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R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E D I C A S S A Z I O N E SEZIONE TRIBUTARIA Composta da Federico Sorrentino - Presidente - Oggetto Angelo Matteo Socci - Consigliere - R.G.N. 8966/2020 Ugo Candia - Consigliere - Cron. Giuseppe Lo Sardo - Consigliere - UP – 14/05/2024 Andrea Penta - Consigliere Rel. - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 8966/2020 proposto da: Baldassarra Matteo, nato a Frosinone in data 2 agosto 1984 e residente in Roma, alla Via Garigliano n. 72 (C.F.: BLDMTT84M02D810D), rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall'Avv. Antonio Baldassarra (C.F.: BLDNTN53R101838D) ed elettivamente domiciliato presso di lui in Roma, alla Piazza di Novella n. 1 (Studio Avv. Federico Lucci; recapito fax: 0776832466; e-mail pec: [email protected]); - ricorrente - contro Imposta di registro – Donazione usufrutto sottoposta a condizione sospensiva Agenzia delle Entrate (C.F.: 06363391001), in persona del Direttore Generale pro tempore; - intimata – -avverso la sentenza n. 4690/2019 emessa dalla CTR Lazio in data 30/07/2019 e non notificata; udite le conclusioni orali rassegnate dal P.G. Dott. Carmelo Celentano, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso; uditi i difensori del ricorrente, Avv. Antonio Baldassarra, e della intimata, Avv. Mattia Cherubini. Ritenuto in fatto 1. Il notaio Baldassarra Matteo impugnava l’avviso di liquidazione con il quale l’Agenzia aveva richiesto, con riferimento ad un negozio da lui stipulato con cui Paolucci Sante, riservando il diritto di usufrutto per sé e dopo di sé, in caso di sua premorienza, in favore della moglie (che, presente in atto, accettava), aveva donato al figlio la nuda proprietà di un immobile, il pagamento dell’imposta di donazione di euro 200,00 in relazione alla prima donazione ‘condizionata’. Rappresentava che, trattandosi di donazione tra coniugi, nessuna imposta, neppure in misura fissa, fosse dovuta, in quanto la franchigia di un milione di euro copriva e rendeva esente anche l’apposizione degli elementi accidentali del negozio. 2. La CTP di Frosinone rigettava il ricorso. 3. Sull’impugnazione del contribuente, la CTR del Lazio rigettava il gravame, evidenziando che nella specie la donazione aveva dato vita a due distinti negozi (un trasferimento della nuda proprietà in favore del donatario e un’offerta di donazione di usufrutto in favore di terzo, improduttiva di effetti fino a quando non fosse intervenuta l’accettazione di quest’ultimo), e che, in presenza di donazione con riserva, accettata, di usufrutto a favore di un terzo, doveva essere ravvisata l’esistenza di due atti di liberalità distinti, passibili di essere separatamente ed autonomamente tassati, sicchè il contratto di donazione di usufrutto sottoposto a condizione sospensiva della premorienza del donante al beneficiario/donatario doveva essere assoggettato, in sede di registrazione, all’imposta di donazione nella misura fissa. 4. Avverso la detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione Baldassarra Matteo sulla base di due motivi. L’Agenzia delle Entrate è rimasta intimata, non avendo depositato e notificato, ai sensi dell’art. 370, primo comma, cod. proc. civ., alcun controricorso, non essendo tale la mera “nota di costituzione” depositata al dichiarato “solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza pubblica”. Considerato in diritto 1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., per aver la CTR omesso di pronunciarsi in merito alle questioni sollevate, avuto particolare riguardo all’applicazione della franchigia di cui all’art. 2, commi 47 e 49, lett. a), d.l. 3 ottobre 2006, n. 262. 2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2, commi 47 e 49, lett. a), d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., per aver la CTR omesso di considerare che nel caso di specie il valore della donazione tra coniugi non eccede il milione di euro e, quindi, non è soggetta all’imposta sulle donazioni poiché rientra nella franchigia. 3. I due motivi, da trattarsi congiuntamente, siccome strettamente connessi, sono infondati, sebbene si renda necessario, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 384 cod. proc. civ., correggere la motivazione. In osservanza del principio di autosufficienza, il ricorrente, a pagina 4 del ricorso, ha richiamato l’atto di appello con il quale, a pagina 3, aveva denunciato l’omessa pronuncia, da parte della CTP di Frosinone, sull’unico motivo posto alla base del ricorso introduttivo, secondo cui non sarebbe soggetto ad imposta di registro l’atto di donazione tra coniugi, in franchigia, sottoposto a condizione sospensiva. Non è revocabile in dubbio che la CTR non si sia pronunciata, neppure implicitamente, sullo specifico motivo di gravame, in tal guisa incorrendo in una palese violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. 4. E’ noto, peraltro, che nel giudizio di legittimità, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell'attuale art. 384 cod. proc. civ., una volta verificata l'omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito sempre che si tratti di questione di diritto che non richiede ulteriori accertamenti di fatto (cfr., di recente, Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 17416 del 16/06/2023). Questa Corte (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 3407 del 08/03/2002; conf. Cass., Sez. 5, Sentenza n. 4425 del 26/03/2003) ha già in passato chiarito che: A) - Il soggetto che, per spirito di liberalità, riservi a favore di una terza persona l'usufrutto su beni donati ad altri in (nuda) proprietà pone in essere sia una donazione del dominio (destinato a diventare pieno nel momento della cessazione del cennato diritto reale parziario), sia (nella ricorrenza dei relativi presupposti, e, segnatamente, della accettazione del beneficiato) una donazione dell'usufrutto (cfr., al riguardo, Cass. Sez. 2^ civ., sent. n. 3413 del 24.8.1957, id., sent. n. 2899 del 24.7.1975). In presenza di donazione con riserva, accettata, di usufrutto a favore di un terzo, pertanto, deve essere ravvisata la sussistenza di due atti di liberalità distinti, passibili, a mente del combinato disposto degli artt. 60 d.lgs. 31.10.1990 n. 346 (e prima dell'art. 56 d.p.r. 26.10.1972 n. 637) e 21 d.p.r. 26.IV.1986 n. 131, di essere separatamente ed autonomamente tassati. B) - Sotto altro profilo, è da dire che, nel caso di donazione con riserva (accettata) di usufrutto a favore, anche, di un terzo, secondo la previsione dell'art. 796 cod. civ., ossia nell'ipotesi, configuratasi nella fattispecie, in cui il donante abbia riservato l'usufrutto, in un primo tempo, a sè e, dopo la sua morte, ad un'altra persona, l'atto di liberalità posto in essere in favore di quest'ultima si rivela differito nei suoi effetti e condizionato alla premorienza del donante medesimo al beneficiato, e, perciò, a mente dell'art. 27 d.p.r. n. 131 del 1986, cit., operante in materia di imposta sulle donazioni ex art. 60 d.lgs. n. 346 del 1990, dianzi ricordato, l'imposta proporzionale ad esso relativa viene riscossa dopo l'avveramento dell'evento dedotto in condizione, e deve essere applicata su base imponibile determinata con riferimento alla data in cui, a seguito di detto avveramento, il negozio diventa realmente efficace (art. 43, comma 1, lett. a, d.p.r. n. 131 del 1986) ed effettivamente costitutivo del diritto reale parziario donato. 4.1. Secondo il ricorrente, trattandosi di donazione tra coniugi di valore compreso nella franchigia di un milione di euro, nessuna imposta sarebbe dovuta (in quanto le dette donazioni sono soggette alla relativa imposta solo per la parte eccedente il menzionato limite) e la franchigia coprirebbe e renderebbe esente altresì l’apposizione degli elementi accidentali del negozio giuridico, come, nella fattispecie, la condizione sospensiva. Il rilievo non coglie nel segno. Invero, va evidenziato che, essendo in discussione la debenza (sia pure nella misura fissa) o meno dell’imposta di registro anche con riferimento alla seconda donazione (rispetto alla prima, operata in favore del figlio, avente ad oggetto la nuda proprietà dell’immobile con riserva dell’usufrutto) dell’usufrutto operata in favore della moglie e subordinata alla condizione sospensiva della premorienza del donante rispetto al beneficiario, non trova diretta applicazione l’art. 2 d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito nella legge 24 novembre 2006, n. 286, che, al comma 49, lett. a), prevede una franchigia di 1.000.000 di euro per le donazionia favore del coniuge. Le disposizioni che vanno richiamate nel caso di specie sono le seguenti: L’art. 27 del dPR n. 131/1986, secondo cui <<Gli atti sottoposti a condizione sospensiva sono registrati con il pagamento dell'imposta in misura fissa.>> (e solo quando la condizione si verifica, o l'atto produce i suoi effetti prima dell'avverarsi di essa, si riscuote la differenza tra l'imposta dovuta secondo le norme vigenti al momento della formazione dello atto e quella pagata in sede di registrazione). L’art. 41 dello stesso dPR, a mente del quale <<1. L'imposta, quando non è dovuta in misura fissa, è liquidata dall'ufficio mediante la applicazione dell'aliquota indicata nella tariffa alla base imponibile, determinata secondo le disposizioni del titolo quarto, con arrotondamento a lire 10 mila, per difetto se la frazione non è superiore a lire 5 mila e per eccesso se superiore. 2. L'ammontare dell'imposta principale non può essere in nessun caso inferiore alla misura fissa indicata nella tariffa.>> Gli artt. 55 e 60 del d.lgs. n. 346/1990, a tenore dei quali <<1. Gli atti di donazione sono soggetti a registrazione secondo le disposizioni del testo unico sulla imposta di registro, approvato con decreto del presidente della repubblica 26 aprile 1986, n. 131, concernenti gli atti da registrare in termine fisso. […]>> (art. 55) e <<1. Per le modalità e i termini della liquidazione dell'imposta o maggiore imposta determinata a norma degli articoli 56 e 57, per la rettifica del valore dei beni e dei diritti, per l'applicazione dell'imposta in caso di omissione della richiesta di registrazione, per la riscossione e il rimborso dell'imposta, per i divieti e gli obblighi a carico di terzi e per le sanzioni si applicano, in quanto non diversamente disposto in questo titolo e nell'art. 34, commi quarto e ottavo, le disposizioni del testo unico sull'imposta di registro, approvato con decreto del presidente della repubblica 26 aprile 1986, n. 131.>> (art. 60). Nel solco di questa impostazione, Cass., Sez. 5, Sentenza n. 6100 del 2016 ha condivisibilmente chiarito che l'imposta di registro sull'atto pubblico è distinta e diversa dall'imposta sull'incremento patrimoniale conseguente alla donazione. Le imposte in parola sono difatti sorrette da presupposti autonomi e differenti - e cioè l'obbligo di registrazione e l'incremento gratuito di ricchezza - nella sussistenza dei quali le rispettive leggi sul registro e sulle donazioni assoggettano l'atto e l'arricchimento sine causa alle corrispondenti imposte. Nella sostanza, l'art. 55, comma 1, d.lgs. n. 346 cit. soltanto ribadisce che il «servizio» di registrazione degli atti di donazione deve essere pagato in misura fissa, appunto secondo quanto previsto dal d.p.r. n. 131 cit. E quindi secondo quanto stabilito per gli atti pubblici come la donazione, dal rammentato combinato disposto di cui agli artt. 41, comma 2, d.p.r. n. 131 cit. e 11, Parte I, della Tariffa allegata al d.p.r. n. 131 cit., lasciando invece al d.lgs. n. 346 cit. l'imposizione sul gratuito incremento di ricchezza. 4.2. Per quanto la CTR abbia erroneamente qualificato l’imposta in esame come di donazione (anziché di registro), la sentenza qui impugnata è immune da censure quanto al dispositivo. 5. Alla stregua delle considerazioni che precedono, correttamente l’Agenzia ha sottoposto ad imposta di registro in misura fissa la donazione dell’usufrutto successivo, sicchè il ricorso si rivela infondato. Nessuna pronuncia va adottata in ordine alle spese del presente giudizio, non avendo l’Agenzia svolto difese. P.Q.M. rigetta il ricorso; ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Cosi deciso in Roma, nella camera di consiglio della V Sezione civile della Corte suprema di Cassazione il 14.05.2024. Il Consigliere estensore Dott. Andrea Penta Il Presidente Dott. Federico Sorrentino
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: FEDERICO SORRENTINOPresidente ORONZO DE MASIConsigliere LIBERATO PAOLITTOConsigliere MILENA BALSAMOConsigliere FRANCESCA PICARDIConsigliere-Rel. Oggetto: *SUCCESSIONE DONAZIONI TRIBUTI Ud.17/05/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 35018/2019 R.G. proposto da: SCUSSEL GIOVANNA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA VECCHIA N 670, presso lo studio dell’avvocato MORABITO MARIA CHIARA (MRBMCH61S50H501J) e rappresentata e difesa dall'avvocato SANTI UMBERTO (SNTMRT61P04G478R) -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587), che la rappresenta e difende -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. VENETO n. 1333/2018 depositata il 23/11/2018, udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17/05/2024 dal Consigliere FRANCESCA PICARDI. FATTI DI CAUSA 1. Giovanna Scussel ha impugnato l'avviso di liquidazione, con cui l’Agenzia delle Entrate ha richiesto la maggiore imposta di successione con riferimento all’asse ereditario del defunto coniuge, raddoppiando il valore di alcuni beni (titoli e crediti costituiti dal saldo del conto corrente), previa esclusione dell’imputazione degli stessi per la sola metà in virtù del regime di comunione legale. 2.Il ricorso è stato rigettato in primo grado, con sentenza confermata in appello. Il giudice di primo grado ha escluso che la documentazione prodotta dalla ricorrente fosse idonea a provare che la giacenza del conto corrente ed i titoli fossero stati acquisiti in costanza di matrimonio e non fossero beni personali del de cuius. Nella sentenza di appello si osserva che «il contribuente illustra la situazione finanziaria dei coniugi con precisione senza però dare prove convincenti della esistenza dei flussi finanziari dalla stessa contribuente nei confronti del marito. Detta prova viene richiesta dalla legge per riconoscere, anche ai fini della tassazione, la titolarità dei beni mobili. Né aiuta la presentazione di atti e documenti scritti in lingua tedesca che, anche nel caso in cui fossero stati elementi utili a fornire prova, non potrebbero essere presi in considerazione data la mancanza di una traduzione asseverata…. E’ probabile e credibile che la sig.ra Sussel abbia contribuito alla formazione del patrimonio investito in titoli e azioni intestati al marito; ma mancando la prova .... la Commissione non può accogliere il ricorso». 3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, la contribuente. 5. Si è costituita con controricorso l’Agenzia delle Entrate, che ha eccepito la tardività del ricorso e ne ha chiesto, comunque, il rigetto. 6. Risultano depositate la memoria della contribuente e le conclusioni scritte della Procura Generale, che ha chiesto accogliersi il ricorso. 8.La causa è stata trattata e decisa all’udienza pubblica del 17 maggio 2024. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.La contribuente ha dedotto: 1) la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., dell’art. 177, lett a, cod.civ., in virtù del quale gli investimenti compiuti dai coniugi, insieme o separatamente, durante il matrimonio cadono immediatamente nella comunione legale, senza alcuna necessità di accertare il contributo dei coniugi alla formazione del patrimonio comune; 2) e 3) la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360 primo comma, n. 3, cod.proc.civ., dell’art. 177, lett c, cod.civ., in virtù del quale i proventi dell’attività separata dei coniugi (compresi i proventi confluiti nel conto corrente), se al momento dello scioglimento della comunione non sono stati consumati, cadono nella comunione de residuo; 4) l’error in procedendo, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., costituito dal mancato esame dei documenti in lingua tedesca, che non devono essere necessariamente tradotti; 5) l’error in procedendo, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., costituito dall’omessa pronuncia sulla censura avente ad oggetto il difetto di motivazione dell’atto impugnato. 2. In primo luogo va rigettata l’eccezione di tardività del ricorso, dovendo applicarsi al presente giudizio la sospensione di cui all’art. 6 del d.l. n. 119 del 2018, convertito in legge n. 136 del 2018. Secondo l’orientamento di questa Corte, che si ritiene condivisibile, difatti, in tema di condono fiscale, esulano dal concetto normativo di lite pendente e, quindi, dalla possibilità di definizione agevolata, soltanto le controversie aventi ad oggetto provvedimenti di mera liquidazione del tributo, emanati senza il previo esercizio di un potere discrezionale dell'Amministrazione, cioè senza accertamento o rettifica e senza applicazione di sanzioni, mentre, invece, rientra nell'ambito applicativo del beneficio la controversia conseguente all'impugnazione dell'avviso di liquidazione dell'imposta di successione il quale partecipi, nella sostanza, alla funzione propria dell'accertamento, in quanto emesso previa valutazione e rettifica, da parte dell'ufficio finanziario, della congruità dei valori e dell'effettiva esistenza delle passività dichiarate, derivandone, in tal caso, la persistente controvertibilità del presupposto della materia imponibile (così, tra le altre, Cass., Sez. 5, 5 dicembre 2019, n. 31804). Tali principi, affermati con riferimento ad altre discipline, valgono anche con riferimento al d.l. n. 119 del 2018, convertito in legge n. 136 del 2018. Ne consegue che, avendo l’Agenzia delle Entrate rettificato in aumento alcuni degli importi imponibili indicati dalla ricorrente nella dichiarazione di successione (crediti e titoli), il provvedimento impugnato non integra un mero atto di liquidazione, ma piuttosto un atto impositivo, che ricade nell’ambito applicativo dell’art. 6 del d.l. n. 119 del 2018, convertito in legge n. 136 del 2018, in quanto partecipa della funzione propria dell’accertamento. 3. In ordine al ricorso in esame, va ricordato che, secondo l’orientamento di questa Corte, in tema di imposta sulle successioni, siccome al momento della morte del coniuge si scioglie la comunione legale sui titoli (quali azioni, obbligazioni, titoli di stato, quote di fondi di investimento etc) in deposito presso banche (c.d. dossier) ed anche la comunione differita - o de residuo - sui saldi attivi dei depositi in conto corrente, l'attivo ereditario, sul quale determinare l’imposta, è costituito soltanto dal 50% delle disponibilità bancarie, pure se intestate al solo de cuius (Cass., Sez. 5, 23 febbraio 2011, n. 4393; v. anche Cass., Sez. 5, secondo cui, in tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato - in regime di comunione legale dei beni - soltanto ad uno dei coniugi e nel quale siano affluiti proventi dell'attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente entra a far parte della comunione legale de residuo dei beni, ai sensi dell'art. 177, primo comma, lett. c), cod. civ., al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo; lo scioglimento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto – in applicazione di tale principio, la S.C. ha rigettato il ricorso dell'Agenzia delle entrate avverso la sentenza del giudice tributario che aveva ritenuto che l'imposta di successione fosse stata illegittimamente liquidata e corrisposta sull'intero asse ereditario mentre le attività relative ai conti correnti e titoli dovevano essere tassati al cinquanta per cento, con conseguente rimborso della maggiore imposta versata). Invero, ai sensi dell’art. 9 del d.lgs. n. 346 del 1990 l'attivo ereditario, base imponibile dell’imposta sulle successioni, è costituito da tutti i beni e diritti che formano oggetto della successione (ad esclusione di quelli non soggetti all'imposta a norma degli artt. 2, 3, 12,13), per la individuazione dei quali si deve fare capo alle ordinarie disposizioni dettate dal codice civile, tra cui quelle che regolano la comunione legale tra coniugi, in particolare l’art. 177 cod.civ. (ai sensi del quale, costituiscono oggetto della comunione: a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali; b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione, c) i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati, d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio). Da tale premessa, deriva che, determinando la morte di un coniuge lo scioglimento della comunione legale (visto che la comunione non può proseguire venuto meno il vincolo coniugale, nonostante l’art. 191 cod.civ. faccia riferimento solo alla dichiarazione di morte presunta e non alla morte effettiva), i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi e i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi, percepiti, ma non consumati al momento dello scioglimento della comunione, confluiscono nella stessa, sicché, per la metà, divengono di titolarità dell’altro coniuge e non ricadono nell’asse ereditario del de cuius. Siffatta contitolarità riverbera i suoi effetti anche a fini fiscali e non viene scalfita dalle disposizioni sulla presunzione di appartenenza all'attivo ereditario dettate dall’art. 11 del d.lgs. n. 346 del 1990. Del resto, prima dell’abrogazione del comma 2 dell’art. 11 del d.lgs. n. 346 del 1990, il legislatore aveva espressamente precisato che la presunzione (iuris tantum) ivi sancita di appartenenza esclusiva al defunto dei beni mobili, titoli al portatore, azioni e crediti, cointestati anche ad eredi o legatari, non si applicasse per i beni e i diritti cointestati al coniuge ed oggetto della comunione legale, confermando che le presunzioni dettate per la determinazione dell’asse ereditario non possono prevalere rispetto al regime della comunione legale. In definitiva, nella controversia insorta tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria relativamente all’individuazione dei beni facenti parte dell’asse ereditario, l’accertamento della inclusione di un bene nella comunione legale deve avvenire in base alle ordinarie regole di ripartizione dell’onere della prova, non incidendo né le presunzioni di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 346 del 1990 né quella di cui all’art. 195 cod.civ., che opera solo in sede di divisione e tra i condividenti. 3. Fatte queste premesse, occorre esaminare preliminarmente il quarto motivo, con cui la ricorrente ha denunciato la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod.proc.civ., per violazione degli artt. 122 e 123 cod.proc.civ., in quanto il giudice di appello ha ritenuto non dimostrata l’appartenenza dei beni controversi alla comunione senza esaminare i documenti prodotti in lingua tedesca per la mancanza di una traduzione asseverata (documenti decisivi in base alle allegazioni difensive della parte, in quanto diretti a dimostrare l’avvenuto acquisto dei titoli durante il matrimonio e la confluenza sul conto corrente di somme comuni). Difatti, la questione della prova dell’appartenenza dei beni in esame alla comunione legale tra i coniugi è pregiudiziale rispetto all’applicazione del relativo regime – applicazione esclusa dai giudici di merito, i quali hanno, al contrario, ritenuto trattarsi di beni personali del de cuius proprio in ragione del materiale probatorio. Precisato che la dimostrazione dell’appartenenza dei beni in esame alla comunione (originaria o de residuo) non presuppone la esistenza di flussi finanziari dalla moglie al marito, contrariamente a quanto sembra affermare il giudice di appello, la sentenza impugnata è effettivamente incorsa in una violazione degli artt. 122 e 123 cod.proc.civ. Difatti, secondo l’orientamento di questa Corte, ai sensi degli artt. 122 e 123 c.p.c., applicabili ex art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 al giudizio tributario, in tale processo, come in quello civile, la lingua italiana è obbligatoria per gli atti processuali in senso proprio e non per i documenti prodotti dalle parti che, se redatti in lingua straniera, devono ritenersi acquisiti ed utilizzabili ai fini della decisione, avendo il giudice la facoltà, ma non l'obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, del quale può fare a meno allorché sia in grado di comprendere il significato degli stessi documenti, o qualora non vi siano contestazioni sul loro contenuto o sulla loro traduzione giurata allegata dalla parte (Cass., Sez. 5, 9 novembre 2022, n. 33079). Dalla ritualità della produzione istruttoria dei documenti in lingua straniera deriva che, in tema di valutazione delle prove, l'art. 122 cod. proc. civ., che prescrive l'uso della lingua italiana in tutto il processo, non esonera il giudice dall'obbligo di prendere in considerazione qualsiasi elemento probatorio decisivo, ancorché espresso in lingua diversa da quella italiana, restando affidato al suo potere discrezionale il ricorso ad un interprete a seconda che sia o meno in grado di comprenderne il significato o che in ordine ad esso sorgano contrasti tra le parti (cfr. Cass. 24/01/2011, n. 1608). Né può condividersi la tesi della controricorrente, secondo cui la Commissione tributaria regionale ha esaminato i documenti redatti in lingua straniera, ma li ha ritenuti ininfluenti. Difatti, in sentenza non vi è alcun riferimento al contenuto di tali documenti, affermandosi, invece, che, anche laddove essi potessero essere rilevanti ai fini della prova, «non potrebbero essere presi in considerazione data la mancanza di una traduzione asseverata». L’accoglimento di tale censura comporta l’assorbimento di tutti gli altri motivi. 4. In conclusione, va accolto il quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri. La sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata ed il giudizio rinviato alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Veneto, in diversa composizione, cui è demandata anche la regolamentazione delle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte: accoglie il quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia il giudizio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Veneto, in diversa composizione, cui demanda anche la regolamentazione delle spese del presente giudizio. Così deciso in Roma, il 17/05/2024. Il Consigliere estensore Il Presidente FRANCESCA PICARDI FEDERICO SORRENTINO
REPUBBLICA ITALIANA In Nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE composta dagli Ill.mi Magistrati: Felice Manna - Presidente - Patrizia Papa - Consigliere - R.G.N. 3806/2018 Giuseppe Fortunato - Consigliere Rel. - P.U. – 23.4.2024. Mauro Criscuolo - Consigliere - Riccardo Guida - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 3806/2018 R.G. proposto da CHINCARINI MONICA, rappresentata e difesa dall'avv. Marco Busti e dall’avv. Maurizio Vinci, con domicilio in Roma alla Via Lusena N. 9. -RICORRENTE– contro BENAMATI MARISA E CHINCARINI CARLO FRANCESCO, rappresentati e difesi dall’avv. Alberto Rinaldi e dall’avv. Cristina Zen, con domicilio in Verona, via Rubele n. 30. – CONTRORICORRENTI avverso la sentenza n. 2617/2017 della Corte d'appello di Venezia, depositata il 15.11.20217. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23.4.2024 dal Consigliere Giuseppe Fortunato. Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Rosa Maria Dell’Erba, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Uditi gli avv.ti. Alberto Rinaldi e Cristina Zen. FATTI DI CAUSA 1.Monica Chincarini ha convenuto in giudizio la cugina Marisa Benamati e il coniuge di quest'ultima, Carlo Francesco Chincarini, per ottenere lo scioglimento delle due diverse masse ereditarie del nonno Giuseppe Chincarini, deceduto il 28 marzo 2007, e della nonna Augusta Andreoli, deceduta il 21 luglio 2009, agendo in qualità di erede per rappresentazione dei genitori premorti. Ha esposto che con atto del 18.4.1997 Giuseppe Chincarini aveva venduto a Marisa Benamati e a Francesco Chincarini l’abitazione familiare, con riserva a sé e alla moglie dell’usufrutto vitalizio, e che con lo stesso atto Augusta Andreoli aveva trasferito ai convenuti la piena proprietà di un terreno per il prezzo di £. 1.500.000, atti che – secondo l’attrice - integravano vere e proprie donazioni o negozi misti con donazione, di cui ha chiesto la riduzione per lesione di legittima, instando infine per il risarcimento dei danni conseguenti all'utilizzo esclusivo dell'intero compendio caduto in successione da parte dei convenuti. Marisa Benamati e Francesco Chincarini hanno resistito, proponendo riconvenzionale per il rimborso delle spese funebri o, in subordine, per ottenere il controvalore delle migliorie apportate agli immobili comuni. Esaurita la trattazione, il Tribunale di Verona ha stabilito che entrambe le vendite del 18.4.1997 costituivano negozi misti con donazione, ha dichiarato inammissibile l'azione di riduzione proposta nei confronti di Carlo Francesco Chincarini relativamente alla massa di Giuseppe Chincarini, non avendo l’attrice accettato l’eredità del nonno paterno con beneficio di inventario, e ha respinto nel merito la domanda di riduzione verso Marisa Beneamati; ha accolto la domanda di riduzione relativamente all’eredità di Augusta Andreoli, condannando i convenuti, a tale titolo, al pagamento di € 69.000,00; ha infine diviso l’asse ereditario di Giuseppe Chincarini e ha assegnato le porzioni, con previsione di un conguaglio di €. 15880,00 a carico dell’attrice, respingendo ogni altra domanda e compensando le spese di giudizio. Su appello di Monica Chincarini, la Corte distrettuale di Venezia ha confermato la decisione. Anche a parere del Giudice distrettuale le due compravendite del 18 aprile del 1997 integravano negozi misti con donazione, evidenziando che i venditori aveva rilasciato quietanza e che non vi era prova del mancato pagamento del prezzo, avendo l’attrice allegato quale unico elemento presuntivo contrario la presenza di due testimoni al momento del rogito, insufficiente a provare la sussistenza di una vera e propria donazione del compendio immobiliare. Dopo aver stabilito che il valore della donazione indiretta relativamente alla vendita effettuata dal Giuseppe Chincarini era pari ad € 85.718,00, corrispondente alla metà del valore del nuda proprietà, detratta la metà del prezzo pagato (data l’impossibilità di ridurre la disposizione in favore di Francesco Chincarini), la sentenza ha escluso che la suddetta donazione indiretta, di cui era stata beneficiaria Marisa Beneamati, avesse leso la quota di riserva spettante all’attrice, confermando la riduzione della sola donazione effettuata dalla Andreoli ai due convenuti. Riguardo al valore dell’abitazione in località Dunes nel Comune di Malcesine, la Corte territoriale ha condiviso la stima dei beni effettuata dal c.t.u., affermando di non poter tener conto della vocazione edificatoria dell'immobile poiché, a suo parere, i beni ricadenti nell’asse dovevano essere valutati con riferimento alla situazione esistente al momento del perfezionamento dell’atto lesivo della legittima. Ha esonerato Francesco Carlo Chincarini dalla collazione dei beni ricevuti in donazione, sul rilievo che l'art. 737 c.c. si applica non a tutti i donatari ma solo ai coeredi, e ha stabilito che la riduzione doveva avvenire per equivalente, poiché la lesione era effetto di una donazione indiretta. Ha ritenuto infondate le doglianze dell’appellante in merito al criterio di assegnazione dei restanti beni in natura, evidenziando che la decisione del Tribunale – che aveva disatteso il progetto elaborato dal c.t.u. e che aveva attribuito all’attrice dei lotti 1 e 2 e i restanti tre lotti alla convenuta, con previsione di un conguaglio – consentiva di evitare la costituzione di servitù mentre la soluzione proposta dall’appellante finiva per attribuire a ciascun coerede beni di valore non proporzionato alle singole quote. Ha infine respinto la domanda di pagamento dei frutti dei beni, rilevando che nulla poteva pretendere l’attrice rispetto agli immobili oggetto delle vendite del 18.4.1997, trasferiti in proprietà agli acquirenti, e che non vi era prova, per le altre consistenze, del possesso esclusivo da parte dei convenuti. Per la cassazione della sentenza Monica Chincarini ha proposto ricorso affidato ad 8 motivi; Marisa Benamati e Carlo Francesco Chincarini resistono con controricorso. Le parti hanno depositato memorie illustrative. Il Procuratore generale ha fatto pervenire le proprie conclusioni scritte. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.Sono infondate le eccezioni d’inammissibilità del ricorso. Non risulta indispensabile l’indicazione degli atti su cui si fonda l’impugnazione, atti il cui contenuto è illustrato in ricorso con la dovuta specificità, unitamente alle vicende di causa, alle difese proposte dalle parti e ai rilievi mossi alla decisione di appello. L’impugnazione propone, poi, anche quesiti in diritto scrutinabili in cassazione (quanto, in particolare, agli elementi che vengono in considerazione ai fini del calcolo della quota di riserva e alla necessità di computare nell’asse anche le donazioni fatte a terzi, ove non suscettibili di riduzione, e riguardo ai criteri di accertamento del carattere simulato degli atti dispositivi impugnati), non solo deduzioni precluse ai sensi di cui all’art. 348, commi IV e V c.p.c.. Sussiste, infine, l’interesse ad impugnare da parte di Monica Chincarini per le conseguenze che la decisione è suscettibile di produrre ai fini del calcolo della legittima. 2.Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 1414, comma secondo, 2727, 2729, comma primo e secondo c.c., 115,100 16,132 c.p.c., e l’omesso ed insufficiente esame di un fatto decisivo per il giudizio, per aver la Corte d'appello escluso che le due compravendite costituissero vere e proprie donazioni per mancanza di prova della simulazione della quietanza e del mancato versamento del prezzo, in tal modo trascurando una pluralità di elementi convergenti. Sostiene la ricorrente che al momento della morte dei nonni non era stata rinvenuta alcuna somma, che i venditori non erano titolari di rapporti bancari o postali, che nessuna prova delle modalità di pagamento del prezzo era stata fornita dagli attori e che, inoltre, le due compravendite erano state stipulate con la presenza di due testimoni a riprova di una chiara volontà donativa dei disponenti. Il motivo è inammissibile. Deve premettersi che, agli effetti della prova della simulazione di atti posti in essere da de cuius, bisogna distinguere fra la situazione del legittimario che agisce a tutela della quota di riserva e quella del legittimario che propone una mera istanza di collazione. Nel primo caso questi, anche se chiamato a una quota di eredità, ha la veste di terzo, purché, congiuntamente con la domanda di simulazione, proponga, nello stesso giudizio, un'azione diretta a far dichiarare che il bene fa parte dell'asse ereditario e che la quota a lui spettante va calcolata tenendo conto di detto cespite. Nel secondo caso egli agisce come successore a titolo universale del de cuius per l'acquisizione al patrimonio ereditario del bene oggetto del contratto simulato e, rivestendo la medesima posizione del dante causa, soggiace ai limiti imposti ai contraenti per la prova della simulazione (Cass. 2093/2000; Cass. 7134/2001; Cass. 4021/2007; Cass. 3932/2016; Cass. 7237/2017). In definitiva, il legittimario ha la veste di terzo ai fini delle agevolazioni probatorie della simulazione purché la lesione della quota di riserva assurga a causa petendi, accanto al fatto della simulazione, e che condizioni l'esercizio del diritto alla reintegra (Cass. 5947/1986; Cass. 24134/2009; Cass. 12317/2019; Cass. 11659/2023). Giova poi ribadire, in dissenso con quanto sostenuto in ricorso, che non competeva ai convenuti provare di aver versato il prezzo o le modalità solutorie adottate, essendo onere della parte che agisce in riduzione dimostrare il carattere simulato della vendita, facendo ricorso ad ogni mezzo di prova, incluse le presunzioni, e dimostrare la sussistenza della lesione, quali fatti costitutivi della chiesta riduzione; solo ove fosse stata assolta tale prova, i convenuti avrebbero dovuto dar prova del contrario. Posti tali principi e ritenuta in astratto ammissibile (diversamente da quanto dedotto dai resistenti), la prova per presunzioni del carattere simulato degli atti di vendita, il motivo appare comunque inammissibile, non essendo specificato dove e quando gli elementi presuntivi da cui dovrebbe desumersi il carattere simulato delle compravendite e la natura di veri e propri atti donativi siano stati allegati in giudizio, avendo la Corte d'appello, per contro, specificato che l'unico elemento addotto a riprova del carattere simulato della quietanza era la presenza di testimoni, compatibile con il perfezionamento di un negozio misto con donazione. Né potrebbe comunque contestarsi alla Corte d’appello di non aver fatto ricorso al ragionamento presuntivo sulla base di fatti noti emersi in istruttoria, violazione che non è denunciabile ai sensi dell’art. 2729 c.c. (secondo le istruzioni della sentenza delle S.U. n. 8053/2014), ma che può integrare l’omesso esame di un fatto secondario ove sussistano i requisiti che ne condizionano lo scrutinio ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 5 c.p.c. (Cass. 17720/2018; Cass. 7861/2022; Cass. 2546/2024), occorrendo considerare che, nel caso di specie, la deducibilità di tale vizio in cassazione è comunque preclusa ai sensi dell’art. 348 ter, comma IV e V, c.p.c., poiché la sentenza impugnata appare fondata in proposito sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione di primo grado (Cass. 17720/2018; Cass. 34415/2022; Cass. 31323/2023; Cass. 35718/2023; Cass. 706/2024). 3. Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 115, 116, 132, 196 c.p.c., l'erronea valutazione delle risultanze probatorie in punto di stima dei beni oggetti di causa, nonché l'omesso insufficiente esame di un fatto decisivo per il giudizio, sostenendo che il CTU, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d'appello, si era limitato ad elencare gli elementi presi in considerazione per la stima, ossia fonti, parametri e statistiche da cui aveva tratto i prezzi unitari, elementi che sarebbero stati solo apparentemente esaminati, mentre né nella bozza, né nell'elaborato definitivo il c.t.u. avrebbe dato conto delle conclusioni assunte o anche solo preso in esame la documentazione esibita dalla ricorrente, tanto da stimare una villa con ampio terreno pertinenziale situato in una pregiatissima area turistica, in €. 1200,00 mq., a fonte di valori accertati dalle reti commerciali di intermediazione immobiliare per oltre 3.000 €/mq.. La pronuncia sarebbe inoltre viziata per aver negato rilievo alla vocazione edificatoria del terreno ricadente nell’asse, di cui si doveva tener conto per correttamente stimarne il valore con riferimento al momento dell'apertura della successione. Il motivo è parzialmente fondato. La censura difetta nuovamente di specificità nel punto in cui è diretta ad affermare che nessun elemento valutativo avrebbe, in realtà, preso in considerazione il CTU nelle operazioni di stima del compendio ereditario, non essendo riprodotto il contenuto della relazione nelle parti rilevanti per la decisione, considerato che anzi il giudice distrettuale ha espressamente affermato che il consulente aveva valutato i beni con metodo analitico, ne aveva comparato i valori con quelli di immobili similari, aveva acquisito informazioni presso agenzie e dall’OMI, ed aveva tenuto conto dell'ubicazione, dell’epoca di costruzione, della tipologia costruttiva e soprattutto dello stato di manutenzione degli immobili e dell'obsolescenza degli impianti. E’ principio pacifico che, in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che lamenti l'acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l'operato, ma, in ossequio al principio di specificità del ricorso per cassazione e al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l'onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche sollevate, al fine di consentire l'apprezzamento dell'incidenza causale del difetto di motivazione.” (Cass. 7078/2006; Cass. 13845/2007; Cass. 3224/2014; Cass. 16638/2014; Cass. 19989/2021; Cass. 15733/2022). La pronuncia è invece errata nella parte in cui ha ritenuto di non poter considerare la potenzialità edificatoria del terreno rientrante nell’asse, sull'assunto che, per accertare la lesione di legittima, debba guardarsi esclusivamente alla situazione esistente al momento del negozio impugnato e valutare il rapporto di proporzione tra il valore di mercato ed il prezzo pagato. Occorre obiettare che, per accertare la lesione della quota di riserva, va determinato il valore della massa ereditaria, quello della quota disponibile e della quota di legittima e che, a tal fine, occorre procedere alla formazione del compendio dei beni relitti e alla determinazione del loro valore al momento dell'apertura della successione quindi, alla detrazione dal "relictum" dei debiti, da valutare con riferimento alla stessa data e, ancora, alla riunione fittizia, cioè meramente contabile, tra attivo netto e "donatum", costituito dai beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione, da stimare, in relazione ai beni immobili ed ai beni mobili, ugualmente secondo il loro valore al momento dell'apertura della successione (artt. 747 e 750 c.c.) e, con riferimento al valore nominale, quanto alle donazioni in denaro (Cass. 12919/2012; Cass. 27352/2014; Cass. 24755/2015; Cass. 8174/2022; Cass. 35738/2023). Le descritte operazioni valutative andavano compiute avendo riguardo alla situazione dei beni al momento dell’apertura della successione e non a quello delle vendite, includendo nella valutazione anche il fattore costituito dall’eventuale vocazione edificatoria del terreno, potenzialmente incidente, in misura significativa, sul valore dei terreni e dell’asse nel suo complesso, specie in considerazione della zona di pregio in cui detti immobili sono ubicati. 4. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 553, 554,555, 556,559 e 560 c.c., lamentando che la Corte d'appello abbia escluso dalla valutazione dall'asse il valore della quota immobiliare donata a Carlo Chincarini e non abbia correttamente stabilito il valore dell’asse e quello della quota di riserva sulla base del patrimonio risultante dalla unione tra relictum e donatum, comprese le donazioni ricevute da soggetti diversi dai coeredi. Anche tale motivo è meritevole di accoglimento. 4.1. La censura non è preclusa dal giudicato interno per non aver la ricorrente appellato la pronuncia di primo grado nel punto in cui ha affermato l’intangibilità dell’acquisto siccome caduto in comunione legale (come si sostiene nel controricorso), argomentazione – quest’ultima - illustrata sinteticamente e in via puramente ipotetica dal Tribunale e che non è apprezzabile quale automa ratio decidendi suscettibile di giudicato interno, avendo il primo giudice respinto l’azione di riduzione per la dichiarata insussistenza della lesione di legittima ai danni della ricorrente (cfr. sentenza di primo grado, pag. 13). 4.2. La Corte di merito ha escluso che la donazione ricevuta da Francesco Chincarini dovesse essere conteggiata per il calcolo del valore dell’asse e della quota di riserva, poiché quest’ultimo non rientrava nel novero dei soggetti tenuti alla collazione ai sensi dell’art. 737 c.c.. Tale assunto è errato in diritto, poiché, pur non essendo Francesco Chincarini figlio o discendente di Giuseppe Chincarini e pur non essendo tenuto alla collazione, occorreva comunque considerare il valore delle suddette donazioni per stabilire il valore del patrimonio relitto al momento dell'apertura della successione, valore che deve essere pari a quello dei beni che si rinvengono nel patrimonio del defunto e quelli che ne siano usciti per effetto di tutte le donazioni, a favore di chiunque effettuate, come Monica Chincarini aveva correttamente sostenuto nell’atto di appello (cfr. pag. 9-11), dove, pur evocando impropriamente un obbligo di collazione, aveva però chiaramente chiesto di determinare il valore della massa ereditaria, ricomprendendovi quanto ricevuto da Francesco Chincarini per effetto della vendita del 18.4.1997, integrante una donazione indiretta. La riunione fittizia, quale operazione meramente contabile di sommatoria tra attivo netto e "donatum", cioè tra il valore dei beni relitti al tempo dell'apertura della successione, detratti i debiti, ed il valore dei beni donati, sempre al momento dell'apertura della successione, è finalizzata alla determinazione della quota disponibile e di quella di legittima, per accertare l'eventuale lesione della quota riservata al legittimario; ne deriva che l'inammissibilità della domanda di riduzione proposta (nei confronti del donatario non coerede) dal legittimario che non abbia accettato l'eredità con il beneficio d'inventario, è – a tale scopo - del tutto ininfluente (Cass. 8174/2022; Cass. 12919/2012). L'art. 556 c.c. dispone, infatti, che sono incluse nel calcolo tutte le donazioni, chiunque ne sia il beneficiario, indipendentemente dal fatto che si tratti di congiunto, di erede o di estraneo (Cass. 14193/2022). E’ opportuno, invece, puntualizzare che l’attrice non poteva certamente ottenere la riduzione della donazione ricevuta dal Chincarini, non avendo accettato l’eredità del nonno paterno con beneficio di inventario, e che del valore di tale disposizione dovrà tenersi conto, oltre per le operazioni di stima dell’eredità, anche per la quantificazione della riduzione da compiersi ai danni della Benamati. In linea generale le donazioni si riducono secondo l’ordine cronologico inderogabile fissato dall’art. 559 c.c., partendo dalle ultime effettuiate e risalendo a quelle anteriori; se coeve, esse vanno ridotte proporzionalmente. In virtù di tale preclusione, la scelta del legittimario di ridurre una donazione anteriore senza previamente aggredire quella più recente incontra il limite rappresentato dall'onere di scomputare dal valore della riduzione richiesta quello della riduzione che il legittimario avrebbe potuto richiedere al donatario posteriore, giacché egli non può recuperare, a scapito di un donatario anteriore, quanto potrebbe conseguire agendo in riduzione nei confronti del donatario più recente. Tale principio vale anche quando l’azione di riduzione verso un donatario sia preclusa per mancata accettazione del beneficio di inventario: in tal caso, il legittimario non può aggredire la donazione meno recente a favore del coerede se non nei limiti in cui risulti dimostrata l'insufficienza della donazione più recente, sebbene resa intangibile ai sensi dell’art. 564 c.c., a reintegrare la quota di riserva (Cass. 3500/19775; Cass. 22632/2013). Analogo principio trova applicazione nel caso in cui le donazioni da ridurre siano contestuali o coeve, dovendosi tenersi conto, ove si proceda alla riduzione di una di esse di quanto il legittimario avrebbe potuto ottenere dalla riduzione proporzionale di quella non riducibile per mancata accettazione dell’eredità con beneficio di inventario. In conclusione, la Corte di merito avrebbe dovuto computare nell’asse di Giuseppe Chincarini anche il valore della donazione indiretta ricevuta da Francesco Chincarini e stabilire, all’esito della riunione di relictum e donatum, il valore della legittima e della disponibile, procedendo all’eventuale riduzione tenendo conto di quanto la ricorrente avrebbe potuto ottenere dalla riduzione della donazione indiretta ricevuta sempre da Francesco Chincarini ove l’eredità di cui si discute fosse stata accettata con beneficio di inventario, accertando inoltre se le donazioni lesive siano o meno coeve. 5. Il quarto motivo denuncia la violazione dell'art. 560 c.c., per aver la Corte d'appello respinto la richiesta di reintegrazione della quota di riserva in natura sull’errato presupposto che gli atti di vendita del 18 aprile 1997 costituissero negozi misti con donazione, anziché donazioni vere e proprie. Il motivo è infondato, poiché, come si è già precisato nell’esame del primo motivo di ricorso, è incensurabile l'accertamento in fatto svolto dalla Corte d'appello riguardo alla natura delle due vendite immobiliari del 18 aprile 1997. Resta da evidenziare che il "negotium mixtum cum donatione" costituisce una donazione indiretta attuata attraverso l'utilizzazione della compravendita al fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo (Cass. 1214/1997; Cass. 642/2000; Cass. 19601/2004; Cass. 23297/2009 n. 23297). In tal caso la riduzione si attua per equivalente e non in natura, poiché l'azione di riduzione non mette in discussione la titolarità del bene e l'acquisizione alla massa è circoscritta al loro controvalore mediante il metodo dell'imputazione (cfr., in tema di donazione indiretta immobiliare mediante dazione della provvista: Cass. 12563/2000; Cass. 11496/2010). 5. Il quinto motivo denuncia la violazione degli artt. 718,720 e 727 c.c.. Assume la ricorrente che, nell'assegnare i beni relitti del patrimonio di Giuseppe Chincarini, costituiti dai terreni adiacenti all'abitazione della resistente e da due ulteriori terreni montani, su uno sui quali insisteva un piccolo fabbricato rurale per l'allevamento del bestiame, la Corte d'appello abbia assegnato alla ricorrente una parte dei terreni di Dunes adiacenti al fabbricato e i restanti fondi alla Benamati, in violazione dei criteri di assegnazione di beni omogenei, che avrebbero consigliato di ricomporre in un'unica proprietà il complesso edificato e scoperto di Dunes e di assegnare alla Benamati i terreni ivi ubicati e alla ricorrente gli altri terreni con il sovrastante rustico, costituenti corpi del tutto staccati ed autonomi rispetto all'abitazione, tenendo anche conto delle prescrizioni della normativa urbanistica locale. Il motivo è assorbito poiché il giudice del rinvio dovrà procedere alla nuova stima anche dei terreni, valutandone le potenzialità edificatoria al momento della apertura della successione e dovrà eventualmente procedere ad un nuovo progetto di divisione, tenendo conto anche delle donazioni effettuate a favore di Francesco Chincarini. 6. Il sesto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per aver la Corte d'appello respinto la domanda di pagamento dei frutti, ritenendo indimostrato il possesso esclusivo dei beni in capo ai coniugi Chincarini e Benamati. Espone la ricorrente che il suddetto possesso esclusivo degli immobili da parte dei convenuti era pacifico, avendone essi goduto ancor prima della morte dei nonni, con i quali vivevano come un’unica famiglia. Il motivo non merita di essere condiviso. Riguardo agli immobili venduti, essendo oggetto di negozi misti con donazione, la riduzione poteva aver luogo per equivalente, non in natura, sicché su tali beni non si era affatto costituita, neppure parzialmente, una situazione di comunione tra i legittimari, non essendo posto nel nulla o reso inefficace il trasferimento attuato con le vendite. Di conseguenza nessuna pretesa poteva coltivare la ricorrente per l’utilizzo esclusivo dei beni da parte degli acquirenti, né poteva pretendere il pagamento dei frutti in assenza di una comunione scaturita dalla riduzione delle donazioni immobiliari. Se la riduzione avviene per equivalente è invece necessario, per assicurare al legittimario l'esatto equivalente del bene che avrebbe avuto il diritto di conseguire, liquidare a suo favore una somma di danaro pari al valore di detto bene, la cui stima deve essere eseguita con riguardo alla data della pronuncia giudiziaria, senza che da ciò derivi una violazione dell'art. 557 cod. civ. (Cass. 13003/2001). Quanto ai terreni non oggetto delle vendite, il motivo, che finisce per sollevare questioni in fatto circa l’esistenza di un possesso esclusivo dopo l’apertura della decisione, non illustra il contenuto delle difese formulate nei gradi di merito e non consente di valutare se effettivamente l’esercizio di un possesso esclusivo fosse circostanza pacifica, conclusione - quest’ultima – negata esplicitamente dalla pronuncia impugnata, dovendo osservare che, qualora con il ricorso per cassazione si ascriva al giudice di merito di non avere tenuto conto di una circostanza di fatto che si assume essere stata "pacifica" tra le parti, è onere del ricorrente, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., indicare in quale atto sia stata allegata la suddetta circostanza, ed in quale sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica (Cass. 15961/2007; Cass. 10853/2012; Cass. 17474/2018; Cass. 24062/2017; Cass. 10761/2022). 7. Il settimo motivo denuncia la violazione dell’art. 92 c.p.c. lamentando che la Corte distrettuale abbia confermato la compensazione delle spese di primo grado, non considerando il pressoché integrale accoglimento delle domande e l’ingiusta resistenza dei convenuti, che avevano dato causa al processo. L’ottavo motivo denuncia l’erroneità della condanna e la violazione dell’art. 91 c.p.c. con riferimento alla condanna al pagamento delle spese di appello. I due motivi sono assorbiti, dovendo il giudice riesaminare gli atti di causa e rivalutare l’entità della lesione, statuendo nuovamente sulle spese di entrambi i gradi di causa. Sono, quindi, accolti il secondo ed il terzo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, sono respinti il primo, il quarto e il sesto motivo, sono assorbiti il quinto, il settimo e l’ottavo. La sentenza è cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio della causa alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, che provvederà a regolare le spese di legittimità. P.Q.M. accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, respinge il primo, il quarto e il sesto motivo e dichiara assorbiti il quinto, il settimo e l’ottavo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, che provvederà a regolare le spese di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, in data 23.4.2024. IL CONSIGLIERE ESTENSORE IL PRESIDENTE Giuseppe Fortunato Felice Manna
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. MICCOLI Grazia Rosa Anna - Presidente Dott. PILLA Egle - Consigliere Dott. SGUBBI Vincenzo - Consigliere Dott. FRANCOLINI Giovanni - Relatore Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Gu.Mo. nato a F.(ITALIA) il (Omissis) Sa.Li. nato a F.(ITALIA) il (Omissis) avverso il decreto del 03/10/2023 della CORTE APPELLO di BOLOGNA udita la relazione svolta dal Consigliere GIOVANNI FRANCOLINI; letta la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione PERLA LORI, che ha chiesto di dichiarare inammissibili i ricorsi; RITENUTO IN FATTO 1. Con decreto del 3 ottobre 2023 la Corte di Appello di Bologna - per quel che qui rileva - a seguito del gravame interposto dai terzi interessati Gu.Mo., An.Ce. (deceduta durante il giudizio di appello) e Sa.Li. - ha confermato il decreto in data 16 gennaio 2023 del Tribunale di Bologna che, nel procedimento instaurato nei confronti di Ma.Gu., aveva disposto la confisca di cinque immobili (tre appartamenti e due garage, di proprietà dei medesimi terzi, come specificato nel medesimo provvedimento di secondo grado) nonché delle somme giacenti su due conti correnti bancari (uno intestato a Ma.Gu., l'altro ad An.Ce.). 2. Avverso il decreto di appello è stato proposto ricorso per cassazione, con unico atto, nell'interesse di Gu.Mo. (anche quale erede di An.Ce.) e Sa.Li., articolando sei motivi (di seguito esposti nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, d. att. cod. proc. pen.). 2.1. Con il primo motivo - richiamando l'art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., nonché gli artt. 125, comma 3, e 495, comma 2, cod. proc. pen. - è stata dedotta l'omessa motivazione: sulla richiesta di escussione del consulente di parte, ingegnere Fa.Ge., volta a contestare la stima compiuta dall'Amministratore giudiziario e dimostrare che il valore degli immobili acquistati dai terzi è compatibile con la loro capacità reddituale; sulla richiesta di esaminare Em.Am., già avanzata in primo grado e ribadita in appello. 2.2. Con il secondo motivo - richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) e d), cod. proc. pen., nonché gli artt. 125, comma 3, e 495, comma 2, cod. proc. pen. - si è assunto che sarebbe stata rigettata con una motivazione insufficiente ed anzi apparente la richiesta di esaminare Em.Am. (avente ad oggetto fatti compresi tra il 1981 e il 1987 per cui non erano disponibili alcuni documenti), al fine di dimostrare (alla luce pure della copiosa documentazione prodotta) che An.Ce., moglie del proposto, era indipendente economicamente; inoltre, già il Tribunale ha revocato il sequestro e disposto la restituzione alla An.Ce. della quota di proprietà del 50% di uno degli immobili in proposta (sito in F., via (Omissis) e di parte delle giacenze bancarie a lei intestate, senza peraltro esplicitarne le ragioni; ragion per cui vi sarebbe un contrasto (che trova conferma anche nella decisione di secondo grado) tra le statuizioni ablative e le dette restituzioni. 2.3. Con il terzo motivo - richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) e d), cod. proc. pen., nonché gli artt. 24, comma 1, D. Igs.159/2011 e 125, comma 3, cod. proc. pen. - è stata dedotta l'omessa valutazione della documentazione (rilasciata dall'I.N.P.S. e di quella contabile) volta a negare la sproporzione tra le disponibilità di Sa.Li. (e del suo nucleo familiare, comprendente la moglie Gu.Mo.) e l'acquisto dell'immobile sito in L., oggetto di confisca; la Corte di merito avrebbe reso una motivazione apparente nonostante quanto dedotto dalla difesa (con la memoria presentata al Tribunale, cui era compiegata documentazione e con il gravame), risultando con evidenza che i redditi del nucleo familiare erano sufficienti a coprire il prezzo di acquisto dell'immobili per cui è stato peraltro acceso un mutuo ed avendo la Questura affermato - in difetto di prova - che l'attività illecita del proposto abbia determinato dal 2002 introiti superiori a un milione di Euro. 2.4. Con il quarto motivo - richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) e d), cod. proc. pen., nonché gli artt. 24, comma 1, D.Igs. 159/2011 e 125, comma 3, cod. proc. pen. - è stata dedotta l'omessa valutazione della documentazione volta a negare la sproporzione tra le disponibilità di Gu.Mo. e l'acquisto degli immobili sito in F., via (Omissis) oggetto di confisca, essendo stata disattesa con asserti apodittici la prospettazione contenuta nella memoria difensiva presentata al Tribunale, nonostante la documentazione prodotta dimostri che la Gu.Mo. disponesse di redditi sufficienti, ed avendo la Questura affermato - in difetto di prova - che l'attività illecita del proposto abbia determinato dal 2002 introiti superiori a un milione di Euro. 2.5. Con il quinto motivo - richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) e d), cod. proc. pen., nonché gli artt. 24, comma 1, D. Igs. 159/2011 e 125, comma 3, cod. proc. pen. - è stata dedotta l'omessa valutazione della documentazione volta a negare la sproporzione tra le disponibilità di An.Ce. e l'acquisto degli immobili siti in F., via (Omissis), oggetto di confisca, essendo stata disattesa con asserti apodittici la prospettazione contenuta nella memoria difensiva presentata al Tribunale, nonostante la documentazione prodotta dimostri che la Gu.Mo. disponesse di entrate (redditi e donazioni, lasciti ereditari, prestazioni assistenziali) sufficienti. 2.6. Con il sesto motivo - richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) e d), cod. proc. pen., nonché gli artt. 24, comma 1, D. Igs. 159/2011 e 125, comma 3, cod. proc. pen. - è stata dedotta l'omessa motivazione sulla disponibilità in capo al proposto degli immobili sito in F., via (Omissis), di proprietà della figlia Gu.Mo., profilo rispetto al quale - oltre a non argomentare effettivamente, come già esposto nel quarto motivo, sulla prospettazione difensiva relativa ai redditi di quest'ultima - la Corte di merito avrebbe espresso un ragionamento illogico e contraddittorio affermando che ella avrebbe convissuto con il padre fino all'anno di acquisto degli immobili e che, quantunque ella avesse lavorato nei dieci anni precedenti, non disponesse di redditi sufficienti. CONSIDERATO IN DIRITTO I motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili. 1. Al fine di provvedere, deve considerarsi che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità: - nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge ai sensi degli artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, D. Igs. 159 del 2011; dunque, è escluso dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità il vizio di motivazione (art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.), potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso il caso di motivazione inesistente o meramente apparente poiché qualificabile come violazione dell'obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d'appello (dagli artt. 7, comma 1, e 10, comma 2, D. Igs. n. 159 del 2011, in combinato disposto con l'art. 125, comma 3, cod. proc. pen.; Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246 - 01; nonché Sez. 5, n. 11325 del 23/09/2019, dep. 2020, Giardina; Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, Caliendo, Rv. 270080 -01; Sez. 6, n. 20816 del 28/02/2013, Buonocore, Rv. 257007 - 01); - la motivazione del tutto mancante oppure apparente e, dunque, inesistente, è ravvisabile soltanto quando essa sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, cioè, in tutti i casi in cui il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente (Sez. 5, n. 9677 del 14/07/2014, dep. 05/03/2015, Rv. 263100 - 01; Sez. 3, n. 11292 del 13/02/2002, Salerno Rv. 221437 - 01); in altri termini, "il vizio di motivazione apparente sussiste solo quando il giudice non dia in realtà conto del percorso logico seguito per pervenire alla conclusione che adotta, argomentando per clausole di stile o affermazioni generiche non pertinenti allo specifico caso sottoposto alla sua valutazione" (Sez. 6, n. 31390 del 08/07/2011, D'Amato, Rv. 250686), ossia "allorché la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui si è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti" (Sez. 1, n. 4787 del 10/11/1993, dep. 1994, Di Giorgio, Rv. 196361 - 01; cfr. pure Sez. 6, n. 49153 del 12/11/2015, Mascolo, Rv. 265244). 2. Tanto premesso, è dirimente considerare che la motivazione del decreto impugnato non può affatto dirsi apparente e le censure della difesa, quanto alle richieste istruttorie che sarebbero state disattese, sono prive della necessaria specificità e, nel resto, denunciano irritualmente il vizio di motivazione. Difatti, quanto la Corte di appello ha esplicitato la ragione per cui ha ritenuto superflua l'escussione di Em.Am., in particolare rilevando come le somme che (secondo la prospettazione difensiva) sarebbero state donate ad An.Ce. non sarebbero sufficienti a giustificare i suoi investimenti mobiliari e immobiliari; e al riguardo il ricorso non contiene una puntuale censura (cfr. Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo, Rv. 254584 - 01). Quanto alla mancata escussione del consulente di parte in ordine alla stima del valore dei beni oggetto del procedimento, l'allegazione è del tutto generica e, dunque, parimenti inidonea a costituire una compiuta critica al provvedimento impugnato. Per quel che attiene poi alle ragioni a sostegno del rigetto del gravame, come anticipato, l'iter argomentativo speso dalla Corte distrettuale ha dato conto dei presupposti dell'ablazione, rimarcando non soltanto il difetto di sufficienti entrate lecite del proposto e dei formali intestatari (la moglie, la figlia e il genero), ma correlando anche tale dato al tempo degli acquisti, alla collocazione cronologica dei pagamenti risultanti da quanto dichiarato dalle parti negli atti pubblici di acquisto (rispetto, segnatamente, ad entrate successive), alle uscite per un'onerosa ristrutturazione. 3. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, atteso che l'evidente inammissibilità dei motivi formulati impone di attribuire loro profili di colpa (cfr. Corte cost., sent. n. 186 del 13/06/2000; Sez. 1, n. 30247 del 26/01/2016, Failla, Rv. 267585 - 01). P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 21 Febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Consigliere Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. RECCHIONE Sandra - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ci.Da. nato (Omissis) avverso il decreto del 17/10/2023 della CORTE di APPELLO di ROMA udita la relazione svolta dal Consigliere SANDRA RECCHIONE; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale Pasquale Serrao D'Aquino, che ha concluso per la inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO 1. La Corte di appello confermava la applicazione a Ci.Da. della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno presso il comune di residenza, oltre che della confisca di immobili e disponibilità finanziarie a lui riconducibili. La Corte di appello confermava la sussistenza della condizione di pericolosità, sia generica che specifica (quest'ultima con riguardo alla condanna per il reato previsto dall'art. 74 D.P.R. 309/90, ovvero per una associazione funzionale a condotte di spaccio, in relazione alle quali Ci.Da. era stato prosciolto per prescrizione). Riteneva inoltre la sproporzione dei beni confiscati in relazione ai redditi leciti disponibili e la collocazione degli acquisti nel periodo di manifestazione della pericolosità. 2. Avverso tale provvedimento proponeva ricorso per cassazione il difensore, munito di procura speciale del proposto, che deduceva i seguenti motivi, ribaditi con memoria: 2.1. violazione di legge: si deduceva che la condizione di pericolosità sarebbe stata riconosciuta in assenza dei requisiti di legge, tenuto conto del fatto che il ricorrente aveva una condanna risalente al 1995, che era stato assolto per condotte risalenti al 2001 ed al 2002 e che si era costituito; la mancata perpetrazione di condotte illecite dal 2003, l'allontanamento da contesti illeciti per un periodo di oltre vent'anni e la scelta di tornare in Italia per costituirsi indicherebbero l'assenza della condizione di pericolosità. Si deduceva inoltre che non sarebbe stata valutata la attualità della pericolosità. 2.2.1. Il motivo non supera la soglia di ammissibilità in quanto non individua violazioni di legge, ma si risolve nella contestazione della tenuta logica delia motivazione, che non è contestabile nella materia delle misure di prevenzione. Contrariamente a quanto dedotto, con motivazione logica che si sottrae ad ogni censura, la Corte di appello confermava la sussistenza e la attualità della condizione di pericolosità. Segnatamente: veniva rilevato che il ricorrente stato condannato alla pena di anni tredici e mesi quattro di reclusione per associazione finalizzata allo spaccio internazionale di hashish; si rilevava, altresì, che da contenuto della sentenza di assoluzione dei 21 giugno 2005 erano emersi contatti e conversazioni del proposto con persone coinvolte nel traffico di stupefacenti, il che confermava la persistente introduzione dello stesso negli ambienti dediti al narcotraffico. La condizione di pericolosità veniva riconosciuta, pertanto, sia nella dimensione generica, tenuto conto della dedizione abituale a reati lucrogenetici, che in quella specifica, correlata alla consumazione del reato previsto dell'art. 74 d.P.R. n. 309/1990. Veniva dimostrata anche la attualità della pericolosità; questa veniva dedotta dalla persistenza ed abitualità delle condotte, ma risultava inequivocabilmente confermata dalla condotta consumata nel 2021 (in relazione alla quale era ancora in corso il giudizio per l'accertamento della responsabilità), quando Ci.Da. veniva arrestato in flagranza per spendita di false generalità e l'esibizione di una carta d'identità falsa. Secondo la Corte di appello confermava il giudizio di sussistenza, e persistenza, della condizione di pericolosità anche in lungo periodo di latitanza. In conclusione, il collegio rileva che la motivazione della sentenza impugnata si presenta dettagliata e priva di fratture logiche, dunque esaustiva in ordine all'identificazione dei presupposti per l'applicazione delle misure. Non si rileva, pertanto, nessuna violazione di legge. 2.2. Violazione di legge in ordine all'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale: si contestava sia l'assenza di motivazione in ordine alla perimetrazione temporale della pericolosità, sia quella in ordine alia provenienza e proporzione delle risorse utilizzate per l'acquisto dei beni confiscati. Si deduceva, inoltre, che i beni confiscati sarebbero stati acquistati con redditi leciti documentati, provento delle donazioni di Ro. e Ri.; e che mancherebbe la dimostrazione della provenienza illecita delle risorse con le quali erano stati acquistati i beni confiscati, anche tenuto conto del fatto che non era stata valutata la consulenza tecnica di Ma.Ma. 2.2.1. Il motivo non supera la soglia di ammissibilità in quanto non deduce violazioni di legge, ma si risolve nella richiesta di rivalutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle valutazioni in ordine alla sproporzione ed all'effettuazione degli acquisti dei beni confiscati nel periodo in cui era stata accertata la sussistenza della condizione di pericolosità. Contrariamente a quanto dedotto, la Corte d'appello effettuava un'analitica disamina dei presupposti per l'applicazione della confisca, accertando la sussistenza della condizione di pericolosità (sia nella dimensione generica, che in quella specifica) per un lungo arco temporale, durante il quale il proposto era entrato nella disponibilità dei beni confiscati. La motivazione risulta analitica anche nella parte in cui ritiene che i beni vincolati fossero di valore del tutto sproporzionato rispetto ai redditi leciti nella disponibilità del proposto. Invero, contrariamente a quanto dedotto, non risultava dimostrata la provenienza delle risolse da Ro. e Ri. (pagg. 29 e 30 del provvedimento impugnato). Veniva inoltre considerata, ma non ritenuta decisiva, la consulenza di Ma.Ma. Anche in relazione alla parte del provvedimento che conferma la misura patrimoniale non si rinviene, pertanto, alcuna violazione di legge. 1.3. I motivi aggiunti non sono valutabili a causa delia inammissibilità del ricorso principale. Si riafferma infatti che l'inammissibilità del motivo originario si estende ai motivi nuovi dato che in materia di impugnazioni, l'indicazione di motivi generici nel ricorso, in violazione dell'art. 581 lett. c) cod. proc. pen., costituisce di per sé motivo dì inammissibilità del proposto gravame, anche se successivamente, ad integrazione e specificazione di quelli già dedotti, vengano depositati nei termini di legge i motivi nuovi ex art. 585, comma quarto, cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 8439 del 24/01/2020, L., Rv. 278387; Sez. 6, n. 471414 del 30/10/2008, Arruzzoli, Rv. 242129). Alla dichiarata inammissibilità del ricorso consegue, per il disposto dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che si determina equitativamente in euro tremila. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma il 19 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 21 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. MICCOLI Grazia Rosa Anna - Presidente Dott. CATENA Rossella - Consigliere Dott. SESSA Renata - Relatore Dott. CANANZI Francesco - Consigliere Dott. BORRELLI Paola - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Ce.Cr. nato a A (ITALIA) il (Omissis) Is.Sh. nato a L (ALBANIA) il (Omissis) Ce.St. nato a A (ITALIA) il (Omissis) avverso il decreto del 06/07/2023 della CORTE APPELLO di TORINO udita la relazione svolta dal Consigliere RENATA SESSA; lette/sentite le conclusioni del PG udito il difensore RITENUTO IN FATTO 1.Con decreto del 15.09. 2023, la Corte di appello di Torino, nell'ambito del procedimento di prevenzione instaurato nei confronti di Ce.St., Is.Sh. e Ce.Cr., rispettivamente proposto e terzi interessati - ha confermato il decreto del Tribunale della medesima città - Sezione di misure di prevenzione - emesso in data 18.10.2022, che aveva ordinato la confisca ex art. 24 D.Lgs. n. 159/2011 dei beni, indicati nel decreto, nella disponibilità del proposto e dei terzi interessati suindicati. 2. Avverso il suddetto decreto, ricorrono per cassazione, Ce.St. e Is.Sh., per il tramite del comune difensore di fiducia, anche procuratore speciale per la terza interessata Is.Sh., Avv. Fr.Ma., articolando due motivi. In premessa, la difesa illustra come il ricorso si riferisce al capo del decreto impugnato relativo alla confisca dei beni di proprietà del proposto, nel punto relativo alla ritenuta sussistenza di una rilevante sproporzione tra i beni nella sua disponibilità e redditi leciti, nonché al capo del decreto relativo ai beni di proprietà della terza interessata. Si rappresenta che tema comune ad entrambi i ricorsi è quello che stigmatizza il modus procedendi di valutazione della sproporzione che fa impropriamente riferimento a tutte le spese della famiglia, indiscriminatamente considerate, e alle sole entrate provenienti da redditi che risultano dalle dichiarazioni dei familiari, in tal modo alludendo ad una generica e onnicomprensiva "situazione di sproporzione", realizzata per masse, laddove la valutazione della sproporzione va effettuata con riguardo a ciascuno dei beni e del rispettivo acquisto. 2.1. Il primo motivo, riguardante la posizione del proposto Ce., lamenta violazione dell'art. 24 D.Lgs. n. 159/2011, in relazione all'erronea, ritenuta, sussistenza del requisito della sproporzione tra i beni confiscati e i redditi leciti, nonché la mancanza assoluta di motivazione sul punto, in violazione dell'obbligo del giudice di merito di provvedere con decreto motivato. In particolare, si evidenzia come la disposta confisca di prevenzione di cui all'art. 24 D.Lgs. n. 159/2011, abbia ad oggetto principalmente beni di proprietà di terzi, ma per minima parte, riguarda anche il saldo del conto corrente e alcune partecipazioni sociali di proprietà del Ce.. Sul punto, si rileva che la Corte territoriale non ha dedicato alcuna attenzione ai beni confiscati al ricorrente, nonostante fossero elencati nel dispositivo del primo decreto applicativo. Da ciò consegue che rispetto a tali beni, il modus operandi prescelto dal decreto impugnato, consistente nella preliminare valutazione della sproporzione "per masse", si è tradotto in una conseguente illegittima confisca "per masse" e dunque nell'illegittima e indiscriminata apprensione dei beni suindicati, dei quali il proposto risultava titolare al momento della proposta, in difetto di alcuna motivazione circa la derivazione illecita di tali specifiche poste attive del suo patrimonio. Venendo all'analisi dei diversi profili di violazione dell'art. 24 D.Lgs. n. 159/2011, la difesa anzitutto lamenta come la prima di tali violazioni consista nell'avere la Corte territoriale, disattendendo i principi di diritto stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte Costituzionale in ordine all'unica interpretazione possibile della presunzione relativa di acquisto illecito dei beni compatibile con il testo costituzionale, omesso di verificare se le condotte criminose commesse dal proposto siano state effettivamente fonte di profitti illeciti in quantità ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni confiscati. Il requisito della sproporzione nei casi di pericolosità generica postula un intrinseco rapporto di proporzione tra i profitti asseritamente ricavati dell'attività illecita e l'oggetto della misura ablatoria (sicché solo ove i beni risultino effettivamente riconducibili ad attività effettivamente idonee a produrre proventi illeciti congrui rispetto ai loro acquisti, essi saranno confiscabili). Si precisa, inoltre, che anche laddove la violazione dei presupposti della confisca di prevenzione non costituisse autonomo vizio di legittimità della misura stessa, rappresenterebbe comunque un chiaro indizio della natura indiscriminata e immotivata della misura applicata al proposto, nonché ai terzi. Invero, l'applicazione di tale misura a carico del Ce. si è trasformata in uno strumento per l'indiscriminata ablazione di ogni bene del quale l'intero nucleo familiare, e le relative società, risultassero titolari, senza alcun rapporto di reale proporzione e strumentalità con le attività illecite riferite al proposto. Addirittura, nel caso di specie il complessivo valore dei beni è superiore rispetto agli stessi profitti illeciti asseritamente conseguiti dal Ce. e posti a fondamento della valutazione di pericolosità generica. Si rappresenta, infine, che non possono farsi certo rientrare nella valutazione di sproporzione indiscriminatamente tutte le uscite e financo l'ammontare dei mutui contratti (da terzi) che non corrispondono ad alcuna fuoriuscita patrimoniale. 2.2. Il secondo motivo, concernente la posizione della terza interessata Is.Sh., contesta violazione degli artt. 19, 24 e 26 D.Lgs. n. 159/2011 e vizio di motivazione, in relazione all'erronea, ritenuta, sussistenza del requisito della fittizia intestazione e della disponibilità in capo al proposto dei beni confiscati alla terza interessata, nonché alla sproporzione tra gli acquisti effettuati e la capacità economica della medesima. Inoltre, si evidenzia come il decreto impugnato fondi la confisca di tutti i beni di proprietà dei due ricorrenti, oltre che sulla valutazione di pericolosità generica del proposto, anche sulla considerazione che gli acquisti di beni immobili da parte della terza interessata, effettuati tra l'anno 2013 e l'anno 2019, fossero da ritenere riconducibili al marito, in assenza dì un'effettiva e sufficiente capacità economica della medesima. In particolare, si rileva come nel provvedimento impugnato manchi qualsivoglia considerazione dei beni confiscati alla terza interessata diversi dagli immobili, nonostante essi siano indicati nel dispositivo del primo decreto applicativo e siano stati oggetto di specifica doglianza nell'appello proposto. Invero, la già citata modalità di valutazione della sproporzione per masse indicata per il proposto ha determinato anche l'illegittima, ed indiscriminata, apprensione dei beni dei quali Is.Sh. risultava titolare al momento della proposta, in difetto di alcuna motivazione circa la derivazione illecita (perché sproporzionata rispetto ai redditi leciti) di tali specifiche poste attive del suo patrimonio. Inoltre, si sottolinea come relativamente ai beni immobili confiscati, la motivazione offerta dalla Corte territoriale risulti comunque apparente nella misura in cui ha affermato che tali beni debbano ritenersi fittiziamente intestati alla ricorrente, in un periodo di "pericolosità sociale del Ce., in una situazione di sproporzione", sul presupposto che essi asseritamente "collaboravano per una serie di attività". Invero, di tale asserita collaborazione - afferma la difesa - non vi è alcuna traccia negli atti del presente procedimento. Si lamenta, dunque, l'assoluta mancanza di motivazione sia relativamente ai presupposti che consentirebbero di riferire al proposto la disponibilità dei beni di proprietà dei terzi familiari, sia in ordine al preteso rapporto di sproporzione di ogni singolo acquisto rispetto alla capacità economica del soggetto che l'ha effettuato. Contrariamente a quanto affermato nel decreto impugnato a pag.12, si ritiene che i beni dei terzi possono essere confiscati a condizione che il preposto ne abbia la sostanziale disponibilità e non sulla base della mera presunzione che da tale rapporto di parentela discenderebbe che i beni siano loro fittiziamente intestati. In sostanza, dunque, il decreto è viziato nella misura in cui ritiene, da una parte, di poter pretermettere la dimostrazione del requisito della disponibilità sostanziale dei beni in capo al proposto - quale presupposto della fittizia intestazione e della confisca - sul presupposto che, trattandosi del nucleo familiare, basterebbe dimostrare la mancanza di capacità economica in capo al terzo per l'acquisto del bene, e dall'altra, di poter porre nel nulla la dimostrata capacità economica di Is.Sh., proporzionata agli acquisti effettuati, dilatando in maniera indiscriminata l'onere probatorio ricadente sul terzo. Sì censura, inoltre, la parte del provvedimento impugnato nella parte in cui non premette alle statuizioni di confisca dei beni di proprietà della terza interessata alcuna considerazione relativa alla sussistenza del rapporto di sproporzione, da effettuarsi con riferimento ai singoli acquisti: il decreto, dunque, considera indistintamente "sproporzionati" anche quegli acquisti avvenuti senza movimentazione di denaro, ma provenienti, ad esempio, dall'accollo di mutui, ovvero finanziati pacificamente da terzi; e rispetto a questi ultimi non si può dilatare a dismisura l'onere probandi del terzo interessato che si deve arrestare di fronte alla dimostrazione di una liberalità. Invero, i beni immobili acquistati dalla ricorrente si riducono al numero di tre e per ciascuno di essi, il decreto impugnato, non ha fornito alcuna autonoma motivazione, né in ordine alla pretesa disponibilità di tali beni in capo al proposto, né in ordine alla pretesa sproporzione del denaro utilizzato per acquistarli rispetto alla capacità economica della ricorrente. I tre acquisti effettuati dalla medesima corrispondono, nel loro valore complessivo, ad un ammontare del tutto congruente con le somme delle quali la stessa pacificamente disponeva nel periodo, derivanti da un'assoluta e dimostrata capacità economica, nonché dagli apporti di terzi. Pertanto, ne deriva che la motivazione sottostante alla confisca di tali beni immobili risulta del tutto mancante o apparente, in quanto il decreto non si confronta minimamente con le relative censure difensive, ponendo a fondamento del provvedimento elementi non congruenti con i presupposti legali e non motivando la pretesa fittizia intestazione di tali immobili al proposto, né l'incapienza del patrimonio della medesima ricorrente rispetto ai menzionati tre acquisti, valutati in base all'illegittimo, generico, criterio della sproporzione familiare, senza il necessario approccio individualizzante. A ciò si aggiunge come la Corte territoriale non fornisce alcuna motivazione rispetto alla confisca di altri beni di proprietà della terza interessata, ossia il motoveicolo Honda GRL 125 tg. (Omissis), alcuni conti correnti e un conto deposito personali, oltre che per le partecipazioni sociali totalitarie e non totalitarie, ai quali si era già fatto riferimento nell'atto di appello. Si censura, infine, la mancanza di motivazione rispetto alla confisca delle quote sociali di (...), di (...) e C & D, nonché dei beni di proprietà delle prime due società. Invero, tale confisca si fonda su un'indebita confusione tra la situazione giuridica soggettiva della ricorrente e la distinta situazione giuridica delle società delle quali la stessa era socia: il decreto impugnato avrebbe potuto disporre la confisca di tali quote sociali a condizione di dimostrare che l'acquisto delle stesse soddisfacesse i requisiti di cui all'art. 24 D.Lgs. n. 159/2011, ossia di dimostrare che si trattasse di beni nella sostanziale disponibilità del proposto, perché di valore sproporzionato rispetto alla capacità economica della ricorrente. In sostanza, il decreto impugnato pretenderebbe di confiscare le quote sociali di (...) e (...) alla ricorrente in quanto le società medesime, amministrate anche da terzi, avrebbero effettuato acquisti di ammontare non proporzionato ai redditi del nucleo familiare Ce. - Is. Pertanto, laddove il decreto avesse voluto far riferimento alla pretesa fittizia intestazione delle quote sociali, avrebbe dovuto raffrontare i redditi della ricorrente con il denaro impiegato dalla medesima per l'acquisto delle partecipazioni o eventualmente conferito a titolo di finanziamento soci e non con l'ammontare degli acquisti effettuati in proprio dalle società. A ben vedere il decreto, piuttosto, ipotizza la fittizia intestazione di alcuni beni alle società (in particolare dei beni che le società hanno acquisito da Ce. nella veste di venditore), ma anche il rapporto di sproporzione tra acquisti e redditi leciti interno alla società si fonda, nel decreto impugnato, su un'erronea selezione delle grandezze giuridicamente rilevanti: si intende chiarire tale profilo al fine di confutare ulteriormente la sussistenza di quella situazione di sproporzione che il decreto attribuisce soggettivamente all'odierna ricorrente anche mediante l'erronea considerazione degli acquisti della società tra le uscite riferibili al nucleo familiare e l'erronea svalutazione dell'autonoma capacità economica degli enti in questione. Si era tra l'altro evidenziato, richiamando gli esiti della consulenza del dottor Ni., come risultasse peraltro contabilmente dimostrato che le società (in particolare la (...)) disponessero di un rilevante cash flow in grado di generare finanza, la quale a proprio volta consentiva alla società medesima di sostenere i costi dei mutui, con la messa a reddito degli immobili via via acquistati. In conclusione, si segnala che il decreto impugnato riferisce la valutazione della sproporzione a soggetti non pericolosi diversi dal proposto - la moglie, in regime di separazione legale dal 2022, nonché le società delle quali la stessa è socia, che, peraltro, avrebbero dovuto essere, anch'esse, citate - così trasformando la misura di prevenzione a carico del preposto in uno strumento di preteso riequilibro tra reddito lecito e patrimonio a carico di soggetti terzi non pericolosi, con l'effetto di recidere quel legame implicito tra pericolosità e sproporzione, che giustifica la stessa previsione normativa di cui all'art. 24 D.Lgs. n. 159/2011. 3. Avverso il suddetto decreto ricorre, altresì, per cassazione, Ce.Cr., per mezzo del difensore di fiducia, procuratore speciale, avv. Gi.Bo., che, con l'unico motivo articolato, deduce la violazione degli artt. 19, 24 e 26 D.Lgs. 159/11, in relazione alla erronea, ritenuta, sussistenza del requisito della fittizia intestazione e della disponibilità in capo al proposto del bene confiscato a Ce.Cr., nonché la mancanza assoluta di motivazione. Si assume in particolare che la disposta confisca di prevenzione violi i presupposti applicativi delineati dall'articolo 24 nonché dagli articoli 19 e 26 perché la confisca stessa possa estendersi su un bene di proprietà di un familiare del proposto, difettando ogni motivazione in ordine alla riconducibilità dell'immobile confiscato alla sostanziale disponibilità del proposto. Facendo il decreto, al riguardo, riferimento all'orientamento di legittimità secondo cui il rapporto di parentela tra il proposto e il terzo proprietario può ritenersi una circostanza significativa della fittizia intestazione dei beni formalmente appartenenti al terzo qualora quest'ultimo risulti pure sprovvisto di effettiva capacità economica, dato che, in assenza di provviste alternative, potrebbe presumersi che l'acquisto sia stato alimentato dai proventi illeciti del proposto. Al riguardo tuttavia è lo stesso decreto impugnato a dar conto di come il bene immobile sia stato acquistato con fondi nella disponibilità dello stesso Ce.Cr. il cui conto era alimentato dal conto di Sa.An. e Is.Sh. Pacificamente dunque risulta documentalmente provato che le provviste utilizzate per l'acquisto dell'immobile non provengono dal proposto; ciò nonostante il decreto reputa legittima la statuizione di confisca, anzitutto sul presupposto che non risulti a monte dimostrata l'origine dei versamenti sul conto cointestato Sa.An. - Is. dal quale sono state successivamente restituite le rate del mutuo. L'obbligo di dimostrare la legittima provenienza del bene viene fatto dunque illegittimamente "retroagire" addirittura alla dimostrata fonte lecita dell'acquisto, senza che tale ulteriore requisito negativo per escludere la fittizia intestazione del bene sia previsto da alcuna disposizione del decreto legislativo 159/2011; né la legge esclude che possa avere rilievo, per superare la presunzione, la liberalità di un terzo. Per altro verso, laddove il decreto nega la rilevanza del dimostrato apporto finanziario di Sa.An., terzo rispetto al nucleo familiare, per l'acquisto dell'immobile, esso finisce per dilatare illegittimamente la stessa nozione giuridica della legittima provenienza, ancorando tale requisito, in violazione dell'art. 24 citato, all'ulteriore presupposto che le modalità di reperimento della provvista siano non soltanto dimostrate sul piano dei flussi di danaro ma siano ulteriormente giustificate da una sorta di "causa" giuridico-economica diversa dalla liberalità. Così ragionando il decreto si pone in contrasto col consolidato orientamento di questa Corte in ordine al riparto dell'onus probandi tra l'accusa e il terzo interessato, incombendo sull'accusa l'onere di dimostrare che l'utilità da ablare rientri tra quelle riferibili alla disponibilità sostanziale del proposto perché acquisita con provvista allo stesso ascrivibile, potendosi a tal fine avvalere delle presunzioni probatorie di cui allo stesso decreto legislativo 159/2011 ma dovendo tuttavia sostanziare la richiesta con gravi indizi, precisi e concordanti; diversamente al terzo inciso dall'iniziativa di prevenzione spetta un onere meramente giustificativo, di allegazione contraria, che non può certo ritenersi calibrato sui canoni di uno statuto probatorio rigoroso e formale modulato su quello vigente in materia petitoria, che assurgerebbe altrimenti al rango di probatio diabolica. Sicché, nel caso di specie, è dimostrata l'effettiva capacità economica del terzo di acquistare il bene con provviste lecite, e tale capacità economica non può dunque essere a propria volta valutata negli stessi termini nei quali si realizza la valutazione della capacità reddituale del proposto, trattandosi di terzo non pericoloso. Il decreto, in ogni caso, nemmeno ipotizza un rilevante legame tra il reperimento dei fondi per l'acquisto dell'immobile e le provviste illecite nella pretesa disponibilità del proposto; il decreto pretende allora di ricollegare il bene immobile al proposto sull'illegittimo presupposto che questi ulteriori soggetti terzi finanziatori (Sa.An. in particolare ma anche Is.Sh.) dovessero a propria volta dimostrare la lecita provenienza delle somme utilizzate per rimborsare le rate del mutuo, dovendosi altrimenti presumere (come pare implicito della motivazione del decreto) che pure tali fondi derivassero dal proposto. Il legame tra il bene e il proposto diviene allora meramente ipotetico e doppiamente presunto al di fuori delle presunzioni di legge. Il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto rigettarsi i ricorsi. CONSIDERATO IN DIRITTO I ricorsi sono inammissibili. 1.Prima di addentrarsi nell'esame di ciascuno di essi s'impongono delle preliminari precisazioni, comuni, riguardo ai vizi denunciati e ad alcuni dei temi sollevati. Si deve innanzitutto premettere che ai sensi dell'art. 10 del D.Lgs. n. 159 del 2011, il ricorso per cassazione avverso provvedimenti applicativi di misure di prevenzione personali e patrimoniali è limitato alla sola violazione di legge, mentre è esclusa dal novero dei vizi deducibili l'ipotesi dell'illogicità manifesta di cui all'art. 606, lett. e), cod. proc. pen.; e che, inoltre, secondo il costante orientamento di questa Corte, può essere denunciato in sede di legittimità, poiché qualificabile come violazione dell'obbligo legale di provvedere, anche in sede di appello, con decreto motivato, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (Sez. 1, n. 6636 del 07/01/2016, Pandico, Rv. 266365; Sez. 1, n. 6636 del 07/01/2016, Rv. 266365). Sicché i ricorsi, nella parte in cui propongono censure meramente reiterative di questioni, puntualmente, già vagliate nei provvedimenti di merito - nel caso di specie, in particolare, nel provvedimento del Tribunale rispetto al quale i motivi di appello proponevano questioni già esaurientemente in esso affrontate - solo formalmente denunciano l'apparenza della motivazione o l'omessa considerazione delle deduzioni difensive, in realtà, deducono vizi di motivazione. Per altro verso, va in premessa altresì precisato che, nel caso di specie, la valutazione dei giudici di merito non è frutto della denunciata inversione dell'onere della prova in cui, secondo la difesa, sarebbero incorsi i giudici di merito. Ed invero, la valutazione di questi ultimi non è censurabile alla luce dei principi affermati da questa Corte, secondo i quali in tema di misure di prevenzione patrimoniali, l'onere di allegazione difensiva in ordine alla legittima provenienza dei beni non può essere soddisfatto con la mera indicazione della esistenza di una provvista sufficiente per concludere il negozio di acquisto degli stessi, dovendo invece, indicarsi gli elementi fattuali dai quali il giudice possa dedurre che il bene non sia stato acquistato con i proventi di attività illecita, ovvero ricorrendo ad esborsi non sproporzionati rispetto alla sua capacità reddituale (Sez. 6, n. 21347 del 10/04/2018, Salanitro e altri, Rv. 273388 in cui si è precisato che l'acquisto di un immobile mediante l'accensione di un mutuo non costituisce dimostrazione della legittima provenienza della provvista, dovendosi fornire la prova della disponibilità di risorse lecite e sufficienti a sostenere il pagamento delle rate mensili, nel caso di specie mancanti, in quanto il nucleo familiare del proposto non disponeva di redditi; nella stessa linea Sez. 6, n. 31751 del 09/06/2015, Rv. 264461, Sez. 5, n. 20743 del 07/03/2014, Rv. 260402). Non è, dunque, innanzitutto, sufficiente allegare l'accensione di un mutuo per dimostrare la lecita provenienza della provvista necessaria a far fronte all'acquisto, occorrendo dimostrare la disponibilità di risorse sufficienti a sostenere il pagamento delle rate mensili. Si è, infatti, affermato che la presunzione relativa di illecita accumulazione, fondata sulla sproporzione dei beni confiscati e sull'assenza di prova della loro legittima provenienza, opera anche nel caso in cui l'acquisto del bene confiscato sia avvenuto mediante ricorso al credito bancario, posto che tale finanziamento deve essere rimborsato ed ha un costo, sicché è in relazione a tale onere finanziario che deve essere valutata l'eventuale incapienza di risorse lecite da parte del prevenuto e del suo nucleo familiare (Sez. 5, n. 33038 del 08/06/2017, terzi in proc. Valle, Rv. 271217). È anche il caso, in premessa, di precisare, che devono ritenersi generici i motivi che, come nella specie, a fronte della notevole sperequazione registrata, sia con valutazione complessiva che relativa alle singole annualità, non superata da idonea documentazione o da giustificazioni credibili circa la provenienza della provvista utilizzata per gli investimenti, si appuntano su argomenti astratti tendenti ad inficiare il metodo ricostruttivo adoperato senza un effettivo confronto con la ricostruzione svolta dai giudici di merito nelle conformi pronunce di primo e secondo grado (in particolare nel provvedimento del Tribunale, che ha espressamente affrontato il tema qui riproposto, rispetto al quale peraltro negli atti di appello, non immuni anch'essi da genericità, nulla di specifico veniva contro-dedotto, sicché il richiamo contenuto nel provvedimento impugnato a quello di primo grado, in parte qua, si è risolto in una risposta adeguata, tenuto conto della complessiva ricostruzione fatta propria dalla Corte di appello, senza che cisi sia tradotto in un'acritica adesione). 2. Il ricorso nell'interesse di Ce.Cr. L'unico motivo articolato è - oltre che meramente reiterativo di questione già svolta, peraltro, genericamente in appello - nel suo complesso aspecifico, non confrontandosi con le ragioni argomentative poste dalla Corte di appello a fondamento della sua decisione, e, in ogni caso, nessuna delle deduzioni che esso indica integra una violazione di legge, avendo in buona sostanza i giudici di merito dato conto, con motivazione non affatto apparente, delle ragioni per le quali dovesse ritenersi fittizia l'intestazione del bene in capo a tale terzo interessato, figlio adottivo del proposto. Innanzitutto, tenuto conto che le doglianze difensive ruotano intorno all'argomento della corretta ripartizione degli oneri probatori tra accusa e difesa, è il caso di precisare che il provvedimento impugnato non ha rigettato l'appello sul presupposto che il terzo interessato, Ce.Cr., non avesse adempiuto all'onere di allegazione riguardo alla natura delle somme che sarebbero confluite sul suo conto corrente, ma ha piuttosto valorizzato quanto ha costituito il frutto dell'accertamento svolto dal proponente, evidenziando come questi, attraverso le verifiche operate, fosse giunto alla conclusione che il denaro era comunque da ricondurre a soggetti privi di redditi idonei a giustificare le somme elargite; e a fronte di tali, certi, esiti di indagine, il ricorrente non ha contro-dedotto alcunché di specifico, né ha allegato, quanto meno prospettandoli, aspetti specifici idonei a configurare un'ipotesi alternativa di reddito da parte degli assunti terzi finanziatori. Il ricorrente si limita piuttosto a contestare come eccessivo l'onere probatorio imposto al terzo interessato assumendo che sullo stesso non incombesse nient'altro se non l'allegazione di somme rivenienti da soggetti terzi e non dal proposto; tuttavia, nel momento in cui l'accusa ha dimostrato che quelle somme non trovano giustificazione nei redditi di coloro che ebbero a conferirle al terzo interessato in questione, questi avrebbe dovuto procedere ad ulteriori allegazioni e non limitarsi ad assumere di avere già esaurito il proprio onere di adempimento; in mancanza di ci si è quindi, in buona sostanza, ritenuto, con motivazione nel suo complesso non affatto apparente, che l'acquisto del bene, stante il rapporto di parentela di Ce.Cr. col proposto e l'assenza, d'altro canto, dì alcun legame, invece, col presunto terzo finanziatore, Sa.An., fosse stato foraggiato dal proposto, l'unico ad avere disponibilità economica adeguata - in considerazione delle sue attività illecite - a coprine il costo. Una siffatta impostazione da parte del proponente, accolta dai giudici di merito, non può ritenersi in violazione di legge dal momento che affinché possa considerarsi il contributo del terzo finanziatore idoneo a spiegare la diversa natura della provvista dell'acquisto del terzo interessato, parente del proposto, è necessario che il terzo interessato, ove non dotato di redditi propri, alleghi una provvista idonea a giustificare l'apporto e ciò vieppiù allorquando, come nel caso di specie, il legame intercorre non col soggetto che avrebbe elargito, sine causa, il contributo (circostanza che rende già di per sé sospetta l'elargizione ove non supportata da adeguata indicazione della ragione giustificatrice della presunta donazione), ma appunto col proposto. Lo stesso ricorso, invero, parla di un'attribuzione a titolo di donazione ed assume che una siffatta imputazione dia adeguatamente conto della natura della provvista e della sua derivazione, laddove, come detto, è proprio l'origine di quei contributi a non trovare adeguata giustificazione secondo gli accertamenti svolti dall'accusa, non oggetto di specifica contestazione; e da ciò è derivata la conseguente svalutazione di quegli apporti ritenuti in definitiva non dimostrativi di alcunché. Sicché, per altro verso, si deve osservare che non è stata quindi la mancata dimostrazione del possesso di redditi leciti, da parte dei terzi finanziatori, ad indurre a ravvisare la intestazione fittizia in capo a Ce.Cr., quanto piuttosto la mancata allegazione da parte di questi, terzo interessato privo di redditi propri, di elementi idonei a suffragare la copertura dell'acquisto con mezzi diversi da quelli riconducibili agli introiti illeciti del proposto. In altri termini, l'allegazione di donazioni da parte di chi non era in grado di effettuarla, è stata, con argomenti congrui e non affatto in contrasto con lo spirito delle norme di cui si è denunciata la violazione, ritenuta ragione non idonea a superare la presunzione dell'intestazione fittizia del bene al figlio convivente del proposto non provvisto di mezzi propri (e ciò senza considerare che i giudici di merito hanno rilevato anche la genericità delle indicazioni/allegazioni relative alla entità delle somme oggetto di donazione). Tale impostazione non può ritenersi in contrasto con quanto affermato da questa Corte nella pronunciai Sez. 5, Sentenza n. 8984 del 19/01/2022, Rv. 283979 - 02 (che ha affermato che1in tema di misure di prevenzione patrimoniali, non può porsi a carico del terzo, ritenuto fittizio intestatario dei beni oggetto della richiesta di confisca, l'onere probatorio di dimostrazione della legittima provenienza delle risorse utilizzate per gli acquisti, non essendo egli, per definizione, il soggetto portatore di pericolosità, poiché il primo passaggio della dimostrazione della scissione tra titolarità formale del bene e impiego delle risorse spetta comunque alla pubblica accusa, che afferisce il caso del terzo interessato non familiare convivente del proposto, ed avendo in ogni caso, l'accusa, nella specie, indicato gli elementi che depongono per la inidoneità della giustificazione offerta a fronte della presunzione di legge esistente per il terzo familiare). Il motivo è dunque nel suo complesso, oltre che meramente reiterativo e generico, manifestamente infondato. 3. Il ricorso proposto nell'interesse dì Ce.St. e Is.Sh. 3.1. Quanto al primo motivo - di là dei profili di novità che esso presenta rispetto alle pur generiche deduzioni dell'appello che si appuntavano, comunque, sull'accertamento della pericolosità del proposto (qui non ulteriormente contestata) e non sui rilievi formulati in ricorso - si osserva che ai fini della confisca di prevenzione ciò che occorre accertare - ed è stato nel caso di specie oggetto di puntuale accertamento da parte dei giudici di merito nei conformi provvedimenti di primo e secondo grado - è la riferibilità al proposto - Ce.St. - di reati lucrogenetici che hanno prodotto, secondo quanto si riporta nel decreto impugnato, ingenti profitti, non essendo, invece, necessario stabilire uno specifico collegamento tra profitto illecito e singolo acquisto, perché ciche rileva è, piuttosto, la sproporzione esistente tra quanto acquistato e quanto introitato lecitamente; sicché è proprio quel divario esorbitante a cui fa riferimento il ricorso ad essere più che sufficiente per presumere che si siano fronteggiati gli acquisiti con proventi illeciti, rilevando la sproporzione di per sé e non in rapporto alla entità delle entrate illecite, non trattandosi di tracciare il reinvestimento del profitto illecito, ma di stabilire se, a fronte di accertata pericolosità generica, gli acquisti trovino una ragionevole giustificazione o rimangano in tutto o in parte privi di copertura lecita (d'altronde, la misura di prevenzione della confisca si applica - e nel caso di specie in tal senso è stata applicata - a coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi dì attività delittuose. Ed invero, si è al riguardo affermato che in tema di misure di prevenzione patrimoniale, con riferimento alla c.d. pericolosità generica dì cui all'art. 1, comma 1, lett. b), D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, la necessità di correlazione temporale tra pericolosità sociale del proposto ed acquisto dei beni presuppone l'accertamento del compimento di attività delittuose capaci di produrre reddito, Sez. 1, Sentenza n. 13375 del 20/09/2017, dep. 22/03/2018, Rv. 272702 - 01, non altro). Nel caso dì specie, a fronte della accertata pericolosità del proposto - si ripete, non messa in discussione in ricorso -, è proprio il notevole divario riscontrato tra entrate lecite e il valore dei beni che ha indotto a ritenere la provvista utilizzata per gli investimenti di matrice illecita; divario che peraltro non è stato ritenuto colmato neppure tenendo conto della copertura finanziaria dì terzi finanziatori - a loro volta privi di reddito sufficiente - la cui entità è rimasta in ogni caso dubbia e non specificamente indicata. Quanto poi alla doglianza che si appunta sul fatto che sì sarebbero fatte rientrare nella valutazione di sproporzione indiscriminatamente tutte le uscite e financo i pagamenti degli oneri tributari, per le deleghe f23 e f24, con somme ricevute dai clienti, la Corte di appello ha offerto puntuale risposta al riguardo osservando che risulta espressamente indicato nella proposta come il calcolo, censurato nei medesimi termini anche in appello, sia stato effettuato tenendo conto delle movimentazioni in uscita dai conti correnti, con espressa esclusione dei pagamenti per le deleghe F23 e F24. Quanto ai residui rilievi, essi attengono precipuamente ai beni formalmente intestati alla moglie del proposto, Is.Sh., sicché verranno affrontati nel prosieguo, allorquando si tratterà, qui di seguito, il secondo motivo di ricorso a lei dedicato. 3.2. II secondo motivo che, come detto, riguarda specificamente la posizione della Is.Sh., si appunta, in premessa, su aspetti della motivazione svolta nel provvedimento impugnato - così, ad esempio, la doglianza che lamenta la mancanza di prova della asserita collaborazione tra il proposto e la terza interessata - che non hanno un rilievo specifico ai fini della ricostruzione su cui si fonda l'impostazione dell'accusa; né il motivo ne indica la specifica rilevanza ai fini di un diverso esito decisorio. Quanto, poi, alle deduzioni che contestano la fittizietà delle intestazioni facendo leva sulla mancanza di prova della disponibilità dei beni da parte del proposto e sulla capacità economica della terza interessata, in considerazione delle liberalità intervenute in suo favore, soccorrono gli argomenti già spesi nell'analizzare il ricorso proposto nell'interesse dell'altro terzo interessato, Ce.Cr., trattandosi anche in tal caso di somme che si assumono erogate a titolo di donazione da parte di terzi finanziatori, risultati privi di redditi adeguati, senza che fossero stati peraltro esattamente, neppure, indicati gli importi che sarebbero nel tempo confluiti nella disponibilità della Is.Sh. (così in particolare per le somme che sarebbero state elargite da Sa.An. in virtù del presunto rapporto sentimentale che lo stesso avrebbe intrattenuto con la moglie del proposto, Is.Sh., sin dal 2010, della cui esistenza nei termini indicati dalla difesa i giudici di merito hanno fortemente dubitato, giungendo a ritenere inverosimile la versione offerta che fa risalire la relazione extraconiugale a tempi remoti e che tende a ricondurre, tout court, le elargizioni alla esistenza di tale relazione, a fronte delle cointeressenze di tipo economico, emerse tra i tre, che vedono Sa.An. piuttosto coinvolto anche nelle società formalmente intestate alla Is.Sh. e che sono state ritenute di fatto del proposto). Quanto, poi, al profilo dei mutui contratti (anche da terzi), si richiama tutto quanto in premessa osservato al riguardo, alla luce degli orientamenti espressi da questa Corte sul tema, precisando che nel caso di specie non si contesta che le rate siano state poi effettivamente pagate. In ordine alla prova della disponibilità dei beni da parte del proposto, di cu pure si lamenta la mancanza, la ricorrente trascura che la posizione del coniuge, dei figli e dei conviventi del proposto è del tutto distinta da quella degli altri terzi, in quanto nei confronti dei primi la disponibilità dei beni da parte del proposto è presunta, senza necessità di specifici accertamenti ex art. 26 D.Lgs. 159/1.1, a differenza di quanto richiesto per gli altri terzi, della cui interposizione fittizia, invece, devono risultare gli elementi di prova (Sez. 5, n. 8922/16 del 26 ottobre 2015, poli e altro, Rv. 266142; Sez. 1, n. 5184716 del 10 novembre 2015, Trubchaninova, Rv. 266247). Ne discende che la dimostrazione della insufficiente disponibilità economica del terzo finanziatore e la rilevata sproporzione, in negativo, dei redditi della ricorrente, risultante dagli accertamenti in atti come recepiti nei provvedimenti di merito, è stata correttamente ritenuta sintomatica della fittizietà dell'intestazione dei beni alla ricorrente, di fatto da ritenere nella disponibilità del proposto in quanto dal medesimo acquistati con proventi illeciti. In tema di misure di prevenzione patrimoniali, ai fini della confisca di cui all'art. 24 D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 è invero la disponibilità da parte del proposto di beni formalmente intestati a soggetti terzi non familiari conviventi - privi di risorse economiche proprie - a richiedere che siano acquisiti specifici elementi di prova del carattere fittizio dell'intestazione (Sez. 6, Sentenza n. 10063 del 11/01/2023, Rv. 284608 - 01), laddove per i beni nella titolarità del coniuge, dei figli e dei conviventi la disponibilità è legittimamente presunta senza la necessità di specifici accertamenti. In altri termini, il sequestro e la confisca di prevenzione possono avere ad oggetto i beni del coniuge, dei figli e degli altri conviventi, dovendosi in tal caso ritenere la sussistenza di una presunzione di "disponibilità" di tali beni da parte del prevenuto - senza necessità di specifici accertamenti - in assenza di elementi contrari anche al di fuori dei limiti posti dall'art. 26 D.Lgs. n. 159/2011 (Sez. 5, n. 8922/16 del 26/10/2015, Poli e altro, Rv. 266142; Sez. 6, n. 43446 del 15/06/2017, Cristodaro e altri, Rv. 271222). Tale principio presuppone la convivenza tra il proposto ed i familiari intestatari dei beni e sprovvisti di autonoma capacità economica, che deve essere positivamente dimostrata, ma tale prova ben può essere tratta anche su base logica, purché dotata di idonei fondamenti fattuali; e nel caso di specie, l'assunta separazione di fatto in epoca risalente contrasta con gli accertamenti svolti i cui esiti sono stati adeguatamente vagliati dai giudici di merito nei conformi provvedimenti di primo e secondo grado che danno conto di come i rapporti, di convivenza, tra il proposto e sua moglie Is.Sh. siano continuati nel tempo, dì là della presunta relazione sentimentale che la stessa avrebbe intrattenuto con Sa.An., risultando peraltro consolidati, in tutto l'arco temporale di interesse, non solo i rapporti personali tra la moglie e il proposto, ma anche quelli di tipo economico ed affaristico, essendo emerso il pieno coinvolgimento di entrambi - oltre che, in parte, dello stesso Sa.An. -, a vario titolo, nelle varie vicende societarie e patrimoniali che ebbero a involgere le vite dei predetti intrecciandole anche sotto il profilo degli affari. Sicché, per altro verso, si deve ritenere che alcuna inversione dell'onere della prova si è verificata avendo l'accusa dimostrato, secondo quanto adeguatamente motivato dal Tribunale, prima, e dalla Corte di appello, poi, non solo il rapporto esistente tra il proposto e la moglie, Is.Sh., ma anche la natura illecita della provvista adoperata per gli acquisti formalmente riferibili alla predetta, sicché non si può in alcun modo ritenere sussistente il vizio della motivazione apparente dedotto in ricorso (che quindi erroneamente lamenta che i beni del coniuge e dei figli sarebbero stati confiscati per il solo fatto del rapporto di parentela, ovvero dì una presunzione assoluta della loro intestazione fittizia). Ed invero, quanto all'assunto difetto della sproporzione - rispetto al quale il motivo è meramente reiterativo di questioni già indicate nei motivi di appello, che facevano anche lì in buona sostanza leva sulla consulenza tecnica del dr. Ni., già oggetto di puntuali e diffuse valutazioni nei conformi provvedimenti di merito - si deve rilevare che la sproporzione non è stata affatto valutata nei termini generici ed omnicomprensivi che assume la difesa definita, in ricorso, come mera sproporzione familiare -, avendo i giudici - in particolare quelli di primo grado cui competeva la specifica verifica - considerato anno per anno le varie sproporzioni in relazione agli introiti del proposto e della moglie ed affrontato anche lo specifico punto - qui nuovamente chiamato in causa - della provenienza di somme di denaro da terzi finanziatori, in particolare da Sa.An., che la difesa assume costituire idoneo elemento dimostrativo della liceità della provvista della terza interessata Is.Sh., pure in assenza di indicazione specifiche sui relativi importi e pure a fronte dell'accertata inidoneità reddituale del predetto a giustificare le elargizioni indicate. Non si tratta, dunque, come già sopra esposto, di paradossale necessità di dimostrare anche la capacità patrimoniale del terzo finanziatore, dal momento che è l'accusa ad aver dimostrato la mancanza di mezzi da parte dello stesso di far fronte a quegli esborsi in favore della Is.Sh. e delle società, e a fronte di ciò nulla sia è ulteriormente allegato. In ogni caso, per tutto quanto esposto, non si può affatto ritenere che sussista il vizio della motivazione mancante/apparente - come detto, unico vizio motivazionale azionabile in materia di misura di prevenzione come violazione di legge. Nel resto le doglianze svolte con il motivo in esame costituiscono la mera riproposizione delle censure proposte con il gravame di merito e debitamente già confutate dai giudici di merito nelle conformi pronunce di primo e secondo grado, con motivazione, unitariamente letta, con la quale il ricorrente nemmeno si è debitamente confrontato, ovvero degenerano nel fatto o denunziano meri vizi di motivazione, come detto indeducibili in questa sede, ovvero - ancora - denunciano questioni non oggetto di espressa censura in appello (così, ad esempio, per gli ulteriori profili argomentati con riferimento alle società e in particolar modo alla Crileofìlla). Si può nella presente sede solo precisare che la mancata citazione delle società in quanto tali deriva, verosimilmente, dall'applicazione dell'orientamento di legittimità pacificamente delineatosi nel corso degli anni sul tema, secondo cui, nel caso di confisca dell'intero capitale sociale di una società e dì beni formalmente intestati alla stessa, legittimati a costituirsi in giudizio, ai sensi dell'art. 23, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 2011, e a proporre impugnazione sono solo le persone fisiche titolari dei diritti nascenti dalle quote sociali e non, invece, la persona giuridica in quanto tale (Sez. 1, Sentenza n. 42238 del 18/05/2017, Mancuso, Rv. 270973; Sez. 1, Sentenza n. 35793 del 15/02/2019, Amodeo, Rv. 276939). In particolare, si è chiarito che, ad essere oggetto della procedura di prevenzione sono i beni riferibili, anche di fatto, al soggetto proposto, sicché, qualora si tratti di beni formalmente intestati a terzi/persone giuridiche, la procedura di prevenzione riguarda non già le persone giuridiche in quanto tali, ma le persone fisiche che, in quanto terzi apparenti titolari delle quote sociali incise dal provvedimento ablatorio, sono chiamate ad allegare elementi di prova contraria sul tema della "disponibilità" dei beni in capo al proposto (in tal senso, cfr. già Sez. 1, n. 48882 del 8/10/2013, Rv. 257605). La procedura di prevenzione è strumento con cui si tende a recuperare i beni di illecita provenienza, tendenzialmente frutto dell'attività "pericolosa" svolta dal proposto, svelando i meccanismi di eventuale intestazione fittizia (realizzati tramite persone fisiche o giuridiche); per questo, evidenzia la sentenza Mancuso, "i contraddittori naturali, in ipotesi di beni intestati a compagini societarie, sono .. i soggetti (persone fisiche) titolari dei diritti nascenti dalle quote sociali, incisi nella disponibilità immediata dei relativi diritti e nelle loro aspettative patrimoniali correlate alla 'proiezione' del valore delle quote sul patrimonio sociale oggetto di potenziale confisca. Gli organi amministrativi delle società sottoposte al vincolo non hanno, infatti, alcuna legittimazione ad agire in giudizio di prevenzione (non trattandosi di un procedimento teso ad irrogare sanzioni alla società, come quello previsto e regolamentato dal D.Lgs. n.231 del 2001)". In conclusione, le doglianze mosse dai ricorrenti - in parte coincidenti nell'impostazione e nei contenuti - avendo finito col sindacare, in assenza di violazioni di legge, la motivazione, azionando un vizio non deducibile in Cassazione allorquando si tratti di misure di prevenzione, sono, come sopra detto, proprio inammissibili. 3. Dalle ragioni esposte deriva pertanto la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di procedimento, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal medesimo atto impugnatorio, al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entità delle questioni trattate. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000 in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 12 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 20 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8844 del 2021, proposto da: Si. Me., rappresentato e difeso dall'avvocato Si. Le., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Or., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma: della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana Sezione Terza n. 00367/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 aprile 2024 il Consigliere Lorenzo Cordì e udito, per parte appellante, l'avvocato Si. Le.; Viste le conclusioni rassegnate dalle parti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il sig. Si. Me. ha appellato la sentenza n. 367/2021, con la quale il T.A.R. per la Toscana ha respinto il ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto avverso: i) il provvedimento prot. n. 1684 del 16.1.2016 con cui il Comune di (omissis) aveva respinto l'istanza di condono presentata dal dante causa dell'odierno appellante; ii) la comunicazione di avvio del procedimento per infrazione edilizia Id. 1091594 del 13.02.2016; iii) la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della domanda di condono; iv) ogni ulteriore atto presupposto o connesso; v) l'ordinanza di demolizione di opere abusive n. 66 del 27.7.2016. 2. In punto di fatto l'appellante ha esposto che: i) il provvedimento di reiezione del condono - assunto sulla base della normativa regionale attuativa del c.d. terzo condono - aveva riguardato un'istanza relativa a un intervento di ampliamento pari a mc 61,87 ed in termini di mq 30,54, con alcune modifiche interne ed esterne, inerenti al fabbricato oggetto della licenza edilizia n. 164 del 1974 volto a realizzare una nuova unità a destinazione residenziale in luogo delle parti destinate a pertinenze agricole; ii) con tale licenza il Comune di (omissis) aveva autorizzato "la costruzione di una casa colonica della consistenza di vani quattro più servizi destinati ad uso abitazione e di vani tre destinati ad uso agricolo"; iii). Il Comune aveva respinto la domanda di condono osservando che l'intervento aveva comportato la trasformazione dell'originario manufatto in un organismo integralmente diverso per dimensione e destinazione d'uso, come tale non suscettibile di condono ai sensi dell'art. 2 della L.r. n. 53/2004; iv) secondo il Comune, con la licenza edilizia n. 164/1974, era stata, chiaramente, distinta la volumetria destinata ad uso abitativo da quella destinata a rimessa agricola, e la porzione oggetto di condono aveva avuto una destinazione agricola; pertanto, il complessivo intervento aveva determinato un nuovo organismo edilizio, per effetto del cambio di destinazione d'uso, in contrasto con quanto previsto dall'art. 2, comma 1, lett. b), della L.r. n. 53/2004. 3. Il sig. Me. ha proposto ricorso al T.A.R. per la Toscana articolando quattro motivi. 3.1. Con il primo motivo ha dedotto che il Comune aveva autorizzato la costruzione di una casa colonica, ed era, quindi, irrilevante che vi erano tre vani pertinenziali utilizzati per l'attività agricola. Di conseguenza, l'opera di ampliamento oggetto della domanda di condono si sarebbe inserita nell'ambito dell'unica destinazione residenziale già assentita, e, quindi, la difformità sarebbe stata parziale e non integrale, e, quindi, suscettibile di condono. 3.2. Con il secondo motivo ha dedotto che il combinato disposto delle previsioni di cui all'art. 2, comma 1, lett. b), della L.r. n. 53/2004 e 3 della L.r. n. 52/1999, aveva consentito il condono delle "addizioni funzionali di nuovi elementi agli organismi edilizi esistenti", che non avessero configurato nuovi organismi edilizi; circostanza da escludersi nel caso di specie, in quanto l'originario manufatto era stata una casa colonica, e, quindi, un fabbricato a destinazione d'uso residenziale e non due unità immobiliari di cui una a destinazione abitativa e una a destinazione agricola. 3.3. Con il terzo motivo il sig. Me. ha dedotto che, anche ritenendo che l'originaria licenza avesse assentito un immobile a destinazione residenziale e l'altro a destinazione agricola, il mutamento di destinazione d'uso sarebbe stato suscettibile di condono ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. e), della L. r. n. 52/1999. 3.4. Con il quarto motivo il sig. Me. ha dedotto la sussistenza di una motivazione illogica e contraddittoria. 4. Il sig. Me. ha poi proposto ricorso per motivi aggiunti, impugnando l'ordinanza di demolizione emessa dal Comune dopo il diniego di condono. L'odierno appellante ha dedotto l'invalidità derivata dell'ordinanza e, comunque, la violazione, sotto plurimi profili, della disposizione di cui all'art. 196 della L.r. n. 65/2014, e delle disposizioni di cui agli art. 1, 3 e 10 della L. n. 241/1990. 5. Il T.A.R. per la Toscana ha respinto il ricorso, come integrato da motivi aggiunti, con motivazione che saranno esaminate nel prosieguo della presente sentenza. 6. Il sig. Me. ha proposto appello, reiterando, in sostanza, i motivi articolati a sostegno del ricorso introduttivo e del ricorso per motivi aggiunti. Si è costituto in giudizio il Comune di (omissis) chiedendo di respingere il ricorso in appello. In vista dell'udienza pubblica del 23.4.2024 il Comune ha depositato memoria conclusionali. Le parti hanno depositato memorie di replica. All'udienza del 23.4.2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 7. Passando alla disamina del ricorso in appello il Collegio osserva come i primi quattro motivi possano trattarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi. 8. Con il primo motivo il sig. Me. parte ha censurato il segmento di sentenza in cui il Giudice di primo grado ha respinto il primo motivo del ricorso introduttivo del giudizio, osservando che: i) la licenza edilizia rilasciata nel 1974 aveva previsto distintamente, con distinto computo di superficie e volumetria, il fabbricato destinato a civile abitazione e il fabbricato destinato a rimessa agricola, che anche nella planimetria allegata alla licenza edilizia erano stati rappresentati come parti distinte, collegate tra loro solo da un porticato; ii) nell'insieme le due unità avevano dovuto costituire una casa colonica (secondo la qualificazione data dal titolo edilizio), con la conseguenza che la realizzazione di un'abitazione al posto della rimessa agricola aveva determinato anche il venir meno della identificazione come "colonico" dell'edificio visto nel suo insieme (come aveva dimostrato la classificazione catastale A7 delle due unità immobiliari, trasformate in villini); iii) coerentemente con tali premesse, il condono aveva fatto riferimento ad una nuova unità residenziale e le due porzioni immobiliari erano state oggetto di distinti atti di donazioni e avevano distinti identificativi catastali; iv) pertanto, l'intervento realizzato aveva comportato la realizzazione di un nuovo organismo edilizio con difformità totale rispetto a quanto legittimamente assentito. 8.1. Parte appellante ha dedotto l'erroneità dell'assunto di partenza della sentenza di primo grado, consistente nella circostanza che la licenza edilizia del 1974 aveva assentito due unità immobiliari con differenti destinazioni d'uso. Secondo il sig. Me. questo postulato sarebbe stato erroneo in quanto: i) il titolo aveva fatto riferimento ad una "casa" colonica, intendendo - con l'uso della parola al singolare - un'unica unità immobiliare, destinata a funzione abitativa e munita di vani funzionali alla coltivazione del fondo; ii) il titolo, nel far riferimento ai vari vani, aveva fatto riferimento alla consistenza della casa colonica; iii) la destinazione d'uso doveva ritenersi quella prevalente del fabbricato o dell'unità immobiliare; iv) la casa colonica doveva, quindi, ritenersi un unico fabbricato con funzione residenziale, e, di conseguenza, il mutamento della destinazione di un vano avrebbe dovuto qualificarsi come una mera difformità parziale. 9. Con il secondo motivo la parte ha censurato la sentenza nella parte in cui ha respinto il secondo motivo del ricorso introduttivo, criticando la sentenza del giudice di primo grado ove aveva osservato: i) nel caso di specie vi sarebbe stata la creazione di un nuovo organismo edilizio e, dalla data di realizzazione del mutamento di destinazione indicata nella domanda di condono, si sarebbe potuto dedurre che l'originaria previsione del titolo non sarebbe stata mai attuata; ii) l'incremento volumetrico sarebbe stato pari a mc. 170, effettuando un confronto con la tabella allegata alla licenza edilizia; iii) non sarebbe stata condivisibile la deduzione del sig. Me., il quale aveva evidenziato che la volumetria indicata nella predetta tabella per la parte a destinazione agricola (mc. 237) era la volumetria da aggiungere alla volumetria preesistente pari a mc. 109, e, pertanto, la volumetria a destinazione agricola sarebbe stata pari a mc. 346; iv) infatti, dal prospetto allegato alla licenza edilizia si evinceva che nella zona di riferimento (zona F.1 del P.R.G.) la volumetria edificabile per rimessa agricola era pari a mc. 585,60 e che, detratto da tale importo il volume dei fabbricati agricoli già esistenti, pari a mc. 109, la volumetria massima assentibile per rimesse agricole era pari a mc. 476,6, superiore ai mc. 237 assentiti per la rimessa agricola di interesse della ricorrente; inoltre, le misurazioni del volume del fabbricato esistente, inserite nella tabella subito dopo l'indicazione del volume totale edificabile nella zona, servivano a dare contezza del rispetto dell'indice di edificabilità in ordine al progetto approvato; l'unità immobiliare a destinazione agricola non aveva, quindi, un volume corrispondente alla somma di mc. 237 e mc. 109, in quanto la licenza edilizia aveva fatto riferimento a una nuova casa colonica composta da due organismi edilizi collegati tra loro da un porticato, e non a un ampliamento costituito da volumetria aggiuntiva a quella preesistente. 9.1. Il sig. Me. ha censurato la sentenza richiamando, in primo luogo, le deduzioni contenute nel primo motivo e relative alla non configurabilità di un organismo edilizio integralmente diverso. In relazione all'incremento volumetrico il sig. Me. ha osservato che, nella domanda di condono, si era fatto riferimento ad un aumento di 61,87 mc., e tale dato era stato riportato anche dell'ufficio condono del Comune. Inoltre, il sig. Me. ha osservato che, nella tabella di calcolo allegata alla licenza edilizia, la volumetria assentita per la parte dell'unità immobiliare era stata pari a 237 mc. di nuovo volume, da aggiungersi ai 109 mc. di volume già esistente. 10. Con il terzo motivo il sig. Me. ha dedotto l'erroneità della sentenza di primo nella parte in cui ha escluso che il condono potesse autorizzarsi in caso di incremento volumetrico e cambio di destinazione d'uso. Secondo il Giudice di primo grado, la disposizione di cui all'art. 4, comma 1, lett. e), della L.r. n. 52/1999 non troverebbe applicazione in quanto, diversamente opinando, si sarebbe giunti alla illogica conclusione che l'ampliamento con cambio di destinazione d'uso, con creazione di nuovo organismo edilizio, sarebbe stato assentibile a differenza dell'ana ampliamento senza cambio di destinazione. 10.1. Il sig. Me. ha osservato come l'aspetto dirimente della controversia risiedesse nel verificare se si sia stati in presenza di una parziale o di una totale difformità ; nel primo caso il condono sarebbe stato assentibile anche a ritenere che le unità immobiliari fossero state due, tenuto conto del vincolo di pertinenzialità tra le stesse. 11. Con il quarto motivo il sig. Me. ha dedotto l'erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha respinto l'ultimo motivo del ricorso introduttivo, osservando che il Comune aveva assentito due distinte unità immobiliare, unite tra loro da un porticato, che, nell'insieme erano state qualificate come casa colonica. La modifica e l'ampliamento oggetto della domanda di condono avevano impresso a quella che era la casa colonica una nuova identità, che era quella propria di due villette contigue. Inoltre, l'intervento ricadente sull'ala del complesso edilizio a suo tempo autorizzato (costituito da porzione abitativa, porticato e porzione a destinazione agricola) si era tradotto in una completa modifica della destinazione d'uso e della conformazione della stessa. 11.1. Il sig. Me. ha evidenziato che la sentenza si era limitata a ribadire i precedenti argomenti senza tener conto delle deduzioni articolate nei primi tre motivi di ricorso, e volte a dimostrare che anche ipotizzando due unità immobiliari distinte (ma legate da nesso di pertinenzialità ) il condono sarebbe stato assentibile. 12. Prima di procedere ad esaminare il merito dei motivi di appello occorre vagliare la fondatezza dell'eccezione di inammissibilità articolata dalla difesa del Comune, secondo la quale la mancata impugnazione di un diniego di sanatoria del medesimo manufatto (nella cui istanza si era fatto esclusivamente riferimento al fabbricato di cui al mappale 1534) avrebbe determinato l'inammissibilità del primo motivo nella parte in cui si era sostenuto che la casa colonica sarebbe stata unica. 12.1. L'eccezione è infondata in quanto il diniego di sanatoria costituisce provvedimento amministrativo diverso da quello oggetto del presente giudizio e quanto rappresentato nell'istanza di accertamento di conformità non si traduce in una acquiescenza espressa o implicita al diniego di condono. 13. Procedendo ad esaminare il merito del ricorso in appello il Collegio precisa che verranno prese in considerazione le sole ragioni ostative indicate nel provvedimento di diniego e non anche ulteriori ragioni di incompatibilità dell'intervento oggetto dell'istanza di condono, sulle quali ha inteso soffermarsi la difesa comunale. Il riferimento è, in particolare, a quanto previsto dal P.R.G.C. del 1974 e dalla variante n. 36, su cui non si è, però, fondato il provvedimento di diniego, e che, in ipotesi, potranno essere approfonditi in sede di riedizione del potere, conseguente alla presente sentenza. Inoltre, la difesa comunale ha evidenziato come tale documentazione fosse reperibile sul sito web del Comune di (omissis). Tuttavia, non spetta al Collegio acquisire da siti internet documentazione non presente negli atti di causa e, come tale, non idonea a costituire un'evidenza che possa supportare il giudizio di questo Consiglio di Stato. 13.1. Operata tale precisazione si evidenzia come l'applicazione dei consolidati principi della giurisprudenza di questo Consiglio in ordine alla distinzione tra difformità totali o parziali (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 maggio 2023, n. 5090) debba, necessariamente, tener conto della peculiarità del titolo edilizio originariamente rilasciato e di quanto ivi assentito. La licenza del 1974 aveva, invero, abilitato la realizzazione di un organismo unitario, indicato come un "casa colonica", e distinta, espressamente, dal titolo in vani: quattro (più i servizi) erano destinati ad uso abitazione; tre erano, invece, destinati ad uso agricolo. L'opera assentita non consisteva, quindi, in due unità distinte ma in un unico organismo, funzionale alle esigenze abitative e lavorative del colono, o, comunque, del soggetto esercitante attività agricola. Questa unitarietà funzionale dell'intervento assentito non è, invero, obliterabile facendo riferimento al diverso computo di superficie e volumetria destinati ad uso abitativo e a rimessa agricola. Infatti, tale differente computo è, semplicemente, strumentale a definire le esatte dimensioni delle due porzioni che, necessariamente, compongono una casa colonica, la quale risponde, in parte, alle necessità abitative dell'agricoltore e, in altra parte, alle esigenze connesse alla propria attività . Muovendo da questo assunto non è, quindi, condivisibile la sentenza di primo grado che ritenuto che il titolo avesse, in sostanza, abilitato ex novo due distinte unità, obliterando, in tal modo, le caratteristiche della casa colonica (che legittimava in parte già un'unità abitativa residenziale). 13.2. Inoltre, il mutamento della destinazione della rimessa agricola ha, certamente, fatto venir meno l'identificazione come "colonica" dell'edificio (come affermato dal T.A.R.), ma questa considerazione non smentisce l'unitaria considerazione dell'immobile da parte del titolo edilizio ma, al contrario, implicitamente la conferma. Infatti, il riferimento alla perdita dei tratti distinti postula, logicamente, la previsione - ad opera di un titolo - di un organismo unitario (pur se composito), nel quale le due distinte destinazioni sono componenti essenziali proprio per l'identificazione della casa colonica. Inoltre, non può omettersi di osservare come la non unitarietà dell'organismo non possa essere desunta dall'abuso ma vada verificata solo in relazione al titolo. Diversamente opinando, la condotta illegittima postuma diverrebbe il parametro per valutare quanto assentito dal titolo, invertendo l'operazione che deve essere, invece, compiuta e che non può che muovere proprio dalla licenza del 1974. Inoltre, non hanno neppure rilievo i successivi atti di donazione e le classificazioni catastali anch'esse sopravvenute rispetto al titolo. Si tratta, infatti, di atti che hanno rilievo sul piano civilistico e tributario e che, comunque, non conferiscono significato all'originario titolo edilizio. 13.3. Alla luce delle considerazioni svolte deve ritenersi che la licenza del 1974 aveva autorizzato un organismo unitario, composto da strutture destinate in parte ad uso abitativo e in parte ad uso agricolo. Rispetto al titolo edilizio, l'abuso realizzato (consistente in un lieve incremento volumetrico e nel cambio di destinazione d'uso dei vani finalizzati a rimessa agricola) non è idoneo a costituire la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso (dovendosi tener conto della già esistente prevalente destinazione residenziale). La situazione di difformità ha riguardato, infatti, solo una modesta porzione del complesso immobiliare assentito - ed è su quella che deve appuntarsi la valutazione dell'amministrazione - e, quindi, non può ritenersi sussistenza una difformità integrale dell'organismo, come assentito dal titolo ma eventualmente un cambio di destinazione di uso con opere - costituenti una difformità parziale - da valutarsi alla luce della normativa condonistica o da reprimersi se del caso rispettando il principio di proporzionalità - in caso di rigetto del condono per motivi diversi da quelli qui scrutinati e riportabili all'art. 2 comma 3 della legge regionale n. 53 del 2004 - con una riduzione in pristino stato nei limiti di quanto assentito nel titolo originario (e non con una demolizione integrale come nel caso del provvedimento impugnato con motivi aggiunti in primo grado). La valutazione successiva - nella riedizione del potere - tenuto conto della zonizzazione agricola dovrà incentrarsi sull'art. 2 comma 2 lettera c) e comma 3 della legge regionale Toscana n. 53 del 2004. 13.4. Parimenti fondato è il secondo motivo di ricorso in appello in quanto, nel provvedimento impugnato, il Comune non ha contestato l'entità di incremento volumetrico contenuto nella relazione tecnica allegata al condono e, quindi, non ha posto a fondamento del diniego un eventuale superamento del limite di volumetria previsto dalla disposizione di cui all'art. 2 della L.r. n. 52/2004. 13.5. In ultimo, le considerazioni sin qui svolte consentono di ritenere fondati anche il terzo e il quarto motivo, sorretti, in sostanza, sul postulato tecnico-giuridico costituito dall'unitarietà dell'organismo autorizzato e dalla conseguente sussistenza di una difformità parziale. 14. In ragione di quanto esposto, il ricorso in appello deve essere in parte qua accolto e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere annullato il provvedimento di diniego, con obbligo dell'Amministrazione di provvedere ad un nuovo esame dell'istanza, nel rispetto del vincolo conformativo derivante dalla presente sentenza. 14.1. Inoltre, le considerazioni esposte consentono di accogliere il quinto motivo di ricorso in appello, fondato sull'illegittimità derivata dell'ordinanza di demolizione per i medesimi vizi articolati avverso il diniego di condono e riscontrati dal Collegio. L'accoglimento di tale motivo consente, invece, di assorbire le ulteriori censure articolate avverso l'ordinanza-ingiunzione (ff. 17-22 del ricorso in appello). 15. Le questioni esaminate e decise esauriscono la disamina dei motivi, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante; cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 settembre 2021, n. 6209; Id., 13 settembre 2022, n. 7949), con la conseguenza che gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 16. Le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere compensate ai sensi degli articoli 26 del codice del processo amministrativo e 92 del codice di procedura civile, come risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale 19 aprile 2018, n. 77, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di quest'ultima disposizione nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, da individuarsi nella peculiarità della vicenda e delle questioni esaminate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza del T.A.R. per la Toscana, accoglie il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, come integrato da motivi aggiunti, e annulla i provvedimenti impugnati. Compensa le spese di lite del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta da: FEDERICO SORRENTINO Presidente ORONZO DE MASI Consigliere GIACOMO MARIA STALLA Consigliere ANGELO MATTEO SOCCI Consigliere-Rel. LIBERATO PAOLITTO Consigliere Oggetto: imposta di registro Ud.13/02/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 33040/2019 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso lo studio dell’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO. (ADS80224030587) che la rappresenta e difende -ricorrente- contro DE ROSA TERESA, domiciliata ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato DI CESARE GABRIELLA (DCSGRL70R45E058N) -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. ABRUZZO n. 677/2019 depositata il 12/07/2019. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/02/2024 dal Consigliere ANGELO MATTEO SOCCI. FATTI DI CAUSA 1. De Rosa Teresa impugnava l’avviso di liquidazione dell’imposta fissa di registro in relazione ad un atto di liberalità nel quale il donante, riservandosi per sé, e dopo di sé al coniuge (che interveniva nell’atto e accettava) l’usufrutto attribuiva alle figlie la nuda proprietà degli immobili descritti nell’atto notarile; l’Agenzia delle entrate aveva ritenuto si configurassero due distinti negozi giuridici (uno il trasferimento della nuda proprietà e l’altro la donazione dell’usufrutto al coniuge sottoposto a condizione sospensiva della premorienza del donante). La Commissione tributaria provinciale di Teramo accoglieva il ricorso; la Commissione regionale dell’Abruzzo respingeva l’appello dell’Agenzia con la sentenza indicata in epigrafe. 2. Ricorre in cassazione l’Agenzia delle entrate con un unico motivo di ricorso. 3. Resiste con controricorso Teresa De Rosa (articolato in due motivi), rappresentando che il secondo negozio (la donazione dell’usufrutto alla moglie nell’ipotesi di premorienza del donante) configura non un diritto, ma una mera aspettativa che si concreta solo alla morte del donante (la stessa circolare n. 44/E 2011 prevede l’assenza di tassazione, registro, per gli atti di donazione). Per l’art. 25, del d.P.R. 131 del 1986 sussiste alternatività tra imposta di registro e imposta sulle successioni e donazioni. Conseguentemente per la registrazione degli atti contenenti una o più disposizioni di donazione, di valore inferiore alla franchigia, non deve essere corrisposta l’imposta di registro. La donazione dell’usufrutto dopo di sé al coniuge non supera certamente la franchigia delle imposte di successione e donazione. Inoltre, le Agenzie delle entrate di altre Città dell’Abruzzo e quella Di Santa Maria Capua Vetere, non applicano a negozi simili l’imposta di registro fissa. Ha chiesto, pertanto, il rigetto del ricorso dell’Agenzia delle entrate. 4. La Procura generale, sostituto procuratore generale Carmelo CELENTANO, ha depositato memoria con conclusioni, ribadite in udienza, di accoglimento del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con l’unico motivo l’Agenzia delle entrate denuncia violazione di legge (art. 11, 21 e 27 del d.P.R. 26/04/1986, n. 131 e 60, d. lgs. del 31/10/1990 n. 346, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.). Il ricorso è fondato e la sentenza impugnata deve cassarsi, con la decisione nel merito da parte di questa Corte di legittimità. non essendo necessari accertamenti di fatto (art. 384, secondo comma, cod. proc. civ.). L’atto con il quale il donante trasferisce la nuda proprietà riservandosi l’usufrutto e dopo la sua morte l’usufrutto ad altra persona (nel caso il coniuge), configura due distinti negozi di donazione: il primo la donazione della nuda proprietà, il secondo la donazione dell’usufrutto, sottoposta alla condizione sospensiva della premorienza (del donante al donatario): «Mentre la donazione con riserva di usufrutto in favore del donante configura un negozio unitario, avente ad oggetto il trasferimento immediato della nuda proprietà ed, a termine, il trasferimento dei diritti corrispondenti all'usufrutto, mantenuti temporaneamente dal donante, la donazione con riserva di usufrutto in favore di un terzo dà luogo a due distinti negozi: un trasferimento della nuda proprietà in favore del donatario, ed un'offerta di donazione dell'usufrutto in favore del terzo, improduttiva di effetti fino a che non intervenga l'accettazione del terzo medesimo, prima della morte del costituente, nella prescritta forma dell'atto pubblico. Da tanto consegue che, qualora il donante riservi l'usufrutto sui beni donati a proprio vantaggio e, dopo di lui, a vantaggio di un terzo, come consentito dall'art 796 cod. civ, il donatario della nuda proprietà acquista il pieno dominio alla cessazione dell'usufrutto del donante, se il terzo riservatario non abbia accettato prima della morte del donante stesso; consegue altresì la non configurabilità di una riserva di usufrutto in favore di un soggetto non determinato al momento della donazione, ma da nominarsi con testamento, stante l'inammissibilità di un'offerta contrattuale in favore di persona indeterminata, e comunque l'impossibilita del perfezionamento della donazione dell'usufrutto, con l'accettazione da parte del donatario dell'offerta del donante, prima della morte di quest'ultimo» ( V 2609/54; Sez. 2, Sentenza n. 2899 del 24/07/1975, Rv. 376943 – 01; vedi anche Sez. 2, Sentenza n. 7710 del 19/04/2016, Rv. 639450 - 01). L’atto contenente la donazione dell’usufrutto (nel caso in giudizio, peraltro, con accettazione della beneficiaria) è soggetto alla tassa fissa di registro, come ritenuto da questa Corte di Cassazione con giurisprudenza costante («In tema di imposta sulle donazioni, in presenza di donazione con riserva (accettata) di usufrutto a favore di un terzo, deve essere ravvisata la sussistenza di due distinti atti di liberalità, suscettibili di essere separatamente ed autonomamente sottoposti ad imposizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 55 e 56, secondo comma, d.lgs. 31 ottobre 1990, n.346, e, in virtù del rinvio operato dall'art. 55, primo comma, d.lgs. cit., degli artt.20 e 21 d.P.R. 26 aprile 1986, n.131» Sez. 5, Sentenza n. 2980 del 27/02/2003, Rv. 560754 – 01; vedi anche Sez. 5, Sentenza n. 3407 del 08/03/2002, Rv. 552927 – 01 e Sezione Tributaria del 2/03/2009 n. 4984, ric. Uva e altri, non massimata). La controricorrente deve condannarsi alle spese del grado di legittimità; le spese dei giudizi di merito, in una valutazione complessiva del processo, possono compensarsi interamente. … P.Q.M. Accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del giudizio proposto dalla contribuente; Condanna la controricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore della ricorrente, che liquida in euro 900,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito. Compensa le spese dei giudizi di merito. Così deciso in Roma, il 13/02/2024. Il Consigliere estensore Il Presidente Angelo Matteo SOCCI FEDERICO SORRENTINO
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta da: FEDERICO SORRENTINOPresidente ORONZO DE MASIConsigliere GIACOMO MARIA STALLAConsigliere ANGELO MATTEO SOCCIConsigliere-Rel. LIBERATO PAOLITTOConsigliere Oggetto: *IRPEF ILOR ACCERTAMENTO Ud.13/02/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 8200/2020 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587) che la rappresenta e difende -ricorrente- contro DE ROSA TERESA, domiciliata ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato DI CESARE GABRIELLA (DCSGRL70R45E058N) -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. ABRUZZO n. 902/2019 depositata il 29/10/2019. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/02/2024 dal Consigliere ANGELO MATTEO SOCCI. FATTI DI CAUSA 1. De Rosa Teresa impugnava l’avviso di liquidazione dell’imposta fissa di registro in relazione ad un atto di liberalità nel quale il donante, riservandosi per sé, e dopo di sé al coniuge (che interveniva nell’atto e accettava) l’usufrutto attribuiva alle figlie la nuda proprietà degli immobili descritti nell’atto notarile; l’Agenzia delle entrate aveva ritenuto si configurassero due distinti negozi giuridici (uno il trasferimento della nuda proprietà e l’altro la donazione dell’usufrutto al coniuge sottoposto a condizione sospensiva della premorienza del donante). La Commissione tributaria provinciale di Teramo accoglieva il ricorso; la Commissione regionale dell’Abruzzo respingeva l’appello dell’Agenzia con la sentenza indicata in epigrafe. 2. Ricorre in cassazione l’Agenzia delle entrate con un unico motivo di ricorso. 3. Resiste con controricorso Teresa De Rosa (articolato in due motivi), rappresentando che il secondo negozio (la donazione dell’usufrutto alla moglie nell’ipotesi di premorienza del donante) configura non un diritto, ma una mera aspettativa che si concreta solo alla morte del donante (la stessa circolare n. 44/E 2011 prevede l’assenza di tassazione, registro, per gli atti di donazione). Per l’art. 25, del d.P.R. 131 del 1986 sussiste alternatività tra imposta di registro e imposta sulle successioni e donazioni. Conseguentemente per la registrazione degli atti contenenti una o più disposizioni di donazione, di valore inferiore alla franchigia, non deve essere corrisposta l’imposta di registro. La donazione dell’usufrutto dopo di sé al coniuge non supera certamente la franchigia delle imposte di successione e donazione. Inoltre, le Agenzie delle entrate di altre Città dell’Abruzzo e quella Di Santa Maria Capua Vetere, non applicano a negozi simili l’imposta di registro fissa. Ha chiesto, pertanto, il rigetto del ricorso dell’Agenzia delle entrate. 4. La Procura generale, sostituto procuratore generale Carmelo CELENTANO, ha depositato memoria con conclusioni, ribadite in udienza, di accoglimento del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con l’unico motivo l’Agenzia delle entrate denuncia violazione di legge (art. 11, 21 e 27 del d.P.R. 26/04/1986, n. 131 e 60, d. lgs. del 31/10/1990 n. 346, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.). Il ricorso è fondato e la sentenza impugnata deve cassarsi, con la decisione nel merito da parte di questa Corte di legittimità. non essendo necessari accertamenti di fatto (art. 384, secondo comma, cod. proc. civ.). L’atto con il quale il donante trasferisce la nuda proprietà riservandosi l’usufrutto e dopo la sua morte l’usufrutto ad altra persona (nel caso il coniuge), configura due distinti negozi di donazione: il primo la donazione della nuda proprietà, il secondo la donazione dell’usufrutto, sottoposta alla condizione sospensiva della premorienza (del donante al donatario): «Mentre la donazione con riserva di usufrutto in favore del donante configura un negozio unitario, avente ad oggetto il trasferimento immediato della nuda proprietà ed, a termine, il trasferimento dei diritti corrispondenti all'usufrutto, mantenuti temporaneamente dal donante, la donazione con riserva di usufrutto in favore di un terzo dà luogo a due distinti negozi: un trasferimento della nuda proprietà in favore del donatario, ed un'offerta di donazione dell'usufrutto in favore del terzo, improduttiva di effetti fino a che non intervenga l'accettazione del terzo medesimo, prima della morte del costituente, nella prescritta forma dell'atto pubblico. Da tanto consegue che, qualora il donante riservi l'usufrutto sui beni donati a proprio vantaggio e, dopo di lui, a vantaggio di un terzo, come consentito dall'art 796 cod. civ, il donatario della nuda proprietà acquista il pieno dominio alla cessazione dell'usufrutto del donante, se il terzo riservatario non abbia accettato prima della morte del donante stesso; consegue altresì la non configurabilità di una riserva di usufrutto in favore di un soggetto non determinato al momento della donazione, ma da nominarsi con testamento, stante l'inammissibilità di un'offerta contrattuale in favore di persona indeterminata, e comunque l'impossibilita del perfezionamento della donazione dell'usufrutto, con l'accettazione da parte del donatario dell'offerta del donante, prima della morte di quest'ultimo» ( V 2609/54; Sez. 2, Sentenza n. 2899 del 24/07/1975, Rv. 376943 – 01; vedi anche Sez. 2, Sentenza n. 7710 del 19/04/2016, Rv. 639450 - 01). L’atto contenente la donazione dell’usufrutto (nel caso in giudizio, peraltro, con accettazione della beneficiaria) è soggetto alla tassa fissa di registro, come ritenuto da questa Corte di Cassazione con giurisprudenza costante («In tema di imposta sulle donazioni, in presenza di donazione con riserva (accettata) di usufrutto a favore di un terzo, deve essere ravvisata la sussistenza di due distinti atti di liberalità, suscettibili di essere separatamente ed autonomamente sottoposti ad imposizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 55 e 56, secondo comma, d.lgs. 31 ottobre 1990, n.346, e, in virtù del rinvio operato dall'art. 55, primo comma, d.lgs. cit., degli artt.20 e 21 d.P.R. 26 aprile 1986, n.131» Sez. 5, Sentenza n. 2980 del 27/02/2003, Rv. 560754 – 01; vedi anche Sez. 5, Sentenza n. 3407 del 08/03/2002, Rv. 552927 – 01 e Sezione Tributaria del 2/03/2009 n. 4984, ric. Uva e altri, non massimata). La controricorrente deve condannarsi alle spese del grado di legittimità; le spese dei giudizi di merito, in una valutazione complessiva del processo, possono compensarsi interamente. … P.Q.M. Accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del giudizio proposto dalla contribuente; Condanna la controricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore della ricorrente, che liquida in euro 900,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito. Compensa le spese dei giudizi di merito. Così deciso in Roma, il 13/02/2024. Il Consigliere estensore Il Presidente Angelo Matteo SOCCI FEDERICO SORRENTINO
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERTUZZI Mario - Presidente Dott. PICARO Vincenzo - Consigliere Dott. VARRONE Luca - Consigliere Dott. OLIVA Stefano - Consigliere Dott. TRAPUZZANO Cesare - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso (iscritto al N.R.G. 5701/2019) proposto da: Fr.An.(C.F.: omissis), in proprio e quale erede di Fr.Os., rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dall'Avv. Ra.Ri. e, giusta procura in calce alla comparsa di costituzione di nuovo difensore in aggiunta del precedente, dall'Avv. Ba.Se., elettivamente domiciliata ex lege in Roma, piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di cassazione; - ricorrente - contro Ro.Ma. (C.F.: omissis), rappresentata e difesa, giusta procura in calce al controricorso, dall'Avv. Gi.Ai., elettivamente domiciliata ex lege in Roma, piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di cassazione; - controricorrente - nonché Fr.Pi. (C.F.: omissis), Fr.Gi.(C.F.: omissis) e Fr.Da.(C.F.: omissis); - intimati - avverso la sentenza della Corte d'appello di Napoli n. 3896/2018, pubblicata il 1° agosto 2018, notificata il 5 dicembre 2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 9 aprile 2024 dal Consigliere relatore Cesare Trapuzzano; viste le conclusioni rassegnate nella memoria depositata dal P.M., in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Carmelo Celentano, che ha chiesto il rigetto del ricorso, seppure con diversa motivazione; conclusioni ribadite nel corso dell'udienza pubblica; lette le memorie illustrative depositate nell'interesse della controricorrente, in ragione dell'originaria fissazione dell'adunanza camerale non partecipata, ai sensi dell'art. 380-bis, secondo comma, c.p.c. vigente ratione temporis, e nell'interesse della ricorrente, in ragione della successiva fissazione dell'udienza pubblica, ai sensi dell'art. 378, secondo comma, c.p.c.; richiamata la precedente ordinanza interlocutoria n. 2995/2020, depositata il 7 febbraio 2020, all'esito della camera di consiglio non partecipata del 16 gennaio 2020, di rimessione alla pubblica udienza; sentiti, in sede di discussione orale all'udienza pubblica, gli Avv.ti Ba.Se. per la ricorrente e Gi.Ai. per la controricorrente. FATTI DI CAUSA 1.- Co.Al., Co.Eg., Co.Ri., Co.Ir., Co.Pi. e Co.Ad., con atto di riassunzione proposto a seguito della cancellazione della causa dal ruolo, convenivano, davanti al Tribunale di Napoli, Fr.Os. e Ro.Ma., al fine di sentire dichiarare che Fr.Os. aveva impedito agli attori l'accesso nell'unità immobiliare sita in N, via Mon n. (omissis), identificata come unità B, con la conseguente condanna a consentire l'accesso, oltre al risarcimento dei danni per il mancato godimento, nonché allo scopo di accertare che il medesimo Fr.Os., alienando l'immobile in favore di Ro.Ma., aveva violato la disposizione sul retratto successorio. Il giudizio era interrotto a seguito della morte di Fr.Os. ed era riassunto da Ro.Ma. Nel medesimo giudizio spiegavano intervento volontario Fr.An.e Mi.An., per sentire dichiarare la simulazione dell'atto pubblico del 9 luglio 2004, con cui Fr.Os. aveva venduto, in favore della nipote Ro.Ma., la proprietà dell'immobile sito in via Mo n. (omissis). Con separato atto di citazione notificato il 7 aprile 2010, Fr.An.conveniva, davanti al Tribunale di Napoli, Ro.Ma., Fr.Pi., Fr.Gi.e Fr.Da., chiedendo che fosse dichiarata la nullità della vendita dell'immobile conclusa il 9 luglio 2004 per l'incommerciabilità del bene o, comunque, che fosse dichiarata la sua simulazione assoluta o relativa, con la conseguente riduzione per lesione di legittima della donazione dissimulata. I due giudizi erano riuniti e, all'esito, erano assunte le prove costituende ammesse. Quindi, il Tribunale adito, con sentenza n. 10883/2014, depositata l'11 luglio 2014, rigettava le domande proposte dai Co., rigettava le domande proposte da Fr.An.in via principale e con l'intervento volontario spiegato unitamente a Mi.An., dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale proposta da Fr.Pi., Fr.Gi.e Fr.Da.nei confronti di Fr.An.e ordinava al conservatore di procedere alla cancellazione della trascrizione della domanda. 2.- Proponeva appello Fr.An., chiedendo, in via principale, che fosse dichiarata la nullità dell'atto pubblico di vendita per l'incommerciabilità del bene ovvero che fosse accertata la sua simulazione assoluta, con la conseguente condanna di Ro.Ma. al rilascio immediato dell'immobile oggetto dell'atto traslativo in favore degli eredi di Fr.Os.; in via subordinata, che - all'esito dell'accertamento della simulazione relativa, con la dissimulazione di una donazione -fosse dichiarato che tale donazione aveva determinato la lesione della quota di legittima cui l'istante aveva diritto e, per l'effetto, che fosse disposta la riduzione della donazione per il valore accertato, con la condanna di Ro.Ma. alla restituzione del compendio immobiliare o di una frazione di esso o al pagamento delle somme necessarie alla reintegrazione della quota riservata alla legittimaria istante. Si costituiva nel giudizio di impugnazione Ro.Ma., la quale concludeva per il rigetto del gravame. All'esito dell'integrazione del contraddittorio si costituiva altresì Mi.An., il quale aderiva alle conclusioni rassegnate dall'appellante. Rimanevano contumaci, invece, Co.Al., Co.Eg., Co.Ri., Co.Ir., Co.Pi. e Co.Ad. nonché Fr.Pi., Fr.Gi.e Fr.Da. Decidendo sul gravame interposto, la Corte d'appello di Napoli, con la sentenza di cui in epigrafe, rigettava l'appello proposto da Fr.An.contro Ro.Ma. mentre accoglieva l'appello proposto contro Fr.Pi., Fr.Gi.e Fr.Da., compensando interamente tra tali parti le spese del giudizio di prime cure. A sostegno dell'adottata pronuncia la Corte di merito rilevava per quanto di interesse in questa sede: a) che, secondo la ricostruzione del Tribunale, Fr.An., con la scrittura non disconosciuta del 12 ottobre 2004, sottoscritta a distanza di pochi mesi dalla compravendita contestata, aveva dichiarato testualmente di approvare la vendita incondizionatamente, rinunciando a qualsiasi opposizione sia alla vendita degli immobili che alle condizioni ivi stabilite, sicché tale dichiarazione integrava una palese e preventiva rinuncia alla pretesa in questa sede azionata con la proposizione dell'azione di simulazione, intendendo l'istante così abdicare al diritto che le derivava dalla qualità di potenziale successore dell'alienante in ordine alla contestazione dell'atto dispositivo; b) che nulla vietava a Fr.Os. di vendere i propri beni monetizzandone il controvalore, sicché l'interesse di Fr.An., figlia e quindi potenziale successore dell'alienante, era insorto per effetto della stipulazione dell'atto di cui si richiedeva l'accertamento della simulazione assoluta e non già all'esito del decesso dell'alienante; c) che, d'altronde, l'art. 557 c.c. si riferiva alla diversa ipotesi delle donazioni e delle altre disposizioni aventi carattere di liberalità, quali atti che giustificavano la proposizione dell'azione di riduzione da parte dei legittimari pretermessi o pregiudicati o dei loro eredi o aventi causa, regolando un'ipotesi affatto diversa da quella della vendita del bene e, quindi, della contestazione dell'effettiva esistenza di quella vendita; d) che doveva essere condiviso l'assunto del Tribunale secondo cui l'atto di disposizione era percepito come effettivamente voluto dall'alienante ed, inoltre, la circostanza che le parti avessero avvertito l'esigenza di consacrare per iscritto il loro impegno a non contestare in futuro il negozio si spiegava, non già come indice sintomatico del carattere simulato dell'atto stesso, ma, con ogni probabilità, in considerazione dei numerosi contrasti insorti nel contesto familiare circa la gestione dei beni di Fr.Os. e dei debiti in capo allo stesso maturati; e) che il riferimento ad una vendita solo fittizia era assolutamente non dimostrato e prima ancora frutto di allegazioni tutt'altro che perspicue, oltre che non illustrate compiutamente negli elementi atti a suffragarle; f) che Fr.An.aveva rinunciato a far valere contestazioni sulle condizioni ivi previste in merito al valore assegnato ai beni, anche sulla base delle valutazioni espresse in quel contesto e nel precedente contratto preliminare del 17 giugno 2004 nonché delle ragioni diffusamente precisate, per le quali, a fronte di un valore complessivo del compendio indicato in un miliardo e mezzo di vecchie lire, le parti erano giunte a quantificare il corrispettivo nella minor somma pari ad euro 416.000,00, poi riportata nel rogito notarile; g) che, in conseguenza, doveva ritenersi che l'effetto di trasmettere la proprietà in capo a Ro.Ma. era effettivamente voluto; h) che neanche poteva essere accolta la domanda subordinata di accertamento della simulazione relativa, ai fini di dichiarare che l'atto di vendita dissimulasse una donazione lesiva dei diritti di legittimaria dell'appellante e, quindi, ai fini della riduzione, in quanto, a mente dell'art. 564 c.c., occorreva che la Fr.An. avesse accettato l'eredità con beneficio d'inventario, circostanza che non era stata provata, avendo la medesima Fr.An. prodotto documentazione che dimostrava solo l'accettazione con beneficio d'inventario della sorella Fr.Pi.; i) che doveva essere esclusa l'efficacia estensiva automatica dell'accettazione con beneficio d'inventario, né poteva richiamarsi l'art. 564 c.c., posto che la Ro.Ma. non era chiamata come erede, se non in via potenziale; l) che, peraltro, il legittimario che avesse inteso chiedere la riduzione delle donazioni lesive aveva l'onere di allegare e provare gli elementi occorrenti per stabilire la lesione, circostanza insussistente nel caso in esame. 3.- Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, Fr.An. Ha resistito con controricorso Ro.Ma. Sono rimasti intimati Fr.Pi., Fr.Gi.e Fr.Da. 4.- La controricorrente ha presentato memoria illustrativa in ragione della fissazione dell'adunanza camerale. Con ordinanza interlocutoria n. 2995/2020, depositata il 7 febbraio 2020, all'esito della camera di consiglio non partecipata del 16 gennaio 2020, la causa è stata rimessa alla pubblica udienza. Il Pubblico Ministero ha depositato memoria ex art. 378, primo comma, c.p.c., in cui ha rassegnato le conclusioni trascritte in epigrafe. All'esito, la ricorrente ha depositato memoria illustrativa, ai sensi dell'art. 378, secondo comma, c.p.c. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 557 c.c., per avere la Corte di merito disatteso l'accertamento della simulazione assoluta dell'atto di vendita del 9 luglio 2004 esclusivamente in ragione del documento sottoscritto dalla Fr.An. in data 12 ottobre 2004, con la quale la stessa dichiarava di approvare la vendita incondizionatamente, rinunciando preventivamente al proprio diritto sull'immobile trasferito dal padre alla Ro.Ma., benché i legittimari non potessero rinunciare al diritto di riduzione delle donazioni e delle disposizioni lesive della quota di legittima finché fosse rimasto in vita il donante, né con dichiarazione espressa, né prestando il loro assenso alla donazione. Al riguardo, l'istante obietta che la norma evocata avrebbe trovato applicazione, oltre che alle donazioni, anche a tutte le altre disposizioni lesive della porzione di legittima, non prevedendo dunque alcuna clausola di esclusività a favore degli atti di liberalità. 1.1.- Il motivo è infondato. E ciò perché l'approvazione incondizionata della vendita del 9 luglio 2004 (stipulata in attuazione dell'obbligo assunto con il preliminare del 17 giugno 2004), come da scrittura privata del 12 ottobre 2004, non integra un patto successorio e, in specie, non implica una rinuncia preventiva alla riduzione delle donazioni. Ora, è nulla, per contrasto con il divieto di cui agli artt. 458 e 557 c.c., la transazione conclusa da uno dei futuri eredi, allorquando sia ancora in vita il de cuius, con la quale egli rinunci ai diritti vantati, anche quale legittimario, sulla futura successione, ivi incluso il diritto a fare accertare la natura simulata degli atti di alienazione posti in essere dall'ereditando perché idonei a dissimulare una donazione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 366 del 05/01/2024; Sez. 6-2, Ordinanza n. 15919 del 15/06/2018). Sicché l'art. 557, secondo comma, c.c. vieta la rinuncia da parte del coerede al diritto a che la donazione effettuata dal de cuius all'altro coerede (o in favore di un terzo) sia sottoposta alla riunione fittizia ed alla eventuale successiva riduzione in caso di lesione di legittima, finché viva il donante (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2327 del 16/08/1963; Sez. 2, Sentenza n. 1913 del 18/07/1962). Secondo la ricostruzione della sentenza impugnata, nella fattispecie, invece, Fr.An., con la scrittura non disconosciuta del 12 ottobre 2004, sottoscritta a distanza di pochi mesi dalla compravendita contestata del 9 luglio 2004, aveva dichiarato testualmente di approvare la vendita incondizionatamente, rinunciando a qualsiasi opposizione sia alla vendita degli immobili che alle condizioni ivi stabilite, sicché tale dichiarazione avrebbe determinato una palese e preventiva rinuncia alla pretesa azionata con la proposizione dell'azione di simulazione. Si è trattato, pertanto, dell'approvazione di una vendita, con lo scambio tra l'immobile emarginato e il corrispettivo pattuito, e non già di una donazione lesiva della quota di legittima. La Corte territoriale ha altresì aggiunto che l'istante aveva inteso così abdicare al diritto che le derivava dalla qualità di "potenziale successore" dell'alienante in ordine alla contestazione dell'atto dispositivo e, in particolare, all'uscita del cespite dal patrimonio immobiliare dell'alienante all'esito di un atto traslativo a titolo oneroso. Orbene, il divieto di rinuncia preventiva - a cura dei legittimari o dei loro eredi o aventi causa -, di cui all'art. 557, secondo comma, c.c., si riferisce al solo diritto alla riduzione delle donazioni e delle disposizioni lesive della porzione di legittima e non già delle vendite. Nella specie, è stato invero accertato che Fr.Os. e Ro.Ma. avevano effettivamente concluso un atto di vendita del bene sito in via Mo n. (omissis), in ordine al quale le parti erano giunte a quantificare il corrispettivo nella minor somma (rispetto al valore stimato di vecchie lire un miliardo) pari ad euro 416.000,00, poi riportata nel rogito notarile (valore approvato con la citata scrittura privata a cura delle figlie dell'alienante Fr.An.e Fr.Pi.e della nuora Io.Ma., moglie del figlio premorto Fr.Br.), in quanto effettivamente versato (come da richiamo agli assegni versati e alla lista movimenti sul conto corrente intestato all'alienante). In conseguenza, la Corte di merito ha ritenuto che l'effetto consistente nella trasmissione della proprietà in capo a Ro.Ma. fosse stato realmente voluto. Né la menzionata approvazione postuma dell'atto di vendita può essere qualificata, a rigore, come una rinuncia preventiva a far valere la simulazione assoluta del negozio, posto che la sentenza impugnata non ha utilizzato tale dato documentale ai fini di ritenere a priori inammissibile la domanda simulatoria proposta, bensì quale elemento probatorio rafforzativo dell'effettiva ricorrenza dell'operazione negoziale (e, dunque, dello scambio tra il trasferimento dell'immobile e la corresponsione del prezzo) e non già della sua natura fittizia. E questo benché sia stato impropriamente evidenziato che l'interesse di Fr.An., figlia e quindi potenziale successore dell'alienante, fosse insorto per effetto della stipulazione dell'atto medesimo di cui si richiedeva l'accertamento della simulazione assoluta e non già all'esito del decesso dell'alienante (e nella fattispecie, in effetti, l'azione di simulazione è stata proposta dopo il decesso di Fr.Os.). Per contro, la legittimazione del terzo ex art. 1415, secondo comma, c.c. è indissolubilmente legata al pregiudizio di un diritto conseguente alla simulazione (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 19149 del 14/06/2022; Sez. 2, Sentenza n. 29923 del 30/12/2020; Sez. 2, Sentenza n. 4023 del 21/02/2007; Sez. 2, Sentenza n. 6651 del 30/03/2005). Pertanto, poiché al figlio non spetta alcun diritto sul patrimonio del genitore prima della morte e della accettazione dell'eredità dello stesso neppure in quanto legittimario, data la non configurabilità di una lesione di legittima in ordine ad un patrimonio non ancora relitto, deve escludersi la legittimazione del figlio a far valere la simulazione di una compravendita intercorsa tra il genitore, tuttora in vita, ed un altro soggetto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2968 del 27/03/1987). 2.- Con il secondo motivo la ricorrente contesta, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 510 c.c. e 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale rigettato la domanda di simulazione relativa dell'atto di vendita, con la conseguente azione di riduzione della donazione, sulla base della mancata accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario da parte della ricorrente, senza tenere in considerazione la dichiarazione di accettazione dell'eredità con il beneficio a cura della sorella Fr.Pi., di cui avrebbe beneficiato anche l'istante, partecipando alle successive operazioni di inventario. Osserva, sul punto, l'istante che la volontà di giovarsi di tale forma di accettazione non esigeva il rispetto delle forme indicate dall'art. 484 c.c., tanto più che la circostanza era stata ammessa dalla stessa Ro.Ma. nella propria comparsa conclusionale, senza alcuna contestazione. 2.1.- Il motivo è inammissibile. Esso, infatti, non attacca la ratio decidendi in ragione della quale l'atto di vendita era stato effettivamente voluto, con la relativa corresponsione di un prezzo. Segnatamente la sentenza impugnata ha rilevato che non vi era alcuna prova della simulazione assoluta della vendita, di cui era stata approvata anche la misura del corrispettivo pattuito ed effettivamente versato. Sicché è esclusa la facoltà di riduzione per lesione della quota di legittima a fronte di una vendita effettiva (che, appunto, non dissimuli una donazione: Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2200 del 09/07/1971; Sez. 2, Sentenza n. 3468 del 24/10/1968), essendo la reintegrazione della quota riservata ai legittimari limitata alle disposizioni testamentarie e alle donazioni ex artt. 554 e 555 c.c. Il richiamo alla mancata accettazione con beneficio d'inventario è stato evocato a fortiori solo per escludere la legittimazione della ricorrente (non totalmente pretermessa: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24836 del 17/08/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 2914 del 07/02/2020; Sez. 6-2, Ordinanza n. 25441 del 26/10/2017; Sez. 2, Sentenza n. 16635 del 03/07/2013) a far valere la simulazione relativa dell'atto verso il terzo. Questo in forza del combinato disposto degli artt. 564, primo comma, e 510 c.c. - secondo cui possono giovarsi dell'inventario anche chiamati diversi da quello che ha fatto la dichiarazione -, il quale deve essere interpretato nel senso che i beneficiari non sono quelli che hanno accettato l'eredità puramente e semplicemente, né quelli decaduti dal beneficio, perché la redazione dell'inventario non può attribuire agli altri coeredi una posizione giuridica che essi non siano più in grado di acquistare (Cass. Sez. L, Ordinanza n. 35708 del 21/12/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 5100 del 17/02/2023; Sez. 6-2, Ordinanza n. 15659 del 23/07/2020; Sez. 5, Sentenza n. 11150 del 10/05/2013; Sez. U, Ordinanza interlocutoria n. 10531 del 07/05/2013; Sez. L, Sentenza n. 22286 del 04/09/2008; Sez. 2, Sentenza n. 2532 del 19/03/1999; Sez. 2, Sentenza n. 8034 del 19/07/1993; Sez. 2, Sentenza n. 782 del 09/02/1982; Sez. 2, Sentenza n. 1679 del 22/06/1963). Orbene, l'effetto espansivo previsto dall'art. 510 c.c. opera fino a quando gli altri eredi non abbiano manifestato una accettazione pura e semplice ovvero siano decaduti dal beneficio, salva la facoltà di accettare avvalendosi espressamente del beneficio, ovvero di rinunciare all'eredità. 3.- Con il terzo motivo la ricorrente si duole, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., della violazione e falsa applicazione degli artt. 183, sesto comma, e 184 c.p.c. vigenti ratione temporis, per avere la Corte distrettuale posto a fondamento del rigetto della domanda di simulazione dell'atto di compravendita delle prove documentali depositate oltre i termini di rito e che, dunque, avrebbero dovuto essere dichiarate inammissibili, senza alcuna possibilità per il giudice di tenerne conto ai fini della decisione. A tale approdo si perviene per il fatto che la pronuncia impugnata si era riferita al deposito della copia di 19 assegni bancari che Ro.Ma. aveva dichiarato di aver consegnato a Fr.Os. e della lista movimenti di un conto intestato allo stesso Fr.An., dai quali si evinceva che tre assegni sarebbero stati effettivamente versati, al fine di ritenere comprovato il pagamento del prezzo dell'immobile, benché la loro produzione fosse stata tardiva, con la conseguente utilizzazione di tali documenti in spregio del diritto di difesa e di regolarità del processo. 3.1.- Il motivo è inammissibile. Infatti, tali documenti sono stati utilizzati nella decisione del Tribunale ai fini di ritenere che il prezzo fosse stato effettivamente corrisposto e non già dalla Corte d'appello (che si è limitata a ribadirne le conclusioni), sicché l'allegazione del loro tardivo deposito avrebbe dovuto essere effettuata in sede di impugnativa della sentenza di primo grado. Conclusione, questa, avvalorata dall'applicazione del principio secondo cui l'utilizzazione a fini decisori della prova dedotta oltre i termini perentori per la proposizione integra un vizio di nullità della sentenza, che può essere fatto valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie dei relativi mezzi di impugnazione (principio di conversione dei vizi sia della sentenza in sé considerata sia degli atti processuali antecedenti in motivi di gravame) ex art. 161, primo comma, c.p.c., il che prescinde dalla distinzione fra nullità relative e nullità assolute (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 14434 del 27/05/2019; Sez. 6-1, Ordinanza n. 17834 del 22/07/2013; Sez. 2, Sentenza n. 12965 del 31/05/2006). Tanto più che la sentenza impugnata, nel richiamare le argomentazioni della sentenza di prime cure, ha rilevato che tali documenti erano stati evocati solo come uno fra i plurimi elementi (id est testimonianze assunte) per ritenere che il prezzo fosse stato effettivamente pagato (vedi pag. 5). Ed inoltre, sempre riportando le argomentazioni della sentenza del Tribunale, è stato precisato che la Ro.Ma., nel riassumere la causa, si era limitata a produrre i documenti già depositati da Fr.An.nella causa originariamente introdotta e poi cancellata dal ruolo. 4.- Con il quarto motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte del gravame tralasciato di rilevare che nell'atto di compravendita era stato dichiarato espressamente che, alla data della stipulazione, il prezzo fosse stato già interamente pagato, mentre dagli estratti conto del Fr.An. emergeva che gli unici versamenti di cui era stata fornita prova risalivano ad epoca successiva. Sicché Ro.Ma. non avrebbe mai comprovato in alcun modo l'avvenuto pagamento del prezzo, nonostante gravasse sull'acquirente l'onere di provare detto fatto, potendosi, in mancanza, trarre elementi di valutazione circa il carattere apparente del contratto, carenza che avrebbe potuto essere dipanata con un ordine di esibizione degli estratti conto. E ciò con la precisazione che le ragioni della decisione di rigetto in primo grado e in appello sarebbero state eterogenee, essendosi fondata la decisione di primo grado sulle deposizioni testimoniali raccolte e la sentenza d'appello sull'impossibilità di procedere all'applicazione dell'art. 510 c.c. e sulla inapplicabilità dell'art. 557 c.c. 4.1.- Il motivo è inammissibile. Ed invero, a fronte di una "doppia conforme" (quanto al rigetto delle domande di accertamento della nullità o della simulazione, assoluta o relativa, della vendita), con instaurazione del giudizio di gravame successivamente all'11 settembre 2012, come nella specie, ai sensi dell'art. 348-ter, quinto comma, c.p.c., vigente ratione temporis, la doglianza di omesso esame di fatti decisivi, formulata ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., non può essere proposta (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 8775 del 03/04/2024; Sez. 2, Sentenza n. 5074 del 26/02/2024; Sez. 5, Ordinanza n. 11439 del 11/05/2018; Sez. 1, Sentenza n. 26774 del 22/12/2016; Sez. 5, Sentenza n. 26860 del 18/12/2014). Ciò vale non solo quando la decisione di secondo grado sia interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass. Sez. 6-L, Ordinanza n. 19828 del 20/06/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 17449 del 30/05/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 16736 del 24/05/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 7724 del 09/03/2022; Sez. 6-3, Ordinanza n. 2506 del 27/01/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 33483 del 11/11/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 29222 del 12/11/2019). Contrariamente all'assunto della ricorrente, in ordine al rigetto delle citate domande, la sentenza impugnata ha convalidato gli argomenti già sviluppati dalla sentenza di prime cure, integrando la motivazione con altre considerazioni rafforzative della ricostruzione del Tribunale (con precipuo riferimento all'inapplicabilità del dettato normativo di cui agli artt. 510 e 557, secondo comma, c.c.). 5.- In conseguenza delle considerazioni esposte, il ricorso deve essere respinto. Le spese e compensi di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Sussistono i presupposti processuali per il versamento - ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l'impugnazione, se dovuto. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla refusione, in favore della controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 10.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 9 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Oggetto Dott. FELICE MANNA - Presidente - SUCCESSIONI Dott. PATRIZIA PAPA - Consigliere - Dott. GIUSEPPE FORTUNATO - Consigliere - Ud. 23/04/2024 - PU Dott. MAURO CRISCUOLO - Rel. Consigliere - R.G.N. 15161/2018 Dott. RICCARDO GUIDA - Consigliere - Rep. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 15161-2018 proposto da: LOMBARDO GIUSEPPA ELDA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CALABRIA 56, presso lo studio dell'avvocato ANTONIO INGROIA, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso; - ricorrente - contro LOMBARDO AGOSTINO, LOMBARDO SILVIA LORENZA, il primo anche quale difensore di se stesso che rappresenta la seconda giusta procura in calce al controricorso; Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -2- - controricorrenti - avverso la sentenza n. 598/2018 della CORTE D'APPELLO di PALERMO, depositata il 21/03/2018; lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, nella persona della Sostituta Procuratrice Generale, dott. ROSA MARIA DELL’ERBA, che ha chiesto il rigetto del ricorso; lette le memorie delle parti; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/04/2024 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO; udite le conclusioni del Pubblico Ministero, nella persona della Sostituta Procuratrice Generale, dott. ROSA MARIA DELL’ERBA, che ha chiesto il rigetto del ricorso; uditi l’avvocato Graziella D’Agostino per delega dell’avvocato Ingroia per la ricorrente e l’avvocato Agostino Lombardo per parte controricorrente; RAGIONI IN FATTO DELLA DECISIONE 1. Lombardo Giuseppa Elda conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Palermo i germani Agostino e Silvia Lorenza al fine di procedere alla divisione dei beni caduti nelle successioni dei genitori, Lombardo Giuseppe e Mendola Maria, lamentando altresì che i convenuti si erano appropriati di ingenti somme di proprietà dei defunti. Si costituivano i convenuti che aderivano alla domanda di divisione, contestando l’appropriazione loro addebitata nonché il fatto che un immobile era stato oggetto di donazione indiretta in favore del convenuto Agostino. In via riconvenzionale chiedevano che l’attrice ponesse in collazione alcuni immobili a loro volta oggetto di donazione indiretta da parte del padre, con la Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -3- condanna al rimborso per la quota di loro spettanza, delle somme impiegate per la gestione e manutenzione dei beni comuni. Il Tribunale con la sentenza non definitiva del 24 maggio 2011 dichiarava aperte entrambe le successioni legittime, ed accertava le donazioni indirette ricevute dall’attrice e dal convenuto Agostino, procedendo alla loro collazione mediante imputazione; per l’effetto disponeva che i convenuti prelevassero dalla massa beni di valore corrispondente a quello delle donazioni ricevute dall’attrice, e disponeva la divisione tra tutti i condividenti dei restanti beni, con relativa attribuzione e condanna al pagamento dei conguagli in denaro. Con la successiva sentenza definitiva del 30 marzo 2013, disposta ulteriore CTU, dichiarava cessata la materia del contendere quanto alla divisione degli arredi comuni, e disponeva la divisione del restante patrimonio mobiliare, determinando i conferimenti in denaro dovuti da ogni condividente, per effetto della collazione delle donazioni pecuniarie e del compenso dei frutti civili percetti in esclusiva, determinando altresì le somme dovute a titolo di rimborso delle spese sostenute personalmente per la manutenzione e gestione dei beni comuni ovvero per preesistenti crediti vantati nei confronti del de cuius. Infine, disponeva l’attribuzione dei beni mobili ancora indivisi. Lombardo Elda Giuseppa ha impugnato entrambe le sentenze, ed al gravame hanno resistito i convenuti. La Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza n. 598 del 21 marzo 2018, ha rigettato l’appello avverso la sentenza non definitiva ed, in parziale accoglimento di quello avverso la sentenza definitiva, ha rideterminato l’importo delle somme reciprocamente dovute, in ragione anche della rideterminazione Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -4- del valore della massa relitta, che incideva anche sulla misura dei conguagli. Quanto alle spese ha compensato per la metà le spese del giudizio di primo grado e di appello. Quanto al primo motivo di appello avverso la prima sentenza, la sentenza osservava che era da condividere il giudizio del Tribunale circa l’effettiva contitolarità anche delle somme giacenti sul conto cointestato tra il convenuto Agostino ed il padre, dal quale era poi stata tratta la provvista per l’acquisto di un immobile da parte di Agostino, ritenuto essere oggetto di donazione indiretta solo per la quota del 50%, il che imponeva il rigetto del motivo che invece intendeva pervenire all’affermazione della esclusiva titolarità del denaro in capo al padre. Quanto al secondo motivo di appello del pari rivolto avverso la sentenza non definitiva, la Corte d’Appello riteneva di dover condividere le conclusioni alle quali era pervenuto il CTU, attesa la correttezza metodologica ed esaustività dell’indagine da questi svolta, a raffronto con le critiche invece mosse dal perito di parte. Relativamente agli altri motivi di appello, tutti indirizzati avverso la sentenza definitiva, il terzo era reputato infondato in quanto si fondava su richieste istruttorie, in massima parte aventi carattere esplorativo, ed inoltre non oggetto di specifica reiterazione in sede di precisazione delle conclusioni in entrambe le occasioni in cui la causa era stata rimessa alla decisione del Tribunale, omissione questa che ne precludeva la reiterazione in appello. Inoltre, quanto alla determinazione delle reciproche poste di dare ed avere, la sentenza rilevava che non era stato seguito il procedimento di rendimento dei conti di cui all’art. 263 e ss. c.p.c., il che imponeva che fosse il creditore a dover fornire la prova dell’esistenza del credito vantato. Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -5- In merito al quarto motivo di appello, che atteneva alla determinazione del patrimonio mobiliare del padre, avuto riguardo alla pretesa che lo stesso fosse transitato in quello della madre, la Corte d’Appello osservava che l’appellante non aveva adempiuto agli oneri incombenti sull’attrice, e che lo stesso si sostanziava nella pretesa allegazione di elementi di verosimiglianza, che però non consentivano di inferire con certezza quanto sostenuto. Il quinto motivo era altresì rigettato, in quanto si reputava corretta la qualificazione come donazione soggetta a collazione delle spese sostenute dal padre per l’istruzione dell’appellante, atteso l’elevato ammontare delle stesse, in rapporto al reddito medio dell’epoca. Circa il sesto motivo che pretendeva di configurare delle donazioni indirette per effetto dell’acquisto del mobilio di un locale appartenente al convenuto e del pagamento dei costi di ristrutturazione, nonché dell’acquisto di due autovetture, la sentenza osservava che, a fronte della contestazione da parte dello stesso convenuto, era mancata la prova che gli assegni (da cui si pretendeva di ricavare la prova dell’esborso sostenuto) fossero stati non solo effettivamente negoziati, ma che comunque fossero effettivamente riferibili alle spese per le quali si sosteneva costituissero donazioni indirette. Era invece parzialmente accolto il settimo motivo che investiva l’ammissibilità del giuramento che era stato reso in merito ad alcune delle voci di debito e di credito reciprocamente contestate. Dopo avere ricostruito le varie situazioni per le quali il giuramento era stato ammesso e reso, osservava che effettivamente non poteva essere deferito per quanto riguardava quei crediti relativi a spese di manutenzione per alcuni edifici, trattandosi di circostanze Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -6- che non rientravano nel novero di quelle suscettibili di giuramento de veritate. Ciò comportava che il giuramento inammissibilmente deferito su di un fatto altrui, non poteva esser riferito alla controparte, mancando il requisito della comunanza del fatto ad entrambe le parti. Ne conseguiva che per le spese di rimborso oggetto di tali capi, non era stata offerta la prova della loro effettiva entità, occorrendo quindi provvedere alla parziale riforma della sentenza definitiva, con il ricalcolo delle somme reciprocamente dovute. Avuto riguardo all’esito del giudizio, risoltosi in massima parte in maniera favorevole ai convenuti, si giustificava la condanna dell’attrice al rimborso in favore di convenuti della metà delle spese del giudizio di primo grado, come appunto statuito dal Tribunale, il che determinava il rigetto anche dell’ultimo motivo di appello. Allo stesso modo andavano poi regolate anche le spese del giudizio di appello. 2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Lombardo Giuseppa Elda sulla base di otto motivi. Gli intimati hanno resistito con controricorso. 3. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte. 4. Le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza. RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c., nonché ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -7- Si deduce che, quanto al rigetto del primo motivo di appello, erroneamente è stato negato che il conto corrente n. 3637 acceso presso la Banca Sant’Angelo non fosse da riferire in esclusiva al de cuius quanto alla provvista, negandosi quindi altrettanto erroneamente che l’immobile acquistato dal convenuto fosse stato oggetto per l’intero di donazione indiretta. Il motivo è in primo luogo inammissibile, quanto alla deduzione del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360, co. 1, c.p.c., atteso che, avendo la sentenza impugnata confermato quella di primo grado sulla base delle medesime ragioni inerenti alle questioni di fatto, risulta inammissibile la deduzione del vizio de quo ai sensi dell’art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c. Deve del pari essere disattesa la censura che attiene alla pretesa nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione, atteso che, ad avviso della Corte, la decisione impugnata in parte qua risulta ampiamente satisfattiva del principio del cd. minimo costituzionale della motivazione (Cass. S.U. n. 8053/2014). La Corte d’Appello, partendo dalla pacifica cointestazione del conto corrente tra il padre ed il figlio, ha osservato, analogamente a quanto è dato riscontrare dalla lettura del motivo di ricorso in esame, come la censura si risolva in una reiterazione delle argomentazioni difensive già sviluppate in primo grado, al fine di sollecitarne una rivalutazione in chiave di apprezzamento probatorio (censura evidentemente inammissibile in sede di legittimità, anche a prescindere dal rilievo in merito all’applicazione del limite di cui all’art. 348 ter, ultimo comma). Ha altresì evidenziato che era stato accertato in fatto che il convenuto era percettore di redditi, di importo non esiguo, che era solito riversare proprio sul conto corrente per cui è causa, Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -8- unico di cui era (co)intestatario, a conferma quindi che la provvista non era di provenienza unilaterale del genitore. Ai fini, quindi, del superamento della presunzione di contitolarità anche delle somme versate sul conto cointestato, non poteva farsi riferimento alla circostanza che i prelievi fossero stati operati dal solo genitore, in quanto risulta invece fondamentale indagare la genesi della provvista, genesi che i giudici di merito, con accertamento in fatto, hanno reputato di attribuire ad entrambi i cointestatari. E’ stato pertanto sottolineato l’errore logico e giuridico dal quale trae la premessa la tesi dell’appellante, consistente nel volere ricostruire la titolarità della provvista non già sulla base delle entrate ma sulla scorta dell’andamento delle uscite. La sentenza della Corte d’Appello si fonda su di una motivazione logica e coerente, che esclude ogni ipotesi di anomalia o di insanabile contraddittorietà, e che evidenzia con immediatezza l’infondatezza della censura in esame. 2. Il secondo motivo denuncia ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c., nonché ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., quanto al rigetto del secondo motivo di appello. Si contesta la soluzione del giudice di appello che ha dato prevalenza ai risultati della perizia d’ufficio, ritenendola preferibile al contenuto della perizia di parte. Si sostiene che si tratta di conclusione del tutto immotivata e che non tiene conto dei rilievi analitici e completi del perito di parte. Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -9- In tal modo la motivazione risulta del tutto apparente, in quanto non consente in alcun modo di comprendere le ragioni della decisione. Risulta altresì violato il principio per cui, a fronte di rilievi tecnici di parte, il giudice non può limitarsi ad ignorarli, ma deve dare giustificazione delle ragioni per le quali li reputa inattendibili. Inoltre, l’acritica adesione alle conclusioni dell’ausiliario d’ufficio si risolve in una violazione anche della regola che impone il prudente apprezzamento delle prove. Anche tale motivo deve essere rigettato. Va qui ribadita l’inammissibilità della deduzione del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360, co. 1, c.p.c., dovendosi del pari escludere che sussista un’ipotesi di anomalia della motivazione tale da determinare la nullità della sentenza. In primo luogo, non può non evidenziarsi come la formulazione del motivo risulta connotata da genericità, tale da ridondare in un vizio di inammissibilità per la violazione del principio di specificità di cui all’art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c., in quanto richiama una serie di discordanze tra la valutazione del perito d’ufficio e quella del perito di parte, senza però indicare ove le contestazioni di quest’ultimo siano state specificamente sollevate (cfr. Cass. n. 19989/2021, secondo cui, la parte che lamenti l'acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l'operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l'onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -10- quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l'apprezzamento dell'incidenza causale del difetto di motivazione). In primo luogo, va evidenziato che, qualora nei confronti delle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio siano state avanzate critiche specifiche e circostanziate, sia dai consulenti di parte che dai difensori, il giudice del merito, per non incorrere nel vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., è tenuto a spiegare in maniera puntuale e dettagliata le ragioni della propria adesione all'una o all'altra conclusione (Cass. n. 32069/2023; Cass. n. 14599/2021), il che denota che la censura può essere formulata esclusivamente sulla base di un vizio che però, come detto, nella fattispecie non è deducibile. Inoltre è stato anche precisato che il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l'obbligo della motivazione con l'indicazione delle fonti del suo convincimento, e non deve necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive (cfr. Cass. n. 33742/2022; Cass. n. 1815/2015). La ricorrente però omette di riferire, come invece emerge dalla stessa sentenza impugnata (pag. 8, quinto rigo), che i rilievi del Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -11- perito di parte furono sottoposti alla valutazione del CTU, che ha reputato di confutarli con il supplemento di perizia depositato in data 23/04/2010, ed il cui contenuto risulta in massima parte riprodotto alle pagg. da 30 a 35 del controricorso. Ciò consente quindi di escludere che il richiamo e la preferenza alle conclusioni rese dal perito d’ufficio possa configurare una anomalia della motivazione tale da riflettersi sulla stessa validità della sentenza, non senza trascurare che in ogni caso il giudice di appello ha supportato il proprio giudizio di condivisione delle soluzioni tecniche dell’ausiliario di ufficio, sottolineando come la stima del perito di parte, quanto all’immobile sito alla via Marconi fosse riferita all’anno 2009, dovendosi invece far riferimento alla data di aperura della successione, atteso che tale immobile era stato oggetto di prelevamento, per effetto della collazione di una donazione ricevuta in vita dal de cuius (cfr. Cass. n. 3235/2000, secondo cui i beni che i coeredi non donatari possono prelevare dalla massa ereditaria a seguito della collazione per imputazione effettuata dai coeredi donatari devono essere stimati per il valore che avevano all'epoca dell'apertura della successione e non già al momento della divisione, perché detti prelevamenti, pur costituendo una delle fasi in cui si attua la divisione, non si identificano con le operazioni divisionali vere e proprie, avendo, al pari della collazione, il prevalente scopo di assicurare la parità di trattamento fra coeredi donatari e coeredi non donatari). Il motivo deve quindi essere rigettato. 3. Il terzo motivo di ricorso denuncia ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c., nonché ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -12- discussione tra le parti, quanto al rigetto del terzo motivo di appello, con il quale è stata disattesa la richiesta di addivenire ad una diversa valutazione delle disponibilità mobiliari del defunto genitore. Si sostiene che la sentenza sarebbe affetta da una motivazione del tutto assente o comunque gravemente lacunosa, e non si sarebbe tenuto conto delle differenze tra i due rendiconti presentati, che avrebbero invece dovuto indurre a reputare del tutto inverosimile la ricostruzione della situazione bancaria del de cuius. Nel ribadirsi l’inammissibilità della deduzione del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360, co. 1, c.p.c., va del pari esclusa la ricorrenza di una nullità della motivazione, atteso che quella resa dal giudice di appello risulta anche in parte qua ampiamente satisfattiva del principio del cd. minimo costituzionale della motivazione. La censura investe l’esatta ricostruzione delle disponibilità bancarie del defunto genitore, in quanto si sostiene che le stesse sarebbero state occultate su conti intestati agli altri figli. La sentenza impugnata ha, in primo luogo, evidenziato che le richieste istruttorie avanzate dall’appellante (e di cui nemmeno risulta riprodotto il contenuto in ricorso, a conferma della genericità della censura, per difetto di specificità), avevano carattere esplorativo, e che inoltre le stesse non erano state oggetto di riproposizione in sede di precisazione delle conclusioni. Trattasi di affermazioni che non appaiono censurate con il motivo in esame, e che risultano già di per sé sole idonee a giustificare il rigetto della censura, non avendo parte ricorrente adempiuto all’onere di provare i fatti sui quali si fonda la propria alternativa ricostruzione dei fatti. Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -13- In secondo luogo, i giudici di appello hanno evidenziato che il Tribunale aveva fatto applicazione del principio per cui, quando la resa dei conti è inserita in un giudizio di divisione, la procedura di cui agli artt. 263 e seguenti cod. proc. civ. è meramente facoltativa e l'ammissione del rendiconto rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito, il quale può preferire il ricorso ad altri mezzi di prova (Cass. n. 1509/1997, nonché da ultimo Cass. n. 1319/2024). Poiché nella fattispecie non risultava che fosse stato seguito il procedimento tipico di rendimento del conto, correttamente è stato evidenziato che continuava ad incombere sulla creditrice la prova della esistenza del proprio diritto, prova che, anche in ragione dell’inammissibilità delle richieste istruttorie, non risultava essere stata fornita. Anche a voler sorvolare sulle giustificazioni addotte da parte controricorrente circa la differenza di contenuto tra i rendiconti presentati nel corso del giudizio (essendosi sottolineato come uno dei due contenesse delle voci per le quali il Tribunale ne aveva rilevato la tardiva deduzione, avendo quindi optato per il rendiconto che ne era privo), la critica non si confronta con la ratio del giudice di appello il quale ha sottolineato che la decisione in merito alla ricostruzione delle disponibilità del de cuius non era affidata alla sola presentazione del rendiconto, ma scaturiva dalla valutazione delle prove, della cui offerta restava onerata la ricorrente, di guisa che la carenza probatoria riscontrata non consentiva di accedere alla tesi sostenuta in ordine alla diversa consistenza del patrimonio mobiliare del defunto padre. Anche tale motivo va rigettato. Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -14- 4. Il quarto motivo denuncia ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 co. 2, n. 4, c.p.c., in relazione al rigetto del quarto motivo di appello che mirava a far ricondurre alle disponibilità del defunto padre anche le disponibilità bancarie della moglie (essendo le stesse frutto del travaso del denaro di pertinenza del marito). La censura è priva di fondamento, avendo la Corte d’Appello, con motivazione logica e coerente, chiarito che la tesi sostenuta nel motivo si fondava solo su congetture e che per poter trovare accoglimento avrebbe dovuto essere supportata da adeguate fonti di prova, che però la parte aveva omesso di offrire. A fronte di tale affermazione la ricorrente si limita a sostenere che la motivazione sarebbe del tutto generica, aggiungendo, quanto al profilo probatorio, che la riprova di quanto affermato e cioè che il denaro del de cuius fosse passato alla moglie “…. Risulta dagli atti processuali” (cfr. pag. 21). La assoluta genericità delle censura si riflette anche sulla critica al contenuto della motivazione, il che impone il rigetto anche di tale motivo. 5. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 742, co. 2, c.c., quanto al rigetto del quinto motivo di appello con il quale si contestava la statuizione del Tribunale che aveva disposto la collazione degli importi versati dal padre per consentire all’appellante la frequenza di un istituto scolastico non pubblico, con un esborso di € 3.098,74. Il motivo è inammissibile in quanto si risolve in una contestazione dell’accertamento di fatto operato dal giudice di merito circa il carattere notevolmente eccedente la misura ordinaria delle spese di istruzione sostenute dal padre nell’interesse della figlia. Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -15- A tal fine, la Corte d’Appello ha reputato che, a prescindere dall’entità del reddito effettivamente goduto dal de cuius, era l’importo oggettivo della somma erogata (pari al reddito medio annuo nazionale per gli anni di riferimento), a confortare il giudizio di non ordinarietà della spesa, soprattutto ove messo a confronto con la possibilità di poter usufruire dell’istruzione scolastica pubblica, sostanzialmente priva di costi. Il motivo va quindi dichiarato inammissibile. 6. Il sesto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., quanto al rigetto del sesto motivo di appello con il quale si intendeva contestare la soluzione del Tribunale circa la mancata prova della donazione indiretta in favore del convenuto di alcuni arredi d’ufficio, dei costi di ristrutturazione di un immobile e dell’acquisto di due autovetture, oltre che di svariate somme di denaro. La Corte d’Appello ha rigettato l’analogo motivo di appello osservando che quanto agli assegni, che a detta dell’appellante offrivano la dimostrazione della provenienza dal de cuius delle somme impiegate, mancava la prova della loro effettiva negoziazione nonché del fatto che le relative somme erano state effettivamente impiegate secondo quanto sostenuto dall’appellante. Al cospetto di tale motivazione, il motivo di ricorso si risolve nell’apodittica affermazione secondo cui la decisione sarebbe stata assunta in contrasto con le prove offerte, aggiungendo che in particolare sarebbe stata trascurata la documentazione prodotta con le deduzioni del 19/9/2006. Il motivo si palesa inammissibile, oltre che per la sua genericità, in quanto omette di riportare in ricorso il contenuto dei documenti Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -16- che a detta della ricorrente offrirebbero la prova dell’effettiva provenienza dal de cuius del denaro impiegato, poiché si risolve nella contestazione alla valutazione del materiale probatorio offerta dal giudice di merito, quasi a voler trasformare il presente giudizio in un terzo grado di merito. 7. Il settimo motivo di ricorso denuncia ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c., nonché ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 2739 c.c., quanto al rigetto del settimo motivo di appello. Si assume che il rigetto del motivo di impugnazione sarebbe stato operato con una motivazione del tutto carente e che si sarebbe avallato un utilizzo del giuramento decisorio in contrasto con il dettato normativo che impedisce il giuramento su un fatto che non sia proprio della parte cui è deferito. Il motivo è inammissibile per assoluto difetto di specificità. La Corte d’Appello, nell’esaminare il settimo motivo di appello, oltre a ribadire la circostanza che il Tribunale non aveva inteso, come peraltro consentitogli alla luce della citata giurisprudenza di questa Corte, il ricorso al procedimento di resa dei conti di cui agli artt. 263 e ss., c.p.c., ha effettuato una analitica distinzione delle varie circostanze per le quali era stato ammesso il giuramento decisorio, evidenziando per le circostanze riportate sub c) (cfr. pagg. 13 e ss.), come effettivamente la censura della odierna ricorrente fosse fondata, in quanto il giuramento in parte qua verteva su fatti non propri della parte cui era stato deferito e che era anche da escludere la riferibilità all’avversario, trattandosi peraltro di fatti non comuni. Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -17- A fronte di tale motivazione, che denota come la sentenza abbia operato una oculata discernita tra i vari capi per i quali è stato ammesso il giuramento, il motivo si risolve in un’apodittica affermazione circa la violazione dell’art. 2739 c.c., senza confrontarsi con la motivazione del giudice di appello, e senza in particolare chiarire su quali capi si appunti la censura, onde permettere alla Corte di poter verificare se effettivamente sia configurabile la dedotta violazione della norma in tema di giuramento decisorio. 8. L’ottavo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., quanto alla regolamentazione delle spese di lite. Si osserva che è stata erroneamente confermata la condanna della ricorrente al rimborso della metà delle spese del giudizio di primo grado, in violazione della regola secondo cui le spese di divisione vanno poste a carico della massa. Inoltre, essendo stata riformata la sentenza di primo grado, si imponeva una nuova regolazione delle spese del doppio grado. Il motivo è infondato. Come si ricava dal passaggio della sentenza impugnata in punto di spese (pag. 16), pur dandosi atto della parziale riforma della sentenza definitiva, con la rideterminazione delle voci di dare ed avere tra i condividenti, la Corte distrettuale ha reputato, proprio in applicazione del principio proclamato dalla ricorrente, secondo cui nei procedimenti di divisione giudiziale le spese occorrenti allo scioglimento della comunione vanno poste a carico della massa, in quanto sostenute nel comune interesse dei condividenti, trovando, invece, applicazione il principio della soccombenza e la facoltà di disporre la compensazione soltanto con riferimento alle Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -18- spese che siano conseguite ad eccessive pretese o inutili resistenze alla divisione (cfr. Cass. n. 1635/2020), che la soccombenza dovesse essere attribuita in misura prevalente all’appellante (come appunto confermato dal rigetto della maggior parte dei motivi di appello, che investivano le pretese di conseguire un maggior valore dei beni comuni, sul presupposto di donazioni effettuate in favore degli altri condividenti, ovvero dell’appropriazione da parte di questi di denaro destinato a cadere in comunione). Trattasi di valutazione adeguatamente motivata e supportata dall’obiettivo sviluppo del giudizio, così che la pretesa della ricorrente, lungi dal denunciare la violazione dell’art. 91 c.p.c., mira piuttosto a contestare il mancato esercizio del potere di compensazione di cui all’art. 92 c.p.c., che è insuscettibile di essere denunciato in sede di legittimità. Né può sostenersi che vi sia stata una valutazione delle spese del giudizio di primo grado che prescinda dall’esito complessivo del giudizio di appello, conclusosi con una parziale riforma della sentenza appellata, in quanto il giudizio di soccombenza espresso dalla Corte d’Appello in relazione alle spese del primo grado risente evidentemente anche dell’esito del giudizio di appello, le cui spese sono state a loro volta regolate sulla base di analogo criterio. 9.Il ricorso è rigettato, dovendo le spese seguire la soccombenza, come liquidate in dispositivo. 10. Poiché il ricorso è rigettato , sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha Ric. 2018 n. 15161 sez. S2 - ud. 23-04-2024 -19- aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione. PQM La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi € 5.700,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge; Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso nella camera di consiglio del 23 aprile 2024 Il Presidente Il Consigliere Estensore Felice Manna Mauro Criscuolo
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: FELICE MANNAPresidente ALDO CARRATOConsigliere VINCENZO PICAROConsigliere-Rel. GIUSEPPE FORTUNATOConsigliere MAURO CRISCUOLOConsigliere Oggetto: DIVISIONE Ud.21/03/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 16756/2018 R.G. proposto da: SALVINI MAURIZIO, elett.te domiciliato in RIETI, VIALE MATTEUCCI N. 10 c, presso lo studio dell'avvocato GIULIANO VIVIO (VVIGLN53D19D560L), che lo rappresenta e difende per procura in calce al ricorso, -ricorrente principale- contro SALVINI CESARINO, SALVINI ETTORE, SALVINI PIERO, SALVINI MILENA, SALVINI ANDELIO, elettivamente domiciliati in ROMA VIA F. CONFALONIERI, N. 5, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA CALDERARA (CLDGLC70H22H501S) che li rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente all'avvocato PAOLO CARUSO (CRSPLA79R09H501Y) per procura in calce al controricorso, -ricorrenti incidentali autonomi e controricorrenti- nonché contro SALVINI ADA, elett.te domiciliata in ROMA, VIA CASSIA N. 240, PALAZZINA 1, INERNO 27, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO BELLONI (BLLFRC72H19H501E), che la rappresenta e difende congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato ANTONIO BELLONI (BLLNTN34T14H282L), per procura in calce al controricorso, -controricorrente- avverso la SENTENZA della CORTE D'APPELLO di ROMA n.1916/2018 depositata il 26.3.2018. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21/03/2024 dal Consigliere VINCENZO PICARO. FATTI DI CAUSA 1) Con atto di citazione del 9.3.2000 Salvini Ada, sul presupposto che con la sentenza definitiva n. 146/1996 del Tribunale di Rieti era stata dichiarata la nullità per simulazione assoluta dell'atto del notaio Cutillo del 9.8.1971, col quale il padre, Salvini Cesare, aveva apparentemente venduto al figlio Salvini Antonio una serie di beni immobili in territorio del Comune di Pescorocchiano (RI) (il fabbricato rurale in località Prato Saracone a foglio 8, partita 4199, mappale 762, con annessi terreni ai mappali 514 e 763, poi venduto da Salvini Antonio ai signori M.Smuraglia ed A.M. Scaramastra con l'atto del notaio de Rienzi del 20.12.1986 trascritto il 30.12.1986, ed alcuni terreni agricoli, poi donati da Salvini Antonio ai figli Cesarino, Piero, Maurizio, Andelio ed Ettore con l'atto del notaio Polidori del 18.10.1983, trascritto il 25.10.1983 - individuati nel NCT del Comune di Pescorocchiano a foglio 8, partita 7532, mappali 394 e 395, a foglio 8, partita 7610, mappale 753, a foglio 8, partita 2752, mappale 119 ed a foglio 9, partita 7532, mappale 612 -), ed era stato accertato che l'attrice, quale erede legittima del padre, era comproprietaria col fratello Antonio di quei beni, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Rieti gli eredi di Salvini Antonio, (deceduto il 21.10.1989), ossia la vedova, Castellani Maria (poi a sua volta deceduta con successione dei figli), ed i figli del predetto, Salvini Cesarino, Andelio, Ettore, Piero, Maurizio e Milena, chiedendo di dichiarare aperta la successione legittima di Salvini Cesare, deceduto il 29.5.1987, di dichiarare che i beni dell'asse ereditario erano quelli elencati nell'atto del notaio Cutillo del 9.8.1971, di sciogliere la comunione ereditaria di Salvini Cesare attribuendole metà dei beni, e di ordinare ai convenuti il rendiconto dei beni dei quali avevano avuto il possesso esclusivo dalla data della vendita dichiarata nulla (9.8.1971), con conferimento alla massa delle rendite accertate all'esito del rendiconto. 2) Si costituivano nel giudizio di primo grado gli eredi di Salvini Antonio, che aderivano alla domanda di divisione dei beni di Salvini Cesare, muovendo contestazioni alla decorrenza del rendiconto richiesto, ai criteri di individuazione e valutazione dei beni dell'asse ereditario, delle rendite, delle spese sostenute per i miglioramenti apportati ai beni ereditari, sui quali erano stati realizzati dei fabbricati, ed ai criteri da seguire per la divisione. 3) Non avendo le parti richiesto la concessione dei termini ex artt. 183 e 184 c.p.c. secondo il rito all'epoca vigente, veniva espletata una prima CTU da parte del geometra Grillo, che stimava i terreni agricoli menzionati nell'atto di vendita del 1971 alla data dello stesso, rivalutandoli alla data di apertura della successione con formazione di due quote (rectius porzioni), non essendo stata accolta in un primo momento la richiesta di Salvini Ada di estendere l'accertamento anche al valore dei fabbricati che erano stati realizzati sui terreni dell'asse ereditario. Dopo l'interruzione del giudizio per morte di Castellani Maria, e la riassunzione dello stesso, ordinata la chiamata in causa della Cassa di Risparmio di Rieti, quale titolare di garanzia ipotecaria su beni del compendio ereditario, veniva disposta una nuova CTU da parte del geometra Fabrizio Festuccia per determinare il valore dell'asse ereditario considerando anche i fabbricati edificati sui terreni, dei quali costituivano migliorie, i terreni con sovrastanti fabbricati riportati nel NCT del Comune di Pescorocchiano a foglio 8, particelle 117 e 118, non ricompresi tra i beni ereditari elencati in citazione e nell'atto di vendita del 1971, e tenendone conto nella formazione delle due quote (rectius porzioni), e gli eredi di Salvini Antonio contestavano la mutatio libelli asseritamente compiuta da Salvini Ada per avere chiesto di ricomprendere nella sua quota beni in natura anziché denaro, come inizialmente richiesto, e per l'inclusione nell'asse ereditario anche dei fabbricati realizzati sui terreni dell'asse ereditario e delle particelle 117 e 118 del foglio 8 del NCT del Comune di Pescorocchiano, e per l'ipotesi di estensione dell'accertamento, chiedevano di determinare l'ammontare delle spese sostenute per la realizzazione delle migliorie. Essendo stato contestato dalle parti il progetto di divisione predisposto dal CTU, geom. Fabrizio Festuccia, le parti venivano invitate a precisare le conclusioni, ed il Tribunale di Rieti, con la sentenza n. 526 del 18.8/14.9.2009, dichiarava aperte le successioni ab intestato di Salvini Cesare e Salvini Antonio, disponeva procedersi alla divisione del fabbricato rurale e dei terreni in Comune di Pescorocchiano, assegnava per intero e pro indiviso a Salvini Cesarino, Ettore, Maurizio, Pietro, Andelio e Milena il fabbricato rurale (foglio 8, partita 4199, mappale 762 del NCT del Comune di Pescorocchiano) e gli annessi terreni (foglio 8, partita 4200, mappale 514 e foglio 8, partita 6394, mappale 763) in località Prato Saracone (venduti da Salvini Antonio a terzi il 20.12.1986), dichiarava esecutivo il progetto di divisione predisposto dal CTU geometra Fabrizio Festuccia determinando le quote (rectius porzioni) 1 e 2 (una destinata a Salvini Ada, ed una agli eredi di Salvini Antonio congiuntamente come da loro richiesto) secondo le indicazioni contenute alle pagine 8 e 9 dell'elaborato del tecnico del 31.1.2008 (nella quota 1 venivano però ricompresi per mera svista anche i beni già assegnati ai figli di Salvini Antonio in località Prato Saracone), con sorteggio da effettuarsi dopo il passaggio in giudicato della sentenza, ed in accoglimento della domanda di rendiconto, condannava gli eredi di Salvini Antonio al pagamento in favore di Salvini Ada della somma di € 65.000,00 (per i frutti civili maturati per i beni ereditari goduti in via esclusiva dalla data della vendita simulata del 9.8.1971), con gli interessi legali dalla domanda giudiziale di rendiconto del 9.3.2000 al saldo, compensava le spese di lite e poneva quelle di CTU già liquidate a carico delle parti al 50% ciascuna. Con successiva ordinanza correttiva dell'8.10.2009 il Tribunale di Rieti individuava come componenti la quota 1 le particelle 117, 118 e 119 del foglio 8 del NCT del Comune di Pescorocchiano per un valore di € 513.432,00, e come componenti la quota 2 le particelle 395, 753, 394 e per 1/4 la 612 per un valore di €518.400,00. 4) Avverso la sentenza non definitiva n. 526 del 18.8/14.9.2009 del Tribunale di Rieti come corretta proponevano appello principale il 30.1.2010 Salvini Cesarino, Ettore, Piero, Andelio e Milena, ed appello incidentale Salvini Ada, e dopo che la Corte d'Appello di Roma aveva ordinato l'integrazione del contraddittorio nei confronti di Salvini Maurizio, quest'ultimo proponeva appello incidentale tardivo, producendo il testamento olografo di Salvini Cesare del 20.1.1967, pubblicato dal notaio Antonio Valentini il 15.2.2011, col quale Salvini Cesare aveva lasciato la disponibile dei suoi beni mobili ed immobili al figlio Salvini Antonio, assumendo che l'aveva incolpevolmente rinvenuto con ritardo rispetto alla morte di Salvini Cesare dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado, e chiedendo che la divisione avesse luogo sulla base di detto testamento. Salvini Ada eccepiva la tardività della produzione del testamento e ne disconosceva la valenza, mentre gli appellanti principali aderivano alla richiesta di Salvini Maurizio. 5) La Corte d'Appello di Roma con la sentenza n. 1916/2018 del 26.3.2018 rigettava l'appello principale e gli appelli incidentali e compensava le spese processuali di secondo grado. 6) La Corte d'Appello riteneva che correttamente si fosse tenuto conto nella ricostruzione dell'asse ereditario anche dei fabbricati realizzati sui terreni, in quanto Salvini Ada, pur facendo riferimento in citazione all'elenco dei beni immobili che erano stati venduti dal de cuius al figlio Salvini Antonio il 9.8.1971, aveva manifestato la volontà di ottenere la divisione dell'intero compendio dei beni di Salvini Cesare, ed in esso rientravano per accessione anche quei fabbricati, dei quali non si conoscevano neppure l'esatta data di edificazione e l'autore. Quanto ai terreni agricoli donati dall'erede Salvini Antonio ai figli Salvini Cesarino, Piero, Maurizio, Andelio ed Ettore con l'atto del notaio Polidori del 18.10.1983, riteneva la Corte d'Appello che tale atto non fosse stato tempestivamente depositato nel giudizio di primo grado per dimostrare la fuoriuscita di detti terreni dall'asse ereditario di Salvini Cesare, e che comunque ben aveva fatto il Tribunale di Rieti ad applicare il principio per cui, per l'effetto dichiarativo della divisione ereditaria, le vendite dei beni comuni (la vendita a terzi compiuta da Salvini Antonio nel 1986 del fabbricato rurale e dei terreni in Pescorocchiano, località Prato Saracone) e le donazioni eseguite da un erede prima della divisione , dovevano ritenersi perfezionate nel momento in cui l'erede ne era divenuto assegnatario ed a considerarli quindi oggetto di collazione, anche se solo fittiziamente, per la quantificazione del valore delle due quote. Quanto alla pretesa degli appellanti di essere considerati terzi, rispetto alla coerede Salvini Ada, ai fini dell'applicazione della disciplina dell'art. 936 cod. civ. (relativo alle opere fatte dal terzo con materiali propri), la Corte d'Appello rilevava che per assenza di una tempestiva domanda non erano stati accertati in primo grado l'epoca della realizzazione dei fabbricati, né gli autori della stessa, per cui era irrilevante la pretesa in tal senso degli appellanti, e lo stesso principio doveva valere per la richiesta di rimborso spese dell'appellante incidentale Salvini Maurizio, il cui precedente difensore si era fermamente opposto all'inclusione dei fabbricati nell'asse ereditario, e conseguentemente non aveva a sua volta avanzato alcuna domanda di rimborso delle spese sostenute per la realizzazione dei fabbricati, comunque non documentate. La Corte, inoltre, riteneva che il singolo condividente, una volta chiesto lo scioglimento della comunione ereditaria, potesse modificare in corso di causa le modalità concrete di attuazione della divisione richieste, senza per questo incorrere nella violazione della mutatio libelli, per cui affermava che il Tribunale di Rieti aveva correttamente determinato il valore della quota del 50% spettante a Salvini Ada comprendendo nell'asse ereditario tutti i beni immobili indicati nell'atto di vendita simulato di Salvini Cesare del 9.8.1971 del notaio Cutillo, comprese le accessioni, e compreso anche il valore di quei beni immobili che poi l'erede Salvini Antonio aveva frattanto venduto a terzi con l'atto del notaio de Rienzi del 20.12.1986. La Corte, poi, riteneva nuova ed indimostrata la richiesta degli eredi di Salvini Antonio di essere considerati terzi di buona fede, per essere subentrati nella titolarità dei beni loro donati dal padre Salvini Antonio con atto del notaio Polidori del 18.10.1983, quando già si era verificata l'incorporazione dei fabbricati ai terreni. Relativamente alla domanda di rendiconto, la Corte d'Appello riteneva corretto il computo dei frutti civili dei beni immobili posseduti da Salvini Antonio e dai suoi eredi fin dall'atto di vendita del 9.8.1971 (compresi quindi anche gli immobili in Pescorocchiano, località Prato Saracone e gli immobili donati ai figli da Salvini Antonio), e non dall'apertura della successione di Salvini Cesare del 29.5.1987, in quanto fin dalla data della vendita simulata era iniziato da parte dei predetti il godimento in via esclusiva dei beni immobili oggetto della stessa da parte di Salvini Antonio e poi dei suoi eredi, anziché da parte di Salvini Cesare e dei suoi eredi, ed evidenziava che anche per i terreni edificati occorreva considerare, così come fatto, i frutti civili maturati. Quanto alla pretesa degli appellanti principali di escludere dall'asse ereditario di Salvini Cesare il fabbricato rurale in località Prato Saracone a foglio 8, partita 4199, mappale 762, con annessi terreni, poi venduto da Salvini Antonio ai signori Smuraglia e Scaramastra con l'atto del notaio de Rienzi del 20.12.1986 prima dell'apertura della successione di Salvini Cesare, la Corte rilevava che l'eccezione non era stata sollevata nel giudizio di primo grado e che agli atti non si rinveniva l'atto del notaio de Rienzi del 20.12.1986, che sembrava non essere stato neppure trascritto. Da ultimo quanto all'appello principale, la Corte d'Appello riteneva apodittiche le censure mosse al costo di costruzione ed ai valori di mercato determinati dal CTU. Quanto all'appello incidentale di Salvini Ada, la Corte d'Appello rilevava che i provvedimenti del Tribunale di Rieti del 12.6.2006 e del 2.7.2007, il primo disponente la rimessione della causa sul ruolo per il completamento dell'istruttoria, ed il secondo il conferimento di un nuovo incarico al CTU con proposizione di nuovi quesiti, non avendo contenuto decisorio, ma istruttorio, andavano qualificati come mere ordinanze e non come sentenze, per cui rispetto ad esse non era ipotizzabile alcuna formazione di giudicato per mancata tempestiva impugnazione. La Corte d'Appello considerava poi come domanda nuova ed inammissibile quella di divisione dell'eredità di Salvini Cesare sulla base del testamento olografo del 20.1.1967, avanzata da Salvini Maurizio con l'adesione degli appellanti principali, in quanto basata su una causa petendi diversa da quella fatta valere in primo grado, escludeva la violazione dell'art. 789 c.p.c. da parte del Tribunale di Rieti, che non aveva dichiarato esecutivo il progetto di divisione con ordinanza per mancata contestazione delle parti, avendo piuttosto fatto proprio il progetto di divisione predisposto dal CTU e già contestato dalle parti, che avevano quindi escluso la possibilità di una divisione bonaria. 7) Avverso tale sentenza, notificata il 26.3.2018, ha notificato ricorso il 25.5.2018 in via principale Salvini Maurizio, ammesso al patrocinio a spese dello Stato, affidandosi a dieci motivi, ed in pari data, ma con ricorso depositato successivamente, hanno proposto ricorso incidentale autonomo Salvini Cesarino, Ettore, Piero, Milena ed Andelio, affidandosi a nove motivi, e resiste con distinti controricorsi notificati il 3.7.2018 Salvini Ada. 8) La Procura Generale nella requisitoria scritta del 21/22.2.2024 ha chiesto la reiezione delle eccezioni d'improcedibilità e di inammissibilità sollevate da Salvini Ada, e l'accoglimento del 4°, 5°, 8° e 9° motivo del ricorso principale di Salvini Maurizio, nonché del 1°, 2°, 7° ed 8° motivo del ricorso incidentale autonomo, con rigetto degli altri motivi ed assorbimento del 9° motivo del ricorso incidentale autonomo. Hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. i ricorrenti incidentali autonomi e la controricorrente. All'udienza di discussione del 21.3.2024 la Procura Generale si é riportata alle rassegnate conclusioni scritte già presentate, chiedendo però anche l'accoglimento del 4° motivo del ricorso incidentale. RAGIONI DELLA DECISIONE 9) Preliminarmente va respinta l'eccezione d'improcedibilità del ricorso principale e del ricorso incidentale autonomo sollevata ex art. 348 c.p.c. da Salvini Ada per il mancato tempestivo deposito della copia della sentenza impugnata notificata con attestazione di conformità all'originale telematico fatta dai legali incaricati di presentare il ricorso in Cassazione, per avere effettuato i legali officiati da Salvini Maurizio e dai ricorrenti incidentali autonomi in secondo grado l'attestazione di conformità della sentenza notificata all'originale telematico ricevuto, quando già i medesimi clienti avevano conferito procura speciale ad altri legali legittimati a proporre il ricorso in Cassazione. Tale eccezione, sollevata in relazione al principio di diritto enunciato dall'ordinanza della Corte di Cassazione n. 10941 dell'8.5.2018, poi superato dalle contrarie ordinanze della Suprema Corte n. 2445/2021 e n.25969/2022, richiamate nella requisitoria della Procura Generale, e dall'ordinanza della Suprema Corte n. 4401/2021, che hanno ritenuto che il difensore nel giudizio di merito conservi il potere di autenticare la conformità all'originale telematico della copia della sentenza impugnata anche dopo che il cliente abbia incaricato un altro legale per la proposizione dell'impugnazione, é superata nel caso di specie dalla circostanza che sia il ricorso principale, che il ricorso incidentale autonomo siano stati notificati il 25.5.2018, entro il termine breve di sessanta giorni dalla data di pubblicazione della sentenza impugnata (26.3.2018). La Suprema Corte, infatti, con orientamento consolidato, ha più volte riconosciuto che "In tema di notificazione del provvedimento impugnato ad opera della parte, ai fini dell'adempimento del dovere di controllare la tempestività dell'impugnazione in sede di giudizio di legittimità, assumono rilievo le allegazioni delle parti, nel senso che, ove il ricorrente non abbia allegato che la sentenza impugnata gli è stata notificata, si deve ritenere che il diritto di impugnazione sia stato esercitato entro il c.d. termine "lungo" di cui all'art. 327 c.p.c., procedendo all'accertamento della sua osservanza, mentre, nella contraria ipotesi in cui l'impugnante abbia allegato espressamente o implicitamente che la sentenza contro cui ricorre gli sia stata notificata ai fini del decorso del termine breve di impugnazione (nonché nell'ipotesi in cui tale circostanza sia stata eccepita dal controricorrente o sia emersa dal diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d'ufficio), deve ritenersi operante il termine di cui all'art. 325 c.p.c., sorgendo a carico del ricorrente l'onere di depositare, unitamente al ricorso o nei modi di cui all'art. 372, comma 2, c.p.c., la copia autentica della sentenza impugnata, munita della relata di notificazione, entro il termine previsto dall'art. 369, comma 1, c.p.c., la cui mancata osservanza comporta l'improcedibilità del ricorso, escluso il caso in cui la notificazione del ricorso risulti effettuata prima della scadenza del termine breve decorrente dalla pubblicazione del provvedimento impugnato e salva l'ipotesi in cui la relazione di notificazione risulti prodotta dal controricorrente o presente nel fascicolo d'ufficio" (Cass. ord. 15.2.2024 n.4194; Cass. ord. 7.6.2021 n. 15832). Ciò in quanto il collegamento tra la data di pubblicazione della sentenza e quella di notificazione del ricorso assicura comunque lo scopo, cui tende la prescrizione normativa, di consentire al giudice dell'impugnazione, sin dal momento del deposito del ricorso, di accertarne la tempestività in relazione al termine di cui all'art. 325, comma 2, c.p.c. (Cass. ord. 15.2.2024 n. 4194; Cass. ord. n.26107/2022; Cass. ord. 30.4.2019 n. 11386). 10) Sempre in via preliminare va esaminato il primo motivo del ricorso principale di Salvini Maurizio, col quale si lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n. 2) c.p.c. (rectius n. 4 c.p.c.), la nullità dell'impugnata sentenza, per avere omesso la Corte d'Appello di rilevare il giudicato asseritamente formatosi sull'ordinanza del 2.4/4.7.2007 del Tribunale di Rieti, avente contenuto decisorio di sentenza. Tale ordinanza aveva escluso dall'asse ereditario il fabbricato rurale in località Prato Saracone ed i terreni annessi che erano stati rivenduti a terzi da Salvini Antonio nel 1986, e quindi prima dell'apertura della successione di Salvini Cesare, ritenendo che detti beni non potessero costituire oggetto di collazione a seguito della declaratoria di nullità della donazione dissimulata fatta dalla sentenza n. 146/1996 del Tribunale di Rieti, e che a Salvini Ada residuasse solo la possibilità di impugnarne la vendita effettuata a terzi da Salvini Antonio come vendita a non domino, mentre la Corte d'Appello aveva confermato la sentenza di primo grado, che in contrasto con tale asserito giudicato, aveva invece considerato quei beni immobili come ricompresi nell'asse ereditario di Salvini Cesare, perché rivenduti a terzi dal suo erede, Salvini Antonio, prima di essergli assegnati in sede di divisione. Si duole Salvini Maurizio che la Corte d'Appello, con laconica motivazione, abbia considerato il provvedimento del 2.4/4.7.2007 del Tribunale di Rieti, come di carattere meramente istruttorio, per avere disposto il conferimento di un nuovo incarico al CTU, e quindi come mera ordinanza, ancorché esso avesse anche inteso fissare in modo definitivo, sulla base di un preciso ragionamento logico- giuridico, la composizione dell'asse ereditario di Salvini Cesare, escludendo i beni in Pescorocchiano, località Prato Saracone, acquisendo così il carattere di una vera e propria sentenza, che non era stata tempestivamente impugnata, determinando il giudicato interno. Connesso a tale motivo, e da esaminare congiuntamente ad esso, é il settimo motivo dei ricorrenti incidentali autonomi, col quale, in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., si lamenta l'omessa pronuncia, l'ultrapetizione e la violazione del giudicato interno relativamente alla decorrenza del rendiconto dalla data della vendita simulata (1971), anziché dalla domanda di divisione (9.3.2000). Assumono i ricorrenti principali autonomi che la sentenza di primo grado, dopo avere affermato che il diritto ai frutti per i quali i coeredi nel possesso esclusivo dei beni ereditari dovevano rendere conto decorreva dalla domanda di rendiconto, aveva erroneamente fatto riferimento nel conteggio dell'importo dovuto a tale titolo, alla CTU, che lo aveva invece calcolato fin dalla data della vendita simulata del 1971. Deducono i ricorrenti incidentali che la Corte d'Appello aveva omesso di pronunciarsi sul motivo specifico di appello che era stato proposto, circa la contraddittorietà della sentenza di primo grado sul punto, ed era incorsa in ultrapetizione, perché sulla decorrenza dei frutti dalla domanda di rendiconto si era formato il giudicato interno, ed aveva invece riconosciuto tale decorrenza dall'anteriore data della vendita simulata del 1971 perché fin da allora i beni immobili oggetto della stessa sarebbero stati utilizzati da parte degli originari convenuti, senza che fosse stata avanzata domanda in tal senso da Salvini Ada. I motivi in esame sono inammissibili, in quanto non si confrontano con la motivazione addotta dalla sentenza impugnata, peraltro conforme a giurisprudenza consolidata della Suprema Corte in ordine ai criteri di distinzione tra ordinanze e sentenze, e non esprimono ragioni specifiche di critica alla qualificazione del provvedimento del 2.7.2007 del Tribunale di Rieti come mera ordinanza. L'impugnata sentenza, infatti, al penultimo capoverso di pagina 11, relativamente al provvedimento del Tribunale di Rieti del 2.7.2007, ha indicato che con esso é stato conferito un nuovo incarico al CTU e sono stati formulati nuovi quesiti da porre all'ausiliario, allo scopo di acquisire ulteriori elementi istruttori e senza alcun vero e proprio intento decisorio, implicitamente ma inequivocamente ritenendo che si sia trattato di una mera ordinanza inidonea a passare in giudicato, e non di una sentenza, sicché non c'é stata un'omessa pronuncia sullo specifico motivo di appello, né vi é stata un'ultrapetizione, in quanto la questione della decorrenza dei frutti oggetto della domanda di rendiconto, sulla quale si tornerà nel trattare del nono motivo del ricorso principale, era stata comunque devoluta al giudice di secondo grado e sul punto non si era formato alcun giudicato. Orbene, per giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, le ordinanze con cui il giudice istruttore o il collegio decidono in ordine alle richieste di ammissione delle prove e dispongono in ordine all'istruzione della causa sono di norma revocabili, anche implicitamente, e non pregiudicano il merito della decisione della controversia, non essendo pertanto idonee ad acquistare efficacia di giudicato, nè per altro verso spiegano alcun effetto preclusivo, qualsiasi questione potendo essere nuovamente trattata in sede di decisione e diversamente delibata (Cass. n. 30161/2018; Cass. 18.4.2006 n. 8932; Cass. 14.5.1992 n. 5738; Cass. 9.10.1985 n.4919). 11) Vanno a questo punto esaminati congiuntamente, per esigenze di organicità della trattazione, i vari motivi proposti col ricorso principale ed incidentale, relativamente alla composizione dell'asse ereditario di Salvini Cesare. 11a) Col quarto motivo Salvini Maurizio ha lamentato, in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., che la Corte d'Appello, confermando la sentenza di primo grado, abbia violato l'art. 112 c.p.c. per ultrapetizione, avendo incluso nel progetto di divisione, predisposto dal CTU geom. Fabrizio Festuccia, dell'asse ereditario di Salvini Cesare, i terreni con sovrastanti fabbricati riportati nel NCT del Comune di Pescorocchiano a foglio 8, particelle 117 e 118, che però non figuravano tra i beni ereditari elencati nell'atto di citazione di primo grado di Salvini Ada. 11b) Col quinto motivo Salvini Maurizio, in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., ha lamentato la contraddittorietà esistente tra la motivazione ed il dispositivo della sentenza di primo grado, confermata in appello, per avere da un lato elencato a pagina 8 i beni ricompresi nell'asse ereditario di Salvini Cesare, senza includervi i terreni con sovrastanti fabbricati riportati nel NCT del Comune di Pescorocchiano a foglio 8, particelle 117 e 118, e per avere dall'altro dichiarato esecutivo il progetto di divisione predisposto dal CTU, geometra Festuccia, con le quote 1 e 2, da sorteggiare dopo il passaggio in giudicato della sentenza, la prima delle quali comprendeva anche i terreni con sovrastanti fabbricati sopra indicati. 11c) Col secondo motivo del ricorso principale Salvini Maurizio ha lamentato, in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la violazione dell'art. 112 c.p.c., per avere la Corte d'Appello omesso di pronunciarsi sul suo secondo motivo di appello, col quale si era lamentata l'illegittima inclusione nella massa ereditaria delle particelle in Pescorocchiano, località Prato Saracone, vendute a terzi dai figli di Salvini Cesare con rogito notarile del notaio Floridi del 13.5.1995, rep. 3491. 11d) Col terzo motivo del ricorso principale Salvini Maurizio ha lamentato, in relazione all'art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la falsa applicazione delle norme sulla successione e le divisioni ereditarie e la violazione dell'art. 1415 c.p.c. (rectius cod. civ.), in quanto i suddetti immobili in Pescorocchiano, località Prato Saracone (particelle 762, 763 e 514 del foglio 8, partita 4199), una volta dichiarata la nullità per simulazione assoluta della loro vendita da Salvini Cesare al figlio Salvini Antonio del 9.8.1971, dovevano vedere regolata la propria sorte dall'art. 1415 cod. civ., secondo il quale la simulazione non era opponibile ai terzi in buona fede che avevano acquistato dai figli di Salvini Cesare nel 1995. 11e) Col secondo motivo del ricorso incidentale autonomo si lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la violazione degli articoli 99 e 112 c.p.c. e l'omessa pronuncia della Corte d'Appello sull'erronea inclusione dedotta in appello nel progetto di divisione approvato e dichiarato esecutivo dal Tribunale di Rieti, dei terreni con sovrastanti fabbricati delle particelle 117 e 118 del foglio 8 del NCT del Comune di Pescorocchiano, per i quali non era mai stata avanzata da Salvini Ada alcuna domanda di divisione. 11f) Col terzo motivo del ricorso incidentale autonomo, si lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., ed all'art. 111 comma 6° della Costituzione, la motivazione apparente e manifestamente ed irriducibilmente contraddittoria, perplessa ed incomprensibile della Corte d'Appello circa l'interpretazione data all'estensione della domanda di divisione proposta da Salvini Ada, erroneamente ritenuta comprensiva anche dei fabbricati edificati sui terreni oggetto di divisione. 11g) Col quinto motivo del ricorso incidentale autonomo, infine, si lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., l'omesso esame, ai fini della quantificazione del rendiconto, di un fatto decisivo per il giudizio, rappresentato dalla pacifica alienazione a terzi di alcuni immobili in data anteriore all'apertura della successione. 11h) Gli elencati motivi, tutti attinenti alla composizione della massa ereditaria di Salvini Cesare, vanno accolti nei termini e limiti che seguono. In merito alla composizione dell'asse ereditario di Salvini Cesare, l'impugnata sentenza, nel disattendere le richieste volte ad escludere da esso sia gli immobili donati ai figli da Salvini Antonio prima della divisione con l'atto del notaio Polidori del 18.10.1983 e poi da essi trasferiti a terzi in corso di successione, sia i fabbricati realizzati su terreni della comunione ereditaria, sia le particelle 117 e 118 del foglio 8 del NCT del Comune di Pescorocchiano non menzionate nell'originaria citazione e ricomprese per la prima volta nell'asse ereditario con la CTU del geometra Festuccia, dopo avere sottolineato che l'atto del notaio Polidori non era stato ritualmente depositato, ma era stato comunque considerato nella CTU Festuccia, ha evidenziato che il carattere unitario della comunione ereditaria prescinde dall'analitica indicazione dei beni che la compongono, per cui é risultato sufficiente per Salvini Ada fare riferimento nell'originario atto introduttivo al patrimonio da dividere (quello di Salvini Cesare), senza una specifica indicazione dei beni che lo componevano, non avendo peraltro le parti manifestato espressamente la volontà di addivenire ad una divisione solo parziale dei beni relitti da Salvini Cesare, e non potendosi in tal senso intendere il riferimento, meramente esemplificativo, compiuto da Salvini Ada nella citazione, agli estremi catastali già noti dei beni del compendio che erano stati oggetto dell'atto di vendita del notaio Cutillo del 9.8.1971 del quale era stata accertata la simulazione. La stessa sentenza ha ritenuto, che in virtù del principio di accessione dell'art. 934 cod. civ., dovevano ritenersi ricompresi nell'asse ereditario anche i fabbricati costruiti, in epoca imprecisata, sui terreni del compendio ereditario, e quanto ai beni immobili in Pescorocchiano, località Prato Saracone, trasferiti dall'erede Salvini Antonio a terzi, ha confermato la loro separata assegnazione ai figli ed eredi di Salvini Antonio tenendo però conto dei frutti anche da essi percepiti nell'accogliere la domanda di rendiconto, mentre quanto agli immobili donati con atto del notaio Polidori del 18.10.1983 da Salvini Antonio ai figli prima della divisione dell'asse di Salvini Cesare, ha ritenuto che si sia trattato di una donazione ad effetti meramente obbligatori, che avrebbe prodotto i propri effetti traslativi solo nel momento in cui i figli di Salvini Antonio fossero divenuti assegnatari di quei beni per effetto della divisione, dovendo quindi costituire il valore di essi l'oggetto di collazione per imputazione da parte degli eredi di Salvini Antonio e dovendosene tenere conto anche nel computo dei frutti maturati in relazione alla domanda di rendiconto di Salvi Ada. In realtà nell'asse ereditario di Salvini Cesare non potevano essere ricompresi gli immobili in Pescorocchiano località Prato Saracone (il fabbricato rurale a foglio 8, partita 4199, mappale 762, con annessi terreni ai mappali 514 e 763), che erano stati venduti da Salvini Antonio ai terzi M.Smuraglia ed A.M. Scaramastra con l'atto del notaio de Rienzi del 20.12.1986 trascritto il 30.12.1986, la cui esistenza non era stata contestata in primo grado oltre ad emergere dalla CTU Festuccia, senza che fosse stata dimostrata la trascrizione della domanda di accertamento della simulazione dell'atto del notaio Cutillo del 9.8.1971 avanzata da Salvini Ada contro Salvini Antonio e suoi eredi e poi accolta dalla sentenza del Tribunale di Rieti n. 146/1996, confermata dalla Corte d'Appello di Roma l'11.1.1998 e passata in giudicato, in data anteriore alla trascrizione dell'acquisto compiuto da M.Smuraglia ed A.M. Scaramastra, che peraltro non hanno partecipato al giudizio. Per detti beni non era neppure invocabile il principio affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. 28.8.2023 n. 23552; Cass. n.9543/2002) dell'efficacia meramente obbligatoria delle vendite a terzi effettuate dal coerede prima di avere ottenuto l'assegnazione del bene in sede di divisione, che presuppone che l'alienazione sia avvenuta comunque quando già il venditore era coerede con altri condividenti, in quanto Salvini Antonio ha proceduto alla vendita a terzi dei beni in questione il 20.12.1986, quale preteso proprietario e non come coerede di Salvini Cesare, quando non solo non era ancora intervenuto il giudicato sulla simulazione assoluta del suo atto di acquisto da Salvini Cesare (l'atto del notaio Cutillo del 9.8.1971), ma egli non era ancora erede di Salvini Cesare, che sarebbe deceduto, con conseguente apertura della sua successione, solo nella successiva data del 29.5.1987. Per detti beni la sentenza di primo grado, confermata in appello, ha provveduto all'assegnazione separata a favore dei figli di Salvini Antonio, correttamente non facendoli entrare tra i beni di Salvini Cesare da assegnare, ma ne ha tenuto conto nel computo dei frutti in sede di accoglimento della domanda di rendiconto, il che può essere confermato, ma tenendo conto che non si tratta di una collazione in senso proprio fatta dal donatario, o dal coerede che abbia disposto dei beni ereditari prima della divisione e dell'assegnazione a sé degli stessi, ma di una quantificazione dei danni che Salvini Antonio ed i figli suoi eredi sono tenuti a risarcire per non avere fatto rientrare i beni alienati a terzi nella massa ereditaria, come loro imposto per la natura simulata dell'atto di vendita del notaio Cutillo del 9.8.1971, col quale i beni erano stati trasferiti da Salvini Cesare a Salvini Antonio. Nell'asse ereditario non potevano essere ricompresi, ai fini dell'assegnazione, neppure gli immobili che erano stati donati da Salvini Antonio ai figli Cesarino, Piero, Maurizio, Andelio ed Ettore con l'atto del notaio Polidori del 18.10.1983, trascritto il 25.10.1983, e quindi in data anteriore all'apertura della successione di Salvini Cesare del 29.5.1987, individuati nel NCT del Comune di Pescorocchiano a foglio 8, partita 7532, mappali 394 e 395, a foglio 8, partita 7610, mappale 753, a foglio 8, partita 2752, mappale 119 ed a foglio 9, partita 7532, mappale 612, dato che anche in questo caso non é stata fornita prova da Salvini Ada dell'anteriorità, rispetto a tale trascrizione, della trascrizione della sua domanda di accertamento della simulazione assoluta dell'atto del notaio Cutillo del 9.8.1971, poi accolta dal Tribunale di Rieti con la sentenza n.146/1996 passata in giudicato. L'imputazione del valore dei beni immobili donati da Salvini Antonio ai figli Cesarino, Piero, Maurizio, Andelio ed Ettore e dei frutti relativi (computati a parte) che é stata fatta, pur non essendo giustificata dall'applicazione delle norme sulla collazione degli eredi donatari, in quanto i figli di Salvini Antonio hanno ottenuto la donazione dei beni in questione da Salvini Antonio, e non dal de cuius Salvini Cesare, né dall'asserita permanenza dei beni donati nell'asse ereditario di Salvini Cesare per l'efficacia meramente obbligatoria attribuita alla donazione compiuta da Salvini Antonio a favore dei figli quando ancora non era erede di Salvini Cesare, é tuttavia giustificata dal fatto che l'erede di Salvini Cesare, Salvini Antonio, e quindi anche i suoi eredi Salvini Cesarino, Piero, Maurizio, Andelio ed Ettore, subentrati nella medesima posizione, erano tenuti a restituire gli immobili in questione alla massa ereditaria di Salvini Cesare, dei quali hanno avuto il godimento esclusivo a partire dall'apertura della successione di Salvini Cesare, ed a risarcire il danno subito dalla coerede Salvini Ada, che ha avanzato contro di loro domanda di rendiconto. Non é ravvisabile la violazione dell'art. 99 e dell'art. 112 c.p.c., in quanto Salvini Ada nella citazione introduttiva del giudizio di primo grado aveva comunque chiesto lo scioglimento della comunione ereditaria relitta da Salvini Cesare, in tal modo indicando la causa petendi, sicchè l'individuazione dei beni immobili che la componevano costituiva un problema di prova della composizione di tale comunione e non di fissazione del thema decidendum, non potendosi ravvisare una domanda nuova, nelle circostanze emerse in istruttoria, e tramite la CTU del geometra Festuccia del giudizio di primo grado, dell'inclusione nell'asse ereditario anche delle particelle 117 e 118 del foglio 8 del NCT del Comune di Pescorocchiano, nonché delle accessioni dei fabbricati costruiti sui beni del compendio, inizialmente abusivi, ma poi condonati, in relazione alle quali sono state avanzate anche richieste di rendiconto dei frutti e di indennizzo per i miglioramenti. Al tempo stesso il principio della c.d. "universalità" della divisione ereditaria, fa sì che la divisione dell'eredità debba comprendere, di norma, tutti i beni facenti parte dell'asse ereditario (vedi in tal senso Cass. sez. un. n. 25021/2019) ed a tale principio si é conformata la motivazione della sentenza impugnata. Quanto al vizio di motivazione dedotto col secondo motivo da Salvini Maurizio, va detto che avendo la sentenza del Tribunale di Rieti, confermata in appello, fatto rientrare nella quota 1, rettificata senza contestazioni delle parti, con ordinanza dell'8.10.2009, le particelle 117 e 118 del foglio 8 del NCT del Comune di Pescorocchiano, in luogo delle particelle in Pescorocchiano località Prato Saracone per mera svista indicate nella quota 1 nella sentenza non definitiva di primo grado, che con la medesima erano già state assegnate agli eredi di Salvini Cesare, e che in realtà in quanto vendute da Salvini Antonio a terzi prima della divisione non facevano parte dell'asse ereditario relitto da Salvini Cesare, ed avendo fatto proprio il progetto di divisione predisposto dal CTU geometra Festuccia, si deve ritenere che nell'asse ereditario di Salvini Cesare siano state correttamente ricomprese anche le particelle 117 e 118 del foglio 8 del NCT del Comune di Pescorocchiano, benché non indicate nell'elenco dei beni ereditari riportato alla pagina 8 della sentenza di primo grado. 12) Col primo motivo i ricorrenti incidentali autonomi lamentano, in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la violazione degli articoli 112, 115 e 345 c.p.c., per avere la Corte d'Appello erroneamente ricondotto alla produzione in appello del testamento olografo del 20.1.1967 di Salvini Cesare la proposizione di un'autonoma domanda nuova di divisione sulla base di tale testamento, che lasciava al figlio Salvini Antonio la disponibile dei beni mobili ed immobili, ritenuta inaccoglibile, e tale motivo va esaminato per identità di doglianza congiuntamente all'ottavo motivo del ricorso principale di Salvini Maurizio, inerente alla falsa applicazione dell'art. 345 c.p.c., in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., per avere la Corte d'Appello qualificato come domanda nuova inammissibile quella proposta dal predetto con l'atto di appello incidentale tardivo di divisione dell'asse ereditario relitto da Salvini Cesare sulla base del summenzionato testamento olografo, anziché secondo legge. I suddetti motivi sono fondati e meritano accoglimento. Salvini Maurizio ha prodotto per la prima volta il testamento olografo di Salvini Cesare del 20.1.1967 nel costituirsi nel giudizio di secondo grado, a seguito dell'integrazione del contraddittorio disposta nei suoi confronti dalla Corte d'Appello di Roma, proponendo appello incidentale tardivo. L'impugnata sentenza, pur non mettendo in discussione l'ammissibilità del suddetto appello incidentale tardivo sotto il profilo temporale, lo ha rigettato (rectius dichiarato inammissibile), in quanto (vedi secondo capoverso di pagina 12) ha qualificato come autonoma domanda nuova (e quindi inammissibile ex art. 345 c.p.c.), quella avanzata da Salvini Maurizio per la prima volta in appello, di divisione dei beni della comunione ereditaria relitta da Salvini Cesare, anziché secondo legge, sulla base del testamento olografo del 20.1.1967 del de cuius, asseritamente pubblicato con ritardo per tardivo rinvenimento, col quale Salvini Cesare aveva lasciato la disponibile di tutti i suoi beni mobili ed immobili “all'amato figlio Antonio”. La sentenza impugnata ha richiamato a supporto della ritenuta inammissibilità della modifica in appello della causa petendi la sentenza della Corte di Cassazione n.6838/1991 (che si riferiva però ad un caso in cui in primo grado era stato posto a base della successione un testamento pubblico ed in secondo grado un testamento olografo), ed implicitamente ha fatto discendere l'inammissibilità della produzione in appello del suddetto testamento, dalla sua non indispensabilità ai fini della decisione secondo il testo dell'art. 345 comma 3° c.p.c. applicabile ratione temporis nel caso di specie. Rileva la Suprema Corte che l'art. 457 c.c. prevede esplicitamente che l'eredità si devolva per legge o per testamento, ma non si faccia luogo alla successione legittima se non quando manchi, in tutto o in parte, quella testamentaria. Questa Corte ha chiarito che una volta proposta la domanda di divisione dell'eredità basata sulla prospettazione di una successione legittima, non costituisce domanda nuova ed e', pertanto, ammissibile anche in appello, quella diretta ad ottenere la divisione in forza di un testamento olografo successivamente pubblicato, atteso che il titolo regolatore della successione prevale sulla disciplina legale in materia e la sua deduzione non altera gli elementi essenziali del petitum, relativo ai beni ereditari da dividere, e della causa petendi, fondata sull'esistenza della comunione del diritto di proprietà in dipendenza della successione mortis causa, in quanto il diritto di proprietà e' un diritto autodeterminato per cui il suo titolo d'acquisto non incide sulla domanda avanzata in forza del diritto acquistato (Cass. n.25343/2023; Cass. 27.9.2019 n. 24184; Cass. n. 24184/2014). Conseguentemente, è possibile la modifica della domanda di divisione nel corso del giudizio, poiché le diverse modalità di delazione dell'eredità configurano, comunque, un unico istituto, e nel procedimento di scioglimento della comunione ereditaria esse non individuano singole domande, cosicché la parte può sempre adattare la domanda di divisione alle evenienze ed alle sopravvenienze di causa. Ne deriva che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto inammissibile la domanda di divisione formulata in appello da Salvini Maurizio sulla base del testamento olografo di Salvini Cesare del 20.1.1967, facendosi influenzare da tale valutazione nel ritenere non indispensabile ai fini del decidere quel documento, e non provvedendo ad esprimere un autonomo giudizio sulla ritualità della sua acquisizione agli atti del processo sulla base del precetto dell'art. 345 comma 3° c.p.c. vigente ratione temporis, che le imponeva di valutare se il documento fosse o meno indispensabile ai fini della decisione. L'esame e l'interpretazione del testamento, così come la valutazione della sua contestata attribuibilità al testatore, sono però rimesse al giudice di rinvio. Per principio consolidato, infatti, nel giudizio di legittimità introdotto a seguito di ricorso per cassazione non possono trovare ingresso, e perciò non sono esaminabili, le questioni sulle quali, per qualunque ragione, il giudice inferiore non si sia pronunciato per averle ritenute assorbite in virtù dell'accoglimento di un'eccezione pregiudiziale, con la conseguenza che, in dipendenza della cassazione della sentenza impugnata per l'accoglimento del motivo attinente alla questione assorbente, l'esame delle ulteriori questioni oggetto di censura (ove riproposte o comunque rilevabili d'ufficio), in esito alla cassazione della questione assorbente, deve essere rimesso al giudice di rinvio (salva l'eventuale ricorribilità per cassazione avverso la successiva sentenza che abbia affrontato le suddette questioni precedentemente ritenute superate) (Cass. n.25343/2023; Cass. 16.6.2022 n. 19442; Cass. 5.11.2014 n. 23558; Cass. 1.3.2007 n.4804). 13) Per effetto dell'accoglimento del motivo che precede, deve ritenersi assorbito il nono motivo del ricorso principale di Salvini Maurizio, col quale lo stesso ha lamentato, in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la violazione dell'art. 723 cod. civ. e la violazione dell'art. 112 c.p.c.. In particolare Salvini Maurizio ha lamentato che la Corte d'Appello, confermando la sentenza di primo grado, e disattendendo un suo specifico motivo di appello, abbia fatto decorrere l'obbligo di rendiconto dei frutti dei beni immobili alienati a Salvini Antonio da Salvini Cesare con l'atto di compravendita simulato del notaio Cutillo del 9.8.1971 da tale data, anziché dall'apertura della successione di Salvini Cesare, con la motivazione che si sarebbe trattato comunque di beni immobili che a seguito della dichiarata simulazione dell'atto di compravendita del 9.8.1971 sarebbero rientrati da quella data nel patrimonio ereditario di Salvini Cesare, in realtà deceduto nella successiva data del 29.5.1987. La necessità che la Corte d'Appello valuti in sede di rinvio il testamento olografo attribuito a Salvini Cesare prodotto da Salvini Maurizio in secondo grado, contenente l'assegnazione della porzione disponibile dei beni mobili ed immobili al figlio Salvini Antonio, ed influente quindi almeno potenzialmente, al pari delle disposizioni date sulla formazione dell'asse ereditario di Salvini Cesare, sul progetto di divisione, sull'assegnazione dei beni ed anche sulla misura dei frutti spettanti ai coeredi non assegnatari dei beni, fanno ritenere assorbito questo motivo. 14) Ugualmente assorbito per le stesse ragioni é l'ottavo motivo del ricorso incidentale autonomo, col quale, in relazione all'art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., si é lamentata la violazione dell'art. 723 cod. civ. e l'erronea affermazione in diritto della decorrenza dell'obbligo di rendiconto per gli immobili oggetto dell'atto di vendita simulata del notaio Cutillo del 9.8.1971 da tale data, anziché dalla domanda di divisione dei beni di Salvini Cesare (9.3.2000), o in subordine dall'apertura della successione di Salvini Antonio (21.10.1989). 15) Col sesto motivo del ricorso principale Salvini Maurizio lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la violazione dell'art. 132 n. 4) c.p.c. per motivazione inesistente, apparente e/o perplessa ed erronea interpretazione del quinto e sesto motivo di appello, per non essersi la Corte d'Appello pronunciata sulla domanda di riconoscimento del rimborso delle spese sostenute per materiali e manodopera per la realizzazione dei fabbricati sorti sui terreni indicati nell'atto di citazione di Salvini Ada, e per avere implicitamente rigettato la domanda di rimborso basata sulla configurazione di un'utile gestione a favore degli altri eredi partecipanti alla comunione ereditaria. Col settimo motivo del ricorso principale, connesso al precedente, si lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n. 3) e 4) c.p.c., la violazione delle norme sull'onere della prova, la violazione dell'art. 132 n. 4) c.p.c. e la motivazione perplessa, per avere la Corte d'Appello ritenuto non prodotti specifici documenti per dimostrare le spese di costruzione, benché la costruzione da parte dei convenuti dei fabbricati fosse un fatto pacifico e la quantificazione del credito per le migliorie dovesse essere effettuata dal CTU incaricato. I due motivi in questione sono infondati, in quanto l'impugnata sentenza dopo avere sostenuto la mancanza di una vera e propria domanda di rimborso delle migliorie, legata al fatto che i figli di Salvini Antonio avevano inizialmente cercato di non far rientrare nella massa da dividere i fabbricati costruiti sui terreni del nonno paterno, a pagina 8, 9 e 10 ha comunque evidenziato, nel merito, che non é stata fornita la prova, che evidentemente incombeva sui coeredi che avevano formulato la richiesta di rimborso delle migliorie, di quando i fabbricati fossero stati realizzati, se prima, o dopo la morte di Salvini Cesare, e di chi ne fosse l'autore, e da questo ha fatto derivare l'inapplicabilità della disciplina dell'art. 936 cod. civ. (opere fatte da un terzo con materiali propri). Questa valutazione, che sul piano giuridico é corretta e sostenuta da motivazione adeguata e conforme all'art. 2697 cod. civ., non é sindacabile dalla Suprema Corte sotto il profilo della conformità al materiale istruttorio fornito, e lo stesso ricorrente neppure in questa sede ha fornito indicazioni precise sull'epoca di costruzione e sugli autori dei singoli fabbricati, per cui neppure é ipotizzabile che sul punto non vi sia stata contestazione specifica di Salvini Ada, che peraltro neppure risulta che fosse a conoscenza di tali fabbricati, originariamente abusivi e poi condonati, e neppure accatastati. 16) Col decimo motivo il ricorrente principale Salvini Maurizio lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la violazione degli articoli 112 c.p.c. e 723 cod. civ.. Si duole Salvini Maurizio che, benché col nono motivo dell'appello incidentale egli avesse lamentato l'incongruità ed illegittimità dei criteri legali applicati dal Tribunale di Rieti nel disporre la divisione, per avere pronunciato separata condanna dei figli di Salvini Cesare in favore di Salvini Ada a titolo di rendiconto dei frutti percepiti dal godimento esclusivo dei beni ereditari, omettendo di far rientrare tale voce nell'attivo della massa prima della formazione delle quote (rectius porzioni) e dei conguagli in denaro, la Corte d'Appello abbia confermato tale errato modo di procedere, in violazione dell'art. 723 cod. civ., addivenendo così a stabilire con un capo autonomo il conguaglio in denaro eccessivo di € 65.000,00 per i frutti, prima ancora che attraverso il sorteggio fosse stabilita l'assegnazione dei beni ereditari, incidente sulla spettanza o meno e comunque sull'entità dell'indennità per i frutti percepiti dal coerede. Il suddetto motivo deve ritenersi assorbito in ragione dell'accoglimento dei motivi relativi alla domanda di successione testamentaria (punto 12) e dell'accoglimento parziale dei motivi relativi alla composizione dell'asse ereditario di Salvini Cesare (punto 11h). 17) Col quarto motivo del ricorso incidentale autonomo si lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la nullità ed improcedibilità della divisione dei fabbricati e dell'approvazione del progetto di divisione per violazione dell'art. 17 comma 1° della L.n. 47 del 1985 (poi sostituito dall'art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2011), in quanto per i fabbricati costruiti sui terreni facenti parte della massa ereditaria non risulterebbe rilasciata la concessione in sanatoria presentata ex L. n. 47/1985. La questione non é stata trattata dalla sentenza impugnata, ma poiché le norme volte a contrastare gli abusi edilizi sono poste a tutela di un interesse pubblico ed il difetto di regolarità urbanistico- edilizia é difetto di una condizione dell'azione, si tratta di questione rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio attinente all'oggetto della divisione (vedi in tal senso Cass. sez. un. 7.10.2019 n. 25021; Cass. 11.11.2009 n. 23825), e tuttavia il motivo é infondato. Occorre tener conto della sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione n. 25021 del 7.10.2019, con cui, superandosi il precedente orientamento contrario all'applicazione delle norme sulle nullità testuali degli atti di trasferimento della proprietà di immobili abusivi agli scioglimenti di comunione, non espressamente contemplati dall'art. 40 comma 2° della L. n. 47/1985, al contrario di quanto previsto dall'art. 46 comma 1° del D.P.R. n. 380/2001, che espressamente li contempla, è stato enunciato il principio di diritto (vincolante ai sensi dell'art. 374 comma 3° c.p.c.) alla stregua del quale “Gli atti di scioglimento delle comunioni relativi ad edifici o a loro parti, sono soggetti alla comminatoria della sanzione di nullità prevista dall'art. 40, comma 2° della L.n.47 del 1985 per gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici realizzati prima della entrata in vigore della L. n. 47 citata dai quali non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ovvero ai quali non sia unita una copia della domanda di sanatoria corredata dalla prova del versamento delle prime due rate di oblazione o dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante che la costruzione dell'opera è stata iniziata in data anteriore al 1 settembre 1967”. Nel caso di specie la CTU espletata dal geometra Fabrizio Festuccia, sulla base delle informazioni assunte presso l'Ufficio tecnico del Comune di Pescorocchiano, ha consentito di accertare che le edificazioni sui terreni della massa ereditaria, realizzate nel 1973, nel 1976 e nel 1983, sono state accompagnate dalla presentazione di tempestive domande di condono edilizio ex L. n. 47/1985 con versamento delle relative oblazioni, in totale assenza di motivi che possano legittimare il diniego delle concessioni in sanatoria, trattandosi, peraltro, di costruzioni in zona agricola con urbanizzazione consolidata, e lo stesso CTU ha espressamente riconosciuto l'alienabilità e trasferibilità di tali costruzioni in forza delle sanatorie edilizie in itinere. Dal momento che si tratta di costruzioni realizzate prima dell'entrata in vigore della L. n.47/1985, e quindi non sotto la vigenza dell'art. 46 comma 1° del D.P.R. n.380/2001, si devono ritenere sufficienti per la validità dei trasferimenti le domande di sanatoria corredate dalle prove del versamento delle prime due rate di oblazione anche in assenza del permesso di costruire, o del permesso in sanatoria, richiesti per la validità dei trasferimenti da tale ultima disposizione solo per le costruzioni iniziate dopo il 17.3.1985 (vedi in tal senso Cass. sez. un. 7.10.2019 n. 25021). 18) Col sesto motivo del ricorso incidentale autonomo si lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., l'omessa pronuncia sul dedotto motivo di violazione degli articoli 746 e 747 cod. civ.. Ci si duole che la Corte d'Appello, pur essendo stato proposto appello sul fatto che gli immobili in Pescorocchiano località Prato Saracone venduti a terzi da Salvini Antonio con l'atto del notaio de Rienzi del 20.12.1986 non fossero stati imputati alla massa ereditaria per il valore che avevano all'apertura della successione di Salvini Cesare (29.5.1987), bensì per il loro valore all'attualità, abbia ritenuto l'eccezione non tempestivamente sollevata e l'atto del notaio de Rienzi del 20.12.1986 non ritualmente prodotto e non trascritto, ancorché acquisito dal CTU nel corso del giudizio di primo grado e riprodotto nel fascicolo degli appellanti principali insieme alla nota di trascrizione, omettendo così di pronunciarsi sull'omessa applicazione degli articoli 746 e 747 cod. civ.. Il motivo, per come formulato, deve ritenersi assorbito per effetto dell'accoglimento parziale dei motivi relativi alla composizione dell'asse ereditario di Salvini Cesare (punto 11h). 19) Col nono motivo del ricorso incidentale autonomo si lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la violazione degli articoli 99 e 112 c.p.c., e l'omessa pronuncia della Corte d'Appello sulla domanda di aggiornamento delle stime degli immobili facenti parte della massa da dividere, nonché la nullità della sentenza impugnata per error in procedendo. Ci si duole che la Corte d'Appello abbia omesso di pronunciarsi sul sesto motivo dell'appello principale, concernente tali aspetti, nonostante la stima dei fabbricati fosse stata fatta dal CTU in primo grado nel 2005, e quindi molti anni prima dell'effettiva divisione dei beni, ancorché per la determinazione del loro prezzo di mercato debba farsi riferimento ai prezzi correnti al tempo della decisione, o almeno all'aggiornamento di quelli già determinati in precedenza (Cass. n.2907/2005). Il suddetto motivo deve ritenersi assorbito per effetto dell'accoglimento dei motivi di cui a punti 11h) e 12),che dovranno determinare in sede di rinvio una preliminare decisione sulla delazione legittima, o testamentaria, ed una conseguente decisione basata su una valutazione attualizzata del compendio ereditario di Salvini Cesare, del valore dei beni alienati a terzi da imputare alla quota degli eredi di Salvini Antonio e dei frutti percepiti dal godimento in via esclusiva dei beni del compendio ereditario. Quanto alle spese del giudizio di legittimità, per esse provvederà il giudice di rinvio in base all'esito finale della causa. P.Q.M. La Corte di Cassazione accoglie l'8° motivo del ricorso principale ed il 1° e 5° motivo del ricorso incidentale autonomo, accoglie il 2°, 3°, 4° e 5° motivo del ricorso principale ed il 2° e 3° motivo del ricorso incidentale nei termini di cui in motivazione, assorbiti il 9° e 10° motivo del ricorso principale, il 6°, l'8° ed il 9° motivo del ricorso incidentale autonomo, dichiara inammissibili il 1° motivo del ricorso principale ed il 7° motivo del ricorso incidentale autonomo, ed infondati gli altri motivi del ricorso principale e del ricorso incidentale autonomo, cassa l'impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche per le spese del giudizio di legittimità. Così deciso nella camera di consiglio del 21.3.2024 Il Consigliere estensore Il Presidente Vincenzo Picaro Felice Manna
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: FELICE MANNAPresidente ALDO CARRATOConsigliere VINCENZO PICAROConsigliere-Rel. GIUSEPPE FORTUNATOConsigliere MAURO CRISCUOLOConsigliere Oggetto: SUCCESSIONI Ud.21/03/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 1419/2019 R.G. proposto da: SINIGAGLIA MARIA ROSA, elett.te domiciliata in ROMA, VIA CAPPELLETTA DELLA GIUSTINIANA N. 68, presso lo studio dell’avvocato GIANNI CECCARELLI, (CCCGNN71D24M082J), che la rappresenta e difende per procura in calce al ricorso, -ricorrente- contro MARCHETTI ANTONINO e MARCHETTI ALDO, quali eredi di SORGE ANGELA, elett.te domiciliati in MESSINA, VIALE SAN MARTINO N. 116, presso lo studio dell’avvocato MARIA RUGGERI (RGGMRA65P59F158X), che li rappresenta e difende per procura in calce al controricorso, -controricorrenti e ricorrenti incidentali- nonché contro SORGE BARBARA e DE ANGELIS SILVIO, -intimati- avverso la SENTENZA della CORTE D'APPELLO di ROMA n.3735/2018 depositata l’1.6.2018. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21.3.2024 dal Consigliere VINCENZO PICARO. FATTI DI CAUSA 1) Con atto di citazione notificato il 27.6.2003 Sorge Angela conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma la seconda moglie del padre, Sinigaglia Maria Rosa, e la sorella Sorge Barbara, con quest’ultima convivente nell'abitazione familiare di Roma, via dell'Isola Farnese n. 121, con annesso terreno, box e cantina- grotta costituenti pertinenze del villino, per quanto ancora rileva, ai fini dello scioglimento dei beni relitti dal padre Sorge Giacomo, deceduto ab intestato il 17.12.2001. 2) Il Tribunale di Roma, espletata CTU per la stima del compendio, con la sentenza n. 12920/2012, per quanto ancora rileva, detraeva dal valore del compendio le spese di € 30.000,00 preventivate per la regolarizzazione delle pertinenze del villino, riconosceva il diritto di abitazione sul villino in favore del coniuge superstite, facendolo gravare sulla quota spettante a Sinigaglia Maria Rosa, anziché in aggiunta alla sua quota legittima ex art. 540 comma 2° cod. civ., attribuiva l'immobile, ritenuto indivisibile, alla Sinigaglia, con obbligo per quest'ultima di versare un conguaglio in denaro a favore di Sorge Angela e Sorge Barbara di € 263.000,00 ciascuna, dichiarava compensate le spese processuali tra Sorge Barbara e Sinigaglia Maria Rosa e compensate per metà le spese tra quest'ultima e Sorge Angela. 3) Proposto appello da Sinigaglia Maria Rosa, che contestava la stima del CTU e chiedeva che il suo diritto di abitazione fosse detratto dal valore dell'asse ereditario, ricomprendendo in esso solo la nuda proprietà del villino nel quale abitava, Sorge Barbara si associava alla richiesta di rinnovazione della CTU ai fini della modifica dei conguagli, mentre Sorge Angela chiedeva il rigetto dell'appello, ed interveniva volontariamente l'avv. Silvio De Angelis, che aveva patrocinato la Sinigaglia nella fase stragiudiziale civile e penale connessa ed in primo grado per tutta l'attività istruttoria fino alla revoca del mandato e chiedeva quale legale distrattario, che in caso di accoglimento del gravame della Sinigaglia, quest'ultima e le altre parti processuali fossero condannate in solido al pagamento in suo favore dei compensi e delle spese a lui spettanti, per il patrocinio svolto nel giudizio di primo grado, e delle spese processuali per l'intervento in secondo grado. 4) La Corte d'Appello di Roma con la sentenza n. 3735/2018 del 15.12.2017/1.6.2018 accoglieva parzialmente l'appello della Sinigaglia, confermava il diritto di abitazione vitalizio di quest'ultima sul villino e sulle pertinenze, comprendendo nell'asse ereditario solo la nuda proprietà degli stessi, condannava la Sinigaglia al pagamento in favore di Sorge Angela e Sorge Barbara, entro quattro mesi dal passaggio in giudicato della sentenza, del conguaglio in denaro di € 160.000,00 ciascuna, con la rivalutazione monetaria da giugno 2010 alla data della sentenza, con gli interessi legali da calcolarsi secondo i criteri della sentenza n. 1712/1995 della Corte di Cassazione, condannava Sorge Angela e Sorge Barbara al pagamento in favore della Sinigaglia della somma di €16.647,33 ciascuna (comprensiva delle spese di condono del villino già versate dalla Sinigaglia a titolo di oblazione ed oneri concessori, pari ad € 4.841,00, delle spese di condono da integrare pari ad €2.442,33, delle spese preventivate dal CTU per il condono delle pertinenze e per la spesa dei professionisti da incaricare per la relativa pratica di €10.000,00, nonché della metà del pignoramento gravante sul compendio immobiliare a favore della Sinigaglia e contro il de cuius, pari per ciascuna ad € 4.205,00), escludendo invece la rimborsabilità delle spese della ristrutturazione effettuata dalla Sinigaglia nel 2001 in funzione del diritto di abitazione, dichiarava inammissibile l'intervento in appello dell'avv. Silvio De Angelis e compensava le spese processuali tra tutte le parti in causa. 5) Avverso tale sentenza, non notificata, ha proposto ricorso alla Suprema Corte Sinigaglia Maria Rosa, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, con due motivi, ricorso notificato il 27.12.2018 a tutte le altre parti del giudizio di secondo grado, depositando però ex art. 369 c.p.c. solo le copie analogiche del ricorso notificato a Sorge Angela e De Angelis Silvio, delle ricevute di consegna ed accettazione e della relata di notifica a mezzo pec personalmente compiuta dall'avv. Gianni Ceccarelli (legale della Sinigaglia) ai sensi della L. 21.1.1994 n. 53 al legale domiciliatario di Sorge Angela, avvocato Guido Battiato, ed al legale domiciliatario di De Angelis Silvio, avv. Augusto Vito, senza l'attestazione di conformità agli originali telematici in suo possesso. 6) Avverso la stessa sentenza, hanno notificato a mezzo pec ai sensi della L.21.1.1994 n. 53 controricorso con ricorso incidentale a tutti i legali domiciliatari delle altre parti del giudizio di appello, Marchetti Antonino e Marchetti Aldo, quali eredi di Sorge Angela (deceduta il 13.8.2018), facendo valere un unico motivo e depositando ex art. 369 c.p.c. copia analogica del controricorso notificato con la relata di notifica, le ricevute di consegna ed accettazione e l'attestazione di conformità di tali copie cartacee agli originali digitali, ai sensi e per gli effetti degli articoli 9 comma 1 bis e 6 comma 1 della L. n. 53/1994, come modificata dall'art. 16 quater comma 1 lettera d) del D.Lgs. 7.3.2005 n. 82 e successive modificazioni. 7) Avviata la causa alla trattazione in camera di consiglio non partecipata della sesta sezione del 16.1.2020 dal Consigliere delegato Giuseppe Tedesco per manifesta fondatezza del primo motivo del ricorso principale relativo all'inammissibilità della divisione per l'abusività degli immobili del compendio, con assorbimento del secondo motivo dello stesso e del ricorso incidentale, e depositata memoria dagli eredi di Sorge Angela, con ordinanza interlocutoria della sesta sezione del 16.1/7.2.2020 la causa veniva rinviata a nuovo ruolo per la discussione in pubblica udienza, in quanto veniva rilevata la mancanza di prova della notificazione del ricorso principale a Sorge Barbara, per cui veniva concesso il termine di sessanta giorni dalla comunicazione per la produzione della prova di tale notificazione, o per provvedere alla relativa rinnovazione, ed in quanto non risultava acquisito il fascicolo della causa di merito ed in particolare la CTU espletata, occorrenti per valutare la portata degli abusi edilizi perpetrati, che sembravano limitati alle pertinenze, con conseguente applicabilità in tale ipotesi dei principi enunciati dalle sezioni unite della Corte di Cassazione con le sentenze n. 25021 del 2019 e n. 8230 del 2019, ed in quanto l'esito del ricorso principale poteva giustificare l'esame del ricorso incidentale, col quale era stata denunciata la contrarietà della soluzione fatta propria dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione n.4847/2013, applicata dalla decisione impugnata per detrarre preventivamente dalla massa ereditaria il diritto di abitazione, all'art. 540 comma 2° cod. civ., che richiedeva invece che tale diritto gravasse anzitutto sulla disponibile, poi sulla quota riservata al coniuge superstite, e solo in caso di insufficienza di quest'ultima, sulla quota riservata ai figli. 8) Comunicata il 7.2.2020 l'ordinanza interlocutoria, il legale della ricorrente in data 18.5.2020 depositava la relata della notifica a mezzo pec del ricorso effettuata il 27.12.2018 all'indirizzo pec dell'ordine degli avvocati di Roma dell'avv. Francesca Barbaro, legale domiciliatario costituito in secondo grado per Sorge Barbara, con le ricevute di consegna ed accettazione e copia dell'attestazione ora per allora (datata 18.5.2020) della conformità agli originali telematici delle copie analogiche depositate. 9) La Procura Generale, pur rilevando che la ricorrente ha prodotto le copie analogiche delle ricevute di accettazione e consegna della notifica a mezzo pec del ricorso a Sorge Barbara senza l'attestazione di conformità agli originali telematici, e che non é stato acquisito il fascicolo d'ufficio, ma solo la CTU espletata, ha concluso per la cassazione senza rinvio dell'impugnata sentenza in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, ritenendo impossibile giuridicamente la divisione del compendio ereditario abusivo (in tal senso Cass. n. 9255/2023; Cass. n. 26563/2021; Cass. n. 16537/2020; Cass. sez. un. n.25021/2019) per il mancato completamento della seconda procedura di condono del villino (inerente alla chiusura del patio ed alla realizzazione di un secondo bagno) col rilascio della concessione in sanatoria, ed in quanto per le pertinenze (cantina-grotta e box auto), a servizio del villino, ed essenziali al suo completamento perché concorrenti alla sua utilizzazione funzionale in relazione alla destinazione dello stesso (Cass. n. 1998/2016 e Cass. n. 16283/2018), non é stata neppure presentata domanda di sanatoria, nel contempo evidenziando che nessuna delle parti ha avanzato domanda di divisione parziale del compendio ereditario, e sottolineando l'assorbimento del secondo motivo del ricorso principale e del ricorso incidentale. I soli eredi di Sorge Angela hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.. RAGIONI DELLA DECISIONE 10) Preliminarmente va dichiarata l'improcedibilità del ricorso principale di Sinigaglia Maria Rosa ex art. 369 c.p.c. per non avere il legale della stessa depositato entro il termine di venti giorni dall'ultima notificazione a mezzo pec del ricorso alla Suprema Corte (27.12.2018) le copie analogiche del ricorso notificato a tutte le parti del giudizio di secondo grado (Sorge Angela, Sorge Barbara e De Angelis Silvio), con la relata di notifica, le ricevute di consegna ed accettazione per ciascuna di esse e l'attestazione di conformità agli originali digitali delle copie cartacee depositate ex artt. 9 commi 1 bis e 1 ter della L.n.53/1994. Nel termine di venti giorni dall'ultima notifica del ricorso il legale della Sinigaglia, avv. Gianni Ceccarelli, ha infatti depositato solo copia cartacea del ricorso da lui notificato ex L. 21.1.1994 n. 53 il 27.12.2018 al legale domiciliatario in secondo grado di Sorge Angela, avv. Guido Battiato, ed al legale domiciliatario in secondo grado di De Angelis Silvio, avv. Augusto Vito, con la relata di notifica a mezzo pec riferita anche a Sorge Barbara, con la procura speciale e con le ricevute di consegna ed accettazione delle sole notifiche a Sorge Angela e De Angelis Silvio, senza l'attestazione di conformità di tali copie analogiche agli originali telematici in suo possesso ex artt. 9 commi 1 bis e 1 ter della L. n. 53/1994. Soltanto dopo l'adunanza della camera di consiglio della sesta sezione del 16.1.2020 l'avv. Gianni Ceccarelli per la ricorrente Sinigaglia, il 18.5.2020, ha depositato la copia delle ricevute di consegna ed accettazione della notifica in data 27.12.2018 a mezzo pec del ricorso inviata all'avv. Francesca Barbaro, legale domiciliataria nel giudizio di secondo grado di Sorge Barbara, con l'attestazione ora per allora, datata 18.5.2020, della conformità delle suddette copie analogiche agli originali digitali in suo possesso. La notifica a mezzo PEC del ricorso per cassazione predisposto in originale telematico, da ritenersi perfezionata nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione e di consegna del messaggio nella casella del destinatario, comporta la decorrenza del termine di giorni venti stabilito, a pena di improcedibilità, dall'art. 369 c.p.c., comma 1°, entro il quale il ricorrente deve procedere al deposito in cancelleria di copia analogica del ricorso, munito di attestazione di conformità del difensore ex art. 9 commi 1 bis e 1 ter della L. n. 53 del 1994 per tutte le notifiche effettuate alle controparti nel termine d'impugnazione della sentenza, salvo che per eventuali notifiche successivamente compiute per integrazione del contraddittorio in ipotesi di litisconsorzio necessario (vedi in tal senso Cass. 27.12.2022 n. 37829 e Cass. 20.1.1995 n. 623, che peraltro hanno sottolineato come l'improcedibilità ex art. 369 c.p.c. per mancato tempestivo deposito delle notifiche del ricorso compiute nei confronti delle controparti entro il termine d'impugnazione, non sia influenzata dall'eventuale successiva integrazione del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte pretermesso). Il rigore del principio dell'improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c. nei casi di notificazione a mezzo pec del ricorso non seguita nei venti giorni dal deposito di copia analogica del ricorso notificato alle altre parti, della relata di notifica, delle ricevute di consegna ed accettazione, della procura, della sentenza impugnata con relazione di notifica e dell'attestazione di conformità del difensore delle copie analogiche agli originali telematici ex art. 9 commi 1 bis e 1 ter della L. n. 53/1994 della L. n. 53 del 1994, o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, é stato attenuato dalla giurisprudenza della Suprema Corte più recente. In particolare si é esclusa l'improcedibilità ove il controricorrente (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica del ricorso ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all'originale notificatogli anche sulla base della previsione dell'art. 23 comma 2° del D.Lgs. n. 82 del 2005, avendo egli la possibilità di verificare telematicamente la presenza della firma digitale del ricorso notificatogli; viceversa, ove il destinatario della notificazione a mezzo PEC del ricorso nativo digitale rimanga solo intimato (così come nel caso in cui non tutti i destinatari della notifica depositino controricorso) ovvero disconosca la conformità all'originale della copia analogica non autenticata del ricorso tempestivamente depositata, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità sarà onere del ricorrente depositare l'asseverazione di conformità all'originale della copia analogica sino all'udienza di discussione o all'adunanza in camera di consiglio (Cass. 23.9.2022 n. 27929; Cass. ord. 12.2.2021 n. 3727; Cass. sez. un. 25.3.2019 n. 8312; Cass. sez. un. 24.9.2018 n. 22438; Cass. ord. 30.10.2018 n. 27480). Applicando questi principi nel caso di specie, pertanto, si può ritenere che non avendo gli eredi di Sorge Angela, Marchetti Antonino e Marchetti Aldo, controricorrenti e ricorrenti incidentali, disconosciuto la conformità all'originale della copia analogica del ricorso notificato al legale domiciliatario di Sorge Angela, della relata di notificazione del ricorso e delle relative ricevute di consegna ed accettazione che la ricorrente aveva depositato entro i venti giorni dalla notifica del ricorso principale ex art. 369 comma 2° c.p.c., il vizio d'improcedibilità nei loro confronti sia stato sanato per raggiungimento dello scopo, ma non può dirsi altrettanto per De Angelis Silvio, che é rimasto intimato e per il quale non é stata prodotta l'attestazione di conformità delle copie analogiche agli originali telematici, né per il vizio d'improcedibilità scaturente dal mancato deposito entro venti giorni dalla notifica del ricorso principale del 27.12.2018 della copia delle ricevute di consegna ed accettazione relative alla notifica effettuata in tale data al legale domiciliatario di Sorge Barbara con l'attestazione di conformità ex art. 9 commi 1 bis e 1 ter della L. n. 53/1994 della L. n. 53 del 1994, dal momento che anche Sorge Barbara é rimasta intimata, e che la copia analogica delle ricevute di consegna ed accettazione della notifica del ricorso a Sorge Barbara, avv. Francesca Barbaro, avvenuta il 27.12.2018, con l'attestazione di conformità ora per allora agli originali telematici, sono state depositate dal legale di Sinigaglia Maria Rosa solo in data 18.5.2020, e quindi non solo oltre il termine di venti giorni dalla notifica stabilito dall'art. 369 comma 2° c.p.c., ma anche dopo l'adunanza in camera di consiglio della sesta sezione del 16.1.2020. 11) Va tuttavia esclusa l'improcedibilità ex art. 369 comma 2° c.p.c. del controricorso e ricorso incidentale di Marchetti Antonino e Marchetti Aldo quali eredi di Sorge Angela, notificato il 4.2.2019 ai legali domiciliatari di tutte le controparti di quest'ultima nel giudizio di secondo grado, in quanto i controricorrenti entro 20 giorni dal 4.2.2019 hanno provveduto a depositare copia del controricorso e ricorso incidentale notificato a tutte le controparti, con la relazione di notificazione, con la procura speciale, con le ricevute di consegna ed accettazione e con l'asseverazione di conformità delle copie analogiche agli originali digitali ex art. 9 commi 1 bis e 1 ter della L. n.53/1994 della L. n. 53 del 1994. 12) Col ricorso incidentale si lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n.3) c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli articoli 542 comma 2°, 581 e 582 cod. civ.. I ricorrenti incidentali si dolgono che l'impugnata sentenza, uniformandosi ai principi espressi dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione n. 4847/2013, abbia riconosciuto al coniuge superstite del de cuius, Sinigaglia Maria Rosa, i diritti di abitazione nella casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili della stessa in aggiunta alla quota legittima di 1/3 attribuitale dall'art. 581 cod. civ., detraendone il valore dalla massa ereditaria e facendovi rientrare quindi solo la nuda proprietà del villino e delle sue pertinenze, anziché far gravare tale legato ex lege, come espressamente indicato dall'art. 540 comma 2° cod. civ. anzitutto sulla porzione disponibile, in secondo luogo sulla quota di riserva del coniuge, e solo in caso di insufficienza delle stesse, limitatamente all'eccedenza, sulle quote riservate ai figli. Evidenziano i ricorrenti incidentali che già altre sentenze della Suprema Corte (Cass. 19.4.2013 n. 9651) anziché seguire la menzionata pronuncia delle sezioni unite, determinante la lesione delle quote riservate ai figli del defunto attraverso una tutela eccessiva del coniuge superstite, hanno preferito applicare l'art. 553 cod. civ., che sia pure in relazione ai lasciti testamentari, stabilisce il principio che nel concorso tra successione legittima e necessaria gli eredi legittimi debbano subire la riduzione proporzionale delle loro porzioni nei limiti necessari ad integrare la quota riservata ai legittimari, che devono però imputare alla loro quota riservata quanto hanno già ricevuto dal defunto in virtù di donazioni, o di legati (tra i quali rientra il diritto di abitazione nella casa adibita a residenza familiare e di uso dei beni mobili della stessa). La procedibilità ed ammissibilità del ricorso incidentale degli eredi di Sorge Angela, notificato entro i 40 giorni dalla notifica del ricorso principale ed entro un anno dalla pubblicazione della sentenza impugnata, fa ritenereevitata la formazione del giudicato circa la questione della divisibilità del compendio ereditario sotto il profilo della presenza in esso di manufatti abusivi, che va esaminata con priorità rispetto alla questione dei conguagli in denaro posta dal ricorso incidentale. Da un lato tale questione era stata posta col primo motivo del ricorso principale ritenuto improcedibile e non era stata minimamente affrontata dalla sentenza impugnata, né da quella di primo grado, ed anche la questione dei conguagli in denaro connessa alle metodologie di calcolo del diritto di abitazione del coniuge superstite assegnatario per violazione dell'art. 540 comma 2° cod. civ. oggetto del ricorso incidentale involge a monte la questione dell'assoggettabilità del compendio a divisione, e dall'altro deve comunque ritenersi rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, salvo i limiti del giudicato qui non formatosi, in quanto attinente all'oggetto della divisione, poiché le norme volte a contrastare gli abusi edilizi sono poste a tutela di un unteresse pubblico ed il difetto di regolarità urbanistico-edilizia é difetto di una condizione dell'azione (vedi in tal senso Cass. sez. un. 7.10.2019 n. 25021; Cass. 11.11.2009 n.23825). Occorre quindi tener conto della sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione n. 25021 del 7.10.2019, con cui, superandosi il precedente orientamento contrario all'applicazione delle norme sulle nullità testuali degli atti di trasferimento della proprietà di immobili abusivi agli scioglimenti di comunione, non espressamente contemplati dall'art. 40 comma 2° della L. n.47/1985, al contrario di quanto previsto dall'art. 46 comma 1° del D.P.R. n.380/2001, che espressamente li contempla, sono stati enunciati i seguenti principi di diritto (vincolanti ai sensi dell'art. 374 comma 3° c.p.c.): a) "Quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46 e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell'azione ex art. 713 c.c., sotto il profilo della "possibilità giuridica", e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell'ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell'edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio"; b) "Gli atti di scioglimento della comunione ereditaria sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità, prevista dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46, comma 1, (già L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 17) e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, per gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici o a loro parti dai quali non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria". Nel caso di specie dalla CTU dell'ing. Raoul Avizzano che é stata espletata nel giudizio di primo grado, e che risulta ora acquisita agli atti, emerge che il villino oggetto di causa, costruito nel 1958 ed oggetto della concessione in sanatoria n. 230951 del 19.5.2000, prot. n. 67437, del Comune di Roma, é stato sottoposto ad un ampliamento di 25 mq nel 2003 con la chiusura del portico verso via dell'Isola Farnese e la realizzazione di due stanzette, e nel 2007, in occasione dei lavori di ristrutturazione con la creazione di un secondo servizio igienico, e per tale ampliamento la Sinigaglia il 23.1.2004 ha presentato domanda di condono edilizio ex L.n.326/2003, ma non ha ottenuto alcun provvedimento di concessione in sanatoria. Quanto alle pertinenze, rappresentate dalla cantina/grotta e dal box auto, che insistono sul terreno circostante il villino da data anteriore al 1984 e non sono censite in catasto, non risultano presentate domande di regolarizzazione urbanistica di alcun tipo. Ne deriva che allo stato il villino con le sue pertinenze, inequivocamente a servizio del primo per la sua destinazione abitativa e per la loro ubicazione all'interno del terreno che circonda il villino, che ne rende inipotizzabile un uso separato rispetto al villino medesimo, é privo della regolarità urbanistico- edilizia. Relativamente agli ampliamenti di superficie del 2003 e del 2007 sopra indicati non risulta prodotta la concessione in sanatoria del Comune di Roma, richiesta a pena di nullità dall'art. 46 comma 1° del D.P.R. n.380/2001, ed anzi l'ente pubblico ha richiesto un'integrazione documentale ed un versamento integrativo senza ottenerli. Relativamente alle pertinenze, realizzate prima dell'entrata in vigore dell'art. 40 comma 2 della L. n. 47/1985, non risultano prodotte la domanda di concessione edilizia in sanatoria col versamento delle prime due rate dell'oblazione,ed anzi non risulta essere stata avviata alcuna pratica di regolarizzazione urbanistico-edilizia, essendovi stata solo una stima del rilevante costo di tale pratica. Non sussiste, quindi, allo stato, la condizione dell'azione della possibilità giuridica della divisione del compendio ereditario nella sua interezza (villino più pertinenze più terreno circostante), e l'eventuale ammissibilità di una divisione parziale, da ritenersi comunque ricompresa come restrizione nell'originaria domanda di divisione dell'intero compendio, ed eventuali sopravvenuti sviluppi della condizione urbanistico-edilizia del villino e delle pertinenze, dovranno essere valutati nel giudizio di rinvio. L'impugnata sentenza va quindi cassata con rinvio alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche per le spese del giudizio di legittimità. Sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dei presupposti processuali dell'obbligo di versamento, da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato se dovuto. P.Q.M. La Corte di Cassazione dichiara improcedibile il ricorso principale di Sinigaglia Maria Rosa, e pronunciando sul controricorso e ricorso incidentale di Marchetti Antonino e Marchetti Aldo, quali eredi di Sorge Angela, cassa l'impugnata sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche per le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali dell'obbligo di versamento, da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato se dovuto. Così deciso nella camera di consiglio del 21.3.2024 Il Consigliere estensore Il Presidente Vincenzo Picaro Felice Manna
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 26, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), 31, comma 4-bis, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), aggiunto dall'art. 7 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell'articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», e 70-octies, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera t), del d.lgs. n. 5 del 2017, promosso dal Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, nel giudizio proposto da P. S., con ordinanza del 29 maggio 2023, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 2023, la cui trattazione è stata fissata per l'adunanza in camera di consiglio del 23 gennaio 2024. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udita nella camera di consiglio del 22 febbraio 2024 la Giudice relatrice Maria Rosaria San Giorgio; deliberato nella camera di consiglio del 22 febbraio 2024. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 29 maggio 2023, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2023, il Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, nel corso di un giudizio di rettificazione di attribuzione di sesso introdotto, ai sensi della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), da P. S., ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 26, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), 31, comma 4-bis, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), aggiunto dall'art. 7 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell'articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», e 70-octies, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera t), del d.lgs. n. 5 del 2017, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 2.- Il giudice a quo espone che l'attore ha allegato «disforia di genere» e documentato il percorso di transizione dal genere maschile a quello femminile, richiedendo la rettificazione di attribuzione di sesso e del prenome da P. a S. e, in caso di accoglimento della domanda e ricorrendone le condizioni di legge, la trasformazione dell'unione civile contratta con S. B. in matrimonio, nell'osservanza delle forme previste per la opposta ipotesi di conversione del matrimonio in unione civile, con le annotazioni di legge da curarsi dal competente ufficiale dello stato civile. Per la eventualità di rigetto della domanda, l'attore ha dedotto la illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016 nella parte in cui prevede, in caso di accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei componenti di una unione civile, l'automatico scioglimento della stessa, senza possibilità della sua trasformazione in matrimonio previa dichiarazione resa dalle parti davanti al giudice della rettificazione, con conseguente soluzione di continuità delle tutele riconosciute dall'ordinamento al precedente vincolo. Il rimettente riferisce altresì che S. B., comparso personalmente in udienza, ha reso congiuntamente all'attore dichiarazione di voler costituire e/o trasformare, in caso di accoglimento della domanda di rettifica del sesso, l'unione civile in matrimonio. Il difensore di P. S. ha comunicato l'intenzione del proprio assistito di rinunciare agli atti del giudizio «in caso di declaratoria di irrilevanza o manifesta infondatezza della questione». 3.- Il Tribunale rimettente ritiene verosimilmente fondata la domanda di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso e, nella dedotta sufficienza di un rigoroso accertamento del giudice di merito in ordine al «disturbo di identità di genere e di un serio, univoco e tendenzialmente irreversibile percorso individuale di acquisizione di una nuova identità» (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 180 del 2017 e n. 221 del 2015, e la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 20 luglio 2015, n. 15138), riscontra «al di là di ogni ragionevole dubbio», per le «apparentemente univoche» risultanze di prova di cui alle relazioni del Centro interdipartimentale disturbi identità di genere, C.I.D.I.Ge.M., dell'Azienda ospedaliera universitaria Città della salute e della scienza di Torino, la sussistenza di disforia di genere in capo a P. S., che aveva acquisito una identità psicosessuale femminile non corrispondente al sesso attribuitogli nell'atto di nascita. 4.- Ciò premesso, il Collegio rimettente richiama la sentenza n. 170 del 2014, con la quale questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, e, in via consequenziale, dell'art. 31, comma 6, del d.lgs. n. 150 del 2011 - che aveva sostituito il citato art. 4, abrogato dall'art. 36 dello stesso decreto legislativo, riproducendone però il contenuto con minima, ininfluente variante lessicale - nella parte in cui le norme incise non prevedevano che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei due coniugi, che determina in via automatica lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, consentisse, ove entrambe le parti lo avessero richiesto, di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che di questa tutelasse diritti ed obblighi, con modalità da stabilirsi dal legislatore. Il giudice a quo ricorda che questa Corte, con la richiamata sentenza, censurò la scelta operata dal legislatore che, con le norme caducate, non aveva attuato alcun bilanciamento tra interessi contrapposti, sacrificando a quello dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio - nel rigido automatismo di regolazione dei rapporti tra sentenza di rettifica di attribuzione di sesso e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio - il pregresso vissuto della coppia omoaffettiva, lasciata «priva di tutela», non risultando prevista «alcuna “forma di comunità” connotata da “stabile convivenza tra due persone, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione”» (è richiamata altresì la sentenza di questa Corte n. 138 del 2010). 4.1.- Il rimettente menziona quindi la giurisprudenza di legittimità (viene citata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 21 aprile 2015, n. 8097) che, nel valorizzare la tutela da attribuirsi, nei termini di cui all'art. 2 Cost., alle unioni tra persone dello stesso sesso, rimarcava la “intollerabilità” di una «soluzione di continuità del rapporto» fintantoché il legislatore non fosse intervenuto nei termini indicati da questa Corte con la richiamata sentenza n. 170 del 2014. 4.1.1.- Detto intervento è stato poi operato con la legge n. 76 del 2016, che ha introdotto l'istituto della unione civile tra persone dello stesso sesso, delegando altresì il Governo all'adozione di decreti legislativi per adeguare le disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni alle previsioni della stessa legge e per coordinare con queste ultime le disposizioni vigenti attraverso le necessarie modificazioni ed integrazioni normative. Nella ordinanza di rimessione si richiama in proposito il comma 4-bis dell'art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011, inserito dall'art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2017, che consente ai coniugi di manifestare nel giudizio di rettificazione anagrafica, fino al momento della precisazione delle conclusioni, la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non farne cessare gli effetti civili, convertendolo in unione civile. L'introduzione di tale disposizione adegua le norme sui procedimenti di rettificazione dell'attribuzione di sesso alla previsione del comma 27 dell'art. 1 della legge n. 76 del 2016, secondo il quale «[a]lla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso». Il rimettente richiama ancora l'art. 70-octies del d.P.R. n. 396 del 2000, che, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera t), del d.lgs. n. 5 del 2017, al comma 5, prevede che, nell'ipotesi di cui all'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011, l'ufficiale dello stato civile competente, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione nel cui giudizio le parti abbiano manifestato la volontà di convertire il matrimonio in unione civile, procede all'iscrizione della stessa e alle eventuali annotazioni relative al regime patrimoniale e alla scelta del cognome della coppia. 5.- Alla luce della normativa evocata, il giudice a quo ipotizza che la coppia unita civilmente, il cui vincolo sia cessato per l'automatismo che si accompagna alla rettificazione anagrafica di sesso di uno dei componenti dell'unione, incontri, nel caso in cui voglia mantenere una relazione giuridica riconosciuta contraendo matrimonio, un vuoto di tutela nel tempo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione del sesso e la eventuale celebrazione del matrimonio. 5.1.- Tanto esposto, il Tribunale di Torino, censura, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU: l'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016, che dispone che la sentenza di rettificazione dell'attribuzione di sesso di uno dei componenti dell'unione civile determina lo scioglimento della stessa senza prevedere la possibilità della sua conversione in matrimonio, previa dichiarazione congiunta delle parti, senza soluzione di continuità con il precedente vincolo, come previsto dall'art. 1, comma 27, della stessa legge con riguardo alla ipotesi speculare della conversione del matrimonio in unione civile; l'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui non prevede che la persona che ha proposto la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso e l'altro contraente dell'unione civile possano, fino alla precisazione delle conclusioni, con dichiarazione congiunta, resa personalmente in udienza, esprimere la volontà, in caso di accoglimento della domanda, di unirsi in matrimonio, effettuando le eventuali dichiarazioni riguardanti il regime patrimoniale e la conservazione del cognome comune, come disposto per il caso opposto di conversione del matrimonio in unione civile, nonché nella parte in cui non prevede che il tribunale, con la sentenza che accoglie la domanda, ordini all'ufficiale dello stato civile del comune di costituzione dell'unione civile, o di registrazione se costituita all'estero, di iscrivere il matrimonio nel relativo registro e di annotare le eventuali dichiarazioni rese dalle parti relative alla scelta del cognome ed al regime patrimoniale; e l'art. 70-octies, comma 5, d.P.R n. 396 del 2000 nella parte in cui non prevede che l'ufficiale dello stato civile, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettifica di sesso, e cessata l'unione civile per sopraggiunta eterosessualità dei suoi componenti, proceda alla trascrizione del matrimonio nell'apposito registro. 5.1.1.- Ciascuna delle disposizioni denunciate integra, secondo il rimettente, «una violazione degli artt. 2 e 3 Cost., laddove introduce una ingiustificata disparità di trattamento in situazioni analoghe - dal matrimonio all'unione civile ma non viceversa - ed una ingiustificata limitazione alla libertà fondamentale dell'individuo, considerando l'automatico scioglimento dell'unione civile (in forza dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016), senza contestuale istituzione dell'unione matrimoniale, pur in presenza dei requisiti di validità previsti dalla legge - capacità, consenso validamente manifestato ed eterosessualità dei nubendi - con ciò non riconoscendo adeguata protezione e tutela ai suoi componenti in ossequio ai doveri solidaristici discendenti dall'essere (stati) essi parte di un gruppo sociale strutturato e legalmente riconosciuto». Infatti, si riconosce soltanto ai coniugi (art. 1, comma 27, della già citata legge istitutiva delle unioni civili) la facoltà di manifestare davanti al giudice della rettifica anagrafica di sesso la volontà di trasformare, senza soluzione di continuità o vuoti di tutela, il matrimonio, nel resto disciolto o cessato nei suoi effetti all'esito dell'automatismo rescissorio di legge, in unione civile. Il diverso trattamento riservato alle coppie omoaffettive che intendano mantenere il precedente consortium vitae e manifestino la loro comune volontà in tal senso, nella parte in cui non consente l'automatica trasformazione in matrimonio, priverebbe gli ex partners di «reciproca tutela per un lasso di tempo a priori indeterminabile», inoltre «obbligando gli stessi ad attivarsi, nelle forme ordinarie, per la costituzione dell'unione matrimoniale». 5.1.2.- Né la differente disciplina riservata alle coppie omoaffettive rispetto a quelle coniugate, ove entrambe interessate da transizione sessuale, in punto di conversione della relazione cessata in altra giuridicamente riconosciuta potrebbe trovare giustificazione nelle differenze di disciplina che unione civile e matrimonio presentano nella fase di formalizzazione del rapporto. Sul punto il rimettente svolge un duplice ordine di considerazioni. Da una parte, rileva che le pubblicazioni stabilite per i nubendi e che a determinate condizioni possono essere omesse (si citano gli artt. 100 e 101 del codice civile) sono strumentali ad una mera pubblicità-notizia (articoli da 93 a 100 cod. civ.), non incidono sulla validità del vincolo, valgono solo a consentire ai terzi l'eventuale opposizione in presenza di impedimenti (si cita Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 17 settembre 1993, n. 9578). Dall'altra parte, valorizza la formalizzazione prevista dal legislatore per la costituzione dell'unione civile all'art. 1, comma 2, della legge n. 76 del 2016 ed il suo valido superamento per la comune volontà manifestata dalle parti davanti al giudice (art. 1, comma 27, della medesima legge). Complessivamente da tale quadro normativo il giudice a quo ricava il carattere ingiustificato del diverso trattamento riservato alla coppia dello stesso sesso che, già unita civilmente, voglia contrarre matrimonio nella subentrata eterosessualità dei componenti. 5.2.- In riferimento, poi, all'art. 117, primo comma, Cost. e, quali parametri interposti, agli artt. 8 e 14 CEDU, il rimettente denuncia il vulnus che al diritto alla vita familiare e personale, nell'interpretazione consolidata della giurisprudenza convenzionale, deriva dalla censurata disciplina (viene menzionata Corte europea dei diritti dell'uomo, grande camera, sentenza 16 luglio 2014, Hämäläinen contro Finlandia, nella parte in cui ha enucleato «un obbligo positivo per lo Stato di porre in essere un procedimento efficace ed accessibile, atto a consentire al cittadino di far riconoscere legalmente il nuovo sesso pur mantenendo i suoi legami coniugali»). L'art. 8 CEDU, prosegue il giudice a quo, riconosce alla coppia dello stesso sesso, già legata dal vincolo dell'unione civile registrata, di conservare il «fulcro di diritti ed obblighi reciproci propri dell'essere (stati) parte di un'unione legalmente riconosciuta e tutelata» senza soluzione di continuità in caso di rettifica anagrafica di sesso e con garanzia anche nel tempo della transizione, nella rilevata esistenza di fatto dei requisiti per contrarre matrimonio al momento del passaggio in giudicato della sentenza che attribuisce sesso diverso al nubendo. 5.3.- Il rimettente esclude la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, per la mancanza di una lacuna dell'ordinamento che l'analogia legis presuppone (art. 12, secondo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile), e per la emersione dal plesso normativo in esame di «una chiara voluntas legis nel senso di garantire continuità di tutela alla sola ipotesi dello scioglimento del matrimonio in seguito a rettificazione di sesso di uno dei suoi componenti, mediante trasformazione automatica in unione civile e non viceversa». Del resto, prosegue il giudice a quo, la stessa diversità degli istituti del matrimonio e dell'unione civile sia nella fase genetica, per la quale è prevista per l'unione la maggiore età dei partners (art. 1, comma 2, legge n. 76 del 2016), e per il matrimonio il compimento dei sedici anni, previa autorizzazione del Tribunale per i minorenni (art. 84 cod. civ.), che in quella di cessazione del rapporto, in relazione alla quale è escluso che l'unione civile debba essere preceduta da una fase di separazione personale delle parti, invece stabilita per i coniugi, esclude, come chiarito, la percorribilità della strada della interpretazione costituzionalmente orientata. 6.- Quanto alla rilevanza, il rimettente valorizza l'indole imponderabile ed indipendente dalla volontà delle parti e dal mero decorso dei termini processuali o di legge della probabile durata della perpetuazione del vuoto di tutela nel periodo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza di rettifica anagrafica e la eventuale celebrazione del matrimonio, e richiama la volontà dell'attore, nel rischio, percepito come concreto del sopraggiungere di un peggioramento delle proprie condizioni di salute, di rinunciare agli atti del giudizio nel caso in cui non venga sollevato incidente di legittimità costituzionale. 6.1.- Il giudice a quo, dopo aver ricordato gli obblighi di assistenza e di coabitazione nonché di contribuzione, secondo rispettive sostanze e capacità professionali (si cita l'art. 1, comma 12, della legge n. 76 del 2016), ed il goduto regime patrimoniale di comunione dei beni dei componenti dell'unione civile, menziona i trattamenti previdenziali, successori e di tutela della salute e della dignità della persona incapace fruiti dalla coppia del medesimo sesso in costanza dell'unione civile, per poi rimarcare l'illegittimità costituzionale di ogni discontinuità che nel loro riconoscimento si realizza in pregiudizio della coppia omoaffettiva, nel passaggio tra unione civile e matrimonio, in considerazione del rischio di un evento nefasto involgente uno dei componenti dell'unione. 6.2.- A dar corpo al menzionato quadro normativo sono indicate le indennità di cui agli artt. 2118 e 2120 cod. civ. - che, spettanti al prestatore di lavoro, vengono riconosciute anche alla parte dell'unione civile, ai sensi dell'art. 1, comma 17, della legge n. 76 del 2016 - ed il trattamento successorio, esteso dall'art. 1, comma 21, della stessa legge alle parti dell'unione, con riferimento alle norme sulle successioni legittime ed ai legittimari, nella rimarcata diversa sorte riconosciuta, nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, agli istituti della pensione di reversibilità e delle cause di non punibilità del reato (viene menzionato l'art. 384, primo comma, del codice penale) rispetto al diverso fenomeno delle convivenze di fatto. Il rimettente cita al riguardo le sentenze della Corte di cassazione, sezione lavoro, 14 settembre 2021, n. 24694 e 6 luglio 2016 (recte: 3 novembre 2016), n. 22318, con le quali i giudici di legittimità hanno ritenuto di non poter estendere al convivente more uxorio, all'interno di una coppia del medesimo sesso non soggetta nella sua disciplina alla legge n. 76 del 2016, la pensione di reversibilità, e quelle di questa Corte n. 140 del 2009 e n. 461 del 2000, rispettivamente adottate sull'applicabilità al convivente di fatto della causa di non punibilità di cui all'art. 384, primo comma, cod. pen. e del trattamento pensionistico di reversibilità. 7.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza delle questioni sollevate. 7.1.- La difesa statale deduce la mancata violazione, quanto alla prima delle sollevate questioni, dell'art. 2 Cost., nella non “trasferibilità”, in via automatica, alla fattispecie in esame delle valutazioni operate da questa Corte nella opposta ipotesi di conversione del matrimonio in unione civile, in esito alla rettifica anagrafica del sesso di uno dei coniugi. Sottolinea ancora l'interveniente che nello scioglimento dell'unione civile in seguito a rettificazione del sesso e conseguita eterosessualità della coppia, le parti potrebbero comunque scegliere di celebrare successivamente il matrimonio, laddove nel momento in cui venne pronunciata la sentenza n. 170 del 2014 non esisteva una regolamentazione delle unioni tra coppie omoaffettive che prevedesse, al verificarsi dello scioglimento del matrimonio, nella perduta sua fisiologica eterosessualità, la trasformazione del vincolo coniugale in altra unione giuridicamente tutelata. 7.2.- L'Avvocatura esclude altresì la fondatezza della questione sulla dedotta violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, rilevando che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, all'art. 9, attribuisce agli Stati membri, con affermazione di riserva assoluta, il compito di garantire nei rispettivi ordinamenti il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia (sul punto è menzionata Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 15 marzo 2012, n. 4184) e, nella delicatezza delle sottese questioni di ordine etico, riconosce ai singoli ordinamenti statali il margine di apprezzamento (sono citate Corte EDU, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia e 3 novembre 2011, grande camera, S.H. e altri contro Austria). 7.3.- La difesa statale deduce ancora la non fondatezza della questione sulla ingiustificata disparità di trattamento, ai sensi dell'art. 3 Cost., tra lo scioglimento automatico dell'unione civile previsto dall'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016 e le disposizioni contenute nel successivo comma 27. 7.4.- La specificità e non sovrapponibilità del matrimonio e dell'unione civile fa sì, secondo l'Avvocatura, che debba essere il legislatore ad intervenire per prevedere la possibilità della conversione dell'una nell'altro. 7.5.- A definizione dei diversi statuti, l'interveniente ricorda le pubblicazioni di cui all'art. 93 e seguenti cod. civ., previste per il solo matrimonio e la celebrazione, che deve essere officiata dall'ufficiale dello stato civile del comune di residenza di entrambi gli sposi, cui si può derogare secondo quanto previsto dall'art. 109 cod. civ., per poi richiamare la differente età in cui è possibile accedere ai due istituti: che è di diciotto anni per l'unione civile e di sedici anni, previa autorizzazione del giudice, per il matrimonio. 7.6.- Dopo aver ricordato le cause di scioglimento che le persone unite civilmente condividono con i coniugi, in riferimento alla dichiarazione di morte presunta e alla rettificazione di sesso, e quelle previste dall'art. 3, numeri 1) e 2), lettere a), c), d) ed e), della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), l'Avvocatura valorizza la possibilità, riconosciuta alle sole parti dell'unione, insieme o unilateralmente, di manifestare la volontà di scioglimento direttamente davanti all'ufficiale dello stato civile del luogo in cui l'unione è stata celebrata e la diversa modalità di scioglimento prevista invece per il matrimonio, per il quale è stabilito un periodo di separazione prima della cessazione degli effetti civili del vincolo. L'interveniente richiama quindi i differenti doveri che conseguono all'assunzione dei due legami, rispetto ai quali ritiene più stringenti quelli che vengono dal matrimonio, i doveri di fedeltà e di collaborazione nell'interesse della famiglia, non previsti, invece, per i componenti dell'unione civile. 7.7.- All'interno dell'indicata cornice, nel potere riconosciuto al legislatore di individuare le modalità per colmare le lacune normative potrebbe essere compresa, secondo l'Avvocatura, anche la scelta di estendere l'unione civile alle coppie eterosessuali, con conseguente abrogazione della risoluzione del vincolo nell'ipotesi di rettificazione di sesso di uno dei suoi componenti. Quella di consentire alle parti dell'unione civile la conversione del precedente legame in matrimonio, in caso di rettificazione di sesso di uno dei suoi componenti, non sarebbe che una delle molteplici soluzioni astrattamente ipotizzabili, che, potendo spingersi fino ad estendere la scelta dell'unione civile alle coppie eterosessuali, resterebbero rimesse, come tali, alla discrezionalità del legislatore (si cita la sentenza n. 230 del 2020 di questa Corte). Alla natura pubblicistica dell'istituto matrimoniale che disciplina «determinati effetti che il legislatore tutela come diretta conseguenza di un rapporto tra persone di sesso diverso (filiazione, diritti successori, legge in tema di adozione)» si accompagnerebbe la conversione in unione civile, che rimarrebbe, secondo l'interveniente, esclusa nell'ipotesi inversa per effetto di una scelta ben precisa del legislatore, applicativa del principio secondo il quale «“il più comprende il meno”», che escluderebbe il vulnus dedotto. 7.8.- Il riconoscimento giuridico operato da questa Corte nei confronti delle coppie omoaffettive come formazioni previste dall'art. 2 Cost. e non con richiamo alla famiglia, tutelata dall'art. 29 Cost., escluderebbe ogni obbligo giuridico di rango costituzionale per il legislatore di estendere l'istituto matrimoniale a dette coppie. Il contenuto assiologico della relativa scelta resta quindi perseguibile, secondo l'Avvocatura, in via normativa, e vede il legislatore interprete della volontà collettiva nell'operato bilanciamento dei valori in conflitto e per una valutazione delle istanze più radicate nella coscienza sociale - come già avvenuto in materia di procreazione medicalmente assistita (si citano le sentenze n. 84 del 2016 e n. 162 del 2014) - lungo un percorso in cui lo spazio del sindacato di questa Corte rimane circoscritto alla verifica del carattere non irragionevole del bilanciamento. La concezione del sesso come dato complesso della personalità (si citano le sentenze di questa Corte n. 221 del 2015 e n. 161 del 1985) escluderebbe poi che l'equilibrio da instaurarsi dal legislatore in una materia eticamente sensibile possa essere modificato con sentenze additive. Considerato in diritto 1.- Il Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, chiamato a pronunciarsi, nel corso di un giudizio di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso, sulla richiesta di trasformazione in matrimonio dell'unione civile contratta dal richiedente con altro soggetto, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016, che dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell'unione civile tra persone dello stesso sesso senza prevedere la possibilità della conversione in matrimonio per dichiarazione congiunta delle parti, senza soluzione di continuità con il preesistente legame. 1.1.- La medesima disposizione viene censurata altresì per contrasto con l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata disparità di trattamento riservata allo scioglimento dell'unione omoaffettiva, in seguito a rettifica anagrafica di sesso di uno dei contraenti, rispetto a quanto stabilito dal successivo comma 27 dello stesso art. 1 della legge n. 76 del 2016, che, nel caso in cui il medesimo fenomeno attraversi il vincolo matrimoniale, prevede che «[a]lla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso». 1.2.- In riferimento ai medesimi parametri e per le medesime ragioni il dubbio di legittimità costituzionale investe altresì l'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011, introdotto dall'art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2017, nella parte in cui non prevede, così come fa nell'ipotesi speculare di trasformazione del matrimonio in unione civile, che la persona che ha proposto domanda di rettificazione di attribuzione di sesso e l'altro contraente dell'unione possano, fino alla precisazione delle conclusioni, con dichiarazione congiunta, resa personalmente in udienza, esprimere la volontà, in caso di accoglimento della domanda di rettifica, di unirsi in matrimonio, con le eventuali annotazioni relative alla conservazione del cognome comune e al regime patrimoniale, nonché nella parte in cui non prevede che il tribunale, con la sentenza che accoglie la domanda, ordini all'ufficiale dello stato civile del comune di costituzione dell'unione civile, o di registrazione se costituita all'estero, di iscrivere il matrimonio nel relativo registro e di annotare le eventuali dichiarazioni rese dalle parti sulla scelta del cognome e del regime patrimoniale. 1.3.- Viene, infine, censurato, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, l'art. 70-octies, comma 5, del d.P.R. n. 396 del 2000, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera t), del d.lgs. n. 5 del 2017, nella parte in cui non prevede che anche nell'ipotesi di cui all'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011, come emendato nel senso sopra specificato, il competente ufficiale dello stato civile, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, proceda alla trascrizione del matrimonio nell'apposito registro, con le eventuali annotazioni relative al cognome ed al regime patrimoniale. 1.4.- Il rimettente denuncia, in definitiva, il deficit di tutela che l'indicato compendio normativo produrrebbe nella parte in cui non comprende una disposizione analoga a quella di cui all'art. 1, comma 27, della legge n. 76 del 2016, introdotta in favore delle coppie già unite in matrimonio che, in seguito a rettifica anagrafica di sesso di uno dei coniugi, abbiano manifestato la volontà di trasformare il precedente vincolo in altro riconosciuto dall'ordinamento, con conversione del matrimonio in unione civile. 1.5.- Le parti dell'unione civile, nel caso in cui vivano analogo fenomeno secondo inversa direzione, si troverebbero prive di protezione nel lasso temporale, di durata imponderabile e che prescinde dalla loro volontà, intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione anagrafica di sesso e la celebrazione del matrimonio, con una discontinuità nella tutela, destinata ad integrare una ingiustificata disparità di trattamento di situazioni analoghe (art. 3 Cost.) ed una limitazione della libertà fondamentale dell'individuo (art. 2 Cost.), con violazione dei doveri di solidarietà propri dell'unione civile come «gruppo sociale strutturato e legalmente riconosciuto». 1.6.- Si determinerebbe, inoltre, una lesione del diritto alla vita privata e familiare, tutelato dalla giurisprudenza convenzionale (art. 117, primo comma, Cost., e, quali parametri interposti, artt. 8 e 14 CEDU), in danno della coppia omoaffettiva nelle more della transizione verso il matrimonio, non venendo preservato il fulcro dei diritti acquisiti e dei rapporti goduti nella vigenza del regime dell'unione civile, quale formazione legalmente riconosciuta e tutelata. 2.- L'esame delle questioni sollevate richiede l'inquadramento delle stesse nella cornice normativo-giurisprudenziale di riferimento. 2.1.- Il riconoscimento dell'unione civile tra persone dello stesso sesso nel nostro ordinamento è stato il punto di approdo di un percorso già avviato dalle sollecitazioni del Parlamento europeo (risoluzioni 8 febbraio 1994, 16 marzo 2000 e 4 settembre 2003) e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (tra le altre, sentenze 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia; 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia; 24 giugno 2010, Schalk and Kopf contro Austria, 24 giugno 2010; nonché quella già citata resa nella causa Hämäläinen contro Finlandia, 16 luglio 2014), che avevano evidenziato la lacuna di tutela delle unioni omoaffettive, pur assicurando a ciascuno Stato un margine di discrezionalità nella scelta del modello di regolamentazione. Un percorso tracciato, nelle sue premesse, nell'ordinamento nazionale, dalla sentenza di questa Corte n. 138 del 2010, che, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale delle norme del codice civile che non consentono a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio, non ha mancato di sottolineare come nella nozione di «formazione sociale», tutelata dall'art. 2 Cost., «è da annoverare anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Con la successiva sentenza n. 170 del 2014 questa Corte - nel dichiarare l'illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 2 Cost., degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, nella parte in cui registravano il fenomeno del cosiddetto divorzio imposto, cioè lo scioglimento del matrimonio o della cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso quale effetto della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso - ha rivolto un espresso monito al legislatore perché consentisse alle parti che avessero manifestato volontà in tal senso di non sciogliere automaticamente il matrimonio e «di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, la cui disciplina rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore» (punto 5.7. del Considerato in diritto). 2.2.- L'intervento di questa Corte, superando l'automatismo della legge sulla rettifica (di cui ai citati artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982), ha aperto alla possibilità per i coniugi, ormai dello stesso sesso, a tutela dei diritti primari della coppia, di accedere ad un istituto che garantisse loro, analogamente a quanto fanno le norme sul matrimonio, diritti ed obblighi reciproci, senza soluzione di continuità e vuoti di tutela, istituto che è stato introdotto appunto con la citata legge n. 76 del 2016. L'unione civile (art. 1, comma 1) è stata così riconosciuta quale formazione sociale che garantisce i diritti inviolabili della persona, di cui provvede a rafforzare la tutela. Contestualmente, il legislatore ha consentito alle parti di convertire il matrimonio in unione, stabilendo che: «[a]lla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso» (art. 1, comma 27). 2.3.- Il successivo intervento del legislatore delegato, in attuazione dei principi e criteri direttivi fissati nella stessa legge n. 76 del 2016 (art. 1, comma 28), è stato ispirato alle esigenze di: «a) adeguamento alle previsioni della […] legge delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni; b) modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo l'applicazione della disciplina dell'unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all'estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo; c) modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la […] legge [n. 76] delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti». 2.4.- In particolare, l'art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2017 ha introdotto all'interno dell'art. 31 (Delle controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), ricompreso nel Capo IV (Delle controversie regolate dal rito ordinario di cognizione) del d.lgs. n. 150 del 2011, il comma 4-bis, che consente ai coniugi di manifestare nel giudizio di rettificazione anagrafica, fino al momento della precisazione delle conclusioni, la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non farne cessare gli effetti civili, convertendolo in unione civile; mentre l'art. 1, comma 1, lettera t), dello stesso d.lgs. n. 5 del 2017 ha inserito nel d.P.R. n. 396 del 2000 l'art. 70-octies, che, al comma 5, prevede che, in tale ipotesi, l'ufficiale dello stato civile competente, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione nel cui giudizio le parti abbiano manifestato la volontà di convertire il matrimonio in unione civile, procede all'iscrizione della stessa e alle eventuali annotazioni relative al regime patrimoniale e alla scelta del cognome della coppia. 3.- Così ricostruite le fasi della evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha portato alla introduzione e alla disciplina delle unioni civili, può passarsi all'esame nel merito delle questioni sollevate, che sono solo in parte fondate, nei termini di seguito precisati. 3.1.- Non è anzitutto fondato il dubbio del rimettente in ordine alla disparità di trattamento che l'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016 produrrebbe nei confronti dei componenti di una unione civile rispetto alla coppia di coniugi, con riferimento alla facoltà riconosciuta dal successivo comma 27 dello stesso art. 1 soltanto a questi ultimi - nel giudizio di rettificazione anagrafica del sesso di uno dei componenti, in caso di accoglimento della relativa domanda, previa manifestazione di volontà congiuntamente resa dalle parti innanzi al giudice della rettificazione - di convertire il matrimonio in unione civile senza soluzione di continuità nelle tutele. 3.1.1.- Il rapporto coniugale si configura come un vincolo diverso da quello che ha fonte nell'unione civile, e non può essere ad esso assimilato perché se ne possa dedurre l'impellenza costituzionale di una parità di trattamento. Matrimonio e unione civile trovano differente copertura costituzionale, essendo il primo, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, riconducibile, nella giurisprudenza di questa Corte, all'art. 29 Cost. (sentenze n. 170 del 2014, punto 5.2. del Considerato in diritto; n. 138 del 2010, punto 9 del Considerato in diritto), e la seconda alle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost., all'interno delle quali l'individuo afferma e sviluppa la propria personalità (sentenze n. 269 del 2022, n. 170 del 2014 e n. 138 del 2010). 3.1.2.- I due istituti rappresentano, dunque, fenomeni distinti, caratterizzati da differenti panorami normativi. Il legislatore del 2016 ha certamente attinto, nell'introdurre e disciplinare l'unione civile tra persone dello stesso sesso, a molte delle disposizioni che regolamentano il matrimonio: tra le altre, quelle sulle cause impeditive alla costituzione dell'unione, sui relativi effetti e sui mezzi per azionarle, di cui all'art. 1, commi 4, 5 e 6, della legge n. 76 del 2016 nei relativi rinvii al codice civile; la disciplina dei cognomi, di cui al successivo comma 10; la previsione degli obblighi reciproci all'assistenza morale e materiale, alla coabitazione ed alla contribuzione ai bisogni comuni, di cui al comma 11; il regime patrimoniale e delle donazioni e successioni di cui ai commi 13 e 21; i trattamenti previdenziali stabiliti dagli artt. 2118 e 2120 cod. civ., ai sensi del comma 17; sino a prevedere, con la cosiddetta clausola di equivalenza, posta dal comma 20 dell'art. 1, l'applicazione alle parti dell'unione civile di quelle disposizioni, ovunque ricorrenti, in cui figurino i termini «matrimonio», «coniuge» o «coniugi» «o termini equivalenti» (salve le norme del codice civile non richiamate espressamente nella stessa legge, tra le quali quelle relative alla filiazione, nonché le disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184 recante «Diritto del minore ad una famiglia», relativo alla disciplina dell'adozione, fermo «quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti»). 3.1.3.- Si tratta di un percorso che, pur sostenuto da ampia condivisione della disciplina legale del matrimonio, ha comunque fatto permanere significative differenze, tra l'altro, in tema di costituzione del vincolo (per la quale solo il matrimonio, e non l'unione civile, deve, in via generale, essere preceduto dalle pubblicazioni, ex artt. 93 e seguenti cod. civ., cui segue la possibilità di opposizione preventiva di cui agli artt. 102 e seguenti cod. civ., per le cause che ostino alla celebrazione del matrimonio stesso, indicate negli artt. 84 e seguenti cod. civ., opposizione non prevista, invece, per l'unione civile); in tema di accesso a quest'ultima, per cui è stabilita la maggiore età (art. 1, comma 2, della legge n. 76 del 2016), laddove per il matrimonio è prevista quella di sedici anni, in presenza di autorizzazione del tribunale per i minorenni (art. 84 cod. civ.); in tema di scioglimento dell'unione civile, la cui disciplina contempla forme più agili e di attenuato formalismo rispetto al matrimonio ed accentuata accelerazione dei relativi effetti (art. 1, commi da 22 a 26 della legge n. 76 del 2016), e non prevede una situazione intermedia quale la separazione personale. 3.1.4.- Può affermarsi, in definitiva, che, alla stregua della ricognizione della regolamentazione dei due istituti in esame, il vincolo derivante dalla unione civile produce effetti, pur molto simili, ma non del tutto coincidenti e, in parte, di estensione ridotta rispetto a quelli nascenti dal matrimonio, e ricompresa nel più ampio spettro di diritti ed obblighi da questo originati. La questione relativa alla dedotta ingiustificata disparità di trattamento tra coppie coniugate ed unite civilmente non è pertanto fondata per l'obiettiva eterogeneità delle situazioni a confronto. 4.- È, invece, fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016, sollevata in riferimento all'art. 2 Cost. L'unione civile costituisce una formazione sociale in cui i singoli individui svolgono la propria personalità, connotata da una natura solidaristica non dissimile da quella propria del matrimonio, in quanto comunione spirituale e materiale di vita, ed esplicazione di un diritto fondamentale della persona, quello di vivere liberamente una condizione di coppia, con i connessi diritti e doveri. La coppia unita civilmente, in ragione dell'automatico scioglimento del vincolo (art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016), quale esito del percorso di transizione sessuale di uno dei suoi componenti previsto dalla legge n. 164 del 1982 (artt. 1 e 4), ove manifesti la volontà di conservare il rapporto nelle diverse forme del legame matrimoniale, va incontro comunque, nel tempo necessario alla relativa celebrazione, ad un vuoto di tutela, a causa del venir meno del complessivo regime di diritti e doveri di cui era titolare in costanza dell'unione civile. La evidenziata mancanza di tutela nel passaggio da una relazione giuridicamente riconosciuta, qual è quella dell'unione civile, ad altra, qual è il legame matrimoniale, entra irrimediabilmente in frizione con il diritto inviolabile della persona alla propria identità, di cui pure il percorso di sessualità costituisce certa espressione, e comporta un sacrificio integrale del pregresso vissuto. Non senza considerare che, nel tempo necessario alla ricostituzione della coppia secondo nuove forme legali, i componenti potrebbero risentire di eventi destinati a precludere in modo irrimediabile la costituzione del nuovo vincolo. 4.1.- La tutela additiva reclamata dal rimettente rispetto alla coppia omoaffettiva che si sia trovata ad intraprendere il percorso di modifica del genere e voglia a sé conservare continuità nelle garanzie di legge nel passaggio tra unione civile e matrimonio, resta nei suoi presupposti riconducibile a quella categoria di situazioni “specifiche” e “particolari”, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte sotto il profilo di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore (sentenza n. 170 del 2014). 4.2.- Il percorso non è nuovo per questa Corte che, ancora recentemente, ha utilizzato il parametro di cui all'art. 2 Cost. per dare riconoscimento giuridico a relazioni affettive che, già connotate da una dimensione sociale, ricevono tutela in quanto strumento di formazione e sviluppo della personalità dell'individuo. Si tratta di affermazioni di principio che rivelano, nel tempo, nuove letture dei più tradizionali istituti del diritto civile di cui rimarcano la capacità di comprendere nuove funzionalità. Così, con riguardo all'adozione dei maggiorenni, la Corte è intervenuta sulla differenza di età tra adottante e adottando, aprendo l'applicazione dell'istituto al riconoscimento di nuovi legami familiari pur sempre, tendenzialmente, ispirati al legame tra genitore biologico e figlio (sentenza n. 5 del 2024, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 291, primo comma, cod. civ., nella parte in cui, per l'adozione del maggiorenne, non consente al giudice di ridurre, nei casi di esigua differenza e sempre che sussistano motivi meritevoli, l'intervallo di età di diciotto anni fra adottante e adottato). L'importanza delle relazioni affettive di fatto è stata altresì occasione per la giurisprudenza costituzionale, nella prestata attenzione alla piena ed equilibrata crescita del minore di età rispettosa della sua identità personale, per ripensare, escludendoli, taluni automatismi che, nel recidere, all'interno dell'adozione legittimante, i legami del minore con la famiglia di origine, erano destinati a minare la consapevolezza delle origini ed identità personale dell'adottando (sentenza n. 183 del 2023, sull'art. 27, terzo comma, della legge n. 184 del 1983). Analogamente, nell'ipotesi di adozione del minore in casi particolari (art. 44, comma 1, lettera d, della legge n. 184 del 1983), la sentenza n. 79 del 2022 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 55 della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui prevede che l'adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l'adottato e i parenti dell'adottante. Si è ancora rimeditato, sulla scorta dell'indicato abbrivo, l'ordine da darsi ai cognomi dell'adottato maggiorenne, nel riconoscimento del suo pregresso vissuto e del diritto all'identità della persona (sentenza n. 135 del 2023, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 299, primo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente, con la sentenza di adozione, di aggiungere, anziché di anteporre, il cognome dell'adottante a quello dell'adottato maggiore d'età, se entrambi nel manifestare il consenso all'adozione si sono espressi a favore di tale effetto; sentenza n. 131 del 2022, sull'attribuzione al figlio del doppio cognome dei genitori), nella rimarcata non appropriatezza del bilanciamento altrimenti operato tra identità personale del figlio e principio di eguaglianza tra genitori (sentenza n. 286 del 2016, sulla trasmissione del cognome della madre al figlio). 4.3.- Secondo l'indicato parametro ed in adesione al richiamato indirizzo, si tratta, nella specie, di dare contenuto al diritto inviolabile della persona di mantenere senza soluzione di continuità la pregressa tutela propria del precedente status, una volta condotto a compimento il percorso di affermazione della propria identità di genere, secondo principi di proporzione ed adeguatezza. L'individuo non deve essere altrimenti posto, in modo drammatico, nella condizione di dover scegliere tra la realizzazione della propria personalità, di cui la perseguita scelta di genere è chiara espressione ed alla quale si accompagna l'automatismo caducatorio del vincolo giuridico già goduto, e la conservazione delle garanzie giuridiche che al pregresso legame si accompagnano, e tanto a detrimento della piena espressione della personalità. Il rimedio deve garantire la tutela della personalità del singolo lungo il tempo, non altrimenti governabile dalle parti, strettamente necessario alla celebrazione. 4.4.- E tuttavia, avuto riguardo alle differenze, già poste in evidenza, di struttura e disciplina tra matrimonio e unione civile, il rimedio alla accertata situazione di illegittimità costituzionale non può essere quello di omologare le due situazioni, estendendo alla seconda la disciplina di cui all'art. 1, comma 27, della legge n. 76 del 2016. Il rimedio va diversamente declinato, in modo che siano preservate dette differenze, ma, nel contempo, sia consentito di riconoscere alla coppia omoaffettiva, che, all'esito di un percorso di transizione di genere uno dei suoi componenti, voglia unirsi in matrimonio, un mezzo diverso ma destinato a replicare, in modo eguale e contrario, quello già previsto dal legislatore con l'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011. Quest'ultimo facoltizza la coppia coniugata, attraversata dalla modifica di sesso, a comparire davanti al giudice della rettificazione anagrafica per manifestare la volontà di rimanere legalmente unita, nella sopraggiunta omoaffettività. In direzione inversa lo strumento di tutela deve evitare ai componenti dell'unione civile per il tempo necessario alla celebrazione del matrimonio quella soluzione di continuità nel rapporto di coppia che si determini in ragione dell'acquisita nuova identità di genere di uno dei suoi componenti. 4.5.- A tal fine, lo strumento di tutela deve precludere, negli effetti, l'automatismo solutorio previsto dall'art.1, comma 26, della legge sulle unioni civili. Nella irrimediabile frizione con il diritto inviolabile della persona alla propria identità, le ragioni di proporzione ed adeguatezza del mezzo al fine sostengono l'individuazione del rimedio nella sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo per il tempo necessario a che le parti dell'unione civile, che abbiano congiuntamente manifestato una siffatta volontà davanti al giudice della rettificazione anagrafica entro l'udienza di precisazione delle conclusioni, permanendo nella loro iniziale intenzione, celebrino il matrimonio. 4.6.- La durata della sospensione, da ricercarsi nel sistema e, segnatamente, nella disciplina dell'istituto matrimoniale, deve individuarsi nel termine fissato dal codice civile per la celebrazione del matrimonio a far data dalle pubblicazioni, e quindi in quello di centottanta giorni previsto dall'art. 99, secondo comma, cod. civ. decorrente, però, nel caso in esame, dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione del sesso, che resta sospesa, così nel suo decorso, limitatamente all'effetto dell'automatismo solutorio del vincolo. 4.7.- La sospensione di tale effetto lascia alle parti la facoltà di procedere alla celebrazione del matrimonio, nel contempo conservando agli uniti civilmente la tutela propria del rapporto già goduto e riconosciuto nell'ordinamento nelle more della celebrazione del matrimonio. 5.- Va quindi dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016, nella parte in cui stabilisce che la sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso determina lo scioglimento automatico dell'unione civile senza prevedere, laddove l'attore e l'altra parte dell'unione rappresentino personalmente e congiuntamente al giudice, fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, l'intenzione di contrarre matrimonio, che il giudice disponga la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione. 6.- Ne consegue che il competente ufficiale dello stato civile, ricevuta la comunicazione del passaggio in giudicato di detta sentenza di rettificazione con dichiarazione del giudice di sospensione limitatamente agli effetti dello scioglimento del vincolo, a far data dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione e sino al decorso del termine di centottanta giorni, procederà alla relativa annotazione. 7.- Va, dunque, dichiarata altresì l'illegittimità costituzionale dell'art. 70-octies, comma 5, del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui non prevede che l'ufficiale dello stato civile competente, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, proceda ad annotare, se disposta dal giudice, la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento dell'unione civile fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione. 8.- Restano assorbite le ulteriori censure propose dal rimettente. 9.- Vanno, invece, dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative all'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011, sollevate in riferimento agli artt. 2, 3 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, il cui accoglimento presupporrebbe l'estensione, appena esclusa, della disciplina prevista dall'art. 1, comma 27, della legge n. 76 del 2016, dettata per la ipotesi di conversione, a seguito di rettificazione dell'attribuzione di sesso di uno dei coniugi, del matrimonio in unione civile, alle fattispecie speculari di rettificazione nei confronti di uno dei componenti dell'unione civile. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), nella parte in cui stabilisce che la sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso determina lo scioglimento automatico dell'unione civile senza prevedere, laddove l'attore e l'altra parte dell'unione rappresentino personalmente e congiuntamente al giudice, fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, l'intenzione di contrarre matrimonio, che il giudice disponga la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione; 2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 70-octies, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera t), del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell'articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», nella parte in cui non prevede che l'ufficiale dello stato civile competente, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, proceda ad annotare, se disposta dal giudice, la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento dell'unione civile fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione; 3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, con l'ordinanza indicata in epigrafe; 4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 31, comma 4-bis, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), aggiunto dall'art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate, in riferimento gli artt. 2, 3 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, dal Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattrice Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 22 aprile 2024 Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE di APPELLO di NAPOLI Sezione Sesta civile composta dai magistrati: 1) dr.ssa Assunta D'AMORE - Presidente 2) dott. Francesco NOTARO - Consigliere 3) dr.ssa Ada METERANGELIS - Consigliere rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado d'appello iscritta al N. 5811 R.G.A.C. per l'anno 2015, riservata in decisione all'udienza a trattazione scritta del 16.11.2023 (svolta con le modalità previste dall'art. 127 ter c.p.c.), vertente TRA Fe.Se. ((...)) e Ma.Ru. ((...)), rappresentati e difesi in giudizio, per mandato in atti, dall'avv. Ci.Ma., con il quale sono elettivamente domiciliati in Napoli presso lo studio degli avv.ti Ci.Si. e Al.Ca., Centro Direzionale Isola E/2 Scala A; Appellanti principali CONTRO Gi.Co. ((...)) e Va.Co. ((...)), eredi/aventi causa del defunto Co.Pa., rappresentati e difesi in giudizio, per mandato in atti, dall'avv. An.Do., presso il cui studio in Napoli, corso (...), sono elettivamente domiciliati; Appellati/appellanti incidentali E Ma.Co. ((...)), rappresentata e difesa in giudizio, per mandato in atti, dagli avv.ti Lu. e Fr.Am., presso il cui studio in San Giuseppe Vesuviano, via (...), è elettivamente domiciliata; Appellata NONCHE' Ar.Co.; Do.Po., An.Co. e Ad.Co., quali eredi di N.B.C.; Appellati contumaci OGGETTO: appello contro la sentenza del tribunale di Nola n. 2777/2014, pubblicata in data 19.11.2014. IN FATTO E IN DIRITTO Con un primo atto di citazione, notificato in data 26.5.2000, Co.Pa., Co.Ni., Ar.Co. e Co.Ma. evocavano in giudizio, innanzi al tribunale di Nola, Fe.Se., Ma.Ru. e Se.Ni., esponendo, in fatto, di essere proprietari, unitamente ai germani Gi. e Fi., di un fabbricato sito in S. Gi. V. alla Via Gi. A. n. 65; che Gi. e Fi.Co. avevano venduto a Fe.Se. e Ma.Ru. la nuda proprietà e a Se.Ni. l'usufrutto del fabbricato loro pervenuto con atto per Notar N. Ce. del 9.1.1997; che i coniugi Se. - Ru. e Se.Ni., ristrutturando l'immobile acquistato in assenza di concessione edilizia, avevano commesso vari abusi edilizi (specificamente indicati e consistenti in: 1) innalzamento della quota del terrazzo e dei solai di calpestio del primo piano di circa 35 cm; 2) realizzazione di un solaio creato nell'area dei vani seminterrati ricavando così un nuovo piano intermedio fra i seminterrati ed il primo piano e con apertura di luci e vedute, nonché di porta con scala di accesso ad esso; 3) ampliamenti di superficie e volume del corpo di fabbrica verso il giardino al piano terra ed al primo piano, con realizzazione di nuovi terranei prima inesistenti e di un primo piano; 4) aumento delle altezze delle murature dei locali suppenni, con realizzazione di un solaio di copertura in cemento e nuove finestre; 5) occupazione dello spiazzo comune con materiale di vario genere; 6) apertura del cancelletto in ferro che prima si apriva all'esterno sul terrazzo allo stesso livello del pianerottolo all'interno del pianerottolo con ingombri della scala per accedere al secondo piano, di proprietà esclusiva dei germani C.; 7) scolo della acque meteoriche dal terrazzo di proprietà esclusiva sul pianerottolo della scala comune; 8) aumento delle quote in altezza del quartino edificato al posto del suppenno, con eliminazione della vista del Vesuvio; 9) violazione dei diritti condominiali, aggravamento di servitù e riduzione di luce ed aria dovuto alla realizzazione delle nuove unità abitative; 10) mancata costruzione di pozzi neri e mancato rispetto del rapporto planivolumetrico; 11) violazione delle norme del P.R.G. del Comune di San Giuseppe Vesuviano, il quale prevedeva, in assenza di piani particolareggiati, la sola possibilità di ristrutturare l'esistente o, in caso di abbattimento e ricostruzione, con una riduzione del 30% dell'esistente). Concludevano, pertanto, chiedendo di: "1) dichiarare arbitrarie, abusive ed illegittime le nuove opere realizzate dai convenuti e descritte in premessa, per violazione delle norme condominiali; per aggravamenti di servitù per riduzione di aria e luce, sole e vedute come sopra meglio precisato, e per violazione delle disposizioni edilizie comunali; 2) condannare per l'effetto solidalmente i convenuti ad abbattere ed eliminare immediatamente tutte le descritte opere abusive, illegali ed arbitrarie da essi realizzate, ripristinando lo stato dei luoghi; 3) condannare solidalmente i convenuti al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede; 4) condannare i convenuti, sempre solidalmente, al pagamento delle spese, diritti ed onorario di avvocato". Radicata la lite, si costituivano in giudizio i convenuti Fe.Se., Ma.Ru. e Se.Ni., contestando le doglianze attoree, assumendo che le parti in causa erano proprietarie di tre fabbricati distinti ed autonomi, con ingresso da un unico androne comune, assumendo, in particolare, quanto allo stato dei luoghi preesistente alla ristrutturazione, che l'accesso al sottotetto avveniva sia attraverso una scala comune, sia mediante una scala rientrante nella loro proprietà esclusiva, e che ad eccezione della scala principale, la restante porzione degli immobili rientrava nell'esclusiva disponibilità dei convenuti, non rientrando in particolare nella disponibilità degli attori il porticato e lo spiazzo sottostante, che assumevano di loro esclusiva proprietà, né tantomeno il pianerottolo di accesso al terrazzo. Contestavano, quindi, gli abusi lamentati da controparte, assumendo che non vi era stato alcun innalzamento della quota del terrazzo di copertura, né realizzazione di un nuovo solaio o realizzazione di nuove luci e vedute, né ampliamento di volume e di superficie del corpo di fabbrica verso il giardino, né del sottotetto. Spiegavano, infine, domande riconvenzionali, tese ad accertare e dichiarare l'avvenuto acquisto, per usucapione ultraventennale, di ogni servitù e diritto relativo e pertinente al fabbricato da essi acquistato, rimasto inalterato nella sua struttura, nonché ad accertare l'illegittima occupazione del cortile comune da parte degli attori in esecuzione di lavori edili di ampliamento delle rispettive unità immobiliari, con ripristino delle opere comuni in origine insistenti sul cortile (lavatoio ed altro). In corso di causa, a tale giudizio (RG N. 2801/2000) veniva riunito quello, di più recente iscrizione al ruolo (RG N. 5002/2003), introdotto da Co.Pa. nei confronti dei medesimi convenuti S./R., con cui l'istante lamentava l'edificazione, da parte di questi ultimi, di un fabbricato di dimensioni, tipologia e volumetrie differenti rispetto al fabbricato preesistente, con sottrazione del cortile comune alla disponibilità degli altri comproprietari per effetto della realizzazione di un porticato, contestando specificamente gli abusi meglio indicati in citazione. Concludeva, pertanto, chiedendo di: "1) accertare e dichiarare di proprietà comune il porticato descritto in premessa; 2) accertare e dichiarare abusive ed illegittime le opere edilizie sopra specificate perché realizzate dai signori S. senza idoneo provvedimento concessorio, in violazione delle distanze legali e dei diritti di proprietà del C.; 3) condannare i convenuti ad abbattere tutte le opere abusive realizzate con ripristino dello status quo ante; 4) condannare i convenuti a risarcire tutti i danni subiti e subendi dall'attore per effetto dei lavori realizzati abusivamente, illegittimamente e a non perfetta regola d'arte; 4) condannare i convenuti al pagamento delle spese, diritti ed onorari del processo, oltre I.V.A. e C.P.A. sui diritti ed onorari e spese generali". Costituitisi anche in tale giudizio, i convenuti contestavano la fondatezza delle avverse pretese, spiegando eccezione riconvenzionale volta all'accertamento dell'acquisto per usucapione del porticato e dello spazio ad esso sottostante. Esaurita l'istruttoria, con l'espletamento di due CTU e l'escussione di numerosi testi, la lite veniva definita con sentenza n. 2777/2014, pubblicata in data 19.11.2014, con cui il tribunale di Nola così statuiva: "a) in parziale accoglimento della domanda spiegata da parte attrice condanna i convenuti Fe.Se., Se.Ni. e Ma.Ru. ad arretrare l'immobile di loro proprietà alla distanza legale di cui all'art. 907 c.c. dalla veduta posta sul pianerottolo di riposo fra il secondo ed il terzo piano della cassa scala di accesso alla proprietà di Co.Pa. e ad arretrare il balcone prospiciente la finestra della cassa scala posta sul pianerottolo fra il primo ed il secondo piano alla distanza di cui all'art. 905 c.c. dalla predetta luce; b) accerta il diritto degli istanti al risarcimento del danno conseguente alla limitazione dell'uso del cortile comune, conseguente alle modifiche apportate al proprio immobile dai convenuti ed alla creazione di nuove unità abitative, in violazione dell'art. 1102 c.c., la cui liquidazione avverrà in separato giudizio; c) compensa integralmente fra le parti le spese del presente giudizio; d) pone definitivamente a carico di parte convenuta le spese di C.T.U.". Contro tale sentenza, non notificata, con atto di citazione notificato in data 17.12.2015, proponevano appello Fe.Se., Ma.Ru. e Se.Ni., e dopo aver precisato che il gravame era parziale (nel senso che non investe i capi della sentenza ove v'è stata la soccombenza di parte attrice in ordine a talune delle plurime e concorrenti domande da essa formulate nei confronti dei convenuti, odierni appellanti), chiedevano, previa sospensione dell'efficacia esecutiva della pronuncia gravata, la riforma di essa in relazione a cinque motivi di doglianza, con cui lamentavano specificamente: 1) Violazione e falsa applicazione degli artt. 166 e 167 c.p.c. in merito alla declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale dei convenuti, odierni appellanti. Erronea rappresentazione dei fatti determinanti ai fini della decisione. Error in procedendo. Motivazione erronea ed illogica. Ingiustizia manifesta. In ordine all'ingiustizia della decisione in ordine ai presenti capi v. anche infra motivo sub (...); 2) Erronea valutazione e rappresentazione dei fatti determinanti ai fini della decisione. Error in procedendo: erronea valutazione da parte del Giudice delle risultanze della Consulenza tecnica d'ufficio. Motivazione insufficiente, contraddittoria, erronea ed illogica. Violazione e falsa applicazione degli articoli 873, 905, 906 e 907 del codice civile. Illogicità manifesta. Ingiustizia; 3) Violazione e falsa applicazione dell'articolo 1102 del codice civile. Error in judicando per acritica adesione alle conclusioni del CTU. Violazione e falsa applicazione articoli 115 e 116 c.p.c. Motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria. Difetto assoluto di motivazione. Ingiustizia manifesta; 4) Violazione e falsa applicazione articoli 115 e 116 c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell'art. 2650 c.c. Motivazione erronea ed insufficiente. Motivazione inesistente. Improprio "remand" alle conclusioni del CTU. Ingiustizia manifesta; 5) In via gradata, nel solo caso di rigetto dell'appello, si chiede una pronunzia di giustizia in relazione alla condanna dei convenuti al pagamento per intero delle spese di C.T.U. Motivazione incompleta, illogica e contraddittoria. Error in judicando. Errore di fatto e di diritto. Ingiustizia manifesta. Concludevano, pertanto, per la riforma della pronuncia gravata, perché illegittima e ingiusta in relazione ai capi oggetto di gravame, con vittoria delle spese del doppio grado. Si costituiva tempestivamente in giudizio, con comparsa del 22.3.2016, Co.Pa., contestando l'avverso gravame, che assumeva infondato, contestualmente spiegando appello incidentale per ottenere la riforma della pronuncia gravata nelle parti in cui il tribunale: 1) aveva ritenuto che il nuovo corpo di fabbrica realizzato dai convenuti S./R. non avesse determinato violazione delle distanze tra costruzioni ai sensi dell'art. 873 c.c. e delle norme regolamentari tra costruzioni; 2) aveva ritenuto che l'apertura del cancelletto verso le scale comporterebbe un disagio minimo degli altri comunisti e che non sarebbe stato "convincentemente provato che vi siano fenomeni di stagnazione di acqua meteoriche sul pianerottolo delle scale antistante il terrazzo"; 3) aveva compensato le spese di lite. Concludeva, pertanto, chiedendo il rigetto dell'appello principale proposto perché inammissibile ed infondato nel merito ed in accoglimento dello spiegato appello incidentale condannare i signori S. - R., per violazione dell'art. 873 c.c., ad arretrare il fabbricato realizzato alla distanza prevista dalla legge; sempre in accoglimento dell'appello incidentale condannare controparte a sostituire le aperture del cancelletto con la eliminazione delle causali delle infiltrazione e stagnazione dell'acqua che si verificano durante i periodi di pioggia, il tutto con vittoria di spese e competenze professionali del doppio grado del giudizio, oltre accessori come per legge. Si costituiva anche Co.Ma.L., difesa dagli avv.ti Luigi e Francesco Ambrosio, che eccepivano preliminarmente la nullità assoluta del gravame principale perché notificato solo ai procuratori costituiti e non agli eredi di Co.Ni. (deceduto in data 27.7.2013, prima della notifica dell'atto di appello e prima dell'emissione dell'impugnata sentenza), nonché la mancata notifica dell'atto di gravame nei confronti di Co.Pa.. Co.Ma.L. concludeva, pertanto, per l'integrale rigetto dell'appello principale, inammissibile in rito anche per difetto di specificità, in violazione dell'art. 342 c.p.c., e infondato nel merito, con vittoria delle spese del grado, con distrazione. Benché ritualmente citato, restava contumace Ar.Co.. Interrotto il giudizio (all'udienza del 15.4.2016) per il decesso di Co.Ni., dichiarato dai suoi procuratori costituti in prime cure (benché non ricostituiti nella fase di gravame), lo stesso veniva ritualmente riassunto dagli appellanti principali nei confronti dei suoi eredi Do.Po., Ar.Co. e Ar.Co., che, benché ritualmente citati, restavano contumaci. Deceduto in corso di causa Co.Pa., e riassunto il giudizio (dichiarato interrotto all'udienza del 16.12.2016) nei confronti dei suoi eredi, si costituivano Gi.Co. e Va.Co., nelle indicate qualità, riportandosi all'appello incidentale ed alle difese svolte dal proprio dante causa. Disposta la notifica del gravame incidentale agli appellati contumaci, preso atto dell'avvenuta rinuncia all'istanza di inibitoria e ricostruito (parzialmente) il fascicolo d'ufficio di primo grado, la procedura, nelle more assegnata al giudice ausiliario relatore, avv. Andrea E. falcetta, già riservata in decisione, veniva rimessa sul ruolo con ordinanza del 16.5.2022, per la necessità di un supplemento peritale, affidato al CTU, ing. Giovanni Ca., già nominato in prime cure. Acquisito l'elaborato peritale e riassegnata la procedura (in data 26.10.2023) all'odierno originario relatore, dr.ssa Ada Meterangelis, per le sopravvenute dimissioni del giudice ausiliario, avv. Andrea E. Falcetta, all'udienza a trattazione scritta del 16.11.2023, sulle conclusioni rassegnate dalle parti nelle rispettive note scritte autorizzate, la causa veniva riservata in decisione, previa concessione dei termini di legge per il deposito degli scritti difensivi. I. Preliminarmente, in rito, si osserva che, contrariamente a quanto dedotto dall'appellata Ma.Co., l'impugnazione principale soddisfa il requisito formale prescritto dall'art. 342 c.p.c., nella formulazione ratione temporis applicabile, essendo stati chiaramente individuati i punti della motivazione della sentenza gravata sottoposti a critica ed illustrata la diversa ricostruzione dei fatti prospettata dagli appellanti, che, in definitiva, hanno rappresentato alla corte un contenuto completo delle proprie censure sì da permettere il raffronto immediato fra le motivazioni della pronuncia impugnata e le motivazioni addotte nell'atto di appello. Per ormai consolidato insegnamento giurisprudenziale, gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 201, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 201, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l'utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di "revisio prioris instantiae" del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass., Sez. Unite, 2017/n. 27199; nello stesso senso, da ultimo, Cass., Sez. Unite, 2022/n. 36481). In altri termini, occorre, ed è per altro verso sufficiente, che, come verificatosi nella specie, il giudice del gravame sia posto in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, e che l'appellante dimostri di aver compreso le ragioni del primo giudice e indichi il perché queste siano censurabili, senza che sia preteso il rispetto di particolari forme sacramentali o comunque vincolate. -. Palesemente infondate sono le altre due eccezioni preliminari di rito sollevate dai difensori di Co.Ma.L., avv.ti Luigi e Francesco Ambrosio, il primo dei quali difensore costituito in prime cure (oltre che per M.L.) anche per Co.Ni., Ar.Co. e Co.Pa. (per quest'ultimo solo nel giudizio iscritto con RG N. 2801/2000, come peraltro si evince dall'epigrafe della sentenza gravata, pag. 1). In particolare, quanto all'eccepita nullità assoluta e tardività dell'atto di impugnazione proposto nei confronti di Co.Ni., che, a dire dell'appellata C., sarebbe stato erroneamente notificato presso il procuratore di questi, anziché dei suoi eredi, si osserva che, non essendo stato dichiarato in primo cure il decesso dell'attore Co.Ni. (verificatosi prima dell'emissione della sentenza gravata), legittimamente gli appellanti S./R. procedevano alla notifica dell'atto di gravame nei confronti dell'originaria parte processuale, presso i suoi procuratori costituiti (avv.ti Albo e Luigi Ambrosio). Invero, com'è noto, le Sezioni Unite della Suprema Corte, nel comporre il contrasto insorto in subiecta materia, hanno affermato che "in caso di morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, l'omessa dichiarazione o notificazione del relativo evento ad opera di quest'ultimo comporta, giusta la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, che il difensore continui a rappresentare la parte come se l'evento stesso non si fosse verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonché in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell'impugnazione. Tale posizione è suscettibile di modificazione qualora, nella fase di impugnazione, si costituiscano gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale di quella divenuta incapace, ovvero se il suo procuratore, già munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza, o notifichi alle altre parti, l'evento, o se, rimasta la medesima parte contumace, esso sia documentato dall'altra parte o notificato o certificato dall'ufficiale giudiziario ex art. 300, quarto comma, cod. proc. civ.", ulteriormente precisando che, ove la morte o la perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore non siano state da quest'ultimo dichiarate in udienza o notificate alle altre parti, si avrà, giusta la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, che: "a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, ex art. 285 cod. proc. civ., è idonea a far decorrere il termine per l'impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale di quella divenuta incapace; b) il medesimo procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione (ad eccezione del ricorso per cassazione, per la proposizione del quale è richiesta la procura speciale) in rappresentanza della parte che, pur deceduta o divenuta incapace, va considerata nell'ambito del processo ancora in vita e capace; c) è ammissibile l'atto di impugnazione notificato, ai sensi dell'art. 330 c.p.c., comma 1, presso il procuratore, alla parte deceduta o divenuta incapace, pur se la parte notificante abbia avuto diversamente conoscenza" (Cass., Sez. Un., n. 15295/2014; nello stesso senso, ex multis, Cass. n. 18656/2015, Cass. n. 710/2016 e Cass. n. 12183/2021). Ferma, dunque, la ritualità e tempestività dell'originaria notifica dell'atto di impugnazione (in data 17.12.2015) nei confronti degli avv.ti Albo e Luigi Ambrosio, procuratori costituiti in primo grado per l'attore N.C.B., contumace in sede di gravame, si evidenzia ulteriormente come il giudizio, successivamente interrotto (poco rileva, ai fini di cui si discute, se a torto o a ragione) per il dichiarato decesso di N.C.B., veniva in ogni caso ritualmente riassunto dagli appellanti S./R. nei confronti dei suoi eredi, P.D., Ar.Co. e Ar.Co., cui veniva notificato (essendo rimasti contumaci) anche il gravame incidentale, risultando così pienamente assicurata l'effettività del contraddittorio tra le parti. Quanto poi al dedotto mancata perfezionamento della notifica dell'appello principale nei confronti di Co.Pa., la difesa di Ma.Co. rilevava che: "in forza del principio della diversa identità che i giudizi riuniti devono mantenere si eccepisce la mancata notifica dell'atto di appello nei confronti del sig.re Co.Pa. agli scriventi procuratori presso i quali eleggeva domicilio nell'atto di citazione introduttivo del giudizio recante N.R.G. 2801/2000 al quale veniva riunito il procedimento N.R.G. 5002/2003 avente un oggetto solo parzialmente simile e nel quale era difeso da altro procuratore. E per l'effetto si chiede non essendosi perfezionata la notifica dell'appello nei confronti di tutti gli appellati il rigetto dello stesso" (cfr. pag. 6 della comparsa di costituzione in appello). L'eccezione, ancor prima che infondata (atteso che, ai fini della corretta instaurazione del giudizio di appello nei confronti di una parte costituita con più difensori, è sufficiente la rituale notifica a uno solo di essi; cfr. Cass. n. 20626/2017 e Cass., Sez. Un., n. 34260/2022), è inammissibile, ove si consideri che l'unica parte legittimata a dolersi di un eventuale vizio di notifica dell'atto di impugnazione (nella specie inesistente) era Co.Pa., che, di contro, senza nulla eccepire al riguardo, con comparsa del 22.3.2016, si costituiva regolarmente in appello, spiegando anche gravame incidentale, difeso e rappresentato (esclusivamente) dall'avv. Angelo D'Onofrio, al quale legittimamente veniva notificato il gravame principale, quale procuratore domiciliatario già costituito in prime cure in entrambi i giudizi riuniti (cfr. epigrafe della sentenza gravata, pag. 1). -. Infine, sempre in rito, va disattesa l'eccezione di estinzione del giudizio per la prima volta formulata, con la conclusionale del 12.1.2024, dagli appellanti incidentali C.G. e Va.Co. (che succedevano nella posizione di Co.Pa.), che sottoponevano all'attenzione della corte la circostanza evidenziata da controparte, che in data 22 ottobre 2020 è deceduto il signor Se.Ni., parte del processo (appellante, unitamente ai signori Fe.Se. e Ma.Ru.), assumendo, al riguardo, che: "Siffatta dichiarazione ex art. 300 c.p.c. è avvenuta per la prima volta con la memoria del 5 gennaio 2022. In seguito a tale dichiarazione, in applicazione della richiamata normativa, si è interrotto il giudizio "senza che abbia alcun rilievo il momento ove sia adottato il successivo provvedimento giudiziale dichiarativo dell'intervenuta interruzione, avente natura meramente ricognitiva" (Cass. 24/05/2022 n. 16797). Contrariamente a quanto assume controparte, nessun consolidamento della proprietà è avvenuto nei confronti di Fe.Se. posto che, lo stesso, non ha nessuna legittimazione nel presente giudizio. Quest'ultimo, infatti, con atto per notar Lodovico Mustilli del 18 luglio 2018 ha venduto - nel corso dell'appello - la sua quota dello stabile ai figli, signori S.A. nato a S. Gi. V. il (...) ed ivi residente, alla via Gi. A. n. 68/5 e S.L. nato S. Gi. V. il (...) ed ivi residente, alla via Gi. A. n. 68/5. Detto ciò, è chiaro che il presente giudizio si è estinto per non essere stato riassunto nel termine di tre mesi nei confronti degli effettivi legittimati e, precisamente, A. e L.S.. In via alternativa, ove il Collegio ritenesse di disattendere la rilevata eccezione di estinzione, si chiede di integrare il contraddittorio, ex art. 102 c.p.c., nei confronti dei signori S.A. ... e S.L. ..., per essere quest'ultimi parte necessaria del procedimento". Ferma l'irritualità della produzione documentale tardivamente allegata con l'anzidetta conclusionale del 12.1.2024 (ivi compreso l'atto per notar Mustilli del 18.7.2018, neanche allegato in forma integrale), si osserva, in ogni caso, che, contrariamente a quanto dedotto dagli appellanti incidentali, nella specie, alcuna interruzione del giudizio si è verificata, né tanto meno occorre procedere all'integrazione del contraddittorio, ove si consideri, da un lato, che il procuratore costituito per gli appellanti principali si limitava a rappresentare alla corte, già con le note scritte autorizzate del 5.3.2021, l'avvenuto (e non documentato) decesso, in data 22.10.2020, di N.S., usufruttuario dell'immobile per cui è causa, al solo fine di evidenziare che l'usufrutto si era ormai consolidato con la nuda proprietà, come peraltro esplicitato nella (prima) conclusionale del 13.5.2021 (pag. 1), e non già per ottenere la declaratoria di interruzione del processo (che resta facoltà del procuratore costituito della parte defunta o non più capace, essendo rimessa in via esclusiva alla sua discrezionalità la scelta di "fare o non fare" tale dichiarazione o notificazione "nel momento che ritiene più opportuno, al fine di provocare, sul presupposto dell'effettivo verificarsi dell'evento, l'effetto giuridico dell'interruzione del processo"; così, Cass., Sez. Un., n. 15295/2014, cit.); dall'altro, che resta irrilevante la circostanza che Fe.Se. abbia nelle more alienato i diritti a lui spettanti sull'immobile di via Gi. A. n. 65 ai figli A. e L., con conseguente consolidamento dell'usufrutto in capo a questi ultimi, dovendo in ogni caso il processo proseguire tra le parti originarie ex art. 111, comma 1, c.p.c., senza che sussista alcuna necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei successori a titolo particolare nel diritto controverso, contro i quali, come previsto dal comma 4 della stessa disposizione normativa, spiega sempre i suoi effetti la sentenza pronunciata contro l'alienante. II. Tanto chiarito in rito, osserva subito la corte che l'appello principale è solo in parte fondato. -. Con il primo ed il quarto motivo di gravame, da trattare congiuntamente perché strettamente connessi, gli appellanti S./R., dopo aver (con il primo motivo) contestato al tribunale di aver errato nel ritenere inammissibili, perché tardivamente proposte, le domande riconvenzionali da essi spiegate in prime cure (nel più risalente giudizio RG N. 2801/2020), ripropongono (con il quarto motivo di doglianza) la (sola) riconvenzionale di usucapione per possesso continuato, pacifico ed indisturbato per un periodo superiore al termine di legge, del porticato e dell'area ad esso sottostante, chiedendo, in particolare, alla corte adita, sulla premessa della natura autodeterminata, sotto il profilo processuale, dei diritti reali, di dichiarare che il portico è di proprietà esclusiva degli odierni appellanti, e, in via gradata, previa riforma della sentenza impugnata in relazione alla domanda riconvenzionale di usucapione, per le ragioni indicate sub motivo I, l'accertamento costitutivo dell'acquisto a titolo originario della proprietà esclusiva del citato porticato ai sensi dell'articolo 1159 del codice civile per usucapione decennale o breve, da parte sia dei danti causa degli appellanti in virtù del possesso continuato e pacifico e dei titoli astrattamente idonei, sia, in virtù della continuità nel possesso, in favore di questi ultimi, giusta l'atto di trasferimento del 1997 per Notaio Ce. (pag. 17 dell'appello). Deducono, al riguardo, che la questione, esaminata come eccezione riconvenzionale (formulata dai convenuti nel giudizio riunito N. 5002/2003 RG), era stata erroneamente valutata dal tribunale, che l'aveva disattesa, ritenendo la proprietà comune dell'anzidetta area, aderendo acriticamente alle conclusioni rese sul punto dal nominato CTU, ing. Ca.. Giova innanzitutto richiamare i passi contestati della pronuncia gravata inerenti alla ritenuta inammissibilità delle riconvenzionali spiegate dai convenuti, così motivata dal tribunale: "Va, in primo luogo, osservato che i convenuti si sono tardivamente costituiti in giudizio nel giudizio iscritto al n. 2801/2000 R.G.A.C. Costoro, infatti, pur essendo stati citati a comparire per l'udienza del 31.07.2000, si sono costituiti in giudizio in data 19.07.2000, quindi oltre i venti giorni antecedenti l'udienza di prima comparizione fissata nell'atto di citazione. Ai fini dell'osservanza del termine per la tempestiva costituzione in giudizio, infatti, stante l'esplicita previsione contenuta nello stesso art. 166 cod. proc. civ., per il suo computo a ritroso deve aversi riguardo (in via esclusiva) all'udienza indicata nell'atto di citazione e non (anche) a quella eventualmente successiva, cui la causa sia stata rinviata d'ufficio, ai sensi dell'art. 168 bis, comma quarto, cod. proc. civ., in ragione del calendario delle udienze del giudice designato (cfr Cass. civ., sent. n. 12490 del 28.05.2007). ... ... è rimesso al potere officioso del giudice quello di rilevare la decadenza di parte convenuta dall'esercizio delle facoltà di cui all'art. 167, II comma, c.p.c. .... Le domande riconvenzionali spiegate nell'ambito nel giudizio iscritto al n. 2801/2000 R.G.A.C. devono essere, per tali ragioni, dichiarate inammissibili, in quanto tardive. La domanda di avvenuta usucapione del portico e dell'area sottostante lo stesso, quindi, potrà essere esaminata solo in via d'eccezione, al fine di paralizzare le domande di parte attrice, spiegate in entrambi i giudizi riuniti, di occupazione del cortile di proprietà comune e di sottrazione dello stesso all'uso degli altri comproprietari". In contrario, si osserva che la data fissata per la prima udienza di comparizione, rispetto alla quale andava calcolato il termine di cui all'art. 166 c.p.c., è quella del 26.9.2000, inequivocabilmente indicata nell'atto di citazione notificato ai convenuti S./R. (in atti), che, dunque, si costituivano tempestivamente in giudizio con comparsa depositata in data 19.7.2000, con conseguente sicura ammissibilità delle spiegate riconvenzionali. Circostanza, peraltro, espressamente confermata, su invito della corte (cfr. ordinanza del 5.7.2021), dagli avv. Luigi e Francesco Ambrosio, procuratori dell'appellata Ma.Co., già costituiti in prime cure per tutti gli attori nel giudizio N. 2801/2000 RG, che precisavano che la data del 31.7.2000 indicata nella velina allegata al fascicolo d'ufficio di prime cure era sicuramente errata (cfr. verbale d'udienza del 5.11.2021). -. Acclarata, dunque, in parziale riforma della pronuncia gravata, la ritualità delle riconvenzionali spiegate in prime cure dai convenuti, ivi compresa quella di usucapione del portico e dello spazio ad esso sottostante, esaminata in via di eccezione dal tribunale, osserva la corte come gli argomenti posti dal primo giudice a fondamento del relativo rigetto non risultino efficacemente scalfiti dagli appellanti S./R.. Così, infatti, motivava il tribunale: "Occorre, quindi, passare alla domanda di sottrazione alla disponibilità comune del porticato per effetto della sua demolizione e ricostruzione. Entrambi i consulenti d'ufficio nominati in corso di causa, con motivazioni ed iter argomentativo che pienamente si condividono ed ai quali si rimanda, hanno ritenuto la natura comune del porticato (cfr., in particolare, pagine da 7 a 9 della relazione peritale depositata in Cancelleria in data 17.03.2014 e risposta ai chiarimenti del C.T. di parte convenuta) e la proprietà esclusiva del terrazzo sovrastante. Ciò posto, con la prova testimoniale raccolta in corso di causa non è stata provata l'usucapione di detto spazio. "Il comproprietario che sia nel possesso del bene comune può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri comunisti, senza necessità di interversione del titolo del possesso e, se già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in temi di esclusività, a tal fine occorrendo che goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare in modo univoco la volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", senza che possa considerarsi sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall'uso della cosa comune" (cfr. Cass. civ., sent. n. 23539 del 10.11.2011). Con la prova testimoniale raccolta in corso di causa non è stato univocamente provato che l'area sottostante il porticato fosse puntellata, e, come tale, inaccessibile agli attori, avendo taluni dei testimoni escussi affermato che, nonostante il puntellamento, anche gli attori, in particolare Co.Pa., parcheggiassero al di sotto del porticato le proprie autovetture ma, anche a ritenere diversamente, la sua eventuale utilizzazione da parte del convenuto, senza atti materiali di interversione del possesso, non ha potuto comportare l'usucapione dell'area da parte dei convenuti". Ebbene, deve premettersi che gli appellanti non contestano la valutazione delle risultanze dell'espletata prova testimoniale, ma solo (e genericamente) l'interpretazione dei titoli di provenienza, dai quali, a loro dire, contrariamente a quanto ritenuto dal CTU, e dal tribunale che ne aveva recepito le conclusioni, emergerebbe la proprietà esclusiva dell'area in discorso. Assumono, infatti, che: "...nei titoli di provenienza riferiti ai danti causa dei convenuti, è sempre indicata la presenza, tra i cespiti di volta in volta trasferiti, dell'intero fabbricato comprensivo del porticato (il quale, anche architettonicamente forma un tutt'uno con lo storico edificio attualmente di proprietà della parte appellante). In particolare, nell'atto del 1997 per Notar Ce., con il quale i convenuti acquistarono l'intera consistenza immobiliare dai sigg.ri C.G.A. e C.F., v'è l'espressa indicazione in proprietà esclusiva del porticato, il quale risulta altresì rappresentato nelle planimetrie catastali (erroneamente, il CTU ing. Ca. afferma l'inesistenza della individuazione catastale di tale manufatto, cfr. pag. 7 ult. cpv. della relazione). Per contra, nei titoli di acquisto riferiti agli appellati giammai si fa riferimento alla proprietà, finanche comune, di tale manufatto, come del resto riferito dallo stesso CTU ing. Ca. a pag. 8 della sua relazione. In un atto di divisione tra i germani C.F., A. e Gi. del 5 agosto 1868 per Notaio Luigi Casotti, viene citata la presenza di una tettoia assegnata in proprietà esclusiva ad uno dei condividenti il quale avrebbe avuto il diritto di demolirla e ricostruirla, con spazio sottostante di proprietà comune e terrazzo sovrastante di proprietà esclusiva dell'assegnatario ricostruttore. In seguito, sempre dalla lettura degli atti, si perdono le tracce in ordine alla sorte ed ai trasferimenti di tale tettoia, né si conosce l'epoca di demolizione e ricostruzione della stessa, ma nel tempo, di fatto compare il porticato oggetto di causa, il quale, come sopra detto, si rinviene sempre, come proprietà esclusiva, negli atti di trasferimento riferibili agli odierni appellanti. ...alcun rilievo hanno le elucubrazioni svolte dai periti d'ufficio su tale questione, avendo unica rilevanza, la continuità delle trascrizioni dei predetti titoli di acquisto che senza ombra di dubbio riferiscono, in maniera univoca e puntuale, della proprietà esclusiva del più volte ripetuto porticato". L'assunto è infondato. Invero, come già correttamente rilevato da entrambi i consulenti d'ufficio nominati in prime cure, in particolare dall'ing. Gi. Ca., dall'esame dei titoli di provenienza allegati in atti si evince che: 1) l'intero complesso immobiliare sito in S. Gi. V., alla via A. n. 65, di cui sono attualmente proprietarie le parti in causa, apparteneva in origine a C.G., che, con atto per notar Casotto del 5.8.1868, lo divideva in tre quote, assegnate previo sorteggio ai tre figli, Fi., A. e G.; 2) a quest'ultimo veniva assegnata la terza quota, ora in proprietà S./R., comprensiva del cellaio ubicato a piano terra e della tettoia dalla quale si accedeva al cellaio, al riguardo precisandosi nell'atto che: "l'assegnatario della tettoia posta avanti al cellaio avrà facoltà di demolirla a sue spese appropriandosene il materiale di risulta da una parte, dall'altra avrà l'obbligo poi di covrirne tale località anche a sue spese con volte a lamia dovendo il suolo sottoposto restare comune fra i condividenti, mentre la parte superiore a tali lamie si apparterrà esclusivamente a detta terza porzione"; 3) come chiarito dal CTU, ing. Ca. (cfr. pag. 8 dell'elaborato a sua firma), in epoca successiva all'atto del 1868 (quando certamente non esisteva il porticato con la sovrastante terrazza), ma comunque prima del 1940 (data di compilazione delle schede catastali in cui è riportato il perimetro della terrazza al primo piano che si sorreggeva sui pilastri in muratura che delimitano il porticato), è stata demolita la tettoia e al suo posto è stato realizzato il porticato con sovrastante terrazza, nella configurazione e dimensioni che si evincono dalle fotografie allegate alla produzione degli attori, che li raffigura così come si presentava prima dei lavori di ristrutturazione; 4) in tutti i successivi atti di trasferimento allegati dalle parti, aventi ad oggetto le porzioni originariamente assegnate con l'atto per notar Casotto del 5.8.1868, non si fa alcun riferimento al porticato né al sovrastante terrazzo al primo piano, limitandosi, con detti atti, le parti di volta in volta contraenti, a trasferire, per compravendita o donazioni, i cespiti ricevuti con i proporzionali diritti di proprietà sulle parti comuni richiamando i precedenti titoli di provenienza; 5) solo nell'atto di compravendita per notar Ce. del 9.1.1997, nella descrizione della consistenza immobiliare trasferita ai sigg.ri S./R., si fa riferimento al porticato a piano terra, che, nondimeno, non è richiamato nei titoli di provenienza dei venditori danti causa C.G.A. e C.F.. E' evidente, pertanto, che poiché nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet, l'area sottostante il porticato di cui si discute non può che ritenersi di proprietà comune, così come stabilito nel titolo originario del 5.8.1868, di talché legittimamente il tribunale richiamava, facendole proprie, le conclusioni rese dal CTU, che evidenziava: "l'eventuale assegnazione in proprietà esclusiva di un bene originariamente comune ai condividenti, doveva essere legittimata da un idoneo atto di trasferimento, mentre dall'esame delle produzioni non esiste alcun atto di tale tipo e pertanto resta confermato quanto è disposto nell'atto di divisione del 1868. In definitiva, lo scrivente ritiene che il porticato, realizzato sull'area di sedime della tettoia posta dinanzi al cellaio, debba essere considerato di proprietà comune al pari del cortile. Tale affermazione implica di conseguenza, sempre in virtù della disposizione contenuta nell'atto del 1868, che il terrazzo sovrastante sia invece di proprietà esclusiva dell'assegnatario della terza quota e dunque oggi dei convenuti S." (cfr. pagg. 8-9 dell'elaborato). Né, peraltro, v'è prova che i danti causa dei S./R. abbiano avuto il possesso in via esclusiva dell'area sottostante il porticato, godendone con modalità inconciliabili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare in modo univoco la volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", di talché, in definitiva, vanno rigettate tutte le pretese al riguardo azionate dagli appellanti principali, ivi compresa quella formulata in via gradata ex art. 1159 c.c.. -. Con il secondo motivo di gravame, gli appellanti S./R. lamentano l'erronea valutazione e rappresentazione dei fatti determinanti ai fini della decisione, assumendo che il tribunale avrebbe erroneamente valutato le risultanze della CTU, incorrendo nella violazione e falsa applicazione degli artt. 873, 905, 906 e 907 c.c., censurando, di conseguenza, le decisioni adottate dal primo giudice con riguardo ad entrambe le opere realizzate dai convenuti, ossia la presunta sopraelevazione dell'edificio e il balconcino al terzo piano (per le quali così statuiva in dispositivo: "a) in parziale accoglimento della domanda spiegata da parte attrice condanna i convenuti Fe.Se., Se.Ni. e Ma.Ru. ad arretrare l'immobile di loro proprietà alla distanza legale di cui all'art. 907 della veduta posta sul pianerottolo di riposo fra il secondo ed il terzo piano della cassa scala di accesso alla proprietà Co.Pa. e ad arretrare il balcone prospiciente la finestra della cassa scala posta sul pianerottolo fra il primo ed il secondo piano alla distanza di cui all'art. 905 dalla predetta luce"). E' opportuno richiamare i passi contestati della sentenza gravata, con cui il tribunale, richiamati i principi di diritto affermati dalla Suprema Corte in subieta materia (cfr. pagg. 6-8), così argomentava: "...Costituisce sopraelevazione, quindi, la nuova costruzione che superi in altezza quella preesistente (cfr Cass. civ., sent. n. 1817 del 02.02.2004), ragione per cui occorrerà valutare se, per effetto della sopraelevazione realizzata, sia stata violata la normativa in tema di distanze legali dall'immobile del confinante (così come lamentato .da .Co.Pa. con l'atto introduttivo del giudizio iscritto al n. 5002/2003 R.G.A.C.) o se sia stata eliminazione una servitù di veduta e di luce ed aria in danno di tutti gli attori, così come lamentato nell'atto di citazione introduttivo del giudizio iscritto al n. 2801/2000 R.G.A.C. e, conseguentemente, un danno risarcibile. ...omissis... Entrambe le consulenze d'ufficio espletate in corso di causa hanno accertato, con argomentazioni che si condividono pienamente ed alle quali si rimanda, anche nel rispondere ai rilievi critici dei consulenti di parte (cfr Cass. civ., sent. n. 282 del 09.01.2009; Cass. civ., sent. n. 8355 del 03.04.2007; Cass. civ., sent. n. 7716 del 07.06.2000; Cass. civ., sent. n. 3492 del 11.03.2002), che i convenuti hanno realizzato un innalzamento della gronda del fabbricato di circa 1,40 metri, con innalzamento della parete del fabbricato con la conseguenza che, mentre il solaio di copertura preesistente a falda inclinata era sottostante la finestra della cassa scala di pertinenza dell'immobile di Co.Pa., attualmente vi è una invasione, seppur in misura ridotta, della stessa da parte del cornicione del solaio a falda inclinata del nuovo tetto. ...omissis... Il C.T.U. ing. Gi. Ca., peraltro, ha accertato che l'innalzamento della quota del fabbricato di proprietà S. ha comportato l'invasione della finestra, con funzione di veduta, della cassa scale, con riduzione del passaggio di aria, seppur minima diminuzione di luce ed aria in virtù del rapporto fra la sezione obliqua e la dimensione complessiva della finestra, nonché che il balcone del terzo piano abbia invaso la finestra posta sul pianerottolo di riposo fra il primo ed il secondo piano della cassa scala, con possibilità di esercizio della veduta all'interno della cassa scala, ed in entrambi i casi con violazione delle distanze legali previste in materia di luci e vedute, dovendo la prima finestra menzionata essere qualificata come veduta e la seconda come luce. Il consulente, invece, ha escluso che vi sia stata, per effetto della realizzazione della sopraelevazione, violazione delle distanze legali ai sensi dell'art. 873 c.c. o violazione della distanza minima di dieci metri di cui al D.M. n. 1444 del 1968. Ciò posto, in ordine alla occupazione da parte della nuova costruzione della luce e della veduta posta sulla cassa scala, va rimarcato che "il diritto di proprietà di un immobile fronteggiante il fondo altrui non può attribuire, in assenza di titoli specifici (negoziali o originari, come l'usucapione), anche l'acquisto della servitù di veduta; ne consegue che una situazione di mero fatto - che si sia concretizzata nell'esistenza, a distanza inferiore di quella prescritta dall'art. 905 cod. civ., di aperture che consentano la "inspectio" e la "prospectio" nel fondo confinante - non è di per sé suscettibile di tutela in via petitoria, al fine di pretendere, da parte del vicino che edifichi sul proprio fondo, l'osservanza delle distanze previste dall'art. 907 cod. civ." (cfr Cass. civ., sent. n. 11956 del 22.05.2009; conforme Cass. civ., sent. n. 18030 del 03.08.2010). Risulta dalle indagini peritali espletate in corso di causa che la sopraelevazione della cassa scala, la quale in origine terminava all'altezza del primo piano, sia stata posta in essere dal convenuto in forza della licenza edilizia n. 35/1965 e, quindi, risulta acquistato per usucapione il diritto di luce e veduta dalle aperture collocate su tale cassa scala. Deve, quindi, essere accolta la domanda di accertamento dello sconfinamento causato dalla muratura del nuovo fabbricato di proprietà S. all'altezza del pianerottolo del vano scala di proprietà esclusiva di Co.Pa. (cfr punto c) della narrativa dell'atto di citazione introduttivo del giudizio iscritto al n. 5002/2003 R.G.A.C.), con conseguente condanna dei convenuti Fe.Se., Ma.Ru. e Se.Ni. all'abbattimento del manufatto, con suo arretramento alla distanza legale rispetto alla veduta insistente sul fabbricato di parte attrice ed arretramento del balcone prospiciente la finestra della cassa scala posta sul pianerottolo fra il primo ed il secondo piano alla distanza di cui all'art. 905 c.c., rimettendo a diverso giudizio la liquidazione del danno conseguente a tale realizzazione in violazione delle distanze legali, di cui l'attore Co.Pa. ha richiesto la liquidazione in separato giudizio (...), così come analoga riserva è stata formulata da tutti gli attori del giudizio iscritto al n. 280/2000 R.G.A.C. Va rimarcato che la natura comune della cassa scala, dedotta da parte convenuta, non altererebbe la decisione, giacché ciascun comunista ha diritto a pretendere l'osservanza delle distanze legali, rispetto al fondo comune, le quali siano state violate dall'apertura di vedute o da opere eseguite dall'altro comproprietario su un edificio di proprietà esclusiva di quest'ultimo prospiciente l'area comune (cfr Cass. civ., sent. n. 2572 del 25.08.1971)". Ebbene, giova premettere che, nel regolare il conflitto di interessi tra i proprietari di fondi confinanti, il legislatore, se con gli artt. 905 e 906 c.c., ha inteso tutelare la privacy del vicino, imponendo una determinata distanza per l'apertura delle vedute, ha, per altro verso, con l'art. 907 c.c., ritenuto equo tutelare anche chi ha aperto la veduta, imponendo al vicino di non ostruire, se non ad una distanza tale da non impedire al titolare l'esercizio della veduta stessa. Tanto chiarito, quanto alla sopraelevazione effettuata dai convenuti/odierni appellanti S./R., osserva la corte che, contrariamente a quanto da essi dedotto (pagg. 10-11 dell'appello), il tribunale, lungi dal cambiare radicalmente la obiettiva valutazione del CTU, aggravando la posizione dei convenuti, ha correttamente valutato le risultanze delle indagini peritali, che davano preliminarmente atto dell'esistenza, già accertata dal primo consulente, arch. C. Coppo (cfr. pag. 14 dell'elaborato a sua firma), di un aumento della quota di gronda del fabbricato di circa 1,40 metri, mediante innalzamento della parete del fabbricato, con la conseguenza, evidenziata dal secondo CTU, ing. Ca., che laddove il solaio di copertura preesistente a falda inclinata era sottostante alla finestra della cassa scala (di pertinenza dell'immobile di Co.Pa.), adesso la invade, seppur in maniera ridotta. L'innalzamento lo si evince non solo dalla fotografia del fabbricato dei convenuti prima dei lavori, richiamata dal CTU arch. Coppo nella sua relazione, ma anche dalla fotografia dell arch. Bifulco (tecnico progettista dei convenuti) contenuta nella documentazione acquisita dal CTU con l'accesso agli atti presso l'ufficio tecnico del Comune di San Giuseppe vesuviano (cfr. all. 4 elaborato peritale del CTU arch. Coppo) (pag. 9 dell'elaborato). Consegue che la sopraelevazione effettuata dai convenuti, costituente nuova costruzione, lesiva del diritto di veduta (diretta) dalla finestra della cassa scala (invasa dal cornicione del solaio a falda inclinata del nuovo tetto, realizzato a ridosso di detta finestra), ha legittimamente condotto il primo giudice, in applicazione dell'art. 907 c.c., a disporre l'arretramento del manufatto alla distanza legale stabilita nell'indicata disposizione normativa, restando irrilevante, in senso contrario, la circostanza che, nella specie (come pure si legge nella sentenza gravata, che richiamava gli accertamenti svolti dal CTU, ing. Gi. Ca.), la finestra sia stata invasa in misura ridotta e senza apprezzabile diminuizione di luce ed aria (pagg. 10-11 dell'elaborato), atteso che, per consolidato insegnamento giurisprudenziale, la distanza di tre metri dalle vedute prescritta dall'art. 907 c.c. per le nuove costruzioni, al pari di ogni altra distanza prescritta dalla legge per disciplinare i rapporti di vicinato, ha carattere assoluto, essendo stata predeterminata dal legislatore in via generale ed astratta, senza che al giudice sia consentito alcun margine di discrezionalità sia nella valutazione della esistenza della violazione della distanza, sia nella valutazione relativa alla dannosità e pericolosità della posizione della nuova costruzione rispetto alla veduta del vicino (Cass. n. 15381/2000; nello stesso senso, Cass. n. 36122/2021). Al riguardo, la Suprema Corte ha precisato che: "L'obbligo di costruire a non meno di tre metri dalle vedute dirette aperte nella costruzione esistente sul fondo vicino, di cui all'art. 907 cod. civ., ha natura assoluta e va osservato anche quando l'erigenda costruzione non sia tale da impedire di fatto l'esercizio della veduta, mentre una valutazione circa l'idoneità dell'opera ad ostacolare il diritto di veduta può venire in rilievo soltanto quando si intenda erigere un manufatto diverso da una costruzione in senso tecnico" (cfr. Cass. n. 12033/2011, anche in motivazione, ove si chiarisce: "L'art. 907 cod. civ., che vieta di costruire a distanza inferiore di tre metri dalle vedute dirette aperte sulla costruzione del fondo finitimo, pone un divieto assoluto, la cui violazione si realizza in forza del mero fatto che la costruzione è a distanza inferiore a quella stabilita, a prescindere da ogni valutazione in concreto se essa sia o meno idonea ad impedire o ad ostacolare l'esercizio della veduta (Cass. n. 11199 del 2000; Cass. n. 12299 del 1997). La norma codicistica, infatti, enuclea in favore del titolare della veduta un diritto perfetto al rispetto della distanza legale da parte della costruzione del vicino, senza introdurre ulteriori condizioni. La soddisfazione di tale diritto non può rimanere pertanto condizionata dalle caratteristiche dell'opera eretta dal vicino, una volta che essa abbia i caratteri della costruzione in senso proprio, così come previsto dalla norma, che usa il termine "fabbricare", da cui è enucleabile il sostantivo "fabbricato" o "costruzione""; nello stesso senso, ex multis, Cass. n. 26263/2018). Sulla scorta di quanto precede, restano superate tutte le obiezioni formulate dagli appellanti, che errano, dunque, nel ritenere che il tribunale, senza violare la normativa in materia di vedute, avrebbe ben potuto respingere la domanda attorea, limitandosi ad indicare come accorgimento correttivo l'eliminazione della porzione di cornicione pari a cm 23 per cm 15 che invade la parte in basso a destra della finestra posta sul pianerottolo tra il secondo ed il terzo piano della cassa scale. Quanto, invece, al balconcino al terzo piano, attraverso il quale, come chiaramente si evince dalle risultanze della CTU a firma dell'ing. Gi. Ca. (pagg. 11-12, nonché pag. 18 dell'elaborato), si esercita una veduta a tutti gli effetti (rispetto alla sola luce del preesistente suppenno), legittimamente il tribunale richiamava la normativa in tema di distanze da rispettare per l'apertura di vedute (artt. 905 e 906 c.c.), essendosi aperta (con la costruzione del balconcino) una nuova veduta, prima inesistente, che, come già evidenziato dal primo giudice sulla scorta delle indagini peritali espletate, aveva (anche) invaso la finestra (lucifera) posta sul pianerottolo di riposo fra il primo ed il secondo piano della cassa scala, con possibilità di esercizio della veduta all'interno della cassa scala. Rilevava, infatti, il CTU che: "Dal balconcino dei convenuti inoltre può esercitarsi la veduta laterale attraverso la finestra della cassa scale (oggi impedita solo quando l'infisso è chiuso essendo stato apposto un vetro opacizzato)" (pag. 12 dell'elaborato). Peraltro, trattandosi di apertura di veduta laterale (e non diretta), in parziale riforma della sentenza gravata, che fa riferimento alla diversa distanza prevista dall'art. 905 c.c. (relativa all'aperura delle sole vedute dirette), va disposto l'arretramento del balconcino prospiciente la finestra della cassa scala posta sul pianerottolo fra il primo ed il secondo piano alla distanza prevista, per l'apertura di vedute laterali od oblique, dall'art. 906 c.c. (cfr., in motivazione, Cass. n. 8010/2018, resa in fattispecie identica a quella in esame), correttamente invocato nell'atto di appello (pag. 12). In tali ristretti limiti va dunque accolto il secondo motivo di doglianza. Restano, di contro, superate tutte le residue e fumose obiezioni formulate dagli appellanti, che errano nel ritenere che la fattispecie andava correttamente inquadrata nell'ambito della normativa in materia di luci ex artt. 901, 902, 903 e 904, c.c., venendo primariamente in rilievo il DIRITTO DEL VICINO DI CHIUDERE LE LUCI IN QUALSIASI MOMENTO!, vieppiù ove si consideri, da un lato, che il tribunale, con motivazione non specificamente contrastata, affermava che risulta acquistato per usucapione il diritto di luce e veduta dalle aperture collocate su tale cassa scala; dall'altro, che, in ogni caso, ai fini dell'applicabilità dell'art. 904 c.c. ("Diritto di chiudere le luci"), occorre che la costruzione in aderenza o in appoggio dell'edificio preesistente sia stata già realizzata (Cass. n. 15442/2000), avendo la Suprema Corte chiarito che: "L'art. 904 c.c. conferisce al proprietario confinante col muro sul quale sono aperte le luci il diritto di chiuderle, qualora costruisca in aderenza ovvero in appoggio dell'edificio preesistente (previo acquisto della comunione del muro), non anche, pertanto, in relazione alla semplice intenzione di costruire, che non fa venir meno il diritto del proprietario del muro di mantenere le luci aperte jure proprietatis" (Cass. n. 1327/1992). -. Con il terzo motivo di doglianza, si contesta la pronuncia gravata nella parte in cui il tribunale, nell'esaminare la domanda attorea di risarcimento del danno per violazione dei diritti condominiali ed aggravamento di servitù, la accoglieva parzialmente, così argomentando: "...Deve peraltro, ritenersi, in concreto, che la realizzazione di nuove unità immobiliari, ove in precedenza dal cortile comune si accedeva al solo cellaio ad uso deposito, accertata da entrambi i consulenti d'ufficio, abbia comportato un abuso o una diminuzione in concreto del godimento del cortile comune, giacché, pur non essendone stata alterata la destinazione, è stato sensibilmente limitato il pari uso del cortile in precedenza effettuato dagli altri condomini, stante il sensibile maggior numero di persone le quali, attualmente e rispetto al passato, fruiscono dello stesso. Trattasi, quindi, di modifica del bene comune avvenuta in dispregio dell'art. 1102 c.c. (cfr, a contrario, Cass. civ., sent. n. 1112 del 1988; Cass. civ., sent. n. 10704 del 14.12.1994; Cass. civ., sent. n. 4314 del 26.03.2002). Il consulente d'ufficio, del resto, nella relazione peritale depositata in Cancelleria in data 17.03.2014 (cfr pagina 14 della relazione), ha ritenuto che vi sia stato un aggravio di servitù in danno degli attori per effetto del cambio di destinazione d'uso delle unità abitative poste al piano terra/seminterrato. La liquidazione del danno avverrà, stante la richiesta di condanna generica, in separato giudizio". Conseguentemente, il primo giudice così statuiva in dispositivo: "b) accerta il diritto degli istanti al risarcimento del danno conseguente alla limitazione dell'uso del cortile comune, conseguente alle modifiche apportate al proprio immobile dai convenuti ed alla creazione di nuove unità abitative, in violazione dell'art. 1102 c.c., la cui liquidazione avverrà in separato giudizio;..". Orbene, assumono gli appellanti S./R. che il tribunale avrebbe reso una motivazione imperscrutabile nella parte in cui, dopo aver postulato tale limitazione al godimento ed al pari uso della cosa comune da parte dei compartecipanti, non spiega nella maniera più assoluta in cosa essa sia consistita, tenuto conto che risulta pacifico che il cortile comune non ha subito alcuna modificazione della destinazione d'uso, ulteriormente contestando al primo giudice di aver effettuato un discutibile ed improprio "remand" alle non proprio perspicue valutazioni espresse dal CTU sul punto. Infatti, l'elaborato peritale non offre alcun elemento o circostanza fattuale dalla quale potesse comprendersi in cosa sia consistita la limitazione al pari uso degli altri compartecipi al cortile comune, ovvero, se sia stato escluso del tutto il godimento del cortile da parte di questi ultimi (:"Per tali aperture preesistenti, a parere dello scrivente occorre tenere conto che con il cambio di destinazione d'uso delle unità immobiliari al piano terra /seminterrato, si è venuto a creare un aggravio di servitù, in quanto la presenza di unità abitative comporta una maggiore limitazione dell'area antistante da parte degli altri condividenti, rispetto al caso in cui fossero stati destinati a deposito" pag. 14 della relazione). Deducono, dunque, che la formula adoperata dal giudice per sostenere la violazione dell'articolo 1102 c.c. è assolutamente ambigua ed apodittica, meramente ripetitiva di un'affermazione a sua volta indimostrata adoperata dal CTU, e che, nel merito, la decisione è platealmente erronea ed illegittima, non essendoci stato alcun mutamento di destinazione della cosa comune e non essendo stata fornita alcuna prova in ordine alla limitazione del pari uso degli altri compartecipi al cortile comune per effetto delle opere realizzate dai convenuti che sono tutte interne alla proprietà esclusiva di questi ultimi, conclusivamente evidenziando che la mutata destinazione in residenza di locali in precedenza usati come depositi non ha determinato, né può determinarlo in futuro, una limitazione al precedente ed attuale pari uso dei condomini. La censura è fondata. Diversamente da quanto si legge nella sentenza gravata, infatti, deve ritenersi che, essendo rimasta inalterata la destinazione del cortile comune, il maggior numero di persone che, rispetto al passato, fruiscano dello stesso, a seguito della realizzazione di nuove unità immobiliari, conseguenti al cambio di destinazione d'uso (da deposito ad abitazione) dei locali posti a piano terra/seminterrato di proprietà esclusiva dei S./R., non integri un'ipotesi di modifica del bene comune avvenuta in dispregio dell'art. 1102 c.c., vieppiù che, nella specie, non v'è la benché minima prova che sia stato in concreto sensibilmente limitato il pari uso del cortile in precedenza effettuato dagli altri condomini, neanche risultando chiarite le modalità con le quale sarebbe avvenuta siffatta (indimostrata) limitazione. In tal senso va pertanto riformata la pronuncia in parte qua impugnata, che, nel dar rilevanza, come correttamente rilevato dagli appellanti, ad un criterio squisitamente quantitativo, ossia quello della potenziale maggiore affluenza di persone nel cortile comune, si è discostata dal consolidato insegnamento giurisprudenziale in virtù del quale la nozione di pari uso della cosa comune che ogni compartecipe, nell'utilizzare la cosa medesima, deve consentire agli altri, ex art. 1102 c.c. non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione (Cass. n. 21256/2009). In particolare: "In tema di comunione, ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella degli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di questi ultimi. In particolare, per stabilire se l'utilizzo più intenso del singolo sia consentito ai sensi dell'art. 1102 c.c., deve aversi riguardo non all'uso concreto fatto dagli altri condomini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno; l'uso deve in ogni caso ritenersi permesso se l'utilità aggiuntiva ricavata dal singolo comproprietario non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene, sempre che tale uso non dia luogo ad una servitù a carico del suddetto bene comune" (Cass. n. 9278/2018). Sulla scorta di quanto precede, dunque, in parziale riforma della pronuncia gravata, va rigettata la domanda attorea di risarcimento del danno conseguente alla limitazione dell'uso del cortile comune, conseguente alle modifiche apportate al proprio immobile dai convenuti ed alla creazione di nuove unità abitative. -. Resta assorbito l'esame del quinto ed ultimo motivo di doglianza (con cui si lamenta l'errata ed ingiusta regolamentazione delle spese di CTU, poste interamente a carico dei convenuti), proposto in via gradata, nel solo caso di rigetto dell'appello, nella specie, invece, accolto, sia pur solo in parte. III. Può ora passarsi all'esame dell'appello incidentale proposto da P.Gi.Co., coltivato dai successori Gi. e Va.Co., che insistevano per il relativo accoglimento. -. Con il primo motivo di doglianza, si chiede la riforma della sentenza gravata nella parte in cui afferma che il nuovo corpo di fabbrica realizzato dai S./R. non determina violazione delle distanze stabilite dall'art. 873 c.c. e dal D.M. n. 1444 del 1968 (pag. 9: "Il consulente, invece, ha escluso che vi sia stata, per effetto della realizzazione della sopraelevazione, violazione delle distanze legali ai sensi dell'art. 873 c.c. o violazione della distanza minima di dieci metri di cui al D.M. n. 1444 del 1968"). Assumono gli appellanti incidentali che il tribunale, aderendo alle conclusioni del CTU, ing. Ca., avrebbe erroneamente considerato la distanza di dieci metri intercorrente tra la proprietà esclusiva di Co.Pa. e la proprietà degli appellanti S./R., senza tuttavia considerare che il confine con la proprietà di questi ultimi era rappresentato proprio dalla cassa scale, posta tra i due corpi di fabbrica di proprietà esclusiva delle parti in causa, di talché i dieci metri della nuova costruzione realizzata dai S. andavano misurati dalla cassa scale. Chiedono, pertanto, alla corte adita, in riforma della pronuncia gravata, di condannare gli attuali appellanti principali ad arretrare il fabbricato realizzato alla distanza legale prevista dal D.M. n. 1444 del 1968 dal corpo di fabbrica costituente la cassa scale; in via subordinata quantomeno di condannare gli odierni appellanti principali ad arretrare la sopraelevazione alla distanza di dieci metri dal detto corpo di fabbrica costituente la cassa scale. La doglianza va disattesa. Invero, la corte, al fine di chiarire tale aspetto, con ordinanza del 13.5.2022, rimetteva la causa sul ruolo istruttorio, disponendo un supplemento di perizia, affidato al CTU già nominato in prime cure, ing. Gi. Ca., avente ad oggetto la natura o meno di opera edilizia da attribuire alla cassa scala che divide i due fabbricati nonché, all'esito eventualmente positivo del primo quesito, misurare la distanza effettivamente intercorrente tra detta struttura e la sopraelevazione realizzata dagli appellanti principali. Ebbene, il CTU, dopo aver opportunamente precisato che lo stato dei luoghi non è mutato rispetto a quello della precedente perizia, ed aver chiarito che la cassa, per come è realizzata, configura un volume edilizio, essendo chiusa con pareti lungo il perimetro e con solaio di copertura e come tale è da qualificarsi come "costruzione", da tenere conto nella verifica del rispetto delle distanze" (pagg. 4-5), accertava che la sopraelevazione del S. non vìola le distanze ex art. 873 cc e D.M. n. 1444 del 1968 rispetto alla cassa scala, da misurarsi con il metodo lineare, in quanto le due pareti (del S. e della cassa scala) non si fronteggiano ma sono ortogonali tra loro, per cui facendole avanzare idealmente, non si intersecano in nessun punto. A rigore la parete del S. fronteggia per soli 12 cm una piccola sporgenza della cassa scala, che a parere dello scrivente è irrilevante ai fini della verifica del rispetto delle distanze legali, da valutare in relazione allo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. e D.M. n. 1444 del 1968, che è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive (pag. 6), nelle specie sicuramente da escludere come chiaramente si evince dalla produzione fotografica riportata nell'elaborato peritale (cfr. foto alle pagg. 6-7). Conclusione condivisa dalla corte perché sorretta da valide argomentazioni tecniche e conforme allo scopo della legge, oltre che minimamente contrastata, sotto il profilo tecnico, dal consulente di parte dei C., arch. Boccia, che, come rilevato anche dal CTU in sede di controdeduzioni, afferma che c'è stata violazione delle distanze, ma non chiarisce in quale modo l'ha determinata, tanto che non ne riporta la misurazione calcolata. Come chiarito nel corpo della relazione, lo scrivente ribadisce che la parete sopraelevata del S. e quella della cassa scala, sono ortogonali tra di loro, per cui facendole avanzare idealmente non si incontrano in nessun punto, per cui non sussiste violazione delle distanze (cfr. pag. 8 dell'elaborato). -. Con il secondo motivo di gravame, si chiede di riformare la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che l'apertura del cancelletto verso le scale comporterebbe un disagio minimo degli altri comunisti e che non sarebbe stato "convincentemente provato che vi siano fenomeni di stagnazione delle acqua meteoriche sul pianerottolo delle scale antistante il terrazzo". Assumono, in contrario, gli appellanti incidentali che i numerosi testimoni che sono stati escussi hanno confermato che il cancelletto si apriva verso il terrazzo confermando le foto d'epoca depositate agli atti di causa. La diversa apertura di detto cancelletto, contrariamente a quanto assunto da controparte, è di grave pregiudizio considerato che le ante lasciate aperte sul pianerottolo sono fonte di grave pericolo, soprattutto nelle ore notturne, perché intralciano il percorso e quindi possono provocare cadute a chi utilizza le scale. Peraltro, come emerge dagli elaborati peritali, contrariamente a quanto assunto dal Tribunale, risulta che il rialzo del "pavimento esterno della terrazza effettuato dai signori S. - R." provoca, per una errata pendenza del massetto, una stagnazione delle acque meteoriche nelle scale, durante i periodi di pioggia. Tale stagnazione, inoltre, causa infiltrazione nei muri di proprietà del signor C. (ved. CTU a firma dell'arch. Coppo e prova testimoniale). Chiedono, pertanto, alla corte adita, in riforma della pronuncia gravata, di condannare gli attuali appellanti principali a cambiare il verso di apertura del cancello e ad effettuare tutti i lavori necessari al terrazzo per eliminare la causa delle lamentate infiltrazioni e stagnazione delle acque nelle scale. La censura va disattesa. Così argomentava il tribunale: "Va, da ultimo, osservato che l'apertura del cancello di accesso al terrazzo sulla scala comune ha comportato un disagio minimo alle facoltà di godimento della scala da parte degli altri comunisti, tale da rientrare nelle facoltà d uso della cosa comune consentite ai sensi dell'art. 1102 c.c., mentre non è stato convincentemente provato che vi siano i fenomeni di stagnazione delle acque meteoriche sul pianerottolo delle scale antistante il terrazzo (ritenuti possibili dal primo consulente d'ufficio secondo cui l'innalzamento della quota del terrazzo "crea la possibilità" che si verifichino tali fenomeni, cfr. pagina 15 della relazione peritale depositata in Cancelleria in data 11.06.2010) e che, quindi, vi sia stata violazione dell'art. 908 c.c.". Motivazione condivisa dalla corte e che va qui confermata, vieppiù perché minimamente scalfita dalle obiezioni (oltremodo) generiche sollevate dagli appellanti, all'evidenza inidonee a confutare le argomentazioni poste dal tribunale a fondamento del rigetto della pretesa, basate sulla corretta applicazione dell'art. 1102 c.c. e sull'attenta valutazione delle risultanze peritali specificamente richiamate. -. Con il terzo ed ultimo motivo di gravame, si chiede la riforma della sentenza gravata nella parte in cui il tribunale compensava le spese di lite, al fine evidenziandosi, genericamente, che erano state accolte la maggior parte delle domande proposte dal comparente (Co.Pa.) per cui avrebbe dovuto esserci quantomeno una soccombenza parziale degli odierni appellanti principali. Pertanto, si chiede alla Corte di condannare controparte al pagamento delle spese e competenze anche della causa svoltasi innanzi al Tribunale di Nola. La censura va disattesa. Nell'impugnata pronuncia si legge: "Sussistono i giusti motivi di cui all'art. 92 c.p.c., nella formulazione applicabile ratione temporis, anche stante il parziale accoglimento delle domande degli attori, per compensare integralmente le spese di lite nel rapporto processuale fra le parti costituite. Le spese della consulenza d'ufficio, ferma restando la solidarietà passiva fra tutte le parti nei confronti del consulente in base ai decreti di liquidazione emessi in corso di causa (cfr Cass. civ., sent. n. 28094 del 30.12.2009), si pongono nei rapporti interni fra le parti, a carico esclusivo di parte convenuta". Statuizione che va qui confermata, tenuto conto: i) dell'espresso richiamo ai giusti motivi ex art. 92 c.p.c., nell'ampia formulazione applicabile ratione temporis, ante novella n. 263/2005 ("Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti"); ii) dell'accoglimento solo in minima parte delle plurime domande avanzate dall'attore Co.Pa.; iii) della regolamentazione degli esborsi di CTU, posti integralmente a carico dei convenuti, il che, nei fatti, ha comportato una compensazione parziale degli oneri processuali (cfr., in argomento, Cass. n. 22868/2019, che afferma: "Non viola l'art. 92 c.p.c. il giudice di merito che, dopo avere dichiarato la compensazione delle spese fra le parti, pone a carico dell'attore quelle della consulenza tecnica di ufficio, in quanto tale pronuncia sta solo ad indicare che la compensazione ha natura parziale"). Al riguardo, la Suprema Corte, in fattispecie regolata dall'art. 92 c.p.c. ante novella n. 263/2005, ha affermato: "Il sindacato di legittimità sulle pronunce dei giudici del merito con le quali sia stata disposta la compensazione, parziale o totale, delle spese giudiziali è limitato - fermo rimanendo il divieto di condanna alle spese della parte totalmente vittoriosa - all'accertamento dell'avvenuto richiamo, da parte dei giudici stessi, dei giusti motivi richiesti dall'art. 92 c.p.c. o di analoghe ragioni, non necessitando il provvedimento di compensazione di specifica motivazione ove a tale lata previsione normativa venga fatto esplicito riferimento. Qualora, invece, i giusti motivi, oltre che enunziati, siano stati anche sviluppati formando oggetto di specifiche argomentazioni, il sindacato di legittimità deve estendersi alla verifica dell'idoneità in astratto dei motivi stessi a giustificare la pronuncia e dell'adeguatezza delle argomentazioni svolte al riguardo. Nessuna violazione della normativa, inoltre, può ravvisarsi nel fatto che il giudice di merito, pur disponendo l'integrale compensazione delle spese, abbia lasciato quelle di consulenza tecnica a carico della parte che le aveva anticipate, atteso che ciò che è potenziale oggetto di condanna è necessariamente anche, in non minor misura, potenziale oggetto di esclusione della condanna attraverso la compensazione" (cfr. Cass. n. 633/2003, anche in motivazione). -. Peraltro, considerato che l'esito finale della lite ha lasciato pressoché immutato l'impianto motivazionale della pronuncia gravata, resta ferma la regolamentazione delle spese del primo grado operata dal tribunale. IV. Quanto alle spese della presente fase, le stesse, nei rapporti tra le parti costituite, e salvo quanto si dirà per gli esborsi di CTU, vanno integralmente compensate, in considerazione dell'accoglimento dell'appello principale solo in minima parte, poco rilevante nell'economia complessiva della lite, del rigetto di quello incidentale e dell'infondatezza di tutte le eccezioni preliminari in rito sollevate dall'appellata Ma.Co.. Le spese della CTU espletata in appello, funzionale al gravame incidentale spiegato da Gi.Co. e Va.Co., restano interamente a carico di questi ultimi. Nulla sulle spese del grado nei rapporti con gli appellati contumaci. Ricorrono i presupposti per il versamento a carico degli appellanti incidentali dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex art. 13, comma 1 quater, T.U. n. 115/02, come modificato dall'art. 1, comma 17, L. n. 228 del 2012. P.Q.M. La Corte di Appello di Napoli, VI sezione civile, definitivamente pronunciando nella causa civile in grado d'appello iscritta al N. 5811 R.G.A.C. per l'anno 2015, tra le parti indicate in epigrafe, contro la sentenza del tribunale di Nola n. 2777/2014, pubblicata in data 19.11.2014, ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così provvede: - rigetta l'appello incidentale; - accoglie, per quanto di ragione, l'appello principale e, per l'effetto: 1) in parziale riforma del capo a) del dispositivo della sentenza gravata, che per il resto conferma, condanna gli appellanti principali S./R. ad arretrare il balcone prospiciente la finestra della cassa scala posta sul pianerottolo fra il primo ed il secondo piano alla distanza di cui all'art. 906 c.c. dalla predetta luce; 2) in riforma del capo b) del dispositivo della sentenza gravata, rigetta la domanda attorea di risarcimento del danno conseguente alla limitazione dell'uso del cortile comune; - conferma per il resto la sentenza gravata; - compensa integralmente tra le parti costituite le spese del grado; - pone le spese della CTU espletata in appello interamente a carico degli appellanti incidentali; - nulla sulle spese del grado nei rapporti con gli appellati contumaci; - da atto della sussistenza dei presupposti di legge per il versamento a carico degli appellanti incidentali dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato. Così deciso in Napoli il 21 marzo 2024. Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2024.
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