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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere Dott. PEZZELLA Vincenzo - Relatore Dott. CENCI Daniele - Consigliere Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ca.Fr. nato a A il (Omissis) avverso la sentenza del 04/10/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO PEZZELLA; Lette le conclusioni scritte per l'udienza senza discussione orale (art. 23 co. 8 d.l. 137/2020 conv. dalla l. n. 176/2020, come prorogato ex art. 16 d.l. 228/21 conv. con modif. dalla 1.15/22 e successivamente ex art. 94, co. 2, del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, come sostituito prima dall'art. 5-duodecies della l. 30.12.2022, n. 199, di conversione in legge del d.l. n. 162/2022) e poi dall'art. 17 del D.L. 22 giugno 2023, conv. con modif. dalla l. 10.8.2023 n. 112, del P.G., in persona del Sost. Proc. Gen. SABRINA PASSAFIUME, che ha chiesto annullarsi con rinvio la sentenza impugnata in relazione alla sospensione della patente e rigettarsi il ricorso nel resto. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 1° luglio 2022 il Tribunale di Agrigento, in composizione monocratica, all'esito di giudizio ordinario, ha dichiarato Ca.Fr. colpevole del reato di cui agli artt. 186, co. 2, lett c) e co. 2-bis cod. strada, perché in (Omissis) di A, guidava in stato di ebrezza alcoolica l'autovettura Volkswagen Polo targata (Omissis), come accertato da personale sanitario con referto del 10.9.2019 nr. (Omissis) dell'Ospedale (Omissis) di A, che rilevava un tasso alcolemico di 2,19 g/l alle ore 22: 14 circa; con l'aggravante di aver commesso un incidente stradale. Commesso in Agrigento, in data 10/09/2019 e, con le circostanze attenuanti generiche, lo ha condannato alla pena di mesi sei di arresto ed Euro 2000 di ammenda, con la sospensione della patente di guida per anni due. Sull'appello proposto dall'imputato, la Corte di Appello di Palermo, con la sentenza in epigrafe, in parziale riforma della sentenza di primo grado, esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 182, comma 2-sexies, cod. strada ha rideterminato la pena in mesi quattro di arresto ed Euro 1000 di ammenda confermando nel resto la sentenza impugnata. 2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, il Ca.Fr., deducendo, i motivi, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, co. 1, disp. att., cod. proc. pen. Con un primo motivo il ricorrente lamenta l'inutilizzabilità della prova acquisita, di tipo patologico, in quanto la misurazione del tasso alcolemico veniva richiesta dalla p.g. ai sanitari del pronto soccorso mediante prelievo ematico in assenza di alcuna esigenza diagnostica, per cui occorreva che l'imputato fosse informato del diritto di farsi assistere da un difensore. Ci si duole che la doglianza in questione sia stata proposta in sede di appello ma che la Corte territoriale non abbia fornito alcuna risposta sul punto, Si ritiene, pertanto, che la sentenza impugnata violi il disposto degli articoli 191, 354 e 356 e 114 dpsp. att. e 546, comma 1, lett. a) cod. pen. e presenti, comunque, una motivazione omessa in quanto l'acquisizione di un prelievo ematico, ancorché finalizzato all'accertamento del tasso alcolemico costituisce, al pari della ricerca della prova finalizzata alla ricerca del dna, un atto idoneo ad incidere sulla libertà personale che in quanto tale trova tutela anche nell'articolo 8 della CEDU. La Corte territoriale sarebbe, poi, venuta meno al proprio dovere di dare contezza della prova acquisita e dell'illegittimità della procedura seguita, indipendentemente dall'eventuale eccezione proposta dalla difesa. Con un secondo motivo ci si duole, sempre sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, della violazione del divieto di reformatio in peius, in quanto, in accoglimento del motivo sul punto proposto dalla difesa, la Corte territoriale ha escluso l'aggravante ad effetto speciale dell'incidente di cui al comma 2-bis dell'articolo 186 cod. strada e ha rideterminato la pena in mesi quattro di arresto mantenendo la sanzione accessoria della patente in anni due. Il ricorrente sostiene che, venuta meno l'aggravante ad effetto speciale, nel calcolo della pena la Corte avrebbe dovuto diminuire la stessa della metà e quindi sanzionare l'imputato con mesi tre di arresto e non con quella di quattro mesi effettivamente irrogata. Analogamente, per quanto riguarda la sanzione ar1ministrativa accessoria, venuta meno l'aggravante, avrebbe dovuto ridurre la sanzione da anni due ad uno. A ciò si aggiunga che la Corte territoriale, nel rideterminare la pena, non ha fornito alcuna motivazione in riferimento ai parametri di cui all'articolo 133 cod. pen. Pare evidente al ricorrente che. esclusa la specifica aggravante di cui al comma 2-bis. il fatto di reato ha assunto un evidente, diverso e minore disvalore che avrebbe dovuto comportare una nuova valutazione. da parte del giudice, che doveva sfociare in una pena più mite. Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata. 3. Il PG presso questa Corte ha reso le conclusioni scritte riportate in epigrafe. 4. Il primo motivo di ricorso è infondato. Ed invero, la Corte territoriale, conformandosi alla costante giurisprudenza di legittimità sul punto, ha correttamente chiarito che l'eccezione relativa all'utilizzabilità dell'accertamento ematico effettuato nei confronti del conducente che cagioni un sinistro in stato di ebbrezza, non avvisato della facoltà di assistenza legale, integra una nullità a regime intermedio, che può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182 co. 2 cod. proc. pen., fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado (Sez. U, n. 5396 del 29/01/2015, Rv. 263023 - 01; conf. Sez. 4 n. 44962/2021, Rv. 282245 - 01). Nella specie, come rilevato dalla corte d'appello (e non censurato dal ricorrente), l'eccezione non è stata utilmente sollevata prima della pronuncia della sentenza di primo grado, di talché deve ritenersi tardiva, con conseguente piena utilizzabilità dei risultati dell'accertamento del tasso alcolemico. 5. Il secondo motivo di ricorso, invece, è fondato limitatamente alla durata della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida. Il motivo in questione, invece, è infondato quanto alla pena irrogata, che, diversamente da quanto si assume in ricorso, non viola il divieto di reformatio in peius. La Corte territoriale, in primo luogo, ha rilevato che non risultava alcuna contestazione del comma 2-sexies dell'articolo 186 del codice della strada, per cui ha eliminato i 500 Euro di ammenda che il giudice di primo grado aveva irrogato in relazione alla stessa. Quanto poi alla circostanza aggravante ad effetto speciale di cui al comma 2bis del medesimo articolo 185 cod. strada, i giudici del gravame del merito hanno evidenziato che nella motivazione del provvedimento impugnato non vi è alcun cenno alla causazione dell'incidente e hanno ritenuto, pertanto, che il giudice di primo grado avesse tacitamente escluso l'aggravante in questione, che, dunque, non poteva essere messa nuovamente in discussione in assenza di autonomo appello della pubblica accusa. Da tali considerazioni discende che La Corte territoriale ha correttamente ritenuto che la pena base indicata nella sentenza di primo grado in mesi sei di arresto ed Euro 1500 di ammenda, peraltro corrispondente al minimo edittale, fosse quella di cui all'articolo 186, comma 1 lettera c). senza alcuna aggravante. È chiamata a rivalutare i fatti in ragione del venir meno dell'aggravante di cui al comma 2-sexies erroneamente ritenuta dal primo giudice ma non contestata, ha quindi ridotto la pena a mesi quattro di arresti di Euro 1000 di ammenda tenendo conto della riduzione di un terzo per lei già concesse circostanze attenuanti generiche. Perciò per quanto riguarda la pena, non si profila alcuna violazione dell'art. 597 co. 3 cod. proc. pen. La quantificazione della pena, che nel caso in esame risulta ridotta e non aumentata, rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui sia applicata in misura media e, ancor di più se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 cod. pen. (così questa Sez. 4, n. 46412 del 5/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294 del 20/3/2013, Serratore, Rv. 256197; conf. Sez. 2, n. 28852 dell'8/5/2013, Taurasi e altro, Rv. 256464; Sez. 3, n. 10095 del 10/1/2013, Monterosso, Rv. 255153; Sez. 2, n. 36245 del 26/6/2009, Denaro, Rv. 245596). Diverse considerazioni si impongono, invece, con riferimento alla sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente, confermata nella misura massima di due anni, nonostante il ridimensionamento del fatto, con l'esclusione dell'aggravante di cui al comma 2-sexies non contestata e di quella della causazione dell'incidente di cui al comma 2-bis, e del trattamento sanzionatorio. Per consolidata giurisprudenza di questa Corte, il giudice, anche nel determinare la durata della sospensione della patente, laddove la stessa superi la c.d. media edittale, deve fornire adeguata motivazione, facendo riferimento alla gravità della violazione commessa, all'entità del danno riportato ed al pericolo che l'ulteriore circolazione potrebbe cagionare (Sez. 4, n. 37628/2021). Della motivazione anzidetta non vi è traccia nella sentenza impugnata, che si limita a confermare in toto la sanzione accessoria applicata in primo grado, contraddittoriamente rispetto al ridimensionamento del fatto di cui si è detto. 6. S'impone, pertanto l'annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla durata della sospensione della patente di guida con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo. Il ricorso va invece rigettato nel resto, conseguendone la declaratoria di irrevocabilità dell'affermazione di responsabilità. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla durata della sospensione della patente di guida con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte d'Appello di Palermo. Rigetta il ricorso nel resto. Visto l'art. 624 c.p.p. dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine all'affermazione della penale responsabilità dell'imputato. Così deciso il 3 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. RAGO Geppino - Presidente Dott. IMPERIALI Luciano - Consigliere Dott. D'AURIA Donato - Consigliere Dott. FLORIT Francesco - Relatore Dott. LEOPIZZI Alessandro - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ma.Fo. nato il (Omissis) avverso la sentenza del 03/05/2023 della CORTE APPELLO di TORINO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO FLORIT; udito il Sostituto Procuratore PAOLA MASTROBERARDINO che ha chiesto l'inammissibilità del ricorso; uditi i difensori Avv. FI.GI. e RI.CA. che si riportano ai motivi di ricorso e ne chiedono l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'impugnato provvedimento la Corte d'appello di Torino ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Torino che aveva condannato l'imputato alla pena di giustizia per i reati di rapina aggravata, sequestro di persona e lesioni aggravate commessi ai danni di Ma.Be. e di Gi.Ca. il 18 novembre 2009. Con la sentenza di appello veniva dichiarato di non doversi procedere per il reato di sequestro di persona per sopravvenuto difetto di querela e per il reato di lesioni per prescrizione, con rideterminazione della pena in cinque anni di reclusione e Euro 2.000,00 di multa. 2. L'imputato ha presentato ricorso per Cassazione basato sui seguenti motivi. 2.1 Con il primo motivo si deduce vizio di motivazione per manifesta illogicità e contraddittorietà in ordine alla valutazione del quadro indiziario ed in particolare (i) dell'esito dell'analisi del DNA, (ii) della ritenuta presenza dell'imputato in Italia all'epoca del fatto nonché (iii) del fallimento dell'alibi fornito dall'imputato. La ricostruzione operata dalla sentenza impugnata al fine di inficiare l'attendibilità dell'alibi dell'imputato e di evidenziarne la falsità, sarebbe frutto di un'elaborazione congetturale basata su elementi privi dei caratteri di precisione, univocità e gravità necessari (pg. 25). Quanto all'accertamento sul cerotto usato per tappare la bocca ad una delle vittime, la Corte non avrebbe tenuto in considerazione adeguata l'argomento difensivo addotto dall'imputato. 2.2 Con il secondo motivo si deduce omessa motivazione ed erronea interpretazione della legge penale in riferimento alla contestazione della recidiva reiterata. Poiché l'ultima delle tre sentenze di condanna (tutte divenute definitive tra il 2007 ed il 2008) ha posto il reato in continuazione rispetto a quelli precedentemente giudicati, occorre parlare di reato unico, e quindi escludere la recidiva reiterata, con conseguente ammissibilità del giudizio di prevalenza delle già concesse circostanze attenuanti generiche. Sul punto la Corte, sebbene sollecitata, non si è pronunciata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Entrambi i motivi sono infondati, in particolare il secondo è manifestamente infondato, con conseguente rigetto del ricorso che su di essi si basa. 2. Il primo motivo deduce la insufficiente cogenza indiziaria a carico dell'imputato, condannato a causa di una ricomposizione degli elementi a suo carico che non soddisfa lo standard posto dall'art. 192, comma 2, c.p.p., così giungendo ad una motivazione illogica e, per taluni aspetti, contraddittoria. Dopo una lunga premessa ed altrettanto lunga esposizione di principi (fino a pg. 21 del ricorso), senza dubbio condivisibili in linea di massima ma sostanzialmente irrilevanti ai fini della decisione, attesane la genericità, il ricorso giunge a contestare l'affermazione di responsabilità dell'imputato basata sulla traccia biologica, la falsità dell'alibi e la ritenuta presenza dell'imputato in Italia all'epoca dei fatti. Tuttavia, la lettura che della sentenza viene effettuata nel ricorso non appare corretta fin dalle premesse. Infatti, non v'è nel testo della sentenza impugnata alcuna valorizzazione a fini probatori della circostanza che l'imputato si trovasse in Italia all'epoca del fatto. E' vero che la circostanza viene menzionata (pg. 4) assieme alla latitanza dell'imputato, ma né la prima né la seconda vengono valorizzate quali elementi dimostrativi della responsabilità dell'imputato. La ragione è, d'altro canto, ovvia: si tratterebbe di indizi sostanzialmente generici (il fatto che l'imputato si trovasse a Campobasso "nel corso del 2009" non dimostra certo che egli fosse a Pecetto di Valenza il 18 novembre 2009) e quindi non dotati del prerequisito della precisione, necessario, assieme alla gravità e concordanza per comporre il giudizio ex art. 192 comma 2 c.p.p.. Chiarito tale equivoco di fondo, su cui è strutturato l'intero ricorso per cassazione, occorre di seguito osservare che la sentenza è piuttosto basata sulla prova costituita dalla presenza del DNA dell'imputato sul luogo del fatto e dalla falsità dell'alibi fornito. Il ragionamento, teso a disarticolare le conclusioni cui è pervenuta la sentenza d'appello in relazione alla presenza della traccia biologica dell'imputato, non può essere accolto. Si sostiene che il nastro adesivo utilizzato per bloccare una delle vittime della rapina, sul quale è stato rinvenuto il DNA dell'imputato, proverrebbe da un rocchetto lasciato dall'imputato all'epoca del suo arresto per rapina (2006) ai correi che poi l'avrebbero utilizzato per la commissione del reato per cui vi è ora processo. Tuttavia, tale ipotesi non è stata ritenuta fondata nella sentenza impugnata (pg. 4) che l'ha definita incredibile per due ragioni, entrambe logiche. Da un lato, si è osservato che il nastro isolante è avvolto su un rocchetto e quindi non vi è la possibilità di lasciare sullo stesso tracce biologiche, che, ove anche presenti, sarebbero state inevitabilmente rimosse al primo 'giro' di nastro. Inoltre, la circostanza che le tracce biologiche dell'imputato fossero frammiste a quelle della vittima lascia presumere la contemporaneità del fatto che l'aveva generata. Avverso tali argomenti logici, nel ricorso non vi è replica. Rispetto a tale dato ineludibile, che vincola l'imputato a quel luogo ed a quel momento, non vi è alcuna possibilità di svalutazione. Esso non può essere trattato come un semplice indizio, da valutare in una prospettiva complessiva, di gravità, precisione e concordanza, poiché esso è, da sé solo, una prova a carico dell'imputato. E tale è considerato nella sentenza ove si legge (pg. 4): "L'identificazione dell'imputato è certa perché a lui appartenevano le tracce di DNA". D'altronde, è orientamento consolidato, da cui questo Collegio non intende allontanarsi, quello per cui gli esiti dell'indagine genetica condotta sul DNA hanno natura di prova piena e non di mero elemento indiziario, atteso l'elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, sicché sulla loro base può essere affermata la penale responsabilità dell'imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti (Sez. 2, n. 38184 del 06/07/2022 PG/Cospito Rv. 283904 - 03; Sez. 2, n. 43406 del 01/06/2016 Syziu Rv. 268161 - 01). Non ci si trova pertanto al cospetto di un ragionamento indiziario; né la semplice formulazione di una ricostruzione già giudicata incredibile è sufficiente a degradare una prova piena ad indizio, attesa l'ontologica differenza concettuale tra le due categorie. Nemmeno elementi ulteriori possono invalidare la forza probatoria della accertata presenza del DNA dell'imputato. Infatti, la violenza e la concitazione della aggressione ai danni della vittima, come descritta nella sentenza di primo grado (pg. 6: Ma.Be. fu aggredita ed immobilizzata da tre assalitori, tenendole una mano sulla bocca per impedirle di gridare, facendola cadere sul pavimento, legandole mani, piedi e bocca una volta a terra e trasportandola di peso nella camera ove si trovava il marito allettato ed infermo) giustifica sia le tracce del DNA che l'incapacità della vittima di cogliere particolari accenti nell'aggressore. Altrettanto ineccepibile è l'ulteriore passaggio motivazionale adottato in sentenza, laddove si evidenzia (pg. 4) che la responsabilità dell'imputato è ulteriormente confermata dalla falsità dell'alibi, correttamente valorizzato dalla Corte d'appello e prima ancora dal Tribunale di Alessandria. Il tentativo del ricorso di svalutare l'articolata attività falsificatoria posta in essere dall'imputato al fine di accreditare un alibi mendace, derubricandolo a maldestro tentativo difensivo, costituisce un mero espediente difensivo, privo di logica e comunque inidoneo a modificare il significato della condotta posta in essere. 3. Il secondo motivo è manifestamente infondato, alla luce della interpretazione costantemente fornita dalla giurisprudenza di legittimità dell'istituto applicato (continuazione) che non ha, al contrario di quanto si sostiene nel ricorso, la capacità di elidere la recidiva. E' stato infatti chiarito che non sussiste incompatibilità tra l'istituto della recidiva e quello della continuazione, con conseguente applicazione, sussistendone i presupposti normativi, di entrambi, in quanto il secondo non comporta l'ontologica unificazione dei diversi reati avvinti dal vincolo del medesimo disegno criminoso, ma è fondata su una mera fictio iuris a fini di temperamento del trattamento penale (Sez. 3, n. 54182 del 12/09/2018 Pettenon Rv. 275296 - 01). Nel caso specifico, fin dalla sentenza di primo grado è stata fornita ampia giustificazione della decisione adottata, di riconoscere la recidiva quale espressione di una maggior propensione criminale dell'individuo. Giudizio replicato con analoga motivazione in secondo grado con giudizio non manifestamente illogico né giuridicamente errato con valutazione che pertanto non è sindacabile in questa sede, essendo noto che ogni aspetto del giudizio sulla pena, dalla commisurazione, al riconoscimento delle circostanze e loro comparazione, alla continuazione ed alla recidiva appunto, rientra nel "dominio" esclusivo del giudice di merito, quando congruamente motivata. 4. Per le ragioni sopra dette, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali, ex art. 616 c.p.p.. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 4 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. DE CHIARA Carlo - Presidente Dott. FALABELLA Massimo - Consigliere Dott. CAMPESE Eduardo - Consigliere - rel. Dott. D'ORAZIO Luigi - Consigliere Dott. FRAULINI Paolo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso n. 198/2020 R.G. proposto da: Ma.Gi., rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata in calce al ricorso, dall'Avvocato Gi.Sa., presso il cui studio elettivamente domicilia in Cagliari, (...). - ricorrente - contro (...) - COOP. AGRICOLA A R.L., con sede in M, alla Via M, in persona del presidente Su.Gi., rappresentata e difesa, giusta procura speciale allegata in calce al controricorso, dall'Avvocato Do.Bo. di Patti, presso il cui studio elettivamente in Roma, (...). - controricorrente - avverso la sentenza n. 266/2019 del TRIBUNALE DI ORISTANO, pubblicata il 16/05/2019; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 09/04/2024 dal Consigliere dott. Eduardo Campese; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale De.St., che ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso; udito, per il ricorrente, l'Avv. G. Sa., che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso; udito, per la controricorrente, l'Avv. D. Bo. di Patti, che ha chiesto rigettarsi l'avversa impugnazione; lette le memorie ex art. 378 cod. proc. civ. depositate dalle parti. FATTI DI CAUSA 1. La (...) - Coop. Agricola a r.l. propose opposizione, ex art. 645 cod. proc. civ., avverso il decreto ingiuntivo emesso, nei suoi confronti, dal Giudice di pace di Oristano, su istanza del socio Ma.Gi., con cui era stato ad essa intimato il pagamento di Euro 1.226,10, oltre interessi, a fronte del conferimento, da parte del primo, di latte. Espose di svolgere, con scopo mutualistico, attività di raccolta e di trasformazione del latte conferito dai soci, nonché attività di commercializzazione dei formaggi ottenuti, e di avere subito una perdita di esercizio, nel 2010, a causa di una grave crisi del settore lattiero-caseario. Il Ma.Gi., benché a conoscenza di tale situazione, aveva interrotto i conferimenti del latte in favore della cooperativa per venderlo ad altre imprese, così contravvenendo agli obblighi statutari, tanto che, con delibera del consiglio di amministrazione del 20 settembre 2012, era stata disposta la sua cancellazione dal libro dei soci. Contestò la sussistenza del credito azionato da controparte in sede monitoria, rimarcando che, a fronte del risultato negativo della gestione societaria nel 2010, i soci non avevano maturato crediti, in conformità a quanto previsto dall'art. 9 del Regolamento, in forza del quale "il valore definitivo dei conferimenti" doveva essere stabilito in base ai risultati di gestione desumibili " "a chiusura dell'esercizio sociale, nel bilancio consuntivo della cooperativa". 1.1. Costituitosi il Ma.Gi., che eccepì la tardività dell'opposizione e sostenne che la cooperativa, pur avendo scopo mutualistico, in ogni caso perseguiva una finalità lucrativa, cosicché i soci conferitari avevano il diritto di vedersi retribuito il prodotto versato, il menzionato Giudice di pace, con sentenza n. 145 del 2017, respinse l'opposizione, confermando il decreto opposto. 2. Pronunciando sul gravame promosso dalla (...) - Coop. Agricola a r.l. contro detta sentenza, l'adito Tribunale di Oristano, l'accolse integralmente con sentenza del 16 maggio 2019, n. 266, con cui revocò il decreto opposto e compensò le spese di entrambi i gradi. 2.1. Per quanto qui ancora di interesse, quel tribunale, muovendo dalla considerazione che era preferibile la tesi che qualificava i conferimenti annuali di prodotti da parte dei soci di cooperative agricole non già alla stregua di adempimenti di separati contratti di scambio (sub specie di vendita, somministrazione o di fornitura), bensì quali prestazioni dovute in esecuzione di un unico rapporto di durata che trovava la sua causa nel medesimo contratto sociale, affermò che "la remunerazione, da parte della cooperativa, dei conferimenti eseguiti dai singoli soci non può (poteva) avvenire (se non sotto un profilo meramente formale) attraverso il pagamento di un "prezzo", inteso in senso tecnico quale corrispettivo per una prestazione effettuata dal socio sulla base di un contratto di scambio, ma avviene (avveniva) piuttosto attraverso l'attribuzione pro quota ai soci del profitto generato dalla vendita dei prodotti, e, dunque, dipende(va) dai risultati più o meno brillanti dell'esercizio". Rilevò, sulla base delle risultanze istruttorie, che il regime statutario e regolamentare della cooperativa comprovavano che non sussisteva un diritto del socio di ottenere il pagamento del prezzo del prodotto conferito a prescindere dall'andamento della gestione sociale; con la conseguenza che, essendosi la campagna per l'anno 2010 conclusa in perdita per la società, in ragione della natura del rapporto intercorrente tra il socio e la cooperativa non poteva riconoscersi il diritto alla remunerazione del conferimento effettuato dal socio. 3. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso Ma.Gi., affidandosi a due motivi, illustrati anche da memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. . Ha resistito, con controricorso, illustrato da analoga memoria, la (...) Coop. Agricola a r.l. . 3.1. La Prima Sezione civile di questa Corte, originariamente investita della decisione della controversia, con ordinanza interlocutoria del 21 aprile/16 giugno 2023, n. 17398, ha ritenuto "necessario il rinvio del presente ricorso in pubblica udienza, in considerazione della questione di diritto, non ancora affrontata dalla giurisprudenza di legittimità relativa alla qualificazione giuridica dei conferimenti obbligatori effettuati dai soci di una cooperativa, di conferimento e trasformazione, confrontandosi la tesi della cessione onerosa dei beni conferiti che si affianca al contratto sociale con obbligo di pagamento del corrispettivo sinallagmaticamente spettante al socio per il conferimento periodico, con quella del conferimento direttamente derivante dal contratto sociale il cui valore attribuito è costituito, dalla differenza fra ricavi e proventi e costi della gestione, rispetto al quale il socio può avere delle anticipazioni, se statutariamente previsto senza i diritti che conseguono ad un negozio traslativo". Pertanto, ha rinviato la causa a nuovo ruolo, disponendone la trattazione in pubblica udienza, in occasione della quale entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ. . RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: "Ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per violazione o falsa applicazione degli artt. 1173, 2423, 2423-bis, 2423-ter e 2512 c.c. laddove il Tribunale di Oristano ha ritenuto che nelle cooperative agricole il socio non abbia diritto alla remunerazione del prodotto conferito e debitamente fatturato se non quando il bilancio consuntivo annuale presenti un saldo positivo". Assume il ricorrente che, nel caso di conferimento di prodotti agricoli a cooperativa di cui il coltivatore diretto è socio, è ravvisabile un rapporto di scambio fra socio conferitore e società cooperativa, per cui "la compravendita viene a innestarsi su di un autonomo contratto associativo che, da un lato, obbliga il coltivatore diretto al conferimento dei prodotti per il perseguimento dello scopo sociale e, dall'altro, lo rende partecipe dello scopo dell'impresa collettiva facendogli assumere una quota del rischio d'impresa e attribuendogli correlativamente una serie di poteri, diritti... e specifici vantaggi, fra cui in particolare quello di poter collocare la propria merce sul mercato in condizioni più favorevoli". Deduce, inoltre, che il conferimento del latte alla cooperativa è riferibile esclusivamente allo schema della cessione di beni e non è assimilabile alla dotazione di capitale, tanto che "gli importi stabiliti come anticipo della remunerazione per il latte conferito, oltreché essere soggetti alla emissione di fattura, rappresentano necessariamente un debito della cooperativa nei confronti del socio", e che la soluzione adottata dal tribunale sarebbe contraddittoria perché dal contratto sociale deriva l'obbligo dei conferimenti annuali da parte dei singoli associati, ma ciò non incide sul titolo, oneroso o gratuito, degli stessi, perché l'onerosità dei conferimenti è prevista dallo stesso Statuto e dal Regolamento della Cooperativa. 1.1. Tale doglianza si rivela infondata, sebbene dovendosi procedere alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, ex art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., nei sensi ed alla stregua delle considerazioni tutte di cui appresso. 1.2. La questione che pone la censura può riassumersi nell'interrogativo se l'obbligo di conferimento incombente sul socio di una cooperativa agricola di conferimento o di trasformazione, quale è pacificamente la società controricorrente, costituisca oggetto di un separato ed autonomo contratto di scambio intercorrente tra il socio conferitario e la società cooperativa o se, piuttosto, esso trovi titolo direttamente nel contratto sociale. 1.3. Il Collegio dà atto, innanzitutto, che la recente ordinanza resa da Cass. 9 agosto 2023, n. 24242 (pronunciata in una controversia, tra un altro socio della medesima cooperativa qui controricorrente e quest'ultima, assolutamente identica a quella oggi in esame), ha risposto al suddetto quesito affermando che "I conferimenti annuali di prodotti, eseguiti dal socio imprenditore agricolo alla cooperativa agricola di conferimento o di trasformazione, trovano titolo nel contratto sociale che prevede la relativa obbligazione e non costituiscono oggetto di una prestazione accessoria ex art. 2345 c.c.; ne consegue che la consegna dei prodotti non determina l'operatività del principio di corrispettività e non fa sorgere in capo al socio il diritto a un corrispettivo, ma una mera aspettativa alla remunerazione del proprio conferimento, che può anche mancare e che è integrata dall'attribuzione "pro quota" ai soci del profitto conseguito dalla cooperativa tramite l'attività di impresa". In applicazione di tale principio, dunque, in quella sede è stata confermata la sentenza impugnata, la quale aveva escluso il diritto alla remunerazione del conferimento di latte effettuato da un socio alla (...) Coop. Agricola a r.l., che, a causa di una grave crisi del settore lattiero-caesario, aveva subito una perdita di esercizio. 1.3.1. In estrema sintesi, secondo la riportata ordinanza, l'obbligo di conferimento del prodotto che grava sui soci di una cooperativa agricola di trasformazione, obbligo essenziale per il funzionamento della società, è riconducibile ad un contratto di durata ad esecuzione periodica, contratto che, però, non ha una sua autonomia risultando essere parte integrante del contratto sociale. Conseguentemente, la consegna, da parte del socio, del prodotto non determina l'operatività del principio di corrispettività, ma una mera aspettativa alla remunerazione del conferimento. In particolare, non essendo la remunerazione un "prezzo" in senso tecnico, ma soltanto l'attribuzione al socio/imprenditore pro quota del profitto generato dalla vendita dei prodotti trasformati, non è configurabile in capo al socio un diritto di credito al percepimento di un corrispettivo. 1.3.2. Nella specie, questa conclusione trovava conferma, secondo la Corte, anche nel Regolamento approvato dalla cooperativa, in cui si affermava che il valore definitivo dei conferimenti dovesse essere stabilito in base ai risultati di gestione desumibili alla chiusura dell'esercizio sociale. 1.3.3. Giusta la pronuncia in esame, dunque, il socio viene remunerato dei suoi conferimenti attraverso il profitto della cooperativa, mancando il quale non ha diritto ad alcun corrispettivo in quanto si sostiene essere socio/imprenditore. 1.4. È doveroso rimarcare, poi, che la sentenza resa da Cass. 2 agosto 2023, n. 23606, pure pronunciata in una controversia tra una cooperativa agricola ed un suo socio tenuto al conferimento di latte, e pressoché coeva all'ordinanza finora descritta, ha espressamente opinato (cfr. pag. 6-7 della relativa motivazione) che, nelle società cooperative, "il rapporto attinente al conseguimento dei servizi o dei beni prodotti dalla società ed aventi ad oggetto prestazioni di collaborazione o di scambio tra socio e società si palesa ulteriore rispetto a quello relativo alla partecipazione all'organizzazione della vita sociale ed è caratterizzato non dalla comunione di scopo, ma dalla contrapposizione tra quelle prestazioni e la retribuzione o il prezzo corrispettivo (Sez. 1, Sent. n. 26222 del 2014, RV. 633871; Sez. 1, Sentenza n. 694 del 2001). Tale principio, che si è affermato nell'ambito delle cooperative edilizie, è applicabile anche al caso in esame di società cooperativa agricola e zootecnica in quanto anche in questo caso il conferimento del latte dal socio (...) alla cooperativa (...) caratterizza il rapporto economico come relazione di tipo contrattuale e di natura corrispettiva (sia pure originata all'interno di un rapporto di natura associativa) tra l'obbligo di conferimento dell'intera produzione di latte da parte del socio e il corrispondente obbligo di pagamento da parte della società cooperativa per la quantità di latte di volta in volta conferito, in base agli accordi negoziali aventi come fonte il contratto sociale (statuto e atto costitutivo). Di conseguenza, nella specie, ciò che rileva non è il rapporto associativo volto allo scopo comune ma prevale il rapporto di scambio che determina l'insorgere, a carico del socio, dell'obbligo di provvedere al conferimento del latte e, in capo alla società, dell'obbligo di pagamento del suddetto conferimento, prestazione queste ultima che rappresenta il corrispettivo della consegna del latte, la cui causa, dunque, risulta del tutto omogenea a quella della compravendita (v. Cass. 9-5-2013 n. 11 015; Cass. 28-3-2007 n. 7646; Cass. 16-4-2003 n. 6016; Cass. 18-1-2001 n. 694)". 1.4.1. Si tratta, come appare evidente, di una conclusione diametralmente opposta, sullo specifico punto, rispetto a quella di cui all'ordinanza resa da Cass. n. 24242 del 2023. 1.4.2. Le due pronunce esaminate, peraltro, bene fotografano il dibattito dottrinale e giurisprudenziale in merito al rapporto tra mutualità e scambio nelle società cooperative, storicamente diviso tra due differenti ricostruzioni giuridiche: quella che riconduce i rapporti mutualistici interamente al contratto sociale (cd. tesi monista) e quella che li configura alla stregua di ulteriori e distinti rapporti giuridici, ascrivibili, di volta in volta, a contratti a prestazioni corrispettive tipici o atipici (cd. tesi dualista). 1.4. 2.1. Stando alla prima, il rapporto mutualistico rappresenterebbe una fattispecie a contenuto complesso, caratterizzata da una pluralità di prestazioni tutte riconducibili al contratto sociale, rispetto al quale i singoli atti di scambio costituirebbero meri momenti esecutivi. Sulla base di tali argomentazioni, viene così esclusa la natura contrattuale dei rapporti mutualistici intercorrenti tra i soci e la società, cui non sarebbero applicabili le norme dei contratti di scambio. È stato opportunamente messo in evidenzia, in dottrina, come le origini di una simile impostazione siano da ascrivere alle teorie ottocentesche negatrici della personalità giuridica delle società commerciali, e, dunque, dell'alterità soggettiva di queste ultime rispetto ai soci, con la conseguente asserita impossibilità di configurare rapporti di scambio ulteriori rispetto a quello sociale; tale conclusione - nonostante il consolidarsi della teoria della personalità giuridica delle cooperative - è stata ulteriormente prospettata da quanti hanno ritenuto insussistente una vera e propria contrapposizione di interessi fra le parti, tale da escludere la configurabilità di un rapporto di scambio tra il socio e la società. Da qui la raffigurazione del rapporto obbligatorio società-soci come diritto del socio e obbligo della società a dare le prestazioni mutualistiche quale conseguenza dell'appartenenza del socio della compagine sociale. 1.4. 2.2. Questo modo di intendere la mutualità, tuttavia, è stato superato, successivamente, a fronte della necessità della cooperativa di poter competere sul mercato e, quindi, di poter liberamente operare anche con non soci, arrivandosi ad escludere, nelle tesi più estreme, l'esistenza di un obbligo della cooperativa di operare con il socio e, per converso, un obbligo del socio ad avere rapporti con la cooperativa. 1.4. 2.3. In questo contesto, gli interpreti, in modo pressoché unanime, hanno riconosciuto che lo scopo mutualistico si realizza attraverso rapporti contrattuali di scambio con il socio, discutendosi solo se si tratti di contratti tipici, o meno, ovvero se tali negozi, pur autonomi e distinti rispetto al contratto sociale, subiscano, come è stato autorevolmente affermato, una sorta di curvatura causale in ragione degli scopi mutualistici della cooperativa. Curvatura causale comunque pacificamente inesistente nelle cooperative di produzione e lavoro per le quali, ai sensi della legge n. 142/2001, il contratto di lavoro della cooperativa con il socio deve essere un contratto di lavoro autonomo o subordinato nelle forme previste dalla legge. 1.4. 2.4. In ogni caso, sull'abbrivio degli orientamenti dottrinari e di legge a favore dell'esistenza di un contratto di scambio distinto dal contratto sociale, la riforma del 2003 ha eliminato ogni residua incertezza, atteso che ha imposto a tutte le cooperative lo svolgimento di attività mutualistica a vantaggio dei soci (cfr. artt. 2511, 2515, comma 2, e 2521, comma 2, cod. civ.), ad eccezione dei casi in cui, per espressa deroga legislativa, il beneficio possa essere indirizzato anche a soggetti terzi, come accade, ad esempio nelle cooperative sociali (cfr. art. 2520, comma 2, c.c.); peraltro, il rafforzamento della mutualità ad opera della riforma del diritto societario è testimoniato, altresì, dall'obbligo di previsione statutaria dei ristorni, la cui ripartizione è proporzionata alla quantità e qualità degli scambi mutualistici (artt. 2521, n. 8, e 2545-sexies, comma 1, cod. civ.). E, sebbene il codice civile difetti di una puntuale definizione di mutualità, dal complesso della disciplina dedicata alle società cooperative - e soprattutto dal combinato disposto degli artt. 2512, 2516, 2544, comma 1, e 2545-sexies, comma 1, cod. civ. - si desume che l'essenza dello scopo mutualistico risiede nella stipula di contratti di scambio intercorrenti tra la società ed i soci, ulteriori e distinti rispetto al contratto sociale. 1.5. Fermo quanto precede, ritiene il Collegio di dover rispondere all'interrogativo di cui al precedente Par. 1.2. di questa motivazione dando seguito alla ricordata conclusione rinvenibile nella citata sentenza pronunciata da Cass. n. 23606 del 2023. 1.5.1. Invero, benché il legislatore non offra una puntuale definizione di cooperativa agricola, dall'art. 2135 cod. civ., relativo alla nozione di imprenditore agricolo, si desume, tuttavia, che sono qualificabili come agricole quelle cooperative che svolgono una delle seguenti attività: I) la coltivazione del terreno e la silvicoltura; II) l'allevamento di animali, con le prescrizioni ivi imposte; III) l'attività diretta alla manipolazione, trasformazione e alienazione di prodotti agricoli e zootecnici, ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali; IV) un'attività concernente la prestazione di beni o servizi a favore dei soci imprenditori agricoli. 1.5.2. Si possono individuare, poi, due macrocategorie di cooperative agricole: a) quelle di produzione, che si occupano della coltivazione e dell'allevamento di cui ai punti precedenti; b) quelle di conferimento, in cui la società cooperativa ha il compito di concentrare in capo a sé alcune fasi del processo di lavorazione o trasformazione dei prodotti conferiti dai soci al fine di consentire il loro collocamento sul mercato. In questo caso, i produttori agricoli conferiscono i propri prodotti affinché essi vengano conservati, manipolati, trasformati e venduti tramite l'organizzazione collettiva, con gestione comune di impianti, stabilimenti e magazzini. 1.5.3. In questa seconda tipologia rientra, evidentemente, la Cooperativa agricola oggi controricorrente, nella quale (trattasi di circostanza assolutamente pacifica), in attuazione del rapporto mutualistico, il socio si impegna a trasferire periodicamente alla cooperativa una quantità di merce (latte) perché la società la trasformi in un prodotto derivato (formaggio), successivamente dalla stessa commercializzato. 1.6. Orbene, la menzionata sentenza resa da Cass. n. 23606 del 2023, nel sancire la necessità di "considerare che, nelle società cooperative, il rapporto ulteriore rispetto a quello relativo alla partecipazione all'organizzazione alla vita sociale - attinente al conseguimento dei servizi o dei beni prodotti dalla società, ed avente ad oggetto sia prestazioni di collaborazione sia prestazioni di scambio tra socio e società, è innegabilmente connotato non dalla comunione di scopo, che forma il primo rapporto (tra i soci) bensì dalla contrapposizione tra quelle prestazioni e la retribuzione o il prezzo corrispettivo", ha fatto applicazione di un principio da tempo invalso (giusta le riportate posizioni della più recente dottrina) nella giurisprudenza relativa alle società cooperative edilizie, utilizzandolo, affatto condivisibilmente, anche nell'ipotesi delle cooperative agricole e zootecniche sul presupposto che quello che, atecnicamente, viene definito dallo statuto come "conferimento" del prodotto agricolo da parte del socio rappresenta, invece, l'adempimento di una prestazione contrattuale autonoma e diversa dal rapporto societario, sebbene originata all'interno di una relazione di natura associativa ed in base ad accordi negoziali aventi come fonte anche il contratto sociale (statuto e atto costitutivo). 1.6.1. In ragione di questa prospettazione, nel caso di specie, il pagamento delle somme di danaro da parte della cooperativa - a titolo di acconto o di saldo - rappresenta il prezzo del latte, nell'ambito di un contratto a prestazioni corrispettive, la cui causa è del tutto omogenea a quella di una compravendita e/o di una somministrazione. 1.6.2. È intuitivo, dunque, come pure affermatosi in dottrina, che il socio debba ricevere in corrispettivo il prezzo della merce trasferita alla società e, se la situazione lo consentirà, il ristorno commisurato agli scambi mutualistici posti in essere alla fine dell'esercizio sociale. Non si può trasformare, cioè, la prestazione mutualistica in donazione, né in una sorta di conferimento permanente e comunque indeterminato. 1.6.3. Si rivela significativa, del resto, l'osservazione di autorevole dottrina secondo cui, nelle società cooperative, il vero e proprio rapporto sociale avrebbe ben poco significato se ad esso non si affiancasse il rapporto mutualistico che perpetua e vivifica nel tempo e dà un senso proprio al rapporto sociale, anche perché ricorda alle cooperative dimentiche ed intente solo a produrre utili che la società si costituisce pur sempre per procurare un vantaggio ai soci diverso dal danaro, e cioè dall'interesse sull'investimento. C'è, anzi, da aggiungere che, almeno per il passato, si è sempre attribuito poco peso al rapporto sociale, da un lato, considerando il conferimento, recte l'obbligo di conferire, come strumento inteso a consentire sul piano tecnico-giuridico l'acquisto della qualità di socio, e cioè alla stregua di un mezzo tecnico per entrare in società, e, dall'altro, considerando il capitale sociale come un'entità meramente virtuale o, per meglio dire, come un'entità cui non si sarebbero potute attribuire le medesime funzioni attribuite al capitale nelle società lucrative; mentre si è insistito, pur senza che la legislazione lo avesse mai definito, sempre sullo "scambio mutualistico", considerato alla stregua del dna della cooperazione e come pendant del vantaggio mutualistico. Del resto, come si è già riferito, il legislatore del 2003 (per la prima volta) non solo ha dato una definizione, sia pure smilza, di società cooperativa, ma ha riportato in primo piano, disciplinandoli, i caratteri marcanti della cooperazione quali devono essere considerati la gestione di servizio, il rapporto mutualistico, lo scambio mutualistico, il ristorno ed il vantaggio cooperativo, il cui meccanismo di acquisizione è stato regolato a seconda del settore - consumo, produzione e lavoro, servizi - nel quale la cooperativa opera: meccanismo di scambio per le cooperative di consumo, di credito ed edilizie e di tipo squisitamente associazionistico nel più moderno campo della cooperazione di servizi. 1.7. Fermo quanto precede, va osservato che, frequentemente, le cooperative come quella oggi controricorrente disciplinano la materia della prestazione mutualistica in un regolamento allegato allo statuto, in cui vengono stabilite le quantità di prodotto che il socio deve periodicamente conferire alla società ed i criteri per determinare il corrispettivo che dev'essere versato dalla società ai soci. 1.7.1. In quest'ottica, allora, la configurazione del rapporto di scambio nelle cooperative agricole di conferimento e trasformazione può risultare estremamente variabile in ragione di specifiche e particolari fattispecie. 1.7.2. Detto rapporto, in altri termini, come efficacemente osservato dal sostituto procuratore generale nella sua requisitoria scritta rappresenta "il negozio che "veste" formalmente la fattispecie del conferimento del prodotto e questo "vestito" in una cooperativa riconducibile al modello di operatività della cooperativa in questione, a differenza di altri tipi di cooperative, può essere il più vario. E così, ad esempio, può trattarsi di una vendita con acconto salvo conguaglio in ragione del prezzo spuntato sul mercato e dove, va aggiunto, l'entità, rectius l'esistenza del conguaglio, salvo specifiche diverse disposizioni regolamentari o statutarie, è lasciata alla discrezionalità della cooperativa. Alternativo al modello precedente è la vendita a rischio della cooperativa con pagamento del prezzo ai soci in via definitiva. Può essere adottato il modello contrattuale del mandato a vendere da parte dei soci alla cooperativa a cui viene riconosciuta una sorta di provvigione o comunque a trattenere una percentuale sul prezzo ottenuto sul mercato. I conferimenti dei prodotti nelle cooperative di produzione non sono, dunque, qualificabili come conferimenti in conto capitale, e trovano il loro titolo - non già direttamente nel contratto sociale, ma, invece, - in contratti di scambio che la cooperativa, nel perseguimento dello scopo sociale, e sia pure in conformità con le previsioni dell'atto costitutivo, conclude di volta in volta con i singoli soci (Cass. n. 4455 del 2003, in motiv.)". 1.7.3. Posto, dunque, che, in linea generale, il rapporto di scambio oscilla, in questi casi, fra la natura di un contratto di vendita, di somministrazione o di commissione, ben può essere previsto anche il riconoscimento di un acconto a cui fa seguito un eventuale conguaglio in ragione degli esiti della collocazione del prodotto nel mercato o dei risultati di gestione (ovviamente condizionati dagli esiti del mercato). Allo stesso modo, tuttavia, un regolamento della cooperativa potrebbe anche prevedere, al limite, che non venga riconosciuto provvisoriamente il pagamento di alcun anticipo. 1.8. Tanto premesso, come chiaramente emerge dalla sentenza oggi impugnata, la regula iuris disciplinante il rapporto di scambio in esame è rinvenibile nel Regolamento per il conferimento approvato dalla cooperativa (...) (al cui rispetto ciascuno dei soci è tenuto ai sensi degli artt. 6 e 11 dello Statuto), dal quale si ricava, appunto, la disciplina della remunerazione del latte conferito dai singoli soci. 1.8.1. In particolare, dall'art. 9 di detto Regolamento, si desume che "il valore definitivo dei conferimenti sarà stabilito in base ai risultati di gestione desumibili, a chiusura dell'esercizio sociale, nel bilancio consuntivo della cooperativa" e che "durante la campagna casearia, potranno essere concessi acconti sul prodotto conferito" previa delibera del Consiglio di Amministrazione. 1.8.2. Ciò significa che la remunerazione dei "conferimenti" non sarebbe dovuta avvenire mediante il pagamento di un prezzo determinato, bensì attraverso la corresponsione ai soci di eventuali anticipi sul valore dei "conferimenti" stessi ed attraverso un conguaglio ex post, vale a dire sulla base dei risultati della gestione desumibili dal bilancio consuntivo della cooperativa. 1.8.3. La sentenza impugnata non dà conto di eventuali delibere del Consiglio di Amministrazione della cooperativa riguardanti la corresponsione, per il periodo temporale che qui interessa, di eventuali acconti, mentre ha accertato la chiusura in perdita dell'esercizio sociale 2010. 1.8.4. Da tanto consegue, allora, il rigetto della pretesa sostanziale del Ma.Gi., non avendo questi provato, come sarebbe suo onere, il fatto costitutivo del diritto, posto che, come ancora condivisibilmente osservato dal sostituto procuratore generale nella sua requisitoria scritta, "il vestito del rapporto di scambio adottato dalla cooperativa in questione" non prevedeva la vendita a rischio della cooperativa con pagamento del prezzo ai soci in via definitiva, bensì era una vendita con acconto salvo conguaglio in ragione dei risultati dell'esercizio. Poiché, pertanto, la campagna per l'anno 2010 si era conclusa in perdita, doveva escludersi il diritto al pagamento invocato dal ricorrente. 1.8.5. In altri termini, il mancato pagamento oggi lamentato dal Ma.Gi. trova la sua giustificazione, più semplicemente, nel Regolamento in questione e non certo nella negazione dell'esistenza di un rapporto di scambio distinto dal contratto sociale, ritenuta, invece, dal tribunale a quo. 2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: "Ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., "per violazione o falsa applicazione di norma di diritto e, in particolare, dell'art. 116 cod. proc. civ., in relazione al disposto dell'art. 360, comma 1, n. 3, C.P.C., artt. 1173, 2423, 2423-bis, 2423-ter, 2512 e 2465 c.c. nell'aver ritenuto non provato il credito vantato dal socio". Sostiene il Ma.Gi. che il giudice d'appello aveva tratto elementi di prova dalle scritture contabili con riguardo all'accertamento delle perdite, ma, allo stesso tempo, aveva ritenuto che dette scritture non potessero essere valutate quali elementi di prova con riferimento all'accertamento del diritto del socio ad essere remunerato per l'importo indicato nelle stesse scritture, in tal modo incorrendo in una affermazione affetta da illogicità. 2.1. Tale doglianza si rivela complessivamente inammissibile. 2.1.1. Da un lato, infatti, non è stata sollevata alcuna puntuale censura in relazione a quanto affermato dal tribunale circa la specifica disciplina, contenuta nel riportato art. 9 del suddetto Regolamento della cooperativa, della remunerazione del latte conferito a quest'ultima dai singoli. Il Ma.Gi., invero, si è limitato a contestare la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che dalla fattura n. (Omissis) del 2010 - erroneamente indicata a pag. 18 del ricorso come fattura n. (Omissis) del 2010, evidentemente per mero refuso - e dal bilancio si potesse ricavare un diritto certo, liquido ed esigibile in ordine alla remunerazione del conferimento per l'importo ivi indicato: questione, che, come è intuitivo, perde qualsivoglia rilievo per effetto della mancanza di critiche rivolte alla indicata disciplina regolamentare. 2.1.2. In ogni caso, ed in via assolutamente dirimente, giova ricordare che, attraverso il disposto di cui all'art. 116 cod. proc. civ., non è dato riproporre, sotto altra forma paradigmatica, la censura dei vizi di logicità eliminati dall'attuale testo normativo dell'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, e qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 16 maggio 2019), atteso che il libero convincimento del giudice opera interamente sul piano dell'apprezzamento di merito allo stesso riservato in via esclusiva e, come tale, è insindacabile in sede di legittimità. 2.1.3. Alteris verbis, un'autonoma questione di malgoverno dell'art. 116 cod. proc. civ. può porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (cfr. Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pur puntualizzato che, "ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, C.P.C., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione"; Cass. n. 27000 del 2016). 2.1.4. Né, d'altro canto, è configurabile illogicità nelle affermazioni contenute nella sentenza gravata, poiché il giudice d'appello, ponendo a fondamento della decisione le prove offerte dalle parti e valorizzando quelle che ha considerato più attendibili ai fini del proprio convincimento, scartando quelle considerate inidonee, ha ritenuto dimostrato, in esito all'istruttoria espletata, che la campagna per l'anno 2010 si era conclusa in perdita per la società cooperativa. Circostanza, quest'ultima, che, in base a quanto si è detto respingendosi il primo motivo, è, di per sé, idonea a far concludere per l'insussistenza del diritto del Ma.Gi. alla remunerazione invocata con il ricorso monitorio, a nulla valendo la contabilizzazione del conferimento tra le poste del bilancio, considerato, peraltro, che la fattura n. (Omissis) del 2010, allegata a supporto di detto ricorso, nemmeno era idonea a determinare la nascita di un diritto di credito, certo nell'an, dell'odierno ricorrente, al percepimento di un corrispettivo, come confermato dalla stessa dicitura riportata sulla fattura ("a futura determinazione di prezzo"), che evidenziava che, in applicazione della disciplina di cui all'art. 9 del Regolamento adottato dalla cooperativa, l'indicazione contenuta in fattura aveva un valore meramente provvisorio, potendo la determinazione del prezzo essere effettuata solamente a fine esercizio, e, dunque, solo in caso di esito positivo (invece mancato, come si è detto in precedenza) dello stesso. 3. In definitiva, il ricorso di Ma.Gi. deve essere respinto. 3.1. Le spese di questo giudizio di legittimità possono essere interamente compensate tra le parti, stante la non univocità, sulla questione esaminata, dei precedenti di questa Corte, peraltro successivi al deposito dell'odierna impugnazione, altresì dandosi atto, - in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 - che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del medesimo ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre "spetterà all'amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento". P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso proposto da Ma.Gi.. Compensa interamente tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera del medesimo ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, giusta il comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. BONI Monica - Presidente Dott. FIORDALISI Domenico - Consigliere Dott. CURAMI Micaela Serena - Relatore Dott. TOSCANI Eva - Consigliere Dott. RUSSO Carmine - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ge.Mo. nato a S il (Omissis) avverso l'ordinanza del 19/09/2023 del TRIB. SORVEGLIANZA di ROMA udita la relazione svolta dal Consigliere MICAELA SERENA CURAMI; lette le conclusioni del PG, GIUSEPPE RICCARDI, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza in epigrafe, emessa il 19 settembre 2023, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato l'istanza proposta nell'interesse di Ge.Mo. per il riconoscimento dell'impossibilità della collaborazione ex art. 58 ter ord. pen., in relazione alla sentenza di condanna del GUP di Napoli del 31/01/2008, irr. il 21/10/2010 con la quale gli è stata inflitta la pena, in esecuzione, dell'ergastolo in relazione ai reati di violazione legge armi, e omicidi aggravati anche ai sensi dell'art. 7 legge 203 del 1991, di Mo.Co. nel 998, e di De.Wa. nel 2000. Il Tribunale, dato atto dei pareri negativi della DDA di Napoli e della DNA, ha ritenuto che il Ge.Mo. possa ancora fornire un'utile e proficua collaborazione, come dimostrato dal comportamento del predetto il quale, dopo avere reso, nel 2006, dichiarazioni accusatorie con riferimento ai fatti a lui contestati, successivamente, nel corso del dibattimento, ritrattava, tanto che con la sentenza di condanna si negava l'attenuante di cui all'art. 8 D.L. 152 del 1991. Aggiungeva il decidente che: la posizione apicale in ambito associativo rivestita dal Ge.Mo. "potrebbe fare breccia negli ambienti criminali ancora attivi"; che nulla si dice nell'istanza e nelle memorie circa l'accertamento delle responsabilità di taluni dei correi del Ge.Mo.; che non sono stati assolti gli oneri previsti dall'art. 4 bis ord. pen., in particolare quelli di dimostrazione dell'adempimento delle obbligazioni civili e di riparazione conseguenti alla condanna. 2. Avverso l'ordinanza ha proposto ricorso il difensore di Ge.Mo. chiedendone l'annullamento sulla scorta di un unico motivo con cui lamenta la violazione di legge e vizio della motivazione. Secondo il ricorrente, il Tribunale di sorveglianza si è determinato negativamente valutando una base argomentativa viziata da elementi inconferenti e sviluppando un ragionamento illogico e contraddittorio: in particolare, ha omesso di valutare correttamente gli elementi addotti dalla difesa a sostegno dell'istanza, e precisamente il provvedimento del medesimo Tribunale di sorveglianza di Roma che aveva annullato il decreto del Ministro della Giustizia, di sospensione dell'ordinario regime intramutrario ex art. 41 bis ord. pen., che si fondava sull'accertamento dell'esclusione dell'attualità di collegamenti con ambienti associativi e per l'assenza del pericolo di ripristino degli stessi; le affermazioni sulla attuale sussistenza del clan Ge.Mo. e sulla potenziali collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata, contenuti nel pareri rispettivamente della Dda di Palermo e della Prefettura di Roma, appaiono del tutto sforniti di riscontro; non corrisponde a verità il fatto che Ge.Mo. abbia ritrattato in dibattimento. Totalmente disconosciuto è infine il contributo offerto dal Ge.Mo. nel 2006, attestato dall'ordinanza del Tribunale del riesame di Napoli del 06/07/2007. 3. Con requisitoria scritta, il Sostituto Procuratore Generale, dott. Giuseppe Riccardi, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Le doglianze mosse alla disamina effettuata dal Tribunale sullo specifico tema allo stesso devoluto circa la sussistenza dei presupposti della collaborazione impossibile/inesigibile sono generici, aspecifici e comunque manifestamente infondati. L'ordinanza impugnata ha compiutamente valutato i presupposti per il riconoscimento della collaborazione impossibile, negandone la sussistenza, in quanto: Ge.Mo., con ruolo apicale nel clan camorristico omonimo, dopo un percorso di collaborazione intrapreso nel 2006, ha ritrattato in dibattimento le proprie dichiarazioni; per tale ragione, con la sentenza di condanna del 2008, non gli è stata riconosciuta l'attenuante della collaborazione; non ha dimostrato di avere adempiuto alle obbligazioni civili e di riparazione; la posizione apicale assunta nel sodalizio mafioso non consente di escludere collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Il ricorrente di contro reitera, in modo meramente confutativo, le proprie doglianze lamentando la svalutazione degli elementi dedotti, concernenti la mancanza di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, attestati anche da provvedimenti giurisdizionali, senza confrontarsi con la specifica motivazione del Tribunale che giudicava i provvedimenti richiamati dalla Difesa in merito al proprio percorso di collaborazione irrilevanti in quanto superati dalla ritrattazione; ritrattazione genericamente negata in sede di ricorso, in modo peraltro non autosufficiente, avendo il ricorrendo prodotto, a sostegno dell'assunto, una sola pagina (pag. 27) della sentenza del GUP del Tribunale di Napoli del 31/01/2008, certamente non determinante. Nulla poi deduce il ricorrente in relazione al rilevato mancato adempimento da parte del condannato delle obbligazioni civili e di riparazione, incorrendo in tal modo anche nel vizio di aspecificità. In definitiva, nessun vizio logico argomentativo è ravvisabile nella motivazione offerta dal Tribunale di sorveglianza, che ha esplicitato, con argomentazioni puntuali e adeguate le ragioni per le quali ha rigettato l'istanza presentata da Ge.Mo.. 3. All'inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa dì inammissibilità (Corte Cost., sentenza n. 186 del 2000), anche la condanna al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che si stima equo determinare in Euro 3.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso, il 31 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. BONI Monica - Presidente Dott. SIANI Vincenzo - Relatore Dott. CENTOFANTI Francesco - Consigliere Dott. CURAMI Micaela Serena - Consigliere Dott. MAGI Raffaello - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ca.Pi. nato a S il (omissis) avverso l'ordinanza del 13/09/2023 del TRIB. SORVEGLIANZA di TORINO udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO SIANI; lette le conclusioni del PG, MARCO DALL'OLIO, che ha chiesto l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata; RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di sorveglianza di Torino, con il provvedimento in epigrafe, reso il 13 settembre 2023, ha rigettato il reclamo proposto da Ca.Pi., detenuto nella Casa circondariale di Asti, con termine della pena fissato al 26.05.2026, avverso la declaratoria di inammissibilità della sua istanza di permesso premio adottata dal Magistrato di sorveglianza di Torino con atto del 30.03.2023. Il Tribunale, dopo aver preso in esame le doglianze articolate dal detenuto in riferimento alle ragioni che avevano condotto il Magistrato di sorveglianza ad emettere il provvedimento sfavorevole a Ca., ha condiviso l'esito indicato, in quanto, stante la carenza della collaborazione prestata o di quella impossibile o irrilevante da parte del condannato, la valutazione della sua istanza si è confermata priva dei riferimenti necessari in relazione alle indicazioni fissate dall'art. 4-bis, comma 1 -bis, Ord. pen. e, in particolare, non aveva fatto riferimento all'adempimento delle obbligazioni civili derivanti da reato. 2. Avverso la suddetta ordinanza il difensore di Ca.Pi. ha proposto ricorso per cassazione chiedendone l'annullamento e affidando l'impugnazione a un unico motivo con cui lamenta l'erronea applicazione dell'art. 3, comma 2, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199, e dell'art. 4-bis, comma 2, Ord. pen. e la manifesta illogicità della motivazione. Secondo la difesa, il primo profilo di censura riguarda il fatto che, a fronte della memoria susseguente al reclamo innanzi al Tribunale in cui erano stati dedotti gli elementi che conducevano all'irrilevanza della mancata collaborazione e all'insussistenza dell'attualità di collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata, i giudici di sorveglianza si sono limitati a rimarcare il mancato assolvimento dell'onere di allegazione, senza considerare che esso consiste appunto nell'indicare gli elementi sulla cui base poi deve svolgersi un'ampia e approfondita verifica da parte della magistratura di sorveglianza. Ulteriore profilo di criticità della motivazione consiste, secondo il ricorrente, nel riferimento all'assenza di qualsiasi iniziativa risarcitoria in favore delle vittime del reato, poiché il Tribunale non ha considerato che, ai sensi dell'art. 3, comma 2, d.l. n. 162 del 2022, per i reati commessi antecedentemente all'entrata in vigore di quest'ultima normativa, le domande aventi ad oggetto i permessi premio vanno valutate secondo la procedura di cui all'art. 4-bis, comma 2, Ord. pen., norma che non contempla l'indefettibile accertamento di una qualche iniziativa risarcitoria da parte del condannato in favore delle reato, vittime nel caso di specie di difficile individuazione, trattandosi di condanna per il solo reato associativo. Ultimo profilo di illogicità viene individuato nell'avere il Tribunale valorizzato la piena operatività nella provincia di Agrigento delle organizzazioni mafiose di cui a suo tempo Ca. era stato partecipe, posto che il permesso premio era stato richiesto per incontrare i familiari, tutti estranei agli ambienti criminali, in Piemonte, senza alcun pericolo di ripristino delle relazioni criminali. 3. Il Procuratore generale ha chiesto l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato, ritenuto connotato da motivazione illogica e contraddittoria, in quanto il Tribunale, da un lato, ha considerato necessario l'accertamento delle attività risarcitone poste in essere dal condannato, requisito non necessario per i reati commessi anteriormente all'entrata in vigore della disciplina del 2022, e, dall'altro, ha omesso di considerare che l'onere di allegazione posto a carico del detenuto riguarda solo le tematiche generali da offrire all'attenzione del giudicante, così da consentire a quest'ultimo di attivare i poteri istruttori: poteri in questo caso non attivati dai giudici di sorveglianza, neanche con riferimento al luogo di fruizione del permesso e ai soggetti da incontrare. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso, nel suo complesso, è infondato e va, quindi, rigettato. 2. E' utile premettere che il Tribunale di sorveglianza ha anzitutto preso in esame le censure articolate da Ca. con il reclamo e, poi, le altre introdotte con la memoria difensiva del 6.09.2023, lì dove nel primo si era evidenziato che non risultava valorizzata la sua resipiscenza, né si era considerata l'esiguità della residua pena detentiva e nemmeno si era valutata la sua ormai non più giovane età, in relazione ai reati la cui pena era in espiazione, mentre nella seconda si era svolta la deduzione dell'irrilevanza e inesigibilità dell'eventuale collaborazione, da desumere già dalla sentenza di condanna, così come erano emersi il suo corretto comportamento in carcere, anche in occasione del permesso di necessità da lui fruito, e la mancanza dell'attualità di collegamenti con la criminalità mafiosa. In contrario, i giudici di sorveglianza hanno osservato che la DDA di Palermo aveva messo in evidenza la piena operatività nella provincici di Agrigento delle organizzazioni mafiose (Cosa nostra e St.) di cui Ca. era stato considerato capo e affiliato; hanno annesso rilievo all'argomento secondo cui la DNA, esprimendo parere contrario, aveva evidenziato che, in relazione agli oneri posti a carico dell'istante dalla normativa del 2022, il condannato non aveva assolto in alcun modo quello di allegazione dei requisiti necessari per l'ottenimento del beneficio; fra l'altro, non era risultata qualsivoglia iniziativa risarcitoria da parte sua in favore delle vittime del reato. Questa situazione concreta aveva determinato, secondo il Tribunale, la conseguente valutazione negativa dell'istanza da parte del Magistrato di sorveglianza, con prospettiva da condividere, in quanto correttamente il primo giudice aveva ritenuto l'istanza di permesso premio inammissibile, non contenendo la stessa alcun riferimento alle indicazioni richieste dall'art. 4-bis, comma 1 -bis, Ord. pen. e, in particolare, non aveva fatto riferimento all'adempimento delle obbligazioni civili derivanti da reato. 4. In questo snodo, appare determinante la constatazione, operata dai giudici di sorveglianza, del mancato riscontro, quanto alla sfera di Ca., delle condizioni previste dall'art. 4-bis Ord. pen. per l'accesso alla stessa misura premiale qui in questione. Preso atto che il ricorrente è in espiazione di pena detentiva determinata dalla condanna per il reato di associazione di tipo mafioso, reato ostativo all'incondizionata concessione dei benefici penitenziari enunciati nel comma 1 della citata disposizione, il Tribunale ha fornito adeguata spiegazione del dato di fatto che, in ordine alla posizione di Ca., la collaborazione non è stata da lui resa, né potrebbe considerarsi impossibile o irrilevante. Si evidenzia che al momento della presentazione della domanda di permesso premio era in vigore la disciplina introdotta dall'art. 3, comma 2, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199. Questa norma stabilisce che ai condannati e agli internati che, prima della data di entrata in vigore del suddetto decreto, abbiano commesso delitti previsti dal comma 1 dell'art. 4-bis cit., nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendano comunque impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall'art. 62, n. 6, anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall'art. 114 ovvero dall'art. 116, secondo comma, cod. pen., i benefici di cui al comma 1 dell'art. 4-bis cit. e la liberazione condizionale possono essere concessi, secondo la procedura di cui al comma 2 dello stesso art. 4-bis, purché siano acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, con le ulteriori specificazioni fissate dalla norma. 4.1. Nel caso di specie non sono stati riscontrati i presupposti per l'applicazione di tale disciplina transitoria: e la mancanza dell'integrazione dei presupposti stabiliti dalla suddetta disciplina riferita alle pene scaturenti dall'accertamento dei reati commessi prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 162 del 2022 ha determinato la coerente conseguenza che alla posizione di Ca. si è applicato il disposto dell'art. 4-bis, comma 1 -bis, Ord. pen., come sostituito dal d.l. n. 162 del 2022, convertito con modificazioni dalla legge n. 199 del 2022. In virtù di tale disposizione, se è vero che i benefici penitenziari per gli autori di reati ostativi rientranti nella corrispondente prima fascia possono essere concessi "anche in assenza di collaborazione con la giustizia", è del pari certo che per accedere a tali benefici l'interessato deve soddisfare determinati oneri di specifica allegazione e, per alcuni aspetti, di prova, in modo da consentire la concreta possibilità dell'emersione della corrispondente dimostrazione dei necessari parametri valutativi, fissato dalla medesima disposizione; oneri a cui si coordina il potere-dovere del giudice procedente di procedere, mediante la conseguente istruttoria, alla verifica dei requisiti necessari per l'accesso dell'istante al singolo beneficio. Per i condannati che non abbiano acceduto alla collaborazione con la giustizia e che non rientrino nelle categorie da ritenersi assimilate nei sensi suindicati, occorre, in particolare, dimostrare l'adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna, salva assoluta impossibilità, che deve risultare idoneamente provata. Occorre, poi, assolvere l'onere di specifica allegazione - non soddisfatto dall'indicazione, anche cumulativa, della regolare condotta e della partecipazione al percorso trattamentale inframurario, della dichiarazione di dissociazione dall'organizzazione di appartenenza - di elementi, diversi e ulteriori, che siano idonei a escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi. Nella corrispondente valutazione, il giudice deve tener conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile, nonché accertare la sussistenza di iniziative dell'interessato a favore delle vittime, sia nella forma risarcitoria che in quella della giustizia riparativa. 4.2. Il percorso procedimentale è quello segnato dal comma 2 della medesima norma, così da determinare un assetto in relazione al quale si ribadisce che, in tema di benefici e misure alternative alla detenzione in favore di soggetto condannato per reati ostativi definiti di prima fascia, per effetto delle modificazioni apportate all'art. 4-bis Ord. pen. con il d.l. n. 162 del 2022 cit., non assume rilievo decisivo la collaborazione con l'autorità giudiziaria, ma è demandata al giudice, alla luce della mutata natura della presunzione - divenuta relativa - di mantenimento dei collegamenti con l'organizzazione criminale, la valutazione del percorso rieducativo del condannato e dell'assenza di collegamenti, attuali o potenziali, con la criminalità organizzata e con il contesto mafioso, mediante gli ampliati poteri istruttori di cui all'art. A-bis, comma 2, cit. (Sez. 1, n. 35682 del 23/05/2023, Catarisano, Rv. 284921 - 01). Si ricorda inoltre che, nel regime previgente, per l'istituto del permesso premio, si era evidenziata la rilevanza, ne congrui casi, dell'attività istruttoria di iniziativa ufficiosa, affermandosi che, in tema di concessione di questo beneficio premiale a soggetto condannato per delitti ostativi ai sensi dell'art. 4-bis, comma 1, Ord. pen., non potesse ritenersi legittima l'ordinanza del giudice di sorveglianza che si fosse limitata a dichiarare l'inammissibilità dell'istanza per omessa specifica allegazione di elementi di prova idonei a dimostrare la sussistenza dei requisiti sulla base dei quali, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019, poteva essere concesso il beneficio (vale a dire l'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e del pericolo del loro ripristino), incombendo all'istante l'allegazione di elementi fattuali (quali, ad esempio, l'assenza di procedimenti posteriori alla carcerazione, il mancato sequestro di missive o la partecipazione fattiva all'opera rieducativa) che, anche solo in chiave logica, fossero idonei a contrastare la presunzione di perdurante pericolosità prevista dalla legge per negare lo stesso, potendo, eventualmente, il giudice completare l'istruttoria anche d'ufficio (Sez. 1, n. 33743 del 14/07/2021, Marazzotta, Rv. 281764 - 01). A ciò è opportuno aggiungere la considerazione che la necessità di interlocuzione con l'istante è suscettibile di assumere un rilievo particolare quante volte la disciplina applicabile sia mutata in corso di precedimento, giacché nella corrispondente dialettica procedimentale emerge l'esigenza di consentire all'interessato di dispiegare le sue difese e, con esse, l'esercizio del diritto di difendersi allegando e provando le circostanze di fatto divenute rilevanti in rapporto alle coordinate introdotte dalla modificazione della disciplina processuale che sia medio tempore intervenuta. 4.3. Tutto ciò precisato in relazione alla cornice normativa da applicarsi, i giudici di sorveglianza hanno - in modo non decisivamente contrastato dalle contrarie osservazioni del ricorrente - ritenuto doversi applicare per l'istanza di permesso premio avanzata da Ca. la disciplina operante a regime fissata dall'attuale testo dell'art. 4-bis Ord. pen.: l'istanza era stata presentata nella vigenza della nuova disciplina e il Magistrato di sorveglianza non si era limitato a osservare che l'istante non aveva assolto l'onere di allegazione a lui imposto, ma aveva anche sottolineato che non risultava per la posizione del detenuto istante la dichiarazione di collaborazione ex art. 58-terOrd. pen., così evidenziando che la posizione di Ca. non poteva essere inserita fra quelle che, ex art. 3, comma 2, d.l. n. 162 del 2022, abilitavano l'applicazione del corrispondente regime per la delibazione delle istanze aventi ad oggetto (anche) l'attribuzione del permesso premio. A fronte di tale assetto decisorio, il reclamo proposto da Ca. il 15.04.2023 non aveva affatto contestato il punto pregiudiziale, ma si era limitato a lamentare solo la mancata considerazione della resipiscenza palesata dal condannato. Successivamente, ossia soltanto con la memoria del 6 settembre 2023, firmata dallo stesso Ca. e prodotta dalla difesa, la contestazione del provvedimento del Magistrato di sorveglianza era stata ampliata essendosi in essa per la prima volta sostenuto che già la sentenza accertativa del reato associativo dimostrava la irrilevanza/inesigibilità della collaborazione, per essere stati i fatti accertati, ed essendosi aggiunto che, comunque, se il detenuto pure avesse potuto riferire ulteriori elementi, lo avrebbe potuto fare soltanto mettendo a rischio la propria incolumità e quella dei propri familiari. Sì era trattato della prospettazione, con la memoria, di un motivo nuovo, non coordinato con la doglianza posta alla base del reclamo, in cui si era evidenziata soltanto la rilevanza della resipiscenza del condannato, non l'evenienza di una causa di impossibilità/irrilevanza della mancata collaborazione. Ciò posto, si è più volte affermato che (non l'atto di impulso del procedimento innanzi al magistrato di sorveglianza, bensì) il reclamo avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza previsto in materia di permessi premio e da scrutinarsi da parte del tribunale di sorveglianza ha natura di mezzo di impugnazione e, come tale, deve essere corredato da specifici motivi, con esclusione dell'ammissibilità di motivi nuovi rispetto a quelli addotti con il reclamo, proposti con memorie integrative e (pare utile precisarlo) che non rientrino nelle coordinate consentite dall'art. 585 cod. proc. pen. (v. per riferimenti Sez. 1, n. 19640 del 12/01/2017,, Strano, Rv. 270114 - 01; Sez. 1, n. 15982 del 17/09/2013, dep. 2014, Greco, Rv. 261989 - 01); principio che va letto alla luce della normativa rivisitata dal Giudice delle leggi (Corte cost. n. 113 del 2020), quanto all'introduzione del termine ordinario per impugnare, delle indicazioni di sistema (fornite da Sez. U, n. 12581 del 25/02/2021, Diletto, Rv. 280736 - 01) nonché della generale riflessione secondo cui anche il reclamo al tribunale di sorveglianza, di cui all'art. 315-bis, comma 4, Ord. pen. integra strumento impugnatorio, mentre non ha natura impugnatoria la pregressa istanza-reclamo avanzata al magistrato di sorveglianza, rappresentando essa l'atto di impulso del procedimento giurisdizionale di prossimità delineato dal legislatore secondo moduli deformalizzati (Sez. U, n. 3775 del 21/12/2017, dep. 2018, Tuttolomondo, Rv. 271648 - 01, in motivazione). Il rilievo della sostanziale novità del tema introdotto con la memoria susseguente all'atto di impugnazione innanzi al Tribunale di sorveglianza già determina un ostacolo, non superabile rispetto alla tesi del ricorrente, lì dove egli ha dedotto l'irrilevanza/inesigibilità della collaborazione cori la giustizia, onde conseguire l'applicazione alla sua posizione della disciplina transitoria di cui all'art. 3, comma 2, d.l. n. 162 del 2022. 4.4. In ogni caso, a fronte dell'affermata assenza dei presupposti occorrenti per l'applicazione alla sua posizione dell'indicata disciplina transitoria, la deduzione da parte di Ca. - la carenza per la cui posizione della dichiarazione di collaborazione ex art. 58-ter Ord. pen. è restata incontestata - della irrilevanza/inesigibilità della collaborazione con la giustizia è restata priva di agganci probatori, oltre che assertivi, affidanti. Invero, pur ove fosse ammissibile la deduzione della questione della sussistenza della collaborazione irrilevante o inesigibile, sarebbe in ogni caso da escludere che il generico e non autosufficierite riferimento fatto (nella suindicata memoria aggiuntiva) al contenuto della sentenza di merito accertativa del reato associativo a carico di Ca. potesse reputarsi elemento adeguato a far ritenere specificamente prospettata e dimostrata l'inesigibilità/irrilevanza della mancata collaborazione; ciò, a tacere, poi, della singolarità - e non decisività -dell'argomento di rincalzo, ossia l'inesigibilità della collaborazione, frenata dal timore di ritorsioni in danno del condannato e dei suoi familiari. Stante tale evanescente, già sul piano assertivo, base fattuale addotta da Ca., l'avere il Tribunale determinato di procedere all'esame del reclamo in diretto ed esclusivo rapporto alla verifica delle condizioni previste per i casi a regime, come fissate dall'art. 4-bis, comma 1 -bis, Ord. pen. non può ritenersi opzione valutativa assunta in violazione della disciplina suindicata o manifestamente illogica. Vero è che, poi, i giudici di sorveglianza hanno speso poche e sintetiche notazioni per pervenire a ritenere non provati i presupposti necessari per il superamento della situazione - relativamente - ostativa posta dall'art. 4-bis, comma 1 -bis, Ord. pen, alfine concentrandosi sull'assenza di prova delle iniziative risarcitone a cui l'istante avrebbe dovuto dedicarsi per accreditarsi al fine dell'ottenimento del divisato permesso premio. È anche vero, però, che non risulta essere stata contrastata in alcun modo la rilevata carenza: le iniziative risarcitone, dunque, sono mancate del tutto, come il ricorrente stesso ha confermato, trincerandosi dietro l'argomento relativo alla problematicità della loro attuazione in tema di reato associativo. E la carenza rilevata, in questa subordinata analisi, pure rileva in modo determinante. 5. Assodato quanto precede, non può, quindi, considerarsi censurabile - al di là di una certa sommarietà degli altri riferimenti, quale quello inerente al luogo in cui avrebbe dovuto essere fruito il beneficio premiale, connotante l'ordinanza impugnata - la conclusione raggiunta dal Tribunale relativamente alla mancanza del completo riscontro dei requisiti necessari per addivenire all'approdo favorevole all'istante, che avrebbe dovuto implicare l'assenza dell'attualità dei collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata e del pericolo di ripristino dei collegamenti stessi. Per tale ragione, l'esposta conclusione ha, nel quadro degli indici richiamati, persuasivamente escluso la concreta possibilità di riconoscere a Ca. il permesso premio richiesto, irrilevanti dovendo, di conseguenza, considerarsi le ulteriori censure, siccome mosse dal ricorrente da un angolo visuale - radicato sulla proposta applicazione della disciplina transitoria di cui all'art. 3, comma 2, d.l. n. 162 del 2022 - risultato privo di fondamento. L'impugnazione va, in definitiva, rigettata. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 30 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. SARNO Giulio - Presidente Dott. ACETO Aldo - Consigliere Dott. CORBO Antonio - Relatore Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. MACRI' Ubalda - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Lo.An., nato a Reggio Calabria il 13/05/1993 avverso la sentenza del 06/06/2023 della Corte d'appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Antonio Corbo; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Fulvio Baldi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; lette conclusioni, per il ricorrente, dell'avvocato Gi.Mo., che insiste per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza emessa 6 giugno 2023, la Corte di appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Reggio Calabria che aveva dichiarato la penale responsabilità di Lo.An. per il delitto di violenza sessuale in danno di persona minore di diciotto anni, e, ritenuta la recidiva specifica, gli aveva irrogato la pena di quattordici anni di reclusione. Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, Lo.An., in data 1 luglio 2020, avrebbe costretto la minore Do.An. a subire baci sulla labbra e penetrazione vaginale, dopo averla condotta con la propria auto in un luogo isolato, minacciata ripetutamente anche di morte, presa con forza per le braccia e per i polsi, e infine spogliata dei jeans e delle mutandine. 2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe Lo.An., con atto sottoscritto dall'avvocato Gi.Mo., articolando quattro motivi. 2.1. Con il primo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta affidabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, decisiva fonte di prova a carico. Si deduce, innanzitutto, che erroneamente sono state valorizzate, a conferma dell'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, le deposizioni del perito del giudice, incaricato di assistere all'incidente probatorio, e del consulente tecnico del pubblico ministero, cui era stato il compito di esaminare la capacità a deporre della persona offesa, sebbene le stesse non possano essere risolutive, la prima perché si limita ad attestare la regolarità dell'incidente probatorio, la seconda perché dà conto semplicemente di una situazione di turbamento emotivo, suscettibile di molteplici spiegazioni. Si deduce, poi, che la sentenza impugnata ha omesso di confrontarsi con le incongruenze del racconto della persona offesa, puntualmente denunciate nell'atto di appello, in quanto ha semplicemente asserito la "marginalità" delle discrasie, senza null'altro aggiungere. Si segnala, in particolare, che, come già indicato nell'atto di appello, la vittima, mentre in sede di denuncia aveva detto di conoscere a mala pena l'imputato, rendendo dichiarazioni al Pubblico Ministero aveva cambiato versione, e ammesso di avere un rapporto di frequentazione con lo stesso. Si osserva che questo "aggiustamento" e l'originario mendacio, spiegato con il timore di non essere altrimenti creduta, avrebbero dovuto essere messi in relazione con le perplessità espresse dalla sorella della vittima, la quale, in considerazione degli atteggiamenti disinibiti da questa più volte tenuti, ad esempio nei rapporti con il "fidanzatino", e delle fughe da casa della stessa, ha affermato di aver temuto che il racconto della violenza fosse una grossa bugia per giustificare il mancato rientro a casa in quei primi giorni del luglio 2020. Si rappresenta, quindi, che anche altri testimoni hanno riferito la tendenza della vittima a dire bugie a scuola ed agli amici, e che, proprio per questa ragione, il teste Ba.An., il quale aveva ospitato la minore subito dopo il fatto, il 2 e il 3 luglio 2020, ha affermato di aver ritenuto bugie le confidenze in quel momento ricevute in ordine alla violenza; si aggiunge che, secondo il teste Ba.An., e la di lui madre, la persona offesa, a casa loro, in quei giorni, aveva manifestato tranquillità e spensieratezza. Si rileva, poi, che il racconto della persona offesa è intrinsecamente contraddittorio ed inverosimile, quando riferisce del momento centrale della vicenda: la minore afferma di essere stata presa per il braccio da parte dell'imputato e trascinata verso la panchina dove era stata costretta a distendersi, e però poi ammette di essersi seduta sulla panchina con l'imputato per consumare alcune vivande. Si evidenzia, ancora, che perplessità emergono con riguardo alle affermazioni della ragazza di essere stata costretta a rimanere nell'autovettura in cui l'imputato l'aveva trasportata per la presenza di una chiusura con un "sistema a doppia sicurezza", quando i due erano giunti in prossimità di una pizzeria, dove avevano comprato delle vivande, in quanto l'autovettura in questione non era munita di tale tipo di sistema; si aggiunge che gli investigatori hanno omesso di acquisire le immagini delle telecamere presenti sul luogo per verificare se effettivamente in quel momento la minore fosse rimasta in auto o fosse scesa in strada. Si espone, infine, che nessuno degli amici incontrati dalla persona offesa ha detto di aver notato ecchimosi al collo, escoriazioni o ematomi, quali quelli implicati dalle modalità con le quali era stata realizzata la violenza sessuale. 2.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta affidabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in considerazione degli accertamenti medico-legali e biologici. Si deduce che il medico legale: a) non ha escluso una violenza sessuale, ma di certo non la ha ritenuta accertata; b) non ha escluso la riconducibilità delle perdite ematiche subite dalla ragazza al ciclo mestruale, ma ha semplicemente preso atto delle dichiarazioni della stessa, la quale aveva detto di avere avuto il ciclo alcuni giorni prima, ed ha inoltre rilevato l'assenza di alterazioni o disturbi incidenti sullo stesso. Si osserva, poi, che appare illogico il collegamento tra la violenza sessuale e le difficoltà di deambulazione della minore riscontrate il 5 luglio, posto che la stessa non ha avuto analoghe difficoltà nei giorni precedenti, come si desume dalle dichiarazioni del teste Ba.An.. Si evidenzia, quindi, che gli accertamenti biologici non hanno consentito di rinvenire sugli indumenti della persona offesa tracce di liquido seminale dell'imputato e che le tracce di DNA rinvenute possono essere spiegate in molti modi, ad esempio perché lasciate da sudore o da formazioni pilifere. 2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 99, secondo comma, n. 1, cod. pen., a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva specifica. , Si deduce che illegittimamente il reato in contestazione è stato ritenuto della stessa indole di quello di tentato omicidio di cui alla precedente condanna. Si osserva che la stessa indole non può essere desunta dal fatto che entrambi i reati sono reati contro la persona, o sono stati commessi nella stessa area geografica. Né è significativo che la violenza sessuale sia stata commessa a soli diciotto mesi dalla fine dell'espiazione della pena per il tentato omicidio. 2.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 27, terzo comma, Cost., a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla determinazione della pena. Si deduce che la pena irrogata, pari a quattordici anni di reclusione, è sproporzionata e contrastante con la finalità di rieducazione che deve perseguire a norma dell'art. 27, terzo comma, Cost. 3. Con memoria di replica alla requisitoria del Procuratore generale della Corte di cassazione, il difensore de! ricorrente ha riproposto le osservazioni formulate nei quattro motivi del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate. 2. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità, o comunque manifestamente infondate, sono le censure esposte nei primi due motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente perché strettamente connesse, in quanto entrambe relative al giudizio sull'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, ritenuto viziato perché avrebbe minimizzato le rilevanti incongruenze ed inverosimiglianze del racconto della stessa, da valutare anche alla luce delle condotte pregresse e successive della medesima, e perché avrebbe valorizzato come riscontri elementi equivoci e privi di concreta efficacia indiziante. 2.1. Ai fini dell'esame delle censure indicate, è utile dare indicazione dei criteri metodologici cui il Collegio deve attenersi, in considerazione della consolidata e condivisa elaborazione della giurisprudenza in materia. Innanzitutto, va evidenziato che, in tema di valutazione della prova testimoniale, la valutazione dell'attendibilità della persona offesa dal reato è questione di fatto, non censurabile in sede di legittimità, salvo che la motivazione della sentenza impugnata sia affetta da manifeste contraddizioni, o abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo id quod plerumque accìdit, ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulti priva di una pur minima plausibilità (cfr., tra le tantissime, Sez. 4, 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01, e Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575-01, ma anche Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D'Ippedico, Rv. 271623-01). Va poi aggiunto che, ai fini dell'affermazione di responsabilità penale, le dichiarazioni della persona offesa non debbono essere corroborate da riscontri estrinseci, essendo sufficiente una approfondita verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto (cfr., per tutte, Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214-01, e Sez. 4, n. 410 del 09/11/2021, dep. 2022, Aramu, Rv. 282558-01). Ancora, va rilevato che, come ulteriormente precisato da una decisione, qualora risulti "opportuna" l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione (Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S. Rv. 275312-01). 2.2. La sentenza impugnata ha ricostruito i fatti ascritti all'attuale ricorrente, sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, ritenute attendibili all'esito di un dettagliato esame delle censure formulate negli atti di appello, ed in linea con le articolate osservazioni esposte nella sentenza di primo grado. 2.2.1. La sentenza impugnata, innanzitutto, riporta in modo analitico il contenuto delle dichiarazioni, estremamente dettagliate, della persona offesa, in ordine al fatto e delle vicende immediatamente successive fino alla presentazione della denuncia alle autorità di polizia. In sintesi, secondo quanto esposto dalla Corte d'appello, la persona offesa, all'epoca dei fatti quindicenne, ha premesso di aver conosciuto l'imputato in occasione della festa per il compleanno di una sua amica, di averlo incontrato altre due o tre volte, e di aver avuto, con lo stesso, scambi di messaggi, alcuni dei quali di contenuto allusivo. La dichiarante ha poi raccontato, con riferimento a quanto accaduto il giorno 1 luglio 2020, che: a) nel pomeriggio, ella aveva chiamato telefonicamente l'imputato per chiedergli in prestito ottanta euro al fine di comprare un cellulare, aveva informato di ciò la sorella alla quale era affidata e con la quale conviveva, ne era stata rimproverata ed aveva ricevuto da questa la somma di quaranta euro; b) ricevuto il denaro, ella era uscita di casa per comprare un costume da bagno ed aveva contattato l'imputato, il quale, dopo averla raggiunta, aveva insistito per pagare quanto da lei acquistato e l'aveva poi portata presso un bar dove entrambi avevano consumato qualche alimento; c) intorno alle 20,00, l'imputato, da lei richiesto di accompagnarla a casa, l'aveva fatta salire sulla sua auto, durante il viaggio le aveva chiesto un bacio, ricevendone un rifiuto, e poi aveva preso una strada isolata, dove si era fermato, adducendo il surriscaldamento della batteria, aveva stretto al collo la ragazza e le aveva detto che, se non avesse fatto quanto lui voleva, l'avrebbe uccisa o comunque non le avrebbe fatto più rivedere la famiglia, provocando in lei grida e pianti; d) subito dopo, l'imputato era ripartito ed aveva condotto la ragazza in un altro luogo isolato, e, poi, di fronte alla nuova crisi di pianto della stessa, aveva ribadito l'inutilità di quei lamenti, in quanto non sarebbero stati uditi da alcuno, aveva aggiunto di non sapere se ucciderla, o non riportarla a casa, o di "farsi la galera", e le aveva chiesto un rapporto orale; e) subito dopo, l'auto con a bordo i due giovani era ripartita e, intorno alle 21,30, aveva raggiunto un bar pizzeria, dove l'uomo, chiusa l'auto a chiave e intimato a lei di non scendere dalla vettura, aveva comprato cibi e bevande; f) effettuato l'acquisto, l'imputato si era rimesso alla guida del veicolo, dicendo di non sapere se l'avrebbe riportata a casa, ed aveva raggiunto un luogo isolato, dove aveva fermato l'auto, e, poi, insieme con lei, a piedi, aveva raggiunto un spiazzo, nel quale c'era anche una panchina; g) in quel frangente, l'imputato aveva iniziato a bere birra e ad abbracciarla, e poi, nonostante le sue proteste, le sue grida ed i suoi pianti, profferendo bestemmie, l'aveva afferrata per i polsi, trascinata verso la panchina, dove l'aveva distesa, e, quindi, ponendosi sopra di lei, l'aveva costretta a subire un rapporto sessuale completo; h) ella, mentre si era rivestita, si era sentita bagnata e, chiesto all'imputato di farle luce con il cellulare, aveva notato di avere perdite di sangue; i) l'uomo, a quella vista, aveva deciso di accompagnarla a casa dei suoi nonni; I) ella, prima di partire, di nascosto, aveva lasciato gli slip presso la panchina, per lasciare una prova della violenza subita. La persona offesa, con riguardo al successivo svolgimento dei fatti, ha dichiarato che: a) giunti a casa dei nonni dell'imputato, la nonna, informata dal nipote delle sue perdite di sangue, le aveva dato una pillola per l'emorragia e dei pannoloni; b) subito dopo, l'uomo si era addormentato, mentre lei era rimasto un poco sul balcone piangendo; c) la mattina seguente, dapprima era stata invitata dalla nonna dell'imputato a raccontare a casa di essere stata da un'amica per non rovinare il nipote, e, poi, approfittando del sonno di questi, aveva prelevato il cellulare del medesimo, lo aveva sbloccato ed era entrata nel proprio profilo Instagram, attraverso il quale aveva informato due amiche di quanto aveva subito; d) poco dopo, l'imputato, svegliatosi, su sua richiesta, aveva acconsentito ad accompagnarla presso un bar dove avrebbe incontrato delle amiche, per poi poter riferire alla sorella di aver domito a casa di queste; e) ella, prima di partire, aveva lasciato dietro la lavatrice della casa in cui aveva trascorso la notte un fazzoletto intriso del proprio sangue; f) raggiunti alcuni compagni scuola, ella era scesa dall'auto dell'imputato ed aveva preso un autobus, sul quale aveva incontrato il cognato, a cui aveva consegnato una busta contenente jeans e maglietta indossati al momento dello stupro; g) ella, tuttavia, non era tornata a casa, temendo di non essere creduta dalla sorella e dal cognato, per i suoi precedenti allontanamenti, ma si era recata presso alcuni amici, ed aveva trovato ospitalità presso Ba.An., al quale aveva confidato le violenze subite, ed a casa del quale era rimasta per due giorni; h) la mattina del 4 luglio, però, l'amico, vedendo vari post sui social network denuncianti la di lei scomparsa, l'aveva convinta a rientrare a casa; i) ella, però, preso l'autobus, aveva deciso di recarsi a presentare denuncia alla polizia, e, durante il viaggio, aveva incontrato un'amica, alla quale inizialmente non aveva raccontato nulla, salvo poi confidarsi alla discesa dall'autobus, per farsi accompagnare dalla stessa, siccome maggiorenne, presso la polizia; I) nell'immediato prosieguo, ella, con questa giovane ed un'altra amica incontrata per strada, si era recata in Questura dove aveva presentato denuncia. 2.2.2. La sentenza impugnata, dopo aver riportato il contenuto delle altre fonti di prova acquisite, tra cui le dichiarazioni dell'imputato, indica le ragioni per le quali ritiene attendibili le dichiarazioni della persona offesa. In particolare, la Corte d'appello rappresenta che il racconto è estremamente preciso e dettagliato, è intrinsecamente coerente ed è avvalorato dal contegno tenuto nel corso della deposizione resa nell'incidente probatorio, oggetto di visione diretta in dibattimento, siccome indicativo di genuina e profonda sofferenza, e caratterizzato da cambio di voce, vergogna, inibizione, prolungati silenzi e copiose lacrime. Segnala, poi, che il perito nominato dal giudice ha affermato la piena capacità a testimoniare della vittima, e che il consulente tecnico nominato dal Pubblico Ministero ha confermato l'esistenza di elementi chiaramente sintomatici di un trauma subito e non elaborato. Il Giudice di secondo grado, inoltre, evidenzia come la scelta della persona offesa di presentare denuncia sia stata sofferta e ponderata, per il timore non solo delle minacce dell'imputato, ma anche dei rimproveri della sorella cui era stata affidata dalla madre, stante la problematicità dei loro rapporti. Segnala, in proposito, che la vittima decise di confidarsi da subito, e nei limiti consentiti dal controllo cui era sottoposta da parte dell'imputato, con due amiche, precisamente indicate, tramite Instagram, e poi, quando era ormai lontana dal medesimo, con l'amico Ba.An., il quale l'aveva ospitata per due giorni. Aggiunge, ancora, che l'atteggiamento timoroso e diffidente della vittima è emerso anche in occasione della presentazione della denuncia in Questura, come indicato dalla consulente tecnica del Pubblico Ministero. Conclude che tali circostanze escludono anche qualunque intento calunnioso. La Corte distrettuale, poi, espone che il racconto della persona offesa ha trovato conferma in numerosi dati oggettivi. In particolare, segnala che: a) il percorso effettuato con l'auto è stato riscontrato da immagini riprese dalle telecamere in più luoghi indicati e negli orari riferiti; b) sulla panchina segnalata come luogo della violenza sono state trovate tracce di sangue, e nelle immediate vicinanze della stessa sono stati rinvenuti gli slip della minore e due bottiglie di birra; c) nella stanza da letto dell'imputato, sono stati trovati pannoloni intrisi di sangue e tracce ematiche; d) il pernottamento a casa dei nonni dell'imputato è stato confermato dalla nonna dello stesso. La sentenza impugnata, quindi, rappresenta che le aporie e discordanze delle dichiarazioni della vittima sono "minime". Precisa, innanzitutto, che il silenzio della persona offesa, in occasione della denuncia, sul fatto di aver richiesto denaro all'imputato e di aver accettato il pagamento dei suoi indumenti è spiegabile con il timore di rimproveri, da parte della sorella, per essersi accompagnata ad un adulto: questo timore non solo era coerente con la conflittualità dei rapporti tra le due, dimostrati anche dalle conversazioni intercettate sull'utenza della sorella, ma era giustificato sia dai plurimi allontanamenti della ragazza da casa, sia dai ripetuti contatti telefonici con uomini adulti, e dallo scambio di fotografie in pose intime con l'ex-fidanzato, fatti entrambi "scoperti" dalla parente. Osserva, poi, che il racconto delle modalità dello stupro è rimasto immutato, ed è coerentemente costituito, in successione, dai primi approcci dell'imputato, dal netto rifiuto della vittima, dalla violenta reazione verbale dell'imputato, dalle spinte della ragazza per allontanarlo, e poi dall'azione violenta dell'uomo costituita dalla presa per un braccio e dalla coazione a distendersi sulla panchina. Espone, quindi, che la vittima ha affermato di essere rimasta nell'autovettura quando l'imputato era sceso per entrare in un bar pizzeria e comprare delle vivande perché lo stesso le aveva detto di fare la brava, e non ha mai riferito di aver tentato di aprire la portiera. Evidenzia, ancora, che il diniego della ragazza di aver già avuto in precedenza rapporti sessuali, sebbene smentito dagli accertamenti medici compiuti, lungi dallo screditare il suo racconto, "denota come la stessa non avrebbe disvelato particolari della propria vita intima qualora avesse intrattenuto un rapporto consensuale, trovando, di contro, il coraggio e la forza di raccontare unicamente per denunciare l'atrocità dell'abuso sessuale subito". La Corte d'appello, ancora, sottolinea che gli accertamenti medici e biologici non smentiscono, ma anzi confermano il racconto della persona offesa. Quanto agli accertamenti e profili medici, segnala, in particolare, che: a) le perdite dì sangue non possono essere spiegate come il risultato del flusso mestruale, perché, come confermato dagli accertamenti specialistici effettuati, questo era regolare, e la sua datazione era coerente con quanto riferito dalla minore; b) l'assenza di tracce della violenza sessuale sono spiegabili in quanto la ragazza, come indicato negli accertamenti specialistici effettuati, presentava una vagina tipica di donna che aveva già avuto rapporti sessuali; c) l'assenza di segni esteriori sul corpo della vittima sono compatibili con la maggiore prestanza fisica dell'imputato, la quale rendeva non necessario l'esercizio di una particolare forza per consumare la violenza; d) le difficoltà di deambulazione della persona offesa, ed i forti dolori addominali avvertiti dalla stessa, sono circostanze confermate dalle conversazioni intercettate sull'utenza della sorella. Quanto agli accertamenti biologici, rimarca che il profilo genetico dell'imputato è stato rinvenuto nei jeans della vittima, e ciò smentisce il racconto dell'uomo, secondo cui, nelle tante ore trascorse insieme, c"erano stati effusioni, baci e carezze consensuali, ma non approcci più intimi. Aggiunge che l'assenza di tracce di liquido seminale sui reperti "può al più eventualmente collegarsi all'assenza di eiaculazione". 2.3. Le conclusioni della sentenza impugnata in ordine al giudizio di attendibilità del racconto della minore in ordine alla violenza denunciata sono immuni da vizi. La Corte d'appello, infatti, ha spiegato perché ritiene che le stesse siano intrinsecamente attendibili e pienamente coerenti con le altre risultanze istruttorie, sulla base di elementi precisi e congrui rispetto alle conclusioni raggiunte, rispondendo inoltre in modo analitico, e con argomentazioni corrette, a tutte le deduzioni formulate dalla difesa dell'imputato. 3. Manifestamente infondate sono le censure formulate nel terzo motivo di ricorso, che contestano l'applicazione della recidiva specifica, deducendo che il reato di violenza sessuale per cui si procede non può essere ritenuto della stessa indole di quello di tentato omicidio, oggetto di precedente condanna. 3.1. In forza della disposizione di cui all'art. 101 cod. pen., per "reati della stessa indole", devono intendersi non solo quelli che violano una medesima disposizione di legge, ma anche quelli che, pur essendo previsti da testi normativi diversi, presentano nei casi concreti - per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati - caratteri fondamentali comuni (così, tra le tantissime, Sez. 3, n. 38009 del 10/05/2019, Assisi, Rv. 278166-06, e Sez. 6, n. 15439 del 17/03/2016, C., Rv. 266545-01). In giurisprudenza, si è espressamente precisato che la "stessa indole" prescinde dall'identità del bene giuridico protetto dalle diverse disposizioni incriminatrici violate e sulla cui base di applica la recidiva (Sez. 2, n. 40105 del 21/10/2010, Apostolico, Rv. 248774-01). E, in questa prospettiva, si è affermato, ad esempio, che, ai fini della recidiva specifica, il reato di resistenza a pubblico ufficiale, siccome connotato da violenza o minaccia alla persona, presenta caratteri fondamentali comuni rispetto ai reati di detenzione e porto abusivo di arma comune da sparo, che pure sono indicativi dell'intenzione di recare offesa alla persona (Sez. 1, n. 3435 del 08/07/1994, Capitale, Rv. 199863-01). Si è inoltre osservato che più reati possono considerarsi omogenei per comunanza di caratteri fondamentali quando siano simili le circostanze oggettive nelle quali si sono realizzati, quando le condizioni di ambiente e di persona nelle quali sono state compiute le azioni presentino aspetti che rendano evidente l'inclinazione verso un'identica tipologia criminosa, ovvero quando le modalità di esecuzione, gli espedienti adottati o le modalità di aggressione dell'altrui diritto rivelino una propensione verso la medesima tecnica delittuosa e che, per l'individuazione e per l'esclusione dei caratteri anzidetti è necessaria una specifica indagine rimessa alla valutazione discrezionale del giudice e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata (così Sez. 3, n. 11954 del 16/12/2010, dep. 2011, L., Rv. 249744-01, e Sez. 3, n. 3362 del 04/10/1996, Barrese, Rv. 206531-01). 3.2. La sentenza impugnata ritiene che il reato di violenza sessuale per il quale ha confermato la decisione di condanna sia della stessa indole del reato di tentato omicidio commesso dall'imputato in danno di minore infraquattordicenne, accertato dal Tribunale dei Minorenni con sentenza irrevocabile. La Corte d'appello, in particolare, a fondamento di tale conclusione, osserva che i due reati sono entrambi contro la persona, e sono stati entrambi commessi in danno di una persona adolescente, con modalità violente, e nella medesima area territoriale isolata, ben conosciuta dall'imputato e idonea a ridurre al minimo la possibilità di interferenze di terzi e di reazione delle vittime. Aggiunge che il secondo reato, quello di violenza sessuale, è stato commesso dall'imputato solo diciotto mesi dopo l'espiazione della precedente condanna, così da evidenziare una continuità di condotte illecite ed una proclività delinquenziale espressa attraverso la medesima tecnica delittuosa. Precisa che il precedente reato di tentato omicidio aveva lasciato la vittima quasi in fin di vita, con il volto totalmente tumefatto nella parte destra con fuoriuscita di sostanza ematica ed escoriazioni ed ematomi sul resto del corpo, determinandone uno stato di coma protrattosi per due settimane. 3.3. Le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi. Il reato oggetto della sentenza impugnata e quello per il quale è già stata pronunciata sentenza irrevocabile legittimamente possono ritenersi, per come ricostruiti dalla Corte d'appello, presentare "caratteri fondamentali comuni", quanto meno "per la natura dei fatti che li costituiscono". Precisamente, le modalità di esecuzione, gli espedienti adottati e le modalità di aggressione rivelano, con riguardo ad entrambi i reati, una propensione verso la medesima tecnica delittuosa. I due fatti di reato, inoltre, consistono entrambi in condotte di aggressione fisica in danno di una persona. Inoltre, va considerato che il delitto di violenza sessuale è di poco successivo alla espiazione della pena per il precedente reato di tentato omicidio, e, anzi, l'imputato, più volte ha dimostrato assolta indifferenza e piena consapevolezza in ordine alle conseguenze delle sue azioni, terrorizzando la vittima con l'affermazione di non sapere se ucciderla, non riportarla a casa, o "farsi la galera". 4. Del tutto prive di specificità sono le censure enunciate nel quarto motivo, che contestano l'entità della pena irrogata, ritenuta del tutto sproporzionata ed in contrasto con la finalità di rieducazione spettante alla stessa. Invero, la sentenza impugnata, in modo pienamente corretto, ha motivato la scelta di applicare sia una pena base di poco superiore al minimo edittale, sia un aumento nel massimo per la recidiva, facendo riferimento alla gravità dei fatti in contestazione, alla gravità e specificità del precedente, ed alla vicinanza tra la fine dell'espiazione della pena per il pregresso reato e la commissione dei nuovo delitto. Né è allegata, o rilevabile, l'omessa considerazione di elementi favorevoli all'imputato. 5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al versamento a favore della cassa delle ammende, della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. Nessuna valutazione, poi, può essere espressa in ordine alla richiesta del difensore del ricorrente di liquidazione delle sue spettanze per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, trattandosi di questione estranea alle competenze della Corte di cassazione. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003. Così deciso il 02 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DOVERE Salvatore - Presidente Dott. MICCICHE' Loredana - Relatore Dott. MARI Attilio - Consigliere Dott. D'ANDREA Alessandro - Consigliere Dott. ANTEZZA Fabio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Zo.Gi.nato a T il (omissis) avverso la sentenza del 07/03/2023 della CORTE APPELLO di TORINO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere LOREDANA MICCICHE'; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore KATE TASSONE, che conclude per l'inammissibilità del primo e dell'ultimo motivo di ricorso e per il rigetto del ricorso nel resto. E' presente l'avvocato BO.VI., del foro di TORINO, in difesa delle PARTI CIVILI, anche per l'avv. AG.GI. (con delega orale), il quale deposita conclusioni scritte alle quali si riporta e nota spese delle quali chiede la liquidazione anche per l'avv. AG.GI.; E' presente come sostituto processuale con delega depositata in aula dell'avvocato SA.GI. del foro di TORINO, in difesa di Zo.Gi., l'avv. TI.SO., del foro di ROMA, la quale chiede l'accoglimento del ricorso e deposita osservazioni difensive dell'avv. SA.GI. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte d'Appello di Torino con sentenza del 7 marzo 2023, confermava la sentenza del Tribunale di Torino che aveva dichiarato Zo.Gi.responsabile del reato di omicidio stradale nonché del reato di omissione di soccorso commesso ai danni di Go.Ro., investita dall'imputata all'interno di area privata soggetta ad uso pubblico destinata alla circolazione dei veicoli e dei pedoni. La Corte territoriale, nel respingere i motivi di gravame, riteneva esaustiva, congrua e rispondente alle risultanze processuali la motivazione della sentenza di prime cure in ordine alle modalità del sinistro, confermando integralmente l'impianto motivazionale del primo giudice relativamente alla ricostruzione, in via indiziaria, dell'accaduto. 2. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso l'imputata, a mezzo del difensore di fiducia, per tre motivi. 2.1. Con un primo motivo lamenta vizio di motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, basata su elementi indiziari non concludenti. La Corte territoriale aveva basato le proprie convinzioni su un quadro che difettava del requisito della concordanza, essendo presenti, nel compendio probatorio, indici di segno totalmente opposto. Non erano stati fugati i dubbi circa la contemporanea presenza, nell'area interessata, di altri mezzi, trattandosi di area aperta alla circolazione, come emergeva da tutto il complesso delle deposizioni acquisite al giudizio ( testi Fr., Do., Ca., Ba.) che avevano concordemente affermato la circostanza relativa al passaggio di altri mezzi nell'area interessata. La Corte aveva escluso la possibilità che la vittima fosse stata investita da altri mezzi, non essendovi prova in tal senso, così operando un ragionamento contra legem perché basato sulla inversione dell'onere probatorio spettante alla pubblica accusa. Dette considerazioni, inoltre, erano del tutto inidonee a scardinare il fondamentale principio dell'aldilà di ogni ragionevole dubbio. Inoltre, la corte territoriale aveva violato le regole sottese alla valutazione della prova scientifica. Le tracce biologiche rinvenute sotto il paraurti dell'auto della imputata ( capelli e peli) erano risultate incompatibili con il DNA della vittima; il test volto a rilevare la presenza di sangue umano sul mezzo aveva dato esito negativo: detti dati erano stati considerati erroneamente " neutri" dai giudici di merito, che li avevano privati della loro indiscutibile efficacia scagionante, posto che, se davvero l'imputata avesse investito e poi addirittura arrotato la vittima le tracce ( nonostante che l'auto fosse stata lavata quella mattina) sarebbero certamente rimaste. Ancora, era illogica l'esclusione della rilevanza della mancata compatibilità tra le ammaccature rinvenute sull'auto e l'investimento della vittima. Era stato del tutto illogicamente considerato privo di rilievo l'elemento relativo alla bruciatura riconducibile at(un segno ellittico da tubo di scappamento rinvenuto sulla gonna della vittima, che non era attribuibile alla vettura dell'imputata in quanto, secondo la ricostruzione avvalorata dai giudici di merito, l'investimento era avvenuto dopo la sosta dell'auto per circa una ventina di minuti, quindi quando il tubo di scappamento era freddo e non avrebbe potuto rilasciare il segno di bruciatura rinvenuto sugli abiti della vittima. Non risultava quindi superato il vaglio di univocità richiesto dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, nel senso dell'esclusione di qualsiasi altra plausibile spiegazione alternativa. 2.1. Con un secondo motivo deduce vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla affermata sussistenza del dolo nel contestato reato di omissione di soccorso. In particolare, i giudici di merito non avevano considerato che l'imputata aveva fatto ritorno sul posto per assistere poco dopo alla procedura di sfratto che la riguardava; che la predetta imputata, avendo l'auto carica di masserizie in occasione dello sfratto subito, non avrebbe potuto avvedersi della presenza di pedoni in caso di manovra; che i sobbalzi dell'auto avrebbero potuto essere riconducibili al cattivo stato di manutenzione dell'asfalto, anche in considerazione della esile struttura fisica della vittima; che il lavaggio dell'auto era avvenuto successivamente ad un primo ritorno dell'imputata sui luoghi, ed era per di più stato eseguito palesemente in modo superficiale, tanto che erano rimaste tracce di capelli sul paraurti, elementi idonei ad escludere, in capo all'imputata, qualsivoglia consapevolezza di un ipotetico avvenuto investimento da lei causato. In ordine a detti elementi la Corte territoriale aveva totalmente omesso la motivazione circa la loro rilevanza. 3. Con il terzo motivo, lamenta la ricorrente vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al diniego del riconoscimento della circostanza di cui all'art. 589, comma 7, cod. pen.Sul punto, la Corte territoriale si era limitata, con laconiche considerazioni, ad escludere il concorso di colpa della vittima. La norma di cui all'art. 589,comma 7 cod. pen. fa invece riferimento al caso in cui "l'evento non sia esclusiva conseguenza della azione o omissione del colpevole", estendendo l'applicazione della circostanza attenuante anche al caso in cui l'evento sia determinato dalla condotta di soggetti terzi. Sul punto, era stato richiesto nei motivi di appello di valutare anche la responsabilità dei proprietari dell'area cortilizia interessata per la omessa regolamentazione del transito pedonale: sul punto, la sentenza impugnata aveva omesso del tutto di motivare. E per di più, era viziata da violazione di legge la motivazione che aveva escluso il concorso di colpa della vittima: l'art. 190 comma 5 CdS prevede infatti che i pedoni che si accingono ad attraversare la carreggiata in zona sprovvista di attraversamenti pedonali devono dare la precedenza ai conducenti: della disposizione era stata palesemente violata dalla vittima. CONSIDERATO IN DIRITTO 1.11 primo motivo, con cui si contesta l'affermazione di responsabilità, alla quale la Corte territoriale era pervenuta, a dire della ricorrente, valorizzando elementi non concludenti e non fornendo quindi logiche spiegazioni in ordine alla dinamica del sinistro, ricostruito in via indiziaria, è inammissibile. La Corte territoriale ha invero fondato il giudizio di colpevolezza sulla base del materiale istruttorio raccolto, adeguatamente esaminato e vagliato in ambedue i gradi di giudizio, pervenendo ad un accertamento in fatto della dinamica del sinistro non suscettibile di plausibili ricostruzioni alternative, quali quelle proposte dalla ricorrente e nuovamente avanzate con il motivo prospettato nella presente sede dopo essere state adeguatamente confutate dai giudici di merito. 1.1 In primo luogo, circa la dedotta incertezza del passaggio di altri veicoli sul posto, con conseguente impossibilità di affermare l'identità del veicolo investitore, la sentenze di merito traggono la ineccepibile conclusione della responsabilità della Zo.Gi. sia dalla posizione del corpo della vittima in rapporto alla traiettoria compiuta dall'imputata sia dalla compatibilità dell'orario di uscita della predetta imputata dall'area cortilizia ove era avvenuto l'investimento. Significativo e coerente, dal punto di vista della tenuta logica, è il passaggio delle sentenze di merito che analizza la perfetta compatibilità tra le modalità con le quali era stato ritrovato il cadavere dell'anziana signora, posizionato al centro del cortile con i piedi rivolti verso il capannone H, nonché gli oggetti della vittima ( occhiali, bastone) proiettati a distanza de cadavere, e la traiettoria sicuramente seguita dalla autovettura della Zo.Gi., proveniente da un vicolo ove era parcheggiata, posto alla destra del cadavere, con manovra in retromarcia verso il centro del cortile, dove la vittima stava camminando. Altrettanto pregnante e conducente verso una univoca conclusione è la considerazione, pienamente accertata, che la Zo.Gi., presente sul posto al fine di sgombrare il locale che conduceva in affitto, dovendo subire una procedura di sfratto fissata per le 9.30, aveva caricato la sua auto di suppellettili varie, e pertanto aveva la visuale del tutto ostruita mentre stava compiendo la manovra in retromarcia, non avvedendosi del passaggio della vittima al centro del cortile. Inoltre, la ricorrente fa riferimento alle deposizioni secondo cui nella zona sarebbero transitati " un muletto" o " furgoncini", e, sul punto, la Corte territoriale argomenta esaustivamente e in modo coerente alle prove acquisite, escludendo che fosse stato un furgone ad investire la persona offesa, poiché, secondo il perito medico legale, le lesioni da schiacciamento sarebbero state ancora più importanti. 1.2 Allo stesso modo, non è affetta da manifesta illogicità la motivazione offerta dalla Corte territoriale circa la dedotta incompatibilità del segno ellittico presente sugli abiti della vittima con la bruciatura del tubo di scappamento della vettura Zo.Gi., che era stata ferma per un certo lasso di tempo e quindi non poteva essere calda. Osserva la Corte territoriale che, secondo la ricostruzione offerta dal consulente medico legale, si trattava non di una" bruciatura" ( di cui parla la soltanto la consulente di parte) ma di un " imbrattamento", considerando che il tubo di scappamento è certamente sporco per via dei fumi che fuoriescono. Quanto, infine, alla asserita efficacia scagionante dell'analisi, con esito negativo, del DNA del materiale biologico ( capello, peli) rinvenuto sull'esterno dell'auto della ricorrente, con conseguente manifesta illogicità delle sentenze di merito che avevano attribuito al dato un valore non univoco, deve rilevarsi che il corpo argomentativo delle pronunce di primo e secondo grado sottolinea, in modo convincente e certo non illogico, che il dato predetto non può valere come elemento escludente la responsabilità dell'imputata. Ciò in quanto la vettura era stata portata ad un lavaggio auto immediatamente dopo i fatti, sicché certamente alcune tracce biologiche presenti erano state eliminate, nonché in considerazione proprio della anomala condotta tenuta dallaZo.Gi. nella immediatezza dei fatti. Invero la ricorrente, uscita dall'area ove era avvenuto il sinistro, si era recata, appunto, presso un autolavaggio; non solo, dopo essere stata chiamata al telefono dall'agente giunto sul luogo del sinistro che la aveva contattata per controllare la sua autovettura, la Zo.Gi. aveva riferito di trovarsi dall'altra parte della città (a Moncalieri), presentandosi sul posto solo alle 12.30 dopo aver fatto lavare la macchina; al contrario, dall'esame dei tabulati telefonici era invece emerso che la Zo.Gi. si trovava molto più vicino, ossia nella zona nord di Torino. E' quindi ineccepibile, dal punto di vista logico, il ragionamento dei giudici di merito secondo cui detta condotta ha fortissima valenza indiziaria della responsabilità della Zo.Gi. nell'investimento, essendo chiaro che la predetta aveva riferito falsamente all'agente operante di trovarsi lontano al fine di guadagnare tempo per far lavare la macchina onde eliminare le tracce dell'investimento, senza, peraltro, fornire spiegazione alcuna circa la decisione di portare la vettura presso un autolavaggio, né del perché avesse mentito circa la zona ove si trovava a momento della telefonata. 2. Alla luce di quanto esposto, ribadita la perfetta tenuta logica della sentenza impugnata, è evidente che i motivi proposti tendono sostanzialmente ad una diversa valutazione delle risultanze processuali non consentita in sede di legittimità. In proposito va sottolineato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito. La Corte di Cassazione deve invero circoscrivere il suo sindacato di legittimità sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell'assenza, in quest'ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati con il ricorso e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (sez. 6, n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989- 01; sez. 4, n. 35683 del 10/07/2007, Rv. 237652 01; sez. 4, n. 31346 del 18/06/2013 , Rv. 256287 - 01). Tenendo conto di tutti i principi testé ricordati, deve dunque rilevarsi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure appena esaminate non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato, alla quale la ricorrente ha inteso piuttosto sostituire una sua visione alternativa del fatto facendo riferimento all'art. 606 cod. proc. pen., lett. e). E va vieppiù sottolineato che si verte in ipotesi di "doppia conforme", ove l'obbligo motivazionale gravante sul giudice di secondo grado è meno stringente, dovendosi fare riferimento ad un complesso motivazionale coerente ed organico, rappresentato da entrambe le sentenze. Quanto, infine, alla invocata violazione del principio dell'aldilà di ogni ragionevole dubbio, va riaffermato il principio secondo cui la condanna può essere pronunciata solo se l'imputato risulti colpevole "oltre ogni ragionevole dubbio", non può essere utilizzato, nel giudizio di legittimità, per valorizzare e rendere decisiva una ricostruzione alternativa del fatto emersa in sede di merito su segnalazione della difesa, se tale differente prospettazione sia stata oggetto di puntuale e motivata disamina da parte del giudice, il quale abbia individuato gli elementi di conferma dell'ipotesi ricostruttiva accolta posti a base della condanna, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla prospettazione alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un'ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (Sez.l, n.53512 del 17 luglio 2014, Rv.261600; Sez.4, n.22257 del 25 marzo 2014, Rv.259204: Sez. 2, n.18313 del 9/1/2020, n.m.). 3. Stesse considerazioni si impongono quanto al secondo motivo, che attiene alla assenza di dolo nel contestato reato di mancata assistenza. In proposito, in presenza di lesioni ( come nel caso in esame) deve essere ribadito che il reato di omissione di assistenza, di cui all'art. 189, comma settimo, cod. strada, è reato punibile a titolo di dolo, anche eventuale (Sez. 4, n. 14610 del 30/01/2014, Rossini, Rv. 259216 - 01).La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi e non è incorsa in alcun vizio di motivazione, richiamando innanzi tutto la condotta della Zo.Gi. come sopra descritta, inequivocabilmente rivelatrice della consapevolezza della ricorrente di aver causato il sinistro, nonché le modalità dell'investimento ( con schiacciamento del corpo per arrotamento), senza che possa avere alcuna efficacia escludente di tale consapevolezza la circostanza che la donna fosse tornata sui luoghi del fatto, essendo a ciò necessitata a causa dell'appuntamento con l'ufficiale giudiziario. 4. Relativamente, infine, terzo motivo, inerente al mancato riconoscimento del concorso di colpa della vittima o comunque di un concorso di colpa di terzi che non avrebbero provveduto alla realizzazione della segnaletica per l'attraversamento pedonale, è agevole rilevare che il ricorso propone un argomento del tutto congetturale, non essendo comunque possibile accertare se la vittima si sia fermata per consentire la manovra ( rispettando quindi l'obbligo di dare la precedenza) e nonostante questo sia stata investita in retromarcia a causa di uno scatto improvviso della vettura della Zo.Gi..In ogni caso, non presentando l'area alcuna segnaletica orizzontale (il dato non è emerso dalla istruttoria) non può certo ipotizzarsi un obbligo della vittima di rispettare i ed " passaggi sicuri", esistendo, al contrario - come rilevato dalla Corte territoriale - un preciso obbligo del conducente di eseguire la manovra in condizioni di sicurezza, avvistando ed evitando gli ostacoli. Infine, è del tutto generica la deduzione per cui sarebbe ipotizzabile una responsabilità d terzi in forza di un preciso obbligo di provvedere alla apposizione di segnaletica da parte dei proprietari dell'area privata, essendo del tutto assertivo e indimostrato il presupposto relativo alla rilevante dimensione del traffico di veicoli e pedoni nell'area privata ove era avvenuto il sinistro, di proporzioni tali da far ritenere assolutamente indispensabile la apposizione di segnaletica orizzontale. 5. Alla luce delle esposte considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Segue per legge la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma ulteriore in favore della cassa delle ammende, non emergendo ragioni di esonero, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili costituite nel presente giudizio. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna la ricorrente e la responsabile civile (...) Assicurazioni Spa alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità alle parti civili Go.Fr., liquidate in euro 3.900 oltre accessori come per legge, Ba. Fabrizio, in proprio e quale erede di Ba.Se., Ga.Ma. e Ba.Lo., liquidate in complessivi 6.600,00 euro, oltre accessori come per legge. Roma, 16 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. SIANI Vincenzo - Consigliere Dott. FIORDALISI Domenico - Relatore Dott. CENTOFANTI Francesco - Consigliere Dott. MAGI Raffaello - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Il.Da. nato a N il (omissis) avverso la sentenza del 17/04/2023 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DOMENICO FIORDALISI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore MARCO DALL'OLIO che ha concluso chiedendo Il p.G. conclude chiedendo l'inammissibilità del ricorso riportandosi alle conclusioni scritte. udito il difensore E' presente l'avvocato PI.GI. del foro di NAPOLI in difesa di Ca.Al., Ca.Ma. e Ca.Ae. che si associa alle conclusioni del P.G. e deposita conclusioni e nota spese cui si riporta. E' presente l'avvocato FE.LU. del foro di NAPOLI in difesa di Il.Da. che conclude chiedendo l'accoglimento dei motivi di ricorso. E' presente l'avvocato PI.GI. del foro di NAPOLI in difesa di Il.Da. che conclude chiedendo l'accoglimento dei motivi di ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il.Da. ricorre avverso la sentenza della Corte di assise di appello di Napoli del 17 aprile 2023 con la quale, in parziale riforma della sentenza della Corte di assise di appello di Napoli del 5 luglio 2022, è stato condannato alla pena di anni quindici di reclusione, in ordine al reato di omicidio, ai sensi dell'art. 575 cod. pen., perché l'11 gennaio 2021 in B aveva cagionato la morte di Ca.Lu., compagno della madre, attingendolo al torace con un coltello. 2. Il ricorrente articola quattro motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo, denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 192, comma 1, 533, comma 1, cod. proc. pen. e 111 Cost., e vizio di motivazione della sentenza impugnata, perché il giudice di merito, venute meno le due circostanze aggravanti dei futili motivi e della convivenza (che, secondo la contestazione, contenevano la causale e il movente dell'omicidio), avrebbe accertato una causale non contestata in precedenza, che risiederebbe nella patologia clinica dell'imputato. Sul punto, si evidenzia che, da nessun atto del fascicolo, era emerso che l'imputato fosse stato mai violento o avesse mai minacciato terzi soggetti o la vittima; il giudice di merito, pertanto, non avrebbe potuto affermare che le ragioni dell'omicidio erano da rinvenirsi nel fatto che l'imputato alle 16:00 dell'11 gennaio 2021 avesse visto inaspettatamente il compagno della madre in casa e, a causa della sua patologia, avesse reagito in maniera aggressiva. Secondo il ricorrente, tale ricostruzione, oltre a non essere supportata da alcun elemento probatorio, non terrebbe in debita considerazione il fatto che la vittima era solita frequentare nelle ore diurne l'abitazione e che, quindi, non era possibile affermare che egli si fosse sentito infastidito da tale presenza. La Corte di assisi di appello, inoltre, dopo aver ritenuto che l'autore (dell'omicidio doveva necessariamente appartenere all'ambiente domestico in cui la vittima viveva, avrebbe omesso di considerare che l'imputato non era l'unico frequentatore di quell'abitazione e che la casa aveva due ingressi, sempre aperti. Per di più, non era possibile escludere che il teste Ti. avesse potuto non accorgersi dell'ingresso di terze persone nell'abitazione, posto che lo stesso, come da lui dichiarato, era impegnato in altre faccende e che, quindi, non aveva potuto osservare con continuità gli ingressi dell'abitazione. Il giudice di appello, pertanto, fornendo una ricostruzione dei fatti non avallata da alcuna prova scientifica, avrebbe ritenuto in maniera apodittica che l'omicidio fosse stato posto in essere dall'imputato, senza considerare che non vi erano impronte digitali dall'imputato sull'arma del delitto, non vi erano tracce di DNA (o, più in generale, tracce ematiche) della vittima sull'imputato o sui suo, indumenti, non vi erano impronte delle scarpe dell'imputato sulla scena del delitto e che la vittima, immediatamente dopo l'aggressione, non aveva fatto alcun riferimento al fatto che fosse stato aggredito dall'imputato. La Corte di assise di appello, poi, avrebbe in maniera errata e immotivata escluso plausibili alternative ricostruzioni del fatto, nonostante fosse emerso che l'omicidio poteva essere stato posto in essere da terzi soggetti, anche considerando che la vittima faceva uso di sostanze stupefacenti e che vi era la possibilità che lo stesso avesse posto in essere condotte di cessione di sostanze stupefacenti (come comprovato dal ritrovamento di un bilancino di precisione) e che Il.Ma. aveva minacciato di morte la vittima (circostanza che aveva determinato l'allontanamento di quest'ultima dall'abitazione nel quale era avvenuto l'omicidio). 2.2. Con il secondo motivo, denuncia erronea applicazione della legge penale, con riferimento all'art. 88 cod. pen., e vizio di motivazione della sentenza impugnata, perché il giudice di merito avrebbe in maniera errata omesso di accertare il vizio totale di mente dell'imputato, nonostante questi fosse affetto da una patologia idonea ad annullare la sua capacità di intendere e di volere, seppur non in modo permanente, come chiarito delle relazioni del dott. De.Fe. e della dott.ssa Ma.. 2.3. Con il terzo motivo, denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 584 e 589 cod. pen., e vizio di motivazione della sentenza impugnata, perché il giudice di merito avrebbe in maniera errata omesso di derubricare il fatto nei reati di omicidio preterintenzionale o colposo, nonostante dagli atti fosse emerso che l'aggressore aveva inflitto un solo colpo e che lo stesso imputato aveva minacciato di suicidarsi. 2.4. Con il quarto motivo, denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 62-bis e 133 cod. pen., e vizio di motivazione della sentenza impugnata, perché la Corte di assise di appello avrebbe omesso di concedere le circostanze attenuanti generiche, senza offrire alcuna valida motivazione sul punto e senza considerare che l'imputato, immediatamente dopo i fatti, si era adoperato per soccorrere la vittima. Nel ricorso, inoltre, si evidenzia che l'imputato, portatore di una grave patologia, non era stato debitamente aiutato dalla famiglia, considerando che il padre non aveva saputo tutelare il figlio nella separazione dalla moglie e che la madre, nonostante l'imputato avesse minacciato il suicidio con l'uso di un coltello, non aveva adottato le necessarie precauzioni. 3. Con memoria del 6 dicembre 2023, Ca.Al., Ca.Ma. e Ca.Ae., parti civili costituite, chiedono la rifusione delle spese di giudizio e dichiararsi l'inammissibilità o il rigetto del ricorso, posto che i relativi motivi, che non tengono conto della ricostruzione dei fatti fornita dal giudice di merito e si risolvono in una mera riproposizione dei motivi di appello, e. RITENUTO IN FATTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti che seguono. 1.1. Il primo motivo di ricorso non può essere accolto in sede di legittimità. Il ricorrente, infatti, non si confronta con la sentenza impugnata, nella parte in cui la Corte di assise di appello ha evidenziato che, all'interno dell'abitazione nella quale era avvenuto l'omicidio, erano presenti solo l'imputato e la vittima e che non vi erano elementi in forza dei quali poter sostenere la presenza di terze persone. Dalla lettura del fascicolo, era emerso che la vittima era entrata in casa alle 16:30 (come si evinceva dalle dichiarazioni rilasciate dal teste Ti., impegnato in quel momento a scaricare e montare i mobili nell'appartamento posto sullo stesso ballatoio dell'abitazione in oggetto), che alle 16:39 era giunta una chiamata da parte dell'imputato alla Centrale operativa, che non veniva registrata, e che alle 16:49 era giunta ai Carabinieri la vera e propria richiesta di soccorso. Dalle dichiarazioni rilasciate da Il.Ma., zia paterna dell'imputato, poi, era emerso che quest'ultimo alle 16:35 l'aveva chiamata per dirle che il compagno della madre non si sentiva bene: i fatti, pertanto, si erano svolti in pochi minuti. Era emerso, inoltre, che il cancello secondario era chiuso, posto che la zia paterna dell'imputato era riuscita a entrare nell'appartamento solo perché questi le aveva aperto il cancello, e i Carabinieri intervenuti avevano dichiarato di non aver rilevato alcun segno di effrazione e che l'appartamento era risultato in ordine. Secondo la Corte di assise di appello, quindi, non era possibile affermare che un terzo soggetto non identificato fosse entrato nell'appartamento, anche considerando che lo stesso imputato non aveva visto nessuno in casa e non aveva avvertito alcun rumore. La Corte di appello, pertanto, con motivazione congrua ha ritenuto non credibile la versione difensiva dell'imputato secondo la quale l'aggressore della vittima doveva rinvenirsi in ambienti vagamente connessi a furti o inimicizie connesse con il traffico di sostanze stupefacenti o nello stesso fratello dell'imputato, Il.Ma., il quale - invero - aveva adottato un comportamento processuale etero-protettivo teso a scardinare il ruolo di antagonista dell'imputato verso la vittima, fatto che, secondo il giudice di appello, non si conciliava con la veste di potenziale indiziato di omicidio. La madre dell'imputato, inoltre, aveva riferito di aver avvisato immediatamente il figlio Il.Ma. nel momento in cui era venuta a conoscenza dei fatti di causa, chiedendogli di rientrare immediatamente in casa; in quel frangente, Il.Ma. aveva fornito un alibi spontaneo e credibile. Dalla lettura delle intercettazioni delle conversazioni tra la madre e il fratello dell'imputato, poi, era emerso che l'imputato non tollerava in casa la presenza della vittima neanche nelle ore diurne (come anche confermato dall'imputato durante le stesse dichiarazioni rilasciate) e che aveva paventato una volontà suicida con l'utilizzo del medesimo coltello utilizzato nell'omicidio in esame. Sul tema della possibile ricostruzione alternativa dei fatti, per di più, il giudice di merito ha evidenziato che, dal tenore delle intercettazioni delle conversazioni tra la madre e il fratello dell'imputato, era chiara la loro convinzione della riconducibilità dell'omicidio a Il.Da. (il quale aveva confessato la sua colpa alla madre) e la loro preoccupazione sui possibili sviluppi del procedimento a suo carico. Per quanto riguarda, poi, l'assenza di tracce ematiche, il giudice di merito ha evidenziato che, dalle dichiarazioni del teste Ga. dei R.I.S. di Roma, era emerso che la ferita prodotta aveva determinato un'emorragia interna successiva alla lacerazione del fegato, che non aveva determinato schizzi di sangue verso l'aggressore, fatto che spiegava anche l'assenza delle impronte delle calzature dell'aggressore, il quale aveva avuto modo di spostarsi senza entrare in contatto con la sostanza ematica caduta sul pavimento. Le doglianze sollevate con il motivo di ricorso, pertanto, sono tese a sovrapporre un'interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dai decidenti di merito, più che a denunciare un vizio rientrante in una delle categorie individuate dall'art. 606 cod. proc. pen. Secondo la Corte di assise di appello, infatti, la piattaforma probatoria è sorretta da una solida ricostruzione logica, anche in ragione di quanto prefigurato dal perito sulla dinamica del rapporto tra l'imputato e la vittima, elemento che aveva determinato il convincimento in ordine alla colpevolezza dell'imputato, già validata dall'accertata sola presenza dell'imputato nell'appartamento e dagli elementi sopra evidenziati. Inoltre, non risultavano credibili le versioni alternative proposte dalla difesa; sul punto, il Collegio condivide la linea interpretativa tracciata da questa Corte secondo la quale l'epilogo decisorio non può difatti essere invalidato da prospettazioni alternative che si risolvano in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148). D'altronde, nessun vizio logico argomentativo è ravvisabile nella motivazione sviluppata in relazione al reato in esame: i giudici della cognizione hanno esplicitato, con motivazione puntuale e adeguata, le ragioni per le quali hanno ritenuto fondata la responsabilità penale in capo all'imputato. 1.2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile. Il ricorrente, infatti, non si confronta con la sentenza impugnata, nella parte in cui la Corte di assise di appello ha evidenziato che, dall'analisi delle conclusioni del perito dott. Sa., sentito all'udienza del 14 febbraio 2022, si evinceva che la situazione patologica dell'imputato aveva determinato una parziale incapacità di intendere e di volere, posto che lo stesso aveva avuto la capacità di comprendere il disvalore dell'atto compiuto. Tale conclusione era confermata dal fatto che l'imputato aveva scelto una linea difensiva da ritenersi indice di consapevolezza, avendo lo stesso posto in essere comportamenti lucidi dopo la commissione dell'omicidio. Secondo il giudice di appello, quindi, dalla lettura della documentazione medica agli atti, era possibile affermare che il deficit cognitivo dell'imputato non era tale da non consentirgli una vita normale, anche considerando che lo stesso lavorava in un'azienda e aveva una vita sociale normale. Nel ricorso, invero, non si tiene conto del fatto che il giudice di merito ha evidenziato che il consulente tecnico della difesa, dott. De.Fe., non aveva affrontato il tema dell'esistenza della capacità di intendere di volere dell'imputato al momento del fatto, avendo focalizzato l'incarico ricevuto sulla compatibilità delle condizioni psicofisiche dell'imputato con il regime carcerario. 1.3. Il terzo motivo di ricorso non può trovare accoglimento. Il criterio distintivo tra l'omicidio volontario e l'omicidio preterintenzionale risiede nell'elemento psicologico, nel senso che nell'ipotesi della preterintenzione la volontà dell'agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima, con esclusione assoluta di ogni previsione dell'evento morte, mentre nell'omicidio volontario la volontà dell'agente è costituita dall'animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta (Sez. 1, n. 35369 del 04/07/2007, Zheng, Rv. 237685). Nel caso in esame, il Collegio deve rilevare che il giudice di appello ha escluso sia la tesi della preterintenzionalità che quella della colposità, in base a un percorso argomentativo del tutto logico e coerente e pienamente aderente alle risultanze processuali, avendo evidenziato che l'imputato non aveva fornito una logica ricostruzione alternativa della vicenda, anche considerando che non erano stati trovati segni di colluttazione e che il tipo di ferita era stata sintomatica di un colpo sferrato non in maniera accidentale, ma con volontà di uccidere la vittima. 1.4. Il quarto motivo di ricorso è fondato. Giova premettere che le circostanze attenuanti generiche consentono un adeguamento della sanzione alle peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto; pertanto, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, avendo il giudice l'obbligo, ove ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo l'insussistenza e, quando ne affermi l'esistenza, di dare apposita motivazione per fare emergere gli elementi atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (Sez. 2, n. 2769 del 02/12/2008, Poliseno, Rv. 242709). Nel caso di specie, il giudice di appello non ha debitamente motivato la decisione di non concedere le circostanze attenuanti generiche, per la singolare situazione familiare dell'imputato per il fatto che il padre aveva messo in seria difficoltà i figli dopo la separazione dalla madre (che era andata a vivere con la vittima), dicendo loro "se mamma non vuole tornare con me, voi comunque dovreste venire a vivere con me"; tale situazione che verosimilmente aveva cagionato una lacerante tensione nella mente già fragile dell'imputato era giunta fino al punto in cui l'imputato aveva poco prima del delitto minacciato addirittura il suicidio (per come aveva riferito la madre proprio brandendo lo stesso coltello con il quale poi è stato consumato l'omicidio del convivente della madre. Tali fatti erano stati evidenziati nel giudizio di appello ed andavano quindi adeguatamente valutati unitamente alla rilevata incensuratezza dell'imputato, sicché sussiste la lacuna motivazionale denunciata in ricorso. 2. In forza dei principi giurisprudenziali sopra evidenziati, la Corte deve annullare con rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla concessione delle circostanze attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio, condannando l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalle parti civili, che possono essere liquidate in euro 8000 complessivi, oltre gli accessori di legge. Nel caso in cui, in parziale accoglimento del ricorso dell'imputato, la Corte di cassazione annulli con rinvio la sentenza impugnata ai soli fini della rideterminazione della pena di un reato in relazione al quale vi sia stato accoglimento della domanda della parte civile, il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese di lite in favore delle parti civili costituite vittoriose, poiché le stesse potrebbero disinteressarsi del giudizio di rinvio, da cui non può loro derivare alcun pregiudizio (Sez. 4, n. 9208 del 15/01/2020, L., Rv. 278908). P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alle attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio, e rinvia per nuovo giudizio sui predetti punti ad altra sezione della Corte di assise di appello di Napoli. Rigetta nel resto il ricorso. Condanna l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle costituite parti civili, che liquida in complessivi euro 8.000, oltre accessori di legge. Così deciso il 06 giugno 2023. Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale di Torino Ufficio del Giudice per le indagini preliminari Il Giudice per le indagini preliminari, dott.ssa Manuela Accurso Tagano, all'esito dell'udienza in camera di consiglio del 08.03.2024, ha pronunciato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente SENTENZA Ai sensi degli artt. 442 e ss c.p.p. nei confronti dì: Me.Ro., nato a V. V. il (...), con domicilio dichiarato a V. (T.) in strada V. di P. 11, difeso di fiducia dagli avv.ti Fa.QU. del Foro di Asti e Ri.SA. del Foro di Torino (cfr. verbale di interrogatorio del 23.02.2023) LIBERO PRESENTE; IMPUTATO Per il reato previsto e punito dagli artt.81 cpv., 572 commi 1 e 2 c.p. perché, con più azioni di un medesimo disegno criminoso, maltrattava la moglie convivente Sa.Za. e i figli minori Me.Ma. (nata a M. il (...)) e Me.Fi. (nato a M. il (...)) assumendo nei confronti degli stessi condotte vessatorie, intimidatorie e violente, in particolare: - ingiuriando ripetutamente Sa.Za., profferendo al suo indirizzo le espressioni "sei una puttana, puzzi di merda, marocchina bastarda", "vai a Torino a fare la zoccola", "mi fai schifo, sei una cretina, sei una stupida, non capisci un cazzo" e, in un'occasione, nella primavera del 2021, sputandole in faccia; minacciando ripetutamente Sa.Za. di un danno ingiusto, rivolgendosi alla stessa con le espressioni "vi ricordate della tragedia della famiglia della L., quella è la fine che fai anche tu ", "la soluzione di uccidere le donne la usano in tanti... visto che muoiono nel mondo due donne ogni giorno" e altresì minacciandola di farle togliere i figli ove la stessa avesse presentato denuncia per i maltrattamenti subiti; accusando ripetutamente Sa.Za. di intrattenere relazioni extraconiugali e costringendola a sottoporre entrambi i figli minori al test del DNA in ragione degli avanzati dubbi sulla fedeltà della stessa; - percuotendo Sa.Za., nel gennaio/febbraio del 2017, spintonandola bruscamente contro un muro e una porta, così cagionandole una ferita al polso sinistro che richiedeva le cure del Pronto Soccorso dell'O.C.; costringendo le persone offese a tollerare condizioni di vita inaccettabili, razionando il cibo destinato alla moglie e ai figli minori e somministrando agli stessi alimenti scaduti e/o avariati, non accendendo il riscaldamento presso l'abitazione, posizionando delle telecamere all'interno della casa coniugale in modo da poter controllare i familiari; Fatti commessi in Villastellone (TO) dal mese di dicembre 2015 all'ottobre 2021. Con la recidiva reiterata specifica di cui all'art. 99 c. IV c.p. Con parte civile costituita: Sa.Za., nata a R. (M.) il (...), in proprio e quale esercente la responsabilità genitoriale sui figli minori, Me.Ma., nata a M. il (...), e Me.Fi., nato a M. il (...). MOTIVI DELLA DECISIONE Con richiesta di rinvio a giudizio Me.Ro. è stato chiamato a rispondere del delitto di maltrattamenti in famiglia, commesso in danni della moglie e dei figli minori. Si è presentato all'udienza del 29.02.2024, chiedendo di essere giudicato con rito abbreviato. Si è costituita parte civile Sa.Za., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sui figli minori. Con denuncia sporta il 31.08.2021 Sa.Za. riferiva di aver conosciuto Me.Ro. in Marocco nell'anno 2015.1 due, dopo che l'imputato otteneva il divorzio da altra donna marocchina, si sposavano in Marocco. Sa.Za. raggiungeva poi il marito in Italia nel dicembre 2015, trovandosi a vivere in un'abitazione isolata, senza patente e possibilità di interagire con terze persone. La prima figlia nasceva il (...) e l'imputato pretendeva che fosse effettuato un test di paternità, convinto che la moglie avesse avuto rapporti sessuali con altri. Iniziava poi ad assumere un atteggiamento aggressivo, non permettendo alla compagna di fare la spesa, razionando il cibo e monitorando l'uso dell'acqua calda con la minaccia di non far più caricare il gas. Le scorte erano di regola chiuse in cantina e alla persona offesa era lasciato un cucchiaio di zucchero per l'intera giornata. L'acquisto di cibo avveniva sempre all'insegna del risparmio, preferendo carne e pesce prossimi alla scadenza. In concomitanza con la seconda gravidanza - Me.Fi. nasceva il (...) - l'imputato diveniva più irascibile: accusava la moglie di essere una puttana e rifiutava di riconoscere il bambino come figlio proprio. Per quanto il test del DNA confermasse la paternità, l'imputato rifiutava di prendersi cura del figlio, consentendo alla suocera di trattenere il bambino in Marocco. In un'occasione di fronte alla pretesa della compagna di alzare la temperatura dei termosifoni l'imputato la spingeva, facendola sbattere contro una porta e così procurandole una ferita al braccio. Ancora, sollecitato a non dare gli avanzi di cibo a cani e gatti, sputava in faccia alla compagna, dicendole "questi animali sono meglio di te". Continue le intimidazioni. L'imputato spesso ripeteva "vi ricordate della tragedia della famiglia della L.... quella è la fine che farai anche tu'' o ancora "la soluzione di uccidere le donne la usano in tanti visto che muoiono nel mondo due donne ogni giorno". Ancora prospettava che, se fosse stato denunciato, avrebbe tolto i bambini alla madre. Rifiutava di farsi carico delle spese di vestiario per la bambina o ancora delle spese mediche della compagna, invitata a farsi mandare i soldi dal Marocco. Quando nel mese di agósto 2021 la compagna trovava un lavoro, l'imputato la seguiva con l'autovettura, dandole della puttana, della stupida e della cretina. Da ultimo, metteva delle telecamere sia all'esterno sia all'interno della casa così da monitorare anche l'uso dei servizi igienici (cfr. anche esposto del 07.07.2021). La persona offesa confermava quanto esposto in querela in sede di sommarie informazioni rese il 06.09.2021, quando aggiungeva come in occasione dei litigi l'imputato era solito dirle che era una puttana, che puzzava di merda, che era una marocchina bastarda, che arrivando in Italia aveva trovato l'America. N.M.C., prima moglie dell'imputato, ricordava di essere da lui stata costantemente maltrattata in costanza di matrimonio. La picchiava, talvolta con brutalità tale da mandarla in ospedale, la aveva fatta abortire, la aveva tradita. Pur tuttavia, la N. riferiva di amare l'uomo e di essere voluta rimanere sempre accanto a lui tanto da conoscere le varie donne con cui aveva intrattenuto delle relazioni. Aveva così conosciuto anche la persona offesa, assistendo ad episodi di violenza da parte di lei e della madre contro l'ex marito. Me.Ro. era succube a casa sua, intimorito dalle due donne, che pretendevano di essere mantenute e di vestire firmato e che spesso lo minacciavano di morte, come già faceva la precedente compagna marocchina. F.M.. Lasciato senza cibo, era costretto a nascondere del cibo nella sua camera. N.M.C., frequentando spesso l'abitazione dell'ex marito, aveva notato come il frigo fosse sempre pieno così come anche il freezer, posto in cantina. L'abitazione era calda. Erano presenti delle telecamere, ma ciò al solo fine di monitorare eventuali furti ad opera di terzi. Erano sentite anche Me.Ma. e sua madre, F.M.I.. La prima, sentita il 22.10.2021, descriveva il padre come una persona violenta, che l'aveva nel corso dell'infanzia picchiata e insultata più volte. Una volta per punizione l'aveva lasciata tutta la notte al freddo vicino al frigorifero. Era stato violento anche con sua madre. Quanto ai rapporti con la compagna, Sa.Za., Me.Ma., frequentando l'abitazione patema, aveva assistito spesso a scontri verbali, connessi al fatto che il padre vietasse a Sa.Za. l'accesso alle scorte alimentari presenti in cantina, chiudendo a chiave. Me.Ma. aveva visto delle telecamere sia all'esterno sia all'interno dell'abitazione e aveva saputo da Sa.Za. che altre ne erano state installate in casa nell'agosto 2021. La casa di inverno era fredda. Il padre non si preoccupava mai del benessere dei figli tanto che spesso era la madre F. a comprare dei vestiti per i bambini. Rispetto a F. era totalmente indifferente: il suo obiettivo era evitarlo, pur mantenendo un atteggiamento brusco. Con M. era, invece, fisicamente violento. F.M.I. ricordava di aver convissuto con l'imputato dall'agosto 2003 alla fine del 2006. A (...) era nata M.. Le violenze fisiche nel corso della convivenza erano state brutali: Me.Ro. la picchiava anche due o tre volte al giorno con pugni e schiaffi. Talvolta usava anche un bastone che teneva sul tavolo. In corso di convivenza, N.M.C. l'aveva fermata per strada, confidandole che il marito aveva abusato sessualmente della loro figlia: le consigliava di non lasciare mai sola la bambina con lui. F.M.I. aveva avuto modo di conoscere la nuova compagna dell'imputato, scoprendo che costui non era cambiato. Terrorizzava Sa.Za., dicendole che se lo avesse denunciato le avrebbe portato via i figli. Le faceva patire il freddo. Le si rivolgeva in modo così brusco da costringere la stessa F. ad intervenire a sua difesa. Una volta l'aveva fatta sbattere contro una porta, così facendola tagliare al polso. In altra occasione davanti alla stessa F. minacciava di voler emulare la tragedia di La L., evidentemente riferendosi ad un qualche episodio di cronaca nera. Ancora aveva installato delle telecamere in casa così da spiare la compagna e i figli, che mai potevano contraddirlo. L'imputato rendeva interrogatorio e poi spontanee dichiarazioni in udienza. Vi erano stati dei litigi con la compagna, ma in ragione della sua abitudine di allontanarsi con i figli. Negava che Sa.Za. si fosse dovuta recare al Pronto Soccorso a seguito di un taglio provocato da una sua spinta (era caduta dalla bici), negava di averla mai minacciata (i suoi riferimenti ad altre tragedie familiari erano un semplice monito ad andare d'accordo), riteneva del tutto nonnale aver preteso il test del DNA per accertare la propria paternità. Negava di aver mai fatto patire il freddo in casa, ancora riferiva come il cibo fosse nella disponibilità di chiunque, sospettava che la compagna lavorasse e che evitasse di mettere a disposizione della famiglia il denaro guadagnato. Le telecamere erano state messe a tutela della proprietà. Può affermarsi la responsabilità penale dell'imputato in ordine ai reati a lui ascritti. Le dichiarazioni della persona offesa sono puntuali e precise. Si mantengono sostanzialmente identiche in contesti diversi: quando fa l'esposto nel luglio 2021, ancora quando sporge denuncia, quando è sentita a sommarie informazioni, quando il nucleo è preso in carico dai servizi sociali (cfr. relazione sociale depositata dalla difesa dell'imputato). Sono oggettive e distaccate. Non trascendono mai in manifestazioni di odio e rancore. Non sono mai esagerate. La persona offesa, ad esempio, chiarisce come vi fosse stato un unico episodio di violenza fisica. Dà atto dell'aver visto infrangersi il sogno di vedere migliorare le proprie condizioni di vita. Non nasconde di aver avuto delle aspettative per soddisfare le quali si era convinta a sposare l'imputato. Sono dichiarazioni che trovano riscontro in quelle rese da Me.Ma. e da F.M.I. e poi anche in quelle dell'imputato che, del tutto non credibili e illogiche, così come quelle della N., finiscono per confermare il racconto della persona offesa, anziché smentirlo. La passata indole violenta dell'imputato, così come descritta anche dalla N., assume un preciso significato probatorio nella misura in cui dimostra che egli mai avesse avuto rispetto delle proprie compagne e financo delle proprie figlie, vittime di condotte davvero molto gravi. Si tratta di aspetto che conferma la credibilità delle dichiarazioni della S. che si descrive come una subalterna, chiamata nella stanza del compagno solo per soddisfare i suoi desideri, priva della possibilità di relazionarsi alla pari, così come già verificatosi in passato, peraltro, in modo sistematico. Altro e ulteriore riscontro proviene dalle annotazioni di Polizia Giudiziaria. Quanto mai significativa quella redatta a seguito di un intervento effettuato in data 14.01.2019, quando gli stessi Carabinieri riscontrano come la casa sia fredda e la famiglia versi in una situazione di degrado, invitando la coppia ad adeguare l'abitazione alle necessità di due bimbi piccoli. I carabinieri percepiscono come corrisponda al vero quanto lamentato dalla persona offesa: la casa è ostile e non vi è possibilità di migliorare la situazione perché l'imputato si oppone. Né presenta profili di criticità la tempistica con cui la persona offesa decide di denunciare. Dopo anni di silenzio, di richieste di aiuto inascoltate (la stessa aveva più volte chiamato i Carabinieri per rappresentare le proprie difficoltà), S. denuncia sollecitata dall'ennesima prevaricazione del compagno, che non tollera che lei si allontani da casa per andare a lavorare, arrivando a presentare degli esposti. La denuncia non ha una valenza ritorsiva, ma è l'unica modalità con la quale la persona offesa può prendere le distanze da una situazione ormai intollerabile. Costretta a subire ogni tipo di privazione, teme di essere da ultimo ostacolata anche nella ricerca di una sia pur minima indipendenza economica. Privata dì ogni speranza - in tal senso gli esposti dell'imputato costituiscono un impulso - denuncia quando è giunta alla disperazione. Quanto alle dichiarazioni di N.M.C., le stesse - come accennato - sono assolutamente non credibili. La chiave di lettura è fornita dalla stessa N. che, dopo essersi detta ancora innamorata del marito, appare quasi compiaciuta che l'uomo l'avesse sempre picchiata, dimostrando così la sua gelosia, quando altrettanto non faceva nei confronti di Sa.Za., a cui anzi lasciava massima libertà. N.M.C. è donna che ha subito per anni brutali violenze. Non conosce altra forma di linguaggio tanto che arriva a credere che il marito, nel sottometterla, nel mortificarla, nell'intrattenere relazioni extraconiugali, altro non facesse che dimostrare il suo attaccamento a lei. La sua versione della realtà è distorta e i suoi parametri di valutazione errati. È donna che ha visto violentare la figlia (l'imputato ha in effetti una condanna per "violenza carnale") e che, pur tuttavia, continua a frequentarlo è, infine, a prenderne le difese. Quanto da lei riferito non può essere ritenuto credibile perché appunto frutto di un'assoluta incapacità di cogliere in modo oggettivo e distaccato la realtà dei fatti: N.M.C. assume un atteggiamento non coerente rispetto al proprio vissuto, non soppesa correttamente la gravità delle condotte serbate dall'ex marito, si approccia a lui e al suo nuovo nucleo familiare ansiosa di dimostrare le proprie doti di buona compagna, da lei intesa come donna sottomessa, servizievole e disposta a tollerare qualsivoglia angheria. A fronte di tali parametri di valutazione, chiaramente disancorati dalla realtà, può ragionevolmente ritenersi che si verificasse esattamente il contrario rispetto a quanto da lei percepito con conseguente conferma del racconto reso dalla persona offesa. Lo stesso è a dirsi per le dichiarazioni dell'imputato, assolutamente incapace di cogliere il grave disvalore delle proprie condotte. L'imputato, da una parte, ammette di essere stato solito riferirsi a gravi episodi di cronaca nera, dall'altro nega di averlo fatto con finalità intimidatorie. Giustifica la propria pretesa di effettuare sui figli un test del Dna, per quanto, nella sua stessa versione, assolutamente ingiustificato: egli, infatti, nega di aver mai accusato la compagna di avere relazioni extraconiugali. Ricorda una caduta in bici della compagna oggettivamente non compatibile con una ferita da taglio al polso, così come descritta e dalla persona offesa e da F.M.I.. Pur banalizzando i litigi, poi finisce per far trasparire tutto il proprio fastidio per la ricerca da parte di S. di una indipendenza economica, fastidio che arriva a livelli tali da indurlo a presentare degli esposti per lamentare che la donna si allontanasse da casa. Si riferisce al sesso come ad un dovere coniugale: palesa, insomma, come egli intendesse il rapporto di coppia. In realtà mai vi è stata una coppia. Me.Ro. non cerca una compagna in Sa.Za., cerca uno strumento per appagare i propri desideri sessuali al bisogno e quelli di accudimento. La relazione nasce sbilanciata e così Me.Ro. vuole che si mantenga in modo da poter esercitare sulla persona offesa un pieno controllo: Sa.Za. non lavora, non parla l'italiano, è isolata in una casa di campagna senza possibilità di muoversi. Me.Ro., sin dall'inizio della convivenza, la tiene legata a sé in forza del bisogno economico e del degrado sociale in cui la costringe a vivere. Mai si relaziona con lei alla pari. La tratta di fatto come una schiava, razionandole il cibo, impedendole di prendere qualsiasi decisione in autonomia, negandole le cure mediche. La minaccia di portarle via i figli. Le prospetta, richiamandosi ad episodi di cronaca nera, una morte atroce. Incapace forse a causa dell'età di essere fisicamente violento come era stato in passato con le altre compagne, la insulta in modo volgare e sessista. La colpevolizza per le proprie origini, quando proprio lui tali origini aveva trovato affascinanti. La mortifica, accusandola di continui tradimenti, arrivando a pretendere il test del DNA, pur a fronte di una condizione di sostanziale segregazione della compagna: intende far percepire alla compagna in modo continuo, costante ed insistente il proprio disgusto, il proprio disprezzo, considerandola incapace addirittura di dargli una prole legittima. Ancora, nel trascurare i figli non solo economicamente, ma anche emotivamente - di fatto rifiuta il figlio maschio ed è fisicamente violento contro la figlia femmina, non ammettendo mai alcun tipo di confronto o di dialogo - amplifica le sofferenze della persona offesa come mamma e costringe anche i figli a vivere in un clima di grave disagio e sofferenza. Li tratta come dei subalterni, li isola in una sola stanza, li fa stare al freddo, vieta loro l'accesso alle scorte di cibo, li controlla attraverso l'installazione di telecamere anche all'interno dell'abitazione (un'abitazione che pare di cogliere non andava tutelata, in ragione del forte stato di degrado, da eventuali incursioni altrui), di fatto li soggioga, impedendo loro di avere una vita normale. Priva di fronte a loro la madre di qualsiasi funzione genitoriale, avocando ogni scelta economica, organizzativa ed educativa. Realizza, insomma, attraverso una pluralità di fatti sia commissivi sia omissivi, espressivi di disprezzo, una sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la vita familiare dolorosa per ciascun membro della famiglia. Sussiste il dolo. La sistematicità delle condotte e la loro gravità sono chiaramente sintomatiche della precisa volontà di sottoporre compagna e figli ad un'abituale condizione di sofferenza e soggezione psicologica. La negazione delle condotte palesa come Me.Ro. mai abbia colto il disvalore delle stesse, maturando, indifferente anche rispetto ai processi subiti, un senso di impunità. Proprio la creazione di un clima di terrore e di prevaricazione era, anzi, ciò che gli garantiva di esercitare il proprio dominio. Parte delle condotte, come correttamente contestato, sono sicuramente poste in essere dopo l'entrata in vigore della L. n. 69 del 2019 con conseguente ravvisabilità della circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 572, comma 2, c.p.: i fatti sono stati commessi sia in danno dei figli minori, direttamente vittime di umiliazioni, continue privazioni e nel caso di M. anche di violenze fisiche, sia in loro presenza. Deve escludersi la contestata recidiva. L'imputato ha a proprio carico due sentenze di applicazione della pena per violenza carnale e per maltrattamenti in famiglia. Entrambi i reati sono stati dichiarati estinti ai sensi dell'articolo 445, comma 2, c.p.p. La declaratoria di estinzione del reato, qui non sindacabile, conseguente al decorso dei termini e al verificarsi delle condizioni previste dall'art. 445 cod. proc. pen. comporta l'estinzione degli effetti penali anche ai fini della recidiva, secondo quanto stabilito dall'articolo 106, comma 2, c.p. (cfr. Cass., sezione seconda, sentenza n. 994/2021). In ragione del comportamento processuale serbato dall'imputato - egli si è comunque sottoposto ad interrogatorio, ancora si è presentato in udienza - possono riconoscersi le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alla contestata circostanza aggravante di cui all'art. 572, comma 2, c.p. In alcun modo il giudizio può operarsi in termini di prevalenza: ostano i precedenti specifici che, pur irrilevanti ai fini della recidiva, ben sunteggiano l'indole dell'imputato, rimasta inalterata negli anni. 1 reati sono tanti quante sono le persone offese. Più grave, in ragione della tipologia di condotte serbate, è quello commesso in danno della compagna. Gli stessi possono ritenersi espressione di un unico disegno criminoso, già ampiamente descritto, con conseguente riconoscimento del vincolo della continuazione. Venendo, quindi, al trattamento sanzionatorio, congrua ed adeguata appare una pena di anni due e mesi quattro di reclusione così determinata: riconósciute le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alla contestata circostanza aggravante di cui all.'art. 572, comma 2, c.p. pena base per il più grave reato commesso in danni della compagna anni tre di reclusione, pari al minimo edittale, aumentata per la continuazione di mesi sei di reclusione (mesi tre di reclusione per ogni figlio), così addivenendo ad una pena di anni tre e mesi sei di reclusione, poi ridotta di un terzo per la scelta del rito. Si ricorda, quanto al trattamento sanzionatorio, che: "/a tema di maltrattamenti in famiglia, a fronte di condotte che abbiano avuto inizio prima della L. 19 luglio 2019, n. 69, ma siano proseguite in epoca successiva, trova applicazione il più severo trattamento sanzionatorio previsto da detta legge, stante l'unitarietà del reato abituale, in cui ogni nuova azione si salda a quelle precedenti, trasferendo il momento della consumazione all'ultima delle condotte tipiche realizzate, salvo il caso in cui le condotte maltrattanti poste in essere dopo la modifica normativa siano intervenute dopo un significativo intervallo temporale, tale da far propendere per la autonomia dei fatti, eventualmente unificabili nel vincolo della continuazione" (Cass., sezione sesta, sentenza 24710/2021). Non vi sono i presupposti per concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena. L'imputato, condannato in tre distinte occasioni, ne ha beneficiato in due. La pena detentiva, come richiesto, può essere sostituita con la detenzione domiciliare: l'imputato si è separato dalla compagna e vive in un'altra casa di sua proprietà, ha una pensione e può mantenersi. La detenzione domiciliare è atta a consentire a Me.Ro., ad oggi anziano, di mantenere condizioni di vita simili a quelle pregresse, senza più andare ad interferire con la vita della compagna. La durata della detenzione domiciliare è pari a quella della pena detentiva inflitta. L'imputato dovrà permanere presso la propria abitazione almeno diciotto ore al giorno. Potrà uscire per sei ore al giorno per provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita. Alla detenzione domiciliare seguono le prescrizioni di cui all'art. 56 ter della L. n. 689 del 1981. Nello specifico segue: 1 ) il divieto di detenere e portare a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di polizia; 2) il divieto di frequentare abitualmente, senza giustificato motivo, pregiudicati o persone sottoposte a misure di sicurezza, a misure di prevenzione o comunque persone che espongano concretamente il condannato al rischio di commissione di reati, salvo si tratti di familiari o di altre persone conviventi stabilmente; 3) f obbligo di permanere in Piemonte; 4) il ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell'espatrio di ogni altro documento equipollente; 5) l'obbligo di conservare, di portare con sè e di presentare ad ogni richiesta degli organi di polizia la presente sentenza. Al riconoscimento della responsabilità penale segue la condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dalle costituite parti civili, da liquidarsi in separata sede civile, fermo il riconoscimento di una provvisionale pari ad Euro 15.000 per ognuno di loro. Le tre persone offese hanno costantemente vissuto nel bisogno e nella privazione sia economica sia affettiva. Sa.Za. è stata insultata, minacciata e costretta all'isolamento sociale, uscendone solo parzialmente dal 2021 in poi. La donna ancora oggi non parla bene l'italiano. 1 bambini sono stati costretti ad assistere alle continue umiliazioni subite dalla madre, insultata e privata di qualsivoglia ruolo sia come donna sia come madre. Sono stati a propria volta rifiutati, costretti al silenzio, costantemente monitorati all'interno della propria abitazione. M., secondo quanto ricordato dalla sorellastra, è stata anche vittima di violenze fìsiche. Ciò non può che aver cagionato una situazione di disagio e sofferenza anche per loro. Sono, tuttavia, indispensabili approfondimenti istruttori che vaglino quali possano essere state le conseguenze delle condotte in termini di pregiudizio del progressivo sviluppo psico - fisico dei minori e di serena crescita, tenuto conto anche della personalità di ognuno e del loro vissuto. Alla condanna al risarcimento dei danni si accompagna quella, ai sensi dell'art. 541 c.p.p., alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla parte civile, che si ritiene di liquidare, già tenuto conto della pluralità di posizioni, in Euro 1.400,00, oltre 15% per rimborso spese forfettarie, IVA e CPA. Nello specifico, si liquidano, tenuto conto dei parametri di cui all'art. 12 del D.M. n. 55 del 10 marzo 2014, Euro 550 per la fase di studio, Euro 550 per la fase introduttiva, consistita esclusivamente nella redazione e deposito dell'atto di costituzione di parte civile, ed Euro 1.000 per la fase decisionale, nulla liquidandosi per la fase istruttoria. Il fascicolo si compone di un numero comunque contenuto di atti. Sono state celebrate due sole udienze. La complessiva somma di Euro 2.100 è poi stata ridotta di un terzo ai sensi dell'art. 106 bis del D.P.R. n. 115 del 2002, che prevede che "Gli importi spettanti al difensore, all'ausiliario del magistrato, al consulente tecnico di parte e all'investigatore privato autorizzato sono ridotti di un terzo". Ai sensi dell'art. 110, comma 3, del D.P.R. n. 115 del 2002, essendo la parte civile stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, l'imputato dovrà versare le spese liquidate direttamente in favore dello Stato. Segue, infine, ai sensi dell'art. 535 c.p.p., la condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Visti gli artt. 442, 533, 535 c.p.p., dichiara Me.Ro. responsabile dei reati a lui ascritti e lo condanna, esclusa la contestata recidiva, ritenuti i reati uniti dal vincolo della continuazione, riconosciute le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza sulla contestata circostanza aggravante di cui all'art. 572, comma 2, c.p., alla pena, con riduzione per la scelta del rito, di anni due e mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Visti gli artt. 538 e ss c.p.p., condanna Me.Ro. al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, prevedendo il pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva pari ad Euro 30.000 in favore di Sa.Za., quale genitore esercente la potestà genitoriale sui figli minori, e pari ad Euro 15.000 in favore di Sa.Za. in proprio, oltre al pagamento delle spese processuali che liquida per tutte le partì civili in complessivi Euro 1.400,00, oltre al 15% per rimborso spese forfettarie, IVA e CPA come per legge, da pagarsi in favore dello Stato ai sensi dell'art. 110, comma 3, D.P.R. n. 115 del 2002. Visti gli artt. 545 bis c.p.p., 53 ss. L. n. 689 del 1981, sostituisce in favore di Me.Ro. la pena detentiva di anni due e mesi quattro di reclusione con la pena sostitutiva della detenzione domiciliare per la durata di anni due e mesi quattro presso l'abitazione sita in V. (T.) via B. n. 50/M, prescrivendo a Me.Ro. di rimanere presso l'abitazione per diciotto ore al giorno, con la possibilità di allontanarsi dalla stessa per sei ore al giorno dalle ore 08:00 alle ore 11:00 e dalle ore 15:00 alle ore 18:00 per provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita. Sono autorizzate sin d'ora le uscite dal domicilio ogni qualvolta ciò occorra: a) per comprovati e documentabili motivi di salute (accessi urgenti al P.S., visite mediche, sedute dentistiche o esami diagnostici); b) per ricoveri sanitari/ospedalieri anche di più giorni; c) per recarsi in udienza qualora venga disposta una convocazione da parte dell'autorità giudiziaria competente. PRESCRIVE a Me.Ro. 1) il divieto di detenere e portare a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di polizia; 2) il divieto di frequentare abitualmente, senza giustificato motivo, pregiudicati o persone sottoposte a misure di sicurezza, a misure di prevenzione o comunque persone che espongano concretamente il condannato al rischio di commissione di reati, salvo si tratti di familiari o di altre persone conviventi stabilmente; 3) l'obbligo di permanere nell'ambito territoriale della Regione Piemonte; 5) l'obbligo di conservare, di portare con sé e di presentare ad ogni richiesta degli organi di polizia il provvedimento che applica o dà esecuzione alla pena sostitutiva e l'eventuale provvedimento di modifica delle modalità di esecuzione della pena, adottato a norma dell'articolo 64. DISPONE A carico di Me.Ro. il ritiro del passaporto e la sospensione di validità ai fini dell'espatrio di ogni altro documento equipollente. INFORMA Me.Ro. che le modifiche delle prescrizioni e ogni autorizzazione in deroga dovranno essere richieste al Magistrato di Sorveglianza tramite l'U.E.P.E. o le FF.OO. AVVERTE Me.Ro. che, in caso di violazioni di legge o di violazioni gravi e reiterate degli obblighi e delle prescrizioni, la pena sostitutiva potrà essere revocata con conversione del residuo nella pena detentiva sostituita ovvero nella semilibertà. Così deciso in Torino l'8 marzo 2024. Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4563 del 2021, proposto dal signor -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di titolare dell'azienda zootecnica sita in -OMISSIS- (CE), rappresentato e difeso dagli avvocati Vi. Pr. ed An. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro la Regione Campania, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Ca., con domicilio eletto presso lo studio Ufficio di rappresentanza della Regione Campania in Roma, via (...); l'Istituto Zo. Sp. del Me., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Fa. De Pa., con domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Gi. Pe. in Roma, via (...); il Ministero della Salute, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...); l'Azienda Sanitaria Locale di Caserta, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato En. Bo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sede di Napoli Sezione Quinta, n. -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Campania, dell'Istituto Zo. Sp. del Me., del Ministero della Salute e dell'Azienda Sanitaria Locale Caserta; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 febbraio 2024 il Cons. Giovanni Pescatore e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. L'odierno appellante è titolare di un'azienda di allevamento bufalino (codice aziendale -OMISSIS-) sita in -OMISSIS- (CE) alla -OMISSIS-. 1.1. L'azienda ha mantenuto la qualifica sanitaria di "ufficialmente indenne dalla tubercolosi" fino al mese di maggio 2019, allorquando la qualifica le è stata sospesa per effetto della rilevata positività di taluni capi bufalini alle prove diagnostiche effettuate mediante la metodica dell'intradermotubercolinizzazione singola (IDT). Ai test facevano seguito altrettante e ripetute misure di abbattimento, il 14 maggio di 6 capi, il 16 giugno 2019 di 14 capi, il 2 settembre 2019 di 8 capi e il 23 dicembre 2019 di 6 capi. 1.2. Nel corso del mese di febbraio del 2020 i Dirigenti Veterinari dell'A.S.L. Caserta procedevano ad un nuovo controllo sull'allevamento, utilizzando quale prova diagnostica non già l'IDT singola (precedentemente impiegata) ma il test con il gamma-interferone. 1.3. All'esito di tale controllo risultava un sensibile incremento dei capi positivi alla TBC sicché, con disposizione sanitaria del 14 febbraio 2020, prot. n. -OMISSIS-, veniva ordinato l'invio al macello dei 75 capi diagnosticati come infetti. 1.4. Con il provvedimento prot. n. -OMISSIS- del 21 settembre 2020, il Dipartimento di Prevenzione dell'A.S.L. Caserta - UOV 15 di Piedimonte Matese - disponeva, proprio alla luce degli esiti diagnostici del febbraio 2020, l'abbattimento totale (c.d. stamping-out) di tutti i residui 251 capi presenti in azienda, e ciò in dichiarata applicazione del punto C.1 della Delibera della Giunta Regionale della Campania n. 207 del 20 maggio 2019. 2. Avverso il predetto provvedimento è insorto l'odierno appellante, agendo dinanzi al TAR Campania e deducendo che: i) l'avversata misura di abbattimento totale doveva ritenersi inficiata da un'insanabile carenza istruttoria, oltre che dall'erronea e falsa applicazione della disciplina di riferimento - come dettata dalla delibera giuntale del 28 maggio 2019, n. 207 "Piano straordinario per il controllo delle malattie infettive della bufala mediterranea italiana per la Regione Campania" - "caso 2" - in quanto l'abbattimento totale dei capi presenti nell'azienda era stato disposto attribuendo rilevanza decisiva ad elementi totalmente inconferenti, quali i precedenti focolai ormai estinti da tempo, e senza che fosse stato isolato il Mycobacterium bovis; ii) l'impugnato provvedimento si poneva in contrasto con il punto C.1 del citato Piano regionale, poiché aveva concluso per l'elevata percentuale di positività intra-aziendale (superiore al 20%) assumendo a suo fondamento unicamente i risultati degli esami diagnostici effettuati sugli animali ancora in vita ma trascurando di considerare che gli esami post mortem (segnatamente, la prova PCR sul DNA) sui 75 capi abbattuti, risultati presuntivamente positivi alla TBC all'esito della prova con il gamma-interferone, avevano dato riscontro negativo. Risultava quindi disatteso l'Allegato 2 all'O.M. 28 maggio 2015 nella parte in cui, subordinando l'adozione dello stamping-out alla valutazione non soltanto dell'elevato numero di positività degli animali al controllo ma, tra l'altro, anche all'isolamento del Mycobacterium bovis, attribuisce rilevanza pregnante agli esiti degli esami di laboratorio post-mortem, come dato indispensabile al fine di accertare l'effettivo stato patologico o meno dei capi abbattuti; iii) ulteriore profilo di contrasto con quanto disposto dall'O.M. 28 maggio 2015 (art. 5 comma 2) emergeva dal fatto che il procedimento finalizzato all'adozione dell'abbattimento totale non era stato avviato con immediatezza, come imposto anche dal punto C.1 del Piano straordinario regionale, ma soltanto trascorsi otto mesi dall'ultimo controllo, ovverosia in relazione ad una situazione sfuggita a controlli più recenti e aggiornati, e ciò nonostante il menzionato punto C.1 del Piano straordinario regionale preveda il costante monitoraggio delle condizioni dell'allevamento; iv) l'"elevata percentuale di positività intra-aziendale" alla TBC era stata accertata attraverso un esame diagnostico, il test con il gamma-interferone, privo del crisma di prova ufficiale (essendo contemplato nelle fonti regolatrici solo come test di supporto) e realizzato mediante l'impiego di un kit BOVIGAM non validato per la bufala mediterranea. 3. Il TAR Campania ha respinto il ricorso. Nella motivazione si legge che il potere del quale ha fatto uso il servizio veterinario "si fonda sulla previsione dell'articolo 5 della O.M. 28 maggio 2015 pedissequamente recepita dalla delibera giuntale del 28 maggio 2019, n. 207, che ha approvato il "Piano straordinario per il controllo delle malattie infettive della bufala mediterranea italiana per la Regione Campania". L'allegato 2 Linee guida, in ordine all'abbattimento totale dell'allevamento specificamente dispone: "Il Servizio Veterinario della ASL propone alla Regione l'applicazione dell'abbattimento totale in un focolaio e contestualmente chiede il parere dell'IZSM Sezione competente sulla base della valutazione dei seguenti criteri: - focolaio insorto in territorio ufficialmente indenne; - isolamento di Mycobacterium bovis, Mycobacterium caprae, Brucella spp. o il reperimento di lesioni da virus della leucosi bovina (in allevamento o al mattatoio); - rischio di diffusione all'interno dell'azienda oppure ad altre aziende, anche in relazione alla tipologia di movimentazione degli animali ovvero in relazione al tipo di allevamento (pascolo vagante e/o stabulazione fissa); - tutti i criteri di valutazione su menzionati devono sempre essere associati all'elevata percentuale di positività intra- aziendale (superiore al 20%) al momento del controllo". Tanto premesso, il primo giudice ha ritenuto che l'Amministrazione: "- sotto il profilo temporale, ha accertato la persistenza, all'interno dell'azienda, del focolaio in mondo continuativo nell'ultimo triennio, nonostante l'adozione delle misure di abbattimento mirato dei capi infetti, precedentemente adottate e regolarmente eseguite dai ricorrenti, a riprova di una gravità della situazione sanitaria tale da vanificare il reiterato ricorso alle medesime misure rivelatesi insufficienti a ripristinare la qualifica di allevamento ufficialmente indenne; - con riguardo al pericolo della diffusività del contagio, ha acclarato come quest'ultimo si fosse esteso anche all'azienda confinante in modo tale che le stesse oramai costituivano un'unica unità epidemiologica per contiguità e caratteristiche dell'infezione, così rivenendo empirica conferma dell'acclarata possibilità che il contagio potesse ulteriormente estendersi; - con specifico riferimento al sostrato scientifico supportante l'affermata impossibilità di eradicare l'infezione, non solo ha isolato il batterio del gruppo Mycrobacterium tubercolosiscomplex all'esito degli esami condotti sui capi contagiati, ma anche riscontrato la costante presenza delle lesioni tipiche della malattia in occasione della macellazione regolare; - in ordine al grado di diffusività attuale del contagio, disponendo l'indagine epidemiologica mediante il ricorso alla prova del gamma interferone, ha avuto l'ulteriore conferma che il focolaio sviluppatosi nel considerato contesto aziendale non si fosse, in realtà, mai estinto dal primo episodio, nonostante le adottate misure di risanamento". Il TAR ha inoltre evidenziato che, "come si evince dal rapporto di n. -OMISSIS- del 23/04/2020 redatto all'esito degli esami condotti dall'istituto Zo. per il Me., l'impugnato provvedimento si fonda su un'evidenza scientifica, affatto contestata dal ricorrente in ordine alla sua concludenza ed attendibilità, dell'avvenuto isolamento del batterio M.bovis all'esito dell'esame batteriologico condotto nell'azienda bufalina". Dopo avere altresì respinto le censure relative ai profili temporali del disposto abbattimento, il TAR si è poi soffermato sull'ultima delle articolate doglianze, a mezzo della quale il ricorrente aveva lamentato che, ai fini dell'accertamento della positività dei capi alla TBC, l'ASL si era avvalsa della prova del gamma interferone in luogo della prova IDT singola, in ritenuta violazione degli artt. 6 e 7 D.M. n. 592/95 e del Reg. UE n. 1226/2002, peraltro impiegando il Kit Bovigam non validato per la bufala mediterranea. Il giudice di primo grado è giunto, in proposito, a conclusioni reiettive motivate sulla base del seguente percorso logico-argomentativo: "Premesso che IZM ha documentato la validazione delle modalità esecutive della contestata metodica diagnostica (ved. elenco delle prove accreditate), deve osservarsi come l'A.S.L. resistente abbia agito nel rispetto della DGRC 207/2019 di approvazione del "Piano straordinario per il controllo delle Malattie Infettive della bufala mediterranea italiana per la Regione Campania" che contempla il ricorso alla prova del gamma interferone non per confermare le risultanze della IDT eseguita sul singolo capo, bensì per confermare la presenza, come avvenuto nell'odierna fattispecie, della malattia in allevamento. Al riguardo si rappresenta che, in effetti, la Regione Campania, con l'indicato DGR n. 207 del 2019, ha prescelto quale test di approfondimento relativamente alla presenza della tubercolosi negli allevamenti ufficialmente indenni - quale non è quello del ricorrente - la prova del gamma interferone, non ritenendo abbastanza attendibile la prova dell'intradermotubercolinizzazione comparativa; la scelta della Regione Campania, al riguardo, tuttavia, non si pone in contrasto con la normativa comunitaria atteso che la prova del gamma interferone è riconosciuta nel Regolamento (CE) n. 1226/2002 e s.m.i come prova diagnostica di riferimento, accanto alla prova tubercolinica, che peraltro, alla stregua della normativa statale, è di per se sufficiente per la rilevazione dell'infezione, alla luce anche delle prescrizioni del DM n. 592/1995". 4. Avverso la sentenza il ricorrente in prime cure ha proposto l'appello qui all'esame. 4.1. L'appellante ritiene che il primo giudice abbia errato nell'attribuire rilevanza ad episodi di insorgenza della patologia ormai remoti nel tempo, senza neppure considerare il profilo di rischio di un'eventuale diffusività del contagio ad altre aziende e così "tradendo" la ratio dello stamping out, dovendo questa intendersi quale misura finalizzata a fronteggiare nell'immediato situazioni di emergenza sanitaria. 4.2. Inoltre il TAR avrebbe affermato che il test del gamma-interferone è stato utilizzato per l'indagine epidemiologica nell'Azienda dell'appellante, senza valutare la diversità ontologica che v'è tra "indagine epidemiologica" - che ha lo scopo di studiare le origini dell'insorgere della malattia - e la prova con il gamma interferone, eseguita al fine di verificare la situazione sanitaria dei capi bufalini. Finalità quest'ultima - secondo parte appellante - non consentita, dal momento che il gamma interferone non rientrerebbe nell'ambito delle prove ufficiali previste dall'allegato 1 al D.M. n. 592/1995, il quale contempla unicamente: a) l'intradermotubercolinizzazione (in sigla IDT ndr) unica: inoculazione singola di tubercolina PPD bovina (5000 UTC in 0,1 ml); b) l'intradermotubercolinizzazione comparativa. 4.3. L'appellante insiste altresì sulla circostanza del mancato isolamento del batterio del gruppo Mycobacterium bovis. Contesta la concludenza del rapporto di prova del 23 aprile 2020, n. -OMISSIS-, deducendo che gli esiti di tale esame batteriologico sarebbero stati "smentiti" dagli esami con il PCR effettuati dall'Istituto Zo. Sp. del Me., che hanno escluso la presenza del DNA del gruppo Mycobacterium tubercolosis complex, come da Rapporti di Prova, nn. -OMISSIS- e -OMISSIS-, rispettivamente del 26 maggio e 28 settembre 2020, successivi al rapporto di prova n. -OMISSIS-. Proprio sulla base di tale elemento, dotato di obiettiva rilevanza, il ricorrente in primo grado aveva dedotto come fosse incontestabile che l'avversata proposta di abbattimento totale era stata formulata in carenza del necessario presupposto dell'isolamento del Mycobacterium bovis. 4.4. Aggiunge l'appellante che una misura così grave, qual è l'abbattimento totale, avrebbe dovuto necessariamente essere adottata sulla scorta di un effettivo accertamento definitivo della positività dei capi e della presenza nell'allevamento della patologia tubercolare, non potendosi assegnare rilevanza risolutiva alla sola prova diagnostica effettuata sull'animale in vita, i cui esiti vanno sempre riscontrati con gli esami post-abbattimento, specificamente quelli effettuati in laboratorio, i soli idonei a confermare o meno la malattia, come richiesto dalla sopra richiamata normativa regionale. 4.5. L'appellante insiste, infine, nell'argomentare la tesi secondo la quale il test con il gamma-interferone non poteva essere considerato quale prova diagnostica ufficiale all'epoca della contestata azione amministrativa. E' pur vero - riconosce la parte - che il Regolamento CE/1226/2002, allegato B, al punto 3. - rubricato "Prove supplementari" - dispone che "Per poter individuare il maggior numero possibile di animali contagiati o ammalati in un allevamento o in una regione, gli Stati membri possono autorizzare l'uso della prova del gamma-interferone descritta nel Manuale di norme per le prove diagnostiche e i vaccini dell'OIE (IV edizione, 2000), capitolo 2.3.3 (tubercolosi bovina)"; tuttavia nella medesima disposizione si precisa che la prova supplementare debba essere eseguita "oltre alla prova della tubercolina", dunque giammai in modo esclusivo. 5. Il Collegio ha esaminato la causa all'udienza del 17 giugno 2021 e all'esito ha disposto una verificazione tecnica, chiedendo all'organo incaricato di "eseguire analisi e controlli con metodi non limitati alle contestate analisi sierologiche, e quindi depositare analitica relazione sui risultati acquisiti, entro 60 giorni dalla pubblicazione della presente ordinanza". 6. Il Verificatore, individuato nel Direttore pro tempore dell'Istituto Superiore di Sanità, nelle conclusioni rassegnate nella relazione depositata in esecuzione dell'incarico, in data 21 gennaio 2022, ha rappresentato che il test gamma-interferone rientra tra le metodiche pienamente utilizzabili al fine di diagnosticare la TBC e che l'indagine in allora effettuata aveva trovato valida conferma nell'analisi post mortem conclusasi con l'isolamento del Mycobacterium. Non ha però eseguito i nuovi test commissionatigli, ritenendo che essi fossero inutili o non significativi alla luce dei seguenti parametri valutativi: a) il lungo lasso temporale intercorso da quando erano state effettuate le prove che avevano condotto alla decisione di abbattere l'intero allevamento; b) il possibile verificarsi di diverse situazioni contingenti ascrivibili sia all'evoluzione dello stato sanitario degli animali, sia a eventuali fattori confondenti e non controllabili, che avrebbero potuto condizionare il risultato delle nuove prove; c) la considerazione che le attività diagnostiche condotte nel tempo sugli animali facenti parte dell'allevamento coprivano lo spettro degli opportuni approcci diagnostici che era ragionevole mettere in campo per definire, oltre ogni ragionevole dubbio, la sussistenza del focolaio di TBC. 7. L'appellante, nelle sue memorie conclusive depositate in vista dell'udienza pubblica di discussione, ha sostenuto che il Verificatore non aveva avuto alcuna preventiva interlocuzione con i consulenti di parte nominati; che il documento depositato, sebbene denominato "Relazione di Verificazione", in realtà non conteneva alcuna indicazione degli esiti delle operazioni peritali che secondo l'ordine istruttorio avrebbero dovuto essere effettuate; e che siffatto modus procedendi risultava irrituale e illegittimo, posto che la verificazione era stata finalizzata, in modo chiaro ed inequivocabile, a stabilire quale fosse lo status sanitario degli animali ancora presenti nell'allevamento, dopo l'abbattimento dei capi dichiarati infetti. Le ragioni addotte per giustificare il rifiuto a effettuare le "nuove e approfondite analisi" non avevano, quindi, base scientifica, se rapportate alla ratio della richiesta istruttoria formulata dalla Sezione 8. All'esito dell'udienza pubblica del 12 aprile 2022 il Collegio, con ordinanza -OMISSIS- del 2022, ha ritenuto la causa non ancora matura per la decisione e bisognevole di ulteriori approfondimenti istruttori, così motivando questa scelta: "9.1. Non si deve trascurare che il provvedimento impugnato ha disposto l'abbattimento totale dei capi allevati, pur dopo l'avvenuta macellazione dei 75 capi, rilevati come infetti all'esito del test gamma interferone. Trattasi di una misura di cautela radicale, riservata ai casi in cui può ragionevolmente formularsi, sulla base di alcuni indicatori previsti dalla normativa tecnica, la prognosi di una rapida e generalizzata diffusione della malattia, tale da richiedere interventi di eradicazione totale attraverso l'abbattimento dell'intero allevamento, il cd stamping-out. 9.2. Ciò considerato, il Collegio ritiene necessaria, anche alla luce del carattere esiziale che il provvedimento riveste per la vita degli animali e per la sopravvivenza della realtà aziendale dell'appellante, un'ulteriore indagine, tesa a comprendere se la prognosi formulata possa o meno rivelarsi fallace a cagione di una possibile erronea valorizzazione degli indicatori innanzi menzionati, causata dalla non corretta esecuzione degli esami sugli animali al tempo vivi (esami ormai non più ripetibili in ragione dell'abbattimento degli animali predetti). 9.3. L'unico modo idoneo a garantire una delibazione giurisdizionale effettiva della ragionevolezza della prognosi effettuata ex ante dall'amministrazione, è quella di verificare la condizione dei capi residui ancora in vita, sì da comprendere se, come ipotizzato dall'amministrazione, la malattia si sia ulteriormente diffusa, e in che misura. Lo scopo non è quello di sindacare il "merito" della discrezionalità utilizzata dall'amministrazione nella scelta dello stamping out rispetto all'abbattimento di singoli capi (scelta tra l'altro guidata dalle previsioni dell'articolo 5 della O.M. 28 maggio 2015 recepita dalla delibera giuntale del 28 maggio 2019, n. 207 di approvazione del "Piano straordinario per il controllo delle malattie infettive della bufala mediterranea italiana per la Regione Campania"), quanto quello di verificare indirettamente, attraverso l'unico controllo ex post effettuabile (quello, appunto, sui capi residui rimasti in vita), la correttezza dell'istruttoria al tempo condotta dall'amministrazione attraverso esami - oggi irripetibili - sui quei 75 capi considerati infetti poi tempestivamente abbattuti. Correttezza istruttoria che, invero, è alla base della prognosi ex ante formulata, e ne condiziona la legittimità . 9.4. Il nuovo organismo di verificazione dovrà pertanto sottoporre i capi residui dell'allevamento dell'appellante a intradermotubercolinizzazione unica e poi al test supplementare del gamma interferone, per poi relazionare e commentare gli esiti". 9. Dei nuovi approfondimenti è stato investito un organismo di verificazione a composizione collegiale, formato da tre esperti designati rispettivamente dal Ministro della salute, dal Presidente dell'Istituto Superiore di Sanità e dal Comandante dell'Arma dei Carabinieri. 10. A seguito della reiezione dell'istanza di ricusazione del collegio dei Verificatori, avanzata dalla parte appellante e disattesa con ordinanza -OMISSIS- del 2022, e di due proroghe concesse su richiesta dei Verificatori onde consentire loro di completare le attività residue e provvedere al deposito della relazione, poi avvenuto in data 27 febbraio e 7 dicembre 2023, la causa è passata in decisione all'udienza pubblica del 22 febbraio 2024. 11. L'appello è fondato, per le ragioni e nei limiti di seguito precisati. 12. Dalla relazione di verificazione depositata in giudizio il 27 febbraio 2023 è emerso che dei 311 capi bufalini dell'-OMISSIS- soltanto 6 hanno dato esito positivo alle prove incrociate effettuate con la combinata somministrazione dell'IDT e del gamma interferone. 12.1. A seguito di ciò, i predetti animali sono stati macellati e i Verificatori hanno proceduto all'ispezione post mortem degli organi e dei linfonodi; ulteriori campionamenti sono stati disposti al fine di procedere agli esami di laboratorio, presso l'IZSLER, vale a dire alle analisi microbiologiche e molecolari per la ricerca dei microbatteri. 12.2. All'esito di quest'ulteriore attività di indagine i Verificatori hanno riferito che "L'esame ispettivo non ha evidenziato la presenza di lesioni ascrivibili all'infezione da M. bovis negli organi analizzati. Le analisi di laboratorio non hanno rilevato la presenza del patogeno o del suo materiale genetico". 12.3. Questo, dunque, il giudizio conclusivo dell'organo ausiliario del giudice: "Sebbene gli animali abbattuti e analizzati siano quelli che presentavano una positività sia al test dell'Intradermoreazione sia al test del Gamma Interferon, i risultati delle indagini ispettive e di laboratorio sopra descritti non consentono di confermare la presenza dell'infezione da M. bovis nell'allevamento -OMISSIS-". 13. Per apprezzare la rilevanza dei dati istruttori sin qui riepilogati è utile richiamare l'Allegato 2 dell'O.M. 28 maggio 2015 nella parte in cui dispone che: "In caso di focolaio di tubercolosi, di brucellosi bovina, bufalina e ovi-caprina e di leucosi bovina enzootica, lo stamping-out, è applicato valutando i seguenti elementi: a. focolaio insorto in territorio indenne; b. l'isolamento di Mycobacterium bovis, Mycobacterium caprae, Brucella spp. o il reperimento di lesioni da virus della leucosi bovina (in allevamento o al mattatoio); c. il rischio di diffusione all'interno dell'azienda oppure ad altre aziende, anche in relazione alla tipologia di movimentazione degli animali ovvero in relazione al tipo di allevamento (pascolo vagante e/o stabulazione fissa); d. un'elevata percentuale di positività degli animali al momento del controllo; e. la situazione sanitaria dell'allevamento nell'ultimo anno, ponendo attenzione, in particolare, alle cause del persistere dell'infezione e all'origine del contagio; il mancato rispetto della normativa vigente sullo spostamento per monticazione/alpeggio/pascolo vagante e sull'identificazione degli animali, ovvero la mancata collaborazione nelle attività di profilassi prescritte dal presente decreto nonché il mancato abbattimento degli animali positivi entro i termini previsti. I criteri di cui alla lettera e) sono sufficienti per disporre lo stamping out. (...)". 13.1. A margine del dato normativo, merita ancora osservare che: -- gli elementi indicati alla lettera e), riguardanti la situazione dell'allevamento, confluiscono, unitamente ai criteri elencati alle lettere a), b), c) e d), nell'ambito di una valutazione tecnico-discrezionale che punta a formulare un giudizio prognostico sulla sufficienza delle misure di profilassi adottate o di quelle ulteriormente adottabili, oppure sull'impossibilità di eradicare la malattia se non attraverso la misura estrema dell'abbattimento totale degli animali; -- entrambe le d.G.R. n. 207/2019 e n. 104/2022 richiamano i predetti parametri e, per quanto qui interessa, integrano la previsione della lettera d) ("un'elevata percentuale di positività degli animali al momento del controllo...") con l'ulteriore elemento valutativo-prognostico "che faccia valutare al Veterinario Ufficiale l'impossibilità di risanamento in base alla gestione dello stabilimento"; -- al fine di fornire una lettura sistematica delle previsioni dell'Allegato 2, la giurisprudenza di questa Sezione ha precisato che "i presupposti previsti dall'O.M. 28 maggio 2015 per disporre la misura estrema dello stamping out (...) (come delineati nelle linee guida dell'allegato 2) si concretano appunto nella elevata percentuale di positività degli animali al momento del controllo, nella persistenza del contagio, nella appurata impossibilità di eradicare la malattia e nel conseguente pericolo di estensione ad altre aziende operanti, nel medesimo settore, all'interno dello stesso contesto territoriale" (sentt. nn. 10977, 10978 e 10979 del 2022); -- la stessa sentenza di primo grado qui impugnata dà atto del fatto che "...sia il Piano Straordinario Regionale approvato con D.G.R.C. n. 207/2019 che l'O.M. 28/05/2015 prevedono il ricorso alla misura estrema dello "stamping out", allorquando sia conclamata l'impossibilità di eradicare la malattia ed il contagio insorto in un'azienda, e quindi la persistenza del focolaio epidemico, con il conseguente pericolo di estensione ad altre aziende operanti, nel medesimo settore, all'interno dello stesso contesto territoriale". 13.2. Alla luce delle puntualizzazioni sin qui formulate, occorre ancora rimarcare che, proprio in ragione della radicalità della misura dello stamping out, l'Amministrazione è chiamata ad un giudizio prognostico in ordine non solo all'esistenza dell'infezione ma anche alle prospettive di eliminazione del "rischio di diffusione all'interno dell'azienda oppure ad altri stabilimenti": "vale a dire, sulla possibilità che la malattia receda fino a scomparire (ed in questo caso, sull'opportunità di continuare a perseguire il "risanamento" dell'allevamento, prolungando il periodo di osservazione e controllo, con misure di contenimento e sanificazione); oppure sull'impossibilità che ciò si verifichi, con conseguente necessità di disporre senza ulteriori indugi l'abbattimento totale degli animali" (Cons. Stato, sez. III, n. 6551 del 2023). Detto giudizio è sprovvisto di parametri oggettivi, misurabili/accertabili, di tipo quantitativo o qualitativo (quali, in ipotesi: soglie percentuali di positività sul numero totale degli animali; soglie percentuali di diminuzione della positività nel periodo oggetto di monitoraggio ed in relazione alla cadenza periodica dei controlli; un tempo massimo di monitoraggio al fine dell'eliminazione delle positività ), posto che gli stessi non si rinvengono né nelle disposizioni dell'O.M. 28 maggio 2015, né in quelle delle d.G.R. n. 207/2019 e n. 104/2022. Può solo dirsi che "In presenza di parametri di valutazione così elastici, ed in mancanza di ulteriori strumenti di organizzazione dell'esercizio della ampia discrezionalità decisionale che ne consegue, l'applicazione dei principi di necessità, adeguatezza e proporzionalità del provvedimento, richiede che un ordine di abbattimento sia supportato da una motivazione analitica, che consideri espressamente tutti gli elementi rilevanti ai sensi dell'Allegato 2, così come delineati in precedenza, in relazione ai dati risultanti dai controlli effettuati ed in prospettiva" (Cons. Stato, sez. III, n. 6551 del 2023). 13.3. Applicando i richiamati canoni ermeneutici al caso di specie, il Collegio ritiene che il provvedimento di abbattimento e i relativi allegati manifestino una sostanziale insufficienza istruttoria e motivazionale proprio nella parte in cui mancano di fornire una valutazione di proporzionalità della misura di stamping out adottata e, ancor prima, un adeguato giudizio prognostico sulla non recessività e sul rischio di diffusione della malattia, poiché nulla riportano in proposito, in quanto non motivano il perché non sia stato ritenuto possibile, ovvero sia risultato sommamente difficile, "risanare" l'azienda sede di focolaio; non specificano i dati sulla base dei quali sarebbe fondato presumere la mancanza di interferenze con altre infezioni (da M. avium o altro antigene cross-reattivo) e quindi ritenere pienamente affidabili gli esiti diagnostici anche in chiave di abbattimento totale dell'allevamento; e neppure illustrano gli ulteriori dati sulla cui base presumere la persistenza dell'infezione a distanza di circa 8 mesi dalla sua rilevazione ultima, e ciò nonostante l'art. 1, lett. c), dell'O.M. 6 giugno 2017, l'art. 5 comma 2 dell'O.M. 28 maggio 2015 e il punto C.1 del Piano straordinario regionale individuino un nesso di stretta consequenzialità temporale e procedimentale tra l'esecuzione del controllo da cui sia emersa l'eventuale positività dei capi alla TBC e il provvedimento di abbattimento totale. Nell'ottica di una valutazione proporzionata e prudente dei dati disponibili avrebbe potuto assumere rilevanza anche l'almeno apparente contraddittorietà (in sé non decisiva ma comunque meritevole di approfondimento) tra il Rapporto di Prova del 23 aprile 2020, n. -OMISSIS-, richiamato nella proposta di abbattimento dell'A.S.L. e da cui sarebbe risultato "un isolamento M. bovis all'esame batteriologico", e i successivi Rapporti di Prova, nn. -OMISSIS- e -OMISSIS-, rispettivamente del 26 maggio e 28 settembre 2020, i quali avevano escluso la presenza del DNA del gruppo Mycobacterium tubercolosis complex. 13.4. L'istruttoria disposta nel corso del giudizio ha inteso fare luce su questo versante dell'azione amministrativa, sotto diversi profili apparentemente lacunoso - senza intaccare il criterio generale di attualità del giudizio di legittimità al tempo di adozione dell'atto oggetto di impugnativa, ma al contempo puntando a garantire, attraverso una verifica della condizione dei capi residui ancora in vita e dello stato di diffusione della malattia, una delibazione giurisdizionale effettiva sulla ragionevolezza della prognosi effettuata ex ante dall'Amministrazione, fugando eventuali dubbi in ordine all'opportunità dell'abbattimento della totalità dei capi allevati, disposto dopo l'avvenuta macellazione dei 75 capi rilevati come infetti all'esito del test gamma interferone, ma ad una significativa distanza temporale dalla acquisizione degli ultimi dati diagnostici (v. ordinanza -OMISSIS- del 2022). D'altra parte, quanto più invasiva - tanto per gli interessi del privato quanto per il bene della vita degli animali - è la misura provvedimentale che l'Amministrazione intende adottare, tanto maggiore devono essere la cautela e l'accuratezza che la stessa Amministrazione deve osservare in fase istruttoria, nella ricognizione del presupposto legittimante tale misura: nella materia de qua, poi, si impongono cautele direttamente proporzionali al carattere generalizzato, radicale e irreversibile della misura di abbattimento, incidente su esseri senzienti a loro volta rappresentati da parte del legislatore costituzionale (art. 9 Cost.) come diretti destinatari di uno specifico obbligo di tutela (v. Cons. Stato, sez. III, n. 1658 del 2024). 13.5. La circostanza che i controlli successivamente effettuati abbiano dato esito negativo (sollevando, peraltro, motivati dubbi sulla persistente validità delle metodiche diagnostiche a normativa vigente) e che questo esito sia il frutto particolarmente attendibile di una indagine progressiva e particolarmente minuziosa - esperita attraverso una prima fase di prove incrociate con l'IDT e il gamma interferone e una successiva fase di esami ispettivi e analisi di laboratorio - corrobora il giudizio di insufficiente motivazione, in relazione ai criteri normativamente rilevanti e innanzi evidenziati, dell'ordine di abbattimento dei capi residui, esimendo il Collegio da ulteriori approfondimenti istruttori sul punto. 13.6. Fermi restando i segnalati vizi di carenza di istruttoria e di violazione del principio di proporzionalità, nella loro sussistenza ab origine, occorre aggiungere che il riscontro attualizzato di una condizione di rischio di diffusione del contagio progressivamente manifestatasi assai circoscritta o del tutto assente, non può che riverberarsi sulla ragionevolezza della misura di abbattimento in precedenza assunta, la quale, proprio perché definisce la sorte di esseri viventi sani, non può sottrarsi ad una verifica di persistenza (sino alla pronuncia del provvedimento giudiziale) della sua utilità di misura preventiva ed emergenziale: questa utilità è dunque presupposto e requisito di legittimità dell'atto, da valutare sino al momento della sua esecuzione. 13.7. In proposito si è già avuto modo di chiarire da parte della Sezione che "un'applicazione critica (nel senso etimologico del termine) del principio tempus regit actum, secondo cui la legittimità dei provvedimenti amministrativi va scrutinata sulla base dello stato di fatto e di diritto sussistente al momento dell'adozione degli stessi, implica che quando un provvedimento amministrativo si fondi su di un(unico) presupposto fattuale, il venir meno, successivamente alla sua emanazione, del presupposto che ne ha consentito l'adozione, può refluire sulla originaria legittimità del provvedimento stesso, non trattandosi di illegittimità sopravvenuta ma piuttosto di illegittimità successivamente accertata, posto che essa ha riguardo alla (in)sussistenza ab origine del presupposto per l'esercizio del potere" (v. ordinanza n. 4199/2023 e sentenza n. 1658 del 2024). 13.8. Non solo, ma nelle materie caratterizzate da misure di natura preventiva e cautelare, le stesse esigenze di precauzione e di proporzionalità suggeriscono di modulare l'azione cautelativa in relazione alla evoluzione dei risultati istruttori, ovvero di sottoporre le misure adottate ad un'opera di revisione che tiene conto dell'aggiornamento dei dati e dell'andamento criticità da fronteggiare (Cons. Stato, Sez. III, n. 6655 del 2019). Per tali ragioni, entrerebbe in obiettiva frizione con i parametri di precauzione e proporzionalità un'azione preventiva che - pur a fronte dell'accertata negativizzazione (totale o prevalente, in relazione alla soglia critica del 20%) dei capi infetti e, quindi, pur in assenza dell'accertata insussistenza del presupposto - pretendesse di dare comunque attuazione alla determinazione più drastica di totale eradicazione del rischio. 13.9. Risulta quindi fondato e va accolto il motivo di appello recante la contestazione circa l'insussistenza parziale dei presupposti di proporzionalità e adeguatezza della misura adottata. 14. Solo in parte fondati sono invece i rimanenti rilievi riproposti dalla parte appellante con riguardo alle tecniche diagnostiche prescelte ab origine dall'Amministrazione per appurare lo stato di infezione dell'allevamento, potendosi sul punto osservare che: -- è certamente vero che il test gamma interferone è stato affiancato all'IDT quale prova ufficiale "in prima battuta" per la diagnosi della TBC bovina, sicché esso non assume il carattere di prova "ancillare" o "ausiliaria" (come confermato dalla prima relazione di verificazione dell'Istituto Superiore di Sanità depositata il 21 gennaio 2022); -- questo affiancamento, tuttavia, è frutto di una disposizione dell'Allegato III del Regolamento UE n. 689/2020 entrata in vigore (ai sensi dell'art. 87) il 21 aprile 2021, vale a dire successivamente sia all'adozione dell'avversato provvedimento di abbattimento totale, sia alle prove diagnostiche del gennaio 2020; -- in precedenza (e comunque nella cornice temporale nella quale si iscrive la vicenda oggetto del presente giudizio) vigeva il Regolamento CE/1226/2002, allegato B, il quale, al punto 3, tratta delle "Prove supplementari" e dispone che "Per poter individuare il maggior numero possibile di animali contagiati o ammalati in un allevamento o in una regione, gli Stati membri possono autorizzare l'uso della prova del gamma-interferone descritta nel Manuale di norme per le prove diagnostiche e i vaccini dell'OIE (IV edizione, 2000), capitolo 2.3.3 (tubercolosi bovina), oltre alla prova della tubercolina". 14.1. Dalla lettera del richiamato Punto 3 si desume che la prova con il gamma interferone poteva all'epoca essere eseguita in aggiunta e, quindi, a conforto del test IDT, non in via esclusiva: la rubrica della disposizione ("Prove supplementari"), la finalità dichiarata di accrescere la capacità diagnostica dell'indagine e l'inciso "oltre alla prova della tubercolina", depongono, appunto, a sostegno dell'interpretazione che attribuisce carattere "aggiuntivo" o "supplementare" alla prova in questione. -- D'altra parte, nel Decreto del Ministero della Sanità 15 dicembre 1995, n. 592 - di approvazione del "Regolamento concernente il piano nazionale per la eradicazione della tubercolosi negli allevamenti bovini e bufalini" - (articoli 6 e 7) si legge che gli animali possono essere considerati sospetti di infezione tubercolare ovvero infetti qualora le "prove diagnostiche effettuate secondo l'allegato 1" siano da considerarsi dubbie ovvero abbiano dato risultato di positività ; e nel citato allegato 1 al D.M. n. 592/1995, rubricato "Esecuzione ed interpretazione delle prove diagnostiche ufficiali", si precisa che "Sono riconosciute ufficialmente le seguenti prove per la diagnosi in vita di tubercolosi: a) intradermotubercolinizzazione (in sigla IDT ndr) unica: inoculazione singola di tubercolina PPD bovina (5000 UTC in 0,1 ml); b) intradermotubercolinizzazione comparativa:...". -- Nella stessa Relazione di servizio prodotta in primo grado dalla Regione Campania (in data 30 ottobre 2020), viene ulteriormente specificato che la prova con il gamma-interferone "...non sostituisce la prova Intradermica prevista dalla norma nazionale e comunitaria ma viene usato in parallelo al fine di garantire una migliore individuazione degli allevamenti infetti, così come previsto dalla norma comunitaria - La prova non è utilizzata in serie ma quale prova ancillare per meglio approfondire la presenza della malattia, proprio come previsto dalla norma comunitaria...", sopra richiamata. -- Sempre a riprova del carattere ancillare che all'epoca veniva attribuito al test gamma interferone occorre considerare che al Paragrafo B.3 del Piano Straordinario Regionale, rubricato "Esecuzione prove diagnostiche", è prevista la sottoposizione di tutti i capi di età superiore alle 6 settimane al test d'intradermotubercolinizzazione (IDT) singola nonché alla prova del gamma interferone esclusivamente per gli allevamenti che nei tre anni precedenti non siano stato "oggetto di focolaio, rilevazione al macello di TBC (Mod 10/33) e/o sospensione di qualifica": viceversa, per gli Allevamenti in cui non ricorra la suddetta condizione (consistente, si ribadisce, nella sostanziale "assenza", ovvero nel mancato riscontro, della patologia nel triennio precedente), la sola prova diagnostica contemplata è quella della IDT, non già il gamma interferone. È pacifico che l'Azienda degli appellanti non rientrasse nel 2020 nella categoria degli allevamenti esenti (considerati i precedenti focolai, comunque, ampiamente estinti), per cui l'ASL Caserta, anche ai sensi di questa specifica normativa, avrebbe dovuto assumere il test con la tubercolina (IDT). -- Quanto ai precedenti specifici di questa Sezione richiamati dalle parti appellanti, essi esaminano fattispecie differenti da quella qui in esame, poiché concernenti focolai accertati in epoca successiva all'entrata in vigore del regolamento n. 689 del 2020 (vedi sentenza n. 10978/2022). 14.2. In definitiva, è fondata la contestazione di parte ricorrente concernente la modalità di selezione e somministrazione della prova diagnostica sulla base della quale è stata accertata la presenza dell'infezione: il rilievo non è stato correttamente colto dal giudice di primo grado, mentre il fatto che il test applicato sia stato successivamente validato dalla comunità scientifica e dal legislatore (comunitario e nazionale) come prova ufficiale del tutto equivalente a quelle già invalse, se depotenzia sensibilmente la contestazione sulla affidabilità dello screening effettuato, nulla toglie all'incongruenza istruttoria segnalata nello svolgimento dell'azione amministrativa, quale circostanza critica in sé non irrilevante (non potendosi pronosticare quali sarebbero stati gli esiti di una campagna diagnostica impostata sulla metodica corretta) e, comunque, aggiuntiva a quelle già innanzi segnalate. 15. La fondatezza dell'appello, nei sensi indicati, ogni altra eccezione o contestazione assorbita, determina, in riforma della sentenza impugnata, l'accoglimento del ricorso proposto in primo grado e l'annullamento del provvedimento con esso impugnato. 16. Considerata la complessità e l'oggettiva novità dei risvolti istruttori della controversia, si ravvisano i presupposti per disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese e degli onorari di causa. Va infine accolta, in quanto congrua e coerente con i parametri di legge, l'istanza di liquidazione del compenso (per l'importo richiesto e accordato di Euro 496,76 oltre oneri di legge) presentata in data 19 dicembre 2023 dai componenti del collegio di Verificazione intervenuti in rappresentanza dell'Istituto Superiore di Sanità . Detto importo viene posto in via solidale a carico di tutte le parti costituite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l'effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso proposto in primo grado e annulla il provvedimento con esso impugnato. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Liquida ai componenti del collegio di Verificazione intervenuti in rappresentanza dell'Istituto Superiore di Sanità la somma di cui in motivazione, da porsi in via solidale a carico di tutte le parti costituite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità . Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Stefania Santoleri - Presidente FF Giovanni Pescatore - Consigliere, Estensore Nicola D'Angelo - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Raffaello Scarpato - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4565 del 2021, proposto dalla signora -OMISSIS- e dal signor -OMISSIS-, in proprio e quali comproprietari dell'-OMISSIS- sita in -OMISSIS- (CE), rappresentati e difesi dagli avvocati Vi. Pr. ed An. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro la Regione Campania, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; l'Istituto Zo. Sp. del Me., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Fa. De Pa., con domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Gi. Pe. in Roma, via (...); il Ministero della Salute, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...); l'Azienda Sanitaria Locale di Caserta, in persona del direttore generale pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato En. Bo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sede di Napoli Sezione Quinta, -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli artt. 65, 66 e 67 cod. proc. amm.; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Campania, dell'Istituto Zo. Sp. del Me., del Ministero della Salute e dell'Azienda Sanitaria Locale Caserta; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 febbraio 2024 il Cons. Giovanni Pescatore e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. I Sigg. -OMISSIS- ed -OMISSIS- sono contitolari di un'azienda di allevamento bufalino (codice aziendale -OMISSIS-) sita in -OMISSIS- (CE) alla -OMISSIS-. 1.1. L'azienda ha mantenuto la qualifica sanitaria di "ufficialmente indenne dalla tubercolosi" fino al mese di luglio 2019, allorquando la qualifica le è stata sospesa all'esito della rilevata e ripetuta positività di taluni capi bufalini alla prova diagnostica effettuata con la metodica dell'intradermotubercolinizzazione singola (IDT). Ai test facevano seguito le doverose misure di abbattimento degli animali infetti. 1.2. Nel corso del mese di gennaio del 2020 i Dirigenti Veterinari dell'A.S.L. Caserta procedevano ad un nuovo controllo sull'allevamento, utilizzando quale prova diagnostica non già l'IDT singola ma il test con il gamma-interferone. 1.3. All'esito di tale controllo risultava un sensibile incremento dei capi positivi alla TBC (confermato dall'isolamento del Mycobacterium bovis all'esame batteriologico di cui al Rapporto di Prova del 23 gennaio 2020, -OMISSIS-) sicché, con disposizioni sanitarie del 6 febbraio 2020, prot. nn. -OMISSIS- e -OMISSIS-, veniva ordinato l'invio al macello dei 64 capi diagnosticati come infetti. 1.4. Con il provvedimento prot. n. -OMISSIS- del 21 settembre 2020, il Dipartimento di Prevenzione dell'A.S.L. Caserta - -OMISSIS- - disponeva, da ultimo, l'abbattimento totale (stamping-out) di tutti i residui 244 capi presenti in azienda, e ciò in dichiarata applicazione del punto C.1 della Delibera della Giunta Regionale della Campania n. 207 del 20 maggio 2019. 2. Avverso il predetto provvedimento sono insorti gli odierni appellanti, agendo dinanzi al TAR Campania e deducendo che: i) l'avversata misura di abbattimento totale doveva ritenersi inficiata dall'erronea e falsa applicazione della disciplina di riferimento, come dettata dalla delibera giuntale del 28 maggio 2019, n. 207 "Piano straordinario per il controllo delle malattie infettive della bufala mediterranea italiana per la Regione Campania" - "caso 2", in quanto l'abbattimento totale dei capi presenti nell'azienda era stato disposto nonostante non fosse stato isolato il Mycobacterium bovis e attribuendo rilevanza decisiva ad elementi totalmente inconferenti (i precedenti focolai ormai estinti da tempo), ovvero alle contraddittorie e non definitive risultanze degli esami autoptici post-mortem; ii) l'impugnato provvedimento si poneva in contrasto con il punto C.1 del citato Piano regionale, poiché aveva disposto l'abbattimento totale dell'allevamento, concludendo per l'elevata percentuale di positività intra-aziendale (superiore al 20%) con esclusivo riferimento ai risultati degli esami diagnostici effettuati sugli animali ancora in vita, ma trascurando di considerare che gli esami post mortem (segnatamente, la prova PCR sul DNA di cui ai Rapporti di Prova, nn. -OMISSIS- e -OMISSIS-, rispettivamente, del 26 maggio e 19 giugno 2020) sui 64 capi abbattuti, risultati presuntivamente positivi alla TBC all'esito della prova con il gamma-interferone, avevano dato riscontro negativo. Ciò in violazione di quanto previsto dall'Allegato 2 all'O.M. 28 maggio 2015 che, subordinando l'adozione dello stamping-out alla valutazione non soltanto dell'elevato numero di positività degli animali al controllo ma, tra l'altro, anche all'isolamento del Mycobacterium bovis, attribuisce rilevanza pregnante agli esiti degli esami di laboratorio post-mortem, come indispensabili al fine di accertare l'effettivo stato patologico o meno dei capi abbattuti; iii) ulteriore profilo di contrasto con quanto disposto dall'O.M. 28 maggio 2015 (art. 5 comma 2) emergeva dal fatto che il procedimento finalizzato all'adozione dell'abbattimento totale non era stato avviato con immediatezza, come imposto anche dal punto C.1 del Piano straordinario regionale, ma soltanto trascorsi otto mesi dall'ultimo controllo, ovverosia in relazione ad una situazione sfuggita a controlli più recenti e aggiornati, e ciò nonostante il menzionato punto C.1 del Piano straordinario regionale preveda il costante monitoraggio delle condizioni dell'allevamento; iv) l'"elevata percentuale di positività intra-aziendale" alla TBC era stata accertata attraverso un esame diagnostico, il test con il gamma-interferone, privo del crisma di prova ufficiale (essendo contemplato nelle fonti regolatrici solo come test di supporto) e realizzato mediante l'impiego di un kit BOVIGAM non validato per la bufala mediterranea. 3. Il TAR Campania ha respinto il ricorso. Ha osservato il primo giudice che il potere del quale ha fatto uso il servizio veterinario "si fonda sulla previsione dell'articolo 5 della O.M. 28 maggio 2015 pedissequamente recepita dalla delibera giuntale del 28 maggio 2019, n. 207, che ha approvato il "Piano straordinario per il controllo delle malattie infettive della bufala mediterranea italiana per la Regione Campania". L'allegato 2 Linee guida, in ordine all'abbattimento totale dell'allevamento specificamente dispone: ""Il Servizio Veterinario della ASL propone alla Regione l'applicazione dell'abbattimento totale in un focolaio e contestualmente chiede il parere dell'IZSM Sezione competente sulla base della valutazione dei seguenti criteri: - focolaio insorto in territorio ufficialmente indenne; - isolamento di Mycobacterium bovis, Mycobacterium caprae, Brucella spp. o il reperimento di lesioni da virus della leucosi bovina (in allevamento o al mattatoio); - rischio di diffusione all'interno dell'azienda oppure ad altre aziende, anche in relazione alla tipologia di movimentazione degli animali ovvero in relazione al tipo di allevamento (pascolo vagante e/o stabulazione fissa); - tutti i criteri di valutazione su menzionati devono sempre essere associati all'elevata percentuale di positività intra- aziendale (superiore al 20%) al momento del controllo". Tanto premesso, il primo giudice ha ritenuto che l'Amministrazione: "- sotto il profilo temporale, ha accertato la persistenza, all'interno dell'azienda, del focolaio in mondo continuativo nell'ultimo triennio, nonostante l'adozione delle misure di abbattimento mirato dei capi infetti, precedentemente adottate e regolarmente eseguite dai ricorrenti, a riprova di una gravità della situazione sanitaria tale da vanificare il reiterato ricorso alle medesime misure rivelatesi insufficienti a ripristinare la qualifica di allevamento ufficialmente indenne; - con riguardo al pericolo della diffusività del contagio, ha acclarato come quest'ultimo si fosse esteso anche all'azienda confinante in modo tale che le stesse oramai costituivano un'unica unità epidemiologica per contiguità e caratteristiche dell'infezione, così rivenendo empirica conferma dell'acclarata possibilità che il contagio potesse ulteriormente estendersi; - con specifico riferimento al sostrato scientifico supportante l'affermata impossibilità di eradicare l'infezione, non solo ha isolato il batterio del gruppo Mycrobacterium tubercolosiscomplex all'esito degli esami condotti sui capi contagiati, ma anche riscontrato la costante presenza delle lesioni tipiche della malattia in occasione della macellazione regolare; - in ordine al grado di diffusività attuale del contagio, disponendo l'indagine epidemiologica mediante il ricorso alla prova del gamma interferone, ha avuto l'ulteriore conferma che il focolaio sviluppatosi nel considerato contesto aziendale non si fosse, in realtà, mai estinto dal primo episodio, nonostante le adottate misure di risanamento". Il TAR ha inoltre evidenziato che, "come si evince dal rapporto di prova -OMISSIS- del 23/01/2020 redatto all'esito degli esami condotti dall'istituto Zo. per il Me., l'impugnato provvedimento si fonda su un'evidenza scientifica, affatto contestata dai ricorrenti, in ordine alla sua concludenza ed attendibilità, dell'avvenuto isolamento del batterio M.bovis all'esito dell'esame batteriologico condotto nell'azienda bufalina". Il giudice di prime cure, dopo avere altresì respinto le censure relative ai profili temporali del disposto abbattimento, si è poi soffermato sull'ultima delle articolate doglianze, a mezzo della quale il ricorrente aveva lamentato che, ai fini dell'accertamento della positività dei capi alla TBC, l'ASL si era avvalsa della prova del gamma interferone in luogo della prova IDT singola, in ritenuta violazione degli artt. 6 e 7 D.M. n. 592/95 e del Reg. UE n. 1226/2002, peraltro impiegando il Kit Bovigam non validato per la bufala mediterranea. Il giudice di primo grado è giunto, in proposito, a conclusioni reiettive motivate sulla base del seguente percorso logico-argomentativo: "Premesso che IZM ha documentato la validazione delle modalità esecutive della contestata metodica diagnostica (ved. elenco delle prove accreditate), deve osservarsi come l'A.S.L. resistente abbia agito nel rispetto della DGRC 207/2019 di approvazione del "Piano straordinario per il controllo delle Malattie Infettive della bufala mediterranea italiana per la Regione Campania" che contempla il ricorso alla prova del gamma interferone non per confermare le risultanze della IDT eseguita sul singolo capo, bensì per confermare la presenza, come avvenuto nell'odierna fattispecie, della malattia in allevamento... Al riguardo si rappresenta che, in effetti, la Regione Campania, con l'indicato DGR n. 207 del 2019, ha prescelto quale test di approfondimento relativamente alla presenza della tubercolosi negli allevamenti ufficialmente indenni - quale non è quello del ricorrente - la prova del gamma interferone, non ritenendo abbastanza attendibile la prova dell'intradermotubercolinizzazione comparativa; la scelta della Regione Campania, al riguardo, tuttavia, non si pone in contrasto con la normativa comunitaria atteso che la prova del gamma interferone è riconosciuta nel Regolamento (CE) n. 1226/2002 e s.m.i come prova diagnostica di riferimento, accanto alla prova tubercolinica, che peraltro, alla stregua della normativa statale, è di per se sufficiente per la rilevazione dell'infezione, alla luce anche delle prescrizioni del DM n. 592/1995". 4. Avverso la sentenza i ricorrenti in prime cure hanno proposto l'appello qui all'esame. Gli appellanti ritengono che il primo giudice abbia errato nell'attribuire rilevanza ad episodi di insorgenza della patologia ormai remoti nel tempo, così "tradendo" la ratio dello stamping out, dovendo questa intendersi quale misura finalizzata a fronteggiare nell'immediato situazioni di emergenza sanitaria. 4.1. Inoltre il TAR avrebbe affermato che il test del gamma-interferone è stato utilizzato per l'indagine epidemiologica nell'Azienda degli appellanti, senza valutare la diversità ontologica che v'è tra "indagine epidemiologica" - che ha lo scopo di studiare le origini dell'insorgere della malattia - e la prova con il gamma interferone, eseguita al fine di verificare la situazione sanitaria dei capi bufalini. Finalità quest'ultima - secondo parte appellante - non consentita, dal momento che il gamma interferone non rientrerebbe nell'ambito delle prove ufficiali previste dall'allegato 1 al D.M. n. 592/1995, il quale contempla unicamente: a) l'intradermotubercolinizzazione (in sigla IDT ndr) unica: inoculazione singola di tubercolina PPD bovina (5000 UTC in 0,1 ml); b) l'intradermotubercolinizzazione comparativa. 4.2. L'appellante insiste altresì sulla circostanza del mancato isolamento del batterio del gruppo Mycobacterium bovis. Contesta la concludenza del rapporto di prova del 23 gennaio 2020, -OMISSIS-, deducendo che gli esiti di tale esame batteriologico sarebbero stati "smentiti" dagli esami con il PCR effettuati dall'Istituto Zo. Sp. del Me., che hanno escluso la presenza del DNA del gruppo Mycobacterium tubercolosis complex, come da Rapporti di Prova, nn. -OMISSIS- e -OMISSIS-, rispettivamente, del 26 maggio e 19 giugno 2020, successivi al rapporto di prova -OMISSIS-. Proprio sulla base di tale elemento, dotato di obiettiva rilevanza, i ricorrenti in primo grado avevano dedotto come fosse incontestabile che l'avversata proposta di abbattimento totale fosse stata formulata in carenza del necessario criterio al quale l'Amministrazione ha inteso dare applicazione, consistente nell'isolamento del Mycobacterium bovis. 4.3. Aggiungono gli appellanti che una misura così grave, qual è l'abbattimento totale, avrebbe dovuto necessariamente essere adottata sulla scorta di un effettivo accertamento definitivo della positività dei capi e della presenza nell'allevamento della patologia tubercolare, non potendosi assegnare rilevanza risolutiva alla sola prova diagnostica effettuata sull'animale in vita, i cui esiti vanno sempre riscontrati con gli esami post-abbattimento, specificamente quelli effettuati in laboratorio, i soli idonei a confermare o meno la malattia, come richiesto dalla sopra richiamata normativa regionale. 4.4. Gli appellanti insistono, infine, nell'argomentare la tesi secondo la quale il test con il gamma-interferone non poteva essere considerato quale prova diagnostica ufficiale all'epoca della contestata azione amministrativa. E' pur vero - riconosce la parte - che il Regolamento CE/1226/2002, allegato B, al punto 3. - rubricato "Prove supplementari" - dispone che "Per poter individuare il maggior numero possibile di animali contagiati o ammalati in un allevamento o in una regione, gli Stati membri possono autorizzare l'uso della prova del gamma-interferone descritta nel Manuale di norme per le prove diagnostiche e i vaccini dell'OIE (IV edizione, 2000), capitolo 2.3.3 (tubercolosi bovina)"; tuttavia nella medesima disposizione si precisa che la prova supplementare debba essere eseguita "oltre alla prova della tubercolina", dunque giammai in modo esclusivo. 5. Il Collegio ha esaminato la causa all'udienza del 17 giugno 2021 e all'esito ha disposto una verificazione tecnica, chiedendo all'organo incaricato di "eseguire analisi e controlli con metodi non limitati alle contestate analisi sierologiche, e quindi depositare analitica relazione sui risultati acquisiti, entro 60 giorni dalla pubblicazione della presente ordinanza". 6. Il Verificatore, individuato nel Direttore pro tempore dell'Istituto Superiore di Sanità, nelle conclusioni rassegnate nella relazione depositata in esecuzione dell'incarico, in data 21 gennaio 2022, ha rappresentato che il test gamma-interferone rientra tra le metodiche pienamente utilizzabili al fine di diagnosticare la TBC e che l'indagine in allora effettuata aveva trovato valida conferma nell'analisi post mortem conclusasi con l'isolamento del Mycobacterium. Non ha però eseguito i nuovi test commissionatigli, ritenendo che essi fossero inutili o non significativi alla luce dei seguenti parametri valutativi: a) il lungo lasso temporale intercorso da quando erano state effettuate le prove che avevano condotto alla decisione di abbattere l'intero allevamento; b) il possibile verificarsi di diverse situazioni contingenti ascrivibili sia all'evoluzione dello stato sanitario degli animali, sia a eventuali fattori confondenti e non controllabili, che avrebbero potuto condizionare il risultato delle nuove prove; c) la considerazione che le attività diagnostiche condotte nel tempo sugli animali facenti parte dell'allevamento coprivano lo spettro degli opportuni approcci diagnostici che era ragionevole mettere in campo per definire, oltre ogni ragionevole dubbio, la sussistenza del focolaio di TBC. 7. Gli appellanti nelle loro memorie conclusive, depositate in vista dell'udienza pubblica di discussione, hanno quindi sostenuto che il Verificatore non aveva avuto alcuna preventiva interlocuzione con i consulenti di parte nominati; che il documento depositato, sebbene denominato "Relazione di Verificazione", in realtà non conteneva alcuna indicazione degli esiti delle operazioni peritali che secondo l'ordine istruttorio avrebbero dovuto essere effettuate; e che siffatto modus procedendi risultava irrituale e illegittimo, posto che la verificazione era stata finalizzata, in modo chiaro ed inequivocabile, a stabilire quale fosse lo status sanitario degli animali ancora presenti nell'allevamento, dopo l'abbattimento dei capi dichiarati infetti. Le ragioni addotte per giustificare il rifiuto a effettuare le "nuove e approfondite analisi" non avevano, quindi, base scientifica, se rapportate alla ratio della richiesta istruttoria formulata dalla Sezione. 8. All'esito dell'udienza pubblica del 12 aprile 2022 il Collegio, con ordinanza -OMISSIS- del 2022, ha ritenuto la causa non ancora matura per la decisione e bisognevole di ulteriori approfondimenti istruttori, così motivando questa scelta: "9.1. Non si deve trascurare che il provvedimento impugnato ha disposto l'abbattimento totale dei capi allevati, pur dopo l'avvenuta macellazione dei 64 capi, rilevati come infetti all'esito del test gamma interferone. Trattasi di una misura di cautela radicale, riservata ai casi in cui può ragionevolmente formularsi, sulla base di alcuni indicatori previsti dalla normativa tecnica, la prognosi di una rapida e generalizzata diffusione della malattia, tale da richiedere interventi di eradicazione totale attraverso l'abbattimento dell'intero allevamento, il cd stamping-out. 9.2. Ciò considerato, il Collegio ritiene necessaria, anche alla luce del carattere esiziale che il provvedimento riveste per la vita degli animali e per la sopravvivenza della realtà aziendale dell'appellante, un'ulteriore indagine, tesa a comprendere se la prognosi formulata possa o meno rivelarsi fallace a cagione di una possibile erronea valorizzazione degli indicatori innanzi menzionati, causata dalla non corretta esecuzione degli esami sugli animali al tempo vivi (esami ormai non più ripetibili in ragione dell'abbattimento degli animali predetti). 9.3. L'unico modo idoneo a garantire una delibazione giurisdizionale effettiva della ragionevolezza della prognosi effettuata ex ante dall'amministrazione, è quella di verificare la condizione dei capi residui ancora in vita, sì da comprendere se, come ipotizzato dall'amministrazione, la malattia si sia ulteriormente diffusa, e in che misura. Lo scopo non è quello di sindacare il "merito" della discrezionalità utilizzata dall'amministrazione nella scelta dello stamping out rispetto all'abbattimento di singoli capi (scelta tra l'altro guidata dalle previsioni dell'articolo 5 della O.M. 28 maggio 2015 recepita dalla delibera giuntale del 28 maggio 2019, n. 207 di approvazione del "Piano straordinario per il controllo delle malattie infettive della bufala mediterranea italiana per la Regione Campania"), quanto quello di verificare indirettamente, attraverso l'unico controllo ex post effettuabile (quello, appunto, sui capi residui rimasti in vita), la correttezza dell'istruttoria al tempo condotta dall'amministrazione attraverso esami - oggi irripetibili - sui quei 64 capi considerati infetti poi tempestivamente abbattuti. Correttezza istruttoria che, invero, è alla base della prognosi ex ante formulata, e ne condiziona la legittimità . 9.4. Il nuovo organismo di verificazione dovrà pertanto sottoporre i capi residui dell'allevamento dell'appellante a intradermotubercolinizzazione unica e poi al test supplementare del gamma interferone, per poi relazionare e commentare gli esiti". 9. Dei nuovi approfondimenti è stato investito un organismo di verificazione a composizione collegiale, formato da tre esperti designati rispettivamente dal Ministro della salute, dal Presidente dell'Istituto Superiore di Sanità e dal Comandante dell'Arma dei Carabinieri. 10. A seguito della reiezione dell'istanza di ricusazione del collegio dei Verificatori, avanzata dalla parte appellante e disattesa con ordinanza -OMISSIS- del 2022, e di due proroghe concesse su richiesta dei Verificatori onde consentire loro di completare le attività residue e provvedere al deposito della relazione, poi avvenuto in data 2 marzo e 7 dicembre 2023, la causa è passata in decisione all'udienza pubblica del 22 febbraio 2024. 11. L'appello è fondato, per le ragioni e nei limiti di seguito precisati. 12. Dalla relazione di verificazione depositata in giudizio il 2 marzo 2023 è emerso che dei 259 capi bufalini dell'-OMISSIS- soltanto 28 hanno dato esito positivo alle prove incrociate effettuate con la combinata somministrazione dell'IDT e del gamma interferone. 12.1. A seguito di ciò, i predetti animali sono stati macellati e i Verificatori hanno proceduto all'ispezione post mortem degli organi e dei linfonodi; ulteriori campionamenti sono stati disposti al fine di procedere agli esami di laboratorio, presso l'IZSLER, vale a dire alle analisi microbiologiche e molecolari per la ricerca dei microbatteri. 12.2. All'esito di quest'ulteriore attività di indagine i Verificatori hanno riferito che "L'esame ispettivo ha evidenziato la presenza di lesioni ascrivibili all'infezione da M. bovis in 11 animali analizzati. Le analisi di laboratorio hanno rilevato la presenza di lesioni microscopiche, del patogeno e/o del suo materiale genetico in 13 animali. Tutte le lesioni macroscopiche rilevate sono state confermate dall'esame istologico". 12.3. Questo, dunque, il giudizio conclusivo dell'organo ausiliario del giudice: "Il presente Collegio, sulla base dei risultati sopra riportati, ritiene l'allevamento -OMISSIS- infetto da tubercolosi bovina". 13. Per apprezzare la rilevanza dei dati istruttori sin qui riepilogati è utile richiamare l'Allegato 2 dell'O.M. 28 maggio 2015 nella parte in cui dispone che: "In caso di focolaio di tubercolosi, di brucellosi bovina, bufalina e ovi-caprina e di leucosi bovina enzootica, lo stamping-out, è applicato valutando i seguenti elementi: a. focolaio insorto in territorio indenne; b. l'isolamento di Mycobacterium bovis, Mycobacterium caprae, Brucella spp. o il reperimento di lesioni da virus della leucosi bovina (in allevamento o al mattatoio); c. il rischio di diffusione all'interno dell'azienda oppure ad altre aziende, anche in relazione alla tipologia di movimentazione degli animali ovvero in relazione al tipo di allevamento (pascolo vagante e/o stabulazione fissa); d. un'elevata percentuale di positività degli animali al momento del controllo; e. la situazione sanitaria dell'allevamento nell'ultimo anno, ponendo attenzione, in particolare, alle cause del persistere dell'infezione e all'origine del contagio; il mancato rispetto della normativa vigente sullo spostamento per monticazione/alpeggio/pascolo vagante e sull'identificazione degli animali, ovvero la mancata collaborazione nelle attività di profilassi prescritte dal presente decreto nonché il mancato abbattimento degli animali positivi entro i termini previsti. I criteri di cui alla lettera e) sono sufficienti per disporre lo stamping out. (...)". 13.1. A margine del dato normativo, merita ancora osservare che: -- gli elementi indicati alla lettera e), riguardanti la situazione dell'allevamento, confluiscono, unitamente ai criteri elencati alle lettere a), b), c) e d), nell'ambito di una valutazione tecnico-discrezionale che punta a formulare un giudizio prognostico sulla sufficienza delle misure di profilassi adottate o di quelle ulteriormente adottabili, oppure sull'impossibilità di eradicare la malattia se non attraverso la misura estrema dell'abbattimento totale degli animali; -- entrambe le d.G.R. n. 207/2019 e n. 104/2022 richiamano i predetti parametri e, per quanto qui interessa, integrano la previsione della lettera d) ("un'elevata percentuale di positività degli animali al momento del controllo...") con l'ulteriore elemento valutativo-prognostico "che faccia valutare al Veterinario Ufficiale l'impossibilità di risanamento in base alla gestione dello stabilimento"; -- al fine di fornire una lettura sistematica delle previsioni dell'Allegato 2, la giurisprudenza di questa Sezione ha precisato che "i presupposti previsti dall'O.M. 28 maggio 2015 per disporre la misura estrema dello stamping out (...) (come delineati nelle linee guida dell'allegato 2) si concretano appunto nella elevata percentuale di positività degli animali al momento del controllo, nella persistenza del contagio, nella appurata impossibilità di eradicare la malattia e nel conseguente pericolo di estensione ad altre aziende operanti, nel medesimo settore, all'interno dello stesso contesto territoriale" (sentt. nn. 10977, 10978 e 10979 del 2022); -- la stessa sentenza di primo grado qui impugnata dà atto del fatto che "...sia il Piano Straordinario Regionale approvato con D.G.R.C. n. 207/2019 che l'O.M. 28/05/2015 prevedono il ricorso alla misura estrema dello "stamping out", allorquando sia conclamata l'impossibilità di eradicare la malattia ed il contagio insorto in un'azienda, e quindi la persistenza del focolaio epidemico, con il conseguente pericolo di estensione ad altre aziende operanti, nel medesimo settore, all'interno dello stesso contesto territoriale". 13.2. Alla luce delle puntualizzazioni sin qui formulate, occorre ancora rimarcare che, proprio in ragione della radicalità della misura dello stamping out, l'Amministrazione è chiamata ad un giudizio prognostico in ordine non solo all'esistenza ma anche alle prospettive di eliminazione del "rischio di diffusione all'interno dell'azienda oppure ad altri stabilimenti": "vale a dire, sulla possibilità che la malattia receda fino a scomparire (ed in questo caso, sull'opportunità di continuare a perseguire il "risanamento" dell'allevamento, prolungando il periodo di osservazione e controllo, con misure di contenimento e sanificazione); oppure sull'impossibilità che ciò si verifichi, con conseguente necessità di disporre senza ulteriori indugi l'abbattimento totale degli animali" (Cons. Stato, sez. III, n. 6551 del 2023). Detto giudizio è sprovvisto di parametri oggettivi, misurabili/accertabili, di tipo quantitativo o qualitativo (quali, in ipotesi: soglie percentuali di positività sul numero totale degli animali; soglie percentuali di diminuzione della positività nel periodo oggetto di monitoraggio ed in relazione alla cadenza periodica dei controlli; un tempo massimo di monitoraggio al fine dell'eliminazione delle positività ), posto che gli stessi non si rinvengono né nelle disposizioni dell'O.M. 28 maggio 2015, né in quelle delle d.G.R. n. 207/2019 e n. 104/2022. Può solo dirsi che "In presenza di parametri di valutazione così elastici, ed in mancanza di ulteriori strumenti di organizzazione dell'esercizio della ampia discrezionalità decisionale che ne consegue, l'applicazione dei principi di necessità, adeguatezza e proporzionalità del provvedimento, richiede che un ordine di abbattimento sia supportato da una motivazione analitica, che consideri espressamente tutti gli elementi rilevanti ai sensi dell'Allegato 2, così come delineati in precedenza, in relazione ai dati risultanti dai controlli effettuati ed in prospettiva" (Cons. Stato, sez. III, n. 6551 del 2023). 13.3. Applicando i richiamati canoni ermeneutici al caso di specie, il Collegio ritiene che il provvedimento di abbattimento e i relativi allegati manifestino una sostanziale insufficienza istruttoria e motivazionale proprio nella parte in cui mancano di fornire una valutazione di proporzionalità della misura di stamping out adottata e, ancor prima, un adeguato giudizio prognostico sulla non recessività e sul rischio di diffusione della malattia, poiché nulla riportano in proposito, in quanto non motivano il perché non sia stato ritenuto possibile, ovvero sia risultato sommamente difficile, "risanare" l'azienda sede di focolaio; non specificano i dati sulla base dei quali sarebbe fondato presumere la mancanza di interferenze con altre infezioni (da M. avium o altro antigene cross-reattivo) e, quindi, ritenere pienamente affidabili gli esiti diagnostici anche in chiave di abbattimento totale dell'allevamento; e neppure illustrano gli ulteriori dati sulla cui base presumere la persistenza dell'infezione a distanza di circa 8 mesi dalla sua rilevazione ultima, e ciò nonostante l'art. 1, lett. c), dell'O.M. 6 giugno 2017, l'art. 5 comma 2 dell'O.M. 28 maggio 2015 e il punto C.1 del Piano straordinario regionale individuino un nesso di stretta consequenzialità temporale e procedimentale tra l'esecuzione del controllo da cui sia emersa l'eventuale positività dei capi alla TBC e il provvedimento di abbattimento totale. Nell'ottica di una valutazione proporzionata e prudente dei dati disponibili avrebbe infine potuto assumere rilevanza anche l'almeno apparente contraddittorietà (in sé non decisiva ma comunque meritevole di approfondimento) tra il Rapporto di Prova del 23 gennaio 2020, -OMISSIS-, richiamato nella proposta di abbattimento dell'A.S.L. e da cui sarebbe risultato "un isolamento M. bovis all'esame batteriologico", e i successivi Rapporti di Prova, nn. -OMISSIS- e -OMISSIS-, rispettivamente, del 26 maggio e 19 giugno 2020, i quali avevano escluso la presenza del DNA del gruppo Mycobacterium tubercolosis complex. 13.4. L'istruttoria disposta nel corso del giudizio ha inteso fare luce su questo versante dell'azione amministrativa, sotto diversi profili apparentemente lacunoso - senza intaccare il criterio generale di attualità del giudizio di legittimità al tempo di adozione dell'atto oggetto di impugnativa ma al contempo puntando a garantire, attraverso una verifica della condizione dei capi residui ancora in vita e dello stato di diffusione della malattia, una delibazione giurisdizionale effettiva sulla ragionevolezza della prognosi effettuata ex ante dall'Amministrazione, fugando eventuali dubbi in ordine all'opportunità dell'abbattimento della totalità dei capi allevati, disposto dopo l'avvenuta macellazione dei 64 capi rilevati come infetti all'esito del test gamma interferone, ma ad una significativa distanza temporale dall'acquisizione degli ultimi dati diagnostici (v. ordinanza -OMISSIS- del 2022). D'altra parte, quanto più invasiva - tanto per gli interessi del privato quanto per il bene della vita degli animali - è la misura provvedimentale che l'Amministrazione intende adottare, tanto maggiore deve essere la cautela e l'accuratezza che la stessa Amministrazione deve osservare in fase istruttoria, nella ricognizione del presupposto legittimante tale misura: nella materia de qua, poi, si impongono cautele direttamente proporzionali al carattere generalizzato, radicale e irreversibile della misura di abbattimento, incidente su esseri senzienti a loro volta rappresentati da parte del legislatore costituzionale (art. 9 Cost.) come diretti destinatari di uno specifico obbligo di tutela (v. Cons. Stato, sez. III, n. 1658 del 2024). 13.5. La circostanza che i controlli successivamente effettuati abbiano dato riscontri di positività all'infezione quantitativamente molto più contenuti (sollevando, peraltro, motivati dubbi sulla persistente validità delle metodiche diagnostiche ad oggi invalse a normativa vigente) e che questo esito sia il frutto particolarmente attendibile di una indagine progressiva e particolarmente minuziosa - esperita attraverso una prima fase di prove incrociate con l'IDT e il gamma interferone e una successiva fase di esami ispettivi e analisi di laboratorio - corrobora il giudizio di insufficiente motivazione, in relazione ai criteri normativamente rilevanti e innanzi evidenziati, dell'ordine di abbattimento dei capi residui, esimendo il Collegio da ulteriori approfondimenti istruttori sul punto. 13.6. Fermi restando i segnalati vizi di carenza di istruttoria e di violazione del principio di proporzionalità, nella loro sussistenza ab origine, occorre aggiungere che il riscontro attualizzato di una condizione di rischio di diffusione del contagio progressivamente manifestatasi assai circoscritta o del tutto assente, non può che riverberarsi sulla ragionevolezza della misura di abbattimento in precedenza assunta, la quale, proprio perché definisce la sorte di esseri viventi sani, non può sottrarsi ad una verifica di persistenza (sino alla pronuncia del provvedimento giudiziale) della sua utilità di misura preventiva ed emergenziale: questa utilità è dunque presupposto e requisito di legittimità dell'atto, da valutare sino al momento della sua esecuzione. 13.7. In proposito si è già avuto modo di chiarire da parte della Sezione che "un'applicazione critica (nel senso etimologico del termine) del principio tempus regit actum, secondo cui la legittimità dei provvedimenti amministrativi va scrutinata sulla base dello stato di fatto e di diritto sussistente al momento dell'adozione degli stessi, implica che quando un provvedimento amministrativo si fondi su di un(unico) presupposto fattuale, il venir meno, successivamente alla sua emanazione, del presupposto che ne ha consentito l'adozione, può refluire sulla originaria legittimità del provvedimento stesso, non trattandosi di illegittimità sopravvenuta ma piuttosto di illegittimità successivamente accertata, posto che essa ha riguardo alla (in)sussistenza ab origine del presupposto per l'esercizio del potere" (v. ordinanza n. 4199/2023 e sentenza n. 1658 del 2024). 13.8. Non solo, ma nelle materie caratterizzate da misure di natura preventiva e cautelare, le stesse esigenze di precauzione e di proporzionalità suggeriscono di modulare l'azione cautelativa in relazione alla evoluzione dei risultati istruttori, ovvero di sottoporre le misure adottate ad un'opera di revisione che tiene conto dell'aggiornamento dei dati e dell'andamento criticità da fronteggiare (Cons. Stato, Sez. III, n. 6655 del 2019). Per tali ragioni, entrerebbe in obiettiva frizione con i parametri di precauzione e proporzionalità un'azione preventiva che - pur a fronte dell'accertata negativizzazione (totale o prevalente, in relazione alla soglia critica del 20%) dei capi infetti e, quindi, pur in assenza dell'accertata insussistenza del presupposto - pretendesse di dare comunque attuazione alla determinazione più drastica di totale eradicazione del rischio. 13.9. Risulta quindi fondato e va accolto il motivo di appello recante la contestazione circa l'insussistenza parziale dei presupposti di proporzionalità e adeguatezza della misura adottata. 14. Solo in parte fondati sono invece i rimanenti rilievi riproposti dalla parte appellante con riguardo alle tecniche diagnostiche prescelte ab origine dall'amministrazione per appurare lo stato di infezione dell'allevamento, potendosi sul punto osservare che: -- è certamente vero che il test gamma interferone è stato affiancato all'IDT quale prova ufficiale "in prima battuta" per la diagnosi della TBC bovina, sicché esso non assume il carattere di prova "ancillare" o "ausiliaria" (come confermato dalla prima relazione di verificazione dell'Istituto Superiore di Sanità depositata il 21 gennaio 2022); -- questo affiancamento, tuttavia, è frutto di una disposizione dell'Allegato III del Regolamento UE n. 689/2020 entrata in vigore (ai sensi dell'art. 87) il 21 aprile 2021, vale a dire successivamente sia all'adozione dell'avversato provvedimento di abbattimento totale, sia alle prove diagnostiche del gennaio 2020; -- in precedenza (e comunque nella cornice temporale nella quale si iscrive la vicenda oggetto del presente giudizio) vigeva il Regolamento CE/1226/2002, allegato B, il quale, al punto 3, tratta delle "Prove supplementari" e dispone che "Per poter individuare il maggior numero possibile di animali contagiati o ammalati in un allevamento o in una regione, gli Stati membri possono autorizzare l'uso della prova del gamma-interferone descritta nel Manuale di norme per le prove diagnostiche e i vaccini dell'OIE (IV edizione, 2000), capitolo 2.3.3 (tubercolosi bovina), oltre alla prova della tubercolina". 14.1. Dalla lettera del richiamato Punto 3 si desume che la prova con il gamma interferone poteva all'epoca essere eseguita in aggiunta e, quindi, a conforto del test IDT, non in via esclusiva: la rubrica della disposizione ("Prove supplementari"), la finalità dichiarata di accrescere la capacità diagnostica dell'indagine e l'inciso "oltre alla prova della tubercolina", depongono, appunto, a sostegno dell'interpretazione che attribuisce carattere "aggiuntivo" o "supplementare" alla prova in questione. -- D'altra parte, nel Decreto del Ministero della Sanità 15 dicembre 1995, n. 592 - di approvazione del "Regolamento concernente il piano nazionale per la eradicazione della tubercolosi negli allevamenti bovini e bufalini" - (articoli 6 e 7) si legge che gli animali possono essere considerati sospetti di infezione tubercolare ovvero infetti qualora le "prove diagnostiche effettuate secondo l'allegato 1" siano da considerarsi dubbie ovvero abbiano dato risultato di positività ; e nel citato allegato 1 al D.M. n. 592/1995, rubricato "Esecuzione ed interpretazione delle prove diagnostiche ufficiali", si precisa che "Sono riconosciute ufficialmente le seguenti prove per la diagnosi in vita di tubercolosi: a) intradermotubercolinizzazione (in sigla IDT ndr) unica: inoculazione singola di tubercolina PPD bovina (5000 UTC in 0,1 ml); b) intradermotubercolinizzazione comparativa:...". -- Nella stessa Relazione di servizio prodotta in primo grado dalla Regione Campania (in data 30 ottobre 2020), viene ulteriormente specificato che la prova con il gamma-interferone "...non sostituisce la prova Intradermica prevista dalla norma nazionale e comunitaria ma viene usato in parallelo al fine di garantire una migliore individuazione degli allevamenti infetti, così come previsto dalla norma comunitaria - La prova non è utilizzata in serie ma quale prova ancillare per meglio approfondire la presenza della malattia, proprio come previsto dalla norma comunitaria...", sopra richiamata. -- Sempre a riprova del carattere ancillare che all'epoca veniva attribuito al test gamma interferone occorre considerare che al Paragrafo B.3 del Piano Straordinario Regionale, rubricato "Esecuzione prove diagnostiche", è prevista la sottoposizione di tutti i capi di età superiore alle 6 settimane al test d'intradermotubercolinizzazione (IDT) singola nonché alla prova del gamma interferone esclusivamente per gli allevamenti che nei tre anni precedenti non siano stato "oggetto di focolaio, rilevazione al macello di TBC (Mod 10/33) e/o sospensione di qualifica": viceversa, per gli Allevamenti in cui non ricorra la suddetta condizione (consistente, si ribadisce, nella sostanziale "assenza", ovvero nel mancato riscontro, della patologia nel triennio precedente), la sola prova diagnostica contemplata è quella della IDT, non già il gamma interferone. È pacifico che l'Azienda degli appellanti non rientrasse nel 2020 nella categoria degli allevamenti esenti (considerati i precedenti focolai, comunque, ampiamente estinti), per cui l'ASL Caserta, anche ai sensi di questa specifica normativa, avrebbe dovuto assumere il test con la tubercolina (IDT). -- Quanto ai precedenti specifici di questa Sezione richiamati dalle parti appellanti, essi esaminano problematiche e fattispecie differenti da quella qui in esame, poiché concernenti focolai accertati in epoca successiva all'entrata in vigore del regolamento n. 689 del 2020 (vedi sentenza n. 10978/2022). 14.2. In definitiva, è fondata la contestazione di parte ricorrente concernente la modalità di selezione e somministrazione della prova diagnostica sulla base della quale è stata accertata la presenza dell'infezione: il rilievo non è stato correttamente colto dal giudice di primo grado, mentre il fatto che il test applicato sia stato successivamente validato dalla comunità scientifica e dal legislatore (comunitario e nazionale) come prova ufficiale del tutto equivalente a quelle già invalse, se depotenzia sensibilmente la contestazione sulla affidabilità dello screening effettuato, nulla toglie all'incongruenza istruttoria segnalata nello svolgimento dell'azione amministrativa, quale circostanza critica in sé non irrilevante (non potendosi pronosticare quali sarebbero stati gli esiti di una campagna diagnostica impostata sulla metodica corretta) e, comunque, aggiuntiva a quelle già innanzi segnalate. 15. La fondatezza dell'appello, nei sensi indicati, ogni altra eccezione o contestazione assorbita, determina, in riforma della sentenza impugnata, l'accoglimento del ricorso proposto in primo grado e l'annullamento del provvedimento con esso impugnato. 16. Considerata la complessità e l'obiettiva novità dei risvolti istruttori della controversia, si ravvisano i presupposti per disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese e degli onorari di causa. Va infine accolta, in quanto congrua e coerente con i parametri di legge, l'istanza di liquidazione del compenso (per l'importo richiesto e accordato di Euro 496,76 oltre oneri di legge) presentata in data 19 dicembre 2023 dai componenti del collegio di Verificazione intervenuti in rappresentanza dell'Istituto Superiore di Sanità . Detto importo viene posto in via solidale a carico di tutte le parti costituite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l'effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso proposto in primo grado e annulla il provvedimento con esso impugnato. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Liquida ai componenti del collegio di Verificazione intervenuti in rappresentanza dell'Istituto Superiore di Sanità la somma di cui in motivazione, da porsi in via solidale a carico di tutte le parti costituite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità . Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Stefania Santoleri - Presidente FF Giovanni Pescatore - Consigliere, Estensore Nicola D'Angelo - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Raffaello Scarpato - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. IMPERIALI Luciano - Consigliere Dott. DE SANTIS Anna Maria - Consigliere Dott. FLORIT Francesco - Relatore Dott. MINUTILLO TURTUR Marzia - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Be.As. nato in M il (Omissis) Is.Ma. nato in M il (Omissis) avverso la sentenza del 13/02/2023 della CORTE d'APPELLO di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO FLORIT; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore FULVIO BALDI che ha chiesto l'inammissibilità dei ricorsi; ricorso trattato con contraddittorio scritto ex art. 23 comma 8 D.Lgs. 137/2020 RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe è stata confermata la condanna di Be.As. per i reati di violenza sessuale di gruppo e di rapina aggravata commesse a Milano il 1 settembre 2020 ai danni di una cittadina extracomunitaria in concorso con Is.Ma. al quale, tuttavia, è stata riconosciuta l'attenuante dell'articolo 114 c.p. con conseguente riduzione del trattamento sanzionatorio. 2. I due imputati hanno presentato distinti ricorsi per cassazione. Be.As. ha formulato quattro motivi di ricorso, tutti incentrati su vizi di motivazionale e violazione della legge penale (articolo 606 lett. b ed e c.p.p.). Con il primo motivo si contesta la sussistenza di elementi indiziari sufficienti a fondare la responsabilità penale del ricorrente. In particolare, con riferimento all'accusa di violenza sessuale, essa rimane a livello di mera ipotesi anche nella versione della persona offesa che non ricorda la violenza subita. L'assenza di tracce di sostanze narcotizzanti, del DNA dell'indagato sul corpo della donna così come di segni di violenza sono elementi che la Corte di appello così come il primo giudice non hanno adeguatamente valorizzato. Anche in relazione al reato di rapina, si evidenzia con il secondo motivo di ricorso, mancano elementi concreti da porre a fondamento del giudizio di responsabilità dell'imputato poiché non è provata in maniera diretta che il telefono della persona offesa sia stato sottratto nelle circostanze indicate in imputazione o comunque posseduto in qualche momento dall'imputato. Con il terzo motivo si invoca la riqualificazione del fatto ex art. 624 bis comma 2 c.p. posto che l'atto violento è stato esercitato sul bene strappandolo di mano alla persona offesa. Con il quarto e ultimo motivo di ricorso si lamenta l'omesso riconoscimento delle attenuanti generiche nonostante la ammissione di responsabilità delle lesioni cagionate da parte dell'imputato e l'irreprensibile condotta processuale tenuta. 3. Is.Ma. ha formulato due motivi di ricorso fondati anche in questo caso su vizi motivazionali e violazione di legge. Sotto il primo profilo si denuncia che è lesiva del principio dell'oltre il ragionevole dubbio l'affermazione di responsabilità in ordine ai reati ascritti all'imputato in concorso1nell'assenza del ricordo della violenza da parte della persona offesa. Sotto il secondo profilo, l'atteggiamento "inerte" dell'imputato rispetto alla violenza (manifestatasi nelle lesioni prodotte o eventualmente trascesa nella aggressione sessuale ai danni della vittima) non può essere equiparato a concorso non essendovi stato alcun rafforzamento del proposito criminoso del coimputato in alcuna fase della vicenda. 4. Con memoria inviata per PEC il sostituto Procuratore Generale Fulvio Baldi ha chiesto che i ricorsi siano dichiarati inammissibili. Con lo stesso mezzo l'Avv. Ca.Ro. per Be.As. ha richiamato le conclusioni formulate nel ricorso introduttivo chiedendone l'accoglimento. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I motivi dei due ricorsi vanno esaminati in maniera congiunta, laddove ciò sia necessario per esigenze espositive e di sintesi, trattando argomenti comuni. Non può in primo luogo trovare accoglimento la critica della valutazione di attendibilità della persona offesa formulata dal primo giudice e ribadita dalla Corte d'appello, alla luce dell'ampio ed analitico scrutinio di tale aspetto operato dal giudice in secondo grado. La sentenza, esaminando ogni singolo aspetto della narrazione dell'episodio da parte della donna in base alle censure dell'appello, ha fornito spiegazioni che non hanno alcunché di illogico, men che meno di manifestamente illogico. Tale operazione ermeneutica è stata condotta dalla Corte d'appello da pg. 9 a pg.13 in maniera puntuale, con la confutazione di ogni singolo aspetto contestato dalle difese. Immuni da ogni aspetto di illogicità sono poi i passaggi motivazionali ove si dà contezza di quanto repertato sul corpo della donna. Ci si riferisce tanto alla presenza di tracce di violenza quanto alla assenza di tracce di DNA degli imputati ed alla presenza di tracce biologiche di altro individuo. Ebbene, precisato preliminarmente che tracce di DNA di Is.Ma. sul seno della donna sono state effettivamente rinvenute (cfr.pg.13 della sentenza d'appello), ciò che già di per sé smentisce l'assunto di assenza di contatto corporale dei due uomini con la donna dopo il denudamento, appare del tutto corretto affermare, come si legge in sentenza, l'irrilevanza della presenza di tracce biologiche anche di un altro uomo. Infatti, oggetto dell'analisi verificazionista condotta dal giudice era quanto avvenuto in un ben preciso momento storico all'interno dell'appartamento e non eventuali rapporti o contatti avvenuti tra la donna ed altri uomini in precedenza. E poiché nell'arco temporale oggetto di analisi, come si argomenta in motivazione, le telecamere di sicurezza che riprendono l'ingresso della abitazione della persona offesa avevano ripreso solamente l'accesso da parte dei due imputati, se ne deduce logicamente che la presenza di quelle tracce aliene non può che essere ricondotta ad un momento differente ed anteriore della vita della donna, irrilevante ai fini delle indagini. Ancora in tema di mancato rinvenimento del DNA degli imputati nelle zone intime della donna, occorre sottolineare (avallando il rilievo in tal senso della Corte d'appello) che la invasività dell'aggressione nella zona genitale o comunque erogena della donna è dimostrata dalle tracce di violenza quanto meno esterne (abrasioni sulle cosce e livido sulla natica) se non anche interne (la 'discolorazione' bluastra all'introito vaginale, per quanto non decisiva). 3. Da quanto precede risulta la correttezza delle conclusioni cui è arrivata la Corte territoriale in tema di violenza sessuale, non offuscata, né diminuita dall'uso di un'espressione che, in quanto oggetto di critica nel primo motivo del ricorso di Is.Ma., merita di essere considerata attentamente. Ci si riferisce al passaggio motivazionale ove si afferma che la donna "con ogni probabilità (fu) sottoposta a rapporti sessuali". Si sostiene che tale locuzione esprima un quid di incertezza già di per sé inconciliabile con la regola dell'oltre il ragionevole dubbio. In realtà, senza la necessità di approfondire oltre misura un tema che attiene pialla semantica che alla statistica o allo standard dell'art.533 comma 1 c.p.p., il riferimento ad 'ogni' probabilità esclude di per sé l'ipotesi che vi possa essere una possibilità alternativa (in questo caso, che la condotta delittuosa non avesse avuto luogo) e si risolve solamente nella attestazione del convincimento (pur meramente deduttivo ed indiziario) dell'effettivo verificarsi del fatto; d'altro canto, come evidenzia la Corte d'appello (pg.9), anche il solo aver denudato la persona offesa esponendone le parti intime costituirebbe atto sessuale penalmente rilevante. 4. In relazione alla sottrazione del telefono della persona offesa, il terzo motivo del ricorso Be.As. è meramente ripetitivo, e quindi generico, poiché non si confronta effettivamente con lemotivazioni della sentenza di appello a pg. 14, ove si evidenzia come nessun dubbio vi possa essere in concreto sulla avvenuta sottrazione, riferita dalla persona offesa tanto nel corso delle indagini che ad una amica, quando non sapeva di essere intercettata. La circostanza che lo stesso Is.Ma. avesse assicurato la vittima che avrebbe provveduto al recupero del cellulare (in realtà mai avvenuto) conferma ulteriormente l'avvenuta sottrazione del telefono. 5. In relazione al concorso dell'Is.Ma., la motivazione della Corte regge alle critiche formulate nel secondo motivo di ricorso: alla luce dello svolgersi dei fatti, come ricostruiti nella motivazione, non può infatti negarsi che la condotta dell'Is.Ma. sia andata oltre la mera connivenza non punibile, superando la soglia del concorso. Sul tema, la giurisprudenza è tradizionalmente assestata su una posizione molto chiara: in tema di concorso di persone, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto va individuata nel fatto che la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, mentre il secondo richiede un contributo partecipativo positivo - morale o materiale - all'altrui condotta criminosa, che si realizza anche solo assicurando all'altro concorrente lo stimolo all'azione criminosa o un maggiore senso di sicurezza, rendendo in tal modo palese una chiara adesione alla condotta delittuosa. Ad esempio, nella sentenza Sez. 5, n. 2805 del 22/03/2013 Grosu Rv. 258953 - 01, la Corte ha ritenuto configurabile il concorso nei reati di sequestro di persona e violenza privata nei confronti dell'imputato che aveva assistito ai fatti materialmente commessi da altri due correi, senza intervenire in soccorso delle vittime, e dato 'stimolo' all'azione criminosa, avendo fornito l'occasione per far incontrare ai due correi le persone offese. Analogamente, nel presente caso, la compresenza in uno spazio ristretto dei tre soggetti coinvolti - i due imputati e la persona offesa - ha certamente contribuito a consolidare in Be.As. il senso di impunità e di poter progredire nel reato dalle iniziali lesioni alla violenza sessuale, alla sottrazione del cellulare, tanto piche proprio come nel citato esempio giurisprudenziale l'Is.Ma. era stato colui che aveva favorito 'l'occasione'. Si legge infatti nella motivazione che la donna aveva acconsentito a farsi accompagnare a casa dai due uomini proprio perché confortata dalla conoscenza che l'Is.Ma. aveva dei suoi (di lei) familiari in Marocco. Su questa base fiduciaria si fonda lo sviluppo della serata e proprio il 'tradimento' di tale fiducia da parte dell'Is.Ma. (che la lascia percuotere e violentare invece di intervenire in soccorso della vittima - come il minimo dovere morale avrebbe imposto in presenza di un soggetto debole, per di più figlia di conoscenti) ha dato 'mano libera' al Be.As. 6. Il terzo motivo del ricorso E3elhat (sulla qualificazione della sottrazione del cellulare da rapina in furto aggravato) è un novum inserito nel ricorso per cassazione ma non presente nell'appello. Esso, pertanto ha 'saltato' un grado contravvenendo al principio devolutivo. Trova applicazione allora la regola ricavabile dal combinato disposto degli artt. 606, comma terzo, e 609, comma secondo, cod. proc. pen. - secondo cui non possono essere dedotte in cassazione questioni non prospettate nei motivi di appello, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o di questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d'appello. Essa trova la ratio nella necessità di evitare che possa sempre essere rilevato un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado con riguardo ad un punto del ricorso non investito dal controllo della Corte di appello, perché non segnalato con i motivi di gravame (Sez. 4, n. 10611 del 04/12/2012, Bonaffini, Rv. 256631). Peraltro, l'argomento non considera che la sottrazione del telefonino è avvenuto in un contesto di violenza estrema e protratta ai danni della donna, ciò che esclude a priori l'ipotesi dell'invocata riqualificazione del fatto in furto con strappo. 7. Quanto alle attenuanti generiche, premesso che il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269), va sottolineata la genericità del quarto ed ultimo motivo del ricorso Be.As. che si concentra su un solo aspetto (quello relativo alla resipiscenza ed alla condotta processuale dell'imputato) della motivazione senza tentar di confutare la valutazione centrale del rigetto, costituita dall'estrema gravità della condotta. 8. All'inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di Euro tremila, così equitativamente fissata. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso in Roma, 2 novembre 2024. Depositata in Cancelleria il 7 marzo 2024. Si dispone, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che sia apposta, a cura della cancelleria, sull'originale del provvedimento, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati in sentenza.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. DI NICOLA Vito - Presidente Dott. MASI Paola - Relatore Dott. FIORDALISI Domenico - Consigliere Dott. CASA Filippo - Consigliere Dott. ALIFFI Francesco - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Di.Pa. nato a M il (Omissis) avverso l'ordinanza del 06/06/2023 del TRIB. SORVEGLIANZA di ROMA udita la relazione svolta dal Consigliere PAOLA MASI; lette le conclusioni del Procuratore generale, nella persona del sostituto Giulio Romano, che ha chiesto, con requisitoria scritta, l'annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio per nuovo giudizio. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza emessa in data 06 giugno 2023 il Tribunale di sorveglianza di Roma ha respinto la richiesta di concessione della liberazione condizionale avanzata da Di.Pa., condannato a trenta anni di reclusione, in detenzione domiciliare dal 2016. Il Tribunale, pur riconoscendo la sussistenza dei presupposti per l'accesso al beneficio, avendo la DNA affermato l'utilità dell'ampia collaborazione prestata ed avendo la relazione comportamentale relativa al periodo trascorso in carcere sottolineato il buon comportamento intramurario, ha respinto la richiesta per l'assenza del presupposto del "sicuro ravvedimento" richiesto dall'art. 176 cod.pen. Mancano, infatti, comportamenti concreti da cui desumere che il condannato abbia compiuto una rivisitazione critica del proprio passato, non essendo sufficiente, a tal fine, il rispetto delle norme penali e penitenziarie e degli obblighi connessi allo status di collaborante. Manca, poi, qualunque interessamento verso le vittime dei reati, non avendo l'istante neppure accennato ad un tentativo di eliminare o attenuare le loro conseguenze dannose, o dimostrato l'impossibilità di provvedervi. La buona condotta serbata sino ad oggi è il presupposto per la concessione e il mantenimento della misura alternativa alla detenzione in carcere applicala sin dal 2016, ma non è sufficiente per soddisfare il requisito del ravvedimento. 2. Avverso l'ordinanza ha proposto ricorso Di.Pa., per mezzo del suo difensore avv. Sa. Fo., articolando due motivi. 2.1. Con il primo motivo denuncia la violazione di legge e il vizio di motivazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod.proc.pen., in relazione agli artt. 176 cod.pen. e 16-novies legge n. 82/1991. Il Tribunale ha respinto la sua richiesta di concessione della liberazione condizionale violando lo spirito della legge, in quanto, pur riconoscendo gli enormi progressi compiuti, in un lungo arco temporale, ha ritenuto rilevanti il mancato risarcimento del danno, che secondo lo stesso Tribunale non è un requisito previsto dalla legge, e la gravità dei reati commessi. Tale motivazione è in contrasto con le pronunce della giurisprudenza di legittimità, ed è illogica e irragionevole laddove, in presenza dei molti indici positivi, riconosciuti nell'ordinanza stessa, desume l'assenza di ravvedimento dal mancato risarcimento o riparazione del danno. La motivazione è illogica anche perché contrasta, senza giustificazione, con il parere favorevole espresso dalla DNA per avere il ricorrente fornito una collaborazione ampia e molto utile, e per avere rescisso ogni collegamento con qualunque attività criminale del territorio. Inoltre essa non valorizza, anche in chiave di riparazione simbolica, il servizio di volontariato svolto dal ricorrente nella locale parrocchia, e si contraddice perché, dopo avere affermato la necessità di una valutazione globale, fonda il diniego esclusivamente sul mancato risarcimento del danno. 2.2. Con il secondo motivo di ricorso denuncia il medesimo vizio di violazione di legge e difetto di motivazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod.proc.pen., per avere l'ordinanza ritenuto non provato un effettivo ravvedimento solo a seguito della mancanza di condotte risarcitone in favore delle vittime, così di fatto valutando tali condotte come una conditio sine qua non, mentre la normativa speciale, di cui si chiede l'applicazione, non prevede tale requisito. Il Tribunale avrebbe dovuto, invece, valorizzare l'intero percorso di vita del ricorrente, dimostrativo di un alto grado di resipiscenza e di un eccellente percorso di rieducazione stante il lungo periodo di osservazione positivo, pari a quindici anni, e quello di proficua collaborazione, protrattosi per dodici anni. Il Tribunale ha anche trascurato di applicare la giurisprudenza di legittimità, che ha più volte affermato come, in presenza di indici positivi che dimostrino quanto meno l'avvio di un percorso di ravvedimento, non può negarsene la sussistenza solo per la mancanza di iniziative risarcitone. 3. Il Procuratore generale Giulio Romano ha chiesto, con requisitoria scritta, l'annullamento del provvedimento, con rinvio per un nuovo giudizio. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato, e deve essere accolto. 2. La normativa introdotta dal d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, conv. nella legge n. 82/1991, all'art. 16-novies ha stabilito i requisiti per la concessione al condannato per i gravi delitti indicati, che abbia collaborato con la giustizia, la liberazione condizionale, i permessi premio e la detenzione domiciliare ai sensi dell'art. 47-ter Ord.pen. Al comma 4 ha, infatti, stabilito che il tribunale o il magistrato di sorveglianza, acquisiti la proposta e i pareri prescritti, concede i benefìci richiesti se ritiene sussistenti i presupposti stabiliti al comma 1 della medesima norma, "avuto riguardo all'importanza della collaborazione e sempre che sussista il ravvedimento". La sussistenza di un effettivo e completo ravvedimento del condannato, pertanto, costituisce un requisito necessario per la concessione della liberazione condizionale, ravvedimento che deve, quindi, essere valutato dal tribunale di sorveglianza, applicando i canoni valutativi individuati dalla giurisprudenza di legittimità. Tra questi, devono essere ribaditi i principi stabiliti dalla sentenza Sez. 1, n. 17831 del 20/04/2021, Rv. 281360, secondo cui "Ai fini della concessione della liberazione condizionale chiesta da un collaboratore di giustizia, ai sensi dell'art, art. 16-nonies, d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 il giudice, nel valutare il sicuro ravvedimento dell'istante, deve tener conto di indici sintomatici del "sicuro ravvedimento", quali l'ampiezza dell'arco temporale nel quale si è manifestato il rapporto collaborativo, i rapporti con i familiari e il personale giudiziario, lo svolgimento di attività lavorativa, di studio o sociali, successive alla collaborazione, non potendo assumere rilievo determinante la sola assenza di iniziative risarcitone nei confronti delle vittime dei reati commessi". Deve, infatti, sottolinearsi che l'art. 16-novies del d.l. n. 8/1991 ha stabilito che i benefici citati al comma 1 possono essere concessi al collaboratore "anche in deroga alle vigenti disposizioni, ivi comprese quelle relative ai limiti di pena di cui all'art. 176 del codice penale". Questa espressione, secondo la sentenza Sez. 1, n. 42357 del 11/09/2019, Rv. 277141 si riferisce "non solo ai limiti di pena, espressamente richiamati, ma anche alla generale previsione di cui all'art. 176, comma quarto, cod. pen.", con la conseguenza che alla concessione di un beneficio al collaboratore di giustizia non osta, di per sé, il mancato adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, in quanto la decisione del giudice non può essere subordinata a tale adempimento. Nella valutazione della concedibilità della liberazione condizionale ad un collaboratore di giustizia, pertanto, il mancato adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato può essere preso in esame quale possibile dimostrazione di un ravvedimento non ancora sicuro e completo, ma non può essere ritenuto di per sé ostativo, diversamente da quanto è previsto per il beneficio da concedere ad un condannato non collaborante, secondo l'esplicito contenuto dell'art. 176, comma 4, cod.pen. 3. Il Tribunale di sorveglianza non si è attenuto ai principi sopra indicati in quanto, pur dichiarando "soddisfatti i presupposti per l'accesso al beneficio", ha ritenuto insussistente il requisito del ravvedimento "previsto dal comma 4 dell'art. 16-nonies citato in disposto con l'art. 176, ultimo comma, c.p.". Il successivo, approfondito esame del significato del requisito previsto dall'art. 176, ultimo comma, cod.pen., e l'esplicita affermazione di una non concedibilità del beneficio richiesto perché, nonostante l'acclarata serietà del percorso collaborativo e la certa rescissione dei legami con il proprio passato criminale, il ricorrente non ha messo in atto iniziative per attenuare o riparare i danni materiali e morali delle proprie condotte, rendono evidente che il Tribunale ha fondato tale valutazione negativa esclusivamente sul mancato adempimento delle obbligazioni civili conseguenti ai reati commessi. Tale mancato adempimento, di fatto, è stato ritenuto di per sé ostativo, in applicazione del disposto dell'art. 176, ultimo comma, cod.pen. Infatti l'ordinanza, pur concludendo che esso impedisce di ritenere dimostrata "la completa maturazione del processo di ravvedimento del reo", non ha motivato perché tale condotta imponga un giudizio così severo, a fronte di una pluralità di comportamenti che l'ordinanza stessa ha evidenziato quali elementi probanti di un "sicuro ravvedimento". Il Tribunale ha riportato i pareri positivi trasmessi dall'organo di polizia referente del luogo di dimora del condannato, della divisione di polizia anticrimine di Salerno, della DNA, della relazione di sintesi quanto alla condotta intramuraria, ha riferito dell'attività di volontariato e di formazione professionale da questi svolta, ed ha ritenuto "evidente che il Di.Pa. ha maturato una volontà di recupero concretizzatasi nel positivo percorso di gradualità del benefìcio e nel rispetto delle regole". A fronte di tale valutazione, appare illogico il successivo passaggio dell'ordinanza, nel quale si afferma che "la conformazione dello stile di vita ai dettami della vita associata non può, di per sé sola, esaurire il requisito del ravvedimento anche in relazione al passato criminale dell'ex-collaboratore", potendo tale conformazione, al contrario, dimostrare un avvenuto ravvedimento, con abbandono definitivo delle logiche criminali. La nozione di "ravvedimento", rilevante ai fini della concessione della liberazione condizione, deve comprendere il complesso dei comportamenti tenuti dal condannato durante l'esecuzione della pena, che devono risultare idonei a dimostrare la convinta revisione critica della condotta pregressa e devono consentire un giudizio prognostico certo sulla volontà di conformare la propria condotta di vita futura all'osservanza della legge penale. In questa ottica, peraltro seguita nella prima parte dell'ordinanza impugnata, la rilevanza determinante attribuita all'assenza di iniziative risarcitone per escludere la certezza del "sicuro ravvedimento" del ricorrente appare illogica e ingiustificata, nonché in contrasto con il principio sopra richiamato, circa la concedibilità al collaboratore di giustizia della liberazione condizionale anche in deroga al requisito richiesto dall'art.176, comma 4, cod. pen. (cfr. Sez. 1, n. 25605 del 02/12/2022, dep. 2023, n.m.; Sez. 1, n. 9482 del 02/02/2022, n.m.). L'ordinanza impugnata, quindi, non ha operato una valutazione complessiva del percorso rieducativo compiuto dal ricorrente, attribuendo di fatto una valenza ostativa ad uno degli elementi su cui è possibile fondare l'accertamento circa la sussistenza del sicuro ravvedimento, senza indicare le ragioni per cui tale elemento, cioè l'omesso adempimento delle obbligazioni civili nascenti dai reati commessi, sia idoneo a porre dei dubbi sulla serietà e definitività del suo abbandono di qualunque logica criminale, e della sua conformazione ad uno stile di vita rispettoso della legge. 4. Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve, pertanto, essere accolto. L'ordinanza impugnata deve perciò essere annullata, con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Roma per un nuovo giudizio, da svolgersi con piena libertà valutativa, ma nel rispetto dei principi sopra puntualizzati. P.Q.M. Annulla la ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Roma. Così deciso il 17 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2024.

  • TRIBUNALE DI NAPOLI I Sezione Civile Il Tribunale di Napoli I sezione civile nelle persone dei Magistrati: DR. Raffaele Sdino - Presidente DR.SSA Valeria Rosetti - Giudice DR.SSA Viviana Criscuolo - Giudice estensore riunito in Camera di Consiglio ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. .../2023 Ruolo Generale degli affari contenziosi riservata in decisione all'udienza del 16/1/2024 avente ad oggetto: disconoscimento di paternità e vertente TRA Avv. A.S. (C.F. (...)), nella qualità di curatore speciale della minore P.V., in virtù di ordinanza di nomina del Tribunale di Napoli del 23 giugno 2023 su richiesta del P.M. Affari Civili domicilio eletto presso lo studio legale indirizzo telematico parte attrice E sig. C.V., nato a N. il (...) ed ivi residente alla Via P.B. di P., 627, C.F. (...) Parte convenuta R.A., nata a N. il (...) ed ivi residente alla Via A.C. di L., 35, p. 3, Int. 5, Is. 5, C.F. (...),; Parte convenuta CON L'INTERVENTO DEL P.M. Svolgimento del processo - Motivi della decisione Con ricorso ritualmente notificato in uno al decreto di fissazione dell'udienza il curatore speciale della minore P.V., nata a N., il (...), Avv. A.S. (nominata dal Tribunale di Napoli nell'ambito del giudizio promosso dal V. per l'affidamento esclusivo della minore su domanda del PM affinché intraprendesse l'azione di disconoscimento giudiziale della paternità) esponeva che: - Il sig. C.V. - unito civilmente con il sig. M.D.P. - con ricorso del 19/04/2022 adiva il Tribunale di Napoli, al fine di ottenere l'affidamento esclusivo della minore V.P. nata da una sua presunta relazione affettiva, intrattenuta con la sig.ra R.A. madre biologica della minore, a sua volta sposata e con figli nati dall'unione matrimoniale con altra persona, con previsione della contribuzione al mantenimento ed alle spese straordinarie da parte della madre; - Il Tribunale di Napoli, nell'ambito della predetta procedura con ordinanza del 02.12.2022. nominava la ricorrente Curatore Speciale della minore, stante la pregiudizievole condotta assunta dalla madre biologica la quale dichiarava al SS di non volersi occupare concretamente della figlia. - All'udienza del 03.03.2023 si costituiva nel giudizio suindicato il curatore speciale della minore odierno ricorrente e, in considerazione anche della segnalazione anonima pervenuta al CC di Ponticelli nell'Agosto del 2022, instava affinché il sig. V. si sottoponesse, unitamente alla minore, al test del DNA presso una struttura pubblica, onde verificarne la paternità biologica. Il sig. V. acconsentiva, sicché in data 31.05.2023, presso il Laboratorio di Genetica Medica dell'Università "L. Vanvitelli" di Napoli, l'allora ricorrente e la minore - in presenza del curatore e dell'avvocato di controparte - si sottoponevano al test del DNA da cui emergeva inconfutabilmente ed incontrovertibilmente: " l'esclusione della paternità biologica di V.C. nei confronti di V.P. con una probabilità del 100 %. Si sottolinea che tre marcatori autosomici differenti tra figlio e presunto padre sono già sufficienti per l'esclusione di paternità". - Il sig. V. in data 23.06.2023, conseguentemente, espressamente rinunciava all'azione, quindi alla procedura e, di conseguenza, il Tribunale adito, dichiarava l'estinzione della procedura e come richiesto dal P.M. Affari Civili parimenti conferiva ".. al curatore speciale la legittimazione alla proposizione nell'interesse della minore V.P. nella domanda di impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità" disponendo altresì, la trasmissione "degli atti al PM presso il Tribunale per i minorenni perché valuti la condotta di A.R. di abbandono della minore ai fini della proposizione della domanda de potestate .." e la trasmissione "... al PM presso il Tribunale di Napoli, ufficio notizie di reato copia degli atti per le valutazioni di competenza in ordine alla notizia criminis come evidenziata dal PM in udienza. - Presso il Tribunale per i Minorenni di Napoli, era instaurata autonoma procedura ADS N. 63/2023 incardinata su ricorso del PPM in cui veniva disposto nel luglio 2023 l'immediato allontanamento della minore dall'abitazione del sig. V. per essere collocata presso una struttura di accoglienza dal SS territorialmente competente. Il TpM contestualmente sospendeva sia la madre biologica sig.ra R.A. che il sig. C.V. dall'esercizio della responsabilità genitoriale sulla minore. Tanto premesso - sulla base delle inconfutabili risultanze del test del DNA che avevano escluso la paternità biologica del sig. C.V. nei confronti della minore P.V. - il curatore speciale, impugnava il riconoscimento di paternità per difetto di veridicità ex art. 263 c.c. e per l'effetto instava affinché il Tribunale dichiarasse che il sig. C.V., nato a N. il (...) - C.F. (...) - non era il padre biologico della minore P.V. nata a N., il (...) e conseguentemente ordinasse all'Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Napoli di eseguire le relative annotazioni sull'atto di nascita come per legge, con attribuzione alla minore del solo cognome materno "A." sostituendolo con l'attuale cognome "V.", assumendo altresì nel preminente ed esclusivo interesse della minore, tutti i provvedimenti. Alla prima udienza, verificata la regolarità della notifica, si presentavano le parti convenute senza essersi previamente costituite con un difensore; il Giudice relatore pertanto le invitava a dotarsi di un difensore in considerazione della obbligatorietà della difesa tecnica. Il ricorrente chiedeva breve termine per il deposito telematico del verbale dell'udienza tenutasi innanzi al TpM il 7.12.23, in cui il V.C. era stato estromesso dal giudizio avente ad oggi la richiesta del Pmm di decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre R.A. nei confronti della minore P.V., in quanto, a seguito dell'esame del DNA era stato rilevato non essere il padre biologico della minore. L'avv. S. chiedeva inoltre riservarsi la causa in decisione ed il Giudice relatore, ritenuta la causa matura per la decisione senza l'assunzione di mezzi istruttori, fatte precisare le conclusioni riservava la causa in decisione ai sensi dell'art. 473 bis 22 co 4 c.p.c. Preliminarmente va dichiarata la contumacia delle parti convenute non costituitesi nonostante la regolare notifica. Venendo al merito il Collegio osserva che la domanda è fondata. La ricorrente ha depositato la documentazione relativa al test del DNA che ha scientificamente accertato che il V.C. non è il padre biologico della minore V.P.; a tale accertamento, realizzato in ambito di diverso giudizio, va attribuito, in assenza di prove contrarie, un valore probatorio sufficiente a fondare l'accoglimento della impugnazione del riconoscimento. È stato infatti affermato che "nel vigente ordinamento processuale, mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico - riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato - con le altre risultanze del processo (cfr. Cass. n.9507/2023 e Cass. n.25162/2020). Ed invero, quanto alle prove raccolte in altro procedimento che entrano in un giudizio diverso sotto forma di produzioni documentale, va preliminarmente evidenziato come nell'ordinamento processuale vigente manchi una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove c.d. atipiche" (tra le tante, Cass. n.1593/2017). A tal proposito è stato altresì affermato che la non riconducibilità delle prove atipiche ad una categoria di quelle disciplinate dal codice, non può che far attribuire alle stesse un valore probatorio minore; l'efficacia, pertanto, è quella di presunzione semplice, ex art. 2729 c.c. ovvero di argomento di prova, ex art. 116 c.p.c., (Trib. Reggio Emilia, Sez. II, 1622/14). Orbene, il documento avente ad oggetto l'esito del test sul DNA, sebbene raccolto in un processo differente, è assistito dal punto di vista scientifico di una valenza così pregnante in ordine al suo risultato che, in assenza di contestazioni sulla metodologia adoperata sulla sua assunzione, può costituire la prova necessaria e sufficiente per condurre all'accoglimento della domanda di disconoscimento della paternità. Alla luce delle risultanze istruttorie e dell'accertamento peritale, condotto con rigore scientifico, deve, pertanto, ritenersi raggiunta la prova che P.V., nata a N., il (...) non è figlia di C.V., nato a N. il (...). Il Collegio, una volta accertata la verità biologica, è chiamato a valutare l'interesse del minore che non comporta necessariamente la prevalenza del "favor veritatis" sul "favor minoris", ma impone un bilanciamento fra il diritto all'identità personale legato all'affermazione della verità biologica - anche in considerazione delle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dell'elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini - e l'interesse alla certezza degli "status" ed alla stabilità dei rapporti familiari, nell'ambito di una sempre maggiore considerazione del diritto all'identità personale, non necessariamente correlato alla verità biologica ma ai legami affettivi e personali sviluppatisi all'interno di una famiglia, specie quando trattasi di un minore infraquattordicenne. Tale bilanciamento non può costituire il risultato di una valutazione astratta, occorrendo, invece, un accertamento in concreto dell'interesse superiore del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all'esigenza di un suo sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale. Cassazione civile sez. I, 06/10/2021, n.27140 (in questo senso anche Cass 24720/21); interesse del minore , da intendersi con riferimento alla tutela della sua identità personale e all'esistenza o meno di significativi ed attuali rapporti interpersonali tra le parti, e non invece alla stregua di considerazioni meramente economiche (Cassazione civile sez. I, 06/03/2019, n.6517). Ciò posto il Collegio, nel caso di specie, osserva che in ragione della tenera età della minore non può affermarsi che lo status filiationis goduto fosse ormai parte della sua identità personale; a ciò deve aggiungersi che l'accoglimento della domanda risponde all'interesse della minore in ossequio non solo al principio di verità biologica della filiazione (che comunque si ribadisce non costituisce un /valore di rilevanza costituzionale assoluto da affermarsi sempre e comunque) ma soprattutto in considerazione della condotta del V. nell'ambito del procedimento per la regolamentazione della paternità - dove è appunto emerso che egli non era il padre biologico della minore - che ha determinato il Tribunale alla trasmissione degli atti alla Procura per quanto di competenza in ordine alla notitia criminis dell'alterazione di stato di cui la minore è stata vittima. Inoltre in ordine al cognome si osserva che - pur essendo il diritto al nome uno dei diritti fondamentali dell'individuo tutelato dalla Costituzione e pur essendo cresciuta la minore fino alla presente pronuncia con il cognome del V. - al di là della non corrispondenza del cognome alla filiazione accertata in questa sede, di regola si ritiene lo stesso autonomo segno distintivo della identità personale del soggetto nel contesto sociale; nel caso di specie però non pare potersi dubitare, in ragione dell'età della minore, che non sussista, allo stato, alcun interesse della predetta a mantenere il cognome del V. che non è il padre biologico sussistendo invece l'interesse a vedersi sostituire il cognome paterno con quello materno. Proprio alla luce dei principi di dritto sopra richiamati e delle circostanze di fatto sopra evidenziate appare, pertanto, conforme all'interesse del minore non solo l'accoglimento della domanda, ma anche la sostituzione del cognome con attribuzione allo stesso del cognome materno in luogo di quello paterno, concorrendo anche tale elemento da un punto di vista formale all'acquisizione di una corretta identità biologica. Ne discende l'ordine all'Ufficiale dello Stato Civile competente di annotare la presente sentenza, al suo passaggio in giudicato. Le spese processuali della parte attrice (curatore del minore) vanno poste solidalmente a carico delle parti convenute C.V. e R.A. e vengono liquidate come in dispositivo in favore dello Stato stante il deposito da parte del curatore/attore dell'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello stato (conformemente all'interpretazione della Suprema Corte dell'art. 109 D.P.R. n. 115 del 2002 cfr. Cass. sent. n. 20710/2017 e n. 4695/2020) secondo i parametri del D.M. n. 147 del 2022 considerata fase di studio, fase introduttiva e decisionale ridotte del 30% ex art. 4, comma 1, D.M. n. 55 del 2014 calcolate sulla base dei valori medi relativi allo scaglione di riferimento-valore indeterminabile (da Euro 26.001 a Euro 52.000) con la riduzione di cui all'art. 130 D.P.R. n. 115 del 2002 per il Patrocinio a Spese dello Stato; P.Q.M. Il Tribunale di Napoli, I sez. civ., definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, così provvede: - Accoglie la domanda e, per l'effetto, dichiara che la minore P.V., nata a N., il (...) non è figlia di C.V., nato a N. il (...). - ordina all' Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Napoli di annotare la sentenza, al passaggio in giudicato, nel registro degli atti di nascita del minore; - dispone che la minore P.V., nata a N., il (...) assuma il cognome materno in luogo di quello paterno, chiamandosi conseguentemente A.P., - dispone che la presente sentenza, a cura della Cancelleria, sia trasmessa in copia autentica all'Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Napoli; - condanna C.V. e R.A. in solido al pagamento delle spese processuali sostenute dal curatore/attore e per essa allo Stato stante la provvisoria ammissione al patrocinio a spese dello Stato che liquida in complessivi Euro 2.033,50 oltre spese ed accessori come per legge. Così deciso in Napoli nella Camera di Consiglio del 16 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. DE MARZO Giuseppe -Presidente Dott. SCORDAMAGLIA Irene - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Relatore Dott. BIFULCO Daniela - Consigliere Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Bo.Ma. nato a C il (Omissis) avverso la sentenza del 19/05/2023 della CORTE DI CASSAZIONE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere PIERANGELO CIRILLO; udite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale FRANCESCA CERONI, che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso. udite le conclusioni dell'avv. Ca.Pa. e dell'avv. Sa.Cl., per il ricorrente, che hanno chiesto dì accogliere il ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Bo.Ma., tramite i difensori di fiducia, propone ricorso straordinario, ai sensi dell'art. 625-bis cod. proc. pen., in relazione alla sentenza del 19 maggio 2023, con la quale la Prima sezione di questa Corte ha annullato con rinvio l'ordinanza emessa il 21 novembre 2022 dalla Corte di assise di Bergamo, che era stata impugnata sempre dall'odierno ricorrente. 2. Il Bo.Ma. era stato irrevocabilmente condannato alla pena principale dell'ergastolo per il delitto di omicidio e aveva presentato, in data 26 novembre 2019, alla Corte di assise di Bergamo, istanza volta a esaminare i reperti in sequestro (indumenti e relativi campioni di DNA) e i DVD contenenti i rilievi effettuati dal RIS dei Carabinieri. L'istanza era funzionale al promovimento dell'eventuale giudizio di revisione. 3. Il Presidente della Corte di assise aveva accolto l'istanza, con provvedimento adottato senza formalità di procedura in data 27 novembre 2019. Con successivo provvedimento del 2 dicembre 2019, adottato secondo le medesime modalità, il Presidente aveva specificato che l'autorizzazione rilasciata doveva intendersi limitata alla "mera ricognizione dei corpi di reato (...), rimanendo esclusa qualsiasi operazione di prelievo o analisi degli stessi". 4. Con successive istanze, datate 30 aprile 2020 e 10 giugno 2020, la difesa aveva chiesto alla Corte di assise di dettare disposizioni sui tempi e sulle modalità di accesso ai corpi di reato e sulla consegna dei DVD. Con due distinti provvedimenti, il Presidente della Corte di assise aveva dichiarato l'inammissibilità delle istanze, osservando che la Corte di assise aveva definitivamente disposto la confisca di quanto in sequestro. Con tale provvedimento, la Corte di assise, quale giudice dell'esecuzione, aveva esaurito ogni potere in ordine alle cose che erano state sottoposte a sequestro. 5.I due provvedimenti presidenziali erano stati annullati con sentenza n. 2603 del 2021. La Prima sezione di questa Corte aveva affermato che: era errata l'affermazione secondo cui il giudice dell'esecuzione non aveva più alcuna competenza sulle cose confiscate, "dovendosi, al contrario, ritenere il riferimento alla confisca contenuto nell'art. 676 cod. proc. pen. come ampio, non limitato alla decisione in ordine all'adozione del provvedimento, ma esteso anche a tutte le questioni relative alla destinazione delle cose confiscate"; il giudice dell'esecuzione aveva il dovere di statuire in merito a ogni questione coinvolgente i beni sequestrati o confiscati, e quindi anche in merito alle investigazioni difensive aventi corrispondente oggetto. 6. A seguito del disposto annullamento, la Corte di assise di Bergamo aveva adottato, in data 1 giugno 2021, l'ordinanza con cui: a) rigettava l'istanza diretta all'adozione di provvedimenti finalizzati a ottenere l'accesso della difesa ai corpi di reato e la loro ricognizione; b) dichiarava inammissibile l'istanza diretta a ottenere la consegna dei DVD. 7. Avverso l'ordinanza della Corte di assise, il Bo.Ma. presentava ricorso per cassazione, formulando otto motivi di censura. La prima sezione di questa Corte, con sentenza n. 35349 del 2022, aveva riqualificato il ricorso come opposizione ai sensi dell'art. 667, comma 4, cod. proc. pen. e aveva disposto la trasmissione degli atti alla Corte di assise di Bergamo per il prosieguo. 8. Con ordinanza emessa il 21 novembre 2022, la Corte di assise dì Bergamo aveva disatteso le censure difensive e aveva confermato il provvedimento opposto. A confutazione dei primi due motivi di opposizione, il giudice dell'esecuzione aveva ribadito che l'autorizzazione presidenziale del 27 novembre 2019 non poteva considerarsi più attuale, perché medio tempore i reperti erano stati confiscati. La confisca avrebbe segnato una radicale trasformazione del regime giuridico dei beni in questione, a fronte della quale la possibilità di svolgimento su di essi di attività difensive di vario tipo avrebbe dovuto essere ex novo rivalutata. A confutazione dei motivi terzo, quarto e quinto, il giudice dell'esecuzione aveva ribadito il convincimento secondo cui le istanze difensive di accesso ai reperti non potevano essere accolte, non contenendo esse l'indicazione specifica delle ragioni che avrebbero reso necessari e decisivi i nuovi accertamenti. Le investigazioni difensive di tipo meramente esplorativo non sarebbero ammesse e non lo sarebbero neppure quelle tese a sovvertire accertamenti fattuali definitivi e consolidati per effetto del giudicato di condanna, formatosi, nella specie, all'esito di giudizio nel quale la prova scientifica era stata raccolta e valutata in assenza di qualsivoglia anomalia. Non sarebbero, inoltre, da allora, sopravvenuti metodi di analisi e sequenziamento del DNA realmente innovativi, che potessero suggerire la rivisitazione di quel giudicato. Quanto al sesto motivo, la Corte territoriale aveva rilevato che la sollecitata attività di verifica dell'integrità e completezza del compendio confiscato, rispetto al materiale probatorio già inciso da sequestro, doveva giudicarsi totalmente superflua, trattandosi di materiale già abbondantemente utilizzato e valutato nel giudizio di merito. Quanto al settimo motivo, aveva rilevato che non esistevano provette di DNA che fossero mai state occultate alla difesa e che nel corso del processo era stato già chiarito che il materiale genetico utilmente esaminabile era ormai esaurito, contenendo dette provette residui di campioni biologici già analizzati e inidonei a consentire nuove tipizzazioni. Quanto all'ottavo motivo, il giudice di merito rilevava che l'istanza volta all'acquisizione dei DVD era inammissibile, perché l'interessato, a seguito del diniego opposto dalla pubblica amministrazione detentrice dei supporti, avrebbe dovuto sollecitare il previo intervento del Pubblico ministero, a norma del combinato disposto degli artt. 367, 368 e art. 391 -quater, comma 3, cod. proc. pen. 9. Avverso la nuova ordinanza, il Bo.Ma. aveva proposto per cassazione sulla base di sette motivi. Con sentenza del 19 maggio 2023, la Prima sezione di questa Corte ha annullato l'ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di assise di Bergamo. In particolare, dopo avere preliminarmente ripercorso le prescrizioni della sentenza di annullamento e il contenuto dell'ordinanza impugnata, ha ritenuto fondati i primi due motivi di ricorso. Ha rilevato che, con la sentenza di annullamento n. 2603 del 2021, era stato demandato al giudice del rinvio di provvedere sulle istanze avanzate dalla difesa, che invocavano istruzioni sui tempi e sulle modalità di accesso ai corpi di reato, già autorizzato con provvedimento del 27 novembre 2019. Nell'adempiere a tale compito, la Corte di assise aveva "ritenuto la giuridica esistenza della pregressa autorizzazione, nonché la sua non più contestabile validità, benché essa risultasse priva di motivazione e fosse stata emessa da organo giudiziario in realtà incompetente (avendo provveduto il solo presidente, in luogo dell'organo collegiale nella sua piena composizione), sull'assunto che la decisione, non impugnata, avesse ormai assunto il crisma della definitività". La stessa Corte di assise, tuttavia, aveva ritenuto "l'autorizzazione già intervenuta non più attuale e quindi sostanzialmente inefficace, in ragione del fatto che le cose pertinenti al reato, per le quali era stata avanzata e assentita l'originaria istanza difensiva, fino ad allora sottoposte a sequestro, erano successivamente divenute oggetto di confisca, disposta con ordinanza del 15 gennaio 2020". Tale mutamento del regime giuridico dei beni "rappresenterebbe, secondo il giudice territoriale, l'elemento di novità idoneo al superamento della preclusione derivante dal giudicato esecutivo ormai formatosi, giacché l'intervenuto provvedimento ablatorio definitivo non si risolverebbe in una operazione di ri-etichettatura meramente nominalistica, ma segnerebbe un'immutazione essenziale della situazione giuridica preesistente, come tale dirompente rispetto alla statuizione autorizzatoria pregressa". Tale elemento di novità attribuirebbe al giudice dell'esecuzione il potere-dovere "di rivalutare i presupposti di quest'ultima e il conclusivo mancato riscontro di essi". Tanto premesso, la Prima sezione ha rilevato che, "mentre il primo caposaldo dell'ordinanza impugnata, inerente all'esistenza e alla validità dell'autorizzazione presidenziale", appariva del tutto corretto, l'assunto della sua sopravvenuta inefficacia non poteva essere condiviso. Ha evidenziato che la preclusione del cosiddetto giudicato esecutivo è inoperante, per pacifica giurisprudenza (Sez. 1, n. 7877 del 21/01/2015, Rv. 262596-01; Sez. 1, n. 29983 del 31/05/2013, Bellin, Rv. 256406-01; Sez. 1, n. 36005 del 14/06/2011, Branda, Rv. 250785-01), solo in presenza di elementi nuovi, di fatto o di diritto, sopravvenuti alla decisione, o in ogni caso diversi da quelli precedentemente considerati. Ciò posto, ha ritenuto che "il fisiologico dinamico passaggio dei reperti dallo stato di cosa sequestrata a quello di cosa confiscata non implicava un aliquid novi, incidente sul quadro fattuale e giuridico che era stato già sottoposto al giudice dell'esecuzione, allorché venne autorizzato lo svolgimento, in relazione agli stessi beni, di attività di investigazione difensiva finalizzate al promovimento dell'eventuale giudizio di revisione". L'autorizzazione già rilasciata accoglieva la prospettata necessità di visione dei reperti, al fine di apprezzare le condizioni di possibili nuovi accertamenti tecnici in vista di un'eventuale richiesta di revisione. Tale necessità, il cui rilevo era coperto dal giudicato, sussisteva immutata anche dopo la confisca, così come immutata rimaneva la competenza del giudice dell'esecuzione in ordine ad ogni questione comunque attinente alle cose sequestrate e in custodia sotto il controllo dell'Autorità giudiziaria, che si estendeva, secondo le direttive impartite dalla precedente sentenza di annullamento, anche alle cose confiscate. La Prima sezione - dopo avere affermato che l'autorizzazione al compimento dell'investigazione, già data in costanza di sequestro, non poteva essere ridiscussa - ha esaminato il contenuto di questa autorizzazione, constatando che esso era ben delimitato: "l'attività permessa era la mera ricognizione dei corpi di reato relativi al processo definito con sentenza irrevocabile, con la successiva precisazione che l'operazione avrebbe dovuto essere eseguita sotto la vigilanza della Polizia giudiziaria competente, escludendo qualsiasi operazione di prelievo o analisi dei reperti". Il provvedimento, non impugnato da alcuna delle parti interessate, aveva acquistato autorità di giudicato, vincolando così gli attori processuali al rispetto di quanto in esso disposto. Ha, pertanto, annullato l'ordinanza impugnata, rinviando al giudice dell'esecuzione per "le opportune disposizioni applicative dell'autorizzazione già in essere, valida, vigente e intangibile". Ha precisato, tuttavia, che: "tali disposizioni dovranno mantenersi all'interno del perimetro già determinato, dovendo essere, al momento, consentito il solo accesso e la sola osservazione dei reperti, previa adozione di ogni cautela atta a garantire l'integrità dei medesimi e con esclusione di ogni attività implicante interventi di altra natura, come anche di ogni attività, non importa se ripetibile o meno, che comporti il contatto fisico con gli oggetti"; "eventuali attività ulteriori, diverse da quelle destinate a soddisfare il semplice accesso e la mera osservazione dei corpi di reato, potranno essere, se del caso, assentite all'esito della ricognizione e sulla base del verbale che la documenterà, ove la difesa, dando impulso ad un procedimento esecutivo distinto da quello odierno, avanzi specifica e corrispondente richiesta"; "solo in tale eventuale ed ulteriore sede il giudice dell'esecuzione sarà chiamato a deliberare in proposito, dopo aver valutato, alla luce della consistenza dei reperti, la concreta possibilità di nuovi accertamenti tecnici, e dopo aver valutato la loro non manifesta inutilità, secondi canoni di concretezza, specificità e astratta vantaggiosità (dovendo invece rimanere estranea a quel giudizio ogni più pregnante valutazione in punto di ammissibilità della ipotetica richiesta di revisione)". Ha ritenuto assorbiti il terzo, il quarto e il quinto motivo di ricorso e ha ritenuto inammissibili i restanti motivi. 10. Avverso la sentenza della Prima sezione di questa Corte, il Bo.Ma. propone ricorso straordinario, ai sensi dell'art. 625-bis cod. proc. pen. 10.1. Il ricorrente, preliminarmente, deduce l'ammissibilità del ricorso straordinario avverso la sentenza impugnata. In primo luogo, sostiene che sarebbe paradossale riconoscere lo status di "condannato" - che, ai sensi dell'art. 625-bis cod. proc. pen., determina la legittimazione a proporre il ricorso straordinario - a chi venga raggiunto dalla pronuncia di legittimità che rende definitiva la condanna e non a chi tale condanna abbia già ricevuto e, proprio in tale veste, formuli l'incidente di esecuzione. Sotto altro profilo, evidenzia che la Corte costituzionale ha affermato che "negare il ricorso straordinario per errore di fatto equivale a violare il combinato disposto degli art. 3, 24 e 111 della Costituzione e quindi a non assicurare l'effettività del giudizio di legittimità", dovendosi invece riconoscere il rimedio rispetto a qualsiasi errore percettivo idoneo a incidere sulla decisione. Il ricorrente, inoltre, "anticipando" alcune argomentazioni poste a base del secondo motivo, sostiene che la Prima sezione, nel limitare il contenuto dell'autorizzazione al solo accesso e alla sola osservazione dei reperti, avrebbe finito per inserire erroneamente nel contenuto del provvedimento del 27 novembre 2019 - l'unico avente carattere giurisdizionale - anche quello della nota del 2 dicembre 2019. Pertanto, se non si consentisse di ricorrere al rimedio straordinario per emendare tale errore, si finirebbe per determinare "una cristallizzazione del provvedimento del 27 novembre 2019, ma con un contenuto diverso da quello effettivo, ossia un contenuto erroneamente "prelevato" da un altro atto, emesso in data 2 dicembre 2019, sempre dal Presidente del Tribunale", ma che, tuttavia, avrebbe una rilevanza meramente interna all'ufficio e sarebbe del tutto privo di carattere giurisdizionale. Sostiene che, in casi come quello in esame, non riconoscendo la possibilità di correggere l'errore, si finirebbe per legittimare "la possibilità per qualunque giudice, una volta emesso un provvedimento giurisdizionale, di poterlo revocare o modificare a suo piacimento, ricorrendo così ad un "rimedio" extra ordinem". L'errore "percettivo, se non fosse oggetto di correzione, andrebbe ad incidere sui principi stessi dell'ordinamento, violando, non solo il combinato disposto degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione e l'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, ma anche i fondamenti stessi del nostro ordinamento, consentendo una assolutamente arbitraria possibilità che ogni provvedimento giurisdizionale possa essere posto nel niente o modificato dal medesimo giudice che lo ha emesso, peraltro senza alcun innesco procedurale". L'ammissibilità del ricorso sarebbe coerente con la giurisprudenza delle Sezioni Unite, che hanno affermato che, "anche nella fase dell'esecuzione, la decisione della Cassazione può intervenire a stabilizzare il giudicato, sicché, sotto questo profilo, non ci sarebbe ragione per impedire l'applicabilità dell'istituto di cui all'art. 625-bis cod. proc. pen., almeno nei casi in cui la decisione della Cassazione è in grado di determinare l'irrimediabilità del pregiudizio derivante dall'errore di fatto". Il caso in esame rientrerebbe nei limiti tracciati dalle Sezioni Unite, atteso che l'errore di fatto in questione sarebbe "in grado di determinare l'irrimediabilità del pregiudizio, pervenendo a cristallizzare un principio "eversivo" dello stesso ordinamento costituzionale e processuale, quello secondo cui sia possibile modificare e/o un provvedimento giurisdizionale in modo del tutto arbitrario, senza ricorrere ai ordinari mezzi di impugnazione". Il ricorrente sostiene che, sebbene l'istanza tesa a ottenere l'autorizzazione ad analizzare i reperti sia riproponibile, l'irrimediabilità del pregiudizio sarebbe comunque evidente, atteso che tale istanza sarebbe "condizionata dalla individuazione di elementi nuovi, tali da legittimare un nuovo incidente di esecuzione tendente al medesimo fine". 10.2. Con un primo motivo, deduce la violazione degli artt. 625-bis cod. proc. pen. e 3, 24 e 111 Cost. Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato inammissibile il settimo motivo del ricorso, essendosi la Prima sezione penale soffermata sulla "acquisizione delle 54 provette di DNA, quando invece la questione era stata posta in relazione all'acquisizione dei verbali contenenti sommarie informazioni e accertamenti urgenti resi nel procedimento penale n. 976/2021 Mod. 21 RGNR Procura della Repubblica di Venezia, che avrebbero consentito di appurare come i campioni in discussione fossero, non solo magicamente riapparsi in epoca successiva alla sentenza passata in giudicato, ma fossero anche assolutamente validi per effettuare nuove analisi". Censura la sentenza anche nella parte in cui viene affermato che non sarebbe stato possibile sindacare "la bontà" della decisione con cui il giudice dell'esecuzione aveva dichiarato l'inammissibilità della richiesta difensiva di acquisizione di verbali di altro procedimento penale, essendo stata "adottata dallo stesso giudice in diversa sede". Al riguardo, il ricorrente sostiene che la Prima sezione sarebbe incorsa in un evidente errore di fatto, non accorgendosi che la richiesta non era stata fatta in altra sede, ma davanti alla stessa Corte di assise di Bergamo, nell'ambito del medesimo procedimento di esecuzione. Il ricorrente contesta la sentenza impugnata anche nella parte in cui afferma che il settimo motivo di ricorso sarebbe inammissibile perché il tema posto - ossia l'acquisizione delle 54 provette di DNA - esulerebbe "dalla mera attuazione del provvedimento autorizzatorio in vigore" e che le provette avrebbero potuto formare oggetto di separata attività di acquisizione, sollecitata dalla difesa dando impulso a un nuovo procedimento esecutivo. Palese sarebbe l'errore di fatto nel quale la Prima sezione sarebbe incorsa, essendo pervenuta alla deliberazione di inammissibilità del motivo, muovendo dalla premessa che l'acquisizione delle ulteriori 54 provette di DNA non fosse oggetto dell'incidente di esecuzione originariamente promosso dal condannato, quando invece l'istanza era tesa a esaminare anche e soprattutto le 54 provette di DNA. 10.3. Con un secondo motivo, deduce la violazione degli artt. 625-bis cod. proc. pen. e 3, 24 e 111 Cost. Il ricorrente contesta la sentenza impugnata, in quanto la Prima sezione ha sostenuto che l'attività autorizzata con il provvedimento del 27 novembre 2019 sarebbe limitata alla sola ricognizione dei corpi di reato, escludendo qualsiasi operazione di prelievo o analisi dei reperti, finendo così per inserire erroneamente nel contenuto di detta autorizzazione anche quello della nota del 2 dicembre 2019. A tal riguardo, il ricorrente evidenzia che: la precedente sentenza di annullamento - la n. 2693 del 2021 - aveva affermato che il giudice del rinvio avrebbe dovuto tenere conto dell'incidenza della precedente autorizzazione del 27 novembre 2019; tale prescrizione costituiva il tema specifico del successivo giudizio di rinvio, che era stato espressamente limitato alla valutazione del solo provvedimento del 27 novembre 2019. La Prima sezione, dando rilievo anche alla nota del 2 dicembre 2019, non solo sarebbe andata oltre l'oggetto del giudizio di rinvio, ma avrebbe dato rilievo a un documento interno, che costituiva "un'illegittima revoca di un provvedimento precedente", atteso che un giudice non può contraddire un precedente provvedimento, se questo non venga impugnato dalle parti, nelle forme previste dal codice di rito. Tale nota, peraltro, non era stata oggetto del precedente ricorso e non era stata sottoposta al vaglio del giudice di legittimità. La Prima sezione sarebbe caduta in un evidente errore percettivo nel ritenere che l'autorizzazione del 27 novembre 2019 riguardasse esclusivamente la visione dei reperti. L'errore sarebbe stato decisivo, in quanto, in mancanza di esso, la Prima sezione avrebbe adottato un provvedimento sicuramente diverso, consentendo "l'analisi di tutti i reperti e, in particolare, di quelli biologici". 11. All'udienza del 15 febbraio 2024 si è svolta la trattazione orale del procedimento. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. La giurisprudenza più risalente nel tempo riteneva che lo status di "condannato", che costituiva il presupposto imprescindibile per la legittimazione a esperire l'impugnazione straordinaria, dovesse essere riconosciuto solo al soggetto che aveva esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie, con conseguente formazione del giudicato sulla pronuncia emessa nei suoi confronti. Delimitava l'ambito applicativo del ricorso ex art. 625-bis cod. proc. pen. ai soli provvedimenti che rendevano definitiva una sentenza di condanna, dovendo intendersi per sentenze di condanna - tenuto conto che si trattava di pronunce del giudice di legittimità - solo quelle di rigetto o di declaratoria di inammissibilità di ricorsi proposti contro sentenze di condanna. Coerentemente riteneva che il rimedio del ricorso straordinario potesse trovare applicazione soltanto all'esito del procedimento di cognizione e non anche nei procedimenti in fase di esecuzione (Sez. 5, n. 45937 del 08/11/2005, Ierinò, Rv. 233218), poiché in tali ipotesi non poteva ritenersi che la decisione della Corte di cassazione perfezionasse una fattispecie di giudicato. La più recente giurisprudenza, invece, ritiene che alla nozione di "condannato" debba darsi un significato più ampio e che debba essere superato il riferimento oggettivo ai soli provvedimenti della Cassazione che determinino, per la prima volta, la formazione del giudicato. Ha, tuttavia, precisato che "l'accoglimento di una nozione di condannato più ampia di quella fino ad ora utilizzata dalla giurisprudenza in questa materia ... non è destinata a realizzare una applicazione indiscriminata del ricorso straordinario per errore di fatto", dovendo il rimedio rimanere limitato ai casi in cui la decisione della Corte di cassazione intervenga a stabilizzare il giudicato e sempre che dall'errata decisione derivi un pregiudizio irrimediabile (Sez. U, n. 13199 del 21/07/2016, Nunziata, Rv. 269789; Sez. 5, n. 16556 del 09/02/2023, Brancaccio, Rv. 284398). Con specifico riferimento ai procedimenti di esecuzione, Sez. U Nunziata hanno esplicitamente affermato che: "il ricorso straordinario di cui all'art. 625-bis cod. proc. pen. può essere proposto dal condannato anche per la correzione dell'errore di fatto contenuto nella decisione della Corte di cassazione emessa su ricorso avverso l'ordinanza del giudice dell'esecuzione, quando tale decisione, intervenendo a stabilizzare il giudicato, determina l'irrimediabilità del pregiudizio derivante dall'errore di fatto". Tanto premesso in diritto, nel caso in esame, risulta evidente che: la sentenza della Corte di cassazione impugnata non interviene a stabilizzare il giudicato; il pregiudizio derivante dal presunto errore di fatto non ha il carattere dell'irrimediabilità. Quanto al primo profilo, va rilevato che la sentenza impugnata si è pronunciata rispetto a un'ordinanza con la quale la Corte di assise aveva deciso l'opposizione, ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen., avverso il provvedimento con il quale il giudice dell'esecuzione aveva rigettato l'istanza diretta a ottenere l'adozione di provvedimenti finalizzati a ottenere l'accesso della difesa ai corpi di reato e aveva dichiarato inammissibile l'istanza diretta a ottenere la consegna dei DVD. Va, peraltro, sottolineato che la Corte di cassazione ha annullato il provvedimento della Corte di assise e non si è pronunciata in senso sfavorevole all'istante, sebbene quest'ultimo lamenti un'errata interpretazione che il giudice di legittimità avrebbe dato all'originario provvedimento autorizzatorio. Risulta, pertanto, davvero arduo sostenere che la sentenza impugnata possa avere contribuito a stabilizzare il giudicato, anche perché, allo stato, un giudizio di revisione appare un'ipotesi futura e incerta, essendo stata prospettata dallo stesso interessato (nell'originaria istanza) in termini di mera eventualità. Va, in ogni caso, completamente escluso che la presunta errata decisione abbia determinato un pregiudizio irrimediabile. L'errore irrimediabile, secondo il ricorrente, consisterebbe nell'avere limitato l'autorizzazione "alla sola visione dei reperti", attraverso una non consentita "trasposizione" del contenuto della nota del 2 dicembre 2019 nel provvedimento del 27 novembre 2019. L'originaria autorizzazione - l'unica avente autorità di giudicato - avrebbe avuto, invece, un contenuto più ampio, consentendo di sottoporre i reperti anche ad analisi e indagini. Ebbene, risulta palese che tale presunto errore non arrechi al ricorrente un pregiudizio irrimediabile, atteso che l'autorizzazione a sottoporre i reperti ad analisi e indagini può essere sicuramente chiesta dall'interessato, presentando una nuova istanza che dia impulso a un distinto procedimento esecutivo, nell'ambito del quale potrà sollecitare il giudice dell'esecuzione anche ad acquisire verbali di altro procedimento. Va sottolineato come tale possibilità è stata espressamente evidenziata nella sentenza impugnata: "eventuali attività ulteriori, diverse da quelle destinate a soddisfare il semplice accesso e la mera osservazione dei corpi di reato, potranno essere, se del caso, assentite all'esito della ricognizione e sulla base del verbale che la documenterà, ove la difesa, dando impulso ad un procedimento esecutivo distinto da quello odierno, avanzi specifica e corrispondente richiesta". Il ricorrente ha sostenuto che una futura istanza finalizzata a ottenere l'autorizzazione a sottoporre i reperti ad analisi e indagini possa essere "condizionata dalla individuazione di elementi nuovi, tali da legittimare un nuovo incidente di esecuzione tendente al medesimo fine". Tale tesi non è fondata, atteso che il giudicato si è formato su un provvedimento che il giudice di legittimità, con la sentenza impugnata (e prima ancora lo stesso giudice dell'esecuzione), ha ritenuto limitato al solo accesso e alla sola osservazione dei reperti. Non potrebbe, pertanto, pretendersi il requisito della novità rispetto a un'istanza finalizzata a ottenere una diversa autorizzazione, che consenta di sottoporre i reperti ad analisi e indagini. Il ricorrente sostiene che il presunto errore sarebbe "in grado di determinare l'irrimediabilità del pregiudizio, pervenendo a cristallizzare un principio "eversivo" dello stesso ordinamento costituzionale e processuale, quello secondo cui sia possibile modificare e/o un provvedimento giurisdizionale in modo del tutto arbitrario, senza ricorrere ai ordinari mezzi di impugnazione". L'assunto si presenta confuso e, in ogni caso, manifestamente infondato. L'irrimediabilità del pregiudizio va correlata all'errore di fatto nel quale sarebbe incorso il giudice di legittimità e alla stabilizzazione del giudicato e non alla corretta osservanza di astratti principi giuridici. Il timore paventato dal ricorrente che il giudice dell'esecuzione possa revocare o modificare precedenti provvedimenti giurisdizionali a suo piacimento, senza possibilità per gli interessati di proporre impugnazione, in ogni caso, risulta del tutto infondato. I provvedimenti del giudice dell'esecuzione, invero, sono impugnabili con il rimedio dell'opposizione e poi con il ricorso per cassazione. 2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende, che deve determinarsi in Euro 3.000,00. 3. La natura dei rapporti oggetto della vicenda impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 d. lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso, il 15 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 26 Febbraio 2024.

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