pen. e la più recente giurisprudenza di questa sezione circa i confini tra il reato di maltrattamenti e quello di stalking. Nel caso in esame, al più, possono ritenersi sussistenti gli estremi del reato di cui all'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati. 2. Occorre premettere che, richiamando un consistente indirizzo ermeneutico manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità, i giudici di merito hanno ritenuto che, per la configurabilità del delitto di maltrattamenti, il dato essenziale e qualificante risieda nell'instaurazione, tra autore e vittima, di un rapporto connotato da reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza; con il corollario per cui, se un siffatto rapporto esiste, e se, dunque, sussistano tra costoro strette relazioni dalle quali dovrebbero derivare rispetto e solidarietà, non è nemmeno necessaria una stabile o prolungata convivenza, potendo il reato configurarsi anche qualora la coabitazione sia di breve durata, instabile od anomala (fra molte altre, Sez. 6, n. 17888 del 11/02/2021, O., Rv. 281092; Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C, Rv. 261472; Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, I., Rv. 255628). Il suindicato indirizzo è frutto dello sforzo dell'interprete di ampliare lo spettro di tutela per soggetti tipicamente vulnerabili, poiché vittime di condotte prevaricatrici che maturano nell'ambito di rapporti affettivi dai quali hanno naturale difficoltà a sottrarsi. 2.1. Ritiene, tuttavia, il Collegio che tale lettura normativa debba essere superata, anche in considerazione dei numerosi passi avanti in tal direzione compiuti dalla legislazione più recente, a cominciare dal D.L. n. 11 del 2009, conv. dalla legge n.38 del 2009, che ha introdotto il delitto di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), e dalla stessa I. 172/2012, che ha esteso la platea dei soggetti passivi del delitto di maltrattamenti alla persona "comunque convivente", senza altro aggiungere. In tal senso, non può non osservarsi l'espresso monito di recente rivolto dalla Corte costituzionale al giudice penale, affinché rimanga aderente al testo normativo, correndo altrimenti il rischio di violare il divieto di analogia in malam partem, che caratterizza le norme incriminatrici. Chiamato a pronunciarsi su una questione di rito, sorta all'interno di un processo per tal specie di condotte, il Giudice delle leggi ha affidato all'interprete il compito di stabilire se relazioni affettive - per così dire - non tradizionali (in quel caso si trattava di un rapporto sentimentale protrattosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro) possano farsi rientrare nelle nozioni di famiglia" o di "convivenza", alla stregua dell'ordinario significato di queste espressioni. Ma immediatamente dopo ha ammonito che, "in difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572, cod. pen., in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico (...), ma comunque preclusa dall'art. 25, secondo comma, Cast." (Corte cost., sentenza n. 98 del 2021). 2.2. Tale sollecitazione è stata raccolta dalla più recente giurisprudenza di legittimità, alla quale il Collegio intende dar seguito. In ipotesi analoghe a quella in esame - poiché caratterizzate dal comune denominatore dell'assenza di un rapporto familiare o di convivenza tra autore e vittima al momento dei fatti - questa Sezione ha infatti ritenuto che non sia configurabile il reato di maltrattamenti, bensì, eventualmente, l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell'altro dopo la cessazione della convivenza (Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., Rv. 282254, ribadita da Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398, con la precisazione per cui, terminata la convivenza, vengono meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento; in termini, da ultimo, Sez. 6, n. 38336 del 28/09/2022, D. 11/10/2022, Rv. 283939-01). Invero, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici (art. 14, preleggi), immediato precipitato del principio di legalità (art. 25, Cost.), nonché la presenza di un apparato normativa che amplia lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell'ambito di relazioni interpersonali non qualificate, impongono, nell'applicazione dell'art. 572, cod. pen., di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" nell'accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d'affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché, ovviamente, non necessariamente continua (si pensi, ad esempio, al frequente caso di coloro che, per ragioni di lavoro, dimorino in luogo diverso dall'abitazione comune, per periodi più o meno lunghi ma comunque circoscritti). 2.3. In applicazione di tale principio, emerge, con sufficiente nitidezza, dal provvedimento impugnato, che le condotte poste in essere dall'imputato successivamente alla cessazione della convivenza non sono riconducibili nell'alveo del reato di cui all'art. 572 cod. pen. Risulta, infatti, dalla sentenza della Corte di appello che: - la stabile convivenza tra imputato e persona offesa era cessata nel febbraio 2011; - nel 2018 i figli della ex coppia venivano allontanati dalla madre e affidati al servizio sociale e veniva altresì sospesa la responsabilità genitoriale di entrambi, affetti da alcolismo e disturbi mentali; - a distanza di anni, tra il dicembre 2019 e il febbraio 2020, la persona offesa aveva dato ospitalità saltuaria all'imputato, il quale era rimasto senza casa; detta ospitalità era, per espressa dichiarazione resa dalla persona offesa, provvisoria ed esclusivamente volta a far fronte alla indisponibilità di un alloggio da parte dell'imputato; - nel febbraio 2020 la Ve.Ma. revocava la disponibilità ad ospitare l'imputato; - i fatti per cui De.Si. è imputato si sono tutti verificati mesi dopo il febbraio 2020: uno nel marzo 2020, altri nel settembre 2020 e altri ancora nell'ottobre 2020. È, quindi, di tutta evidenza che, essendo venuta meno la convivenza, il reato di maltrattamenti non è configurabile. 3. La sentenza impugnata deve, dunque, essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, che, in sede di rinvio, adeguandosi al principio di diritto sopra dettato, dovrà valutare la sussistenza dei presupposti del reato di cui all'art. 612-bis cod. pen. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Trento Sezione distaccata di Bolzano. Così deciso il 28 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. APRILE Ercole - Presidente Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere Dott. ROSATI Martino - Relatore Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. IANNICIELLO Mariella - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Be.So., nata a R il (Omissis) avverso la sentenza del 16/04/2024 della Corte di appello di Milano; letti gli atti del procedimento, il ricorso e la sentenza impugnata; udita la relazione del consigliere Martino Rosati; udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberto Aniello, che ha concluso per il rigetto del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La cittadina serba Be.So., con atto del proprio difensore, impugna la sentenza della Corte dì appello di Milano dello scorso 16 aprile, che ha dichiarato l'esistenza delle condizioni per la sua consegna alla Repubblica di Croazia, in esecuzione del mandato di arresto europeo emesso dalla Procura della Repubblica di Slavonski Brod di quello Stato, dinanzi alla quale ella è indagata per reati di falso documentale, tuttavia disponendo il differimento della consegna all'esito dell'esecuzione della pena inflittale con sentenza definitiva in Italia per fatti diversi da quelli oggetto del mandato. 2. Il ricorso consta di tre motivi. 2.1. Il primo denuncia vizi cumulativi di motivazione, nella parte in cui la sentenza impugnata non avrebbe tenuto in considerazione il rinvio obbligatorio di esecuzione della pena, a norma dell'art. 146, cod. pen., essendo la Be.So. madre di prole di età inferiore ad un anno. 2.2. Il secondo rappresenta i medesimi vizi con riferimento alla motivazione con la quale la sentenza impugnata ha escluso il pericolo di trattamenti inumani o degradanti in relazione alle condizioni penitenziarie in Croazia. Si citano, a sostegno, alcune precedenti decisioni della Corte EDU, relative a diversi istituti penitenziari croati, lamentandosi la mancata richiesta, da parte della Corte d'appello, di informazioni ulteriori sul trattamento riservato alla Be.So. in caso di consegna, tenuto altresì conto della sua condizione di madre di prole in tenera età e, dunque, delle misure ivi previste a tutela dei figli minori. 2.3. Gli stessi vizi della motivazione vengono dedotti, infine, con riferimento all'esclusione del rifiuto della consegna a norma dell'art. 18-bis, comma 2, legge n. 69 del 2005, per avere la Corte d'appello escluso il c.d. "radicamento" in Italia della ricorrente. Osserva la difesa che, nella tradizione della comunità rom, alla quale appartiene la ricorrente, la donna, a sèguito del matrimonio, interrompe di fatto i legami con la propria famiglia d'origine, divenendo parte di quella del marito, i cui componenti, nel caso specifico, risiedono tutti in Italia; con la conseguenza che, laddove ella venisse ristretta in Croazia, nessuno sarebbe in grado di visitarla ed assisterla. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Nessuno dei motivi di ricorso può essere ammesso, lamentandosi con essi esclusivamente dei vizi di motivazione, mentre il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge (art. 22, comma 1, legge n. 69 del 2005, come modificato dal D.Lgs. n. 10 del 2021). 2. In ogni caso, il primo motivo è, se non altro, manifestamente infondato, non riuscendosi francamente a comprendere di cosa si dolga la difesa ricorrente, ove si consideri che l'esecuzione del mandato è stata differita all'esito dell'esecuzione della condanna definitiva inflitta in Italia. Laddove - come potrebbe ritenersi - abbia inteso lamentarsi del perdurare della misura cautelare in attesa dell'esecuzione di tale condanna definitiva, il ricorso è generico, poiché non deduce alcuna ragione a confutazione. 3. Il secondo motivo è generico. La sentenza impugnata contiene una dettagliata disamina dei risultati del rapporto redatto dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa, a sèguito di visita ispettiva condotta presso le carceri croate nel settembre del 2022, dal quale emergono l'assenza di un rischio serio e generalizzato di trattamenti penitenziari inumani o degradanti e, con particolare riferimento alle condizioni delle madri detenute, l'esistenza di istituti di pena con reparti specificamente dedicati alle madri di prole di età inferiore a tre anni, nei quali non sono stati riscontrati sovraffollamento od altre criticità (sull'impossibilità, per lo Stato richiesto, di rifiutare la consegna, in esecuzione di un m.a.e., di madre di prole in tenera età, qualora non sussistano carenze sistemiche e generalizzate nel sistema penitenziario dello Stato richiedente ed il serio e comprovato pericolo che, in concreto, la persona da consegnare possa subire trattamenti inumani o degradanti in ragione di tale sua condizione, vds. CGUE, Grande Camera, sentenza 21/12/2023, in causa C-261/22, nonché il recente precedente di questa Corte, Sez. 6, n. 18365 del 07/05/2024, Young, non mass.). A tali rilievi il ricorso non oppone critiche specifiche ed argomentate, limitandosi ad evocare alcuni precedenti della Corte EDU, tuttavia relativi a situazioni non prospettabili nel caso in esame, ed a dolersi genericamente della mancata richiesta di informazioni supplementari, a norma dell'art. 16, legge n. 69 del 2005, invece motivatamente disattesa dalla Corte distrettuale. 4. Il terzo motivo di ricorso è anch'esso generico, ma, ancor prima, manifestamente infondato. È generico perché, a fronte di una dettagliata descrizione, contenuta in sentenza, delle ragioni per cui non è ravvisabile alcun elemento di "radicamento" della ricorrente sul territorio italiano (sul quale vive sola con i figli, senza svolgere alcun lavoro), la difesa si limita ad addurre l'esistenza di usi familiari semplicemente asseriti. Ma soprattutto la doglianza non può trovare ingresso, poiché il motivo di rifiuto facoltativo invocato è previsto dall'art. 18-bis, comma 2, legge n. 69, cit., soltanto per i mandati d'arresto strumentali all'esecuzione di condanne definitive, e non anche per quelli - come nel caso in esame - cc.dd. "processuali", funzionali, cioè, all'esercizio di un'azione penale. 5. All'inammissibilità del ricorso consegue obbligatoriamente - ai sensi dell'art. 616, cod. proc. pen. - la condanna della proponente alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d'inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta carenza di diligenza, va fissata in tremila Euro. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 22, comma 5, legge n. 69/2005. Così deciso in Roma, il 29 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina A.R. - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da De.Pa. nato a M il (Omissis) avverso il decreto del 16/06/2023 della Corte di appello di Reggio Calabria Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Maria Sabina Vigna; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alessandro Cimmino, che ha chiesto l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. De.Pa. ricorre avverso il decreto emesso dalla Corte di Appello di Reggio Calabria, in data 16 giugno 2023, che ha rigettato il ricorso e confermato il decreto emesso dal Tribunale di Reggio Calabria in data 10 novembre 2021, con il quale era stata applicata al predetto la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di anni quattro, con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza. 2.Il ricorrente deduce, come unico motivo, la violazione di legge, anche processuale, in relazione all'art. 4 del D.Lgs. n. 159/2011. Il decreto si limita a valorizzare i carichi pendenti del ricorrente senza considerare l'epoca di verificazione delle condotte: le vicende attenzionate nell'ambito del procedimento cosiddetto "Trash" si attestano in epoca assai risalente, ossia al 2011, mentre gli esiti investigativi compendiati nel procedimento cosiddetto "Nuovo Corso" risalgono al 2016 e non stigmatizzano, peraltro, una condotta di partecipazione ex art. 416-bis cod. pen. Emerge, dunque, la sussistenza di un evidente iato temporale tra il momento della verificazione delle condotte e il momento dell'odierno giudizio. E non si tratta soltanto di un lasso temporale di tenore neutro. Durante tale periodo, infatti, il ricorrente pativa un considerevole periodo detentivo, dando prova di una attiva volontà di reinserimento. De.Pa. ha, infatti, intrapreso un percorso di studio poi culminato nel conseguimento della laurea e nel successivo accesso a un master di primo livello. Si era, comunque, data prova dell'attività lavorativa svolta dal ricorrente durante il periodo attenzionato. A fronte di tali rilievi, il decreto impugnato pretende di valorizzare, in chiave di conferma del giudizio di pericolosità sociale del proposto, quella che viene ricostruita sotto il profilo interpretativo come una presunzione semplice di attualità della pericolosità, senza analizzare, come richiesto dalla giurisprudenza, tutti gli indicatori comportamentali successivi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. La Corte di Appello ha evidenziato come il proposto, dopo aver scontato la detenzione carceraria in relazione a condanna per associazione mafiosa, avesse proseguito nello svolgere un ruolo di primo piano nella cosca imperante sul territorio di Reggio Calabria, indicando, in particolare, la condanna (confermata in appello) per il delitto di estorsione aggravata dal metodo mafioso nell'ambito dell'operazione "Trash", commessa dal 2002 al 2011, gli esiti dell'indagine "(Omissis)", conclusasi con l'emissione di una ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti del proposto, imputato nel relativo procedimento per il delitto di estorsione consumata pluriaggravata commessa tra il 2015 ed il 2018, e per un ulteriore episodio di tentata estorsione risalente al 2016. Sulla base di tali elementi la Corte territoriale, confermando il decreto emesso dal Tribunale, ha ritenuto sussistente la pericolosità qualificata, ai sensi sia della lettera b), sia della lettera a) dell'art. 4 del D.Lgs. 159/2011, in presenza di gravi indizi della commissione di reati-fine, manifestazione del programma associativo mafioso della cosca, dell'assunzione di un ruolo centrale da parte del proposto, presentato dagli altri sodali quale "capo della famiglia", in occasione della realizzazione di alcune condotte, della diretta esternazione del potere intimidatorio della cosca. La Corte di Appello ha, inoltre, ritenuto sussistente l'attualità della pericolosità, in ragione, in particolare, della vicinanza nel tempo delle condotte indicate. 2.1. Orbene, come ribadito da questa Corte, nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso - con scelta ritenuta non irragionevole da Corte cost. n. 321 del 2004 e n. 106 del 2015 - soltanto per violazione di legge, giusta il disposto degli artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l'ipotesi dell'illogicità manifesta di cui all'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell'obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d'appello dall'art. 10, comma 8, D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente, che ricorre anche "quando il decreto omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo prospettato da una parte che, singolarmente considerato, sarebbe tale da poter determinare un esito opposto del giudizio" (Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, Caliendo, Rv. 270080), mentre il travisamento della prova rileva, solo qualora abbia investito plurime circostanze decisive totalmente ignorate ovvero ricostruite dai giudici di merito in modo totalmente erroneo (Sez. 2, n. 20968 del 06/07/2020, Noviello, Rv. 279435 -01). 2.2. In detta prospettiva, oltre ad essere esclusi i vizi tipici concernenti la tenuta logica del discorso giustificativo, è improponibile, sotto forma di violazione di legge, anche la mancata considerazione di prospettazioni difensive, quando le stesse, in realtà, siano state prese in considerazione dal giudice o risultino assorbite dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato o comunque non siano potenzialmente decisive ai fini della pronuncia sul punto attinto dal ricorso. 2.3. Nel caso in esame, la Corte territoriale attraverso un percorso argomentativo congruo e coerente - anche con richiamo ai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema di "appartenenza" al sodalizio mafioso -, ha evidenziato gli elementi posti a fondamento della ritenuta pericolosità - con riferimento, in particolare, allo svolgimento da parte del proposto di compiti essenziali agli interessi dell'associazione mafiosa, ed alla piena collocazione dello stesso nell'organigramma criminale -, nonché, al di là della presunzione semplice, della ritenuta attualità della pericolosità. La motivazione espressa nel decreto impugnato appare immune da vizi di ordine logico-giuridico, come tale incensurabile in sede di legittimità. 2.4. Quanto al profilo dell'attualità, occorre ribadire che, ai fini dell'applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso è necessario accertare il requisito della "attualità" della pericolosità del proposto, sicché, a fronte di elementi positivi denotanti l'abbandono di logiche criminali di appartenenza all'associazione, l'applicazione della misura nei confronti di soggetti già detenuti per lunghi periodi temporali non può essere fondata sulla presunzione di permanenza desunta dalla condotta precedente alla pronuncia di condanna emessa nel separato giudizio penale (Sez. 2, n. 8541 del 14/01/2020, Capizzi, Rv. 278526 - 01). 2.5.Gli elementi positivi dedotti dal ricorrente, con i quali la Corte di Appello ha mostrato di confrontarsi, e, in particolare, il percorso di studi e di inserimento lavorativo, non sono stati ritenuti idonei ad esprimere l'abbandono delle logiche criminali, a fronte dei numerosi elementi indicati, desumibili concretamente dalle condotte contestate. Anche in relazione a tale profilo, pertanto, in assenza di ulteriori elementi di valutazione tali ad incidere sul percorso argomentativo espresso dalla Corte di Appello, il decreto impugnato appare immune da censure. 3. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali. In ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che si ravvisano ragioni di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila a favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 28 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di PAVIA SEZIONE TERZA CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice Cameli Renato ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. r.g. 999/2023 promossa da: (...) elettivamente domiciliato in Vigevano (...) presso lo studio degli avv.ti (...) che lo rappresentano e difendono unitamente e disgiuntamente, giusta delega allegata i quali hanno dichiarato di voler ricevere comunicazioni come in atti PARTE ATTRICE contro (...) PARTE CONVENUTA CONCLUSIONI DELLE PARTI Parte attrice ha formulato le proprie conclusioni come da udienza del 19.3.2024 svoltasi in forma scritta, mediante deposito di note e, segnatamente, "Piaccia all'Ill.mo Tribunale adito, contrariis reiectis, così giudicare, Nel merito: previo ogni opportuno accertamento e declaratoria, - Accertare e dichiarare l'abuso dell'esercizio del diritto sul bene comune da parte del Sig. (...), in qualità di condomino del (...) (...), e l'occupazione illegittima del suolo antistante l'accesso al cortile/giardino privato della proprietà (...), per i motivi ampiamente esposti in atti, qui richiamati in toto. - Conseguentemente ordinare al Sig. (...), in qualità di condomino del (...), di lasciare libero di cose - con particolare riferimento all'auto/Suv, Marca Hyundai, Modello Tucson, Targa (...) il cortile comune condominiale, nel rispetto del regolamento di condominio e dell'uso delle parti comuni e, per l'effetto, condannare il Sig. (...) al risarcimento di tutti i danni patiti e patiendi (nessuno escluso) dall'attore (...), nella misura che sarà ritenuta di giustizia, occorrendo con determinazione in via equitativa. In ogni caso: con il favore delle spese e compensi professionali di causa ex D.M. 147/22 del presente giudizio e del procedimento di mediazione rubricato al n. 285/22 R.G" SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione ritualmente notificato, il sig. (...) evocava in giudizio il sig. (...) al fine di ottenere, previo accertamento di abuso del diritto sulla cosa comune, condanna nei confronti del convenuto a lasciare libero da cose, con particolare riferimento all'auto/Suv, Marca Hyundai, Modello Tucson, Targa (...), il cortile comune condominiale, e, conseguentemente disporre condanna di risarcimento dei danni nei confronti del convenuto stesso. A supporto della propria domanda l'attore deduceva che: il sig. (...) era proprietario di un'unità immobiliare facente parte del condominio (...) sito in Vigevano (...); malgrado espressa previsione del regolamento condominiale, il sig. (...) era solito parcheggiare la propria autovettura nel cortile comune, ostacolando l'accesso all'attore e ai suoi famigliari; l'amministratore era stato avvisato della situazione e aveva provveduto a diffidare il (...) malgrado plurime diffide la condotta era proseguita; il (...), pur consapevole dell'uso improprio del cortile, aveva deciso di non intraprendere nessuna azione stante le plurime cause già in corso; pur ritualmente invitato il sig. (...) non aveva partecipato alla mediazione; il comportamento del (...) oltre che in contrasto con il regolamento condominiale, contrastava altresì anche con l'art. 1102 c.c. ; secondo la giurisprudenza costituiva abuso anche l'occupazione per pochi minuti del cortile comune; il sig. (...) doveva comunque lasciare la possibilità di accedere e retrocedere presso l'immobile. Pur ritualmente evocato in giudizio, il sig. (...) non si costituiva restando contumace. Assegnati i termini ex art. 183 sesto comma c.p.c. la causa era istruita mediante documentazione acquisita dalla parte attrice ed esame testimoniale. All'udienza del 19.3.2024, svoltasi in forma scritta, parte attrice precisava le conclusioni come da foglio depositato in via telematica CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1.La ricostruzione della fattispecie 2.La violazione degli obblighi gravanti sul CP_2 3.La domanda risarcitoria 4.Le spese del giudizio 1. La ricostruzione della fattispecie In punto di fatto l'attore, su cui incombeva l'onus probandi ex art. 2697 c.c., ha puntualmente dedotto e comprovato sia la qualifica di condomino del complesso condominiale sito in Vigevano (...), attraverso produzione di visura catastale (cfr doc. 1) nonché verbale di assemblea (doc.6), sia l'occupazione del cortile comune del citato condominio da parte di altro condomino, odierno convenuto, sig. (...) (...) mediante automobile all'auto/Suv, Marca Hyundai, Modello Tucson, Targa (...) sia la conseguente difficoltà, rectius quasi impossibilità nell'accesso o uscita dal cortile. In particolare, in ordine a quest'ultimo profilo, è stata prodotta rilevante e significativa documentazione, costituita dalle fotografie del cortile e da video attestanti univocamente il posizionamento del citato SUV, dedotto di proprietà del convenuto, parcheggiato in modo ostativo e comunque impeditivo il passaggio di altra vettura (cfr. doc. 3 e 3.1 nonché 9 e 10) A quest'ultimo proposito, segnatamente, in ossequio al maggioritario e preferibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, "le fotografie costituiscono prova precostituita della sua conformità alle cose e ai luoghi rappresentati, sì che la controparte che voglia inficiarne l'efficacia probatoria, non può limitarsi a contestare i fatti che la parte che l'ha prodotta intende con essa provare, ma ha l'onere di disconoscere tale conformità (in termini Cass. 9.4.2009 n.8682; Cass. 13.2.2004, n. 2780; Cass. 26.6.1998, n. 6322) Ad analoghe conclusioni è pervenuta la giurisprudenza in relazione ai video, desumendo tale principio direttamente dall'art. 2712 c.c. in relazione alla disciplina delle riproduzioni meccaniche (Cass. 28.01.2011, n.2117; Cass. 3.7.2001 n. 8998 e Cass. 22.4. 2010 n. 9526). Orbene nel presente giudizio, stante la contumacia del convenuto (su cui amplius infra), le fotografie e i video non sono stati disconosciuti né contestati specificatamente, risultando quindi idonei ad assumere valore probatorio in ordine alla specifica situazione di fatto sussistente nel cortile; dalle foto e dai video depositati si evince quindi l'ostacolo oggettivo alla possibilità di movimentazione dell'auto dell'attore in ragione della presenza del citato SUV di proprietà o comunque condotto dal convenuto (...) stabilmente posteggiato all'interno del cortile, in prossimità del garage dell'altro condomino; parimenti, stante la pluralità della documentazione acquisita in diverse fasi temporali si desume altresì una condizione di occupazione permanente e continuata. In secondo luogo, parimenti rilevante, a supporto della tesi attorea, il verbale di assemblea condominiale del 29.7.2022 in cui viene riportato come tutti i condomini si dichiaravano espressamente "consapevoli che il sig. (...) parcheggia in modo fisso e abituale la sua autovettura in parte comune" (doc.6): tale affermazione configura una dichiarazione di scienza, sebbene stragiudiziale, ma particolarmente qualificata sia in considerazione dei soggetti che la rendevano sia del contesto in cui avveniva. In terzo luogo, rilevano, sempre sul piano documentale, le plurime diffide depositate, inviate anche da soggetto qualificato e terzo rispetto alle parti, come l'amministratore condominiale (doc. 3 e 4). In quarto luogo, l'esito dell'istruttoria testimoniale ha ulteriormente confermato la tesi della parte attrice; anzitutto è risultato comprovato che il cortile condominiale del (...) sito in Vigevano (PV), (...), viene utilizzato dal condomino Sig. (...) quale parcheggio, sia nelle ore diurne che notturne, per il proprio Suv, Marca Hyundai, Modello Tucson, Targato (...), di colore nero utilizzando segnatamente, nello spazio prospiciente l'ingresso del cortile privato del condomino (...) ((...) " 2. Confermo che vedo parcheggiata l'auto citato e confermo le fotografie come mostrate. 3. Confermo il parcheggio nello spazio indicato; (...) "2. Confermo la circostanza e le foto; frequento il condominio una o due volte al mese da circa quattro anni e mezzo; quando mi reco in loco resto a lì dormire 3. Confermo lo spazio ove ho sempre visto la vettura" (...) "2. Confermo le foto e la circostanza; 3. Confermo" (...) "2. Confermo e riconosco le foto; io mi reco circa una volta la settimana; mi reco perché mi sono affezionata alla famiglia del sig. (...) in quanto ho cresciuto le sue bambine 3. Confermo; io vedo questa macchina). Parimenti confermato che lo spazio di cortile comune antistante la proprietà del condomino Sig. (...) è stato realizzato con la funzione di consentire le manovre di svolta in entrata/uscita dal cortile comune condominiale delle auto dei (...) (...) "4. Confermo la circostanza e il regolamento") Risulta altresì confermato che il condomino Sig. (...), parcheggiando il proprio Suv nel cortile comune del (...), nello spazio prospiciente l'ingresso del cortile privato del condomino (...), da un lato rende gravosa e/o difficoltosa l'entrata e l'uscita delle autovetture dei Condomini e dall'altro impedisce di fatto l'entrata e l'uscita dell'autovettura del condomino Sig. (...) dal cortile privato di proprietà (...) ((...) " 5. Confermo la difficoltà nel parcheggio; confermo i video e le foto 6. Non so se impedisce del tutto, comunque è un ostacolo e crea disagio" (...) " 5. Confermo 6. Confermo l'impedimento anche oggettivo " (...) " 5.Confermo il video e le foto 6.Confermo" (...)" 5. Confermo la circostanza e il video 6. Confermo") Conseguentemente i testi hanno affermato, in modo concorde ed univoco, che il Sig. (...) è stato costretto, in più di un'occasione, a parcheggiare la propria autovettura sulla pubblica via per tutta la notte e che il medesimo condomino Sig. (...). (...) e i suoi famigliari si sono trovati, in più di un'occasione, impossibilitati ad uscire con l'auto di famiglia dal cortile di proprietà (...) e, quindi ad utilizzarla, dovendo disdire impegni lavorativi e personali ((...)" 8. Confermo; due volte mi hanno chiamato il sig. (...) o la sua famiglia per contattarlo perché l'auto ostruiva l'uscita; a volte la parcheggia indietro e quindi si fa fatica a uscire " (...) "7. Tutt'ora, è capitato più di una volta che la macchina del sig. (...) sia stata parcheggiata sulla via perché non poteva entrare 8. Confermo; quando sono andato a casa loro è capitato più di una volta che non potessero uscire" (...) "8. Confermo; ho assistito personalmente agli episodi" (...) "8. Confermo; si sono trovati impossibilitati ad entrare e uscire; ho assistito personalmente alla situazione). Parimenti confermato che il condomino Sig. (...) denunciava all'Amministratore del Condominio "(...)", Sig.ra (...) la condotta del condomino (...) e che, nonostante le diffide il condomino Sig. (...) (...) ha continuato e continua tuttora a parcheggiare il proprio Suv, nel cortile comune condominiale ((...)" 9. Confermo 11. Confermo; ADR lui ha due proprietà e potrebbe entrare con la macchina nella sua proprietà senza ostacolare nessuno; lo fa "per dispetto" (...) "Confermo; ad oggi il sig. (...) continua a parcheggiare in quel modo ADR io mi reco in macchina ma non parcheggio mai all'interno" (...) "Confermo; io vedo la vettura tutte le mattine aprendo la finestra. ADR io sono inquilina e non proprietaria" (...) "Confermo"). Le dichiarazioni testimoniali sopra riportate sono univoche e coerenti in ordine al contenuto e, inoltre, sono state rese da soggetti qualificati (amministratrice di condominio sig.ra (...) ovvero comunque da persone terze rispetto alle parti e che hanno una assidua frequentazione dei luoghi risultando quindi attendibili. Pur ritualmente evocato in giudizio il sig. (...) non si è costituito nel presente giudizio restando contumace: la contumacia impedisce una ricostruzione alternativa delle circostanze alternativa a quella sopra esposta. In particolare, il preferibile orientamento, in giurisprudenza, pur escludendo effetti automatici, precisa come la contumacia "possa concorrere, insieme con altri elementi, a formare il convincimento del giudice (desumendo tale principio dall'art. 116 c.p.c., comma 2). (In termini Cass. 29.03.2007, n. 7739 Cass., 20.02.2006, n. 3601 secondo cui "la contumacia del convenuto se non equivale ad ammissione della esistenza dei fatti dedotti dall'attore a fondamento della propria domanda...tale condotta processuale costituisce tuttavia un elemento liberamente valutabile ex art. 116 c.p.c. (nel contesto di ogni altro acquisito) dallo stesso giudice ai fini della decisione (cfr. tra le altre: Cass. 7 marzo 1987 n. 2427; Cass. 20 luglio 1985 n. 4301)". Nello stesso senso Cass. 6 .2. 1998 n. 1293) In ragione di quanto esposto, coerentemente con la preferibile e recente giurisprudenza di merito, se è pur vero che la contumacia non può essere equiparata ad una generale non contestazione dei fatti costitutivi dedotti dalla controparte, purtuttavia la scelta processuale non collaborativa da parte della resistente, costituisce elemento idoneo a rafforzare le emergenze istruttorie ricavabili dall'esame dei documenti prodotti dalla stessa parte attrice, allorquando, in particolare, come nel caso di specie, l'atto di citazione già conteneva nel suo corpo un'analitica elencazione dei documenti offerti a corredo probatorio: in definitiva, la contumacia del convenuto è elemento rafforzativo delle circostanze dedotte dall'attore (Trib. Bari, 15.07.2015, n. 3275 Trib. Roma, 04.10.2017, n. 8040 Trib. Roma, 04.04.2017, n. 3223; Trib. Roma, 28.05.2016, n. 10898 Trib. Genova 20.1.2016 n. 209 Tribunale Napoli, 05.11.2012, n. 27275) In adesione a tale orientamento, la contumacia si configura quale ulteriore elemento, sia pure indiziario, a supporto della tesi del ricorrente, già comunque ampiamente supportata dalla documentazione sopra riportata e dall'istruttoria testimoniale espletata, a fortiori considerando le plurime comunicazioni intervenute in fase precedente al giudizio e diffide, nonché l'assenza in fase di mediazione. 2. La violazione degli obblighi gravanti condomino In via generale e in punto di diritto ai sensi dell'art. 1102 c.c. "ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto... Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso". Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, in relazione proprio all'utilizzo del cortile comune quale parcheggio, "l'uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell'art. 1102 c.c., al duplice divieto di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il loro diritto. Pertanto, deve ritenersi che la condotta del (...), consistente nella stabile occupazione - mediante il parcheggio per lunghi periodi di tempo della propria autovettura - di una porzione del cortile comune, configuri un abuso, poiché impedisce agli altri condomini di partecipare all'utilizzo dello spazio comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento ed alterando l'equilibrio tra le concorrenti ed analoghe facoltà (Cass. Sez. 2, 24/02/2004, n. 3640).... l'art. 1102 c.c., sull'uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante alla comunione, non pone alcun margine minimo di tempo e di spazio per l'operatività delle limitazioni del predetto uso, sicché può costituire abuso anche l'occupazione per pochi minuti di una porzione del cortile comune, ove comunque impedisca agli altri condomini di partecipare al godimento dello spazio oggetto di comproprietà (Cass. Sez. 2, 07/07/1978, n. 340" (in termini recentemente con giurisprudenza citata Cass. 18.03.2019, n.7618) La condotta del (...) come descritta nel precedente paragrafo si pone quindi in contrasto con il principio generale stabilito ex art. 1102 c.c. come interpretato dalla giurisprudenza sopra riportata. A fortiori, sul punto ai sensi dell'art. 7 del Regolamento del plesso condominiale è stabilito l'espresso divieto ai Condomini di "parcheggiare automobili o mezzi di qualsiasi genere nel cortile comune o negli spazi comuni non idonei a tale uso" (cfr. doc. 2, art. 7); pertanto la condotta del convenuto si pone altresì in contrasto con le disposizioni regolamentari pacificamente vigenti tra i condomini. Risulta quindi fondata la domanda di parte attrice, essendo dimostrati i presupposti, in fatto e in diritto alla base della stessa e, segnatamente, la condotta contra legem del (...) consistente nell'occupazione di spazio condominiale (cortile) determinante l'impossibilità o estrema difficoltà per il (...) al parcheggio; il sig. (...) è quindi obbligato a lasciare immediatamente libero da cose e, in particolare, dalla sua vettura, il cortile condominiale, a partire dalla comunicazione della presente sentenza: non si accorda alcun termine a beneficio del convenuto stante la concotta reiterata ormai da più anni e la possibilità per questi di parcheggiare altrove 3. La domanda risarcitoria Parte attrice ha formulato domanda risarcitoria in relazione a tutti i danni patiti in conseguenza della condotta illecita del sig. (...) Orbene, in linea generale e in punto di diritto, in ossequio al preferibile orientamento della giurisprudenza di legittimità a cui il Tribunale presta adesione, la compressione del diritto di proprietà determina un pregiudizio economico risarcibile a beneficio di chi ha subito la privazione; segnatamente; "nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta...nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato"; "nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell'occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato".(in termini Cass. sez. un., 15.11.2022, n.33645) Tanto premesso in punto di diritto, nel presente giudizio parte attrice ha puntualmente dedotto e comprovato la lesione del diritto di proprietà su immobile - garage, subita dall'attore, sig. (...) in conseguenza della condotta del convenuto, sig. (...) che, attraverso il proprio parcheggio ne impedisce o, comunque ostacola gravemente l'utilizzo; sul piano temporale, parimenti comprovato che la citata condotta risulta perpetrata, almeno, a far data dal giugno 2021 , considerando che il 23.7.2021 era trasmessa la prima pec rivolta al (...) e in cui si contestava il reiterato posteggio già da qualche tempo, fissando quindi nell'inizio del mese precedente (1.6.2021) il dies a quo dell'arco temporale della violazione (cfr. doc. 5). Circa il pregiudizio economico effettivo le allegazioni attoree risultano tuttavia generiche non essendo in alcun modo dedotto e comprovato il valore locativo medio del parcheggio, il cui utilizzo è risultato essere, se non impedito, quanto meno compromesso dalla (...) A riguardo, non risulta allegata la Tabella O.M.I. del Comune di riferimento, né indicato altrimenti (contratti di locazione, annunci immobiliari etc.) un valore locativo presuntivo di mercato del box: unico dato certo è costituito dalla rendita catastale individuata in Euro 52,06 mensili come desumibile da estratto in relazione a immobile c/6 (doc. 1 pag. 5) Orbene, assumendo tale parametro come base di calcolo per una stima in via equitativa, il valore locativo del parcheggio, risulta pari a Euro 1.874,16 (52,06x 36, considerando il mese di giugno 2021 fino a maggio 2024). Considerando, in via equitativa, un pregiudizio al godimento dell'immobile non assoluto ma comunque significativo e maggioritario e, quindi, assumendo una lesione al diritto di proprietà di cui è titolare l'attore nella misura del 70%, il danno concretamente subito in termini economici risulta pari a Euro 1311,91. Trattandosi di posta risarcitoria, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la somma indicata deve essere preliminarmente devalutata al momento della risoluzione, in quanto a quel momento del fatto illecito (che convenzionalmente è assunto in data 1.6.2021); l'importo ottenuto all'esito della devalutazione (1141,78) deve essere oggetto di rivalutazione, unitamente a maturazione di interessi, fino al momento dell'attualità, in quanto oggetto di risarcimento e quindi costituente debito di valore: a quest'ultimo proposito, come rilevato da giurisprudenza di Cassazione è necessario reintegrare pienamente "il valore del bene perduto (danno emergente) da un lato, ed il corrispettivo del mancato tempestivo godimento dell'equivalente pecuniario del bene predetto" (cfr. Cass. n. 1712 del 17.02.1995 e, successivamente, Cass. 21.06.2012 n. 10300 secondo cui "in virtù del divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione, gli interessi legali devono essere riconosciuti sull'intera somma devalutata alla data dell'infortunio ed anno per anno rivalutata sino alla data della pronuncia impugnata" (Cass. n. 18445 del 19.09.2005). In ragione di quanto esposto, l'importo dovuto a titolo risarcitorio risulta pari a Euro 1404,23 oltre interessi nella misura legale dalla data di pubblicazione della sentenza al soddisfo; inoltre, a partire dal mese di giugno, è comunque dovuta la somma di Euro 36,44 (pari al 70% di 52,06) per ogni mese in cui si verificheranno le occupazioni. 4. Le spese di giudizio Le spese di giudizio sono addebitate su parte convenuta in quanto soccombente ex art. 91 c.p.c. I compensi sono liquidati ex Dm 55/2014 per cause di valore indeterminabile complessità bassa applicando il parametro medio per le fasi di studio, introduttiva e istruttoria, minimo per la decisionale, prevalentemente ripetitiva di questioni già affrontate e stante la contumacia della convenuta risultando quindi pari a Euro 6164,00 oltre spese generali al 15% iva e cpa. nonché spese di marca e contributo; parimenti sono dovuti a carico del convenuto nonché le spese della fase di mediazione, i cui compensi, limitati alla fase di attivazione, si liquidano nel minimo e sono pari a Euro 268,00, oltre spese generali al 15% iva e cpa ed Euro 48,8 per spese di avvio. P.Q.M. Il Tribunale, ogni diversa istanza o eccezione disattesa o assorbita, definitivamente pronunciando, così dispone: - I) accoglie, per le ragioni di cui in motivazione, la domanda di parte attrice (...) e, per l'effetto: a) ordina Sig. (...), di lasciare immediatamente libero di cose con particolare riferimento all'auto/Suv, Marca Hyundai, Modello Tucson, Targa (...), il cortile comune condominiale, del (...), in Vigevano; b) ordina al sig. (...) di pagare la somma di Euro 1404,23 nei confronti del sig. (...) oltre interessi nella misura legale dalla data di pubblicazione della sentenza al soddisfo; c) ordina al sig. v di pagare la somma di Euro 36,44 nei confronti del sig. (...) per ogni mese a partire da giugno 2024 in cui si protrae l'occupazione; - II) condanna altresì parte convenuta (...) a rimborsare alla parte attrice (...) le spese di lite, che si liquidano in Euro 545,00 per spese ed Euro 6164,00 per compensi professionali, oltre spese generali pari al 15% dei compensi, c.p.a., nonché i.v.a., se prevista, secondo le aliquote di legge; III) condanna altresì parte convenuta (...) a rimborsare alla parte attrice (...) le spese della fase di mediazione, che si liquidano in Euro 48,80 per spese ed Euro 268,00 per compensi professionali, oltre spese generali pari al 15% dei compensi, c.p.a., nonché i.v.a., se prevista, secondo le aliquote di legge. Pavia, 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. CRISCUOLO Anna - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Relatore Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ta.Ma. nato (Omissis) avverso la sentenza emessa il 28 marzo 2023 dalla Corte di appello di Bologna visti gli atti, la sentenza e il ricorso; udita la relazione del consigliere Debora Tripiccione; udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giuseppe Riccardi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso udite le richieste del difensore, Avv. Ma.Po., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Ta.Ma. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna che, ritenuta la condotta qualificata in sentenza come violazione dell'art. 612-bis cod. pen. assorbita nel più grave delitto di cui all'art. 572 cod. pen., con le già concesse circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva, ha rideterminato la pena inflitta al ricorrente in anni due di reclusione, confermando nel resto l'impugnata sentenza. Deduce tre motivi di ricorso di seguito riassunti nei termini strettamente necessari per la motivazione. 1.1 Con il primo motivo deduce vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione al giudizio di responsabilità per il reato di maltrattamenti. Ad avviso del ricorrente, infatti, le condotte ascritte mancano del requisito dell'abitualità, trattandosi di tre episodi isolati avvenuti nell'arco del 2018, al più qualificabili come minaccia ai sensi dell'articolo 612 cod. pen. Deduce, inoltre, la carenza di uno stato di soggezione della vittima che ha dimostrato piena capacità di tenere testa al compagno. 1.2 Con il secondo motivo deduce la violazione del divieto di reformatio in peius, la violazione dell'articolo 69 cod. pen. e vizi della motivazione in quanto la Corte d'appello, una volta ritenuto il reato di atti persecutori assorbito in quello di maltrattamenti ed esclusa la relativa aggravante, ha confermato la pena inflitta con la sentenza di primo grado ed il giudizio di bilanciamento delle circostanze senza alcuna motivazione a sostegno di detta soluzione nonostante l'esclusione di una delle aggravanti. 1.3 Con il terzo motivo deduce la violazione dell'articolo 20-bis cod. pen. in relazione al diniego di sostituzione della pena detentiva inflitta. Deduce, a tal fine, il ricorrente che sussistevano tutte le condizioni per accogliere l'istanza di sostituzione, in considerazione della natura delle condotte ascritte, non connotate da gravità e non determinanti situazioni di allarme sociale, e della personalità del ricorrente che non ha mai tenuto condotte violente ed è attualmente sottoposto alla misura dell'affidamento in prova, applicata in via provvisoria in altro procedimento. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato per le ragioni di seguito esposte. 2. Il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto generico, versato in fatto e di carattere confutativo. Il ricorrente, infatti, senza confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata° insiste nella medesima questione già dedotta in appello, sollecitando una non consentita diversa lettura delle condotte tenute, che pretende di ridurre ai soli episodi avvenuti nel 2018. La sentenza impugnata, saldandosi logicamente con quella di primo grado, con motivazione persuasiva ed immune da vizi logici o giuridici, ha ricostruito l'intero compendio probatorio e, previa valutazione (non censurata dal ricorrente) della credibilità delle dichiarazioni della ex convivente e dei riscontri emersi, ha ritenuto l'abitualità delle condotte vessatorie, tenute a partire dal 2010 e connotate da minacce, ingiurie e violenza fisica (si vedano, in particolare, le pagine da 3 a 9 della sentenza impugnata). Priva di pregio, oltre che generica, è, infine, la questione relativa alla carenza di uno stato di soggezione della persona offesa che, secondo quanto prospetta il ricorrente, ha dimostrato capacità reattive alle vessazioni del compagno. Come già ineccepibilmente affermato dalla Corte territoriale (cfr. pagina 7 in cui, peraltro, si è fatto riferimento anche alla diversa corporatura delle parti), va ribadito che, in tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di completo abbattimento, ma può consistere anche in un avvilimento generale conseguente alle vessazioni patite, non escludendo sporadiche reazioni vitali ed aggressive della vittima la sussistenza di uno stato di soggezione a fronte di soprusi abituali (Sez. 3, n. 46043 del 20/03/2018, Rv. 274519-02). 3. Il secondo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato. Va, infatti, considerato che la pena inflitta con la sentenza di primo grado è stata ridotta dalla sentenza impugnata nella misura pari al minimo edittale applicabile ratione temporis per il reato di maltrattamenti, soglia al di sotto della quale la Corte territoriale non avrebbe potuto scendere, stante il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla ritenuta recidiva reiterata infraquinquennale (art. 69, comma quarto, cod. pen.). Sulla base di tali considerazioni deve, pertanto, escludersi che la sentenza impugnata abbia violato il divieto di reformatio in peius. 4. Il terzo motivo è infondato. La Corte territoriale, facendo un corretto uso del suo potere discrezionale, con motivazione adeguata e non manifestamente illogica, pertanto insindacabile in sede di legittimità (Sez. 3, n. 9708 del 16/02/2024, Tornese, Rv. 286031), ha escluso l'idoneità delle pene sostitutive alternativamente richieste dal ricorrente ad assicurarne la rieducazione (art. 58 legge n. 689 del 1981) in considerazione della preminente valenza negativa attribuita alla capacità a delinquere del ricorrente ed ai numerosi precedenti a suo carico. 5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 14 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. BELLINI Ugo - Presidente Dott. CALAFIORE Daniela - Consigliere Dott. MICCICHÈ Loredana - Consigliere Dott. BRUNO Mariarosaria - Consigliere Dott. MARI Attilio - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Ma.Gi. nato a P il (Omissis) Li.Fr. nato a P il (Omissis) An.Fi. nato a P il (Omissis) Gr.Gi. nato a P il (Omissis) Co.Pa. nato a P il (Omissis) Gi.Fe. nato a P il (Omissis) Mi.Sa. nato a P il (Omissis) avverso la sentenza del 13/02/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ATTILIO MARI; Il Proc. Gen. Silvia Salvadori conclude nei confronti di Ma.Gi. per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante ex art. 416-bis.1 c.p. contestata nei singoli reati-scopo e all'aumento per la recidiva, provvedendosi ai sensi dell'art. 620 c. 1 lett. I) c.p.p. su entrambi i punti, nonché rigetto del ricorso nel resto. Il Proc. Gen. per GI.FE. conclude per l'annullamento della sentenza impugnata limitatamente al mancato riconoscimento dell'ipotesi di cui all'art. 73 c. 5 D.P.R. 309/90 in relazione al capo 14, con rinvio per un nuovo esame e per l'inammissibilità nel resto; per An.Fi., Gr.Gi. e Mi.Sa. conclude per il rigetto dei ricorsi, con conseguenti statuizioni ex art. 616 c.p.p.; per Li.Fr. e Co.Pa. conclude per l'inammissibilità dei ricorsi, con conseguenti statuizioni ex art. 616 c.p.p. In difesa di An.Fi. è presente l'avvocato RI.GI. del foro di PALERMO che non concordando con le conclusioni del Proc. Gen., dopo aver esposto motivi di doglianza chiede l'annullamento della sentenza impugnata. Per il ricorrente Ma.Gi. è presente il difensore di fiducia avvocato VE.RO. del foro di PALERMO che, dopo aver esposto nei dettagli i motivi di ricorso, insiste nel loro accoglimento. L'avvocato VE.RO. è presente altresì in qualità di sostituto processuale dell'avvocato TU.AN. del foro di PALERMO difensore di Gi.Fe., come da delega ex art. 102 c.p.p. depositata in udienza. Il difensore riportandosi ai motivi di ricorso ne chiede l'accoglimento. In difesa di Gr.Gi. è presente il difensore di fiducia avvocato DE.LI. del foro di PALERMO che riportandosi ai motivi già presentati conclude chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata. In difesa di Li.Fr. è presente il difensore avvocato BO.RA. del foro di PALERMO che, non concordando con le conclusioni del Proc. Gen. insiste nell'accoglimento del ricorso. L'avvocato BO.RA. è presente altresì in qualità di sostituto processuale per delega orale dell'avvocato BE.GI. stesso foro, difensore di Co.Pa., per il quale insiste nell'accoglimento del ricorso. È presente l'avvocato LA.BL. del foro di PALERMO in difesa di Mi.Sa. che, dopo aver sintetizzato i motivi di doglianza insiste nell'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Palermo, in riforma della sentenza emessa il 29/09/2021 dal GUP presso il Tribunale di Palermo - all'esito di giudizio abbreviato - ha rideterminato la pena inflitta a Co.Pa. in anni dodici e mesi quattro di reclusione, previa unificazione sotto il vincolo della continuazione dei reati oggetto del presente procedimento con quelli giudicati con sentenza resa dal GUP presso il Tribunale di Palermo il 03/07/2018; confermando, nel resto, le pene detentive applicate nei confronti di Ma.Gi., Li.Fr., An.Fi., Gr.Gi. Gi.Fe. e Mi.Sa.; in riferimento a un capo di imputazione ipotizzante, per tutti i predetti imputati, il reato previsto dall'art.74 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n.309 - aggravato ai sensi del comma 3 - nonché varie fattispecie contestate ai sensi dell'art. 73 del T.U. stup., come descritte nell'atto di esercizio dell'azione penale. La Corte distrettuale ha premesso che il procedimento aveva tratto origine da un'attività di indagine avente a oggetto An.Fi., individuato come soggetto che - sfruttando la propria posizione di vertice nella famiglia mafiosa di Corso (Omissis) - aveva costituito un sodalizio criminale finalizzato al traffico di stupefacenti, avvalendosi dell'apporto di Mi.Sa., quale incaricato dell'approvvigionamento di sostanza stupefacente e di Ma.Gi., quale incaricato della gestione dell'attività di distribuzione; attività nella quale, a propria volta, lo stesso era stato coadiuvato dal Gr.Gi., dal Li.Fr. e dal Co.Pa., quali soggetti che avevano dato il loro ausilio all'esercizio dell'attività di spaccio; elencando, sul punto, gli elementi probatori desunti dalle conversazioni intercettate. La Corte ha quindi preliminarmente rigettato l'eccezione di inutilizzabilità delle conversazioni intercettate presso la Parruccheria "(Omissis)", sollevata dagli imputati An.Fi. e Gr.Gi.; ha quindi ritenuto infondati i motivi di impugnazione tendenti a ottenere una riqualificazione dei reati scopo contestati ai sensi dell'art. 73, T.U. stup., sotto la specie del fatto di lieve entità ai sensi del comma quinto. Ha quindi rigettato i motivi di appello proposti dalla difesa degli imputati in ordine a tutti i reati fine ascritti, richiamando sul punto gli esiti dell'attività di intercettazione nonché dei sequestri disposti nel corso del procedimento e già valorizzati dal Tribunale. In punto di configurazione del reato associativo, la Corte ha rigettato la censura - specificamente formulata dalla difesa del Gr.Gi. - tendente a ottenere la qualificazione del reato sotto la specie di quello previsto dall'art. 74, comma 6, T.U. stup.; ha quindi ricostruito gli elementi posti alla base del giudizio di responsabilità già formulato dal Tribunale in punto di partecipazione dei singoli associati e del loro ruolo svolto all'interno del sodalizio, nonché quelli posti alla base della configurazione dell'aggravante prevista dall'art. 416-bis.1 cod. pen., ritenendo che la stessa dovesse essere attribuita ai concorrenti - oltre che sotto il profilo dell'aver favorito la famiglia mafiosa di Corso (Omissis) - anche in relazione all'utilizzo del metodo mafioso; rigettando altresì i motivi di appello inerenti al trattamento sanzionatorio, fatta salva la richiesta del Co.Pa. di unificazione sotto il vincolo della continuazione dei reati oggetto del presente procedimento e di quello giudicato con sentenza del 03/07/2018 dal GUP presso il Tribunale di Palermo. 2. Avverso la predetta sentenza hanno presentato separati ricorsi per cassazione Ma.Gi., Li.Fr., An.Fi., Gr.Gi., Co.Pa., Gi.Fe. e Mi.Sa., tramite i rispettivi difensori. 2.1. La difesa di Ma.Gi. ha articolato quattro motivi di impugnazione. Con il primo motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - la violazione dell'art. 74 del T.U. stup. Ha dedotto che - come evidenziato con i motivi di appello - dalla pluralità di condotte ascritte ai sensi dell'art. 73, T.U. stup., non poteva inferirsi la prova della partecipazione al sodalizio criminoso, con specifico riferimento a quelle contestate ai capi 2), 4) e 6) del capo di imputazione; ciò in quanto la stessa sentenza impugnata aveva dato conto del fatto che, solo alla data del 02/03/2018, il Ma.Gi. aveva comunicato di essere in procinto di entrare in società con il Mi.Sa. in relazione al traffico di stupefacenti, di modo che la valutazione del requisito della stabilità avrebbe dovuto essere calibrata in relazione alle sole condotte posteriori, tutte commesse in un ristretto arco temporale compreso tra il 20/03/2018 e il 12/04/2018; ha dedotto che, dalle conversazioni intercettate, non si evinceva alcuna gestione dell'attività dei pusher autorizzati a smerciare nella zona di Corso (Omissis) essendo emerso, invece, che il ricorrente si occupasse personalmente dello smercio dello stupefacente; ha quindi dedotto che la sentenza di appello si era solo apparentemente confrontata con le relative censure, anche in riferimento alla conversazione intercettata il 19/03/2018 e dalla quale si evinceva che solo da tale data il Ma.Gi. avrebbe ricevuto l'autorizzazione a smerciare hashish "a tappeto", con conseguente assenza di condotte valutabili per tutto il pregresso arco temporale e deducendo altresì come il compendio probatorio non fosse interpretabile nel senso che il ricorrente fosse l'unico incaricato di rifornire i fornitori su strada; ha altresì dedotto che, dalle stesse sentenze di merito, emergeva come il sodalizio avesse avuto una durata assai limitata e non superiore al mese, elemento che rendeva non ipotizzabile la stabilità necessaria ai fini della configurazione del reato associativo. Con il secondo motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - la violazione dell'art.73, comma 5, T.U. stup., in riferimento ai reati contestati ai capi 2), 4), 6), 9), 11), 13), 14) e 21) del capo di imputazione, nonché dell'art. 81 cod. pen. Ha dedotto che, erroneamente, i giudici di merito non avevano ritenuto perfezionata la predetta ipotesi di reato alla luce dei minimi quantitativi di stupefacente sottoposti a sequestro e della mancata apprensione della sostanza, negli altri casi; ha quindi ritenuto che i dati evinci bili dal peso delle sostanze oggetto delle cessioni e il modesto numero di operazioni avrebbero dovuto indurre ad applicare il trattamento previsto dall'art. 73, comma 5, T.U. stup.; deducendo altresì che, in mancanza di sequestro della sostanza e in applicazione del principio del favor rei, andavano applicati i limiti edittali propri delle sostanze comprese nella II tabella allegata al T.U. stup.; evidenziando comunque la valenza non decisiva degli altri elementi addotti dalla Corte d'appello al fine di escludere la qualificazione della condotta sotto la specie del fatto di lieve entità. Ha dedotto altresì una violazione, in punto di dosimetria della pena, del richiamo - operato dalla Corte territoriale - al disposto dell'art. 81, comma 4, cod. pen., atteso che tale disposizione era da ritenere applicabile al solo caso del recidivo reiterato dichiarato tale con una sentenza definitiva emessa anteriormente a quella per i reati per cui si procede. Con il terzo motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - l'errata applicazione dell'art. 416-bis.1 cod. pen. Ha dedotto che - pure in presenza dei rilievi della Corte territoriale operati sul punto - dal dispositivo della sentenza di primo grado emergeva che il giudice avesse comunque tenuto conto della predetta circostanza aggravante in relazione ai reati fine, con la conseguenza che la stessa aveva avuto comunque rilievo nel calcolo della pena, pure in assenza di uno specifico apparato motivazionale, anche per i reati contestati ai sensi dell'art. 73, T.U. stup.; d'altro lato, ha argomentato che la Corte avrebbe dovuto escludere tale aggravante anche per il reato associativo, essendo i comportamenti ascritti all'imputato non evocativi della condizioni di assoggettamento è di omertà propri della criminalità organizzata, mancando comunque della stessa anche il necessario coefficiente soggettivo. Con il quarto motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - la violazione dell'art. 99, ultimo comma, cod. pen.; ha dedotto che l'aumento di pena apportato sarebbe stato eccedente rispetto al cumulo delle condanne riportate antecedentemente rispetto all'odierno procedimento, pari a complessivi anni cinque e mesi quattro. 2.2. La difesa di Li.Fr. ha articolato due motivi di impugnazione. Con il primo motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen. - la violazione di legge e il difetto di motivazione in relazione agli artt. 110, cod. pen., 73 e 74, T.U. stup., 125, 191, 192, 530, comma 2, 533 e 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. Ha dedotto che i giudici di merito avrebbero fondato il proprio convincimento in ordine al coinvolgimento del ricorrente nell'associazione sulla base della sola intercettazione del 20/03/2018 e in cui si faceva riferimento a un soggetto identificato come "(Omissis)"; avendo invece, in altra parte della motivazione, la Corte dato atto che il Li.Fr. operava invece in autonomia; mentre, in riferimento alle conversazione intercettata il 20/02/2018, ha dedotto che il "(Omissis)" cui si riferivano gli interlocutori Mi.Sa. e An.Fi. era invece da identificare in Sa.Fr., atteso anche che il Mi.Sa. - quando si riferiva al Li.Fr. - era invece solito appellarlo con il suo soprannome di "(Omissis)"; ha quindi dedotto vertersi in un travisamento delle risultanze processuali, atteso anche che l'appartenenza al sodalizio non avrebbe potuto essere desunta dalla sola partecipazione ai reati fine, peraltro concentrati in un ristretto arco temporale, e data l'assenza di prova in ordine agli altri elementi costitutivi della condotta partecipativa. Con il secondo motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen. - la violazione degli artt. 62-bis, 99 ultimo comma, 132, 133 e 416-bis.1 cod. pen., 125 e 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. Ha dedotto la violazione dell'art. 99, ultimo comma, cod. pen., essendo l'aumento apportato per la recidiva - pari ad anni sei e mesi otto di reclusione superiore alla misura delle condanne definitive precedentemente riportate è pari (comprese quelle per cui era stato applicato l'indulto) a soli anni quattro, mesi quattro e giorni quindici di reclusione; ha dedotto il carattere meramente apparente della motivazione riguardante la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e che, in punto di dosimetria della pena, la stessa non era prossima al minimo edittale pur in assenza di idonea e specifica motivazione. 2.3. La difesa di An.Fi. ha articolato sei motivi di impugnazione. Con il primo motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. e in riferimento agli artt. 268 e 271 cod. proc. pen. - l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, in riferimento alle captazioni intercettate in forza del decreto n. 1792/2017, a decorrere dal 24/12/2017. Ha dedotto che le operazioni di intercettazione ambientale erano iniziate il 05/10/2017 e che le operazioni stesse erano state poi prorogate sino al 24/12/2017, data alla quale non risultava richiesto né emesso alcun ulteriore provvedimento di proroga; che, solo il successivo 18/01/2018, la p.g. aveva comunicato alla Procura che il servizio di intercettazione era stato ripreso il 12/01/2018; che, il 19/01/2018, era stata richiesta una terza proroga sino al 28/01/2018, sulla base del fatto che il 13/12/2017 era stata identificata la periferica di captazione e che il servizio di intercettazione era, di fatto, stato ripreso solo il 16/01/2018; che, il 25/01/2018 il p.m. aveva chiesto la proroga del decreto di intercettazione per ulteriori giorni venti e che la stessa era stata concessa dal GIP sino al 26/01/2018; che era pertanto stata eccepita nei giudizi di merito l'inutilizzabilità della captazioni successive alla seconda proroga, concessa sino alla data del 24/12/2017 e fino al 24/01/2018. Ha quindi dedotto che, il decreto del 26/01/2018 non poteva assumere la valenza di ratifica in ordine alle operazioni eseguite nell'assenza della dovuta autorizzazione; che, peraltro, nel provvedimento del 26/01/2018, non si ravvisava alcun riferimento al dato costituito dalla sopravvenuta sospensione del servizio; in ogni caso, ha dedotto che i provvedimenti di merito sarebbero incorsi in un errore di calcolo in quanto - essendo le operazioni state interrotte il 12/12/2017 e riattivate il 12/01/2018 - sarebbero residuati dodici giorni per richiedere la proroga delle operazioni, contermine andante a scadere il 24/01/2018 e non il 28/01/2018,come indicato dal decidente; con la conseguenza che la richiesta di proroga era stata tardivamente depositata, con derivante inutilizzabilità delle conversazioni captate dopo il 24/01/2018. Con il secondo motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e in riferimento agli artt. 192 cod. proc. pen. e 74, comma 1, T.U. stup. - la inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, per avere i giudici di appello confermato l'affermazione di penale responsabilità in ordine al reato ascritto al capo 1) della rubrica. Ha dedotto come, già in sede di motivi di appello, era stato eccepito che difettavano gli elementi per ritenere che l'An.Fi. avesse rivestito una posizione di vertice all'interno della famiglia mafiosa di Corso (Omissis), atteso che lo stesso era stato precedentemente condannato nella sola posizione di aderente all'associazione; ha altresì dedotto che, nei dialoghi intercettati, non si evinceva la partecipazione con ruolo apicale all'associazione ma solo una conoscenza di talune dinamiche del sodalizio mafioso; ravvisandosi quindi una violazione dei criteri posti dalla legge in punto di interpretazione del contenuto delle conversazioni intercettate; evocando sul punto quanto argomentato dal Tribunale di Palermo nella sentenza del 03/12/2020, nel quale il medesimo compendio indiziario era stato interpretato nel senso opposto, ritenendo che l' An.Fi. avesse unicamente preteso una percentuale dai soggetti che si dedicavano all'attività di spaccio; ha quindi conclusivamente dedotto l'assenza di qualsiasi elemento idoneo a provare l'esistenza degli elementi costitutivi dell'associazione dedita al narcotraffico. Con il terzo motivo ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e in relazione all'art. 192 cod. proc. pen. e all'art. 74, comma 1, T.U. stup. - l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, per non avere la Corte d'appello riqualificato il reato ascritto all' An.Fi. sotto la specie di quello previsto dall'art. 74, comma 2, T.U. stup. Ha dedotto come, dal compendio probatorio, non emergesse il ruolo di promotore e direttore ascritto al ricorrente. Con il quarto motivo ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e in relazione all'art. 416-bis.1 cod. pen. - l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata aveva ritenuto perfezionata la suddetta aggravante. Ha dedotto che, sulla base della sola conversazione citata dalla Corte territoriale, non sarebbe stato ricavabile l'utilizzo del metodo mafioso né la finalità di agevolare la famiglia mafiosa di Corso (Omissis). Con il quinto motivo ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - la violazione dell'art. 62-bis cod. pen., per non avere la Corte concesso le circostanze attenuanti generiche; ha dedotto che il relativo diniego era, di fatto, stato motivato sulla sola base della gravità del reato, senza tenere conto di tutte le ulteriori argomentazioni valutabili nel caso concreto. Con il sesto motivo ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen. e in relazione all'art. 99 cod. pen. - l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per avere la Corte d'appello mantenuto l'aumento di pena in virtù del riconoscimento della recidiva semplice. Ha dedotto che l'applicazione della recidiva era stata apoditticamente giustificata sulla base di una riconosciute proclività alla commissione di reati, dell'assunto carattere professionale della stessa e dell'assenza di segni di resipiscenza; mentre ragioni di contenimento sanzionatorio avrebbero imposto di non praticare alcun aumento a tale titolo. 2.4. La difesa di Gr.Gi. ha articolato quattro motivi di impugnazione. Con il primo motivo ha dedotto la violazione di legge - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. - in riferimento agli artt.13, comma 2, D.L. n. 152/1991 e 267 cod. proc. pen., con conseguente inutilizzabilità degli esiti captativi del progressivo 851 del 20/02/2017, assunto in forza di decreto n. 1792/2017. Ha dedotto che: il GIP aveva emesso l'autorizzazione all'intercettazione di comunicazioni tra presenti per la durata di giorni 40 con decreto del 01/09/2017 e che le operazioni avevano avuto inizio il 05/10/2017, con scadenza al 14/11/2017; che, il 1/12/2017 era stata presentata richiesta di proroga per giorni venti, autorizzata nello stesso giorno dal GIP; che, il 25/01/2018, la Procura della Repubblica aveva presentato la richiesta di seconda proroga per la durata di giorni venti, accolta dal GIP con decreto del 26/01/2018; ha dunque evidenziato che le attività di captazione - a causa del rilevamento della microspia - erano state interrotte tra il 12/12/2017 e il 11/01/2018; ha pertanto dedotto che tale periodo di sospensione non poteva comportare uno slittamento in avanti del complessivo termine concesso per l'esecuzione delle operazioni di captazione, atteso che - nel caso di specie - la sospensione era stata disposta autonomamente dagli operanti di polizia giudiziaria, restando del tutto estraneo alla materia in questione l'istituto della ratifica, rimanendo quindi complessivamente scoperto da autorizzazione tutto il periodo compreso tra il 24/12/2017 e il 25/01/2018; derivandone altresì l'insufficienza del decreto emesso il 26/01/2018, in quanto lo stesso non avrebbe potuto limitarsi a fare riferimento per relationem agli originari decreti autorizzativi, con conseguente inutilizzabilità di tutti gli esiti successivi. Con il secondo motivo ha dedotto il vizio di motivazione - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. - in riferimento all'elemento dell'affectio societatis del reato contestato ai sensi dell'art. 74, T.U. stup. Ha dedotto che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, non poteva ritenersi di valenza sufficiente la commissione dell'unico reato fine ascritto e che i ripetuti contatti con il Ma.Gi. non potevano ritenersi indici della necessaria comunanza di scopo insita nel reato di partecipazione, essendosi il Gr.Gi. limitato a rifornirsi di sostanza stupefacente. Con il terzo motivo ha dedotto il vizio di motivazione e l'erronea applicazione della legge penale - in riferimento all'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione all'ipotesi di cui all'art. 73, T.U. stup.; deduceva che sussistevano gli elementi per la riqualificazione della fattispecie ascritta sotto l'ambito di quella regolata dal quinto comma del predetto articolo, anche in considerazione degli elementi di genericità della relativa contestazione. Con il quarto motivo ha dedotto l'illogicità della motivazione e la conseguente ed erronea applicazione della legge penale - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - in relazione alla circostanza aggravante di cui all'art.416-bis.1 cod. pen. Ha dedotto che la Corte territoriale avrebbe automaticamente esteso l'aggravante a tutti i partecipi tanto in riferimento all'utilizzo del metodo mafioso quanto in relazione alla finalità agevolatrice. 2.5. La difesa di Co.Pa. ha articolato quattro motivi di impugnazione. Con il primo motivo ha dedotto - in riferimento all'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. - l'inosservanza ed erronea applicazione dell'art.74, T.U. stup. Ha dedotto che dalle sentenze di merito si sarebbe ricavata la sola sussistenza di un rapporto sporadico con altri soggetti coinvolti, essendo eventualmente comprovata la sola sussistenza di rapporti con terzi fornitori di sostanza stupefacente e non un organico rapporto con il sodalizio. Con il secondo motivo ha dedotto - in riferimento all'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.- la violazione dell'art.99, comma 6, cod. pen. Ha dedotto che, dal casellario giudiziale in atti, risultava come il prevenuto avesse riportato condanne definitive per un anno e venti giorni di reclusione e per quattro mesi di arresto; conseguendone che il complessivo aumento apportato a titolo di recidiva - pari ad anni sei emesi otto di reclusione - doveva intendersi applicato in violazione della predetta disposizione. Con il terzo motivo ha dedotto l'erronea applicazione della circostanza aggravante di cui all'art.416-bis.1 cod. pen. Ha dedotto che il ragionamento della Corte territoriale si fondava sulla consapevolezza dello specifico spessore criminale dei concorrenti An.Fi., Mi.Sa. e Ma.Gi. e della loro finalità di agevolare il sodalizio mafioso nonché dell'utilizzo del metodo mafioso; ha quindi dedotto che l'imputato aveva avuto rapporti con il solo Ma.Gi. e che non era ravvisabile in capo allo stesso la necessaria direzione del dolo. Con il quarto motivo ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. - la violazione dell'art. 62-bis cod. pen., censurando la valutazione dei giudici di merito in punto di mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. 2.6. La difesa di Gi.Fe. ha articolato tre motivi di impugnazione. Con il primo motivo ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - la violazione degli artt. 530, 546, comma 1, lett. e), 192 cod. proc. pen., 110 e 81 cpv. cod. pen. e 73, T.U. stup. In riferimento al reato ascritto al punto 14) del capo di imputazione, riguardo al quale la prova della responsabilità del prevenuto era stata tratta dalla captazione ambientale del 06/04/2018 e dagli esiti del verbale di sequestro del 05/04/2018, ha dedotto come - essendo il sequestro successivo alla captazione dalla conversazione si evinceva che il Co.Pa. si fosse disfatto di tutta la sostanza consegnatagli dal Gi.Fe., con l'implicazione che i ritrovati g 0,8 di hashish non potevano essere stati ceduti al Co.Pa. dal ricorrente. Con il secondo motivo ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - la violazione degli artt. 546, comma 1, lett. e) e 192 cod. proc. pen., nonché dell'art. 73 del T.U. stup. con specifico riferimento all'ipotesi prevista dall'art. 73, comma 5. Ha dedotto che i giudici di secondo grado non avrebbero fornito adeguata risposta alla censura difensiva tendente a ottenere la riqualificazione della fattispecie sotto quella di lieve entità, omettendo di considerare il modesto dato ponderale e qualitativo della sostanza. Con il terzo motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - la violazione degli artt. 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. e 133 e 62bis cod. pen. Ha dedotto che i giudici di secondo grado non avrebbero fatto buon governo dei principi regolativi della materia delle circostanze attenuanti generiche. 2.7. La difesa di Mi.Sa. ha articolato due motivi di impugnazione. Con il primo motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen. - la violazione degli artt. 74, comma 2, T.U. stup., 416-bis cod. pen. e 649 cod. proc. pen. Ha dedotto che la Corte territoriale, erroneamente, non avrebbe ritenuto l'identità del fatto contestato al capo 1) dell'imputazione rispetto a quello ascritto nel procedimento definito con sentenza n. 1441/2020, confermata dalla Corte d'appello di Palermo con sentenza del 20/12/2022; ha quindi dedotto la piena sovrapponibilità dei fatti contestati nei due capi di imputazione. Con il secondo motivo ha dedotto la violazione di legge e l'illogicità e carenza di motivazione - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. sempre in riferimento alle suddette argomentazioni in punto di divieto di bis in idem e in relazione alla dedotta mancanza di una prova della responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio, anche in considerazione del fatto che il compendio probatorio era rappresentato quasi esclusivamente da intercettazioni telefoniche. 3. Il Procuratore generale ha concluso chiedendo di annullare senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Ma.Gi. limitatamente alla circostanza aggravante ex art. 416-bis1 c.p. contestata nei singoli reati-scopo e all'aumento per la recidiva, provvedendosi ai sensi dell'art. 620 co. 1 lett. I) c.p.p. su entrambi i punti, nonché rigettare il ricorso nel resto; di annullare la sentenza impugnata nei confronti di Gi.Fe. limitatamente al mancato riconoscimento dell'ipotesi di cui all'art. 73 co. 5 D.P.R. 309/90 in relazione al capo 14, con rinvio per un nuovo esame e dichiararsi inammissibile nel resto; di rigettare i ricorsi proposti da An.Fi., Gr.Gi. e Mi.Sa. e di dichiarare inammissibili i ricorsi proposti da Li.Fr. e Co.Pa. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi proposti devono essere accolti in relazione ai sollevati profili attinenti alla configurabilità dell'aggravante contestata ai sensi dell'art. 416-bis.1 cod. pen. e in riferimento alla dedotta violazione del disposto dell'art. 99, ultimo comma, cod. pen.; nonché, in relazione alla posizione del Gr.Gi. e del Gi.Fe., in riferimento al profilo attinente alla eventuale qualificazione dei reati contestati ai capi 11) e 14) sotto la specie di quello previsto dall'art. 73, comma 5, T.U stup. 2. Vanno pregiudizialmente esaminati, in quanto attinenti a profili di rango strettamente processuale, il primo motivo di ricorso proposto dall'An.Fi. e il primo motivo di ricorso proposto dal Gr.Gi., recanti censure tra loro sovrapponibili in punto di diritto. 2.1. In particolare, i suddetti ricorrenti hanno esposto che le operazioni di intercettazione ambientale disposte per giorni quaranta in forza del decreto autorizzativo n. 1792/20171 avevano avuto effettivo inizio il 05/10/2017, con conseguente scadenza al 14/11/2017; che, con provvedimento del 10/11/2017, le operazioni di intercettazione erano state autorizzate sino al 04/12/2017; che, con ulteriore provvedimento del 01/12/2017, le operazioni erano state prorogate sino al 24/12/2017; che, peraltro, le operazioni di captazione erano state materialmente interrotte il 12/12/2017 a causa del ritrovamento della microspia e che le stesse erano state riattivate alla data del 12/01/2018, come comunicato il 22/01/2018 al p.m.; che, il 25/01/2018, il p.m. aveva quindi chiesto ulteriore proroga, autorizzata dal GIP con provvedimento del 26/01/2018. Sulla base di tale scansione temporale, le difese hanno quindi dedotto l'inutilizzabilità - per assenza di un valido provvedimento di proroga effettivamente vigente - delle conversazioni captate dal 24/12/2017 (data di scadenza della seconda proroga) sino al 26/01/2018, data di emissione della successiva proroga; ritenendo che l'interruzione delle operazioni determinata dalle suddette ragioni tecniche non avrebbe potuto determinare uno slittamento in avanti del termine di validità della proroga concessa il 01/12/2017 per un periodo corrispondente al periodo di interruzione medesima (pari a trentadue giorni complessivi, compresi tra il 12/12/2017 e il 12/01/2018). Avendo, altresì, le difese suddette dedotto che il provvedimento adottato il 26/01/2018 - in quanto privo di autonomo apparato giustificativo che tenesse conto del dato rappresentato dalla sopravvenuta sospensione del servizio e strutturato, pertanto, come decreto di proroga - sarebbe stato privo di autonomo apparato giustificativo, con conseguente inutilizzabilità delle intercettazioni eseguite successivamente. 2.2. I relativi motivi devono considerarsi inammissibili, per difetto nel necessario requisito della specificità. Sul punto, vanno infatti richiamati i consolidati principi - in tema di motivo di doglianza inerente alla dedotta inutilizzabilità di elementi probatori - in base ai quali l'obbligo di specificità dei motivi impone al ricorrente di allegare e chiarire quali atti sarebbero stati posti in essere duranti i dedotti periodi di non operatività dei decreti di autorizzazione e sarebbero, quindi, da considerare inutilizzabili; e se e quale incidenza essi abbiano avuto sul complessivo compendio indiziario valutato ed apprezzato dal giudice, in modo da potersene inferire la loro decisività in riferimento al provvedimento impugnato (in relazione alla c.d. prova di resistenza). Con principio espresso in riferimento alla eccepita inutilizzabilità degli esiti di intercettazioni telefoniche, questa Suprema Corte ha difatti già avuto occasione di chiarire che "è onere della parte, a pena di inammissibilità del motivo per genericità, di indicare specificamente l'atto asseritamente affetto dal vizio denunciato ..." (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 243416; in senso conforme, Sez. 6, n. 1219 del 12/11/2019, dep. 2020, Cocciadiferro, Rv. 278123). Ed è stato anche ulteriormente specificato che, in tema di ricorso per cassazione, "è affetta da genericità la censura con la quale la parte eccepisce la inutilizzabilità di un atto, senza dedurne, al tempo stesso, la rilevanza probatoria, nel contesto degli altri elementi di prova" (Sez. VI, 18 ottobre 2000, n. 159/01); e s'è ancora chiarito che (in tema di attività di indagine asseritamente condotta prima che fosse intervenuto il decreto autorizzativo della riapertura della fase delle indagini preliminari), quando si prospetta la sussistenza di atti invalidi o viziati, occorre dimostrare che essi abbiano effettivamente tenuto conto della attività illegittimamente espletata, apparendo indispensabile accertare se il giudice di merito, al fine di formare il proprio convincimento in relazione ad un provvedimento adottato, abbia concretamente fatto uso degli atti acquisiti al di fuori del codice di rito. Incombe dunque al ricorrente l'onere di specificare se e quali atti siano stati effettivamente posti a base della decisione che intende impugnare (Sez. 2, n. 669 del 01/02/2000, Cartoni, Rv. 215408). A tale onere, nel caso di specie, i ricorrenti non hanno adeguatamente ottemperato; limitandosi a indicare periodi di temporali durante i quali le captazioni sarebbero state eseguite in assenza di un valido decreto autorizzativo ma senza specificare quali specifiche conversazioni sarebbero stati intercettate durante i relativi lassi temporali e quale sarebbe stata la loro concreta ed effettiva incidenza sulla complessiva tenuta del rimanente materiale probatorio. 2.3. In ogni caso, questa Corte deve rilevare come le argomentazioni spiegate dai ricorrenti in punto di carenza - nei periodi temporali dedotti - di validi e operanti provvedimenti autorizzativi, siano infondate. Sul punto, in quanto pertinenti alla fattispecie in esame, vanno richiamati i principi in base ai quali il termine di durata delle operazioni di intercettazione decorre dalla data di inizio delle operazioni stesse e non già da quella del provvedimento autorizzativo, in quanto le norme che disciplinano la durata delle intercettazioni fanno riferimento alle operazioni relative (Sez. 1, n. 14595 del 17/11/1999, Toscano, Rv. 216205; Sez. 1, n. 35679 del 11/05/2023, Gemei, Rv. 285243); conseguendone che la tempestività del decreto di proroga delle operazioni di intercettazione va valutata in riguardo alla data di effettiva attivazione delle operazioni e non a quella del decreto autorizzativo (Sez. 1, n. 12876 del 06/03/2009, Lanzino, Rv. 243491). A questo principio si riconnette quindi quello ulteriore - direttamente pertinente al caso di specie - secondo il quale le modalità ed i tempi delle intercettazioni stesse, una volta autorizzate, sono rimesse al pubblico ministero il quale può legittimamente sospendere detto termine per apprezzabili ragioni funzionali alle indagini, riprendendo lo stesso a decorrere, una volta cessata la causa di sospensione, dalla riattivazione della captazione, senza necessità, in costanza dei presupposti di legge, di una nuova richiesta di autorizzazione all'intercettazione (Sez. 6, n. 11682 del 18/11/2010, dep. 2011, Puddu, Rv. 249724; Sez. 1, n. 31828 del 20/06/2018, dep. 2019, D'Agostino, Rv. 276719) nella quale la Corte ha sottolineato in parte motiva la legittimità della sospensione delle intercettazioni per ragioni contingenti, funzionali alle indagini e concretamente apprezzabili, con successiva ripresa della decorrenza del termine di durata dal momento in cui, venuta meno la causa di sospensione, venga riattivata la captazione delle conversazioni, senza la necessità di una nuova autorizzazione, ove permangano i presupposti previsti dalla legge). Ne consegue che - in presenza della predetta interruzione delle operazioni, dovuta a causa tecniche - il termine di validità del successivo decreto di proroga è venuto a essere sospeso; a nulla rilevando, in riferimento a quanto argomentato dalla difesa del Gr.Gi., che la sospensione delle operazioni fosse stata autonomamente disposta dalla polizia giudiziaria, attesa la successiva presa d'atto da parte del pubblico ministero avvenuta il 22/01/2017 e la richiesta di una ulteriore proroga avvenuta il 25/01/2018. Derivandone, per diretta conseguenza logica, che il successivo provvedimento del GIP del 26/01/2018 doveva considerarsi - a tutti gli effetti - quale ulteriore proroga, con derivante irrilevanza delle argomentazioni difensive inerenti alla dedotta carenza di un autonomo apparato motivazionale. 3. Va quindi esaminato il primo motivo di ricorso proposto dalla difesa del Mi.Sa., con il quale lo stesso ha dedotto la violazione del divieto di bis in idem, in relazione al disposto dell'art. 649 cod. proc. pen., con riferimento all'imputazione elevata ai sensi dell'art. 416-bis cod. pen., oggetto di sentenza n. 1441/2020 del Tribunale di Palermo, confermata in grado di appello con sentenza del 20/12/2022 e non ancora passata in giudicato, relativa a fatti commessi sino al 04/12/2018 e al 22/01/2019. Il motivo è inammissibile. Va rilevato che, sulla base dell'apparato argomentativo della sentenza impugnata, la questione del ne bis in idem era stata sollevata dal Mi.Sa. in sede di motivo di appello; ma in riferimento a diverso procedimento, essendo la relativa deduzione stata sollevata in riferimento alla sentenza della Corte d'appello di Palermo del 18/12/2014, irrevocabile il 23/06/2016, di parziale riforma della sentenza del GUP presso il Tribunale di Palermo e con la quale l'imputato era stato condannato alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione per il delitto previsto dall'art. 416-bis, comma 1, cod. pen., con le aggravanti di cui ai commi 4 e 5 e con contestazione chiusa, in quanto il fatto sarebbe stato commesso a Palermo sino al 07/03/2012. Attesa la novità della questione proposta rispetto a quella contenuta nel motivo di appello, va quindi richiamato il principio in base al quale non è deducibile per la prima volta davanti alla Corte di cassazione la violazione del divieto del bis in idem sostanziale, in quanto l'accertamento relativo alla identità del fatto oggetto dei due diversi procedimenti, intesa come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, implica un apprezzamento di merito né è con5entito alle parti produrre in sede di legittimità documenti concernenti elementi fattuali (Sez. 2, n. 18559 del 13/03/2019, Zindato, Rv. 276122-02; Sez. 2, n. 6179 del 15/01/2021, Pane, Rv. 280648). Ne consegue che la relativa argomentazione - comunque, incidentalmente, riguardante una sentenza non munita del valore di giudicato - non poteva essere proposta nella presente sede. 4. In ordine ai motivi attinenti allo stretto merito della responsabilità penale va quindi premesso che, vertendosi - in relazione al giudizio di responsabilità degli imputati per la fattispecie associativa e in ordine ai contestati reati fine - in una fattispecie di c.d. doppia conforme, le due decisioni di merito vanno lette congiuntamente, integrandosi le stesse a vicenda, secondo il tradizionale insegnamento della Suprema Corte; tanto in base al principio per cui "Il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile" (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosino, Rv. 209145; in conformità, tra le numerose altre, Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano, Rv. 224079; Sez. 6, n. 23248 del 07/02/2003, Zanotti, Rv. 225671; Sez. 5, n. 14022 del 12/01/2016, Genitore, Rv. 266617). 5. Per motivi di antecedenza logica, vanno prioritariamente esaminati i profili di diritto illustrati nel primo motivo del ricorso proposto dal Ma.Gi. (sia pure, di fatto, dedotti strumentalmente rispetto alla contestazione dell'effettivo periodo di coinvolgimento del ricorrente all'interno dell'associazione, pagg.6-9) nonché dalla difesa dell'An.Fi. nell'ambito del secondo motivo di ricorso, in quanto tendenti a contestare la conclusione raggiunta dalle sentenze di merito in punto di configurazione, nella fattispecie in esame, di un sodalizio associativo rilevante ai sensi dell'art. 74, comma 1, T.U. stup. Le relative censure sono inammissibili, in quanto reiterative di argomentazioni già proposte alla Corte territoriale e da questa smentite con analitica e congrua motivazione. 5.1. Va quindi premesso il riferimento alla costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità circa gli elementi che caratterizzano l'associazione prevista dall'art. 74, T.U. stup.; per la configurabilità della quale non è richiesta la presenza di una complessa ed articolata organizzazione, dotata di notevoli disponibilità economiche, ma è sufficiente l'esistenza di una struttura, anche rudimentale, desumibile dalla predisposizione di mezzi e dalla suddivisione dei ruoli, per il perseguimento del fine comune, idonea a costituire un supporto stabile e duraturo alla realizzazione delle singole attività delittuose (tra le altre, Sez. 1, n. 30463 del 7/07/2011, Cali, RV. 251011; Sez. 2, n. 19146 del 20/02/2019, Cicciari, Rv. 275583); d'altra parte, nemmeno è necessaria l'esistenza di un'articolata e complessa organizzazione, connotata da una struttura gerarchica con specifici ruoli direttivi e dotata di disponibilità finanziarie e strumentali per un'estesa attività di commercio di stupefacenti, ma è sufficiente anche un'elementare predisposizione di mezzi, pur occasionalmente forniti da taluno degli associati o compartecipi, sempre che gli stessi siano in concreto idonei a realizzare in modo permanente il programma delinquenziale oggetto del vincolo associativo (Sez. 6, n. 25454 del 13/02/2009, Mammoliti, RV. 244520, Sez. 3, n. 9457 del 06/11/2015, dep. 2016, Salvatori Rv. 266286). Conseguendone che l'elemento aggiuntivo e distintivo del reato associativo rispetto alla contigua fattispecie del concorso di persone nel reato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, è stato ravvisato nel carattere dell'accordo criminoso; tale da contemplare la commissione di una serie non preventivamente determinata di delitti, con permanenza del vincolo associativo tra i partecipanti che, anche al di fuori dell'effettiva commissione dei singoli reati programmati, assicurino la propria disponibilità duratura e indefinita nel tempo al perseguimento del programma criminoso proprio del sodalizio (in tal senso Sez. 5, n. 42635 del 4/10/2004, Collodo, Rv. 229906); fermo restando che è sufficiente l'esistenza tra i partecipi di una durevole comunanza di scopo, costituito dall'interesse a immettere droga sul mercato del consumo, sicché il vincolo associativo sussiste anche tra venditori e acquirenti della sostanza, non rilevando la diversità dei fini personali e degli utili che i singoli si propongono di ottenere dallo svolgimento dell'attività criminale (Sez. 2, n. 51714 del 23/11/2023, Lauricella, Rv. 285646). 5.2. Ai fini della configurabilità di un'associazione finalizzata al narcotraffico, è dunque necessario: a) che almeno tre persone siano tra loro vincolate da un patto associativo (sorto anche in modo informale e non contestuale) avente ad oggetto un programma criminoso nel settore degli stupefacenti, da realizzare attraverso il coordinamento degli apporti personali; b) che il sodalizio abbia a disposizione, con sufficiente stabilità, risorse umane e materiali adeguate finalizzate a una credibile attuazione del programma associativo; c) che ciascun associato, sia a conoscenza, quanto meno, dei tratti essenziali del sodalizio, e si metta stabilmente a disposizione di quest'ultimo (Sez. 6, n. 7387 del 3/12/2013 dep. 2014, Pompei, Rv. 258796). Rilevando altresì che la prova del vincolo permanente, nascente dall'accordo associativo, può essere data anche mediante l'accertamento di facta concludentia, quali i contatti continui tra gli spacciatori, i frequenti viaggi per i rifornimenti della droga, le basi logistiche, la predisposizione dei beni necessari per le operazioni delittuose, le forme organizzative utilizzate, sia di tipo gerarchico sia mediante divisione dei compiti tra gli associati, la commissione di reati rientranti nel programma criminoso e le loro specifiche modalità esecutive (Sez. 3, n. 47291 del 11/06/2021, Esposito, Rv. 282610), rimanendo altresì i singoli reati-scopo, pur se di per sé stessi non sufficienti a denotare il vincolo associativo, un elemento sintomatico adeguatamente valutabile al fine di ritenere sussistente il sodalizio criminoso (Sez. 3, n. 25816 del 27/05/2022, Grillo, Rv. 283278). 5.3. Ciò premesso, deve ritenersi che le sentenze di merito abbiano fatto adeguato e condivisibile governo dei principi sopra richiamati. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha desunto la sussistenza della fattispecie associativa sulla base di una pluralità di elementi, specificamente rappresentati da: a) la tendenziale stabilità e circolarità dei contatti e rapporti fiduciari tra tutti gli imputati, come emergente dalle plurime conversazioni captate, comprovante la piena suddivisione del programma criminoso; b) la predisposizione di organizzazione e mezzi e la suddivisione di ruoli tra gli associati, come delineata nel capo di imputazione; c) la professionalità nell'attività di vendita di sostanze di diversa tipologia, come ricavabile dal diverso numero delle cessioni; d) l'esistenza di una contabilità scritta; e) la conseguente piena deduzione di una costante affectio societatis in capo a tutti i membri del gruppo; elementi cui aggiungere, oltre a quello rappresentato dalla pluralità di reati scopo accertati, anche il non modesto lasso temporale durante i quali gli stessi sono stati consumati e delineato, nel capo di imputazione, come protratto per poco meno di un anno e mezzo. 5.4. La Corte ha, in particolare, operato una sistematica e analitica disamina dei predetti elementi, mediante un rinvio agli esiti dell'attività di indagine con specifico riferimento a quelli desumibili dalle conversazioni intercettate. In ordine ai predetti elementi la Corte, con motivazione coerente e non manifestamente illogica, ha pertanto ritenuto che - lungi, in relazione alla prospettazione difensiva, dal rappresentare una mera gestione di comodo finalizzata a singole operazioni di acquisto e cessione - tali comportamenti concretizzassero un consolidato e duraturo modus operandi, il cui carattere stabile e "aperto" era pure testualmente evincibile dal tenore delle conversazioni intercettate. In sostanza, gli elementi fattuali riassunti nelle sentenze di merito e specificamente relativi alla costanza degli approvvigionamenti dello stupefacente, al rapporto consolidato tra gli associati, alla conoscenza reciproca del sistema di rifornimento nonché il riferimento, desunto dal tenore delle conversazioni intercettate, al carattere indeterminato del programma criminoso sotto il profilo temporale, sono state ritenute - del tutto coerentemente con i richiamati principi - idonei a configurare un sodalizio qualificabile sotto la specie prevista dall'art. 74, T.U. stup. 6. Detto della congruità motivazionale del provvedimento impugnato per quanto concerne la sussistenza dell'associazione vanno a questo punto valutate le doglianze che i singoli imputati hanno proposto in relazione alla loro partecipazione ed al ruolo ricoperto in seno alla stessa, dovendosi prendere le mosse - sul punto - dal motivo di ricorso articolato dalla difesa dell'An.Fi. e con il quale lo stesso ha contestato le conclusioni raggiunte dalle sentenze di merito in punto di riconoscimento al suddetto ricorrente - unico attinto da tale valutazione all'esito dei relativi giudizi - di un ruolo apicale rilevante ai sensi dell'art. 74, comma 1, T.U. stup. Sul punto, il ricorrente ha dedotto che le sentenze di merito avrebbe, di fatto, riconosciuto la sussistenza del relativo ruolo sulla base della sua qualità, non ancora giudizialmente accertata in via definitiva, di membro di vertice di un sodalizio mafioso; deducendo altresì come - dai dialoghi intercettati e valorizzati dai giudici di merito - non emergesse alcuna effettiva conoscenza della dinamica dell'ipotizzato sodalizio criminoso; operando, quindi, una complessiva censura della lettura delle conversazioni intercettate operata da parte dei giudici di merito. 6.1. Il motivo è inammissibile, non adempiendo il medesimo all'onere di necessario confronto con le argomentazioni contenute nelle sentenze di merito; tanto in applicazione del principio in base al quale, in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, il necessario onere di raffronto con la motivazione della sentenza impugnata impone al ricorrente, a pena di inammissibilità, di non limitare il proprio esame alla sola parte del provvedimento specificamente riferita alla questione posta, ma di considerare anche le argomentazioni contenute in altre parti comunque rilevanti rispetto al giudizio devoluto sul tema (Sez. 3, n. 3953 del 26/10/2021, dep. 2022, Berroa, Rv. 282949); finendo, il relativo motivo, per essere pedissequamente reiterativo di contestazioni già ampiamente e congruamente prese in esame da parte della Corte territoriale. 6.2. Va quindi premesso che, in ordine alla figura del promotore e in riferimento al testo dell'art. 74, comma 1, T.U. stup., riveste tale ruolo colui che sia stato l'iniziatore dell'associazione, coagulando attorno a sé i primi consensi partecipativi, oltre che colui il quale, rispetto ad un gruppo già costituito, provochi ulteriori adesioni e comunque sovraintenda alla complessiva attività di gestione o assuma funzioni decisionali (Sez. 6, n. 45168 del 29/10/2015, Cidoni, Rv. 265524; Sez. 3, n. 45536 del 15/09/2022, Coluccio, Rv. 284199); mentre la qualifica di "organizzatore " spetta a chi coordina l'attività degli associati ed assicura la funzionalità delle strutture del sodalizio (Sez. 2, n. 20098 del 03/06/2020, Buono, Rv. 279476-02) essendo necessario che esso svolga compiti di coordinamento dell'attività degli associati, in modo da assicurare, attraverso una continua assistenza, la piena funzionalità dell'organismo criminale (Sez. 6, n. 38240 del 07/12/2017, dep. 2018, Anioke, Rv. 273737). Dovendosi altresì ricordare in premessa - in riferimento alle argomentazioni difensive - che, per principio consolidato, in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all'esclusiva competenza del giudice di merito, l'interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, Rv. 268389; Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337); e che, altresì, il contenuto di intercettazioni telefoniche captate fra terzi, dalle quali emergano elementi di accusa nei confronti dell'indagato, può costituire fonte diretta di prova della sua colpevolezza senza necessità di riscontro ai sensi dell'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., fatto salvo l'obbligo del giudice di valutare il significato delle conversazioni intercettate secondo criteri di linearità logica (Sez. 5, n. 4572 del 17/07/2015, dep. 2016, Ambroggio, Rv. 265747; Sez. 5, n. 48286 del 12/07/2016, Cigliola, Rv. 268414), principi che sono conseguenza di quello in base al quale le dichiarazioni auto ed etero accusatorie, registrate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata, hanno piena valenza probatoria e, pur dovendo essere attentamente interpretate e valutate, non necessitano degli elementi di corroborazione previsti dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263714). 6.3. Nel caso di specie, le sentenze di merito hanno ampiamente motivato con argomentazioni traenti spunto da un'interpretazione congrua e non manifestamente illogica del compendio probatorio e, specificamente, delle conversazioni intercettate - in ordine alla posizione di vertice assunta dall'An.Fi. all'interno della famiglia mafiosa di Corso (Omissis), in riferimento alla quale l'imputato aveva riportato condanna definitiva per il proprio ruolo di partecipe in forza di sentenza divenuta irrevocabile il 02/10/2011, avendo altresì riportato condanna - ancora non definitiva - per il successivo ruolo di vertice all'interno della stessa consorteria mafiosa, a propria volta confermato da alcune conversazioni intercettate e specificamente valorizzate dai giudici di merito. Sulla base di tali elementi, comunque concretizzanti un solo presupposto logico delle successive argomentazioni, la Corte territoriale ha ritenuto dimostrato come l'An.Fi. abbia creato un'organizzazione, da lui stesso diretta, finalizzata all'acquisto e alla distribuzione delle sostanze stupefacenti nella piazza di spaccio di Corso (Omissis); deponendo in tal senso una serie di conversazioni intercettate, quali quella del 27/02/2017, con il coimputato Mi.Sa., nella quale gli stessi - con linguaggio adeguatamente esplicito - avevano programmato l'estromissione dalla gestione del traffico di stupefacente del precedente organizzatore della piazza di spaccio, con successivo affidamento allo stesso Mi.Sa. della responsabilità operativa. Così come il ruolo di vertice dell'An.Fi. è stato pure congruamente desunto dalla Corte sulla base del tenore univoco di alcune intercettazioni successive; quali quelle del 18/01/2018, del 02/02/2018 e del 20/02/2018, nella quale il ricorrente si lamentava con il Mi.Sa. della condotta tenuta da Sc.En., che stava smerciando stupefacente per conto del sodalizio ma in violazione degli accordi presi; elementi di fatto dai quali - unitamente al tenore di alcune intercettazioni provenienti da terzi e danti atto del mutamento degli assetti in punto di responsabilità della gestione del traffico di stupefacenti nella suddetta piazza di spaccio (come quella del 20/06/2017, intercorsa tra Ca.Vi. e Sc.An.) - i giudici di merito hanno tratto la conclusione inerente alla posizione di responsabilità assunta dall'An.Fi. all'interno della compagine. Deve quindi ritenersi che il complesso delle deduzioni difensive (che si sono incentrate sull'effettiva consistenza del ruolo svolto dall'An.Fi. all'interno del sodalizio mafioso ed evidenziato una presunta mancanza di conoscenza delle effettive dinamiche inerenti allo spaccio di stupefacenti) finiscano, come sopra accennato, per omettere il necessario confronto con i passaggi logici posti alla base delle sentenze di merito; le cui conclusioni devono ritenersi fondate su un'interpretazione coerente e non manifestamente illogica della piattaforma probatoria. Le considerazioni che precedono portano quindi alla conseguente declaratoria di inammissibilità del terzo motivo articolato dalla difesa dell'An.Fi. con il quale lo stesso ricorrente, sempre sulla base di un'interpretazione alternativa delle risultanze probatorie, ha censurato le decisioni dei giudici di merito nella parte in cui non hanno qualificato il ruolo dell'imputato come quello di semplice partecipe al sodalizio criminoso. 7. Devono, a questo punto, essere esaminati i motivi di ricorso articolati dalle difese del Ma.Gi., del Li.Fr., del Gr.Gi., del Co.Pa. e del Mi.Sa. in riferimento a quelli con i quali è stata contestata la riconosciuta qualità di soggetti partecipi al sodalizio criminoso in questione. Sul punto, va premesso che la partecipazione ad associazione finalizzata al traffico di stupefacenti è un reato a forma libera, la cui condotta costitutiva può realizzarsi in forme diverse, purché si traduca in un apprezzabile contributo alla realizzazione degli scopi dell'organismo, posto che in tal modo si verifica la lesione degli interessi salvaguardati dalla norma incriminatrice (Sez. 3, n. 35975 del 26/05/2021, Caterino, Rv. 282139); dovendosi altresì richiamare il principio in base al quale, ai fini della verifica degli elementi costitutivi della partecipazione al sodalizio, ed in particolare dell'affectio di ciascun aderente ad esso, non rileva la durata del periodo di osservazione delle condotte criminose, che può essere anche breve, purché dagli elementi acquisiti possa inferirsi l'esistenza di un sistema collaudato al quale gli agenti abbiano fatto riferimento anche implicito, benché per un periodo di tempo limitato (Sez. 4, n. 50570 del 26/11/2019, Amarante, Rv. 278440-02; Sez. 6, n. 42937 del 23/09/2021, Sermone, Rv. 282122). Ricordando altresì che, per la configurabilità della condotta di partecipazione ad un'associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti, non è richiesto un atto di investitura formale, ma è necessario che il contributo dell'agente risulti funzionale per l'esistenza stessa dell'associazione in un dato momento storico (Sez. 4, n. 51716 del 16/10/2013, Amodio, Rv. 257905; Sez. 3, n. 22124 del 29/04/2015, Borraccino, Rv. 263662). 8. La difesa del Ma.Gi. - che in sede di sentenze di merito è stato ritenuto responsabile di una pluralità di reati fine e che alcuna doglianza ha esplicato sul punto - ha sottolineato due elementi fattuali rappresentati dalla conversazione intercettata il 02/03/2018, nella quale lo stesso imputato aveva comunicato a un terzo interlocutore di essere solo in procinto di entrare in società con il Mi.Sa. nel traffico dell'hashish e da quella del 19/03/2018, nella quale il Ma.Gi. aveva comunicato a Li.Fr. di avere ricevuto autorizzazione a smerciare hashish "a tappeto"; ha quindi dedotto che tutti i reati fine accertati in epoca pregressa avrebbero dovuto ritenersi estranei rispetto al programma del sodalizio e che quelli successivi - atteso il ristretto arco temporale nel corso del quale erano stati posti in essere - non sarebbero stati idonei a denotare la loro riconducibilità a un programma criminoso indeterminato ; deducendo altresì come, dal complesso delle conversazioni, non sarebbe emerso il ruolo di coordinatore dei pusher per conto del sodalizio invece ipotizzato nel capo di imputazione. Le argomentazioni sono inammissibili, omettendo le stesse lo specifico e necessario confronto con le argomentazioni poste alla base delle statuizioni dei giudici di merito. In particolare, in relazione al tessuto motivazionale delle sentenze impugnate, la difesa del ricorrente ha omesso di fare riferimento a un precipuo elemento valorizzato da entrambi i giudici di merito e rappresentato da una conversazione avvenuta il 17/07/2017, nella quale Mi.Sa. aveva impartito al Ma.Gi. direttive in ordine alla gestione della rete dei pusher presenti sulla piazza; rilevandosi quindi come - alla luce della successiva conversazione del 21/03/2018, in cui Mi.Sa. e Ma.Gi. discorrevano, con linguaggio del tutto esplicito, in ordine alla modalità di distribuzione degli incassi tra i distributori - con motivazione congrua e intrinsecamente logica, i giudici di merito abbiano dedotto la continuità del relativo incarico in capo all'odierno ricorrente. In tal senso, i giudici di merito hanno quindi smentito la lettura alternativa prospettata dal ricorrente e traente spunto dalle suddette conversazioni del 02/03/2018 e del 19/03/2018, in quanto non escludenti il pregresso svolgimento di un'attività di coordinamento spiegata dal Ma.Gi. per tutto il periodo pregresso; dovendosi altresì rilevare come le cessioni di stupefacente contestate al ricorrente prima di tali date (e, segnatamente, quelle ascritte ai capi 2), 4) e 6) dell'imputazione) avessero a oggetto anche sostanza del tipo cocaina, quindi diversa rispetto a quella in relazione alla quale il Ma.Gi. aveva comunicato ai propri interlocutori di essere sul punto di avviare un'ulteriore attività di spaccio per conto del sodalizio; con conseguente piena congruità del ragionamento seguito dalla Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto comprovato un accordo con il Mi.Sa. avente a oggetto anche smercio di sostanza differente rispetto all'hashish. Il complesso dei predetti elementi connota quindi di intrinseca logicità il percorso motivazionale seguito dai giudici di merito, nella parte in cui hanno ritenuto che il numero dei reati fine accertati fosse un chiaro indice sintomatico dell'appartenenza all'associazione, smentendo la deduzione difensiva in base alla quale le relative cessioni di stupefacente sarebbero state espressione di attività espletata uti singulus. Conclusioni che i giudici di merito hanno comunque ulteriormente avvalorato sulla base delle conversazioni intercettate il 10/03/2018 e il 17/03/2018, univocamente riferibili alle modalità di gestione dello smercio di hashish e cocaina per conto del sodalizio; apparendo altresì del tutto congrua la valutazione della Corte territoriale in ordine alla richiamata intercettazione del 05/04/2018, intesa come indice di un'autorizzazione rilasciata al Ma.Gi. di ampliare la zona di spaccio dell'hashish nell'interesse dell'associazione. 9. La difesa di Li.Fr. ha dedotto che la sentenza di secondo grado avrebbe travisato le risultanze probatorie in quanto fondatasi su una sola intercettazione (quella captata il 20/02/2018) in cui l'An.Fi. e il Mi.Sa. avevano fatto riferimento a "(Omissis)" come soggetto stabilmente deputato a rifornire di stupefacente il Gr.Gi.; ha quindi dedotto che Mi.Sa., in altra conversazione del 21/03/2018, avrebbe fatto riferimento al Li.Fr. chiamandolo invece con il suo soprannome ("testa di chiummu") e facendo presente che lo stesso operava in autonomia; mentre, in altra conversazione del 27/02/2018, il Mi.Sa. avrebbe fatto riferimento a un "(Omissis)" da identificarsi in Sa.Fr., soggetto peraltro menzionato tanto nella sentenza di secondo grado, quanto nell'ordinanza applicativa di misure cautelari; assumendo comunque la non idoneità a dedurre l'intraneità nell'associazione dai soli due reati fine accertati il 20/03/2018 e il 15/04/2018, tali da non poter far dedurre l'elemento necessario rappresentato dalla affectio societatis. Il motivo è inammissibile, omettendo di fatto lo stesso il necessario confronto con il complessivo percorso argomentativo seguito dal giudice d'appello. Difatti, il Collegio ha dato atto del fatto che - oltre che dalla conversazione captata il 20/02/2018, nella quale veniva fatto riferimento a un "(Omissis)" quale stabile fornitore di soggetto identificato come "(Omissis)" - il coinvolgimento del ricorrente fosse stato desunto da altre e univoche captazioni. In particolare, la Corte ha fatto riferimento: alla conversazione del 19/03/2018, nella quale il Li.Fr. discorreva con il Ma.Gi. dell'obbligo di consegnare al Mi.Sa. 200 Euro per ogni chilogrammo di stupefacente ricevuto; alla conversazione del 20/03/2018, nella quale il Ma.Gi. e il ricorrente discutevano della cessione del carico di hashish appena ricevuto dal primo; e alle conversazioni del 05/04/2018, da cui era emerso che il Ma.Gi. aveva incaricato il ricorrente della consegna di hashish a diversi acquirenti; sulla base di tali elementi - prescindenti quindi del tutto dalla dedotta interscambiabilità del nome di battesimo del ricorrente con quello del Sa.Fr. - la sentenza impugnata ha, con motivazione coerente e non palesemente illogica, dedotto lo specifico ruolo rivestito dal Li.Fr. all'interno del sodalizio e, a propria volta, concretizzatosi nella stretta collaborazione con il Ma.Gi. nell'attività di consegna di sostanza stupefacente; conclusione che è stata consequenzialmente avvalorata dagli elementi desumibili dai due reati scopo ascritti ai capi 13) e 21) dell'imputazione e aventi a oggetto rilevanti quantità di hashish. D'altra parte, in relazione alla conversazione intercettata il 20/03/2018, la difesa - in relazione ai necessari oneri di autosufficienza - non ha fornito elementi sulla base dei quali smentire l'interpretazione seguita dalla Corte, in forze della quale il Ma.Gi. avrebbe indicato al Li.Fr. che un terzo soggetto (quello soprannominato "testa di chiummo") avrebbe dovuto acquistare da lui lo stupefacente; rimanendo quindi meramente dedotto che il soggetto così soprannominato si identificasse con lo stesso Li.Fr.; elemento che appare quindi smentito proprio dal tenore della conversazione intercettata il 21/03/2018 - citata dalla difesa - nel corso della quale il soggetto denominato "testa di chiummu" era stato menzionato distintamente rispetto al Li.Fr. 10. La difesa del Gr.Gi. ha dedotto l'inidoneità dell'unico reato scopo contestate a dedurre la partecipazione al sodalizio e che, in relazione ai comprovati contatti con il Ma.Gi., si verteva in ambito di rapporto occasionale con un singolo associato non idoneo a comprovare la necessaria comunanza di scopo. Il motivo è inammissibile, fondandosi lo stesso su argomentazioni del tutto prive del necessario requisito della conferenza rispetto alle motivazioni spiegate sul punto dalla Corte territoriale. In particolare, i giudici di secondo grado hanno dato atto della captazione di numerose conversazioni intercorse tra il Gr.Gi. e il Ma.Gi., nelle quali gli stessi - con linguaggio criptico ma adeguatamente decifrabile - facevano riferimento al rifornimento di stupefacente da parte del secondo nei confronti del primo, elementi evidentemente ritenuti idonei a comprovare la sussistenza di una collaborazione finalizzata allo spaccio. Sul punto, la difesa ha quindi evocato la lettura giurisprudenziale in base alla quale la commissione di più reati-fine in concorso con singoli partecipi al sodalizio non è vicenda fattuale idonea ad integrare di per sé l'esistenza di indizi gravi, precisi e concordanti in ordine alla partecipazione al reato associativo, essendo necessario che i rapporti con tali soggetti costituiscano forme di interazione nell'ambito di un gruppo organizzato e non di relazioni di tipo diretto ed immediato, prive di riferimenti al ruolo esponenziale dei predetti per conto della consorteria (Sez. 6, n. 34563 del 17/07/2019, Di Punzio, Rv. 276692; Sez. 3, n. 9036 del 31/01/2022, Santoro, Rv. 282838); rilevando peraltro che l'elemento oggettivo del reato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti prescinde dal numero di volte in cui il singolo partecipante ha personalmente agito, per cui il coinvolgimento in un solo episodio criminoso non è incompatibile con l'affermata partecipazione dell'agente all'organizzazione di cui si è consapevolmente servito per commettere il fatto (Sez. 1, n. 43850 del 03/07/2013, Durand, Rv. 257800; Sez. 3, n. 36381 del 09/05/2019, Cruzado, Rv. 276701-06). Nel caso di specie, il motivo di ricorso ha quindi del tutto omesso di raffrontarsi con le specifiche argomentazioni spiegate dalla Corte territoriale; in base alle quali i numerosissimi e univoci contatti con il Ma.Gi. dovevano essere interpretati anche alla luce della già citata conversazione tra l'An.Fi. e il Mi.Sa., captata il 20/02/2018, nella quale vi era un univoco riferimento al Gr.Gi. come soggetto pienamente coinvolto nell'attività di spaccio per conto del sodalizio. 11. La difesa del Co.Pa. ha dedotto l'insufficienza del complessivo compendio probatorio a dimostrare l'intraneità del ricorrente rispetto al sodalizio e che specificamente - il sequestro di un foglio contenente conteggi riportanti i dati delle cessioni di stupefacente sarebbe stato elemento inidoneo a tale fine, in quanto riguardanti i soli proventi ricavati dagli acquirenti al minuto; deducendo come il ricorrente si approvvigionasse in modo indifferenziato di stupefacente dal Gi.Fe. (soggetto estraneo all'associazione), da altro soggetto identificato come "(Omissis)" e dal Ma.Gi. Il motivo è inammissibile in quanto estrinsecamente aspecifico; lo stesso omette evidentemente di confrontarsi con le argomentazioni contenute nelle sentenze di merito in ordine alla posizione del suddetto ricorrente. Con esse e stato dato atto di come la posizione del Co.Pa. quale soggetto avente la veste di fornitore a terzi di sostanza per conto del sodalizio doveva ritenersi confermata da una serie di risultanze desumibili dalle conversazioni intercettate; e, in particolare, da quella del 17/03/2018 tra il Ma.Gi. e il Mi.Sa. nel corso della quale era emerso che un soggetto denominato "(Omissis)" stava cedendo sostanza stupefacente senza sottostare alle direttive del gruppo dominante la piazza di spaccio e durante la quale si faceva riferimento alla diversa condotta tenuta dal Co.Pa. nonostante la "confidenza" intrattenuta con lo stesso Mi.Sa., in tale modo dimostrandosi la sussistenza di un rapporto continuativo tra i due· nonché alla successiva conversazione tra il Ma.Gi. e il Co.Pa., nel corso della quale quest'ultimo aveva aderito alla richiesta del primo di rifornirsi solo dal Ma.Gi. medesimo, nonché di restituire la sostanza stupefacente acquisita da terzi. D'altra parte, risulta immune da censure l'interpretazione del compendio probatorio operato dai giudici di merito nella parte in cui hanno attribuito rilievo alla consumazione dei reati scopo contestati ai capi 9), 14) e 15) del capo di imputazione. Dovendosi pure considerare non manifestamente illogica l'interpretazione operata dai giudici di merito in ordine alle giustificazioni date dal Co.Pa. al Ma.Gi. dopo la perdita di un panetto di hashish che questi gli aveva da poco consegnato, nonché alla sussistenza di un foglio recante la complessiva contabilità delle transazioni riferite alla sostanza stupefacente acquistata e sequestrato il 05/04/2018, elemento congruamente ritenuto incompatibile con la dedotta qualità di mero acquirente allegata dalla difesa. 12. Il motivo articolato dalla difesa del Mi.Sa. in ordine alla attribuita qualità di partecipe al sodalizio, illustrato dopo quello predetto relativo alla violazione del divieto di bis in idem, deve ritenersi inammissibile in quanto del tutto aspecifico; non contenendo lo stesso alcuna effettiva critica dei dati probatori posti alla base della relativa valutazione compiuta da parte dei giudici di merito. 13. Deve quindi essere esaminato il motivo di ricorso articolato dalla difesa di Gi.Fe., condannato per il delitto previsto dall'art. 73, comma 4, T.U. stup., in relazione alla cessione di hashish - commessa in concorso con il Ma.Gi. nei confronti di Co.Cl., contestata al capo 14) dell'imputazione, nella misura di g 0,8 e sottoposta a sequestro da parte della p.g. 13.1. La valutazione di responsabilità del Gi.Fe. si fonda sulle risultanze della conversazione intercettata il 06/04/2018 tra il Ma.Gi. e il Co.Cl.; in particolare, dal tenore della conversazione stessa si evince quindi, come esposto dai giudici di merito, che Ma.Gi. aveva precedentemente consegnato due panetti di hashish al Co.Cl., il quale si era disfatto di uno di essi rimanendo in possesso dell'altro; mentre il successivo sequestro dello stupefacente avrebbe avuto quale oggetto anche la sostanza che gli era stata consegnata da soggetto identificato come il Gi.Fe. e della quale il Co.Cl. non si era precedentemente disfatto. Deve quindi essere complessivamente ritenuta non illogica (con conseguente rigetto del motivo) la complessiva interpretazione del predetto dialogo operata dai giudici di merito nel senso di ritenere che - a monte - si fosse perfezionata una cessione di sostanza stupefacente da parte del Ma.Gi. e del Gi.Fe. nei confronti del Co.Cl. e che la sostanza materialmente sequestrata fosse solo una parte di quella consegnata da quest'ultimo (come desumibile dalla parte di dialogo in cui il Co.Cl. riferiva di essersi riuscito a liberare del "coso di (Omissis)"). 13.2. Con ulteriore motivo di impugnazione, la difesa del Gi.Fe. ha contestato la mancata riqualificazione del fatto suddetto sotto la specie del fatto di lieve entità regolato dall'art. 73, comma 5, T.U. stup. Il motivo è fondato. Sul punto, in riferimento alla valutazione degli elementi menzionati nella richiamata disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell'azione ovvero qualità e quantità delle sostanze), va fatto riferimento alla parte motiva di Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076 e nella quale è stata sottolineata la necessità di una valutazione globale e non parcellizzata degli elementi elencati nella disposizione; ciò in quanto tale lettura si rivela come la più aderente al dettato normativo, posto che il comma 5 dell'art. 73 elenca in maniera indistinta i diversi indicatori selezionati (limitandosi a raggrupparli a seconda che essi si riferiscano alla condotta od all'oggetto materiale del reato), astenendosi dallo stabilire un ordine gerarchico tra gli stessi o anche solo dall'attribuire ad alcuni un maggiore valore sintomatico. Altresì, con specifico riferimento alla rilevanza del dato ponderale, ai fini della valutazione della sussistenza del "fatto lieve", da effettuarsi con riguardo alla fattispecie complessivamente considerata, secondo l'arresto espresso da Sez. 6, n. 45061 del 03/11/2022, Restivo, Rv. 284149, il giudice può tener conto del fatto che lo stesso sia stato ritenuto, dalla giurisprudenza maggioritaria risultante dalla ricognizione statistica su un campione significativo di sentenze, compatibile con l'art. 73, comma 5, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; essendo peraltro stato ulteriormente specificato che la qualificazione del fatto ai sensi dell'art. 73, comma 5, citato, non può effettuarsi in base al solo dato quantitativo, risultante dalla ricognizione statistica su un campione di sentenze che hanno riconosciuto la minore gravità del fatto - eventualmente parametrata su uno specifico ufficio giudiziario - posto che, per l'accertamento della stessa, è necessario fare riferimento all'apprezzamento complessivo degli indici richiamati dalla norma (Sez. 6, n. 7464 del 28/11/2019, dep. 2020, Riccio, Rv. 278615; Sez. 3, n. 12551 del 14/02/2023, Pascale, Rv. 284319). Nel caso di specie, la Corte territoriale - pur partendo dal modesto dato ponderale della sostanza in questione - ha ritenuto che la complessiva valutazione dei predetti indici non consentisse la riqualificazione del fatto sotto la specie di quello di lieve entità; richiamando, sul punto, l'elevata capacità criminale del gruppo di riferimento dell'attività di gestione del traffico dello stupefacente, facente riferimento a famiglie mafiose, nonché al dato in base al quale la cessione in questione non avrebbe potuto ritenersi episodio isolato. Ciò posto, la motivazione adottata dalla Corte territoriale appare intrinsecamente illogica nella parte in cui - al fine di giustificare la valutazione in senso negativo degli indicatori previsti dalle norme di riferimento - ha richiamato la capacità criminale del gruppo gestore dell'attività di spaccio cui peraltro il Gi.Fe., nell'ambito delle sentenze di merito, è stato ritenuto estraneo, venendo prosciolto dal reato previsto dall'art. 74 T.U. stup. Mentre, d'altra parte, risulta non adeguatamente specificato il ragionamento inerente al dedotto carattere non occasionale della condotta, atteso che la richiamata intercettazione si riferiva comunque, in senso univoco a una sola pregressa cessione di hashish. Pertanto, la motivazione della Corte territoriale risulta censurabile in ordine alla necessaria valutazione sinottica dell'oggettivamente modesto dato ponderale unitamente agli altri elementi elencati nell'art. 73, comma 5, T.U. stup., con la conseguenza che la sentenza impugnata deve essere, sul punto, annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo. 14. Vanno quindi esaminati i motivi di ricorso con i quali il Ma.Gi. e il Gr.Gi. hanno chiesto di riqualificare le imputazioni concretizzanti i reati fine dell'associazione sotto la specie di quello previsto dall'art. 73, comma 5, T.U. stup. Sul punto, nell'esposizione dei rispettivi motivi di ricorso, gli imputati hanno fatto riferimento al dato numerico asseritamente modesto delle cessioni e al limitato quantitativo di sostanze sottoposte a sequestro. 14.1. Va quindi premesso che la Corte territoriale ha ritenuto non riqualificabili le predette condotte sotto la specie del fatto di lieve entità in considerazione della riconducibilità delle condotte all'esecuzione del programma criminoso dell'associazione, dei comprovati contatti della stessa con gruppi mafiosi, della disponibilità di rilevanti quantità di stupefacente anche di diversa natura, dalla reiterazione dei fatti di cessione, dalle condotte finalizzate al recupero dei debiti derivanti dalle cessioni medesime. Deve quindi osservarsi, sempre prendendo le mosse dai principi contenuti nella sentenza Muralo delle Sezioni Unite, che - traendo spunto dalla parte motiva di Sez. 4, n. 476 del 25/11/2021, dep.2022, Quaranta, Rv. 282704 - il giudizio di qualificazione dei reati fine può prendere in considerazione anche il dato quantitativo inerente agli approvvigionamenti del gruppo quale indice di una finalizzazione di essi alla commissione di fatti non riconducibili allo spaccio di lieve entità, ma deve essere fatta salva, in ogni caso, una valutazione complessiva della pericolosità della condotta alla luce di tutti gli indici disponibili. Conseguendone che il giudice deve guardarsi dal rischio di un ragionamento circolare che desuma gli elementi indicativi del fatto non lieve dall'esistenza di un vincolo associativo, dovendosi piuttosto esaminare in prima battuta il concreto atteggiarsi dell'elemento materiale dei reati-scopo, con sguardo libero dal giudizio che attiene all'offensività dell'associazione criminale. Sul punto, la Corte di legittimità ha affermato (Sez. 3, n. 44837 del 06/02/2018, Caprioli, Rv. 274696) che ai fini della configurabilità del reato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti di lieve entità non è sufficiente considerare la natura dei singoli episodi di cessione accertati in concreto e che occorre valutare il momento genetico dell'associazione, nel senso che essa deve essere stata costituita per commettere cessioni di stupefacente di lieve entità, e le potenzialità dell'organizzazione, con riferimento ai quantitativi di sostanze che il gruppo è in grado di procurarsi. Ciò significa che è necessario valutare se il fatto che le cessioni siano, di volta in volta, eseguite mediante la consegna agli acquirenti di quantitativi esigui, si accompagni ad analoga esiguità delle quantità di droga trattate e offerte in vendita dagli associati nel loro complesso. Tale valutazione, funzionale alla corretta qualificazione del reato associativo, non può tuttavia essere posta a fondamento della qualificazione del singolo reato-fine, tant'è vero che l'accertamento di una serie di reati-fine di lieve entità non impedisce di escludere che tale fosse l'obiettivo originario nei programmi del gruppo criminale. Come è stato già precisato da questa Sezione, deve essere esclusa la sussistenza di una stretta relazione tra la fattispecie criminosa di cui all'art. 74, comma 6, T.U. Stup. e la qualificazione giuridica dei fatti contemplati dall'art. 73 T.U. Stup. in concreto contestati agli imputati, e singolarmente ritenuti di lieve entità, nel senso che l'associazione per delinquere può essere finalizzata alla commissione di fatti di cessione che, considerati poi singolarmente, presentano le caratteristiche di cui all'art. 73, comma 5, e tuttavia la complessiva attività di spaccio, in concreto esercitata, potrebbe esorbitare dalla previsione di fatto di lieve entità, avuto riguardo alla molteplicità degli episodi di spaccio, al loro reiterarsi in ampio arco di tempo e alla predisposizione di un'idonea e strutturata organizzazione (Sez. 4, n. 38133 del 02/07/2013, Cuomo, in motiv.). Il tutto fermo restando che è legittimo il mancato riconoscimento del delitto di cui all'art. 73, comma 5, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nel caso in cui l'attività di spaccio sia svolta in un contesto organizzato le cui caratteristiche, quali il controllo di un'apprezzabile zona del territorio, l'impiego di mezzi funzionali a tale scopo, l'accertata reiterazione delle condotte e la disponibilità di tipologie differenziate di sostanze stupefacenti, pur se in quantitativi non rilevanti, siano sintomatiche della capacità dell'autore del reato di diffondere in modo sistematico sostanza stupefacente (Sez. 6, n. 3363 del 20/12/2017, dep. 2018, Cesarano Rv. 272140; Sez. 2, Sentenza n. 5869 del 28/11/2023, dep. 2024, Costa). 14.2. Applicando i detti principi al caso in esame - con conseguente rigetto della censura - deve ritenersi che la motivazione adottata dalla Corte territoriale sia congrua e priva di elementi di illogicità in ordine alla posizione del Ma.Gi.; nei confronti del quale, i giudici di secondo grado, nel rigettare la relativa censura difensiva, hanno valorizzato il numero dei reati fine, la diversità delle sostanze trattate e il quantitativo ponderale non lieve delle medesime. 14.3. In riferimento specifico alla posizione del Gr.Gi., deve invece ritenersi che sia mancata una specifica e compiuta analisi delle caratteristiche concrete dell'unico reato fine ascritto, atteso che allo stesso è stata contestata la sola condotta di acquisto di dieci grammi di cocaina. Deve infatti rilevarsi una complessiva assenza di confronto con i dati istruttori emergenti in relazione ai singoli episodi, in quanto la Corte territoriale - sulla base di una valutazione di tipo cumulativo riferita a tutti gli imputati di reati fine - ha sovrapposto gli indici utili all'accertamento del reato associativo all'analisi delle caratteristiche del singolo episodio, fornendo in definitiva una motivazione solo apparente. Atteso che, sulla base dei principi sopra esposti, non può considerarsi corretto inferire dal quadro associativo l'incompatibilità di fatti di lieve entità, o giustificare la qualificazione del singolo episodio sulla base delle caratteristiche strutturali e operative del sodalizio con i quali l'organizzazione si sia relazionata nel tempo, senza un confronto, che non sia meramente apparente, con le caratteristiche della singola cessione contestata con autonomo capo di imputazione. Per tali ragioni, la sentenza deve essere annullata nei confronti di tale imputato con rinvio alla Corte di appello di Palermo affinché riesamini il punto inerente alla qualificazione del singolo episodio contestato al ricorrente. 15. Vanno quindi congiuntamente esaminati i motivi di ricorso proposti dalle difese di Ma.Gi., An.Fi., Gr.Gi. e Co.Pa., con i quali gli stessi hanno contestato la valutazione compiuta dai giudici di merito in ordine alla concretizzazione della circostanza aggravante prevista dall'art. 416-bis.1 cod. pen. e specificamente ritenuta sussistente dalla Corte territoriale in ordine alla sola fattispecie associativa (mentre la difesa del Li.Fr. ha operato un riferimento al suddetto articolo nella sola intestazione del motivo, senza però addurre alcuna considerazione a sostegno). I motivi sono complessivamente fondati. 15.1. Sul punto, va pregiudizialmente ritenuta infondata la deduzione difensiva spiegata dal Ma.Gi. nel relativo motivo di ricorso, con il quale è stata censurata la motivazione della Corte territoriale nella parte in cui non ha escluso expressis verbis l'applicazione della predetta aggravante anche in relazione ai reati fine; essendo chiaro - sulla base della necessaria lettura sinottica della motivazione e del dispositivo delle sentenze di merito - che la predetta aggravante è stata considerata, ai fini sanzionatori, in ordine al solo reato associativo (non ravvisandosi, sul punto, neanche alcun contrasto tra parte dispositiva e parte motiva che debba in questa sede essere analizzato). 15.2. Deve quindi essere premesso che, in relazione al vigente testo dell'art. 416-bis.1 cod. pen. - e in espressa integrazione del percorso motivazionale seguito dal Tribunale - la Corte territoriale, oltre a condividere le valutazioni compiute nella sentenza di primo grado in ordine alla finalità di agevolazione della famiglia mafiosa di Corso (Omissis), ha ritenuto ravvisabile l'aggravante in questione anche in relazione all'utilizzo del c.d. metodo mafioso; specificamente ritenendo comprovato l'utilizzo di metodi intimidatori, in particolare nella riscossione dei debiti. contratti, con creazione di una conseguente condizione di assoggettamento e di intimidazione; tanto in relazione al vigente testo della disposizione - nel cui ambito è stato trasfuso quello dell'art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152 - ai sensi del quale la predetta aggravante a effetto speciale si applica per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo "commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo (...)". Si verte quindi nella previsione di due circostanze tra di loro distinte; difatti, quella della finalità agevolatrice del sodalizio mafioso, sulla base dell'arresto espresso da Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, Chioccini, Rv. 278734, deve qualificarsi come circostanza di natura soggettiva. A tale proposito, il Supremo Collegio ha rilevato che la forma aggravata in esame esige che l'agente deliberi l'attività illecita nella convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa: è necessario però, affinché il reato non sia privo di offensività, che tale rappresentazione si fondi su elementi concreti, inerenti, in via principale, all'esistenza di un gruppo associativo avente le caratteristiche di cui all'art. 416-bis cod. pen. ed alla effettiva possibilità che l'azione illecita si inscriva nelle possibili utilità, anche non essenziali al fine del raggiungimento dello scopo di tale compagine, secondo la valutazione del soggetto agente, non necessariamente coordinata con i componenti dell'associazione. Trattandosi, infatti, di un'aggravante che colpisce la maggiore pericolosità di una condotta, ove finalizzata all'agevolazione, è necessario che la volizione che la caratterizza possa assumere un minimo di concretezza, anche attraverso una mera valutazione autonoma dell'agente, che non impone un raccordo o un coordinamento con i rappresentanti del gruppo e, soprattutto, non prevede che il fine rappresentato sia poi nel concreto raggiunto, pur essendo presenti tutti gli elementi di fatto, astrattamente idonei a tale scopo; rilevandosi che tale finalità non deve essere esclusiva, ben potendo accompagnarsi ad esigenze egoistiche quali, ad esempio, la volontà di proporsi come elemento affidabile al fine dell'ammissione al gruppo o qualsiasi altra finalità di vantaggio, assolutamente personale, che si coniughi con l'esigenza di agevolazione. Mentre, in ordine al tema - rilevante nel caso di specie - dell'applicabilità dell'aggravante anche ai concorrenti nel reato, le Sezioni Unite hanno argomentato che - là dove l'elemento interno proprio di uno degli autori sia stato conosciuto anche dal concorrente che non condivida tale fine - quest'ultimo viene a far parte della rappresentazione ed è quindi oggetto del suo dolo diretto ove il concorrente garantisce la sua collaborazione nella consapevolezza della condizione inerente il compartecipe. Conseguendone che il concorrente nel reato, che non condivida con il coautore la finalità agevolativa, ben può rispondere del reato aggravato, le volte in cui sia consapevole della finalità del compartecipe, secondo la previsione generale dell'art. 59, secondo comma, cod. pen., che attribuisce all'autore del reato gli effetti delle circostanze aggravanti da lui conosciute e con esclusione dell'imputazione della circostanza in caso di comportamento del concorrente che si ritenga caratterizzato da mera colpa. 15.3. Per quello che riguarda, invece, l'aggravante caratterizzata dall'utilizzo del c.d. metodo mafioso, in quanto riferita alle modalità di realizzazione dell'azione criminosa, la stessa ha natura oggettiva ed è valutabile a carico dei concorrenti, sempre che siano stati a conoscenza dell'impiego del metodo medesimo ovvero l'abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa. Essa, pertanto, ricorre ogniqualvolta gli agenti, per la consumazione del reato, pongano in essere comportamenti, a prescindere dalla loro natura e dalle loro caratteristiche, che siano comunque espressione del "metodo mafioso", nel senso che la violenza con cui essi sono compiuti risulti concretamente collegata alla forza intimidatrice del vincolo associativo. È configurabile, quindi, l'aggravante nel caso, in cui la condotta delittuosa sia stata oggettivamente funzionale a creare nella vittima la peculiare condizione di assoggettamento derivante dal prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici promananti non da un singolo, ma dall'intero gruppo mafioso, per di più nell'esercizio dei poteri di coercizione nei confronti degli affiliati resisi responsabili di condotte ritenute trasgressive del patto sociale (Sez. 2, n. 39424 del 09/09/2019, Pagnotta, Rv. 277222; Sez. 5, n. 22554 del 09/03/2018, Marando, Rv. 273190; Sez. 6, n. 30246 del 17/05/2002, Giampà, Rv. 222427), applicandosi quindi ai concorrenti la regola di imputazione prevista dall'art. 59 cod. pen. (Sez. 4, n. 5136 del 02/02/2022, Arlotta, Rv. 282602). 15.4. Ciò premesso, deve ritenersi che - in relazione alla finalità agevolatrice del sodalizio mafioso (specificamente identificato nella famiglia di Corso (Omissis)), la motivazione delle sentenze di merito si appalesi come sostanzialmente apodittica finendo per ricadere nell'ambito di quella caratterizzata dalla mera apparenza. In riferimento, difatti, alla citata giurisprudenza e alla necessità di un nesso strumentale e finalistico tra la condotta del reo e l'agevolazione del sodalizio criminoso, deve rilevarsi come la sentenza di primo grado - dopo avere riassunto la genesi della formazione del sodalizio ed evidenziato l'appartenenza dell'An.Fi. alla famiglia mafiosa di Corso (Omissis) e i contatti (ai fini delle operazioni di approvvigionamento della sostanza stupefacente) con appartenenti ad altre famiglie mafiose - abbia da ciò dedotto, con quello che deve considerarsi un evidente salto logico, che la finalità della condotta fosse quella di "agevolare l'associazione mafiosa" (pag. 25 della sentenza di primo grado); sulla base di un apparato motivazionale che, sullo specifico punto, non trova alcuna effettiva integrazione nella sentenza di secondo grado, ove la Corte territoriale si è limitata a evocare le predette conclusioni giurisprudenziali in ordine alla natura dell'aggravante senza operarne un effettivo calo nella fattispecie concreta in esame. Deve quindi rilevarsi come manchi del tutto, nell'apparato argomentativo delle sentenze di merito - e al di là del riferimento alla "caratura mafiosa" dell'An.Fi. e del Mi.Sa. - l'esplicazione del nesso tra la condotta e la finalità agevolatrice del sodalizio mafioso e della conseguente e necessaria relazione strumentale; mentre, di contro e alla luce dei predetti principi, alcuna argomentazione risulta essere stata spesa in ordine alla sussistenza dei presupposti di fatto necessari per l'imputazione della circostanza nei confronti di tutti i concorrenti nel reato associativo. 15.5. Va altresì ritenuto che analogo vizio di motivazione apparente sia ravvisabile in relazione alla circostanza dell'utilizzo del metodo mafioso, ravvisata dalla Corte territoriale. Sul punto - come sopra rilevato - non è necessario che l'utilizzo di condotte intimidatorie sia, di fatto, collegato con la sussistenza di un sodalizio mafioso effettivamente esistente e non occorre che sia dimostrata o contestata la preesistenza di un'associazione per delinquere, essendo necessario solo che la violenza o la minaccia assumano la veste propria della violenza o della minaccia mafiosa, ossia di quella ben più penetrante, energica ed efficace che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici delitti (Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, Rv. 271103; Sez. 2, n. 36431 del 02/07/2019, Bruzzese, Rv. 277033; Sez. 2, n. 32564 del 12/04/2023, Bisogni, Rv. 285018); peraltro, con conclusione specularmente logica, ne consegue che la circostanza è configurabile subordinatamente alla sussistenza nel caso concreto di condotte specificamente evocative della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo, non potendo essere desunta dalle mere caratteristiche soggettive di chi agisce, anche in concorso con altri (Sez. 5, n. 42818 del 19/06/2014, Savarese, Rv. 261761); non è quindi sufficiente la "caratura mafiosa" degli autori del fatto occorrendo, invece, l'effettivo utilizzo del metodo mafioso e, cioè l'impiego della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo (Sez. 2, n. 28861 del 14/06/2013, Cardella, Rv. 256470), salvo che il fatto non sia commesso in un territorio in cui è radicata un'organizzazione mafiosa storica, che il soggetto agente si riferisca implicitamente al potere criminale della consorteria, in quanto tale potere è di per sé noto alla collettività (Sez. 2, n. 34786 del 31/05/2023, Gabriele, Rv. 284950). Nel caso di specie, la Corte territoriale si è limitata a fare riferimento alla concreta genesi del sodalizio (e alla conseguente "caratura mafiosa" dell'An.Fi. e del Mi.Sa., in quanto soggetti che avevano appena finito di scontare una condanna per il reato previsto dall'art. 416-bis cod. pen.) e al dedotto utilizzo di metodi intimidatori; peraltro genericamente evocati mediante la citazione di una conversazione captata tra due soggetti non inseriti nel sodalizio (intercettata il 20/06/2017) e facenti mero riferimento al mutamento delle dinamiche criminali nella zona e alla dedotta esigenze di raccogliere denaro per favorire i carcerati, nonché a una conversazione intercettata il 21/03/2018, nel quale il Ma.Gi. aveva manifestato il suo proposito di utilizzare metodi aggressivi per il recupero di un credito. Appare quindi del tutto apodittica la conclusione della Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto che sarebbe stato complessivamente utilizzato da parte di membri del sodalizio un "metodo delinquenziale che evocava a tutti gli effetti la contiguità del sodalizio alla famiglia mafiosa di Corso (Omissis), in tal modo creando una condizione di assoggettamento ovvero di intimidazione". Mentre, di contro, appare anche essere stata - di fatto - omessa una adeguata motivazione in ordine all'estensione dell'applicazione della circostanza nei confronti dei concorrenti, giustificata per l'An.Fi. e il Mi.Sa. sulla base della loro caratura criminale, per il Ma.Gi. dall'avere fatto utilizzo di metodi violenti e, per gli altri concorrenti, dalla generica considerazione relativa alla consapevolezza dello spessore criminale dei correi. Per l'effetto, in ordine al profilo inerente all'applicazione della circostanza aggravante prevista dall'art. 416-bis.1 cod. pen., la sentenza deve essere annullata con rinvio alla Corte d'appello di Palermo, per nuovo esame condotto alla luce dei predetti parametri. Trova altresì applicazione il principio previsto dall'art. 587 cod. proc. pen. che consente l'estensione, all'imputato non validamente impugnante sul punto, degli effetti favorevoli derivanti dall'accoglimento del motivo di natura oggettiva dedotto dai coimputati in relazione alla qualificazione giuridica dei reati contestati; ne consegue che il nuovo esame deve essere condotto in relazione a tutti gli imputati condannati in relazione al reato previsto dall'art. 74, commi 1 e 2, T.U. stup. (Ma.Gi., Li.Fr., An.Fi., Gr.Gi., Co.Pa. e Mi.Sa.). 16. Va quindi esaminato il profilo di diritto introdotto dal Li.Fr., nell'ambito del secondo motivo di ricorso, attinente al dedotto difetto di motivazione in ordine alla concreta dosimetria della pena in ordine al reato previsto dall'art. 74, comma 2, T.U. stup. La censura è inammissibile, in quanto manifestamente infondata. Sul punto, questa Corte ha avuto più volte modo di precisare che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione - non sindacabile in sede di legittimità - è sufficiente che dia conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (ex multis, Sez. 3, n. 6877 del 26/10/2016, dep. 2017, Rv. 269196; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017. Mastro, Rv. 271243); essendosi altresì stato specificato che non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione del giudice nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale che deve essere calcolata non dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale ed aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288). Nel caso di specie, quindi, va rilevato come la pena concretamente inflitta per il reato base sia corrispondente a quella di dieci anni, pari al minimo edittale previsto dall'art. 74, comma 2, T.U. stup., con la conseguenza che alcun onere di specifica motivazione ricadeva sui giudici di merito. 17. Con il sesto motivo di ricorso, la difesa dell'An.Fi. ha contestato la motivazione delle sentenze impugnate in punto di applicazione dell'aumento di pena per la recidiva; argomentando come le precedenti condanne riportate fossero risalenti nel tempo e deducendo che ragioni di contenimento del trattamento sanzionatorio avrebbero dovuto indurre a non apportare alcun aumento di pena a tale titolo. Il motivo è inammissibile, in quanto omissivo del necessario confronto con le statuizioni adottate sul punto dal giudice d'appello in risposta al relativo motivo di impugnazione. Sul punto, va ricordato che, in tema di recidiva facoltativa, è richiesta al giudice una specifica motivazione, sia che egli affermi, sia che escluda la sussistenza della stessa; dovendosi peraltro ritenere che tale dovere risulta adempiuto nel caso in cui, con argomentazione succinta, si dia conto del fatto che la condotta costituisce significativa prosecuzione di un processo delinquenziale già avviato (Sez. 6, n. 56972 del 20/06/2018, Franco, Rv. 274782) e che, anzi, l'onere può essere adempiuto anche implicitamente, ove si dia conto della ricorrenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore (Sez. 6, n. 20271 del 27/04/2016, Duse, Rv. 267130). Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato congruamente atto dei presupposti per l'applicazione della recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale sulla base del titolo delle precedenti condanne (una per associazione mafiosa e l'altra per estorsione aggravata) e del conseguente giudizio di elevata pericolosità sociale, tale da rendere concreto il pericolo di ricaduta nel crimine. 18. In ordine ai profili inerenti al trattamento sanzionatorio, va esaminato il rilievo formulato dalla difesa del Ma.Gi. nel secondo motivo di ricorso; con il quale è stata censurata la motivazione delle sentenze di merito per non avere indicato in maniera specifica gli aumenti irrogati per la continuazione applicata per i reati-fine contestati. Il motivo non è fondato. Sul punto, va richiamato l'arresto espresso da Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269; nel quale il Collegio ha rilevato che, in tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l'aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite; precisando peraltro che il grado di impegno motivazionale richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena è correlato all'entità degli stessi e tale da consentire di verificare che sia stato rispettato il rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, che risultino rispettati i limiti previsti dall'art. 81 cod. pen. e che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene. Nel caso di specie, in considerazione del limitato aumento di pena apportato in relazione alla molteplicità di reati fine contestati (e pari complessivamente a un anno) deve ritenersi - alla luce del predetto principio - che non sussistesse un puntuale onere di argomentazione specifica per ciascuna fattispecie ascritta, non venendo in considerazioni surrettizie violazioni dei principi connessi all'istituto del cumulo giuridico. 19. Vanno quindi esaminati, in quanto ponenti analoghe questioni, il quarto motivo di ricorso proposto dal Ma.Gi., il primo punto del secondo motivo di ricorso proposto da Li.Fr. e il secondo motivo di ricorso proposto dal Co.Pa. In tali motivi, le rispettive difese - in relazione agli aumenti di pena rispettivamente irrogati a seguito dell'applicazione della recidiva - hanno richiamato il disposto dell'art. 99, comma 6, cod. pen., ai sensi del quale "in nessun caso l'aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condotte precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo", limite quantitativo applicabile a tutte le ipotesi di recidiva e non solo a quella reiterata (Sez. 3, n. 31293 del 08/05/2019, M., Rv. 276291-02); profilo di diritto già dedotto in sede di motivi di appello e comunque rilevabile d'ufficio, in sede di legittimità, attenendo a un aspetto di legalità della pena. Sulla base della sentenza di primo grado (integralmente confermata anche sul punto da quella di appello), ai tre predetti imputati è stato applicato - in conseguenza della ritenuta recidiva - un aumento pari ad anni sei e mesi otto di reclusione ciascuno. Risulta quindi dagli allegati certificati penali (le cui risultanze sono state comunque espressamente trasfuse alla pag. 139 della sentenza di appello) che l'entità complessiva delle precedenti condanne inflitte al Ma.Gi., al Li.Fr. e al Co.Pa. - pure tenendo conto del dato in base al quale, ai fini che qui interessano, nel cumulo delle precedenti condanne si deve tener conto anche di quelle a pena detentiva integralmente condonata a seguito di indulto, in quanto la concessione del suddetto beneficio, pur estinguendo la pena e facendone cessare l'espiazione, non ha, però, efficacia ablativa degli altri effetti penali scaturenti ape legis dalla condanna (Sez. 1, n. 48405 del 12/04/2017, F., Rv. 271415) - hanno riportato un'entità complessiva di pene detentive inferiore rispetto all'aumento apportato dai giudici di merito a seguito dell'applicazione della recidiva. Va rilevato che il predetto profilo di diritto introduce una questione di legalità della pena (come rilevato da Sez. 2, n. 21426 del 15/03/2023, La Barbera, Rv. 284716, in relazione specifica al rispetto del disposto dell'art. 99, ultimo comma, cod. pen.), derivandone che il relativo profilo di diritto è comunque esaminabile d'ufficio da parte della Corte anche in relazione alla posizione degli imputati - e, in particolare, del Li.Fr. e del Co.Pa. - che non avevano fatto valere la relativa doglianza in sede di appello, attesi i poteri conferiti alla Corte di Cassazione in punto di rilievi attinenti all'illegalità della sanzione (su cui Sez. U, n. 38809 del 31/03/2022, Miraglia, Rv. 283689). Ne consegue che, sul punto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte d'appello di Palermo; la quale dovrà quindi provvedere a rideterminare il trattamento sanzionatorio nei confronti del Ma.Gi., del Li.Fr. e del Co.Pa. - ferme restando le ulteriori valutazioni da operare in riferimento all'aggravante prevista dall'art. 416-bis.1 cod. pen. - nel rispetto del principio dettato dall'art. 99, ult. comma, cod. pen. 20. Vanno quindi unitariamente esaminati, in quanto attinenti a tematiche comuni, i motivi di ricorso proposti dalle difese del Li.Fr., dell'An.Fi., del Gi.Fe. e del Co.Pa., con i quali è stata censurata la sentenza della Corte territoriale in punto di mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche; mentre vanno dichiarati in limine inammissibili i motivi di ricorso proposti sul punto dal Co.Pa. e dal Gi.Fe., per difetto di specificità intrinseca, non contenendo gli stessi alcun effettivo raffronto con le argomentazioni poste alla base del rigetto della relativa richiesta. I motivi proposti da Li.Fr. e dell'An.Fi. sono infondati, avendo la Corte operato un adeguato confronto con le deduzioni poste alla base del motivo di appello. A tale proposito va ricordato che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis cod. pen., disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell'imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986; Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, Guarnieri, Rv. 283489); mentre, sul punto, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, Sentenza n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549, che ha specificato che al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all'uopo sufficiente); tutto ciò fermo restando che - come riconosciuto nella sentenza di annullamento con rinvio - è illegittima la motivazione della sentenza d'appello che, nel confermare il giudizio di insussistenza delle circostanze attenuanti generiche, si limiti a condividere il presupposto dell'adeguatezza della pena in concreto inflitta, omettendo ogni apprezzamento sulla sussistenza e rilevanza dei fattori attenuanti specificamente indicati nei motivi d'impugnazione (Sez. 6, n. 46514 del 23/10/2009, Tisci, Rv. 245336; Sez. 6, n.20023 del 30/01/2014, Gligora, Rv. 259762). Nel caso di specie, deve quindi ritenersi congrua e immune dal dedotto vizio di carenza di motivazione, l'argomentazione spese dalla Corte territoriale, nella parte in cui ha sottolineato l'elemento ostativo derivante dalla oggettiva gravità dei fatti ascritti e del numero dei precedenti penali da cui risultano gravati i tre predetti imputati. 21. Conclusivamente: la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di Ma.Gi., Li.Fr., An.Fi., Gr.Gi., Co.Pa. e Mi.Sa., con rinvio alla Corte d'appello di Palermo affinché riesamini il profilo attinente alla ravvisabilità della circostanza aggravante prevista dall'art. 416-bis.1 cod. pen.; la sentenza deve essere annullata nei confronti di Gr.Gi. e Gi.Fe. con rinvio alla Corte d'appello di Palermo affinché provveda a rivalutare il punto inerente alla qualificazione degli episodi ascritti rispettivamente ai capi 11) e 14) del capo di imputazione sotto la fattispecie prevista dall'art. 73, comma 5, T.U. stup.; la sentenza deve essere annullata nei confronti di Ma.Gi., Li.Fr. e Co.Pa. con rinvio alla Corte d'appello di Palermo affinché provveda alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio alla luce della corretta applicazione del disposto dell'art. 99, ultimo comma, cod. pen.; i ricorsi proposti da Ma.Gi., Li.Fr., An.Fi., Gr.Gi., Co.Pa. e Gi.Fe. vanno rigettati nel resto; il ricorso proposto da Mi.Sa. va dichiarato inammissibile nel resto. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Ma.Gi., Li.Fr., An.Fi., Gr.Gi., Co.Pa. nonché, ai sensi dell'art. 587 cod. proc. pen., nei confronti di Mi.Sa. in ordine alla sussistenza della circostanza aggravante contestata ai sensi dell'art. 416-bis.1 cod. pen. e rinvia alla Corte di appello di Palermo, altra sezione, per nuovo giudizio. Annulla altresì la sentenza impugnata nei confronti di Gr.Gi. e Gi.Fe. in ordine alla qualificazione giuridica dei reati rispettivamente contestati ai capi 11 e14 e rinvia alla Corte di appello, altra sezione, per nuovo giudizio. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Ma.Gi., Li.Fr. e Co.Cl. limitatamente all'applicazione dell'aumento di pena ai sensi dell'art. 99, u.c. cod. pen. e rinvia alla Corte di appello di Palermo, altra sezione, per nuovo giudizio. Rigetta nel resto i ricorsi di Ma.Gi., Li.Fr., An.Fi., Gr.Gi., Co.Pa. e Gi.Fe. Dichiara inammissibile il ricorso di Mi.Sa. Così deciso il 19 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

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