Sentenze recenti eutanasia

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, come modificato dalla sentenza della Corte costituzionale 25 settembre 2019, n. 242, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze, nel procedimento penale a carico di M. C., C. L. e F. M., con ordinanza del 17 gennaio 2024, iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2024. Visti gli atti di costituzione di M. C., C. L. e F. M., nonché gli atti di intervento di L. S. e M. O. e del Presidente del Consiglio dei ministri; uditi nell’udienza pubblica del 19 giugno 2024 i Giudici relatori Franco Modugno e Francesco Viganò; uditi gli avvocati Benedetta Maria Cosetta Liberali, Filomena Gallo, Maria Elisa D’Amico e Francesco Di Paola per M. C., C. L., F. M., L. S. e M. O., Angioletto Calandrini per L. S. e M. O., nonché gli avvocati dello Stato Gianna Maria De Socio e Ruggero Di Martino per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 1° luglio 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 17 gennaio 2024, iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2024, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, «come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019» di questa Corte, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale». 1.1.– Il giudice a quo è chiamato a decidere, all’esito dell’udienza in camera di consiglio fissata ai sensi dell’art. 409 del codice di procedura penale, sulla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze nel procedimento penale che vede indagati M. C., C. L. e F. M. per il delitto di cui all’art. 580 cod. pen., «per avere organizzato e poi materialmente eseguito l’accompagnamento di [M. S.] presso la clinica svizzera dove, [l’8 dicembre 2022], lo stesso è deceduto in seguito a procedura di suicidio assistito». Riferisce il rimettente che, in base alle pacifiche risultanze delle indagini preliminari, svolte a seguito di autodenuncia degli stessi indagati, a M. S. era stata diagnosticata nel 2017 la sclerosi multipla, patologia del sistema nervoso centrale che provoca una progressiva invalidità del paziente. Dopo l’esordio dei primi sintomi lievi, il quadro clinico era rimasto stazionario per alcuni anni, sino a che, sul finire del 2021, si era avuto un significativo e rapido peggioramento delle condizioni di vita del paziente. M. S. aveva dapprima manifestato difficoltà nella deambulazione, poi aveva avuto bisogno della sedia a rotelle e già ad aprile 2022 era rimasto definitivamente impossibilitato a muoversi dal letto, con pressoché totale immobilizzazione anche degli arti superiori, salva una residua capacità di utilizzazione del braccio destro. Secondo quanto dichiarato dal padre, nel 2021 M. S. aveva iniziato a maturare il proposito di porre fine alla sua vita, per ragioni legate alla patologia di cui soffriva. Tramite ricerche svolte in autonomia su internet, era venuto a conoscenza dell’esistenza di associazioni che offrono supporto ai pazienti interessati ad accedere alla procedura di suicidio assistito all’estero, e in questo modo era entrato in contatto con l’indagato M. C. Nel 2022, in corrispondenza con il grave deterioramento delle sue condizioni di salute, il proposito di M. S. si era trasformato in ferma determinazione. Egli aveva preso quindi contatto con una organizzazione elvetica, avvalendosi dell’intermediazione di C., che agiva quale legale rappresentante dell’associazione di soccorso da lui fondata, la quale si era fatta carico anche di alcuni costi della procedura, tra cui le spese di trasporto del malato in Svizzera, tramite noleggio di un furgone. M. S. aveva raggiunto il territorio elvetico il 6 dicembre 2022 a bordo del mezzo, guidato a turno dalle indagate C. L. e F. M. Il rimettente riferisce anche che, il giorno successivo, presso la struttura «Dignitas», si erano svolti «colloqui e visite con diversi medici, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per l’accesso alla procedura in termini compatibili con la legge elvetica». M. S. aveva avuto la possibilità di confrontarsi anche con i familiari giunti fin lì, resistendo ai loro tentativi di dissuaderlo dal proposito di darsi la morte. La procedura si era conclusa l’8 dicembre 2022: alla presenza del padre, della sorella e delle due indagate, M. S. aveva confermato definitivamente la sua volontà e, utilizzando il braccio che ancora poteva controllare, aveva assunto per via orale un farmaco letale, spirando dopo pochi minuti. 1.2.– Tanto premesso, il giudice a quo ritiene che la richiesta di archiviazione della Procura non possa essere allo stato accolta. 1.2.1.– A parere del rimettente, la condotta degli indagati rientrerebbe senz’altro nella sfera applicativa dell’art. 580 cod. pen., e in particolare della fattispecie criminosa dell’aiuto al suicidio. Sarebbe questa, in effetti, l’unica ipotesi configurabile tra quelle descritte dalla norma incriminatrice, non essendovi elementi che consentano di muovere addebiti agli indagati per la distinta fattispecie dell’istigazione al suicidio, né sotto il profilo della determinazione del relativo proposito – concepito da M. S. in modo autonomo – né sotto quello del suo rafforzamento. C. si era, infatti, limitato inizialmente a fornire informazioni a titolo “consultivo”, indicando le soluzioni percorribili, e aveva messo a disposizione i suoi contatti con la Svizzera solo quando il proposito di M. S. era già compiutamente maturato. Lo stesso dovrebbe dirsi per le altre due indagate, le quali erano intervenute solo quando la risoluzione del malato risultava già ferma. La rilevanza penale della condotta degli indagati si legherebbe, pertanto, unicamente alla cooperazione materiale alla realizzazione del suicidio. Con riguardo a questa, non potrebbe essere, peraltro, condivisa la tesi della Procura, volta ad escludere la tipicità del fatto sulla base di una interpretazione restrittiva, sia del concetto di agevolazione dell’altrui suicidio, sia del criterio di rilevanza causale di tale condotta rispetto all’evento. La formulazione letterale dell’art. 580 cod. pen., nella parte in cui punisce chiunque «agevola in qualsiasi modo l’esecuzione» dell’altrui suicidio, imporrebbe, infatti, di attribuire rilievo a ogni condotta di terzi che, secondo i consueti criteri di accertamento della causalità, si ponga quale antecedente necessario rispetto alla morte del suicida. Il verbo “agevolare”, meno stringente di “causare”, lungi dal legittimare letture restrittive, si presterebbe anzi a qualificare penalmente anche le semplici facilitazioni, non costituenti condicio sine qua non dell’evento; mentre la locuzione «in qualsiasi modo» rivelerebbe in maniera incontestabile l’intento legislativo di imprimere alla fattispecie la massima latitudine. Né potrebbe trarsi argomento in senso contrario dalla circostanza che l’art. 580 cod. pen. collega l’agevolazione non al suicidio, ma alla sua «esecuzione». Ciò si spiegherebbe in quanto la figura criminosa presuppone che l’evento lesivo sia riferibile a un’azione della persona titolare del bene della vita, che su di essa conserva il proprio “dominio”: onde sarebbe consequenziale che la condotta tipica abbia, come termine di relazione causale immediata, non la morte, ma l’esecuzione del suicidio, che resta appannaggio del suicida stesso. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Procura, la tipicità del fatto non potrebbe essere esclusa neppure facendo leva sulla distanza cronologica della condotta del terzo dal suicidio o sulla “fungibilità” della condotta stessa. Secondo i postulati della teoria condizionalistica, il giudizio controfattuale che esprime la causalità ha come termine di riferimento l’evento concreto storicamente verificatosi: sicché, nella specie, le condotte di tutti e tre gli indagati si porrebbero come antecedenti causali necessari del suicidio di M. S., posto che in loro assenza la morte di quest’ultimo non sarebbe avvenuta «lì e allora». 1.2.2.– A parere del rimettente, la condotta degli indagati non rientrerebbe neppure nell’ipotesi di non punibilità introdotta nell’art. 580 cod. pen. dalla sentenza n. 242 del 2019 di questa Corte. Mancherebbe, infatti, uno dei requisiti cui essa è subordinata: segnatamente, quello della dipendenza dell’aspirante suicida da «trattamenti di sostegno vitale». 1.2.2.1.– Alla luce degli elementi acquisiti, sussisterebbero, per il resto, le condizioni sostanziali richieste dalla citata pronuncia ai fini dell’esclusione della punibilità. M. S. era, infatti, affetto da una malattia irreversibile, tale dovendo considerarsi la sclerosi multipla, non suscettibile di guarigione allo stato attuale delle conoscenze medico-scientifiche. Pativa, altresì, in conseguenza di essa, sofferenze psicologiche che lui stesso reputava insostenibili, non tollerando più di trovarsi «ingabbiato con la mente sana in un corpo che non funziona», in quella che, nel suo apprezzamento, «non era più una vita dignitosa». Al riguardo, il rimettente sottolinea come la disgiuntiva «o», utilizzata nella sentenza n. 242 del 2019, imponga di attribuire rilievo, sia alle sofferenze fisiche, sia a quelle esclusivamente psicologiche. La valutazione dell’intollerabilità delle sofferenze spetterebbe, d’altro canto, soltanto alla persona malata, senza che al suo giudizio possa sovrapporsi quello di terzi (siano essi medici, giudici o parenti), chiamati al più a verificare la lucidità del paziente e la serietà della sua esternazione. La decisione di darsi la morte era stata, inoltre, concepita e mantenuta da M. S. in modo libero e consapevole, fuori da ogni forma di condizionamento da parte degli indagati o di altri soggetti. 1.2.2.2.– Analoga conclusione si imporrebbe anche con riguardo alle condizioni procedurali poste dalla citata sentenza: che siano rispettate le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che le modalità di esecuzione e le condizioni sostanziali «siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale» e che sia stato acquisito il «previo parere del comitato etico territorialmente competente». Secondo il giudice a quo, tali condizioni potrebbero ritenersi soddisfatte o, comunque sia, il loro «mancato rispetto formale» non sarebbe d’ostacolo alla non punibilità degli indagati. Ciò varrebbe, in particolare, per la procedura di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, prevista in origine per la manifestazione del rifiuto di trattamenti sanitari, anche salvavita, la quale contempla un primo momento di informazione del paziente circa le sue condizioni di salute, la prognosi e le alternative percorribili (art. 1, comma 3); in seguito alla dichiarazione del paziente, un secondo confronto con il personale sanitario (art. 1, comma 5), che è tenuto a illustrare le conseguenze della decisione e le strade alternative, mettendo contestualmente a disposizione un servizio di supporto psicologico e assicurando la possibilità di accedere a un percorso di terapia del dolore e di cure palliative. Ad avviso del rimettente, tale iter risulterebbe rispettato nel caso di specie, alla luce della procedura seguita per la prestazione dell’aiuto al suicidio presso la struttura svizzera in cui è morto M. S., la quale apparirebbe «addirittura più articolata e garantista» di quella che dovrebbe essere seguita in base alla legge italiana. La procedura sarebbe consistita, infatti, «nell’invio da parte del richiedente di documentazione idonea a delineare le sue condizioni cliniche e la sua storia personale; in una valutazione preliminare da parte della struttura sulla base del materiale acquisito; in una valutazione, anche psicologica, in presenza, articolata in due colloqui con i medici, uno il giorno dell’arrivo e uno il giorno successivo; la presenza di testimoni (nel caso concreto, tra gli altri, i familiari) al momento della autosomministrazione del farmaco letale, immediatamente preceduta da un ultimo ammonimento circa la possibilità di arrestare la procedura». Procedure dalla scansione analoga sarebbero già state valutate, del resto, «sostanzialmente equivalenti» a quella italiana da alcuni organi giudicanti, con pronunce divenute definitive. È vero che nei casi in questione i giudici hanno potuto avvalersi della «clausola di equivalenza» prevista nella sentenza n. 242 del 2019 per i fatti commessi prima della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen., riguardo ai quali sarebbe stato impossibile rispettare una procedura introdotta ex post. Nondimeno, un analogo giudizio potrebbe essere formulato anche in relazione alla vicenda in esame, svoltasi interamente nel vigore della nuova disciplina, in quanto la necessità che sia osservata una determinata procedura non escluderebbe la possibilità che i singoli passaggi di essa siano accertati secondo un criterio sostanziale. Quanto agli altri requisiti procedurali – la verifica da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale e il parere del comitato etico – la circostanza che, nella specie, il fatto si sia verificato all’esito di una prestazione offerta da una struttura estera sarebbe incompatibile con tali requisiti, i quali presupporrebbero che la procedura sia gestita interamente in Italia. In ogni caso, poi, il rispetto di tali condizioni non sarebbe stato concretamente esigibile: sebbene al momento del fatto esistesse già una procedura ad hoc, questa sarebbe risultata inaccessibile a M. S., che alla propria domanda avrebbe visto opposto un diniego per il difetto della condizione sostanziale della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Il rimettente aggiunge, al riguardo, che ove questa Corte ritenesse fondate le questioni, potrebbe bene precisare – come ha fatto con la sentenza n. 242 del 2019 – che la causa di non punibilità, nella sua più ampia estensione, debba operare anche con riguardo ai fatti anteriori alla declaratoria di illegittimità costituzionale, purché l’agevolazione al suicidio sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee ad offrire garanzie sostanzialmente equivalenti. 1.2.2.3.– Nel caso in esame, farebbe tuttavia difetto, come già anticipato, l’ulteriore requisito della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale. Al riguardo, il rimettente osserva come questa Corte non abbia fornito, né nell’ordinanza n. 207 del 2018, né nella sentenza n. 242 del 2019, una definizione del concetto di «trattamenti di sostegno vitale». Vi è soltanto, nell’ordinanza, il riferimento – con evidente valenza esemplificativa – a trattamenti «quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali». In relazione ad altre vicende di pazienti che avevano ottenuto l’assistenza al suicidio all’estero, la giurisprudenza di merito ha ritenuto che il concetto in questione non possa essere limitato alla sola “dipendenza da una macchina”, ma comprenda anche i casi in cui il sostegno vitale sia realizzato «con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico», trattandosi pur sempre di «trattamenti interrompendo i quali si verificherebbe la morte del malato, anche in maniera non rapida» (è citata la sentenza della Corte d’assise di Massa 27 luglio 2020). Pure in questa lettura ampia, il requisito non potrebbe essere, tuttavia, ritenuto sussistente nel caso in esame. Secondo quanto emerso dalle indagini, infatti, M. S. non solo non si avvaleva di alcun supporto meccanico (ventilazione, nutrizione, idratazione artificiale o altro), ma neppure era sottoposto a terapie farmacologiche salvavita, né richiedeva interventi assistenziali quali manovre di evacuazione manuale o simili. Non sarebbe, d’altro canto, possibile accedere all’interpretazione ulteriormente estensiva, prospettata dalla giurisprudenza di merito, intesa a riconoscere la non punibilità anche nei casi in cui il paziente necessiti dell’aiuto di altre persone per il soddisfacimento delle esigenze vitali: situazione ravvisabile nel caso oggetto del procedimento a quo, posto che M. S., pur conservando integre tutte le altre funzionalità corporee, a causa della progressiva immobilizzazione degli arti aveva bisogno con sempre maggiore frequenza del supporto di terzi per le attività fisiologiche quotidiane. Alla luce della stessa genesi della condizione di cui si discute, il sostantivo «trattamenti» dovrebbe ritenersi, infatti, riferito ai soli trattamenti sanitari. La declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata dalla sentenza n. 242 del 2019 si basa, in effetti, essenzialmente sul rilievo per cui il divieto penale assoluto di aiuto al suicidio è contrario al canone di ragionevolezza, al diritto di autodeterminazione della persona e al principio di dignità umana nelle situazioni in cui l’ordinamento riconosce già tutela effettiva alla decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari. Al riguardo, la sentenza fa riferimento esplicito a situazioni riconducibili al campo applicativo della legge n. 219 del 2017, la quale attiene, per l’appunto, ai soli trattamenti sanitari. L’assistenza prestata genericamente da terzi – ad esempio, per agevolare il paziente nel mangiare o per accompagnarlo in bagno – non sarebbe, peraltro, neppure riconducibile all’insieme dei significati attribuibili al vocabolo «trattamento», il quale evocherebbe non un qualsiasi intervento esterno, ma «una più pregnante e qualificata ingerenza sul corpo e sulla salute del paziente». L’estensione della non punibilità alla situazione considerata non potrebbe essere basata nemmeno sul ricorso all’analogia, essendo quest’ultima in ogni caso preclusa dalla natura eccezionale della disposizione in esame. Anche se si discute di un ampliamento in bonam partem, occorrerebbe considerare che la materia presuppone delicatissimi bilanciamenti tra interessi (quali il diritto all’autodeterminazione e il diritto alla vita) che, all’esito di spostamenti anche lievi della soglia di rilevanza penale, potrebbero essere pregiudicati in modo irreversibile e incompatibile con obblighi di tutela derivanti dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali (tra cui, in particolare, la CEDU). Sarebbe, pertanto, «quantomai opportuno che tali bilanciamenti non solo siano frutto di adeguata meditazione nelle opportune sedi secondo le regole della democrazia costituzionale, ma che, una volta raggiunti, non possano essere messi arbitrariamente in discussione per via di forzature ermeneutiche ad opera del singolo interprete, con effetti applicativi disomogenei e imprevedibili». 1.3.– Ritiene, tuttavia, il giudice a quo che il requisito dell’essere la persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», come dianzi ricostruito, generi plurimi dubbi di legittimità costituzionale. 1.3.1.– Esso si porrebbe in contrasto, anzitutto, con l’art. 3 Cost., in quanto atto a determinare una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni concrete sostanzialmente identiche. A parità delle altre condizioni (irreversibilità della malattia, intollerabilità delle sofferenze che ne derivano, capacità di autodeterminazione dell’interessato), l’avveramento di quella censurata sarebbe, infatti, frutto di circostanze del tutto accidentali, legate alle condizioni cliniche generali della persona interessata (più o meno dotata di resistenza organica), al modo di manifestazione della malattia (connotata da uno stadio più o meno avanzato, oppure da una progressione più o meno rapida), alla natura delle terapie disponibili in un determinato luogo e in un determinato momento, nonché alle stesse scelte del paziente (il quale potrebbe aver rifiutato fin dall’inizio qualsiasi trattamento). La condizione in parola discriminerebbe, dunque, i pazienti tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale e i pazienti – quali, ad esempio, i malati oncologici o affetti da patologie neurodegenerative, come nel caso di specie – che non possono accedere, per le caratteristiche accidentali della loro patologia, a tali trattamenti, ma che sono parimente irreversibili e costretti a patire sofferenze intollerabili, esponendosi ad una agonia altrettanto se non più lunga. La differenziazione tra tali situazioni sarebbe irragionevole, in quanto il requisito in questione sarebbe irrilevante, sia per la sussistenza e l’accertamento delle altre condizioni, sia, e soprattutto, per la tutela dei diritti e dei valori che questa Corte ha ritenuto indispensabile prendere in considerazione nel bilanciamento di interessi sotteso alla regolazione della materia dell’aiuto a morire. Nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, la Corte avrebbe posto, infatti, l’accento sulla necessità di contemperare le istanze di autodeterminazione e di salvaguardia della dignità con le esigenze di tutela della vita umana, soprattutto delle persone più vulnerabili, presidiata dal divieto dell’art. 580 cod. pen.; mentre nella successiva sentenza n. 50 del 2022, con la quale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum abrogativo della fattispecie finitima dell’omicidio del consenziente, di cui all’art. 579 cod. pen., avrebbe individuato la ratio di tale micro-sistema normativo nell’esigenza costituzionale di proteggere, non solo le persone strutturalmente più fragili, ma qualsiasi soggetto da condotte autodistruttive che possono essere non sufficientemente meditate o frutto di una decisione assunta, per motivi anche contingenti, in condizioni di vulnerabilità. Alla luce di tali enunciati, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non potrebbe costituire un criterio regolatorio idoneo e proporzionato all’obiettivo di tutela. Essa non solo non renderebbe meno bisognoso di protezione il bene della vita, ma non apporterebbe neppure alcuna rassicurazione in ordine al carattere libero e consapevole della decisione di morire, o alla minore “vulnerabilità” della persona che la assume. La preoccupazione dovrebbe essere semmai di segno opposto, essendo più elevato il rischio che una persona dipendente da trattamenti di sostegno vitale, per questo verosimilmente prossima alla morte, sia colta dalla tentazione di “lasciarsi andare” e che, anche a causa di pressioni esterne, possa assumere decisioni che in altre condizioni non avrebbe preso. Ma tale obiezione è stata confutata dalla stessa ordinanza n. 207 del 2018, rilevando come la legge n. 219 del 2017 abbia già ammesso la possibilità di considerare validamente espressa la volontà di congedarsi dalla vita proveniente da persone tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale, le quali, se capaci di autodeterminarsi, hanno diritto di ottenere l’interruzione delle cure. Si riproporrebbe, in conclusione, la stessa situazione già stigmatizzata da questa Corte in relazione all’originario divieto assoluto di aiuto al suicidio: l’incriminazione, anche nella sua attuale portata, discriminerebbe le diverse categorie di pazienti in modo irragionevole e sproporzionato, senza che tale discriminazione possa «ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile» (ordinanza n. 207 del 2018). 1.3.2.– Le medesime considerazioni porterebbero, altresì, a ritenere che il requisito censurato implichi una ingiustificata lesione della «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.». La dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non costituirebbe certamente una condizione di esistenza di tale diritto (collegato, secondo le indicazioni di questa Corte, solo alla malattia e alla sofferenza), ma ne rappresenterebbe piuttosto un limite, come tale legittimo solo se giustificato da contro-interessi di analogo rilievo, per quanto detto insussistenti. Addirittura, il requisito finirebbe per condizionare «in modo perverso» l’esercizio della libertà del paziente, inducendolo ad acconsentire a trattamenti di sostegno vitale all’unico fine di soddisfare la condizione indicata da questa Corte, per poi, subito dopo, chiedere l’accesso alla procedura per la morte assistita: e ciò anche quando, senza tale condizionamento, la persona avrebbe interrotto ben prima i trattamenti o li avrebbe rifiutati fin dall’origine. Scenario, questo, in palese contrasto con l’assetto ordinamentale, ormai cristallizzato dall’art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017, che rimette unicamente alla libera scelta della persona se e come curarsi. 1.3.3.– Risulterebbe violato, inoltre, il «principio della dignità umana». Tale principio è stato evocato da questa Corte nell’ordinanza n. 207 del 2018, ai fini dell’accertamento dell’illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen. nella versione all’epoca vigente. La violazione del principio è stata ritenuta insita nel fatto che il divieto assoluto di aiuto al suicidio – ossia di una condotta che accelerasse i tempi del decesso, rispetto al decorso patologico naturale – avrebbe imposto al paziente «un’unica modalità per congedarsi dalla vita» (l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale), costringendolo «a subire un processo più lento» e «in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire», anche nella prospettiva delle sofferenze alle quali esso poteva esporre «le persone che gli sono care». Sarebbe, infatti, di senso comune l’idea che la prolungata attesa della morte può comportare un maggior carico di sofferenza e di pregiudizio per i valori della persona, legato non solo al dolore derivante dalla malattia, ma anche alla contemplazione ormai disperata della propria agonia, nonché al fatto che a tale declino possano, o siano costrette ad assistere persone care: profilo in rapporto al quale verrebbe in rilievo, quale forma di estrinsecazione della personalità, l’interesse del paziente a lasciare una certa immagine di sé, coerente con l’idea che egli ha della propria persona. Questi stessi argomenti potrebbero essere, peraltro, spesi anche in rapporto all’assetto attuale. Esso finirebbe, infatti, per imporre al malato irreversibile e intollerabilmente sofferente di attendere, anche per lungo tempo, quello che ormai è inevitabile, ossia che la malattia si aggravi fino allo stadio che rende necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale (momento da cui, peraltro, andrà computato un ulteriore lasso di tempo per la procedura che porta alla morte assistita). In questo modo, non solo si frustrerebbe la ratio della decisione di questa Corte, ma si introdurrebbe addirittura un fattore di pericolo per la stessa conservazione del bene della vita e per il rispetto della dignità della persona. Che l’aiuto al suicidio rientri nella dimensione della “legalità” solo a condizione che la malattia degeneri fino a una fase terminale, rischierebbe di incentivare i propositi di suicidio da parte dei soggetti non intenzionati ad attendere la fine inesorabile, i quali, non potendo ottenere l’aiuto di terzi, sarebbero spinti a darsi la morte in completa autonomia, fuori dai controlli e dalle garanzie offerte dal circuito legale, con modalità spesso cruente e non conformi al concetto generalmente riconosciuto di dignità. 1.3.4.– Emergerebbe, da ultimo, una distonia rispetto agli artt. 8 e 14 CEDU, rilevanti quali parametro interposto di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117 Cost. Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, a partire dalla sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito, le disposizioni che limitano la liceità dell’aiuto al suicidio rappresentano interferenze nella libertà di autodeterminazione della persona, rientrante nel diritto al rispetto della vita privata e familiare. Simili interferenze possono considerarsi quindi legittime, ai sensi dell’art. 8, paragrafo 2, CEDU, solo in quanto volte a un fine legittimo e necessarie, tra le altre ipotesi, a «proteggere […] i diritti altrui», fra i quali indubbiamente rientra il diritto alla vita, riconosciuto dall’art. 2 CEDU. Subordinare, però, la liceità dell’aiuto al suicidio di una persona capace di autodeterminarsi al requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale costituirebbe, alla luce di quanto indicato in precedenza, una compressione del diritto in questione non funzionale, né tantomeno necessaria alla tutela del diritto alla vita, o, comunque sia, non proporzionata rispetto all’obiettivo. Non gioverebbe, in senso contrario, sostenere che lo Stato mantiene un margine di apprezzamento in ordine al bilanciamento tra la necessità di tutelare il diritto alla vita delle persone vulnerabili e quella di assicurare uno spazio di effettività alla libertà di autodeterminazione nelle questioni sul fine vita: margine di apprezzamento di cui l’ordinamento italiano si sarebbe avvalso col prevedere il requisito in discorso. Un simile ragionamento troverebbe ostacolo nel principio di non discriminazione, di cui all’art. 14 CEDU: una volta, infatti, che la normativa statale ammetta la libertà di essere aiutati a morire per i malati irreversibili e sofferenti, il godimento di tale libertà dovrebbe essere assicurato senza alcuna discriminazione legata alle condizioni personali del soggetto, ivi compresa quella – del tutto accidentale – di essere, o no, sottoposto a trattamenti di sostegno vitale. 1.4.– Alla luce di tali considerazioni, il rimettente chiede, quindi, conclusivamente a questa Corte di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 580 cod. pen., «nella versione modificata dalla […] sentenza [n.] 242 del 2019», nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla circostanza che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale». Il rimettente pone in evidenza come ciò non significhi chiedere una smentita dei principi enunciati nella citata sentenza, né tanto meno comporti una impugnazione surrettizia di quest’ultima, preclusa dall’art. 137, terzo comma, Cost. Con la sentenza n. 242 del 2019 questa Corte avrebbe, infatti, individuato una soglia minima di tutela da riconoscere ai diritti fondamentali del paziente, prendendo in considerazione, come in essa si legge, «specificamente situazioni come quella oggetto del giudizio a quo». Ciò non escluderebbe che lo «stimolo derivante dalla casistica» possa indurre questa Corte a pronunciarsi di nuovo, analogamente a quanto è avvenuto in rapporto ad altre discipline, investite da ripetuti interventi demolitori a carattere puntuale. Il divieto di aiuto al suicidio previsto dal codice penale, già superato nella sua originaria assolutezza, conserverebbe, infatti, ancora una «portata sovraestesa», che necessiterebbe di ulteriore erosione per eliminare i residui di illegittimità, costituiti non tanto dai requisiti della non punibilità, bensì – guardando la fattispecie in negativo – dai perduranti spazi di rilevanza penale della condotta. 2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate. 2.1.– In via preliminare, l’Avvocatura dello Stato formula due eccezioni di inammissibilità delle questioni. 2.1.1.– La prima si lega all’asserito difetto di rilevanza. Rileva l’Avvocatura che la sentenza n. 242 del 2019 ha escluso la punibilità dell’aiuto al suicidio nel perimetro definito dalla precedente ordinanza n. 207 del 2018, ossia quando esso riguardi una persona: «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Questa Corte ha, peraltro, specificamente richiesto che l’accertamento di tali requisiti abbia luogo nell’ambito della «procedura medicalizzata» prevista dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017: disciplina nella quale ha individuato un preciso «punto di riferimento» per risolvere nel merito le questioni, in assenza dell’intervento legislativo auspicato dall’ordinanza n. 207 del 2018. Il giudice a quo, per converso, reputa sussistenti nella specie i requisiti sostanziali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio – con la sola eccezione di quello della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale – non già alla luce degli esiti della procedura regolata dalla legge n. 219 del 2017, ma sulla base di elementi reperiti aliunde, fuori da rigorosi e precisi controlli di legge. Il rimettente assume che i requisiti procedurali potrebbero ritenersi soddisfatti, considerando «sostanzialmente equivalente» all’iter previsto dalla legge n. 219 del 2017 la procedura seguita per la prestazione dell’aiuto al suicidio presso la struttura svizzera in cui è morto il malato. In questo modo, il giudice a quo avrebbe, peraltro, utilizzato in modo improprio il concetto di equivalenza sostanziale, cui la sentenza n. 242 del 2019 ha fatto riferimento unicamente ai fini dell’esclusione della punibilità dei fatti anteriori ad essa. Discutendosi invece nella specie di fatti successivi, le questioni dovrebbero ritenersi inammissibili per difetto di rilevanza, posto che anche nell’ipotesi di loro accoglimento non sarebbe possibile l’archiviazione del procedimento penale a carico degli indagati. 2.1.2.– Una seconda ragione di inammissibilità delle questioni si collegherebbe al petitum. Secondo la difesa dello Stato, la richiesta del rimettente di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale si risolverebbe in una contestazione dei principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 242 del 2019, la quale ha inserito nel testo dell’art. 580 cod. pen. le richiamate condizioni, tra cui quella censurata, al fine di evitare che la sottrazione pura e semplice dell’aiuto al suicidio alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi in danno di persone in situazioni di vulnerabilità. In questa prospettiva, la declaratoria di illegittimità costituzionale è stata limitata «in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge» n. 219 del 2017. L’accoglimento della richiesta del giudice a quo presupporrebbe, quindi, «che la Corte, sconfessando […] sé stessa, stravolga in toto, o comunque riveda la sua precedente decisione in senso irragionevolmente ed ingiustificabilmente ampliativo, oltre che lesivo della riconosciuta discrezionalità del legislatore in subiecta materia». 2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero destituite di fondamento. 2.2.1.– Quanto alla questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., l’Avvocatura dello Stato ricorda come nella sentenza n. 242 del 2019 questa Corte abbia affermato che «[d]all’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire»; e che «[n]eppure, poi, è possibile desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita»: l’art. 580 cod. pen. conserva, infatti, una ratio di perdurante attualità, consistente «nella “tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, […] anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere” (ordinanza n. 207/2018)». Analoghe considerazioni sono state svolte nella sentenza n. 50 del 2022, ove si ribadisce che il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost., va iscritto «tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (sentenza n. 35 del 1997)». Il principio affermato è, dunque, pur sempre quello generale di tutela della vita, principio rispetto al quale la «circoscritta area» di illegittimità costituzionale individuata dall’ordinanza n. 207 del 2018, per ovviare alla quale la sentenza n. 242 del 2019 ha introdotto la causa di non punibilità, si configura quale eccezione. In un simile contesto, non potrebbe operare il principio di non discriminazione invocato dal giudice a quo, giacché l’assenza di uno dei requisiti delimitativi dell’eccezione (l’essere, cioè, la persona malata «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale») comporterebbe la riespansione della regola generale che impone di punire chi agevoli l’esecuzione dell’altrui suicidio. La limitazione della causa di non punibilità alle persone in possesso di quel requisito, d’altro canto, non sarebbe affatto irragionevole, ma si inserirebbe organicamente nel quadro ordinamentale vigente. Essa è stata, infatti, argomentata, nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, con il rilievo che i soggetti in questione erano già legittimati, per un verso, dall’art. 1, commi 5 e 6, della legge n. 219 del 2017, a rifiutare o interrompere trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza; per altro verso, dall’art. 2 della medesima legge, ad accedere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari. La situazione della persona affetta da una patologia che impone trattamenti di sostegno vitale non sarebbe, d’altro canto, sovrapponibile a quella di chi è affetto da una patologia che, per quanto irreversibile e foriera di gravi sofferenze, di tali trattamenti non necessiti: il che escluderebbe la comparabilità della disciplina applicabile all’uno e all’altro caso. La censura in esame apparirebbe, comunque sia, inammissibile anche alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui una norma eccezionale è inidonea a costituire tertium comparationis, non essendo possibile estendere una disposizione derogatoria ad altre situazioni, salvo il caso – qui non configurabile – in cui sussista la eadem ratio derogandi. 2.2.2.– Quanto, poi, alla denunciata violazione del diritto all’autodeterminazione del malato, varrebbe in senso contrario il rilievo che tale diritto non può essere anteposto alla tutela del bene della vita, che nella gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento costituzionale e sovranazionale occupa una posizione senz’altro poziore. Al riguardo, l’Avvocatura dello Stato ricorda come questa Corte, nella sentenza n. 50 del 2022, abbia ribadito il «cardinale rilievo del valore della vita», il quale, se non può tradursi in un dovere di vivere a tutti i costi, neppure consente una disciplina delle scelte di fine vita che, «in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale», ignori «le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite»: con la conseguenza che «[q]uando viene in rilievo il bene della vita umana, […] la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima». Si coglierebbe, alla luce di tali affermazioni, l’errore di prospettiva in cui sarebbe incorso il rimettente, allorché ha sostenuto che i due soli elementi fondanti la non punibilità dell’aiuto al suicidio sarebbero «la malattia e la sofferenza», e non pure il trattamento che esse ricevano. In questo modo, il giudice a quo avrebbe trascurato l’imprescindibile esigenza di costruire quelle doverose cautele evocate già nell’ordinanza n. 207 del 2018, volte ad evitare il pericolo di abusi in danno della vita di persone in situazioni di vulnerabilità. 2.2.3.– Con riguardo, poi, alla censura di violazione del «principio di dignità umana», basata sull’assunto che gli argomenti spesi al riguardo nell’ordinanza n. 207 del 2018 varrebbero anche per l’assetto normativo attuale, l’Avvocatura dello Stato rileva come sussista una differenza significativa tra la fattispecie esaminata nel citato precedente e quella ora in esame, e che, comunque sia, la scarsa precisione del concetto di dignità umana impedirebbe di costruire su di esso il discrimine tra i casi nei quali è legittimo tutelare la vita e quelli nei quali è lecito sopprimerla. 2.2.4.– Insussistente apparirebbe, infine, anche l’asserita violazione del sistema sovranazionale di tutela dei diritti fondamentali della persona. Nella stessa sentenza n. 242 del 2019 si ricorda, infatti – richiamando la sentenza Pretty contro Regno Unito, invocata dal rimettente – come la Corte EDU abbia da tempo affermato, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio, che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non può essere fatto discendere il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire. Le considerazioni precedentemente svolte a proposito della censura di violazione dell’art. 3 Cost. renderebbero, d’altro canto, evidente l’insussistenza della violazione del divieto di discriminazione sancito dall’art. 14 CEDU. 3.– Si sono costituiti M. C., C. L. e F. M., persone sottoposte alle indagini nel procedimento a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni. 3.1.– Dopo aver ricostruito, in punto di fatto, la vicenda che ha dato origine al procedimento, le parti costituite rilevano come le questioni debbano ritenersi senz’altro ammissibili, avendo il giudice a quo congruamente e condivisibilmente motivato la loro rilevanza ed esperito, con esito negativo, il doveroso tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata. L’accoglimento delle questioni non implicherebbe, d’altro canto, una surrettizia violazione del giudicato costituzionale. La sentenza n. 242 del 2019 ha, infatti, ricavato il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, non quale soluzione costituzionalmente obbligata, ma come “rima possibile”, di riflesso a una interpretazione incentrata sulle specificità del caso concreto di cui allora si discuteva, mentre oggi verrebbero poste nuove questioni, attinenti a situazioni differenti. In più occasioni, d’altra parte, questa Corte è intervenuta a più riprese su una normativa già oggetto di una sentenza di accoglimento manipolativa, senza che la precedente pronuncia fosse ritenuta affatto preclusiva delle successive declaratorie di illegittimità costituzionale. 3.2.– Nel merito, le questioni si paleserebbero fondate in riferimento a tutti i parametri evocati. 3.2.1.– La violazione dell’art. 3 Cost. si apprezzerebbe, in linea con quanto sostenuto dal giudice a quo, alla luce della circostanza che una persona affetta da malattia irreversibile, fonte di gravi sofferenze, e liberamente determinatasi a congedarsi dalla vita, ma non tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, può trovarsi in una situazione altrettanto dolorosa di quella di un’altra persona malata che, invece, si avvale di tali trattamenti. Il requisito in discussione non contribuirebbe, d’altro canto, in alcun modo a misurare la capacità di intendere e di volere della persona malata o la sua libertà o autonomia di scelta, né l’intensità delle sofferenze patite. Esso apparirebbe, quindi, del tutto indifferente rispetto all’esigenza di tutelare il paziente in confronto a circonvenzioni e abusi, né sarebbe funzionale a proteggere il malato psichiatrico o quello che si è determinato in modo avventato a porre fine alla sua vita in ragione di condizioni patologiche passeggere, traducendosi quindi in un ostacolo irragionevole all’esplicazione della ratio della causa di non punibilità. 3.2.2.– Il requisito censurato si porrebbe in contrasto anche con il «principio personalista», di cui all’art. 2 Cost., con l’inviolabilità della libertà personale, sancita dall’art. 13 Cost., e con la libertà di autodeterminazione riguardo alle cure mediche, desumibile dal dettato congiunto degli artt. 2, 3, 13 e 32, secondo comma, Cost. Esso imporrebbe a persone – come M. S. – il cui corpo «è trasformato dalla malattia in un doloroso processo che le terapie non riescono a contrastare o mitigare», di proseguire nel calvario delle loro sofferenze, senza possibilità di scegliere un exitus dignitoso, sino addirittura a dover sperare in un peggioramento della patologia tale da rendere necessario un presidio sanitario della sopravvivenza: presidio che, a quel punto, verrebbe accettato dal paziente per potersi avvalere dell’agevolazione altrui al fine vita, risolvendosi così in una sorta di trattamento sanitario obbligatorio. Tutto ciò, senza che la limitazione della libertà del paziente trovi alcun corrispettivo, in termini di innalzamento della tutela di altri diritti costituzionali. Anzi, la consapevolezza del malato dell’assenza di alternative all’avvicinarsi «di una “notte senza fine”, in cui dibattersi in solitudine», potrebbe fungere da acceleratore della scelta di togliersi la vita, quando si è ancora in grado di farlo autonomamente, essendo la malattia in uno stadio iniziale, come dimostrerebbe il caso Carter contro Canada esaminato dalla Corte suprema del Canada nella sentenza 6 febbraio 2015, CSC 5, citata dalla stessa ordinanza n. 207 del 2018. 3.2.3.– Le parti costituite rilevano, per altro verso, come nel nostro ordinamento manchi una definizione normativa o medico-sanitaria della nozione di «trattamento di sostegno vitale». L’unico riferimento normativo ad essa si rinverrebbe nella legge n. 219 del 2017, che, nell’individuare i trattamenti, anche di sostegno vitale, cui il malato può rinunciare o che può rifiutare, vi include – con indicazione chiaramente non tassativa – la nutrizione e l’idratazione artificiali. In conseguenza di ciò, l’interpretazione di cosa sia un trattamento di sostegno vitale sarebbe stata, e rimarrebbe tuttora affidata alla mera discrezionalità delle commissioni mediche multidisciplinari nominate dalle aziende sanitarie investite di richieste di verifica della sussistenza dei presupposti per il suicidio assistito: il che determinerebbe non solo una incertezza del diritto inaccettabile in una materia delicata come il fine vita, ma anche gravi disparità di trattamento in danno di soggetti particolarmente vulnerabili, quali sono i pazienti che formulano le suddette richieste. Come emergerebbe da un esame della casistica, le commissioni mediche hanno ritenuto integrato il requisito in discorso in casi nei quali al paziente era stato applicato un pace-maker e un catetere vescicale permanente, con necessità di intervento di terzi per l’evacuazione, ovvero nel caso di somministrazione a una malata oncologica di farmaci antitumorali; mentre ne è stata contraddittoriamente esclusa la sussistenza nel caso di una paziente oncologica dipendente da ossigenoterapia e che assumeva una corposa cura antidolorifica, la cui sospensione avrebbe provocato il suo decesso. Opposto esito hanno avuto, poi, tre richieste di accesso al suicidio assistito formulate da persone affette, come M. S., da sclerosi multipla. In un caso, si è ritenuto che la necessità dell’assistenza di terzi per l’espletamento di ogni funzione vitale, l’utilizzo di un ventilatore polmonare nelle ore notturne e l’effettuazione di clisteri evacuativi giornalieri dovessero considerarsi trattamenti di sostegno vitale; negli altri due casi, il requisito in questione è stato ritenuto invece mancante, ancorché si trattasse di pazienti impossibilitati al compimento autonomo di qualsiasi attività, e dipendenti quindi da terzi in tutto e per tutto. Ad avviso delle parti, solo con l’accoglimento delle odierne questioni tali inaccettabili discriminazioni potrebbero essere superate. 3.2.4.– La ristrettezza del perimetro applicativo della causa di non punibilità introdotta dalla sentenza n. 242 del 2019 si porrebbe in contrasto anche con il diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 CEDU, e di riflesso con l’art. 117, primo comma, Cost. Sin dal leading case, rappresentato dalla sentenza Pretty contro Regno Unito, la Corte EDU ha, infatti, riconosciuto che il diritto dell’individuo di decidere a che punto e con quali mezzi porre fine alla propria vita costituisce uno degli aspetti protetti dal richiamato art. 8 CEDU: principio ribadito dalla giurisprudenza successiva, sino alla recente sentenza 4 ottobre 2022, Mortier contro Belgio. Ciò implicherebbe che lo Stato può interferire nelle scelte individuali che riguardano il fine vita solo nel rispetto degli standard codificati nel paragrafo 2 dell’art. 8: il divieto assistito da sanzione penale di aiuto al suicidio potrebbe essere pertanto previsto, sì, a tutela della vita, ma nel rispetto del principio di legalità, in presenza di uno scopo legittimo, nonché se necessario in una società democratica, e dunque in osservanza del criterio di proporzionalità tra mezzi e fine perseguito. Nella specie, per converso, l’attivazione dell’armamentario penalistico, conseguente all’operatività del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, sfocerebbe in una interferenza non necessaria e sproporzionata nella vita privata del soggetto malato, anche per l’assoluta irrilevanza di quel requisito ai fini della protezione da abusi nei confronti di persone incapaci di determinarsi. 4.– Nel giudizio di legittimità costituzionale sono intervenute, altresì, ad adiuvandum, con distinti atti, L. S. e M. O., svolgendo analoghe deduzioni. 4.1.– Preliminarmente, i difensori delle intervenienti ricordano come, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’intervento di terzi nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale sia ammissibile solo quando l’incidenza sulla posizione giuridica soggettiva del terzo non derivi, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla norma censurata, dalla pronuncia sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma sia conseguenza immediata e diretta dell’effetto che la pronuncia produrrebbe sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo: prospettiva nella quale la richiesta di intervento non può trovare fondamento nella semplice analogia della posizione giuridica soggettiva con quelle delle parti del giudizio principale. Alla luce di tali principi, L. S. e M. O. sarebbero legittimate ad intervenire, giacché, da un lato, la loro posizione giuridica soggettiva non presenterebbe alcun profilo di analogia con quella degli indagati nel procedimento a quo; dall’altro lato, la sorte di detta posizione giuridica dipenderebbe direttamente dall’esito del giudizio costituzionale, il quale costituirebbe l’unica sede in cui può essere fatta valere, anche e soprattutto considerando «il peculiare ruolo del “fattore tempo”». Al riguardo, i difensori rappresentano che le intervenienti sono entrambe affette da oltre venticinque anni da sclerosi multipla. A causa del progredire della patologia, esse soffrono attualmente di gravissime limitazioni motorie che, oltre a rendere necessari presidi di varia natura, le rendono dipendenti, per lo svolgimento delle funzioni vitali, dall’assistenza continua di terzi, senza la quale «morirebbe[ro] di stenti, […] in spregio alla propria dignità di essere umano». Esse hanno, quindi, chiesto alla propria Azienda sanitaria la verifica dei requisiti previsti dalla sentenza n. 242 del 2019 per l’accesso al suicidio assistito, ottenendo però risposta negativa in ragione della ritenuta insussistenza del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Ciò le ha indotte a inoltrare richiesta di accesso al suicidio medicalmente assistito in Svizzera. In questo contesto, stante lo stato di avanzamento della patologia e l’impossibilità di adeguato contenimento delle sofferenze, le intervenienti non avrebbero neppure il tempo di avviare un procedimento giurisdizionale nel quale tentare di far sollevare analoghe questioni di legittimità costituzionale da parte di altri giudici comuni. Varrebbe, quindi, il principio affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui non si può ammettere, alla luce dell’art. 24 Cost., che vi sia un giudizio direttamente incidente su posizioni giuridiche soggettive senza che i titolari di tali posizioni abbiano la possibilità di “difenderle” come parti del processo stesso. 4.2.– Nel merito, dopo aver ripercorso la vicenda che ha dato luogo alla proposizione dell’odierno incidente di costituzionalità, le intervenienti hanno chiesto l’accoglimento delle questioni. 5.– Sono pervenute dieci opinioni scritte di amici curiae, ammesse con decreto del Presidente della Corte del 10 maggio 2024. In particolare, hanno depositato opinioni a sostegno delle questioni di legittimità costituzionale prospettate le associazioni Unione camere penali italiane, La società della ragione APS, Consulta di bioetica ONLUS e Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS. Hanno invece depositato opinioni che invitano questa Corte a dichiarare inammissibili o non fondate tali questioni le associazioni Osservatorio di bioetica di Siena - ETS, Esserci per essere, Movimento per la vita italiano - Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale - ODV, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani (UGCI), Comitato Ditelo sui tetti, Associazione Family day - Difendiamo i nostri figli APS, Associazione medici cattolici italiani (AMCI), Associazione Nonni 2.0 e Osservatorio sull’attività parlamentare Vera lex?. Una ulteriore opinione scritta, proveniente dall’Associazione Liberididecidere e dalla Leo Foundation ASSL, non viene tenuta in considerazione, in quanto pervenuta oltre il termine perentorio stabilito dall’art. 6, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. 5.1.– Nell’ambito delle opinioni che aderiscono alla prospettazione del giudice rimettente, alcuni amici curiae rilevano, in via preliminare, come l’odierno incidente di costituzionalità non possa ritenersi precluso dal fatto che le questioni riguardino un frammento di norma inserito nell’art. 580 cod. pen. da questa stessa Corte, sulla base del caso specifico che allora veniva in considerazione. Sarebbero numerosi, infatti, i casi in cui questa Corte è tornata più volte su norme già scrutinate, aggiungendo ulteriori ipotesi alle precedenti declaratorie di illegittimità costituzionale a fronte dell’emergere di nuove fenomenologie (Unione camere penali italiane, La società della ragione APS). Quanto al merito delle questioni, gli amici curiae assumono che l’esclusione della rilevanza penale dell’aiuto al suicidio dovrebbe essere ancorata unicamente all’irreversibilità della patologia, alla gravità delle sofferenze e alla capacità del malato di prendere decisioni libere e consapevoli, e non anche al tipo di presidio medico cui la persona è sottoposta, pena la creazione di irragionevoli disparità di trattamento, lesive del diritto all’autodeterminazione nella scelta delle cure e del principio di dignità umana. Malattie gravissime e incurabili, ma rispetto alle quali non sono di solito necessari trattamenti di sostegno vitale – quali quelle oncologiche o neurodegenerative – non sarebbero, infatti, meno meritevoli di aiuto medico per porre fine alle sofferenze patite, liberando chi ne è affetto da una condizione di vita non più compatibile con la sua idea di dignità (Unione camere penali italiane, La società della ragione APS, Consulta di bioetica ONLUS). Subordinare l’accesso all’aiuto al suicidio alla dipendenza da un trattamento di sostegno vitale porterebbe a risultati iniqui specialmente rispetto ai pazienti con prognosi infausta a breve termine. Il malato oncologico cui rimangano pochi mesi di vita, e che si trovi in uno stato di sofferenza intollerabile, si vedrebbe privato della possibilità di uscire da tale stato, mentre pazienti che avrebbero davanti a sé ancora anni di vita grazie all’azione di un trattamento di sostegno vitale, potrebbero liberarsi anticipatamente dalla sofferenza grazie al suicidio assistito (Consulta di bioetica ONLUS). Nell’ordinamento non mancherebbero, d’altro canto, norme nelle quali è già insito il principio per cui la presenza di un trattamento di sostegno vitale non è un elemento che consenta di discriminare i pazienti nella scelta del modo di congedarsi dalla vita. L’art. 2, comma 2, della legge n. 219 del 2017 prevede, infatti, che possono accedere alla sedazione palliativa profonda continua i pazienti con prognosi infausta a breve termine o che si trovino in imminenza di morte e «in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari»: ciò, a prescindere dal fatto che tali condizioni dipendano, o no, dal rifiuto di un trattamento di sostegno vitale (ancora Consulta di bioetica ONLUS). Si nota, per altro verso, come il requisito in questione ostacoli l’accesso al suicidio assistito in assenza di qualsiasi “contropartita”, in termini di tutela della persona malata da eventuali abusi (Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS), rimanendo, altresì, del tutto scollegato dalla finalità dei requisiti di ordine procedurale, dato che la verifica preventiva delle condizioni della non punibilità demandata al servizio sanitario nazionale non sarebbe resa più sicura o più semplice da tale elemento (Unione camere penali italiane): sicché, in definitiva, esso si rivelerebbe incapace di togliere o aggiungere alcun disvalore alla condotta di aiuto al suicidio (Consulta di bioetica ONLUS). Sotto altro profilo, si osserva come l’assenza di una nozione generalmente condivisa nella letteratura medica del concetto di «trattamenti di sostegno vitale» faccia sì che il requisito si presti ad interpretazioni largamente discrezionali, foriere di ulteriori discriminazioni tra i pazienti e tra coloro che ne aiutano il suicidio (Unione camere penali italiane, Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS, Consulta di bioetica ONLUS). Sintomatica di tali criticità sarebbe, del resto, la circostanza che la condizione della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale rappresenti un unicum sul piano comparatistico, posto che nessuna delle normative straniere nelle quali è disciplinato il suicidio medicalmente assistito la contempla (Consulta di bioetica ONLUS, Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS). Secondo taluno degli amici curiae, i problemi posti dianzi in evidenza non sarebbero risolubili in via interpretativa, se non interpretando la nozione di trattamento di sostegno vitale in senso talmente ampio da privarla di qualsivoglia capacità selettiva, cioè riconducendovi qualsiasi tipologia di aiuto o sostegno, anche meramente psicologico. Ogni altra interpretazione risulterebbe, infatti, inevitabilmente discriminatoria. Ciò varrebbe anche per la lettura «intermedia» che estende il significato dell’espressione oltre le ipotesi di “dipendenza da una macchina”, includendovi tutti i casi di dipendenza da trattamenti qualificabili come sanitari, inclusi quelli farmacologici. Una simile lettura, pur avendo il pregio di ridurre il numero di pazienti discriminati, renderebbe però ancora più evidente l’irragionevolezza dei risultati cui il criterio può condurre, specie laddove si tratti di differenziare i pazienti sottoposti a terapia farmacologica da quelli che per continuare a vivere non necessitano di aiuti sanitari propriamente intesi, ma di aiuti materiali per l’espletamento di funzioni elementari, come recarsi in bagno o mangiare (Consulta di bioetica ONLUS). Da altro amicus curiae non si esclude, per converso, la possibilità che questa Corte si orienti in termini diversi da quelli prospettati dal giudice a quo, attraverso una lettura ampia del requisito, basata su una interpretazione analogica in bonam partem (La società della ragione APS). 5.2.– Le opinioni degli amici curiae contrarie all’accoglimento delle questioni proposte segnalano, a loro volta, l’esistenza di plurime ragioni di inammissibilità delle questioni. Viene prospettato anzitutto da alcuni il loro possibile difetto di rilevanza, conseguente all’incompetenza per territorio del Tribunale di Firenze. Posto che il procedimento a quo ha ad oggetto un reato commesso in parte all’estero, punibile in base alla legge italiana ai sensi dell’art. 6 cod. pen., dovrebbe ritenersi competente per esso, ai sensi del combinato disposto degli artt. 9, comma 1, e 10, comma 3, cod. proc. pen., il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione. Tale luogo non si identificherebbe, peraltro, in Firenze, ma nel circondario di Como o di Varese, secondo il percorso scelto dalle indagate per trasportare M. S. dal luogo di residenza alla località svizzera (Pfäffikon) in cui è avvenuto il suicidio (Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale – ODV). Altra ragione di inammissibilità per difetto di rilevanza si legherebbe alla totale assenza, nel caso di specie, delle condizioni procedimentali indicate dalla sentenza n. 242 del 2019 a tutela dei pazienti più fragili e per evitare abusi: ciò, sebbene si discuta di fatto successivo alla pronuncia di questa Corte (Comitato Ditelo sui tetti, Associazione family day – Difendiamo i nostri figli APS, Associazione medici cattolici italiani, Associazione nonni 2.0, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani). L’ordinanza di rimessione, in violazione dell’art. 23, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), non indicherebbe, inoltre, come oggetto dello scrutinio di costituzionalità, una disposizione di legge, ma il contenuto di una sentenza di questa Corte. Le questioni si tradurrebbero, quindi, in un vero e proprio gravame contro la sentenza n. 242 del 2019, inibito dall’art. 137, terzo comma, Cost. (Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale – ODV, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani). Nel merito, gli amici curiae negano l’asserita violazione dell’art. 3 Cost., rilevando come il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, lungi dal discriminare casi simili sulla base di un dato puramente casuale, testimoni, in modo oggettivamente verificabile, la gravità delle condizioni di vita del malato, lo stato di avanzamento della patologia e la prossimità del paziente alla morte (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale – ODV, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani). Il giudice a quo trascurerebbe, d’altro canto, il fatto che la sentenza n. 242 del 2019 ha individuato lo spazio di non punibilità dell’aiuto al suicidio sulla base della disciplina della legge n. 219 del 2017, presentando il suicidio assistito come alternativa all’interruzione, cui il paziente è legittimato, dei trattamenti di sostegno vitale in atto, con contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua: il che farebbe del requisito in questione un elemento assolutamente pregnante (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale – ODV, Osservatorio sull’attività parlamentare Vera lex?). Sarebbe, dunque, arbitrario estendere la nozione di «trattamenti di sostegno vitale» in modo da ricomprendere in essa qualsiasi trattamento – anche non sanitario – che contribuisca, in qualche modo, al prolungamento della vita del soggetto (Osservatorio sull’attività parlamentare Vera lex?). Ugualmente insussistente risulterebbe l’asserita violazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica. Nel prospettarla, il rimettente moverebbe da una visione dell’autodeterminazione come priva di limiti: ricostruzione non coerente con il quadro costituzionale. Dalle indicazioni di questa Corte – contenute non solo nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, ma anche nella successiva sentenza n. 50 del 2022 – si ricaverebbe, infatti, l’opposto principio per cui nel confronto tra la libertà di autodeterminazione e l’esigenza di tutela del bene della vita, che costituisce il fondamento della convivenza civile, la prima non potrebbe, in via generale, prevalere sulla seconda (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Comitato Ditelo sui tetti, Associazione family day – Difendiamo i nostri figli APS, Associazione medici cattolici italiani, Associazione Nonni 2.0). Riguardo, poi, alla dedotta lesione del principio di dignità umana, il rimettente avrebbe posto a fondamento del proprio ragionamento una concezione marcatamente soggettiva, trascurando il fatto che negli articoli della Carta costituzionale in cui si evoca il concetto di dignità (artt. 3, 36 e 41) questa sarebbe sempre considerata in una prospettiva oggettiva. Anche questa Corte avrebbe riconosciuto il carattere oggettivo della dignità umana, da ultimo nella sentenza n. 141 del 2019 (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Comitato Ditelo sui tetti, Associazione family day – Difendiamo i nostri figli APS, Associazione medici cattolici italiani, Associazione Nonni 2.0). Nell’ottica del bilanciamento di interessi, la percezione soggettiva del malato della dignità nel morire sarebbe un elemento di rilievo, ma dovrebbe necessariamente cedere nel confronto con la tutela del basilare diritto alla vita (Osservatorio di bioetica di Siena – ETS, Esserci per essere). Nemmeno, infine, potrebbe ritenersi violato l’art. 117 Cost. La Corte di Strasburgo ha infatti affermato che il divieto di aiuto al suicidio è compatibile con l’art. 8 CEDU, restando affidata al margine di apprezzamento dei singoli Stati la valutazione se l’eventuale liberalizzazione del suicidio assistito possa far sorgere rischi di abuso a danno dei pazienti più vulnerabili (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia). Inconferente apparirebbe, altresì, il richiamo all’art. 14 CEDU, avendo la Corte di Strasburgo specificato che una differenza di trattamento tra individui posti in situazioni analoghe è discriminatoria solo se non persegue uno scopo legittimo o se non vi è un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo: valutazioni che spetterebbero anzitutto agli Stati (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Osservatorio sull’attività parlamentare Vera lex?). Secondo gli amici curiae, la tutela del malato inguaribile dovrebbe rimanere affidata piuttosto all’attuazione del diritto alle cure palliative e alla terapia del dolore, prefigurato dalla legge 15 marzo 2010, n. 38 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani), che dovrebbe inverare il senso profondo del dovere dello Stato di prendersi cura della salute dell’individuo stabilito dall’art. 32 Cost. (Comitato Ditelo sui tetti, Associazione family day – Difendiamo i nostri figli APS, Associazione medici cattolici italiani, Associazione nonni 2.0). Come rilevato nella stessa sentenza n. 242 del 2019, l’accesso a tali cure si presta a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita, e ciò particolarmente in casi quali quello oggetto del procedimento a quo, nel quale la richiesta di suicidio assistito proveniva – come spesso accade – da un paziente in condizione di sofferenza psicologica ed esistenziale (Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani). 6.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, insistendo per la dichiarazione di inammissibilità o non fondatezza delle questioni. Dopo aver passato in rassegna i contrapposti argomenti prospettati dalle parti costituite e dagli amici curiae, l’Avvocatura dello Stato rileva in particolare come, alla luce del percorso argomentativo seguito da questa Corte nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, appaia di solare chiarezza che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen. ha riguardato, in modo specifico ed esclusivo, l’aiuto al suicidio prestato a favore di persone assoggettate a trattamenti di «mantenimento artificiale in vita» non più voluti, le quali avrebbero già potuto lasciarsi morire mediante la rinuncia ad essi. Ciò dimostrerebbe la non fondatezza dell’assunto secondo cui la nozione di «persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale» sarebbe priva di connotazioni precise, posto che essa risulterebbe inequivocabilmente riferita ai casi in cui la sopravvivenza del malato dipende dall’utilizzo di apparecchiature preordinate a sopperire artificialmente all’insufficienza di funzioni vitali. In questo contesto – contrariamente a quanto asserito dal giudice a quo e da alcuni fra gli amici curiae – non vi sarebbe alcuna possibilità di estendere la non punibilità dell’aiuto al suicidio di là dal caso ora indicato. La norma incriminatrice censurata è posta a presidio di un bene giuridico, la vita, oggetto di un diritto assoluto inviolabile, il quale – come sottolineato dalla sentenza n. 50 del 2022 – appartiene «all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana». Dall’assolutezza del diritto alla vita deriverebbe, da un lato, la sua indisponibilità; dall’altro, il dovere, del pari assoluto, dello Stato di proteggerla non soltanto da iniziative pregiudizievoli di terzi, ma persino da iniziative dello stesso soggetto che ne è titolare. Il principio di indisponibilità sarebbe sancito, oltre che dall’art. 2 Cost. (che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo), anche dall’art. 32, primo comma, Cost., che tutela la salute, non solo come fondamentale diritto dell’individuo, ma anche come «interesse della collettività». Nell’ordinamento è, d’altro canto, presente una serie di disposizioni di rango primario (dalla disciplina degli stupefacenti a quella contro il doping o in materia di prelievi e trapianti di organi e di tessuti, oltre all’art. 5 del codice civile) finalizzate a tutelare la salute e la vita della persona anche contro la sua stessa volontà. Con riguardo all’evocato principio di dignità umana, il giudice a quo moverebbe da una concezione soggettiva di tale principio estranea al quadro costituzionale, nel quale la dignità si configurerebbe «quale valore oggettivo di matrice sociale e collettiva». Dare rilevanza alla percezione soggettiva del malato significherebbe, d’altronde, postulare una pericolosa equivalenza tra stato di malattia e vita “non degna”, con conseguente «snaturamento» di fondamentali valori costituzionali e, in particolare, di quello espresso dall’art. 32 Cost. La risposta alla domanda di aiuto delle persone che, senza essere sottoposte a trattamenti di sostegno vitale, sono affette da malattie incurabili e fonte di acute sofferenze, dovrebbe consistere, non già nell’accrescimento del peso ponderale del diritto di autodeterminazione in modo da sopravanzare l’interesse alla tutela della vita, quanto piuttosto – in linea con la puntuale indicazione già contenuta nell’ordinanza n. 207 del 2018 – nel garantire al malato l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, secondo l’impegno assunto dallo Stato con la legge n. 38 del 2010: soluzione, questa sì, rispettosa del dettato costituzionale e della dignità dei malati. Recenti interventi legislativi – tra i quali quello prefigurato dall’art. 1, comma 83, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025) – si moverebbero, d’altro canto, nel senso dell’eliminazione dei perduranti margini di mancata attuazione delle previsioni della citata legge. 7.– Anche M. C., C. L. e F. M. hanno depositato memoria, volta segnatamente a replicare alle deduzioni svolte dall’Avvocatura dello Stato con l’atto di intervento. Le parti costituite negano fondamento all’eccezione di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, formulata sulla base della considerazione che la sentenza n. 242 del 2019, in relazione alle questioni con essa definite, ha richiamato – per individuare “punti di riferimento” già esistenti nell’ordinamento – la legge n. 219 del 2017. In questo modo, l’Avvocatura avrebbe ritenuto che il giudice comune, per sollevare una questione di legittimità costituzionale, debba applicare al suo caso ciò che questa Corte ha stabilito in quel precedente: assunto inesatto, laddove, come nella specie, vengano sollevate questioni ulteriori e per nulla identiche a quelle già decise. Egualmente non fondata sarebbe l’altra eccezione, relativa al petitum. Il rimettente non avrebbe chiesto affatto a questa Corte di stravolgere in toto la sua precedente decisione, in senso lesivo della discrezionalità del legislatore, ma soltanto di intervenire una seconda volta sull’art. 580 cod. pen., al fine di eliminare una irragionevole disparità di trattamento fra categorie di soggetti che aiutano altri al suicidio. Quanto al merito, inconferente apparirebbe l’obiezione dell’Avvocatura dello Stato, basata sul rilievo che la sentenza n. 242 del 2019 non ha riconosciuto un diritto di ottenere dallo Stato e dai terzi un aiuto a morire. Il «focus» delle questioni definite con tale sentenza e di quelle che questa Corte è chiamata oggi a risolvere atterrebbe, infatti, non tanto alla definizione di un diritto all’aiuto al suicidio, declinato come pretesa nei confronti dell’ordinamento, quanto piuttosto alla ragionevolezza di un trattamento sanzionatorio differenziato fra soggetti terzi che agevolano il suicidio di determinate categorie di persone: trattamento differenziato che, se pure materialmente risalente alla pronuncia del 2019, sarebbe frutto della perdurante scelta del legislatore di non intervenire, malgrado le ripetute sollecitazioni, con una normativa organica che disciplini anche ulteriori fattispecie non toccate dall’intervento di questa Corte. Ciò varrebbe anche a dimostrare come non colga nel segno l’altra affermazione dell’Avvocatura dello Stato, stando alla quale il principio di non discriminazione invocato dal giudice a quo non potrebbe operare, atteso che l’assenza di uno dei requisiti delimitativi dell’eccezione (ossia, appunto, l’essere la persona malata «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale») comporterebbe la riespansione della regola generale che impone di punire chi aiuti una persona a suicidarsi. Il requisito de quo sarebbe, in effetti, irragionevole, perché foriero di un trattamento differenziato di condotte che dovrebbero essere inquadrate in modo identico sul piano del diritto costituzionale. Il comportamento di colui che, in presenza degli altri requisiti, agevola il suicidio altrui sarebbe, infatti, strettamente collegato con l’esercizio, da parte della persona malata, della libertà di autodeterminazione in una sfera dotata di rilievo costituzionale, proprio perché imbevuta del contesto della malattia irreversibile e della gravità delle sofferenze fisiche e psicologiche. Gli altri tre requisiti, unitamente alla necessità di un loro accertamento preventivo da parte di una struttura sanitaria pubblica, sarebbero d’altro canto sufficienti a garantire che la persona malata esprima la sua effettiva volontà, in presenza di una situazione in cui la vita è diventata una mera sopravvivenza e dunque la dignità, intesa in senso soggettivo, della persona malata venga meno. Diversamente da quanto sostiene l’Avvocatura, proprio sulla dignità in senso soggettivo si sarebbe, in effetti, fondata la sentenza n. 242 del 2019: e la differente tipologia della malattia da cui possono essere affetti i pazienti non potrebbe incidere sulla percezione della dignità che ognuno ha rispetto alla propria persona. Le parti costituite insistono, quindi, nella richiesta di accoglimento delle questioni nei termini prospettati dal giudice rimettente. In subordine, invitano questa Corte a prendere in considerazione l’ipotesi di una sentenza interpretativa di accoglimento, che dichiari costituzionalmente illegittimo il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale ove interpretato in maniera rigida e restrittiva. Considerato in diritto 1.– Il GIP del Tribunale di Firenze dubita della legittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen., «come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019» di questa Corte, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale». Ad avviso del giudice a quo, il requisito censurato violerebbe anzitutto l’art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche. In presenza delle altre condizioni per la non punibilità dell’aiuto al suicidio (l’essere questo prestato a persona affetta da malattia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, la quale resti però capace di prendere decisioni libere e consapevoli), l’avverarsi, o no, della condizione in questione sarebbe, infatti, frutto di circostanze del tutto accidentali, quali le caratteristiche e il modo di manifestazione della patologia, la situazione clinica generale dell’interessato, la natura delle terapie disponibili e le stesse scelte del paziente, il quale potrebbe aver rifiutato sin dall’inizio ogni trattamento. Ciò, senza che tale sperequazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, posto che la presenza del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, oltre a non essere indicativa di un minor bisogno di tutela del bene della vita, non apporterebbe neppure alcuna rassicurazione in ordine al carattere libero e consapevole della decisione di congedarsi dalla vita stessa o alla minore “vulnerabilità” della persona che la assume. Sarebbero violati anche gli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., in quanto il requisito in parola provocherebbe una compressione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, non giustificata da contro-interessi di analogo rilievo. L’esercizio di tale libertà rischierebbe, anzi, di essere condizionato in modo perverso, giacché il paziente potrebbe essere indotto ad accettare trattamenti di sostegno vitale, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di poter accedere alla procedura per il suicidio assistito. Verrebbe leso, inoltre, il «principio di dignità umana», in quanto il malato, irreversibile e intollerabilmente sofferente, si vedrebbe costretto a subire, per congedarsi dalla vita, un processo più lento e meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire, ossia ad attendere, anche per lungo tempo, l’inevitabile aggravamento della malattia sino allo stadio che rende necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale, con il carico di sofferenze aggiuntive che ne consegue, sia per il malato stesso, sia per le persone a lui care. Ciò rischierebbe di produrre risultati antitetici rispetto allo stesso obiettivo di tutela della vita, inducendo i malati che non intendono affrontare un simile percorso a darsi la morte in completa autonomia, fuori dai controlli e dalle garanzie offerte dal circuito legale, con modalità spesso cruente e non conformi al concetto di dignità generalmente riconosciuto. Subordinare la liceità dell’aiuto al suicidio di una persona capace di autodeterminarsi al requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale comporterebbe, da ultimo, la violazione dell’art. 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, implicando una interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare non funzionale, né tantomeno necessaria, alla tutela del diritto alla vita, o, comunque sia, non proporzionata rispetto all’obiettivo, e contraria, al tempo stesso, al principio di non discriminazione, stante il rilevato carattere del tutto accidentale dell’elemento in questione. 2.– Va anzitutto ribadita l’ammissibilità degli interventi di L. S. e M. O., per la ragione indicata nell’ordinanza letta all’udienza del 19 giugno 2024, allegata alla presente sentenza. 3.– Debbono essere prese quindi in esame, in via preliminare, le eccezioni di inammissibilità delle questioni formulate dall’Avvocatura generale dello Stato, a sostegno delle quali si esprimono anche talune delle opinioni degli amici curiae. 3.1.– La prima delle eccezioni si lega al fatto che nel caso oggetto del giudizio a quo – concernente l’agevolazione del suicidio assistito presso una struttura privata in Svizzera di una persona affetta da sclerosi multipla – non risultano essere state rispettate le condizioni procedurali alle quali la sentenza n. 242 del 2019 ha subordinato la non punibilità dell’aiuto al suicidio. L’Avvocatura dello Stato ricorda che, con la citata sentenza, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 580 cod. pen., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona che versi nelle condizioni già individuate dalla precedente ordinanza n. 207 del 2018: ossia di una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Onde evitare, peraltro, che «la sottrazione pura e semplice di tale condotta alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi “per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità”» (sentenza n. 242 del 2019), questa Corte ha specificamente richiesto – ai fini della sottrazione a pena – che l’agevolazione abbia luogo con la «procedura medicalizzata» prevista dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017. In difetto dell’intervento legislativo auspicato dall’ordinanza n. 207 del 2018, in tale procedura è stato, infatti, individuato un preciso «punto di riferimento», già esistente nel sistema, utilizzabile per dar risposta alle suddette esigenze. Questa Corte ha, altresì, richiesto che la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio e delle relative modalità di esecuzione sia effettuata da strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. Osserva l’Avvocatura che il giudice a quo ritiene sussistenti, nel caso di specie, le condizioni sostanziali per la liceità dell’aiuto al suicidio – eccezion fatta per quella della dipendenza del malato da trattamenti di sostegno vitale – non già sulla base delle risultanze della procedura regolata dai citati artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, ma facendo leva su elementi reperiti aliunde, fuori da precisi e rigorosi controlli di legge. Il rimettente sostiene che, malgrado ciò, il requisito in discorso possa ritenersi soddisfatto, considerando «sostanzialmente equivalente» alla predetta procedura quella seguita per la prestazione dell’aiuto al suicidio presso la struttura svizzera in cui il malato è deceduto. Così opinando, il giudice a quo si sarebbe avvalso, tuttavia, impropriamente di un criterio – quello dell’equivalenza sostanziale delle garanzie offerte – al quale la sentenza n. 242 del 2019 ha fatto riferimento solo ai fini dell’esclusione della punibilità dei fatti anteriori alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, rispetto ai quali non sarebbe stato possibile pretendere l’osservanza di una procedura introdotta ex post: criterio non utilizzabile, dunque, nel procedimento principale, attinente a una vicenda svoltasi interamente in epoca successiva. Il dubbio di ammissibilità, prospettato dalla difesa dello Stato, potrebbe essere esteso d’ufficio, mutatis mutandis, anche alla mancata osservanza delle ulteriori condizioni procedurali poste dalla sentenza n. 242 del 2019 (l’affidamento a strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale della verifica dei presupposti di legittimità dell’aiuto al suicidio e delle relative modalità di esecuzione, previo parere del comitato etico territorialmente competente): osservanza che il rimettente reputa non «esigibile» quando il fatto si sia verificato all’esito della prestazione offerta da una struttura estera, o riguardi, comunque sia, una persona che, in quanto non dipendente da trattamenti di sostegno vitale, si sarebbe vista respingere l’eventuale domanda di accesso al suicidio assistito presentata alle strutture sanitarie italiane. Tutto ciò renderebbe le questioni inammissibili per difetto di rilevanza, giacché, anche nell’ipotesi di loro accoglimento, il giudice a quo dovrebbe, comunque sia, respingere la richiesta di archiviazione del procedimento penale a carico degli indagati della quale si trova investito. L’eccezione, pur correttamente escludendo la riferibilità della clausola di equivalenza ai fatti successivi alla sentenza n. 242 del 2019, non è, tuttavia, fondata. Per costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo e che la pronuncia di accoglimento possa incidere sull’esercizio della funzione giurisdizionale, anche soltanto sotto il profilo del percorso argomentativo che sostiene la decisione del processo principale, senza che occorra la dimostrazione della sua effettiva capacità di influire sull’esito del processo medesimo (ex plurimis, sentenze n. 25 del 2024, n. 164 del 2023, n. 19 del 2022 e n. 247 del 2021). Ciò, in quanto il presupposto della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (tra le altre, sentenze n. 151 del 2023, n. 88 del 2022 e n. 172 del 2021). È dunque sufficiente nella specie osservare che, se da un lato è pacifica l’applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo, dall’altro lato l’accoglimento delle odierne questioni sarebbe in grado di incidere, comunque sia, quantomeno sull’iter motivazionale della decisione che il rimettente è chiamato ad assumere. Anche nella prospettiva dell’Avvocatura dello Stato, infatti, la richiesta di archiviazione del procedimento principale dovrebbe essere rigettata, non già – come ritiene di dover fare allo stato il giudice a quo – per la dirimente ragione della carenza di una delle condizioni sostanziali della non punibilità, ma semmai unicamente per il mancato rispetto della procedura prevista ai fini del loro accertamento e della verifica delle modalità di esecuzione del suicidio. 3.2.– La seconda eccezione dell’Avvocatura dello Stato si connette al rilievo che, con le questioni sollevate, il rimettente chiede di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 580 cod. pen. in una parte che questa stessa Corte vi ha aggiunto con la sentenza n. 242 del 2019, peraltro in stretta correlazione con la relativa ratio decidendi, che è quella di sottrarre alla punibilità i soli casi di aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero lasciarsi alternativamente morire mediante la rinuncia a trattamenti necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017. L’invocata rimozione del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale presupporrebbe dunque – a parere dell’Avvocatura – che questa Corte sconfessi sé stessa, rivedendo la precedente decisione in senso «ingiustificabilmente ampliativo, oltre che lesivo della riconosciuta discrezionalità del legislatore in subiecta materia». L’eccezione viene ulteriormente precisata da alcuni degli amici curiae (Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale – ODV, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani), i quali rilevano come il giudice a quo sottoponga a scrutinio, non una disposizione di legge, ma il contenuto di una pronuncia di questa Corte: il che farebbe sì che le questioni si traducano in un gravame contro la sentenza n. 242 del 2019, inibito dall’art. 137, terzo comma, Cost. Nemmeno questa eccezione è fondata. Al riguardo, occorre considerare che la sentenza n. 242 del 2019 è una pronuncia di accoglimento parziale. Le questioni con essa decise erano, infatti, dirette a conseguire, nella sostanza, l’ablazione integrale della fattispecie incriminatrice dell’aiuto al suicidio: richiesta che questa Corte ha accolto solo in parte, sottraendo alla punibilità una circoscritta classe di casi, identificati anche attraverso il requisito sul quale si appuntano le censure dell’odierno rimettente. Per il resto, le questioni sono state dunque respinte. Ciò posto, deve escludersi che una simile pronuncia impedisca in modo definitivo a questa Corte di aggiungere una classe ulteriore di casi a quelli già sottratti alla punibilità: il che è proprio l’effetto che conseguirebbe all’auspicata ablazione del requisito in parola. Oggetto dello scrutinio di costituzionalità può, d’altro canto, ben essere una disposizione di legge quale risultante da una sentenza “manipolativa” di questa Corte (ad esempio, sentenze n. 131 del 2022 e n. 286 del 2016). 4.– Taluni degli amici curiae (in specie, il Centro studi Rosario Livatino e l’Unione per la promozione sociale – ODV) sollecitano questa Corte a esaminare, d’ufficio, un ulteriore profilo di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, connesso al fatto che il giudice a quo non sarebbe competente per territorio. Secondo gli amici curiae, discutendosi di reato commesso parzialmente all’estero, punibile secondo la legge italiana ai sensi dell’art. 6 cod. pen., dovrebbe ritenersi competente per esso, in base al combinato disposto degli artt. 9, comma 1, e 10, comma 3, cod. proc. pen., il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione: luogo che si identificherebbe, non in Firenze, ma nel circondario di Como o di Varese, secondo il percorso scelto dalle indagate per trasportare la persona malata dal luogo di residenza alla località svizzera in cui è avvenuto il suicidio. Anche tale profilo di inammissibilità non è ravvisabile. Per costante giurisprudenza di questa Corte, alla luce del principio di autonomia del giudizio incidentale di legittimità costituzionale rispetto al processo principale, il difetto di competenza del giudice a quo – al pari del difetto di giurisdizione – costituisce causa di inammissibilità della questione solo se manifesto, ossia rilevabile ictu oculi (tra le altre, sentenze n. 68 del 2021 e n. 136 del 2008, ordinanza n. 134 del 2000): ipotesi che non ricorre nel caso in esame. 5.– Preliminare all’esame del merito delle questioni è una breve ricognizione dello stato della giurisprudenza di questa Corte sui principi coinvolti dalle questioni medesime: principi, tutti, di sommo rilievo nell’ordinamento costituzionale italiano. 5.1.– La disposizione censurata – l’art. 580 cod. pen. – è posta a tutela della vita umana: bene che, come questa Corte ha recentemente sottolineato, «si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» (sentenza n. 50 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto). Pur in assenza di riconoscimento esplicito nel testo della Costituzione, la giurisprudenza di questa Corte riconduce la vita all’area dei diritti inviolabili della persona riconosciuti dall’art. 2 Cost., «e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”» (sentenza n. 35 del 1997, punto 4 del Considerato in diritto). La vita, si aggiunge, è del resto «presupposto per l’esercizio di tutti gli altri» diritti inviolabili (ordinanza n. 207 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto). Il diritto alla vita, inoltre, è oggetto di tutela espressa da parte di tutte le carte internazionali dei diritti umani, che menzionano per primo tale diritto rispetto a ogni altro (art. 2 CEDU, art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici), ovvero immediatamente dopo la proclamazione della dignità umana (art. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Da tali disposizioni scaturiscono obblighi che vincolano anche l’ordinamento nazionale, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. (nonché, per quanto concerne la CDFUE, dell’art. 11 Cost.). Dal riconoscimento del diritto alla vita scaturisce, infine, il corrispondente dovere dell’ordinamento di assicurarne la tutela attraverso la legge (oltre che, più in generale, attraverso l’azione di tutti i pubblici poteri). Tale dovere – statuito in termini espliciti dagli artt. 2, paragrafo 1, CEDU e 6, paragrafo 1, PIDCP – è stato affermato di recente da questa Corte, con particolare nettezza, proprio con riferimento alla tematica del fine vita: «[d]all’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto). Tanto che proprio l’affermazione del dovere dello Stato di tutelare la vita umana è stata alla base della decisione di inammissibilità di un referendum abrogativo, il cui esito positivo sarebbe stato quello di lasciare la vita umana in una situazione di insufficiente protezione, in contrasto con gli obblighi costituzionali e convenzionali menzionati (sentenza n. 50 del 2022, punto 5.4. del Considerato in diritto). 5.2.– Su un diverso versante, la costante giurisprudenza di questa Corte ritiene che ogni paziente capace di assumere decisioni libere e consapevoli sia titolare di un diritto fondamentale, discendente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., a esprimere il proprio consenso informato a qualsiasi trattamento sanitario e, specularmente, a rifiutarlo, in assenza di una specifica previsione di legge che lo renda obbligatorio: e ciò anche quando si discuta di un trattamento necessario ad assicurare la sopravvivenza del paziente stesso (come, ad esempio, l’idratazione e la nutrizione artificiali). Tale diritto è confermato, altresì, dall’art. 8 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo (Corte EDU, sentenza 13 giugno 2024, Dániel Karsai contro Ungheria, paragrafo 131; sentenza Pretty contro Regno Unito, paragrafo 63); e trova oggi riconoscimento, a livello di legislazione ordinaria, nell’art. 1 della legge n. 219 del 2017, che ha nella sostanza recepito e sistematizzato principi già enucleati dalla giurisprudenza – costituzionale, civile e penale – sulla base delle norme costituzionali menzionate (più ampiamente, sul punto, ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto). Anche quando il trattamento sia necessario ad assicurare la sopravvivenza del paziente, questi ha dunque il diritto di rifiutare l’attivazione di tale trattamento, ovvero di ottenerne l’interruzione. In tal modo, come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare, l’ordinamento riconosce in sostanza al paziente la libertà di lasciarsi morire, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, mediante il rifiuto o la richiesta di interruzione di trattamenti necessari a sostenerne le funzioni vitali (ancora, ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto). Il diritto di rifiutare le cure necessarie alla sopravvivenza deve, invero, essere oggi esercitato «nel contesto della “relazione di cura e di fiducia” – la cosiddetta alleanza terapeutica – tra paziente e medico, che la legge [n. 219 del 2017] mira a promuovere e valorizzare: relazione “che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto). La legge n. 219 del 2017 prevede altresì che, «ove il paziente manifesti l’intento di rifiutare o interrompere trattamenti necessari alla propria sopravvivenza, il medico debba prospettare a lui e, se vi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze della sua decisione e le possibili alternative, e promuovere “ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”. Ciò, ferma restando la possibilità per il paziente di modificare in qualsiasi momento la propria volontà (art. 1, comma 5)» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto). Peraltro, è indubbio che, pur all’interno della speciale relazione di fiducia tra medico e paziente, a quest’ultimo spetta la decisione ultima se sottoporsi, o continuare a sottoporsi, ai trattamenti che il medico giudichi non solo appropriati, ma addirittura necessari per la sua sopravvivenza. Come recita l’art. 32, secondo comma, Cost., nessuno può essere infatti «obbligato» – e tanto meno fisicamente “costretto” – a sottoporsi a un trattamento sanitario sul proprio corpo e nel proprio corpo. L’esecuzione di un tale trattamento violerebbe, oltre che l’art. 32, secondo comma, Cost., l’art. 13 Cost. (sentenza n. 22 del 2022, punto 5.3.1. del Considerato in diritto), il cui contenuto minimo di tutela protegge la persona contro ogni forma di coazione sul corpo (sentenze n. 127 del 2022, punto 4 del Considerato in diritto; n. 238 del 1996, punto 3.2. del Considerato in diritto), nonché lo stesso diritto fondamentale all’integrità fisica della persona, espressamente riconosciuto dall’art. 3 CDFUE, ma riconducibile, assieme, al novero dei “diritti inviolabili della persona” di cui all’art. 2 Cost. e all’area di tutela del diritto alla vita privata proclamato dall’art. 8 CEDU. 6.– La disposizione in questa sede censurata, l’art. 580 cod. pen., è stata già scrutinata da questa Corte con l’ordinanza n. 207 del 2018 e con la sentenza n. 242 del 2019. In via ancora preliminare rispetto alla valutazione del merito delle odierne questioni, conviene qui sintetizzare le principali conclusioni ivi raggiunte, che questa Corte intende qui integralmente confermare. 6.1.– Nel vigente ordinamento costituzionale, la ratio dell’art. 580 cod. pen. e della contigua ipotesi delittuosa di cui all’art. 579 cod. pen. non può più essere ravvisata nell’idea – sottesa alle scelte del legislatore del 1930 – di una indisponibilità della vita umana, funzionale all’«interesse che la collettività riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini». Una simile prospettiva risulterebbe palesemente in contrasto con la Costituzione, «che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto). Nondimeno, questa Corte ha ritenuto e ritiene che il mantenimento, attorno alla persona, di una «cintura di protezione» (sentenza n. 50 del 2022, punto 3.1. del Considerato in diritto) contro scelte autodistruttive, realizzato attraverso la duplice incriminazione dell’omicidio del consenziente e di ogni forma di istigazione o agevolazione materiale dell’altrui suicidio, «assolv[a] allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto). L’incriminazione in parola deve dunque essere, oggi, intesa come funzionale a proteggere la vita delle persone rispetto a scelte irreparabili che pregiudicherebbero definitivamente l’esercizio di qualsiasi ulteriore diritto o libertà, al fine di evitare che simili scelte, «collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate» (ancora, sentenza n. 50 del 2022, punto 5.3. del Considerato in diritto), possano essere indotte, sollecitate o anche solo assecondate da terze persone, per le ragioni più diverse. Il divieto in parola – ha ancora osservato questa Corte – «conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto. Al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.)» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto). 6.2.– Tuttavia, questa Corte ha riconosciuto che ogni paziente è titolare di un diritto fondamentale a rifiutare ogni trattamento sanitario, compresi quelli necessari ad assicurarne la sopravvivenza (supra, punto 5.2.). Conseguentemente, l’ordinanza n. 207 del 2018 e la successiva sentenza n. 242 del 2019 hanno ritenuto irragionevole mantenere ferma l’operatività del divieto di cui all’art. 580 cod. pen. anche nell’ipotesi di pazienti che abbiano già la possibilità – alla luce della legge n. 219 del 2017, attuativa delle norme costituzionali in precedenza menzionate – di porre termine alla propria esistenza attraverso il rifiuto delle cure necessarie per tenerli in vita: rifiuto che determinerebbe la prospettiva del decesso in un breve lasso di tempo anche in pazienti che pure sarebbero in grado, proseguendo quei trattamenti, di sopravvivere a lungo. La persistente operatività del divieto di assistenza al suicidio anche in tali situazioni, ha proseguito questa Corte, costringerebbe il paziente ad affrontare la morte attraverso un processo più lento, «in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 9 del Considerato in diritto). Ciò comporterebbe una insostenibile compressione della «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive» (art. 3 Cost.) (ordinanza n. 207 del 2018, punto 9 del Considerato in diritto). L’art. 580 cod. pen. è stato, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevedeva un’eccezione alla generale punibilità di ogni forma di aiuto al suicidio per le peculiari ipotesi in cui la persona aiutata sia «una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli», sempre che – a tutela dei soggetti deboli e vulnerabili – le condizioni e le modalità di esecuzione della procedura siano state verificate, nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. 7.– L’odierna ordinanza di rimessione sollecita, ora, questa Corte a estendere ulteriormente l’area della liceità delle condotte di aiuto al suicidio incriminate in via generale dall’art. 580 cod. pen., con riferimento ai pazienti rispetto ai quali sussistano i requisiti poc’anzi indicati sub (a) (patologia irreversibile), (b) (sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili) e (d) (capacità di prendere decisioni libere e consapevoli), ma rispetto ai quali difetti, invece, il requisito sub (c), e cioè l’essere mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Secondo il rimettente, la persistente operatività del divieto penalmente sanzionato in queste ipotesi determinerebbe la violazione: dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche (infra, punto 7.1.); degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., sotto il profilo della eccessiva compressione della libertà di autodeterminazione del paziente (infra, punto 7.2.); del principio della dignità umana (infra, punto 7.3.); dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, nonché al divieto di discriminazione, di cui all’art. 14 CEDU, nel godimento del medesimo diritto alla vita privata (infra, punto 7.4.). Nessuna di tali questioni è, a giudizio di questa Corte, fondata. 7.1.– Il rimettente ritiene, anzitutto, che la subordinazione della liceità della condotta alla dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale crei una irragionevole disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri pazienti che versino, essi pure, in situazioni di sofferenza soggettivamente vissute come intollerabili, per effetto di patologie parimente irreversibili. La circostanza che la specifica patologia da cui il paziente è affetto pregiudichi, o no, le sue funzioni vitali, tanto da richiedere l’attivazione di specifici trattamenti di sostegno a tali funzioni, non sarebbe indicativa di una sua maggiore o minore vulnerabilità, né di una maggiore o minore libertà e consapevolezza della sua decisione di porre fine alla propria vita; né, ancora, l’effettiva sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale sarebbe di per sé regolarmente associata a una maggiore sofferenza, che renda più umanamente comprensibile la sua decisione di ricorrere al suicidio assistito. Queste ultime osservazioni sono, in sé, indiscutibili; e questa Corte è pienamente consapevole della intensa sofferenza e prostrazione sperimentata da chi, affetto da anni da patologie degenerative del sistema nervoso, e giunto ormai a uno stato avanzato della malattia, associato alla quasi totale immobilità e conseguente dipendenza dall’assistenza di terze persone per le necessità più basilari della vita quotidiana, viva questa situazione come intollerabile. Nondimeno, il requisito della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale – che pure rappresenta un unicum nell’orizzonte comparato, come esattamente sottolineato da taluni amici curiae – svolge, in assenza di un intervento legislativo, un ruolo cardine nella logica della soluzione adottata con l’ordinanza n. 207 del 2018, poi ripresa nella sentenza n. 242 del 2019. Come poc’anzi rammentato (supra, punto 6.2.), infatti, questa Corte non ha riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, ma ha soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti dal punto di vista della ratio adottata nelle due decisioni menzionate; sicché viene meno il presupposto stesso della censura di irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, formulata con riferimento all’art. 3 Cost. 7.2.– La seconda censura formulata dal rimettente prescinde dalla pretesa similitudine tra le due situazioni, e assume direttamente che il mancato riconoscimento di un diritto al suicidio assistito a pazienti che non siano «tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale» violi il diritto all’autodeterminazione del paziente, fondato sugli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost. Al riguardo, non è dubbio che dalle tre norme costituzionali menzionate discenda il diritto fondamentale del paziente di rifiutare qualsiasi trattamento medico, inclusi quelli necessari a garantirne la sopravvivenza (supra, punto 5.2.); diritto sul quale si fonda la valutazione di irragionevolezza del divieto di aiuto al suicidio prestato in favore di chi già abbia la possibilità di porre termine alla propria vita rifiutando un trattamento di sostegno vitale (supra, punto 6.2.). La questione ora formulata muove, tuttavia, da una nozione diversa, e più ampia, di “autodeterminazione terapeutica”. In effetti, il diritto a rifiutare il trattamento medico è nato e si è consolidato nella giurisprudenza italiana – costituzionale, civile e penale – da un lato come diritto al consenso informato del paziente rispetto alle proposte terapeutiche del medico; dall’altro, specularmente, come diritto a rifiutare le terapie medesime. Sotto quest’ultimo profilo, il diritto in questione è intimamente legato alla tutela della dimensione corporea della persona contro ogni ingerenza esterna non previamente consentita, e dunque – in definitiva – alla tutela dell’integrità fisica della persona. Esso si caratterizza, dunque, primariamente come libertà “negativa” del paziente a non subire interventi indesiderati sul corpo e nel corpo, anche laddove tali interventi abbiano lo scopo di tutelare la sua salute o la sua stessa vita. Strutturalmente differente è, invece, la situazione soggettiva invocata dall’ordinanza di rimessione, che questa Corte ha definito nella stessa ordinanza n. 207 del 2018 (punto 7 del Considerato in diritto) come «sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona». Questa Corte è consapevole che, successivamente all’ordinanza n. 207 del 2018 e alla sentenza n. 242 del 2019, le Corti costituzionali tedesca, austriaca e spagnola hanno tratto proprio dal diritto alla libera autodeterminazione nello sviluppo della propria personalità (fondato, rispettivamente, sull’art. 2 della Legge fondamentale tedesca, sull’art. 8 CEDU e sul combinato disposto degli artt. 10 e 15 della Costituzione spagnola), come pure dallo stesso mandato di tutela della dignità umana, l’esistenza di un diritto fondamentale a disporre della propria vita, anche attraverso l’aiuto di terzi (Tribunale costituzionale federale tedesco, sentenza 26 febbraio 2020, nelle cause riunite 2 BvR 2347/15, 2 BvR 2527/16, 2 BvR 2354/16, 2 BvR 1593/16, 2 BvR 1261/16, 2 BvR 651/16, paragrafi 208-213; Tribunale costituzionale austriaco, sentenza 11 dicembre 2020, in causa G 139/2019-71, paragrafi 73 e 74), o comunque un «diritto della persona alla propria morte in contesti eutanasici» (Tribunale costituzionale spagnolo, sentenza 22 marzo 2023, in causa 4057/2021, pagine da 73 a 78). Più in particolare, movendo dal riconoscimento di tale diritto fondamentale, le Corti tedesca e austriaca hanno concluso nel senso dell’illegittimità costituzionale delle disposizioni che, nei rispettivi ordinamenti, ponevano limiti all’assistenza al suicidio, ovvero la vietavano; mentre la corte spagnola ha ricavato dal diritto in parola un preciso fondamento costituzionale della disciplina legislativa recentemente adottata in quel Paese in materia di eutanasia e assistenza al suicidio di persone capaci di autodeterminarsi. Parimente, a questa Corte è noto che altre giurisdizioni nel mondo sono pervenute a risultati simili, sulla base di principi funzionalmente analoghi a quelli invocati dall’odierno rimettente (ad esempio, Corte costituzionale della Colombia, a partire dalla sentenza 20 maggio 1997, C-239/97; Corte suprema del Canada, sentenza 6 febbraio 2015, Carter contro Canada, 2015, CSC 5; nonché, da ultima, Corte costituzionale dell’Ecuador, sentenza 5 febbraio 2024, 67-23-IN/24). Questa Corte tuttavia – analogamente a quanto deciso dalla Corte EDU (sentenza Dániel Karsai contro Ungheria e, in precedenza, sentenza Pretty contro Regno Unito) e dalla Corte suprema del Regno Unito (sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri, KSC 38) – ritiene di dover pervenire a diverso risultato. Può, certo, convenirsi con il rimettente – e con le intervenienti nel presente giudizio – che la decisione su quando e come concludere la propria esistenza possa considerarsi inclusa tra quelle più significative nella vita di un individuo. Tuttavia, se è vero che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, essa crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost. (supra, punto 5.1.). I rischi in questione non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza, ma riguardano anche – come si è osservato (Corte suprema del Regno Unito, Nicklinson e altri, paragrafo 228) – la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una «pressione sociale indiretta» su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte. Al riguardo, occorre qui sottolineare come compito di questa Corte non sia quello di sostituirsi al legislatore nella individuazione del punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana, sua e dei terzi; bensì, soltanto, quello di fissare il limite minimo, costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi, restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare soluzioni che assicurino all’uno o all’altro una tutela più intensa. In quest’ottica, la sentenza n. 50 del 2022 ha individuato – rispetto alla contigua fattispecie dell’omicidio del consenziente – una soglia minima di tutela della vita umana, che si impone al legislatore, così come al potere referendario, e che si risolve nella insostenibilità costituzionale di una ipotetica disciplina che dovesse far dipendere dalla mera volontà dell’interessato la liceità di condotte che ne cagionino la morte, a prescindere dalle condizioni in cui il proposito è maturato, dalla qualità del soggetto attivo e dalle ragioni da cui questo è mosso, così come dalle forme di manifestazione del consenso e dai mezzi usati per provocare la morte. All’opposto, l’ordinanza n. 207 del 2018 e la successiva sentenza n. 242 del 2019 hanno ritenuto eccessiva, e pertanto costituzionalmente insostenibile, la compressione dell’autodeterminazione del paziente nella peculiare situazione descritta da tali pronunce, in cui questi avrebbe – comunque sia – la possibilità di porre termine alla propria vita rifiutando i trattamenti che ne assicurano la sopravvivenza, ovvero chiedendone l’interruzione. Nell’ambito della cornice fissata dalle pronunce menzionate, dovrà riconoscersi un significativo spazio alla discrezionalità del legislatore, al quale spetta primariamente il compito di offrire una tutela equilibrata a tutti i diritti di pazienti che versino in situazioni di intensa sofferenza. Il che esclude possa ravvisarsi, nella situazione normativa attuale, una violazione del loro diritto all’autodeterminazione. Ciò fermo restando, in ogni caso, il dovere della Repubblica – in forza degli artt. 2, 3, secondo comma, e 32 Cost., oltre che dell’art. 2 CEDU – di assicurare a questi pazienti tutte le terapie appropriate, incluse quelle necessarie a eliminare o, almeno, a ridurre a proporzioni tollerabili le sofferenze determinate dalle patologie di cui sono affetti; e assieme il dovere di assicurare loro ogni sostegno di natura assistenziale, economica, sociale, psicologica. Non coglie, per altro verso, nel segno l’assunto del giudice a quo – questo sì pertinente alla libertà di autodeterminazione nella scelta delle terapie – stando al quale il requisito oggetto di censura condizionerebbe l’esercizio di tale libertà «in modo perverso», inducendo il malato ad accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale, magari anche fortemente invasivi, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di creare le condizioni per l’accesso al suicidio assistito (il che – secondo le parti costituite – finirebbe per trasformare il presidio a sostegno delle funzioni vitali in una sorta di trattamento sanitario obbligatorio). In senso contrario, va rilevato che, per quanto osservato in precedenza (supra, punto 5.2.), il diritto fondamentale scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., di fronte al quale questa Corte ha ritenuto non giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio, comprende anche – prima ancora del diritto a interrompere i trattamenti sanitari in corso, benché necessari alla sopravvivenza – quello di rifiutare ab origine l’attivazione dei trattamenti stessi. Dal punto di vista costituzionale, non vi può essere, dunque, distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti, in base a valutazione medica, dell’attivazione di simili trattamenti, che però può rifiutare: nell’uno e nell’altro caso, la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria (art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017) riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi. Non c’è dubbio, pertanto, che i principi affermati nella sentenza n. 242 del 2019 valgano per entrambe le ipotesi. Sarebbe, del resto, paradossale che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito. 7.3.– La terza censura assume la contrarietà al principio di tutela della dignità umana di una situazione normativa che vieti, sotto minaccia di pena, di prestare assistenza a pazienti che chiedano di morire in presenza di tutte le condizioni indicate nella sentenza n. 242 del 2019, salva la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. A parere del rimettente, ciò finirebbe per costringere il paziente a un lento processo di morte, quanto meno sino al momento in cui si renda in concreto necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale, con modalità che egli ben potrebbe considerare non conformi alla propria concezione di dignità, nel vivere e nel morire. Al riguardo, occorre subito sottolineare che, dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga. Sicché, come sottolineato anche da vari amici curiae, certamente non potrebbe affermarsi che il divieto penalmente sanzionato di cui all’art. 580 cod. pen. costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, “non degna” di essere vissuta. Altro discorso vale, però, per la nozione “soggettiva” di dignità evocata dall’ordinanza di rimessione: nozione che si connette alla concezione che il paziente ha della propria persona e al suo interesse a lasciare una certa immagine di sé. Ora, questa Corte non è affatto insensibile alla nozione “soggettiva” di dignità, come dimostrano i passaggi dell’ordinanza n. 207 del 2018 in cui proprio alla valutazione soggettiva del paziente sulla “dignità” del proprio vivere e del proprio morire si fa inequivoco riferimento (punti 8 e 9 del Considerato in diritto). Tuttavia, non può non rilevarsi che questa nozione di dignità finisce in effetti per coincidere con quella di autodeterminazione della persona, la quale a sua volta evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte. Rispetto a tale nozione, non possono non valere le considerazioni già svolte, circa la sua necessaria sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana; bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre, ad avviso di questa Corte, di un significativo margine di apprezzamento. 7.4.– Infine, il giudice a quo lamenta, con la quarta censura, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per il tramite degli artt. 8 e 14 CEDU. A suo avviso, la preclusione all’accesso al suicidio assistito di pazienti non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, ma capaci di decidere e affetti da patologie irreversibili che li espongono a sofferenze intollerabili, lederebbe il loro diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, secondo l’accezione fornitane dalla giurisprudenza di Strasburgo. D’altra parte, l’avvenuto riconoscimento, ad opera di questa Corte, di una limitata area di liceità del suicidio assistito creerebbe, relativamente ai pazienti in questione, una discriminazione nel godimento di un diritto riconosciuto dalla Convenzione, in violazione dell’art. 14 CEDU. Al riguardo, la Corte EDU ha in effetti affermato che «il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà» costituisce «uno degli aspetti del diritto al rispetto della propria vita privata» (Corte EDU, sentenza 20 gennaio 2011, Haas contro Svizzera, paragrafo 51; nello stesso senso, in precedenza, sentenza Pretty contro Regno Unito, paragrafo 67). In una recentissima pronuncia, la medesima Corte ha ribadito che una disciplina che vieti, sotto minaccia di pena, l’assistenza al suicidio di un paziente, necessariamente interferisce con il diritto di quest’ultimo al rispetto della propria vita privata (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai contro Ungheria, paragrafo 135). Tuttavia, in questa stessa pronuncia la Corte EDU ha ribadito che gli Stati parte – anche in considerazione dell’assenza di un sufficiente consenso in materia tra i vari ordinamenti dei Paesi del Consiglio d’Europa – dispongono di un «considerevole margine di apprezzamento» (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 144; analogamente, sentenza Mortier contro Belgio, paragrafo 143; sentenza Haas, paragrafo 55) in ordine al bilanciamento tra tale diritto e gli interessi tutelati da simili incriminazioni, e segnatamente le ragioni di tutela della vita umana. Tale bilanciamento può legittimamente condurre gli Stati, tanto a mantenere politiche restrittive, quanto alla regolamentazione di forme di assistenza al suicidio o di eutanasia, senza che quest’ultima opzione debba ritenersi preclusa dagli obblighi di tutela della vita umana discendenti dall’art. 2 CEDU (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 145). La Corte EDU ha evidenziato la difficoltà di accertare che la decisione del paziente di accedere al suicidio assistito sia realmente autonoma, libera da influenze esterne e da preoccupazioni cui si dovrebbe fornire una diversa risposta; e ha sottolineato come l’accertamento della genuinità della richiesta del paziente divenga particolarmente difficoltoso in situazioni cliniche, come le patologie neurodegenerative, in cui i pazienti, in stati avanzati della malattia, possono perdere la stessa capacità di comunicare (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 151). A fronte di tutto ciò, la Corte EDU ha concluso che spetta ai singoli Stati valutare le vaste implicazioni sociali e i rischi di abuso e di errore che ogni legalizzazione delle procedure di suicidio medicalmente assistito inevitabilmente comporta (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 152). Questa Corte non ravvisa ragioni per discostarsi, nella lettura dell’art. 8 CEDU, dalla Corte di Strasburgo, che è (come riconosciuto da questa Corte già con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, rispettivamente ai punti 4.6. e 6.2. del Considerato in diritto) interprete ultima delle previsioni convenzionali, ai sensi degli artt. 19 e 32 CEDU. Una tale soluzione, d’altra parte, collima esattamente con quella cui questa Corte è pervenuta in merito alla censura relativa al principio di autodeterminazione nella sua declinazione “interna”, con riferimento in particolare all’art. 2 Cost. (supra, punto 7.2.). Né, infine, può essere ravvisato un contrasto con il divieto di discriminazione ai sensi dell’art. 14 CEDU. Per le medesime ragioni già illustrate a proposito della censura formulata in riferimento all’art. 3 Cost. (supra, punto 7.1.), non può infatti ritenersi irragionevole la limitazione della liceità dell’aiuto al suicidio ai soli pazienti che abbiano già la possibilità, in forza del diritto costituzionale, di porre fine alla loro esistenza rifiutando i trattamenti di sostegno vitale. 8.– Tutto ciò posto, va precisato – a fronte della varietà delle interpretazioni offerte nella prassi, sulla quale hanno insistito i difensori delle parti e degli intervenienti, nonché vari amici curiae – che la nozione di «trattamenti di sostegno vitale» utilizzata da questa Corte nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019 deve essere interpretata, dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni, in conformità alla ratio di quelle decisioni. Come si è più volte rammentato (supra, punti 6.2. e 7.1.), il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente. Nella misura in cui tali procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019. Tutte queste procedure – proprio come l’idratazione, l’alimentazione o la ventilazione artificiali, nelle loro varie modalità di esecuzione – possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già, per tal via, il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte, in conseguenza di questo rifiuto. In tal caso, il paziente si trova nella situazione contemplata dalla sentenza n. 242 del 2019, risultando pertanto irragionevole che il divieto penalmente sanzionato di assistenza al suicidio nei suoi confronti possa continuare ad operare. D’altra parte, a fugare i timori di progressiva incontrollata estensione dei presupposti del suicidio assistito paventati dalla difesa statale e da taluni amici curiae, deve essere ribadito come l’accertamento della condizione della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, nel senso ora precisato, debba essere condotto, unitariamente, assieme a quello di tutti gli altri requisiti fissati dalla sentenza n. 242 del 2019. Di cruciale rilievo appare, in questo contesto, non solo l’esistenza di una patologia incurabile e la permanenza di condizioni di piena capacità del paziente – evidentemente incompatibili con una sua eventuale patologia psichiatrica –, ma anche la presenza di sofferenze intollerabili (e non controllabili attraverso appropriate terapie palliative), di natura fisica o comunque derivanti dalla situazione complessiva di intensa “sofferenza esistenziale” che si può presentare, in particolare, negli stati avanzati delle patologie neurodegenerative (sul tema, Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 47). Sofferenza, quest’ultima, che peraltro può risultare refrattaria a qualsiasi terapia palliativa, non potendosi considerare la sedazione continua profonda come un’alternativa praticabile rispetto a pazienti che non versino ancora in condizioni terminali, o che, comunque sia, rifiutino tale trattamento (sul punto, Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafi 39 e 157). 9.– Deve, inoltre, essere qui riaffermata la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019, che questa Corte ha giudicato essenziali per prevenire quel pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili che l’aveva indotta, nell’ordinanza n. 207 del 2018, a sollecitare prioritariamente l’intervento del legislatore. Queste condizioni sono inserite nel quadro della “procedura medicalizzata” di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, entro la quale deve essere necessariamente assicurato al paziente l’accesso alle terapie palliative appropriate ai sensi del successivo art. 2. Tale procedura prevede il necessario coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale, al quale è affidato il delicato compito di accertare la sussistenza delle condizioni sostanziali di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito, oltre che di «verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze» (sentenza n. 242 del 2019, punto 5 del Considerato in diritto). Inoltre, in attesa di un organico intervento del legislatore, la sentenza n. 242 del 2019 richiede il necessario parere del comitato etico territorialmente competente. In ogni caso, deve escludersi che la clausola di equivalenza, stabilita nel dispositivo della sentenza n. 242 del 2019 con riferimento ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale, possa estendersi a fatti commessi successivamente – in Italia o all’estero –, ai quali si applicano invece i requisiti procedurali stabiliti dalla sentenza; fermo restando che l’eventuale mancata autorizzazione alla procedura, da parte delle strutture del servizio sanitario pubblico, ben potrà essere impugnata di fronte al giudice competente, secondo le regole ordinarie. Resta naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del delitto, compreso l’elemento soggettivo. 10.– Infine, questa Corte non può che ribadire con forza l’auspicio, già formulato nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati da quelle pronunce, oggi ribaditi e ulteriormente precisati dalla presente decisione, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi richiamati dalla presente pronuncia. Parimente, deve essere confermato lo stringente appello, già contenuto nella sentenza n. 242 del 2019 (punto 2.4. del Considerato in diritto), affinché, sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010, sul cui integrale rispetto giustamente insiste l’Avvocatura generale dello Stato. Come sottolineato da questa Corte sin dall’ordinanza n. 207 del 2018, occorre infatti in ogni caso assicurare, anche attraverso la previsione delle necessarie coperture dei fabbisogni finanziari, che «l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza – in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010 – sì da porlo in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza». per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° luglio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Franco MODUGNO, Francesco VIGANÒ, Redattori Igor DI BERNARDINI, Cancelliere Allegato: Ordinanza letta all'udienza del 19 giugno 2024 ORDINANZA Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 580 del codice penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze, con ordinanza del 17 gennaio 2024, iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2024. Rilevato che, il 29 marzo 2024, hanno depositato atto di intervento L. S. e M. O., deducendo di essere a ciò legittimate in ragione della loro richiesta di verifica delle condizioni di accesso al suicidio assistito, respinta, allo stato, dalle Aziende sanitarie locali interpellate; che nella discussione orale la difesa delle intervenienti ha, in particolare, sostenuto che esse non avrebbero altra sede processuale per far valere l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata, dal momento che la loro posizione non è quella di potenziali imputate in procedimenti penali nei quali potrebbe essere applicato l'art. 580 cod. pen., bensì quella di persone che chiedono di essere aiutate ad accedere a una procedura di suicidio assistito, che oggi sarebbe loro preclusa dalla disposizione censurata; che la difesa delle intervenienti ha, altresì, sottolineato che, in considerazione delle condizioni patologiche di cui soffrono le medesime, la presente sede giudiziaria sarebbe la sola in cui esse potrebbero far valere i loro argomenti a sostegno dell'illegittimità costituzionale dell'art. 580 cod. pen. Considerato che L. S. e M. O. non sono parti del giudizio principale; che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze allegate alle sentenze n. 39 del 2024, n. 130 del 2023 e n. 158 del 2020), la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale); che, in questo ambito, l'intervento di soggetti estranei al giudizio principale è ammissibile soltanto quando si tratti di terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (art. 4, comma 3, delle Norme integrative) e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura (ex plurimis, ordinanze allegate alle sentenze n. 39 e n. 22 del 2024, n. 206 del 2019); che l'intervento è, quindi, normalmente ammissibile solo nell'ipotesi in cui l'incidenza sulla posizione soggettiva dell'interveniente non derivi, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla norma censurata, dalla pronuncia sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma sia conseguenza immediata e diretta dell'effetto che la pronuncia di questa Corte produrrebbe sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo (ex plurimis, ordinanze allegate alle sentenze n. 22 del 2024, n. 130 del 2023 e n. 210 del 2021); che tuttavia, a prescindere qui dalla questione se sia possibile per le intervenienti eccepire in altra sede giudiziaria l'illegittimità costituzionale dell'art. 580 cod. pen., non possono non tenersi presenti le argomentazioni della difesa delle stesse, secondo cui l'evoluzione delle rispettive patologie rischierebbe di non consentire loro, in pratica, di far valere in tempo utile le proprie ragioni; che questa Corte, in una questione che coinvolge la vita stessa delle intervenienti, è in particolar modo tenuta ad assicurare tutela al diritto di difesa nella sua essenziale dimensione di effettività (sentenza n. 111 del 2023, punto 3.5.2. del Considerato in diritto, e altri precedenti ivi richiamati); che, pertanto, L. S. e M. O. sono legittimate a partecipare al presente giudizio. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara ammissibili gli interventi di L. S. e M. O.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. BELLINI Ugo - Consigliere Dott. PEZZELLA Vincenzo - Relatore Dott. DAWAN Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Gu.Ma. nato a R il (omissis) avverso l'ordinanza del 29/09/2023 del TRIB. LIBERTA' di RAVENNA udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO PEZZELLA; lette le conclusioni scritte del PG in persona del Sostituto Proc. Gen. FRANCESCA CERONI, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso e dell'Avv. Cl. Ma. per il ricorrente che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Come ricorda il provvedimento impugnato, il procedimento penale in esame prende le mosse dall'attività di indagine svolta dalla Polizia Locale di Ravenna a seguito del decesso del cane di razza Labrador "B.", provocata per mezzo di eutanasia dal veterinario curante, Gu.Ma., odierno ricorrente, per volere dei proprietari, procedura attuata, secondo la prospettazione accusatoria, senza apposita visita che abbia certificato la ricorrenza delle condizioni di legge ed in assenza di certificazione medica conseguente. Ne nasceva una copiosa attività investigativa nei confronti dell'odierno imputato per fatti inerenti l'attività professionale svolta nonché per illeciti ulteriori, segnatamente: reati contro il sentimento degli animali (capi da 1 a 5 e da 22 a 26 dell'incolpazione provvisoria), reati di falso, somministrazione di medicinali scaduti, esercizio abusivo della professione, ricettazione, reati in materia di illecita gestione di rifiuti, stupefacenti, illecita conservazione di alimenti e reati fiscali. Su richiesta del Pubblico Ministero, con decreto del 3/5/2021 il G.I.P. del Tribunale di Ravenna disponeva sequestro preventivo dell'ambulatorio veterinario in cui l'imputato esercita attività medico-veterinaria e di quanto in esso contenuto, nonché della stanza per la preparazione del miele e della propoli e dei relativi prodotti. La misura ablatoria veniva disposta con funzione impeditiva, sul presupposto che l'ambulatorio e l'attrezzatura ivi presente siano legati da un vincolo di stretta pertinenzialità con i reati contestati e che la libera disponibilità delle res comporti un concreto ed attuale pericolo di aggravamento di illeciti già commessi oltre che di commissione di nuovi. La Difesa del Gu.Ma. formulava istanza di riesame, articolando in apposita memoria depositata a sostegno della richiesta vari motivi: 1. carenza del fumus commissi delieti in relazione alle ipotesi di reato formulate dalla Pubblica Accusa; 2. inesistenza del periculum in mora; 3 difetto di proporzionalità fra beni sottoposti a vincolo e condotte contestate. Sull'istanza di riesame si pronunciava con una prima ordinanza del 26/5/2021 il Tribunale di Ravenna, evidenziando la sussistenza del fumus in relazione a tutte le ipotesi in contestazione. In particolare, riteneva che le accuse di uccisione e maltrattamenti di animali, consistiti illecite caudotomie o in sottoposizione ad interventi chirurgici in assenza di anestesia, trovavano, ad avviso del Tribunale, riscontro negli esiti delle attività investigative di perquisizione e sequestro, nelle analisi dei registri di carico e scarico dei medicinali e delle agende, nella verifica dei tabulati telefonici, nelle dichiarazioni rese dai proprietari degli animali. Parimenti, veniva riscontrata la sussistenza in termini di gravità indiziaria delle ulteriori condotte in contestazione, quali le imputazione di falso (risultanti in maniera eclatante dall'esame del documenti attenzionati), di anomala tenuta dei registri di carico e scarico di medicina)i e stupefacenti, di cessione onerosa di farmaci autoprodotti (confezionati in una boccetta priva di marca riportante la dicitura "filaria 1 mi per 20 kg" a base di farmaco notoriamente utilizzato per la profilassi della filaria di animali di grande taglia e destinato ai cani-pazienti), di "sconfezionamento" e ridosaggio di farmaci, di gestione illecita dei rifiuti proventi dall'attività medico-veterinaria espletata. Nondimeno, pur a fronte della riconosciuta sussistenza del fumus commissi delicti in relazione a tutte le condotte contestate, il primo Tribunale rilevava un difetto di proporzionalità fra la misura ablatoria e gli illeciti ipotizzati, non condividendo la valutazione del giudice della misura in ordine all'indissolubile relazione di strumentalità fra i reati ed il bene sequestrato. In tal senso, infatti, soltanto alcuni specifici addebiti (gli episodi di maltrattamento e soppressione di animali) esprimerebbero una relazione funzionale diretta con l'attività professionale svolta, mentre altri apparirebbero correlati a segmenti circoscritti di attività che non involgono l'intera attività professionale (falsi, detenzione di farmaci scaduti, abusivo esercizio della professione farmaceutica, illecito smaltimento di rifiuti, irregolare tenuta del registro in materia di stupefacenti) o addirittura che ne risultano del tutto estranei (esercizio abusivo dell'apicultura, detenzione per la vendita di alimenti in cattivo stato di conservazione). Il Tribunale del riesame evidenziava, peraltro, come la parte preponderante dell'attività professionale, svolta presso il compendio interessato dal sequestro, non era connotata da profili di illiceità penale, con conseguente esclusione di un vincolo di stabile asservimento del complesso aziendale sequestrato ad attività contra legem. Concludeva, pertanto, sostenendo l'esuberanza del sequestro dell'intero ambulatorio rispetto allo scopo perseguito, che in ragione dei riscontrati pericoli di reiterazione ben poteva essere cautelato attraverso presidi più circoscritti, come il sequestro di singoli macchinari o beni strumentali (ad esempio i medicinali, invero già coperti dal vincolo amatorio) ovvero mediante l'applicazione di misure personali di tipo interdittivo. Confermava, per il resto, il provvedimento del G.I.P. limitatamente al sequestro della stanza di preparazione del miele e della propoli nonché dei prodotti cosi ottenuti, in ragione della riscontrata esistenza di un duraturo e non occasionale asservimento delle res alla commissione dei reati in parola. La Terza Sezione Penale di questa Corte, a seguito di ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna, con la sentenza n. 1345/2022 del 16/11/2021, annullava l'ordinanza impugnata rinviando per nuovo giudizio al Tribunale di Ravenna competente ai sensi dell'articolo 324, comma 5, cod. proc. pen. Il Tribunale di Ravenna, in sede di rinvio, con ordinanza del 29/9/2023 ha rigettato l'istanza di riesame proposta dal ricorrente confermando il decreto di sequestro. 2. Ricorre Gu.Ma., a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.: a. Violazione dell'art. 125, Comma 3, cod. proc. pen. per violazione dell'obbligo di motivare sulle misure di contrasto al rischio recidivante ed illegittima rivalutazione della proporzionalità e adeguatezza del sequestro tombale. Si lamenta la violazione dell'obbligo di uniformarsi alla sentenza di annullamento della Corte di cassazione, che, ad avviso del ricorrente, nel provvedimento di parziale annullamento, aveva ravvisato l'esistenza di una lacuna argomentativa nella motivazione resa dal tribunale del riesame laddove non venivano specificati gli strumenti di tutela da adottare per soddisfare le esigenze di cui all'articolo 321 cod. proc. pen., soltanto per quei reati in relazione ai quali era stato ravvisato un chiaro collegamento funzionale con la professione e con l'immobile, individuati esclusivamente nelle fattispecie di uccisione e maltrattamento di animali. L'ordinanza oggi impugnata, invece, ritiene di valutare l'adeguatezza e la proporzione della misura adottata rispetto agli illeciti contestati e al pericolo di reiterazione, mentre, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto esclusivamente meglio motivare sugli strumenti da adottare per evitare il rischio di recidiva, a fronte dell'irrevocabilità della statuizione dì dissequestro dell'intero ambulatorio, stante la già avvenuta e non revocabile valutazione di sproporzionalità ed esuberanza dell'originario sequestro. In sostanza l'impugnata ordinanza sarebbe incorsa in violazione di legge, violando l'obbligo di motivare nella cornice della non revocabile statuizione dì sproporzione e inadeguatezza del sequestro tombale. b. Violazione dell'art. 125, comma 3, cod. proc. pen. per asserita impossibilità di indicare misure di contrasto al rischio di recidiva, nonché motivazione mancante. Ci si duole che la motivazione dell'impugnato provvedimento sia meramente apparente, o comunque priva dei requisiti minimi, laddove esclude la possibilità di colmare la lacuna motivazionale denunciata nella sentenza di annullamento e non vede altro modo di soddisfare le esigenze cautelari se non con l'apposizione di un vincolo sull'intero immobile e sui beni che ne fanno parte. Il ricorrente evidenzia l'esistenza di una valida alternativa con una sorta di dissequestro condizionato all'espletamento di obblighi certificatori per ogni trattamento veterinario espletato. c. Violazione dell'art. 125, comma 3, cod. proc. pen. e motivazione apparente sui fatti nuovi favorevoli all'imputato, ma letti come conferma del rischio recidivante. Ci si duole della motivazione apparente dell'impugnata ordinanza laddove afferma "l'impossibilità di rimettere in discussione i profili legittimanti l'applicazione della misura, confermati dalla prima ordinanza del riesame e coperti dal giudicato cautelare a seguito della pronuncia della Cassazione". Il ricorrente ritiene che la presenza di fatti nuovi consenta la rivalutazione del periculum, in particolare modo a seguito del notevole decorso di tempo dai fatti contestati, e richiama sul punto la sentenza di questa Corte n. 13569/2014. Si aggiunge che, in ogni caso, il tribunale del riesame avrebbe avuto l'obbligo di verificare l'attualità del pericolo che la libera disponibilità del bene possa, oggi, aggravare o protrarre le conseguenze del reato o favorire la consumazione di ulteriori reati. Si definisce incoerente e irragionevole la motivazione dell'ordinanza impugnata nella parte in cui nega la presenza di fatti nuovi favorevoli, qualificandoli piuttosto come riscontri al rischio recidivante. Il tribunale avrebbe dedotto la persistenza delle condotte da parte del Gu.Ma. anche successivamente alle contestazioni, da deduzioni congetturali rese dal CTU Rossi e dal S.O.A.R.D.A. sul presunto elevato numero di eutanasie nel 2021. Tali affermazioni congetturali sarebbero basate su un ipotetico raffronto tra il numero di ricette del farmaco (...) utilizzato e le soppressioni di animali dichiarate, in base al quale si presumerebbe l'effettuazione di un numero di eutanasie esorbitante. Chiede pertanto che questa Corte annulli con rinvio l'ordinanza impugnata. 3. Nei termini di legge le parti hanno rassegnato le proprie conclusioni scritte per l'udienza senza discussione orale (art. 23 co. 8 d.l. 137/2020 e succ. modif.), come riportato in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente infondati e pertanto il proposto ricorso va dichiarato inammissibile. Per contro, il provvedimento impugnato appare contrassegnato da motivazione che, secondo il perimetro di cognizione del giudice di legittimità in sede di cautela reale, contiene l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l'assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (anche con riferimento alla puntuale analisi delle specifiche doglianze difensive), oltre ad essere corretto in diritto. 2. In premessa, va ricordato che l'art. 325 cod. proc. pen. prevede contro le ordinanze in materia di appello e di riesame di misure cautelari reali che il ricorso per cassazione possa essere proposto per sola violazione di legge. E' vero che la giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, ha più volte ribadito, tuttavia, come in tale nozione debbano ricomprendersi sia gli "errores in iudicando" o "in procedendo", sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice vedasi Sez. U. n. 25932 del 29/5/2008, Ivanov, Rv. 239692; conf. Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093; Sez. 3, n. 4919 del 14/07/2016, Faiella, Rv. 269296). Ed è stato anche precisato che è ammissibile il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l'"iter" logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (così Sez. 6, n. 6589 del 10/1/2013, Gabriele, Rv. 254893 nel giudicare una fattispecie in cui la Corte ha annullato il provvedimento impugnato che, in ordine a contestazioni per i reati previsti dagli artt. 416, 323, 476, 483 e 353 cod. pen. con riguardo all'affidamento di incarichi di progettazione e direzione di lavori pubblici, non aveva specificato le violazioni riscontrate, ma aveva fatto ricorso ad espressioni ambigue, le quali, anche alla luce di quanto prospettato dalla difesa in sede di riesame, non erano idonee ad escludere che si fosse trattato di mere irregolarità amministrative). Di fronte all'assenza, formale o sostanziale, di una motivazione, atteso l'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, viene dunque a mancare un elemento essenziale dell'atto. Tuttavia, come si evidenzierà di qui a seguire, non è questo il caso del provvedimento impugnato. E, per contro, il ricorso propone una serie di vizi di motivazione non scrutinabili in questa sede di legittimità. 3. Va rilevato -e da qui la manifesta infondatezza del terzo motivo di ricorso - che il Tribunale del Riesame di Ravenna in sede di rinvio ha correttamente delimitato a pag. 5 dell'ordinanza impugnata il proprio perimetro decisorio, tenendo conto di essere vincolato dalle statuizioni coperte dal giudicato cautelare formatosi a seguito della pronuncia rescindente. Conferentemente è stato evocato il principio di diritto secondo cui, quanto alle questioni in diritto il giudice del rinvio ha l'obbligo di uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per quanto riguarda ogni questione di diritto con essa decisa, anche quando, a seguito di tale decisione, sia intervenuto un mutamento di giurisprudenza, fatti salvi i casi in cui una sentenza della Corte di Giustizia Europea abbia riconosciuto l'incompatibilità con il diritto comunitario della norma nazionale ovvero sia stata dichiarata l'illegittimità costituzionale, con efficacia ex tunc, di una norma sulla cui base era stato affermato il principio di diritto, dovendo il giudice del rinvio riconsiderare la questione alla luce della reviviscenza del trattamento sanzionatorio previgente (il richiamo è a Sez. 3 n. 15744/2019). Allo stesso modo, quanto agli elementi in fatto, viene correttamente ricordato che il giudice del rinvio può prendere in considerazione elementi sopravvenuti dopo l'emissione (o il diniego di emissione) della misura cautelare, ma tale potere è condizionato oltre che dalle valutazioni espresse dalla Corte di legittimità nel giudizio rescindente, dalla esigenza che i fatti nuovi posti a base del rinnovato appello incidano sull'originaria legittimità del titolo cautelare trovando, in caso contrario, la loro naturale rilevanza nell'ambito di una autonoma richiesta di revoca o di modifica della misura cautelare (cfr. Sez. 2, n. 22015 del 13/02/2019, Ricucci, Rv. 276652 - 01; conf. Sez. 6, n. 2527 del 06/11/2003, dep. 2004, Zorzi, Rv. 227894 - 01). Applicando le ricordate coordinate al caso di specie, per i giudici ravennati ne discende correttamente l'impossibilità di rimettere in discussione i profili legittimanti l'applicazione della misura, ossia il fumus di esistenza degli illeciti contestati ed il periculum di reiterazione degli stessi, trattandosi di aspetti già vagliati dal giudice della misura, confermati dalla prima ordinanza del riesame e coperti da giudicato cautelare a seguito della pronuncia della Cassazione. Nella sentenza rescindente, infatti, si legge (par. 6 e 7 in Diritto - pag. 3) che "il Tribunale del riesame ha confermato il fumus boni iuris con riguardo a tutte le condotte contestate al Gu.Ma." ed "ha riconosciuto anche il periculum in mora, evidenziando che la libera disponibilità dei beni in cautela poteva aggravare o protrarre le conseguente dei reati contestati o agevolare la commissione di altri reati". Dunque, la sussistenza degli elementi costitutivi del rimedio cautelare era stata già ampiamente vagliata e non poteva più essere posta in dubbio, se non nel limite della valutazione di fatti nuovi sopra riportata. E in tale limite i giudici ravennati hanno ritenuto che non potesse assumere rilievo, nel senso di attenuare o elidere il pericolo di reiterazione del reato, il recente provvedimento disciplinare che ha disposto la radiazione del Gu.Ma. dall'Albo dei veterinari, trattandosi di decisione, allo stato, non esecutiva e, comunque, la cui verificazione non è idonea ad incidere sulla "originaria legittimità del titolo cautelare" (cfr. le richiamate Sez. 2, n. 8854/2016 e Sez. 2, n. 22015/2019). Ciò dovendosi, peraltro, tenere conto, come si legge ancora nell'ordinanza impugnata, che - come correttamente evidenziato nei precedenti gradi di giudizio - soltanto alcuni dei reati in contestazione appaiono essere la proiezione illecita dell'attività professionale svolta, mentre altri hanno trovato in questa soltanto l'occasione di realizzazione ed altri ancora risultano del tutto estranei all'attività professionale esercitata. La logica conclusione sul punto dei giudici ravennati è, dunque, che la revoca del titolo abilitativo sarebbe idonea, se e allorquando divenga definitiva, ad inibire il pericolo di reiterazione degli illeciti strettamente connessi alla professione, non già anche di tutti gli ulteriori illeciti che presentano una connessione funzionale con i beni in sequestro (ambulatorio e materiali), piuttosto che con l'attività in sé di medico veterinario. Dunque, correttamente il raggio di intervento del Tribunale è stato ritenuto essere quello di valutare se la misura applicata dal G.I.P. risulti adeguata rispetto al suo scopo e proporzionata rispetto agli illeciti in contestazione ed ai pericula di reiterazione. E, diversamente da quanto si opina in ricorso, non corrisponda al vero che vi sia stata una non revocabile statuizione di dissequestro dell'intero ambulatorio veterinario per sproporzionalità ed esuberanza dell'originario sequestro. Il precedente giudice di legittimità, investito della decisione dal ricorso della Procura, ha evidenziato una lacuna motivazionale nel precedente provvedimento del tribunale del riesame, rilevando che i giudici del gravame cautelare: "avrebbero dovuto specificare in quale altro modo la riconosciuta esigenza cautelare potesse esser soddisfatta, se non con il sequestro dell'intero ambulatorio; specie, peraltro, considerando che - come già chiarito - l'ordinanza non ha mai sostenuto che determinate parti dello stesso bene fossero risultate estranee alla commissione dei reati (così da poter esser eventualmente liberate), ma - diversamente -che determinati illeciti fossero estranei all'attività professionale. In altri termini, se per alcuni reati è stato ravvisato un chiaro collegamento funzionale con la professione, e quindi con l'immobile, per altri lo stesso collegamento è stato escluso, non venendo dunque coinvolto il bene, in alcuna misura; con riguardo ai primi, dunque, l'ordinanza avrebbe dovuto specificare gli strumenti di tutela da approntare per soddisfare le esigenze di cui all'art. 321 cod. proc. pen. (ad esempio, qualora possibile, un vincolo parziale sul bene)" (così par. 11 in Diritto, pag. 4). Orbene, il Tribunale di Ravenna ha seguito un percorso motivazionale del tutto coerente nel rispondere al compito demandatogli dal giudice rescindente, e certo non può dirsi che abbia risposto con una motivazione apparente, laddove ha dato atto che, assodata la sussistenza del fumus e del periculum dichiarata nell'ordinanza annullata e confermata nella sentenza rescindente, l'unica misura cautelare possibile sia quella applicata dal GIP. 4. Il ricorrente richiama il condivisibile dictum di Sez. 6, n. 222 del 25/10/2023, Ricci, non mass, che rileva come: "Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il principio di proporzionalità, sancito, anche in riferimento alle misure cautelari reali, dell'art. 275 cod. proc. pen. (ex plurimis: Sez. 2, n. 29687 del 28/05/2019, Frontino, Rv. 276979; Sez. 3., n. 21271 del 07/05/2014, Konovalov, Rv. 261509-01) e a livello sovranazionale dalle fonti del diritto dell'Unione (art. 5, par. 3 e 4, TUE, art. 49, par. 3, e art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali) e dagli artt. 7 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, così come interpretata dalla Corte Edu, assolve "ad una funzione strumentale per un'adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, e ad una funzione finalistica, come parametro per verificare la giustizia della soluzione presa nel caso concreto" (ex plurimis, Sez. 4, n. 29956 del 14/10/2020, Valentino, Rv. 279716 a-01; Sez. 6, n. 9776 del 12/02/2020, Morfù, non massimata). Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, inoltre statuito che "ogni misura cautelare, per dirsi proporzionata all'obiettivo da perseguire, dovrebbe richiedere che ogni interferenza con il pacifico godimento dei beni trovi un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco (Corte Edu 13 ottobre 2015, Unsped Paket Servisi SaN. Ve TIC. A. S. c. Bulgaria)". Dunque, solo valorizzando l'onere della motivazione è possibile, come sottolineato dalla più attenta dottrina, tenere "sotto controllo" l'intervento penale quanto al rapporto con le libertà fondamentali ed i beni costituzionalmente protetti quali la proprietà e la libera iniziativa economica privata, riconosciuti dall'art. 42 Cost. e dall'art. I del Primo protocollo addizionale alla Convenzione Edu, come interpretato dalla Corte Edu......" (così testualmente Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548, in motivazione). La proporzionalità della misura cautelare costituisce, dunque, oggetto di una ineludibile valutazione preventiva da parte del giudice della cautela reale affinché non comporti un'ingerenza nell'esercizio dei diritti fondamentali più incisiva rispetto a quella strettamente funzionale a tutelare le esigenze cautelari da soddisfare nel caso di specie" (così pagg. 3-4 della motivazione). Tuttavia, è lo stesso provvedimento impugnato che ricorda come, in linea generale, i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, dettati dall'art. 275 cod. proc. pen. per le misure cautelari personali, devono ritenersi pacificamente applicabili anche alle misure cautelari reali, imponendo al giudice di motivare adeguatamente sull'impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva (e si richiama sul punto Sez. 6 n. 1646/2023). I giudici ravennati ricordano che, con l'ordinanza annullata, il tribunale aveva riscontrato una sproporzione fra le pur ravvisate esigenze cautelari e l'apposizione del vincolo sull'intero ambulatorio veterinario, sostenendo che non si potesse ritenere la struttura integralmente asservita alle attività delittuose, in quanto alcuni addebiti risulterebbero episodici, altri atterrebbero a "singoli segmenti di attività che non involgono in toto l'intera attività professionale", altri ancora "sarebbero estranei alla stessa attività". Sicché, pur riconoscendo che molti dei reati contestati al Gu.Ma. coinvolgevano in via diretta l'attività professionale di veterinario, svolta esclusivamente nell'ambulatorio, il precedente Collegio aveva, tuttavia, eliminato il vincolo sullo stesso bene sul presupposto che altre condotte illecite, parimenti riscontrate per fumus e periculum, non presentavano invece alcun collegamento con la professione e, dunque, con l'immobile sequestrato, così da renderne sproporzionato l'integrale vincolo. 5. Orbene, con congrua e logica motivazione, nel solco di quanto richiesto nella sentenza rescindente il giudice del rinvio si è confrontato con le precedenti pronunce, pervenendo al contrario avviso, rispetto al precedente Tribunale del riesame che, a fronte della riscontrata sussistenza degli elementi costitutivi della cautela per tutte le ipotesi di reato in contestazione, l'unica misura cautelare possibile sia proprio quella applicata dal G.I.P., ossia il sequestro dell'intero ambulatorio e delle attrezzature ivi presenti. Per i giudici del rinvio non si vede, infatti, come le esigenze di cautela potrebbero essere soddisfatte con una misura diversa dall'apposizione di un vincolo sull'intero compendio immobiliare e sui relativi beni. Il provvedimento impugnato aderisce a quanto ritenuto nel provvedimento del G.I.P., dove si legge che: "Le cose sulle quali si chiede l'apposizione del c. d. 'fermo reale" (ambulatorio e beni che lo compongono) sono strettamente pertinenti ai reati per cui si procede: è lo svolgimento dell'attività veterinaria in sé a costituire l'occasione per la commissione dei reati indagati, che siano i maltrattamenti in danno degli animali sottoposti al veterinario, costretti loro malgrado a subire interventi chirurgici in assenta di anestesia; ovvero le uccisioni degli animali in assenza di completa e documentata giustificazione terapeutica, le falsificazioni dei libretti sanitari consegnati ai clienti dello studio medico; oppure gli abusivi esercizi della professione farmaceutica; le illecite caudotomie, praticate al di fuori delle condizioni che ne legittimano l'esecuzione; o la detenzione di farmaci scaduti; l'illecito smaltimento di rifiuti sanitari e l'irregolare tenuta del registro carico/scarico degli stupefacenti (...).È all'evidenza che tutte le ipotesi di reato indagate sono intimamente correlate allo svolgimento della professione veterinaria, poiché ne rappresentano estrinsecazione (...). È dato di pacifica acquisizione probatoria quello per cui l'immobile adibito ad ambulatorio veterinario è intrinsecamente e strutturalmente collegato da un nesso strumentale diretto e immediato all'esercizio dell'attività veterinaria; in altre parole, la disponibilità dell'ambulatorio e delle maestranze che vi sono all'interno sono consustanziali all'esercizio dell'attività medico veterinaria da parte dell'indagato, nel senso che la seconda fatalmente postula, per poter esistere, la prima (...).Quanto s'è detto concorre a rappresentare uno scenario di persistente, trasversale, insistita e patente illiceità che accompagna lo svolgimento dell'attività medico veterinaria svolta dall'indagato... ". Il tribunale del riesame richiama adesivamente quanto dichiarato dal GIP laddove ha ritenuto che: "Tra lo svolgimento dell'attività medico veterinaria, strutturalmente e funzionalmente insita nella disponibilità dell'ambulatorio e delle maestranze che vi sono custodite e allocate, e la commissione dei reati partitamente analizzate, sussiste un nesso di naturale ed evidente pertinenzialità, nel senso che la pronosticabile reiterazione di ulteriori fatti di penale rilevanza, o dell'aggravamento delle conseguenze di quelli già posti in essere, sono necessariamente occasionati dall'esercizio della professione veterinaria, per arrestare la quale unico strumento processualmente coltivabile è, appunto, quello del sequestro preventivo dell'ambulatorio". Coerentemente con tali richiami adesivi al primo provvedimento, i giudici ravennati opinano nel senso che, se è indubbio che all'interno dell'ambulatorio fosse svolta anche attività lecita e dunque non possa dirsi sussistente un integrale asservimento dell'immobile a scopi illeciti, nondimeno non sarebbe operazione praticabile quella di separare plasticamente la parte dell'ambulatorio veterinario in cui si svolge l'attività lecita da quella dove invece si commettono gli illeciti contestati. Non risultando ragionevole, prima ancora tecnicamente corretto, consentire la protrazione dell'attività illecita per il sol fatto che la stessa venga svolta insieme o in alternativa a quella lecita. E un simile argomentare si colloca nel solco del richiamato orientamento di questa Corte di legittimità -che va qui ribadito- secondo cui è ammissibile il sequestro preventivo dell'intera azienda, "ove sussistano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali, proprio per la sua collocazione strumentale, sia utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando la circostanza che l'azienda svolga anche normali attività imprenditoriali" (così Sez. 6, n. 27340 del 16/4/2008, Cascino, Rv. 240574 - 01 in una fattispecie relativa al sequestro preventivo del patrimonio aziendale di un'impresa edile, in cui è stata esclusa la riconducibilità sostanziale dei beni oggetto del sequestro, nella formale disponibilità di terzi estranei al procedimento, alle persone degli indagati, conf. Sez. 3, n. 6444 del 7/11/2007 dep. 2008, Donvito, Rv. 238819 - 01 nel giudicare il caso di un sequestro preventivo, disposto per il reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, che aveva interessato gli immobili e l'intera area nella disponibilità della società facente capo all'indagato; Sez. 6, n. 36773 del 18/06/2003 Pepe, Rv. 226820 - 01 che, in applicazione di tale principio, ha annullato con rinvio il provvedimento del giudice del riesame che, nel confermare il decreto di sequestro preventivo di una farmacia, utilizzata dal suo titolare per la commissione di truffe a danno della Regione, aveva motivato la misura reale sul periculum in mora che la disponibilità della stessa da parte dell'indagato potesse agevolare la commissione di altri reati; Sez. 6, n. 29797 del 20/06/2001, Paterna, Rv. 219855 - 01). 6. Come rileva il provvedimento impugnato, va considerato, inoltre, che l'ambulatorio veniva utilizzato non solo per perpetrare "illeciti professionali", ma anche per la commissione di illeciti privi di stretto collegamento funzionale con la professione. In quest'ottica, allora, secondo il logico opinare dei giudici ravennati, non appare determinante in via esclusiva, ai fini del giudizio sulla proporzione ed adeguatezza, indagare il solo rapporto fra bene sequestrato e attività professionale esercitata, dovendosi considerare, altresì, il dato obiettivo dell'utilizzo materiale del complesso aziendale (ambulatorio, lettini, siringhe, farmaci) per la realizzazione (anche) di reati di non stretta attinenza con la professione medico veterinaria. In altri termini, il giudizio di proporzione coinvolge una duplice prospettiva: in primis, il rapporto fra immobile (e relativi strumenti di lavoro) e attività professionale, per quanto riguarda gli illeciti che appaiono una degenerazione della professione svolta; in secondo luogo, il rapporto fra immobile (e relativi strumenti professionali) e reati di non stretta inerenza rispetto all'attività lavorativa. Coerentemente con tali premesse, si conclude nel provvedimento impugnato che, a fronte di un'attività illecita che manifesta un collegamento di occasionalità necessaria sia con "illeciti professionali", sia con "illeciti extraprofessionali", l'unica misura praticabile è quella disposta del sequestro dell'intero compendio aziendale, poiché idonea ad arginare la fondata e ragionevole probabilità che la continua disponibilità dell'ambulatorio, ove non ne venga impedita la fruizione, consenta di dar corso e reiterare condotte analoghe o affini a quelle indagate, come può desumersi dalla natura delle cose su cui si impone la cautela preventiva e dal nesso strumentale con l'attività professionale svolta, dalla tipologia dei rimproveri oggetto dell'incolpazione, dalle circostanze dei fatti e delle condotte, tutt'altro episodiche o occasionali, quanto invero routinarie e seriali (si richiamano, a tal proposito, gli esiti della successiva attività di indagine condotta dagli inquirenti, che hanno evidenziato la persistenza del contegno da. parte del prevenuto anche dopo le condotte oggetto di contestazione nel presente procedimento). Sul punto, in definitiva, i giudici romagnoli dichiarano dì concordare con quanto già affermato dal G.I.P. in sede di emissione della misura, secondo cui "la prognosi inerente al pericolo di reiterazione o aggravamento criminosi è tanto più pregnante, quanto più si riflette sulla vastità del giro di clientela che affolla quotidianamente l'ambulatorio del veterinario, sulle modalità di definizione degli appuntamenti, fino anche a tarda sera, sulla impossibilità di discernere il reale volume dell'attività decodificando la fitta rete di annotazioni presenti nelle agende sequestrate e prestando fede agli ingenti e non tracciati guadagni lucrati dall'indagata". Di contro, l'apposizione di un vincolo soltanto parziale sull'immobile (ad esempio, soltanto su una porzione dell'edificio) viene ritenuta non sufficiente a contenere il pericolo di recidivanza, atteso che il Gu.Ma. ben potrebbe operare nella parte di immobile lasciata nella disponibilità del titolare, continuando a perpetrare gli illeciti sub iudice (in tal senso, vengono richiamati anche gli esiti dell'attività integrativa di indagine svolta nelle more del giudizio incidentale, che ha evidenziato la commissione di ulteriori casi di eutanasia oltre quelli contestati nel presente procedimento). 7. Ancora, il tribunale del riesame dà atto che il sequestro soltanto degli strumenti da lavoro non sarebbe in grado di prevenire ulteriori azioni illecite, avendo l'imputato la possibilità di procurarsi analoghe attrezzature da utilizzare nel medesimo centro, liberamente accessibile alla clientela. Logico appare, peraltro, il rilievo che non si vede come potrebbe essere condotto un ambulatorio veterinario senza strumenti e macchinari che, concretamente, consentono l'esercizio dell'attività veterinaria. Va peraltro considerato, secondo quanto si legge nel provvedimento impugnato, che, in questo caso, non appaiono neppure individuabili beni strumentali che non consentano la consumazione della variegata ed eterogenea rosa di condotte posta in essere dal prevenuto attraverso l'attività ambulatoriale e le relative maestranze. In una simile prospettiva, la deduzione difensiva secondo cui il sequestro dell'immobile o anche delle sole attrezzature non sarebbe comunque in grado di impedire la reiterazione dei reati ipotizzati, in quanto il prevenuto potrebbe svolgere altrove le medesime attività, appare per i giudici romagnoli priva di sostegno, dal momento che porterebbe all'assurdo di rinunciare ex ante a disporre qualsivoglia presidio cautelare per il sol fatto che il suo autore sarebbe in grado di eluderlo. Da ultimo, il tribunale del riesame dà conto di non ritenere neppure astrattamente praticabile l'opzione di una misura personale di tipo interdittivo, in quanto, anche ammettendo che una misura personale sia percepita come meno invasiva e più adeguata di una misura reale, le fattispecie criminose in questione connesse allo svolgimento dell'attività di veterinario non consentono, per ragioni edittali, l'applicazione di misure interdittive. Dunque, con una motivazione che è tutt'altro che apparente, il provvedimento impugnato ritiene misura reale e proporzionata alle esigenze di cautela e conforme ai principi di sussidiarietà ed extrema ratio sopra ricordati che l'istituto cautelare deve perseguire. 8. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale di UDINE SEZIONE PENALE - DIBATTIMENTO Il Tribunale, in composizione monocratica, nella persona del Dott. Daniele Faleschini Barnaba Giudice Monocratico, alia pubblica udienza del 02/03/2023 ha pronunciato la seguente SENTENZA nei confronti di: (...) nato il (...) a (...) (U.) residente in Via Degli O. 9/14 - L. S. (U.) - con domicilio ivi dichiarato - - libero non presente - già presente Difeso dall'avvocato di fiducia LIZZI Daniela del foro di Udine IMPUTATO (...) del reato p. e p. dall'art. 612bis comma 1, 2 c.p., per avere, con condotte reiterate, molestato l'ex fidanzata (...), in modo tale da cagionare alla stessa un perdurante e grave stato di ansia e di paura e tale da ingenerare in lei il timore per l'incolumita propria, costringendola inoltre ad alterare le sue abitudini di vita avendo paura che Io stesso potesse presentarsi presso la sua abitazione. In particolare, dopo la fine della relazione, durata solamente tre settimane, (...), ossessionato dalla rottura della relazione con l'ex fidanzata, sia prima che successivamente all'ammonimento ricevuto dal Questore di Udine (notified del 21.01.2020) molestava la stessa con i seguenti comportamenti: - le inviava messaggi tramite l'applicativo whatsapp o tramite SMS; - le inviava messaggi tramite il sintetizzatore vocale usato dalla propria madre, affetta da una grave malattia; - le inviava in data 08.08.2019 un mazzo di fiori e si presentava presso la sua abitazione suonando insistentemente il campanello; - le inviava vari messaggi tramite vari profili facebook; - in data 08.09.2019 si presentava presso il centra benessere di Cividale del Friuli, dicendo a (...) che si era presentato in tale luogo in quanto la sera stessa dovevano vedersi; - le inviava messaggi whatsapp con altre utenze telefoniche. Con l'intervento del P.M. dr.ssa Pa.Re. (con delega) e del difensore di fiducia avv.to Da.Li. del foro di Udine. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE Con decreto del g.u.p. di data 15.9.2022 l'imputato (...) veniva tratto a giudizio per rispondere dell'imputazione di cui alla rubrica. All'udienza del 3.11.2022, in presenza dell'imputato, non presente la persona offesa (...), si dichiarava aperto il dibattimento e si ammettevano le prove con ordinanza resa ex art. 495 c.p.p.. All'udienza del 10.1.2023 si procedeva all'esame dei testi (...) ed altri; su accordo delle parti si acquisivano atti e documenti del fascicolo del pubblico ministero, il quale rinunciava all'esame di alcuni testi di lista. All'udienza del 2.3.2023, acquisiti ulteriori atti, respinta la richiesta della difesa di disporre perizia medico-psichiatrica sulla persona dell'imputato e dichiarata l'utilizzabilità degli atti acquisiti al fascicolo dibattimentale, le parti concludevano come in epigrafe e il giudice pronunziava come da dispositive. La penale responsabilità dell'imputato risulta provata oltre la soglia del ragionevole dubbio per il reato contravvenzionale di cui all'art. 660 c.p., cosi riqualificandosi l'imputazione ascritta. La persona offesa (...) ha riferito nel corso della deposizione testimoniale da lei resa in sede dibattimentale di aver intrattenuto una breve relazione sentimentale con l'odierno imputato, durata alcune settimane nel luglio del 2019; ella aveva preso la decisione di interrompere la relazione, ritenendo che la personalità del (...) fosse fragile e che, reputandosi anch'ella una persona fragile, la relazione non sarebbe potuta proseguire nel tempo; dopo l'interruzione dei rapporti l'imputato aveva iniziato a inviarle numerosi messaggi telefonici sull'utenza (...) ed e-mail, in cui le chiedeva spiegazioni dell'accaduto, e aveva tentato anche di rivederla, recandosi in un'occasione presso un centro benessere di Cividale del Friuli, che ella era solita frequentare; in tale circostanza, avvenuta in data 8.9.2019, ella gli aveva intimate di allontanarsi in mate modo e aveva richiesto anche l'intervento delle forze dell'ordine; il (...) le aveva fatto anche pervenire un mazzo di fiori e in altra occasione si era portato all'esterno della sua abitazione, bussando o suonando il campanello a lungo, ma ella si era rifiutata di incontrarlo e di parlare con lui; egli l'aveva poi incontrata a Grado e in tale circostanza vi era state un colloquio che, secondo la (...), doveva ritenersi chiarificatore; essendo le sue utenze state bloccate dalla (...), l'imputato aveva chiesto a terze persone di contattarla per richiederle spiegazioni e intercedere in suo favore; la persona offesa non aveva mai inteso dargli esplicite delucidazioni in merito alla decisione di interrompere la relazione; il (...) non aveva mai posto in essere atti di vera e propria minaccia, ne di aggressivita fisica, ma era ricorso alla prospettazione dell'intento di togliersi la vita per esercitare pressione psicologica su di lei; per tali ragioni in data 16.9.2019 la (...) aveva richiesto l'emissione dell'ammonimento del Questore; il provvedimento del Questore di Udine, in atti, era state notificato all'imputato in data 21.1.2020, ma le condotte insistenti del (...) erano proseguite per qualche tempo anche in epoca successiva all'ammonimento; la (...) si era anche determinata a presentare una denuncia-querela in data 8.6.2020, che aveva poi rimesso in data 13.2.2022, ma l'imputato aveva dichiarato di non voler accettare la remissione in data 16.2.2022. Dalia documentazione acquisita e dalle deposizioni testimoniali rese dai sanitari si e evidenziato che la persona offesa aveva sofferto di stati d'ansia in conseguenza dei comportamenti temiti dall'imputato nei suoi confronti; le era stata prescritta anche l'assunzione di una terapia farmacologica. La condizione di forte turbamento emotivo dell'imputato, conseguente alla fine della relazione, e stata descritta in sede di deposizione testimoniale e di verbale s.i.t. di data 15.11.2020, acquisito su accordo delle parti, dall'amico (...), il quale aveva tentato di confortarlo e lo aveva anche accompagnato all'ospedale a seguito di un malessere da lui accusato in data 15.9.2019; in tale occasione il teste aveva inviato dei messaggi telefonici alla (...) per informarla dell'accaduto, ai quali costei aveva risposto in tono seccato, rifiutando ogni coinvolgimento; il teste ha riferito che l'imputato non riusciva a capacitarsi della fine della relazione e della mancanza di spiegazioni da parte della (...). Circostanze di contenuto analogo ha riferito in sede dibattimentale e nei verbali s.i.t. di data 23.5.2020 e 17.11.2020, acquisiti su accordo delle parti, anche il padre dell'imputato (...)G., il quale aveva avuto modo di constatare il peggioramento dello stato d'animo del figlio in conseguenza della fine della relazione con la persona offesa; nell'aprile del 2020 egli si era anche rivolto al mar. (...) in servizio alla Stazione Carabinieri di Aiello del Friuli e alla Stazione Carabinieri di (...), esponendo la situazione di grave malessere psicologico del figlio, il quale si era anche avvalso del sintetizzatore vocale in uso alla madre, gravemente ammalata, al fine di inviare dei messaggi telematici alla (...); il figlio manifestava una vera e propria ossessione nei confronti di costei, esprimeva anche propositi autosoppressivi e accusava i genitori di non volerlo aiutare nei suo pervicace proposito di incontrarla per chiederle spiegazioni; in data 22.5.2020 il teste aveva contattato telefonicamente la (...), ma costei aveva bruscamente interrotto la chiamata. Anche l'amica dell'imputato (...) riferiva nei verbale s.i.t. di data 26.11.2020, acquisito su accordo delle parti, di avere invano contattato la (...) su richiesta del (...) nei corso dei mesi estivi del 2019 per tentare una riconciliazione; era al corrente del fatto che la persona offesa aveva incontrato l'imputato in occasione di una gita a Grado; un precedente incontro era avvenuto per iniziativa del solo (...) presso il centro benessere di Cividale del Friuli frequentato dalla (...), ma in tale occasione era stato da costei richiesto l'intervento delle forze dell'ordine; successivamente la teste non si era più interessata della vicenda, ritenendo che la situazione stesse diventando troppo delicata; nei marzo-aprile del 2020 aveva ricevuto dei messaggi nei quali l'imputato le manifestava intenti autosoppressivi e il proposito di sottoporsi a eutanasia in Svizzera; in seguito aveva avuto notizia che l'imputato non stava bene e veniva sovente ricoverato in ospedale. Dalla documentazione acquisita e dalle deposizioni rese dai dott.ri (...) e (...) risulta che l'imputato era seguito dai servizi psichiatrici dall'aprile 2020 per disturbo dell'umore e ideazione ossessiva avente a oggetto la cessata relazione sentimentale con la persona offesa; nel corso dei colloqui con i sanitari il (...) esprimeva costantemente la richiesta di poter avere un colloquio chiarificatore con la (...) in merito alla fine della relazione. In sede di interrogatorio delegato di data 22.2.2021 l'imputato dichiarava di avere contattato la persona offesa, direttamente o per interposta persona, al solo fine di ottenere da lei delle spiegazioni sulla fine della relazione e di essere rimasto sorpreso dalla richiesta di ammonimento presentata dalla (...), non avendo egli inteso commettere alcun atto doloso ed essendosi limitato a cercare di contattarla, a inviarle un mazzo di fiori e a recarsi in un'occasione a casa di lei; durante la relazione costei gli aveva riferito di soffrire di una patologia che la portava ad allontanare le persone e l'aveva pregato di contrastare tale sua inclinazione. L'ascritto delitto di cui all'art. 612 bis c.p. richiede la prova della sussistenza di condotte reiterate, sorrette anche dal solo dolo generico - non essendo richiesta la prova della specifica finalità di cagionare alla persona offesa una o più delle conseguenze previste quali effetti delle condotte di reato -, con le quali vengano arrecate minacce o molestie alla persona offesa in modo da cagionarle un perdurante e grave state d'ansia o di paura o da ingenerare un fondato timore per la propria incolumità o da costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita; trattasi di eventi alternativi, la cui contemporanea presenza non e richiesta dalla norma incriminatrice, essendo sufficiente che si verifichi anche uno soltanto dei suddetti effetti perturbativi dello state d'animo o delle abitudini di vita della vittima del reato; non rileva a escludere il reato l'esistenza di intervalli tra le condotte, di periodi di attenuazione delle medesime o di temporanei riavvicinamenti tra le parti e non e necessaria la prova della causazione nella persona offesa di un vero e proprio state patologico, clinicamente conclamato (tra le molte: Cass. sez. V, 15.12.2020 n. 14862; Cass. sez. V, 11.12.2019 n. 17000; Cass. sez. V, 11.2.2019 n. 28340; Cass, sez. V, 3.4.2018 n. 33842; Cass. sez. V, 3.4.2017 n. 35588; Cass. sez. V, 6.12.2016 n. 22194; Cass. sez. V, 24.9.2015 n. 43085; Cass. sez. V, 24.4.2015 n. 49613; Cass, sez. III, 16.1.2015 n. 9222; Cass. sez. V, 5.11.2014 n. 51718; Cass. sez. VI, 14.10.2014 n. 50746; Cass. sez. V, 16.9.2014 n. 5313). Nel caso in esame appare tuttavia insufficiente la prova del reato ascritto, non constando dalla deposizione resa dalla persona offesa, ne da altre risultanze dibattimentali, che le condotte dell'imputato abbiano assunto i connotati di intensità tali da ingenerare nella vittima almeno uno degli effetti psicologici o comportamentali previsti dalla disposizione incriminatrice, a cui non bastando un mero state di preoccupazione che non si traduca in un significative turbamento d'animo o non si accompagni ad apprezzabili modificazioni della condotta di vita della persona offesa; la (...) presentava già delle pregresse problematiche psicologiche, di modo che non si sono evidenziate risultanze certe da cui desumere la prova che tale situazione fosse, in tutto o in parte, conseguenza degli atti commessi dall'imputato, tenendosi conto anche del comportamento della persona offesa, che si rifiutava di fornire all'imputato i richiesti chiarimenti e manteneva tale atteggiamento, certo legittimo ma forse eccessivamente drastico, anche nei confronti dei tentativi di terze persone, intervenute nella vicenda perche preoccupate dal crescente malessere psicologico ed emotivo manifestato dal (...); forse la tempestiva esplicitazione di un chiarimento sarebbe stata sufficiente a tacitare le pretese del (...), certamente eccessive e importune, ma originate da un reale e significative state di malessere che rendeva anche necessario il ricorso alle cure dei sanitari. Residua peraltro nelle condotte dell'imputato la contravvenzione di cui all'art. 660 c.p., avendo egli recato molestia o disturbo alla persona offesa col mezzo del telefono o in luoghi pubblici o aperti al pubblico; la molestia è ravvisabile in ragione dell'eccesso nelle modalità e nella frequenza delle richieste di chiarimenti e di incontri, il quale configura la petulanza richiesta dalla disposizione incriminatrice, consistendo essa nell'insistenza, ingiustificata e non gradita dalla destinataria, dei comportamenti invasivi della sua sfera personale e pertanto perturbativi della sua tranquillità. Sussiste la procedibilità del reato, come modificata dall'art. 3 comma 1 lett. b) del D.Lgs. n. 150 del 1922 a decorrere dal 30.12.2022, in ragione della presentazione della citata denuncia-querela da parte della persona offesa, essendo la remissione della stessa priva di effetto in quanto ricusata dall'imputato a norma dell'art. 155 comma 1 c.p. Va pertanto affermata la penale responsabilità dell'imputato in ordine al reato come sopra riqualificato, trattandosi di mera ridefinizione giuridica che non immuta gli elementi di fatto delle condotte; valutati i criteri di cui all'art. 133 c.p. e denegato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche per l'assenza di positivi elementi di meritevolezza che giustifichino la relativa diminuzione di pena, non essendo sufficiente a tal fine il mero stato di incensuratezza a norma dell'art. 62 bis u.c. c.p., e da ritenersi congrua la pena di Euro 450 di ammenda. Alla condanna consegue l'obbligo del pagamento delle spese processuali. Lo stato di incensuratezza consente la concessione del beneficio della non menzione della condanna a norma dell'art. 175 c.p.. Appare congrua l'assegnazione del termine di quindici giorni per il deposito della sentenza a norma dell'art. 544 comma 2 c.p.p.. P.Q.M. Il Tribunale di Udine sezione penale in composizione monocratica, letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara l'imputato (...) colpevole del reato di cui all'art. 660 c.p., così riqualificata l'imputazione, e lo condanna alla pena di Euro 450,00 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali. Non menzione della condanna. Motivazione riservata nel termine di 15 giorni. Così deciso in Udine il 2 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PETRUZZELLIS Anna - Presidente Dott. GIORDANO E. A. - rel. Consigliere Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 21/04/2022 della Corte d'appello di L'Aquila; visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione del consigliere Dott. Ombretta Di Giovine; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. De Masellis Mariella, che ha concluso chiedendo che la sentenza sia annullata senza rinvio, perche' il fatto non sussiste, limitatamente al capo riguardante il delitto di truffa, con elisione della parte di pena, e rigetto nel resto. RITENUTO IN FATTO 1. La sentenza in epigrafe conferma la sentenza di condanna di (OMISSIS) per peculato (articolo 314 c.p.) (capo a) e truffa ai danni dello Stato "articolo 640 c.p., comma 2, n. 1) (capo b), rispettivamente, perche' utilizzava per ragioni personali e fuori dell'orario di lavoro l'autovettura di proprieta' della ASL, di cui aveva la disponibilita' in ragione del suo servizio di veterinario e perche', inducendo attraverso artifizi in errore l'amministrazione di appartenenza circa l'effettivo svolgimento dell'attivita' lavorativa, si procurava un ingiusto profitto, pari alla retribuzione indebitamente percepita, con corrispettivo danno per l'ente pubblico di appartenenza. 2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso l'imputato, per il tramite del suo avvocato, (OMISSIS), articolando i seguenti cinque motivi di ricorso. 2.1. Erronea applicazione della legge penale sostanziale e processuale, nonche' illogicita' della motivazione per violazione degli articolo 525 c.p.p., comma 2, articoli 468 e 493 c.p.p., e delle norme sul diritto di difesa. In secondo grado il ricorrente aveva eccepito la nullita' della sentenza di primo grado per violazione delle suddette disposizioni, in relazione alla mancata concessione di un breve termine per depositare una nuova lista testi allo scopo di chiedere l'ammissione di nuove prove dichiarative e presentare nuove richieste di prova a seguito di un mutamento improvviso ed inaspettato del collegio giudicante. La Corte di appello rigettava la richiesta ritenendola ingiustificata e verosimilmente dilatoria, in palese contrasto con l'insegnamento delle Sezioni unite della Cassazione, secondo cui le difese hanno, in questo caso, diritto a un breve rinvio. 2.2. Erronea applicazione della legge penale sostanziale e processuale, nonche' illogicita' di motivazione per violazione delle norme sul diritto di difesa, del principio di oralita' e del contraddittorio, e per travisamento della prova. La Corte d'Appello non ha accolto il motivo di ricorso in cui si deduceva l'illegittima acquisizione al fascicolo dibattimentale delle annotazioni di P.G. sui pedinamenti, appostamenti e tracciati GPS, nonostante la specifica opposizione della difesa e in contrasto con la giurisprudenza di legittimita', secondo cui tali atti sono ripetibili, potendo i loro risultati entrare nella valutazione probatoria del giudice tramite la testimonianza degli ufficiali di polizia giudiziaria. In particolare, la Corte di appello, pur ritenendo tali atti ripetibili, affermava che i suddetti elementi investigativi erano entrati nella valutazione probatoria del giudice attraverso la precisa e puntuale ricostruzione effettuata in sede dibattimentale dai testi di polizia giudiziaria, laddove, invece un teste era stato interrotto dal collegio di primo grado, che decideva senza il consenso della difesa, in violazione del principio di oralita'; l'altro aveva reso una deposizione parziale che doveva essere confrontata con quello di altro teste. 2.3. Violazione della legge penale sostanziale e difetto della motivazione (articoli 125 e 546 c.p.p.) in relazione alla ritenuta responsabilita' dell'imputato per peculato. La sentenza di secondo grado, motivando in modo soltanto apparente, ha disatteso le deduzioni della difesa e gli elementi probatori emersi dalle testimonianze le quali dimostravano che: il ricorrente, in quel periodo, prestava il suo servizio di veterinario in una unita' operativa semplice all'interno di un'unita' operativa complessa che si occupava di randagismo, con compiti estremamente ampi (che lo costringevano a continui spostamenti), in una zona territoriale molto estesa, rispondendo alle richieste di intervento urgente anche al di fuori dell'orario di lavoro, con modalita' organizzative di lavoro flessibili e orientate al conseguimento di obiettivi; la macchina di servizio era stata assegnata a (OMISSIS) in ragione della tipologia di lavoro che questi era chiamato a realizzare, la quale implicava una moltitudine di adempimenti e aveva carattere flessibile; non c'era prova che il protocollo che disciplinava l'uso dell'auto fosse stato notificato, e quindi noto, a quei tempi all'imputato; il kit in dotazione dei veterinari comprendeva medicine che, per un verso, dovevano essere conservate a basse temperature (e che, pertanto, in mancanza di soluzioni alternative, dovevano essere portate a casa), per altro verso, erano pericolose, come quella usata per l'eutanasia, medicinali che andavano custoditi sotto la responsabilita' del veterinario stesso, senza che, in quel periodo, la struttura di appartenenza del ricorrente offrisse un locale dove riporli in sicurezza. Tali circostanze, ed in particolare la costante reperibilita' del ricorrente (ben oltre gli orari di lavoro e sulla base delle urgenze), spiegano perche' questi portasse presso la propria abitazione l'auto di servizio. I giudici di merito non hanno quindi motivato, se non in modo apparente, riguardo all'insussistenza della condotta di "appropriazione'", dovendosi escludere che l'imputato si comportasse nei confronti del bene uti dominus. 2.4. Violazione della legge penale sostanziale e vizio di motivazione, in relazione al mancato accoglimento della richiesta di derubricare il reato contestato in peculato d'uso. La Corte d'appello argomenta in modo soltanto apparente la corfigurabilita' del delitto di peculato, limitandosi ad affermare che il delitto e' integrato in ragione dell'utilizzo continuativo e sistematico dell'autovettura di servizio, senza effettuare alcuna correlazione con la condotta del ricorrente e con la sua intenzione, quali risultati dalle emergenze processuali, che hanno dimostrato come la prassi di affidare l'auto di servizio al destinatario, senza obbligo di riportarla presso la struttura di riferimento, dipendesse anche da ragioni di economia, essendo i veterinari chiamati a prestare servizio in quarantasei Comuni, anche lontani dalla sede, e avendo comunque l'imputato la responsabilita' della custodia dell'auto (e del kit in essa contenuto), in mancanza - ai tempi dei fatti - di posti recintati dove parcheggiarle. 2.5. Violazione della legge penale sostanziale e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta configurabilita' della truffa ai danni dello Stato. La sentenza di secondo grado ha fondato la conferma della condanna sulle sole annotazioni di P.G., illegittimamente acquisite, e comunque su una prova inesistente, riportando pedissequamente l'affermazione della sentenza di primo grado, per cui l'imputato avrebbe presentato fogli di presenza con orari di lavoro diversi da quelli effettivamente svolti. In realta', la presenza sul posto di lavoro era rilevata mediante la timbratura del cartellino e l'imputato non era tenuto a presentare fogli di presenza, essendo la sua attivita' flessibile ed organizzata per obiettivi, piuttosto che per ore settimanali. Ai veterinari spettava esclusivamente l'indennita' di pronta disponibilita' e non la remunerazione delle eventuali ore di straordinario svolte. La sentenza di appello non motiva, se non in modo apparente, sul punto, trascurando di considerare, quindi, come il rientro a casa non equivalesse a un fine-turno e che la retribuzione del veterinario era del tutto slegata dalle ore di lavoro effettivamente prestate (e legata invece al suddetto raggiungimento di obiettivi), non risultando dunque provata nemmeno la realizzazione di un danno all'ente di appartenenza del ricorrente. 3. L'ASL, costituita parte civile nel procedimento in oggetto, presenta memoria conclusionale in cui chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile o rigettato e che (OMISSIS) sia condannato al risarcimento del danno. 4. Il procedimento e' stato trattato in forma cartolare, ai sensi del Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8, convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, e del Decreto Legge 30 dicembre 2021, n. 228, articolo 16, comma 1, convertito dalla L. 25 febbraio 2022, n. 15. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Inammissibile appare il primo motivo di ricorso, inerente alla denegata richiesta di rinvio per la presentazione di nuova lista testi. La sentenza emessa a Sezioni Unite n. 41736 del 30/05/2019, Bajrami, Rv. 276754, ripetutamente richiamata nel ricorso, nell'affermare tale diritto, lascia pero' fermo il potere di apprezzamento del giudice in ordine alla non manifesta superfluita' della rinnovazione. La sentenza dispone, in particolare, che "l'intervenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere sia prove nuove sia, indicandone specificamente le ragioni, la rinnovazione di quelle gia' assunte dal giudice di originaria composizione, fermi restando i poteri di valutazione del giudice di cui agli articoli 190 e 495 c.p.p. anche con riguardo alla non manifesta superfluita' della rinnovazione stessa". Cio' premesso, nel caso di specie, la Corte d'appello rileva come, a fronte dell'avvenuto mutamento nella composizione del collegio, la difesa fosse stata invitata a formulare le proprie richieste istruttore e che, cio' nonostante, ha ritenuto di non avvalersi di tale diritto, chiedendo esclusivamente un rinvio, meramente esplorativo, in quanto privo di indicazioni sui nuovi temi di prova su cui sollecitare l'audizione di altri testi, richiesta giustamente ritenuta dal giudice di primo grado dilatoria. Reputa inoltre corretta la decisione di respingere la richiesta di nuova audizione di un teste gia' sentito, a fronte dell'insufficiente argomentazione sulla sua decisivita'. Avendo dunque il Tribunale messo la difesa nelle condizioni di interloquire immediatamente ed avendo la Corte d'appello motivatamente esercitato, in modo tutt'altro che illogico, il suo potere di apprezzamento in ordine al rispetto di tale diritto, non si rileva violazione alcuna di legge processuale. 2. Considerazioni analoghe valgono in merito al secondo motivo di ricorso, relativo all'acquisizione delle annotazioni del PG al fascicolo del dibattimento, nonostante l'opposizione della parte. Anche sul punto, la sentenza di secondo grado muove dall'insegnamento di questa Corte la' dove ha stabilito che la localizzazione dell'imputato mediante rilevamento satellitare (GPS) costituisce attivita' investigativa atipica i cui risultati possono entrare nella valutazione probatoria del giudice mediante la testimonianza degli ufficiali di polizia giudiziaria. Questa Corte, con sentenza del suo massimo consesso (Sez. U n. 41281 del 17/10/2006, Greco, Rv. 234906), ha da tempo chiarito che non e' atto irripetibile, e come tale non puo' essere acquisita al fascicolo per il dibattimento senza il consenso delle parti, la relazione di servizio che contenga soltanto la descrizione delle attivita' di indagine, esauritesi con la loro esecuzione e suscettibili di essere descritte in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, senza la perdita di alcuna informazione probatoria, per non essere modificabili con il decorso del tempo luoghi, persone o cose rappresentati. La Corte di appello di L'Aquila precisa, tuttavia, come i testi (OMISSIS) e (OMISSIS), sentiti in qualita' di agenti operanti di polizia giudiziaria nel dibattimento di primo grado, avessero reso precisa e puntuale ricostruzione dei fatti. Di conseguenza, l'acquisizione della documentazione utilizzata a supporto della memoria dei testi, ai sensi dell'articolo 499 c.p.p., comma 4, non violerebbe alcun divieto processuale. 3. Meritano invece accoglimento i motivi relativi alla non configurabilita' del delitto di peculato (articolo 314 c.p., comma 1) e del delitto di truffa aggravata (articolo 640 c.p., comma 2, n. 1). 4.1. Quanto alla sussistenza del delitto di peculato di cui all'articolo 314 c.p., comma 1, indiscussa e' la violazione formale di disposizioni procedurali, come tale suscettibile di integrare, eventualmente, un illecito disciplinare a carico del ricorrente. D'altra parte, la sentenza impugnata tace sulla dedotta rilevanza di alcune prove, quali le dichiarazioni del Direttore di Unita' Operativa Complessa di sanita' animale della ASL che, sentito nel dibattimento del giudizio di primo grado come teste, aveva parlato di "personale itinerante"; aveva confermato che il lavoro dei veterinari in servizio era legato al conseguimento di obiettivi ed alla necessita' di far fronte ad esigenze, anche improvvise, le quali come tali non consentivano il rispetto rigoroso di procedure; aveva spiegato che nei presidi ospedalieri, ai tempi dei fatti, non vi erano luoghi dove i veterinari potessero lasciare le chiavi dell'autovettura o la borsa termica. Egualmente, la sentenza tace riguardo alla rilevanza delle dichiarazioni dell'accalappiacani, che riferiva di essere passato talvolta a prelevare con il suo mezzo, per ragioni di servizio, (OMISSIS) il quale, pertanto, aveva lasciato l'auto di servizio in sosta presso la sua abitazione anche durante il periodo di lavoro. Di conseguenza, il valore delle deposizioni della polizia giudiziaria avrebbe dovuto essere considerato anche alla luce di tali elementi, che impedivano di instaurare un'immediata corrispondenza logica tra mancato rispetto di disposizioni procedurali e la realizzazione del reato contestato. In altre parole, la peculiarita' dell'attivita' lavorativa dell'imputato (flessibile per orari e tipologia, organizzata per obiettivi, da realizzare su un'area geograficamente estesa), in uno con la necessita' di rispondere a specifiche esigenze (quali la conservazione, a date temperature, del kit contenente medicinali, alcuni dei quali, come rilevato nel ricorso, potenzialmente letali), in una condizione, al tempo della condotte, di acclarata carenza organizzativa della ASL di appartenenza del medico veterinario, non consente di ravvisare, al di la' di ogni ragionevole dubbio e nel silenzio motivazionale della sentenza impugnata sul punto, la sussistenza di una condotta appropriativi. L'appropriazione di cui all'articolo 314 c.p., comma 1, consiste, infatti, in una interversione del possesso che implica una peculiare caratterizzazione della condotta sul piano soggettivo, per il cui accertamento il giudice deve verificare che l'agente si sia comportato nei confronti del bene uti dominus, concetto il quale implica, a sua volta, una tensione verso la definitivita' - irreversibilita' della suddetta interversio. Tale condotta non si ravvisa nel caso di specie, risultando, piuttosto, il comportamento di (OMISSIS) ambivalente, ovvero caratterizzato da un uso promiscuo ed anfibio dell'autovettura a lui assegnata dalla ASL di appartenenza: uso personale, ma anche di servizio. Rilevante risulta al riguardo l'accertato impiego dell'auto per recarsi dall'abitazione al bar, ma anche, per converso, la limitazione dell'accertamento, in altra circostanza, allo stazionamento dell'auto presso l'abitazione, malgrado lo svolgimento di attivita' lavorativa nel medesimo contesto temporale, con l'utilizzo del furgone in dotazione, condotto da personale tecnico, che ha deposto sul punto ovvero l'utilizzazione dell'autovettura al di fuori dell'ordinario orario di servizio e tuttavia pur sempre per ragioni legate al suo lavoro. L'analisi di tali opposte risultanze non risulta essere stato oggetto di valutazione da parte del giudice di merito. 4.2. La condotta del ricorrente, riconducibile ad una distrazione (temporanea), risponde dunque alla tipicita' dell'articolo 314 c.p., comma 2, posto che l'autovettura, dopo ogni utilizzazione personale, era, comunque, nuovamente adibita alla sua originaria e lecita destinazione d'uso, in un contesto lavorativo - lo si ripete - flessibile (con connotazioni molto diverse dal classico lavoro di ufficio) e senza che dalla ricostruzione dei fatti compiuta nelle sentenze di merito emergano elementi suscettibili di negare l'intenzione dell'agente di restituire il bene dopo ogni suo impiego extra-istituzionale. Va dunque accolta la richiesta del ricorrente di riqualificare l'originaria ipotesi di peculato (articolo 314 c.p., comma 1), nella fattispecie prevista al comma 2 (peculato d'uso). Pertanto, essendo i fatti realizzati nel periodo intercorrente tra il (OMISSIS) e il (OMISSIS) ed essendo il c.d. peculato d'uso punito con la pena massima di tre anni, va dichiarata l'estinzione del reato per maturato decorso della prescrizione. Restano ferme le eventuali statuizioni civili. 5. Venendo, infine, alla condanna di (OMISSIS) per truffa aggravata, va rilevato come l'originaria contestazione del reato si incentrasse sulla presentazione di fogli di presenza in cui erano riportati orari diversi da quelli effettivamente svolti, ma che il giudice dell'appello, ritenendo di poter "prescindere dalla non remunerabilita' del (...) monte ore" e dalla stessa esistenza del danno economico, mostra di aver sostanzialmente aderito alla ricostruzione difensiva la' dove questa evidenziava come tale attivita' fosse - come piu' volte rilevato flessibile e, piuttosto, organizzata attorno al raggiungimento di obiettivi. Di conseguenza, la circostanza della "falsa attestazione mediante la quale l'imputato ha rappresentato orari di lavoro diversi da quelli svolti" appare lungi dal dimostrare che l'attivita' non sia stata affatto svolta. Se e' cosi', non risulta provata la realizzazione di un danno economico nei confronti della ASL di appartenenza, con correlato profitto economico in capo al ricorrente, circostanza che la sentenza impugnata ritiene ingiustamente irrilevante ai fini dell'accertamento di responsabilita'. Ragionando diversamente, si finirebbe, infatti, con il trasformare surrettiziamente il delitto di truffa in un reato formale, discendente dalla mera violazione di obblighi di legge. La sentenza va dunque annullata anche sul punto, poiche' il delitto di truffa non sussiste. L'annullamento della sentenza che, in mancanza di spazi celiberativi, deve essere disposto senza rinvio, comporta la caducazione delle statuizioni civili correlate alla originaria condanna per il delitto di truffa aggravata. 6. Essendo stata dichiarata la prescrizione del delitto di cui al capo a), previa sua riqualificazione in peculato d'uso, e non equivalendo la prescrizione del reato a soccombenza della parte civile (ex multis, Sez. 2, n. 2891 del 28/10/2021, dep. 2022, Cimmino, Rv. 282441; Sez. 6, n. 24768 del 31/03/2016, Caruso, Rv. 267317), il ricorrente va condannato a rifondere le spese sostenute nel grado dalla parte civile ASL n. (OMISSIS), che, in base alla qualita' dell'opera prestata in relazione alla natura e all'entita' delle questioni dedotte, vanno liquidate nei termini precisati in dispositivo. P.Q.M. Qualificato il reato di cui al capo a) ai sensi dell'articolo 314 c.p., comma 2 annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perche' il reato sub a) e' estinto per prescrizione, e il fatto contestato quale reato al capo b) non sussiste. Revoca le statuizioni civili, limitatamente al capo b); condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ASL n. (OMISSIS) che liquida in complessivi Euro 3.710, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell’art. 2, primo comma, della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale), della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente), approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, limitatamente alle seguenti parti: a) comma primo, limitatamente alle parole: «la reclusione da sei a quindici anni.»; b) comma secondo: integralmente; c) comma terzo, limitatamente alle parole «Si applicano», giudizio iscritto al n. 179 del registro referendum. Vista l’ordinanza del 15 dicembre 2021 con la quale l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme a legge la richiesta; udito nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022 il Giudice relatore Franco Modugno; uditi gli avvocati Tommaso Romano Valerio Politi per l’Associazione PRO VITA E FAMIGLIA Onlus e per il Comitato per il No all’eutanasia legale, Alessandro Benedetti per l’Associazione Scienza & Vita e per l’Unione giuristi cattolici italiani (UGCI), Carmelo Domenico Leotta per il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, Giovanni Doria per l’Associazione Movimento per la Vita, Mario Esposito per il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, Piercarlo Peroni per il Comitato Famiglie per il no al referendum sull’omicidio del consenziente, Siro Centofanti per il Comitato per il NO all’uccisione della persona anche se consenziente, Tullio Padovani per l’Associazione La Società della Ragione APS, per l’Associazione Liberi di Decidere, per l’Associazione Mobilitazione Generale degli Avvocati (MGA), per l’Associazione Walter Piludu Ets Aps e per l’Associazione Chi si cura di te Aps, Marcello Cecchetti per l’Associazione A Buon Diritto Onlus Aps, per l’Associazione Utenti e Consumatori Aps, per l’Associazione Consulta di Bioetica Ets, per la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), per l’Associazione ArciAtea Aps e per l’Associazione VOX - Osservatorio italiano sui Diritti, Alfonso Celotto e Guido Aldo Carlo Camera per l’Associazione +EUROPA, Gianni Baldini e Gian Ettore Gassani per l’Associazione avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia (AMI), Filomena Gallo e Massimo Clara per il Comitato promotore Referendum eutanasia legale (Filomena Gallo, Marco Cappato, Wilhelmine Schett e Rocco Berardo, nella qualità di promotori e presentatori, Matteo Mainardi, Mario Staderini, Carlo Troilo, Mario Riccio, Monica Coscioni, Marco Gentili, Valeria Imbrogno, Vincenzo Maraio e Massimiliano Iervolino, nella qualità di presentatori); deliberato nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 15 dicembre 2021, depositata il 16 dicembre 2021, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato l’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1, limitatamente alle seguenti parole “la reclusione da sei a quindici anni”; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole “Si applicano”?». 2.− L’Ufficio centrale ha attribuito al quesito il seguente titolo: «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)». 3.− Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, il Presidente della Corte costituzionale ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970. <>>4.− In data 26 gennaio 2022, i promotori della richiesta di referendum hanno depositato una memoria, nella quale, dopo un’ampia premessa sulla natura e sulle finalità del referendum abrogativo, argomentano a sostegno dell’ammissibilità dell’odierno quesito. 4.1.– L’obiettivo espresso dal quesito referendario sarebbe quello di «eliminare parzialmente dall’ordinamento il rilievo penale della condotta dell’omicidio del consenziente, tranne nei casi specifici già previsti al medesimo art. 579, terzo comma, c.p. e per i quali è già stabilita la sanzione penale di cui all’art. 575 c.p.». La richiesta sarebbe ancorata a una «matrice razionalmente unitaria», idonea al raggiungimento dello scopo dichiarato e anche esaustiva, essendo incentrata sulla sola e unica fattispecie penale dell’omicidio del consenziente. Il quesito non presenterebbe neppure un asserito taglio manipolativo: la sua formulazione e l’esito cui si intenderebbe pervenire – l’eliminazione della fattispecie dell’omicidio del consenziente – ne confermerebbero, infatti, la natura meramente ablativa, «niente affatto innovativa o tantomeno sostitutiva di norme». 4.2.– Riguardo agli eventuali effetti dell’abrogazione referendaria, la difesa dei promotori, richiamando diversi precedenti di questa Corte, ricorda, da un lato, che eventuali criticità o profili di illegittimità costituzionale delle normativa di risulta non potrebbero condurre, per ciò solo, a una dichiarazione di inammissibilità del quesito e, dall’altro, che questa Corte, pur non potendo compiere in sede di valutazione di ammissibilità del referendum abrogativo un giudizio anticipato di legittimità costituzionale, ben potrebbe rivolgere specifiche indicazioni al legislatore, al fine di superare eventuali profili di criticità conseguenti all’abrogazione referendaria. 4.3.– I promotori precisano, inoltre, che con l’abrogazione referendaria non verrebbe affatto «totalmente depenalizzata» la condotta dell’omicidio del consenziente, perché non verrebbe eliminata la rilevanza penale per le ipotesi, sia di condotte contro persone che si trovino in un particolare stato di vulnerabilità, ossia i minori e le persone inferme di mente o affette da deficienza psichica, sia per le ipotesi di consenso non libero, estorto o carpito con l’inganno, in base a quanto previsto dall’attuale art. 579, terzo comma, cod. pen., il quale non sarebbe inciso dalla odierna richiesta di referendum. In altri termini, il presidio penale non verrebbe eliminato, bensì perimetrato sulla base di quelle medesime esigenze che questa stessa Corte, fissando le condizioni che renderebbero lecita la condotta dei terzi cooperanti all’attuazione del proposito suicidario, avrebbe individuato con la sentenza n. 242 del 2019. Si sottolinea, infatti, come l’odierno quesito referendario si porrebbe in linea di ideale e concreta continuità rispetto a quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 242 del 2019 per l’aiuto al suicidio e, stante la «perdurante inerzia del legislatore» in materia, mirerebbe a superare la punizione di una condotta che, seppur differente rispetto a quella dell’aiuto al suicidio, risulta certamente a essa contigua, se si considerano le analoghe, se non identiche, condizioni in cui versa la persona che richiede di porre fine alla propria vita. Il quesito referendario mirerebbe, pertanto, anche ad eliminare la discriminazione oggi in atto verso quei malati che «non sono in condizione di ottenere una morte volontaria attraverso l’autosomministrazione del farmaco» e, in tal modo, i profili di irragionevolezza fra le fattispecie dell’aiuto al suicidio, così come risultante dall’intervento di questa Corte, e dell’omicidio del consenziente. Fattispecie che, sebbene differenziate per taluni elementi, risultano omogenee e analoghe, sia rispetto all’esito cui in entrambi i casi si perverrebbe, sia in ordine al rilievo – che questa Corte avrebbe valorizzato nella sentenza n. 242 del 2019 – della dignità soggettiva personale del paziente. Ferma restando – così si continua – la possibilità per il legislatore di intervenire al fine di introdurre una regolamentazione tesa a sistematizzare complessivamente la materia, seppur nel rispetto di quanto sancito da questa Corte in merito all’aiuto al suicidio e dell’esito della stessa consultazione referendaria. 4.4.– Ciò chiarito, la difesa dei promotori ritiene che in caso di abrogazione per via referendaria, e ancor prima dell’intervento del legislatore, assumerebbe decisiva importanza la funzione interpretativa dei giudici e non vi sarebbe nessun rischio di «allenta[re] per via referendaria» la «“cintura di protezione”» che questa Corte ha configurato nella più volte citata sentenza n. 242 del 2019. Si sostiene, infatti, che l’analisi della giurisprudenza di merito e di legittimità, chiamata a dare applicazione alla disposizione oggetto del quesito referendario, farebbe emergere un quadro univoco, in forza del quale il consenso di cui all’art. 579 cod. pen. deve presentare alcune peculiari caratteristiche, ossia deve essere serio, esplicito, non equivoco, attuale e perdurante fino al momento della realizzazione della condotta dell’omicida. In linea, poi, con tali requisiti, sarebbero previsti una valutazione e un accertamento estremamente rigorosi in sede processuale. Verrebbe, quindi, certamente esclusa la possibilità di desumere l’esistenza del consenso da semplici ed estemporanee manifestazioni di sofferenza e, in modo del tutto conseguente, sarebbe possibile «intercettare (facendole ricadere nel perimetro della più gravemente punita fattispecie di omicidio volontario) tutte quelle situazioni in cui la formazione della volontà sia stata in qualche modo viziata e condizionata»; con ciò, in definitiva, scongiurando il rischio di una mancata tutela delle persone fragili e vulnerabili. Proprio rispetto a tali categorie di soggetti, la difesa dei promotori ricorda che, anche «a fronte della richiesta di manipolazione dell’art. 579 c.p.», sarebbero, comunque sia, presidiati a livello penale i casi di coinvolgimento del minore, di persone che versano nelle condizioni di deficienza psichica e di infermità, di consenso estorto con violenza, minaccia, suggestione, o carpito con inganno, ossia le categorie protette dall’art. 579, terzo comma, cod. pen., non interessate dall’odierno quesito referendario. E si precisa che, anche per la seconda e la terza categoria, le quali «sollecitano interrogativi di non marginale portata», sussisterebbe «un contesto – normativo e giurisprudenziale» – idoneo ad offrire «solide sponde per assicurare una tutela piena ed effettiva» alle persone che in esse potrebbero essere ricomprese. Sui concetti di deficienza psichica, infermità psichica e di suggestione, l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità formatasi attorno alla fattispecie incriminatrice delle condotte di circonvenzione di incapace di cui all’art. 643 cod. pen., offrirebbe, infatti, idonee garanzie al fine di «intercettare» le ipotesi in cui la capacità della persona di esprimere un valido consenso sia stata in qualsiasi forma condizionata ab exeterno (si citano Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 9 novembre 2016-8 febbraio 2017, n. 5791 e 26 maggio-9 settembre 2015, n. 36424). Inoltre, proprio la giurisprudenza di legittimità che si è formata sull’art. 579 cod. pen. (si cita Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 19 aprile 2018-9 gennaio 2019, n. 747) indurrebbe ad escludere che l’abrogazione parziale dell’omicidio del consenziente possa esplicare «effetti di depenalizzazione» per i fatti commessi contro persone che non abbiano piena coscienza della propria richiesta. Si mette in evidenza, infatti, che, a viziare il consenso, sarebbe sufficiente anche una non totale diminuzione della capacità psichica che renda, sia pure momentaneamente, il soggetto non pienamente consapevole delle conseguenze del suo atto. La giurisprudenza di legittimità, infatti, intenderebbe «l’infermità psichica e la deficienza psichica» quale una minorata capacità psichica, anche con compromissione del potere di critica e minorazione della sfera volitiva ed intellettiva, che agevoli la suggestione della vittima e ne riduca i poteri di difesa contro le altrui insidie. Da ciò, si conclude che «tutti quei casi spesso citati per destare perplessità sulla tenuta del quesito referendario, come la delusione amorosa, la crisi finanziaria dell’imprenditore», sarebbero considerati, in sede processuale, quali circostanze che determinerebbero la contestazione «del comma 3», e quindi indurrebbe ad escludere che il consenso eventualmente prestato possa considerarsi valido, così determinando l’applicazione del reato di omicidio doloso. E, allorché dovessero scaturire delle difficoltà applicative dalla disciplina risultante dall’abrogazione referendaria, difficoltà che i giudici non sarebbero in grado di dirimere con gli ordinari strumenti interpretativi e in specie ricorrendo ad una interpretazione costituzionalmente orientata, rimarrebbe pur sempre la possibilità di sollevare «questione di costituzionalità». 4.5.– Da ultimo, la difesa del comitato promotore prende posizione sulla asserita natura costituzionalmente obbligata, vincolata o necessaria della tutela penale del bene della vita, con particolare riguardo alle persone che versano in condizioni di vulnerabilità o fragilità, secondo una visione che si è sviluppata «nel dibattito che ha recentemente interessato la tematica del fine vita». Si sostiene, infatti, che secondo la tesi contestata, alcune posizioni soggettive reclamerebbero, sempre e incondizionatamente, ossia a prescindere dalla specificità del caso concreto e dalla capacità della persona di esprimere un valido consenso, una protezione di tipo penale, data la «rilevanza sistematica del bene vita». In altri termini, questa tesi sembrerebbe fondarsi sull’idea che l’unico strumento normativo idoneo a proteggere le persone fragili e vulnerabili sia quello penale. Tuttavia, «un simile ragionamento» – così si continua – si scontrerebbe, sia con la giurisprudenza costituzionale (si citano le sentenze n. 447 del 1998, n. 411 del 1995, n. 49 del 1985 e n. 226 del 1983), sia con «la più autorevole dottrina (costituzionalistica e penalistica)» la quale, invece, avrebbe negato la possibilità di ricavare dal testo costituzionale «degli obblighi positivi di incriminazione». Si ricorda, inoltre, come questa Corte, nella sentenza n. 447 del 1998, abbia affermato che le «esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono […] nella (eventuale) tutela penale, […]; ché anzi l’incriminazione costituisce una extrema ratio». Posizione analoga sarebbe stata assunta anche dal Tribunale costituzionale tedesco, in due distinte occasioni in cui è stato chiamato a pronunciarsi in materia di aborto. Il giudice costituzionale tedesco, infatti, seppur «in una prima decisione, del 1975,» avrebbe riscontrato l’incostituzionalità delle disposizioni impugnate, in quanto non tutelavano il diritto alla vita del feto attraverso «il ricorso allo strumento penale», in una «seconda pronuncia, invece, che risale al 1993» avrebbe «imposto al legislatore di considerare l’aborto “illegittimo, ma non penalmente punibile”». In tale prospettiva, quindi, le riflessioni portate avanti, sia in Italia, sia in Germania, darebbero conferma dell’idea che la norma penale non possa essere strumentalmente piegata alla positiva realizzazione dei diritti fondamentali. Conclusione, questa, che, secondo i promotori, troverebbe conferma anche nella sentenza n. 242 del 2019 (recte: ordinanza n. 207 del 2018), nella parte in cui questa Corte ha affermato che al «legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite». Si ritiene, infatti, che un conto sarebbe riconoscere uno spazio in cui possa dispiegarsi la discrezionalità del Parlamento, altro sarebbe ipotizzare che, in quello stesso spazio, su quest’ultimo gravi un obbligo di penalizzazione direttamente discendente dalla Costituzione. In definitiva, alla luce della richiamata giurisprudenza di questa Corte, sarebbe da escludere la natura costituzionalmente imposta, necessaria o obbligatoria del presidio penale. 5.– In data 27 gennaio 2022, hanno depositato memoria le associazioni La società della ragione Aps, Liberi di decidere, Mobilitazione generale degli avvocati (MGA), Walter Piludu Ets Aps e Chi si cura di te Aps, chiedendo che la richiesta di referendum sia dichiarata ammissibile. 6.– In pari data, hanno presentato memoria A buon diritto Onlus Aps, Associazione utenti e consumatori Aps, Consulta di bioetica – Ets, Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) – Ufficio nuovi diritti, ArciAtea – rete per la laicità Aps e VOX – Osservatorio italiano sui diritti, deducendo anch’esse l’ammissibilità della richiesta referendaria. 7.– In data 2 febbraio 2022, hanno depositato memorie l’associazione +EUROPA, chiedendo che il quesito referendario sia dichiarato ammissibile, e l’associazione Pro Vita & Famiglia Onlus, deducendo, invece, l’inammissibilità del ricorso. 8.– In prossimità della camera di consiglio, hanno depositato memorie, chiedendo che il referendum sia dichiarato inammissibile, il Comitato per il no all’uccisione della persona anche se consenziente, il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, il Comitato Famiglie per il ‘no’ al referendum sull’omicidio del consenziente, l’Associazione movimento per la vita, l’associazione Scienza & Vita, il Comitato per il No all’eutanasia legale e l’Unione giuristi cattolici italiani. Ha depositato, altresì, memoria l’associazione Avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia (AMI). Considerato in diritto 1.– La richiesta di referendum abrogativo, dichiarata conforme alle disposizioni di legge dall’Ufficio centrale per il referendum con ordinanza del 15 dicembre 2021 e denominata «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)», investe l’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, limitatamente alle seguenti parti: a) comma primo, limitatamente alle parole: «la reclusione da sei a quindici anni.»; b) comma secondo: integralmente; c) comma terzo, limitatamente alle parole «Si applicano». 2.− In via preliminare, si deve rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte, come già avvenuto più volte in passato, non solo ha consentito l’illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), ma – prima ancora – ha altresì ammesso gli scritti presentati da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata, e tuttavia interessati alla decisione sull’ammissibilità delle richieste referendarie, come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte (da ultimo: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012). Tale ammissione non si traduce in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque sia, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – e di illustrare le relative tesi in camera di consiglio, ma comporta solo la facoltà della Corte, ove lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti, come è appunto avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, prima che i soggetti di cui al citato art. 33 illustrino le rispettive posizioni. 3.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, il giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo si propone di «verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall’art. 75, secondo comma, della Costituzione, attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario; sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione (sentenze n. 174 del 2011, n. 137 del 1993, n. 48 del 1981 e n. 70 del 1978): omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria» (sentenza n. 17 del 2016). Ai fini di tale valutazione, è necessario innanzitutto individuare la portata del quesito. Come questa Corte ha chiarito, «la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e, pertanto, l’obiettivo dei sottoscrittori del referendum va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente rese dai promotori (dichiarazioni, oltretutto, aventi spesso un contenuto diverso in sede di campagna per la raccolta delle sottoscrizioni, rispetto a quello delle difese scritte od orali espresse in sede di giudizio di ammissibilità), ma esclusivamente dalla finalità “incorporata nel quesito”, cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento […] (ex plurimis, sentenze n. 16 e n. 15 del 2008, n. 37 del 2000, n. 17 del 1997)» (sentenza n. 24 del 2011; nello stesso senso, più di recente, sentenza n. 28 del 2017). Al riguardo, va altresì ribadito che il giudizio di ammissibilità che questa Corte è chiamata a svolgere si atteggia, per costante giurisprudenza, «con caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati a questa Corte, ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti con forza di legge» (sentenze n. 26 del 2011, n. 45 del 2005, n. 16 del 1978 e n. 251 del 1975). Non sono pertanto in discussione, in questa sede, profili di illegittimità costituzionale, sia della legge oggetto di referendum, sia della normativa risultante dall’eventuale abrogazione referendaria (sentenze n. 27 del 2017, n. 48, n. 47 e n. 46 del 2005). Quel che può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, è soltanto una «valutazione liminare ed inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se […] il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale» (sentenze n. 24 del 2011, n. 16 e n. 15 del 2008 e n. 45 del 2005). 3.1.– Nella specie, il quesito referendario verte sull’art. 579 cod. pen., che configura il delitto di omicidio del consenziente. Si tratta di norma incriminatrice strettamente finitima, nell’ispirazione, a quella del successivo art. 580 cod. pen., che incrimina l’aiuto (oltre che l’istigazione) al suicidio. Le due disposizioni riflettono, nel loro insieme, l’intento del legislatore del codice penale del 1930 di tutelare la vita umana anche nei casi in cui il titolare del diritto intenderebbe rinunciarvi, sia manu alius, sia manu propria, ma con l’ausilio di altri. Esclusa una reazione sanzionatoria nei confronti dello stesso autore dell’atto abdicativo, anche nei casi in cui essa sarebbe materialmente possibile (per essere il fatto rimasto allo stadio del tentativo), il legislatore erige una “cintura di protezione” indiretta rispetto all’attuazione di decisioni in suo danno, inibendo, comunque sia, ai terzi di cooperarvi, sotto minaccia di sanzione penale. In quest’ottica, l’art. 579 cod. pen. punisce segnatamente, al primo comma, con la reclusione da sei a quindici anni «[c]hiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui». In tal modo, la norma esclude implicitamente, ma univocamente, che rispetto al delitto di omicidio possa operare la scriminante del consenso dell’offeso, la quale presuppone la disponibilità del diritto leso (art. 50 cod. pen.), accreditando, con ciò, il bene della vita umana del connotato dell’indisponibilità da parte del suo titolare. L’omicidio del consenziente è configurato, pur tuttavia, come fattispecie autonoma di reato, punita con pena più mite di quella prevista in via generale per il delitto di omicidio (art. 575 cod. pen.), in ragione del ritenuto minor disvalore del fatto. Nella medesima prospettiva di mitigazione del trattamento sanzionatorio, il secondo comma dell’art. 579 cod. pen. rende, altresì, inapplicabili all’omicidio del consenziente le circostanze aggravanti comuni indicate nell’art. 61 cod. pen. Il successivo terzo comma dell’art. 579 cod. pen. sottrae, peraltro, al perimetro applicativo della fattispecie meno severamente punita, riportandole nell’alveo della fattispecie comune, le ipotesi nelle quali il consenso sia prestato da un soggetto incapace o risulti affetto da un vizio che lo rende invalido. La disposizione stabilisce, in particolare, che «[s]i applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno». 3.2.– Il quesito referendario in esame è costruito con la cosiddetta tecnica del ritaglio, ossia chiedendo l’abrogazione di frammenti lessicali della disposizione attinta, in modo da provocare la saldatura dei brani linguistici che permangono. Agli elettori viene, infatti, chiesto se vogliano una abrogazione parziale della norma incriminatrice che investa il primo comma dell’art. 579 cod. pen., limitatamente alle parole «la reclusione da sei a quindici anni»; l’intero secondo comma; il terzo comma, limitatamente alle parole «Si applicano». Per effetto del ritaglio e della conseguente saldatura tra l’incipit del primo comma e la parte residua del terzo comma, la disposizione risultante dall’abrogazione stabilirebbe quanto segue: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno». Il risultato oggettivo del successo dell’iniziativa referendaria sarebbe, dunque, quello di rendere penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa, fuori dai casi in cui il consenso risulti invalido per l’incapacità dell’offeso o per un vizio della sua formazione. Eliminando la fattispecie meno severamente punita di omicidio consentito e limitando l’applicabilità delle disposizioni sull’omicidio comune alle sole ipotesi di invalidità del consenso dianzi indicate, il testo risultante dall’approvazione del referendum escluderebbe implicitamente, ma univocamente, a contrario sensu, la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente in tutte le altre ipotesi: sicché la norma verrebbe a sancire, all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo. L’effetto di liceizzazione dell’omicidio del consenziente oggettivamente conseguente alla vittoria del sì non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili. Alla luce della normativa di risulta, la “liberalizzazione” del fatto prescinderebbe dalle motivazioni che possono indurre a chiedere la propria morte, le quali non dovrebbero risultare necessariamente legate a un corpo prigioniero di uno stato di malattia con particolari caratteristiche, potendo connettersi anche a situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale, economica e via dicendo), sino al mero taedium vitae, ovvero pure a scelte che implichino, comunque sia, l’accettazione della propria morte per mano altrui. Egualmente irrilevanti risulterebbero la qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte (potendo l’agente servirsi non solo di farmaci che garantiscano una morte indolore, ma anche di armi o mezzi violenti di altro genere). Né può tacersi che tra le ipotesi di liceità rientrerebbe anche il caso del consenso prestato per errore spontaneo e non indotto da suggestione. 3.3.– Al riguardo, non può essere, infatti, condivisa la tesi sostenuta dai promotori nel presente giudizio, e ripresa anche nelle difese di alcuni degli intervenuti, stando alla quale la normativa di risulta andrebbe reinterpretata alla luce del quadro ordinamentale nel quale si inserisce: porterebbe a ritenere che, ai fini della non punibilità dell’omicidio del consenziente, il consenso dovrebbe essere espresso nelle forme previste dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) e in presenza delle condizioni alle quali questa Corte, con la citata sentenza n. 242 del 2019, ha subordinato l’esclusione della punibilità per il finitimo reato di aiuto al suicidio, di cui all’art. 580 cod. pen., non attinto dal quesito referendario (di modo che il consenziente dovrebbe identificarsi in una persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche per lei assolutamente intollerabili, e tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli). A fronte della limitazione della rilevanza penale dell’omicidio del consenziente alle sole ipotesi espressamente indicate dall’attuale terzo comma dell’art. 579 cod. pen., nulla autorizzerebbe a ritenere che l’esenzione da responsabilità resti subordinata al rispetto della “procedura medicalizzata” prefigurata dalla legge n. 219 del 2017 per l’espressione (o la revoca) del consenso a un trattamento terapeutico (o del rifiuto di esso). Del resto, anche l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, dopo aver proposto, con ordinanza non definitiva del 30 novembre 2021, una denominazione del quesito referendario nella quale non compariva la parola «eutanasia» – in specie, quella di «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice di penale (omicidio del consenziente)» –, non ha poi accolto, con l’ordinanza conclusiva del 15 dicembre 2021, la richiesta dei promotori di aggiungere a tale denominazione la frase «Disponibilità della propria vita mediante consenso libero, consapevole, informato». Ha rilevato, infatti, l’Ufficio centrale che l’integrazione proposta prospettava un bilanciamento tra i due diritti che vengono in gioco (diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione) che non trova fondamento nella sentenza n. 242 del 2019 e non «è rispettoso dei limiti di un quesito di natura abrogativa, spingendosi piuttosto sul terreno di scelte eventualmente spettanti agli organi istituzionalmente competenti all’adozione di una disciplina organica della materia». 4.– A quest’ultimo proposito, non è neppure significativo, agli odierni fini, che l’iniziativa referendaria – nata quale reazione all’inerzia del legislatore nel disciplinare la materia delle scelte di fine vita, anche dopo i ripetuti moniti provenienti da questa Corte (sentenza n. 242 del 2019 e ordinanza n. 207 del 2018) – sia destinata, nell’idea dei promotori, a fungere da volano per il varo di una legge che riempia i vuoti lasciati dal referendum. Come precisato, infatti, da questa Corte, sono irrilevanti in sede di giudizio di ammissibilità del referendum «i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata; né ad una richiesta referendaria abrogativa, quale è quella prevista dall’art. 75 della Costituzione, è possibile di per sé attribuire un significato ricostruttivo di una nuova e diversa disciplina. Ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti, per esaminare, tra l’altro, se essa abbia per avventura un contenuto non consentito perché in contrasto con la Costituzione» (sentenza n. 17 del 1997). 5.– Proprio questa, in effetti, è l’ipotesi che ricorre nel caso in esame, venendo il quesito referendario ad incidere su normativa costituzionalmente necessaria. 5.1.– A partire dalla sentenza n. 16 del 1978, questa Corte ha costantemente affermato l’esistenza di «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.». Una delle categorie allora individuate consisteva nei «referendum aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)». All’interno di questa categoria di norme legislative che non possono essere oggetto di richieste referendarie, la sentenza n. 27 del 1987 ha chiarito che debbono essere enucleate «due distinte ipotesi: innanzitutto le leggi ordinarie che contengono l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale, di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione di quest’ultima (cfr. sentenze n. 26/1981 e 16/1978); in secondo luogo, le leggi ordinarie, la cui eliminazione ad opera del referendum priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale “la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione (cfr. sentenza n. 25/1981)”». Successivamente, la sentenza n. 35 del 1997 ha riferito quest’ultima ipotesi anche a quelle «leggi ordinarie la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione», e la sentenza n. 49 del 2000 ha puntualizzato che le leggi «costituzionalmente necessarie», poiché sono «dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento». Con la sentenza n. 45 del 2005, infine, si è ulteriormente precisato, per un verso, che la natura di legge costituzionalmente necessaria può anche essere determinata dal fatto che una certa disciplina «coinvolg[a] una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa», e per l’altro, che «il vincolo costituzionale può anche riferirsi solo a parti della normativa oggetto del quesito referendario o anche al fatto che una disciplina legislativa comunque sussista». 5.2.– Nel caso oggi in esame viene in considerazione un valore che si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona. Come questa Corte ha avuto modo di chiarire in più occasioni, il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost., è «da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”» (sentenza n. 35 del 1997). Esso «concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona» (sentenza n. 238 del 1996). Posizione, questa, confermata da ultimo, proprio per la tematica delle scelte di fine vita, nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, ove si è ribadito che il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 35 del 1997), nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, è il «“primo dei diritti inviolabili dell’uomo” (sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri», ponendo altresì in evidenza come da esso discenda «il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire». 5.3.– Rispetto al reato di omicidio del consenziente, può, d’altro canto, ripetersi quanto già osservato da questa Corte in rapporto alla figura finitima dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018). Se è ben vero, cioè, che il legislatore del 1930, mediante la norma incriminatrice di cui all’art. 579 cod. pen., intendeva tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile anche in funzione dell’interesse che lo Stato riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini, non è però affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di tutela della norma «alla luce del mutato quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi». Vietando ai terzi di farsi esecutori delle altrui richieste di morte, pur validamente espresse, l’incriminazione dell’omicidio del consenziente assolve, in effetti, come quella dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018), allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma occorre aggiungere: non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate. A questo riguardo, non può non essere ribadito il «cardinale rilievo del valore della vita», il quale, se non può tradursi in un dovere di vivere a tutti i costi, neppure consente una disciplina delle scelte di fine vita che, «in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale», ignori «le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite» (ordinanza n. 207 del 2018). Quando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima. Discipline come quella dell’art. 579 cod. pen., poste a tutela della vita, non possono, pertanto, essere puramente e semplicemente abrogate, facendo così venir meno le istanze di protezione di quest’ultima a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale. La norma incriminatrice vigente annette a quest’ultima una incidenza limitata, che si risolve nella mitigazione della risposta sanzionatoria, in capo all’autore del fatto di omicidio, in ragione del consenso prestato dalla vittima. Non si tratta di una legge a contenuto costituzionalmente vincolato, non essendo quella ora indicata l’unica disciplina della materia compatibile con il rilievo costituzionale del bene della vita umana. Discipline come quella considerata possono essere modificate o sostituite dallo stesso legislatore con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali esse si saldano. Già in occasione di uno dei referendum sull’interruzione della gravidanza, questa Corte ha del resto dichiarato inammissibile la richiesta referendaria, richiamando la necessità di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, con specifico riferimento al diritto alla vita (sentenza n. 35 del 1997). 5.4.– Non gioverebbe opporre – come fanno i promotori e alcuni degli intervenienti – che l’abrogazione dell’art. 579 cod. pen. richiesta dal quesito referendario, non essendo totale, ma solo parziale, garantirebbe i soggetti vulnerabili, in quanto resterebbero ancora puniti gli omicidi perpetrati in danno dei soggetti indicati dall’attuale terzo comma: e ciò tanto più alla luce del rigore con il quale la giurisprudenza ha mostrato sinora di valutare la ricorrenza dei presupposti di operatività della fattispecie meno gravemente punita dell’omicidio del consenziente. Le ipotesi alle quali rimarrebbe circoscritta la punibilità attengono, infatti, a casi in cui il consenso è viziato in modo conclamato per le modalità con le quali è ottenuto, oppure intrinsecamente invalido per la menomata capacità di chi lo presta. Le situazioni di vulnerabilità e debolezza alle quali hanno fatto riferimento le richiamate pronunce di questa Corte non si esauriscono, in ogni caso, nella sola minore età, infermità di mente e deficienza psichica, potendo connettersi a fattori di varia natura (non solo di salute fisica, ma anche affettivi, familiari, sociali o economici); senza considerare che l’esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive del titolare del diritto, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate, va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili. In tutte queste ipotesi, l’approvazione della proposta referendaria – che, come rilevato, renderebbe indiscriminatamente lecito l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito senza incorrere nei vizi indicati, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata – comporterebbe il venir meno di ogni tutela. 6.– Alla luce delle considerazioni svolte, deve quindi concludersi per la natura costituzionalmente necessaria della normativa oggetto del quesito, che, per tale motivo, è sottratta all’abrogazione referendaria, con conseguente inammissibilità del quesito stesso. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione, nelle parti indicate in epigrafe, dell’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente), dichiarata legittima dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, con ordinanza del 15 dicembre 2021. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 febbraio 2022. F.to: Giuliano AMATO, Presidente Franco MODUGNO, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2022. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MARINI Luigi - Presidente Dott. GALTERIO Donatella - Consigliere Dott. ACETO Aldo - Consigliere Dott. MENGONI Enrico - rel. Consigliere Dott. SESSA Gennaro - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna; nel procedimento a carico di: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso l'ordinanza del 26/5/2021 del Tribunale del riesame di Ravenna visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere Dott. Enrico Mengoni; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Angelillis Ciro, che ha chiesto l'annullamento con rinvio dell'ordinanza; letta la memoria depositata dal difensore del ricorrente, Avv. (OMISSIS), il 27/10/2021, con la quale si chiede dichiarare inammissibile il ricorso, nonche' la memoria di replica del 3/11/2021. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 26/5/2021, il Tribunale del riesame di Ravenna annullava - limitatamente ad un ambulatorio medico veterinario - il decreto di sequestro preventivo emesso dal locale Giudice per le indagini preliminari il 3/5/2021 nei confronti di (OMISSIS), indagato per plurime condotte di uccisione e maltrattamenti di animali, falso ideologico e materiale, abusivo esercizio della professione di farmacista, violazione delle prescrizioni sullo smaltimento dei rifiuti, irregolare tenuta dei registri di carico e scarico degli stupefacenti, detenzione per la vendita e cessione a terzi di alimenti ad uso umano in cattivo stato di conservazione, vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine; a giudizio del Collegio, il vincolo sull'ambulatorio era privo del carattere di proporzionalita', non ravvisandosi un integrale asservimento della struttura a fini illeciti. 2. Propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna, deducendo - con unico, ampio motivo - l'inosservanza o erronea applicazione dell'articolo 325 c.p.p., in relazione all'articolo 321 c.p.p. Il Tribunale del riesame, dopo aver riscontrato il fumus di tutti i reati per i quali e' stato disposto il sequestro preventivo (analiticamente richiamati alle pagg. 16-17), avrebbe revocato il vincolo sull'ambulatorio con argomento incoerente, incompleto ed irragionevole, che non renderebbe comprensibile l'iter logico seguito dallo stesso Giudice, da ritenere dunque mancante. In particolare, il ricorso - che richiama ampiamente il provvedimento genetico e quello impugnato - lamenta che il Tribunale, da un lato, avrebbe confermato l'esigenza di prevenzione, ma, dall'altro, non avrebbe chiarito come questa potrebbe essere soddisfatta senza sequestrare l'intero ambulatorio. Ancora sul punto, poi, il provvedimento sarebbe retto da motivazione contraddittoria, in quanto, per un verso, sosterrebbe che sarebbe stato sufficiente sottoporre a vincolo i beni strumentali all'attivita' veterinaria ed i macchinari (peraltro, non specificati nell'ordinanza), e, per altro verso, restituirebbe all'indagato l'intero compendio aziendale, compresi, quindi, gli stessi strumenti della professione. La motivazione, dunque, sarebbe radicalmente viziata e, come tale, insuscettibile di superare la differente, ben piu' congrua valutazione operata dal G.i.p., che avrebbe chiaramente descritto l'ambulatorio come finalizzato alla consumazione di una pluralita' di attivita' illecite, nonche' teatro di queste; cosi' da rendere necessario il vincolo sullo stesso immobile al fine di prevenire il pericolo di ulteriori reati o l'aggravamento di quelli gia' contestati. Infine, il ricorso contesta l'affermazione del Collegio secondo la quale, nel caso di specie, sarebbe stata sufficiente una misura interdittiva; nessuno dei reati per i quali e' stato applicato il vincolo reale, infatti, consentirebbe un simile provvedimento, dal che l'evidente error in procedendo commesso dal Tribunale. 3. Con requisitoria scritta del 28/10/2021, il Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata. Il difensore dell'indagato ha depositato memoria, con la quale ha chiesto dichiarare inammissibile il ricorso, nonche' repliche alla requisitoria del Procuratore Generale. CONSIDERATO IN DIRITTO 4. Osserva preliminarmente questa Corte che, in sede di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l'articolo 325 c.p.p. ammette il sindacato di legittimita' soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge. Nella nozione di "violazione di legge" rientrano, in particolare, la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise norme processuali, ma non l'illogicita' manifesta, la quale puo' denunciarsi nel giudizio di legittimita' soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui all'articolo 606 stesso codice, lettera e (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino S., Rv. 224611). 5. Tanto premesso in termini generali, il ricorso risulta fondato. 6. In primo luogo, si osserva che il Tribunale del riesame ha confermato il fumus boni iuris con riguardo a tutte le condotte contestate al (OMISSIS) - tra i 26 capi di incolpazione - per le quali era stato disposto il vincolo reale sull'ambulatorio (sinteticamente richiamate, nell'ordinanza, sub capi 1, 3, 6, 7); in ordine a molte di queste, inoltre, e' stata sottolineata come evidente la stretta connessione con l'attivita' di veterinario esercitata dall'indagato, come per i capi da 1 a 4 e da 22 a 26 (maltrattamenti ed uccisione di animali), 6-7 (falsificazione, tentata e consumata, di libretti sanitari di cani), 8 (detenzione per il commercio di medicinali ad uso umano e veterinario scaduti o mal conservati); 9 (esercizio abusivo della professione di farmacista, con preparazione e vendita di farmaci veterinari), da 11 a 14 (mancato smaltimento di rifiuti sanitari pericolosi derivanti da animali), 15 (ricettazione di farmaci veterinari), 18 (contraffazione e falsificazione del libretto sanitario di un cane) e 27 (falsificazione di un registro di carico e scarico degli stupefacenti impiegati nell'eutanasia di un cane). 7. Di seguito, l'ordinanza impugnata ha riconosciuto anche il periculum in mora, evidenziando che la libera disponibilita' dei beni in cautela poteva aggravare o protrarre le conseguenze dei reati contestati, o agevolare la consumazione di altri reati. 8. Infine, il Tribunale ha tuttavia riscontrato una sproporzione tra queste esigenze cautelari ed il vincolo sull'intero ambulatorio veterinario, sostenendo che non si potesse ritenere la struttura come integralmente asservita alle attivita' delittuose, "non emergendo elementi tali da connotare in senso esclusivamente illecito l'operativita' dell'ambulatorio veterinario"; a giudizio del Collegio, infatti, alcuni addebiti risulterebbero episodici (come i maltrattamenti e le uccisioni degli animali), oppure atterrebbero a "singoli segmenti di attivita' che non involgono in toto l'intera attivita' professionale" (falsificazione di libretti, detenzione di farmaci scaduti, abusivo esercizio della professione farmaceutica, illecito smaltimento di rifiuti sanitari, irregolarita' nella tenuta del registro di carico/scarico degli stupefacenti), oppure ancora sarebbero estranei alla stessa attivita' (come l'abusivo esercizio dell'attivita' di apicoltore e l'abusiva detenzione per la vendita di miele e propoli). In forza di queste considerazioni, il Collegio ha quindi annullato la misura quanto all'ambulatorio, ritenuta "evidentemente esuberante" rispetto alle finalita' preventive, peraltro evitabili attraverso il sequestro di "singoli e specifici macchinari e/o beni strumentali", se non con misure interdittive. 9. Il Tribunale del riesame, dunque, pur riconoscendo che molti dei reati contestati al (OMISSIS) - e riscontrati per fumus e periculum - coinvolgevano in via diretta l'attivita' professionale di veterinario, svolta esclusivamente nell'ambulatorio, ha tuttavia eliminato il vincolo sullo stesso bene sul presupposto che altre condotte illecite - ancora riscontrate per fumus e periculum - non presentavano invece alcun collegamento con la professione e, dunque, con l'immobile sequestrato, cosi' da renderne sproporzionato l'integrale vincolo. 10. Ebbene, la Corte ritiene che questa parte della motivazione sia palesemente viziata, in quanto sostenuta da un argomento apparente che non consente di comprendere quale iter logico fondi la decisione. 11. Il Tribunale, infatti, avrebbe dovuto specificare in quale altro modo la riconosciuta esigenza cautelare potesse esser soddisfatta, se non con il sequestro dell'intero ambulatorio; specie, peraltro, considerando che - come gia' chiarito l'ordinanza non ha mai sostenuto che determinate parti dello stesso bene fossero risultate estranee alla commissione dei reati (cosi' da poter esser eventualmente liberate), ma - diversamente - che determinati illeciti fossero estranei all'attivita' professionale. In altri termini, se per alcuni reati e' stato ravvisato un chiaro collegamento funzionale con la professione, e quindi con l'immobile, per altri lo stesso collegamento e' stato escluso, non venendo dunque coinvolto il bene, in alcuna misura; con riguardo ai primi, dunque, l'ordinanza avrebbe dovuto specificare gli strumenti di tutela da approntare per soddisfare le esigenze di cui all'articolo 321 c.p.p. (ad esempio, qualora possibile, un vincolo parziale sul bene), e non gia' lasciare sul punto una palese lacuna argomentativa. 12. Tale lacuna, peraltro, non puo' di certo ritenersi colmata dal passo del provvedimento con cui - in termini del tutto generici ed astratti - si evoca il possibile sequestro preventivo "di singoli e specifici macchinari e/o beni strumentali", non meglio precisati (e, peraltro, verosimilmente compresi tra quelli restituiti dallo stesso Tribunale con il dissequestro dell'intero ambulatorio), ne' il richiamo a "piu' adeguate misure personali di tipo interdittivo", invero escluse dai limiti edittali dei reati in rubrica, ai sensi dell'articolo 287 c.p.p.. L'ordinanza, pertanto, deve essere annullata per nuovo giudizio, con rinvio al Tribunale di Ravenna. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Ravenna competente ai sensi dell'articolo 324 c.p.p., comma 5.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SABEONE Gerardo - Presidente Dott. PEZZULLO Rosa - Consigliere Dott. MICCOLI Grazia - rel. Consigliere Dott. SETTEMBRE Antonio - Consigliere Dott. BELMONTE Maria Teresa - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 02/07/2019 della CORTE APPELLO di BRESCIA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. MICCOLI GRAZIA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. BIRRITTERI LUIGI, che ha concluso chiedendo: 1) per (OMISSIS) l'annullamento senza rinvio limitatamente ai capi A), B) e D) per prescrizione; l'annullamento con rinvio limitatamente al capo C); 2) per gli altri ricorrenti l'annullamento con rinvio; uditi i difensori: l'avv. (OMISSIS), per la parte civile (OMISSIS) ONLUS, si e' riportata alla memoria difensiva depositata in cancelleria in data 10/05/2021, con allegata nota spese; l'avv. (OMISSIS), per la parte civile (OMISSIS) ONLUS, si e' riportata alla memoria gia' depositata in cancelleria in data 12/05/2021; ha quindi depositato conclusioni scritte unitamente alla nota spese; - l'avv. (OMISSIS), per la parte civile (OMISSIS) ONLUS, ha depositato conclusioni scritte unitamente alla nota spese; - l'avv. (OMISSIS), in difesa di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), ha chiesto l'accoglimento dei ricorsi; - l'avvocato (OMISSIS), in difesa di (OMISSIS), ha chiesto l'accoglimento del ricorso, associandosi anche alle conclusioni del Procuratore Generale relativamente alla prescrizione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Con sentenza del 7 febbraio 2018 il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Brescia, all'esito del rito abbreviato, assolveva (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) dalle imputazioni loro rispettivamente ascritte ex articoli 40-544 ter e 544 bis c.p. (capi A e B per (OMISSIS) e (OMISSIS)), articolo 479 c.p. - articolo 476 c.p., comma 2 (capo C per (OMISSIS) e capo G per (OMISSIS)), 361 c.p. (capo D per (OMISSIS) e capo F per (OMISSIS)) e articolo 372 c.p. (capo E per (OMISSIS), capo H per (OMISSIS), capo I per (OMISSIS) e capo L per (OMISSIS)), con la formula "perche' il fatto non sussiste". Per quanto qui di interesse, si riportano le imputazioni per cui si e' proceduto nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS): (OMISSIS) e (OMISSIS). A) delitto di cui all'articoli 110, 81 cpv. c.p., articolo 40 c.p., comma 2, articolo 544-ter c.p., commi 1 e 3, perche', in concorso tra loro e con (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) (tutti giudicati separatamente nel proc. pen. 14838/2012 Mod. 21 e condannati con sentenza di prima grado emessa il 23.01.2015), anche violando i doveri loro imposti dalla L. n. 833 del 1978, articoli 13, 14 e 32, nonche' dalla Legge Regionale n. 33 del 2009, in particolare: - (OMISSIS), in qualita' di veterinario in servizio presso la A.S.L. di (OMISSIS), Distretto di (OMISSIS), quindi pubblico ufficiale, responsabile dei controlli presso l'allevamento della (OMISSIS) S.R.L., ometteva sistematicamente di effettuare i controlli previsti dal Decreto Legislativo n. 116 del 1992 e dall'articolo 99, e s.s. del Testo Unico Leggi Regionali in materia di sanita' (Legge Regionale 30 dicembre 2009, n. 33), nonche' comunicava in anticipo alla (OMISSIS) S.R.L. le ispezioni programmate dalla A.S.L. di (OMISSIS), nonche' dalle Autorita' Sanitarie Regionali e del Ministero della Salute; (omissis). con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, senza necessita', privando i 2.639 cani di razza beagle detenuti nell'allevamento, dagli stessi gestito, dei loro pattern comportamentali (ovvero di tutte le attivita' vitali ed insopprimibili di ogni specie), li sottoponessero a comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche. In particolare, i 2.639 cani di razza beagle erano detenuti in un ambiente inadeguato ad esprimere i comportamenti etologici propri della loro specie, attraverso una serie di anomalie riscontrate (quali ad es. il c.d. freezing, paura, ansia, stereotipie, comportamenti ridiretti), manifestavano uno stato di stress cronico (c.d. distress) direttamente cagionato: a) dalla temperatura consapevolmente mantenuta elevata all'interno dei capannoni in cui i cani medesimi erano detenuti all'interno delle varie gabbie e comunque, non regolata in base al benessere degli animali ivi presenti; b) dall'assordante e continuo frastuono provocato dall'abbaiare dei cani stessi all'interno dei capannoni; c) dalla presenza costante e quasi esclusiva di illuminazione artificiale, essendo i capannoni costruiti in modo da non fare penetrare (se per qualche feritoia) la luce naturale del sole al loro interno; d) dall'assenza di adeguati spazi all'interno delle gabbie che consentisse l'isolamento del singolo animale che, pertanto, non aveva possibilita' di sottrarsi alle sollecitazioni esterne, anche provenienti dai suoi simili; e) dalla totale mancanza di aree di sgambamento (c.d. aree paddock, cfr. Decreto Legislativo n. 116 del 1992) che consentissero ai cani le normali attivita' proprie della loro specie; f) dal vivere in un ambiente ristretto sempre uguale e quindi, privo di stimoli olfattivi e sensoriali imprescindibili per un beagle, essendo questi un cane da caccia; g) dall'essere imposto alle fattrici, per ovvie finalita' commerciali, di sopportare un numero di parti per anno che ne cagionavano il totale disfacimento fisico e mentale; h) dal separare i cuccioli dalle madri prima del tempo e nel lasciarli da soli in gabbie piene di lettiera ricavata da piccoli pezzi di segatura che venivano ingeriti dai piccoli, cagionandone in molti casi il decesso per soffocamento, in altri la disidratazione o l'impossibilita' di alimentarsi; i) dal subire anestesie gassose senza che venissero rispettate le normali procedure veterinarie che prevedono la sedazione propedeutica necessaria a indurre il livello di analgesia e anestesia senza sensazione di soffocamento e agitazione; dall'essere, alcuni di essi, affetti da dermatiti varie (ivi compresa la rogna demodettica, c.d. rogna rossa) e parvovirosi per le quali nessuna cura e nessun accorgimento igienico-sanitario venivano intrapresi e da cui derivavano uccisioni non necessitate in quanto animali privi di utilita' economica; j) dall'essere, alcuni essi, mantenuti in gabbie sporche di sangue, feci rapprese e urina. Ne' impedivano, pur essendovi tenuti che (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), in concorso tra loro, e nelle qualita' sopra descritte, con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, senza necessita' e con il solo fine di abbattere i costi di impresa, per procedere all'identificazione dei cani, in luogo dell'indolore ma costoso micro-chip, utilizzassero la tatuatura con gli aghi, strumento da considerarsi vietato dal combinato disposto del Decreto Legislativo n. 116 del 1992, articolo 13 e Legge Regionale Lombardia n. 16 del 2006, 7. Ne' impedivano che (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), in concorso tra loro e nelle qualita' sopra descritte, con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, senza necessita', tagliandogli di netto le unghie fino alla base, cagionassero ai cani beagle lesioni dovute alla rottura dei vasi sanguigni connessi alle radici delle unghie medesime. Con l'aggravante dell'essere derivata la morte di n. 104 cani beagle. Accertato in (OMISSIS); B) delitto di cui all'articolo 110 c.p., articolo 40 c.p., comma 2, articoli 81 cpv. 544-bis c.p., perche', in concorso tra loro e con (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) (tutti giudicati separatamente nel proc. pen. 14838/2012 Mod. 21 e condannati con sentenza di prima grado emessa il 23.01.2015), anche violando i doveri loro imposti dalla L. n. 833 del 1978, articoli 13, 14 e 32, nonche' dalla Legge Regionale n. 33 del 2009, in particolare: - (OMISSIS), in qualita' di veterinario in servizio presso la A.S.L. di (OMISSIS), Distretto di (OMISSIS), quindi pubblico ufficiale, responsabile dei controlli presso l'allevamento della (OMISSIS) s.r.l., ometteva sistematicamente di effettuare i controlli previsti dal Decreto Legislativo n. 116 del 1992 e dall'articolo 99, e s.s. del Testo Unico Leggi Regionali in materia di sanita' (Legge Regionale 30 dicembre 2009, n. 33), nonche' comunicava in anticipo alla (OMISSIS) s.r.l. le ispezioni programmate dalla A.S.L. di (OMISSIS), nonche' dalle Autorita' Sanitarie Regionali e del Ministero della Salute; (omissis). pur essendovi tenuti, non impedivano che: - (OMISSIS), quale legale rappresentante della (OMISSIS) s.r.l. e gestore di fatto, dell'allevamento (OMISSIS); - (OMISSIS), quale direttore dell'allevamento (OMISSIS), avente un ruolo esecutivo delle direttive impartite da (OMISSIS); - (OMISSIS), quale veterinario responsabile dell'allevamento (OMISSIS), quindi, gestore di tutte le questioni sanitarie relative ai cani detenuti, con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, senza necessita' se non quella di liberarsi di un prodotto non piu' vendibile alla clientela, mediante soppressione (cd. eutanasia), cagionassero la morte n. 44 cani beagle. Accertato in (OMISSIS). (OMISSIS). C) delitto di cui all'articolo 479 c.p. in relazione all'articolo 476 c.p., u.c., perche', in qualita' di medico - veterinario in servizio presso la A.S.L. di (OMISSIS), Distretto di (OMISSIS), responsabile dei controlli dell'allevamento gestito dalla (OMISSIS) s.r.l., quindi pubblico ufficiale, in occasione dell'ispezione del 15 marzo 2012 ometteva di indicare, nel relativo verbale, che i 2.639 cani di razza beagle erano detenuti in un ambiente inadeguato ad esprimere i comportamenti etologici propri della loro specie, attraverso una serie di etoanomalie riscontrate (quali ad es. il c.d. freezing, paura, ansia, stereotipie, comportamenti ridiretti), manifestavano uno stato di stress cronico (c.d. distress) direttamente cagionato: 1. dalla temperatura consapevolmente mantenuta elevata all'interno dei capannoni in cui i cani medesimi erano detenuti all'interno delle varie gabbie e, comunque, non regolata in base al benessere degli animali ivi presenti e alle variazioni della temperatura esterna; 2. dall'assordante e continuo frastuono provocato dall'abbaiare dei cani stessi all'interno dei capannoni; 3. dalla presenza costante e quasi esclusiva di illuminazione artificiale, essendo i capannoni costruiti in modo da non fare penetrare (se per qualche feritoia) la luce naturale del sole al loro interno; 4. dall'assenza di adeguati spazi all'interno delle gabbie che consentisse l'isolamento del singolo animale che, pertanto, non aveva possibilita' di sottrarsi alle sollecitazioni esterne, anche provenienti dai suoi simili; 5. dalla totale mancanza di aree di sgambamento (cd. aree paddock, cfr. Decreto Legislativo n. 116 del 1992) che consentissero ai cani le normali attivita' proprie della loro specie; 6. dal vivere in un ambiente ristretto sempre uguale e, quindi, privo di stimoli olfattivi e sensoriali imprescindibili per un beagle, essendo questi un cane da caccia; 7. dall'essere imposto alle fattrici, per ovvie finalita' commerciali, di sopportare un numero di parti per anno che ne cagionavano il totale disfacimento fisico e mentale; 8. dal separare i cuccioli dalle madri prima del tempo e nel lasciarli da soli in gabbie piene di lettiera ricavata da piccoli pezzi di segatura che venivano ingeriti dai piccoli, cagionandone in molti casi il decesso per soffocamento, in altri la disidratazione o l'impossibilita' di alimentarsi; 9. dal subire anestesie gassose senza che venissero rispettate le normali procedure veterinarie che prevedono la sedazione propedeutica necessaria a indurre il livello di analgesia e anestesia senza sensazione di soffocamento e agitazione; 10. dall'essere, alcuni di essi, affetti da dermatiti varie (ivi compresa la rogna demodettica) e da parvovirosi per le quali nessuna cura e nessun accorgimento igienico-sanitario venivano intrapresi anche a prevenzione del contagio. Con l'aggravante di avere emesso un atto fidefacente ideologicamente falso. Commesso in (OMISSIS); D) delitto di cui all'articolo 361 c.p., perche', in qualita' di medico - veterinario in servizio presso la A.S.L. di (OMISSIS), Distretto di (OMISSIS), responsabile dei controlli dell'allevamento gestito dalla (OMISSIS) s.r.l., quindi pubblico ufficiale, ometteva di denunciare all'Autorita' Giudiziaria il delitto di maltrattamento di cui all'articolo 544-ter c.p., commesso in danno dei cani beagle detenuti all'interno dell'allevamento in questione. Commesso in (OMISSIS); (omissis). (OMISSIS). H) delitto di cui all'articolo 372 c.p., perche', all'udienza del 19.11.2014, sentita in qualita' di testimone nel procedimento penale n. 14838/2012 Mod. 21, falsamente dichiarava che: 1. i cani, una volta aperti i box, venivano incontro all'operatore in maniera festosa; 2. si arrivava all'eutanasia dei cani quando questi venivano ritenuti dal veterinario senza piu' speranza e, quindi, per evitargli l'agonia; 3. le fattrici a fine carriera venivano tenute nel capannone n. 5 per essere poi donate; 4. l'unico problema riscontrato nella segatura contenuta nei box dell'allevamento (OMISSIS) era quello relativo al potere assorbente; 5. le ispezioni effettuate presso l'allevamento della (OMISSIS) s.r.l. erano tutte a sorpresa, quindi, senza preavviso alcuno da parte della A.S.L. di (OMISSIS); 6. presso l'allevamento (OMISSIS) non si erano verificate morti di cani per ingestione di segatura; 7. non era a conoscenza del fatto che presso l'allevamento (OMISSIS) fossero deceduti cani affetti da rogna; 8. presso l'allevamento (OMISSIS) non erano mai stati soppressi cani affetti da rogna; 9. l'obiettivo della cd. socializzazione era quello di fare vivere ai cani il momento della manipolazione non come un momento di stress, quindi, l'operazione era finalizzata al loro benessere. Commesso in (OMISSIS). (OMISSIS). I) delitto di cui all'articolo 372 c.p., perche', all'udienza del 26.11.2014, sentito in qualita' di testimone nel procedimento penale n. 14838/2012 Mod. 21, falsamente dichiarava che: 1. nel capannone n. 3 dell'allevamento della (OMISSIS) s.r.l. venivano introdotti giocattoli in ogni singolo box; 2. l'azienda poneva grande attenzione che il deterioramento del giocattolo non fosse eccessivo e ci fosse la sostituzione di questo prima dell'eccessivo deterioramento: 3. le riunioni quindicinali organizzate dalla dirigenza fossero finalizzate a trovare modi sempre nuovi per aumentare ancora di piu' il benessere dei cani beagle; 4. il tema delle riunioni svoltesi a (OMISSIS) con riferimento al problema della segatura presente nei box dei cani, era solo quello di trovare una segatura che assorbisse meglio le loro deiezioni e che fosse meno polverosa. Commesso in (OMISSIS). (OMISSIS). L) delitto di cui all'articolo 372 c.p., perche', all'udienza del 12.11.2014, sentito in qualita' di testimone nel procedimento penale n. 14838/2012 Mod. 21, falsamente dichiarava che esistevano aree di sgambamento all'interno dei capannoni 4 e 5 dell'allevamento della (OMISSIS) s.r.l. e che, all'uopo, i beagle venivano fatti uscire dai box per almeno tre ore, nove/dieci box per volta. Commesso in (OMISSIS). 2. Con sentenza del 2 luglio 2019, la Corte di Appello di Brescia, in accoglimento parziale dell'appello del Pubblico Ministero, ha confermato l'assoluzione della (OMISSIS) (assolvendola pero' dai reati ascritti sub capi A, B, G con la formula "perche' il fatto non costituisce reato"), mentre ha dichiarato (OMISSIS) colpevole di tutti i reati a lui ascritti e, ritenuta la continuazione sotto il piu' grave reato di cui al capo C), lo ha condannato alla pena di anni di tre di reclusione ed Euro 166,00 di multa, nonche' alla pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni cinque. Ha inoltre condannato (OMISSIS) al risarcimento dei danni in favore delle parti civili (OMISSIS) Onlus, (OMISSIS) Onlus, (OMISSIS) Onlus, per la cui, determinazione sono stati rimessi avanti al giudice civile, con assegnazione di una provvisionale, quantificata in Euro 20.000 per (OMISSIS) Onlus e in Euro 10.000 per (OMISSIS) Onlus ed (OMISSIS) Onlus. Ha altresi' dichiarato: (OMISSIS) colpevole del reato ascrittole al capo H), (OMISSIS) colpevole del reato ascrittogli al capo I) e (OMISSIS) colpevole del reato ascrittogli al capo L), condannando ciascun imputato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione. 3. Avverso la suindicata sentenza di appello ha proposto ricorso (OMISSIS), con atto sottoscritto dal difensore avvocato (OMISSIS) e articolato in sei motivi, qui di seguito sinteticamente illustrati. 3.1. Con il primo motivo denunzia la nullita' della sentenza "per connessione con l'ordinanza 27.6.2019 di rinnovazione dell'istruttoria mediante l'esame dell'imputato, per violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c) in relazione all'articolo 603 c.p.p., comma 3 bis, articolo 601 c.p.p., comma 3 e articolo 178 c.p.p., lettera c)". Evidenzia il ricorrente che con la suddetta ordinanza, emessa all'esito della discussione del Procuratore Generale e dei difensori degli imputati (assenti le parti civili), la Corte di Appello ha invitato le parti, "vertendosi in un caso di eventuale reformatio in pejus", ad interloquire in ordine ad una possibile rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, poi disposta mediante l'acquisizione della sentenza della Corte d'appello del 23 febbraio 2016 e della Corte di Cassazione del 3 ottobre 2017, nonche' mediante l'esame degli imputati (OMISSIS) e (OMISSIS), rinviando per tale incombenza istruttoria alla successiva udienza del 2 luglio 2019. A quest'ultima udienza, constatata l'assenza degli imputati ed acquisita la documentazione della comunicazione effettuata dai difensori agli stessi circa la disposta rinnovazione dell'esame gia' reso nel giudizio di primo grado, la Corte territoriale, verbalizzata la conferma delle conclusioni gia' assunte del Procuratore Generale e dei difensori degli imputati ed acquisite quelle delle parti civili, ha emesso la decisione. Secondo il ricorrente vi sarebbe stata violazione delle norme suindicate, giacche' il rinvio per l'assunzione dell'esame degli imputati a soli quattro giorni non avrebbe consentito a questi ultimi di preparare un'adeguata difesa. Deduce quindi che, a differenza del testimone, all'imputato spetta il diritto di preparare adeguatamente la sua difesa alla luce dell'impugnazione proposta dall'accusa ed in vista del nuovo esame disposto dal giudice dell'impugnazione, pur nell'ovvia considerazione del suo diritto a non renderlo e nella ragionevole attesa della conferma di quello gia' reso dinanzi al giudice di primo grado. 3.2. Con il secondo motivo denunzia violazione di legge in relazione all'inammissibilita' delle conclusioni delle parti civili. Deduce il ricorrente che tali conclusioni sono state acquisite all'udienza del 2 luglio 2019, fissata solo per le repliche del Procuratore Generale e dei difensori degli imputati, per di piu' a fronte di una disposta rinnovazione dibattimentale che, nel concreto, non si e' tenuta. Pertanto, le parti civili sarebbero decadute dal diritto di rassegnare le conclusioni, avendo gia' le altre parti proceduto alla discussione. 3.3. Con il terzo motivo denunzia violazione di legge e correlati vizi motivazionali in relazione ai reati ascritti ai capi A e B delle imputazioni. Il ricorrente richiama tutte le considerazioni ed argomentazioni contenute in una memoria depositata in data 7 gennaio 2019 dinanzi alla Corte territoriale. 3.3.1. Deduce quindi che erronea appare l'applicazione della normativa all'epoca vigente per gli allevamenti di animali destinati alla sperimentazione scientifica e farmacologica (Decreto Legislativo n. 116 del 1992, articolo 5 ed allegato 2). Contesta, in particolare, il ricorrente l'argomentazione della Corte territoriale nella parte in cui ha affermato che "il citato Decreto Legislativo n. 116 del 1992, articolo 5, fissando alcuni elementari principi guida per gli allevamenti, contiene indicazioni di massima e l'Allegato 2 da esso richiamato precisa quelle regole, sebbene non fissi in termini meticolosi ogni aspetto dell'esecuzione dell'attivita' di allevamento (il rigore e' circoscritto all'obiettivo di assicurare complessivamente un trattamento appropriato agli animali)", aderendo in tal modo alla "interpretazione stretta" della sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Terza penale, n. 2558 (numero sezionale) del 3 ottobre 2017, che "impone di ritenere che anche la minima infrazione delle prescrizioni dell'articolo 5 in riferimento alle previsioni di dettaglio dell'Allegato 2 integra il delitto di maltrattamenti, sempre che ricorrano gli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie" (pag. 48 della sentenza impugnata). 3.3.2. Sotto altro profilo il ricorrente si duole del fatto che nella sentenza impugnata, al fine di dare conto della sussistenza dei reati di maltrattamenti ed uccisione ingiustificata di animali, si sia fatto riferimento alle risultanze del c.d. processo madre, svoltosi a carico dei gestori della (OMISSIS) s.r.l., valutando nuovamente i fatti di cui alla sentenza di appello n. 597 del 2016, passata in giudicato in seguito alla citata sentenza n. 10163-18 della Terza Sezione Penale di questa Corte. Deduce il ricorrente che la nuova valutazione ricalca esattamente i passaggi argomentativi della sentenza che l'ha preceduta in ordine a fatti sui quali pero' il (OMISSIS) mai e' stato posto in condizione di interloquire ovvero di dedurre prove. Cio' ha comportato la concreta impossibilita' di difendersi da una parte certamente rilevante dell'imputazione: la sussistenza materiale dei fatti di maltrattamento e di uccisione ingiustificata di animali derivata dalle modalita' di gestione dell'allevamento di cani destinati alla sperimentazione farmaceutica. Indica quindi il ricorrente tutti gli elementi valutati dalla Corte territoriale in relazione ai quali non risulta alcun suo coinvolgimento. 3.3.3. Dopo aver premesso che l'addebito in concorso con i gestori dell'allevamento nella commissione dei reati di cui agli articoli 544 ter e 544 bis c.p. e' stato dalla Corte d'appello giustificato attraverso il richiamo alle disposizioni di cui all'articolo 40 c.p., comma 2, e articolo 43 c.p., comma 1, il ricorrente contesta specificamente la sussistenza degli elementi del concorso omissivo nel reato commissivo altrui. Quanto alla posizione di garanzia il ricorrente ritiene erronea ed illogica la conclusione cui e' giunta la Corte territoriale nell'affermare che le condotte accertate a carico dei gestori dell'allevamento non avrebbero potuto aver luogo senza che gli organi pubblici preposti al controllo del benessere degli animali non avessero a loro volta tenuto condotte omissive tali da integrare il medesimo reato (pag. 65 della sentenza), atteso che le cadenze e le modalita' dei controlli in concreto esercitabili dal ricorrente erano dettati dalla organizzazione della Asl, in ragione delle risorse dell'ente e non potevano di certo impedire la condotta illecita altrui. Quanto all'elemento soggettivo, il ricorrente evidenzia che la Corte territoriale non ha spiegato perche' a carico del solo (OMISSIS) si debba ritenere con certezza la consapevolezza che la gestione dell'allevamento, regolarmente autorizzata, fosse condotta con modalita' che integravano la commissione dei reati che gli vengono addebitati. La Corte territoriale, peraltro, ha giustificato il suo convincimento esclusivamente in base ai contenuti delle comunicazioni mail acquisite nel cd processo madre, per inferirne una sorta di collusione tra il ricorrente e i gestori dell'allevamento. Oltre alla contraddittorieta' della motivazione rispetto al dato certo della discrasia temporale delle comunicazioni telematiche rispetto ai fatti come contestati nell'imputazione (il 18 luglio 2012), il ricorrente eccepisce il vizio di motivazione per mancato rispetto del canone di giudizio al di la' di ogni ragionevole dubbio. La ritenuta superfluita' di ogni verifica in ordine alla genuinita' dei contenuti delle conversazioni, intervenute tra soggetti "altri" rispetto all'imputato, non consente di escludere il ragionevole dubbio che i comportamenti attribuiti siano frutto di false e/o interessate propalazioni dei suddetti soggetti, imputati dello stesso reato. Deduce, quindi, la violazione dell'articolo 192 c.p.p., comma 3, perche' l'attendibilita' delle dichiarazioni di quei soggetti non trova riscontri in alcun altro elemento di prova. Denunzia poi il ricorrente l'ulteriore vizio di contraddittorieta' ed illogicita' della motivazione, poiche' la Corte territoriale, dopo aver tacciato di genericita' e superficialita' i controlli effettuati e dopo aver congetturato che i rilievi elevati dal (OMISSIS) a carico dell'allevamento e dallo stesso verbalizzati dal 2010 al 2012 fossero stati in realta' effettuati soltanto per la compresenza alle ispezioni di altri veterinari, ritiene la sua condotta non piu' colposamente agevolatrice della condotta altrui ma consapevolmente orientata a favorirla. Quanto all'elemento del dolo la Corte territoriale, al fine di accreditare la previsione dell'evento e l'accettazione del rischio, contraddittoriamente gli addebita una serie di omissioni che pero' sono contraddette da una serie di elementi che specificamente vengono indicati nella stessa sentenza. Tali elementi, perfettamente compatibili con l'attivita' di sorveglianza gestita secondo le disposizioni impartite dalla catena di comando, sono stati invece utilizzati contro il ricorrente unicamente per effetto del sospetto di un atteggiamento compiacente ricavato dalle mail richiamate nella sentenza, sfornite, quanto a veridicita' dei fatti attribuiti al ricorrente, del benche' minimo riscontro. In tal modo, secondo il ricorrente, la Corte territoriale ha operato una indebita ed immotivata trasformazione della colpa in dolo. 3.4. Con il quarto motivo il ricorrente denunzia violazione di legge e correlati vizi motivazionali in relazione al reato di falso ideologico. 3.4.1. Nell'imputazione di cui al capo C) si contesta al ricorrente di avere redatto un atto falso per omissione, per non avere, cioe', indicato tutte quelle circostanze che configurerebbero il maltrattamento degli animali. Sostiene il ricorrente che l'articolo 479 c.p. non contempla il falso per omessa indicazione di fatti ma soltanto di dichiarazioni che siano state rese al pubblico ufficiale. Sotto il profilo della manifesta contraddittorieta' della motivazione, il ricorrente evidenzia che la stessa Corte d'appello imputa al pubblico ufficiale di avere svolto l'accertamento con superficialita' tale da non rilevare quelle situazioni che, secondo la Corte, avrebbero portato a doverosi approfondimenti. In tal modo la Corte territoriale ha imputato al (OMISSIS) un comportamento chiaramente colposo, sebbene lo abbia ritenuto responsabile di un delitto punito esclusivamente a titolo di dolo. Manifestamente illogica e' la motivazione della sentenza nella parte in cui, rimproverando al (OMISSIS) il mancato esame di una non meglio individuata documentazione, gli si addebita la mancata rilevazione della morte di tre cani avvenuta quattro giorni prima dell'accesso del 15 marzo 2012. Quanto poi all'attestazione sulle condizioni degli animali, l'affermazione di responsabilita' e' viziata dalla violazione degli articoli 521 e 522 c.p.p., non essendo il fatto contestato nel capo di imputazione. La motivazione sul punto, peraltro, sarebbe contraddittoria ed illogica, atteso che la Corte territoriale ha premesso che il sopralluogo del 15 marzo 2012 era scaturito dalla verifica in emergenza di quanto era stato denunziato dalla direzione dell'allevamento relativamente all'ipotizzato sabotaggio dell'impianto di approvvigionamento idrico e risultando palese dal testo del documento redatto dal pubblico ufficiale che la verifica a campione su alcuni esemplari degli animali era mirata esclusivamente a verificare che l'evento non avesse provocato conseguenze sulla salute e sull'idratazione degli stessi. Peraltro, l'addebito del falso per omissione deriva anche dall'ulteriore travisamento della prova, essendo la verifica in tutti i capannoni l'oggetto della dichiarazione resa dal dottor (OMISSIS), responsabile dell'allevamento, puntualmente riportata nel verbale e non attestazione di un fatto compiuto dal (OMISSIS) in quanto pubblico ufficiale. 3.4.2. Sotto altro profilo il ricorrente assume che il verbale da lui redatto non possa fare fede fino a querela di falso sugli elementi indicati nell'imputazione e nella sentenza in quanto oggetto dell'omissione, essendo logicamente inconcepibile che un atto possa provare, fino a querela di falso, dati di fatto assenti nell'atto stesso. Analogamente, per cio' che riguarda la valutazione sulle condizioni di salute ed idratazione degli animali il verbale non puo' essere ritenuto atto fidefacente, atteso che l'attestazione del pubblico ufficiale ha ad oggetto non un fatto da lui compiuto ovvero una dichiarazione da lui ricevuta, ma l'espressione di una valutazione non ancorata a parametri rigidi normativamente predeterminati. 3.5. Con il quinto motivo il ricorrente denunzia violazione di legge e correlati vizi motivazionali in relazione al reato di cui all'articolo 361 c.p.. La motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale e' affetta da manifesta contraddittorieta' ed illogicita', perche' si assume che il ricorrente non abbia proceduto ad alcun approfondimento, pur avendo in una occasione verificato il superamento di uno dei parametri di valutazione ed abbia, per cio' solo, accettato il rischio che i reati si verificassero ad opera dei gestori dell'allevamento. La Corte territoriale non ha cosi' tenuto in alcun conto dei fatti pacificamente risultanti dagli atti del processo, ivi compreso quello per cui nessuna delle persone dotate di potere ispettivo, che a vario titolo ebbero a visitare l'allevamento, ebbe la percezione di trovarsi davanti ad animali maltrattati per essere loro imposti comportamenti insopportabili per le caratteristiche etologiche. Peraltro, la Corte territoriale ha trascurato che, per pervenire all'affermazione della sussistenza del reato nel processo a carico dei gestori dell'allevamento, si sono dovute affrontare e risolvere varie problematiche giuridiche. 3.6. Con il sesto motivo si denunziano violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all'articolo 62 bis c.p. e 185 c.p.. Lamenta il ricorrente che la motivazione per negare le attenuanti generiche e' meramente apparente. Ulteriori censure svolge il ricorrente sul riconoscimento dei danni patrimoniali alle associazioni animaliste costituite parti civili. 4. Con un unico atto, sottoscritto dall'avvocato (OMISSIS), propongono ricorso (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS). 4.1. Con il primo motivo si denunzia violazione della legge processuale per erronea applicazione della norma in materia di inammissibilita' dei motivi di appello. La difesa evidenzia che all'udienza del 18 marzo 2019 aveva chiesto che venisse dichiarata l'inammissibilita' dell'appello proposto dal Pubblico Ministero per difetto di specificita' dei relativi motivi. L'eccezione, pero', veniva rigettata con motivazione succinta in quanto, a parere della Corte territoriale, i motivi di impugnazione sarebbero identificabili con "accettabile precisione". Tali conclusioni sono in contrasto con i principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 8825 del 22 febbraio 2017. 4.2. Con il secondo motivo si denunziano violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all'affermazione di responsabilita' in accoglimento parziale dei motivi d'appello del Procuratore della Repubblica. La difesa, dopo aver evidenziato che le imputazioni a carico dei ricorrenti erano scaturite dalle dichiarazioni rese dagli stessi in qualita' di testi nel processo a carico dei gestori dell'allevamento, ha dedotto che le circostanze di fatto ritenute oggetto di dichiarazioni false erano state indicate anche da altri soggetti, nei confronti dei quali pero' non si era proceduto per il reato di falsa testimonianza. Sono state quindi riportate nel ricorso le dichiarazioni rese dagli altri soggetti indicati. Lamenta, quindi, la difesa che la Corte territoriale sul punto ha omesso di motivare, sebbene la questione della sovrapponibilita' delle dichiarazioni degli altri testi con quelle rese dai ricorrenti fosse stata prospettata in giudizio. 5. I difensori delle parti civili (OMISSIS) ONLUS e (OMISSIS) ONLUS hanno depositato articolate memorie difensive, con le quali hanno controdedotto alle argomentazioni difensive oggetto dei motivi di ricorso del (OMISSIS). RITENUTO IN DIRITTO 1. La sentenza impugnata nei confronti di (OMISSIS) va annullata, agli effetti penali, senza rinvio quanto alle imputazioni di cui ai capi A), B) e D) per essere i reati estinti per prescrizione e, agli effetti civili, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Brescia. La sentenza va, altresi', annullata nei confronti del (OMISSIS) quanto al capo C) e nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS) E (OMISSIS) quanto ai reati loro rispettivamente ascritti con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Brescia. 2. Infondato e' il primo motivo di ricorso proposto nell'interesse del (OMISSIS). Nessuna violazione di legge si rileva in relazione alla decisione della Corte territoriale di disporre la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale solo dopo la discussione delle parti e con fissazione, per l'espletamento dell'esame dell'imputato, di una udienza di rinvio a distanza di soli quattro giorni. 2.1. Quanto al primo profilo di censura, questa Corte ha gia' avuto modo di rilevare che l'appello proposto dal pubblico ministero avverso una decisione assolutoria, anche laddove sia incentrato sulla contestazione della valutazione di una prova dichiarativa compiuta dal giudice di primo grado, non comporta, ai sensi dell'articolo 603 c.p.p., comma 3-bis, l'automatico obbligo del giudice d'appello di procedere alla riassunzione della prova dichiarativa, dovendo questi previamente verificare, dopo aver consentito il contraddittorio delle parti, non necessariamente "in limine litis", ma anche all'esito della discussione: a) l'ammissibilita' dei motivi d'appello, secondo i criteri indicati dall'articolo 581 c.p.p.; b) la decisivita' delle prove, eventualmente indicate dall'appellante; c) la necessita' della loro rinnovazione mirata, nella prospettiva della riforma in senso peggiorativo della decisione assolutoria (Sez. 5, Sentenza n. 19730 del 16/04/2019, Rv. 275997). Quindi, sebbene non sia obbligatoria la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in conseguenza dell'appello del pubblico ministero, se la Corte di appello ritiene sussistenti i suindicati presupposti, il potere di disporre d'ufficio i mezzi di prova, ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione, non e' soggetto a limiti temporali e puo' intervenire in qualunque momento e fase della procedura, purche' - come avvenuto nella specie- sia garantito il diritto al contraddittorio (Sez. 3, Sentenza n. 4186 del 21/09/2017, Rv. 272459; Sez. 2, Sentenza n. 24995 del 14/05/2015, Rv. 264379). 2.2. Infondate sono anche le doglianze relative alla tempistica relativa al rinvio disposto dalla Corte territoriale, che non avrebbe consentito all'imputato di preparare un'adeguata difesa. La disposizione cui bisogna far riferimento e' l'articolo 603 c.p.p., comma 6, che prevede quanto segue: "Alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, disposta a norma dei commi precedenti, si procede immediatamente. In caso di impossibilita', il dibattimento e' sospeso per un termine non superiore a dieci giorni". Nel caso di specie, dunque, il rinvio all'udienza fissata dopo quattro giorni rispetta pienamente il termine (ordinatorio) previsto dalla norma. Peraltro, la lettura dei verbali di udienza consente di rilevare che non e' stato rappresentato in alcun modo dalla difesa il motivo per cui l'imputato non si e' presentato per rendere l'esame, ne' e' stato allegato alcun suo legittimo impedimento a comparire. 3. Manifestamente infondato e' anche il secondo motivo di ricorso, con il quale la difesa del (OMISSIS) ha denunziato violazione di legge in relazione all'inammissibilita' delle conclusioni delle parti civili acquisite all'udienza del 2 luglio 2019, fissata solo per le repliche del Procuratore Generale e dei difensori degli imputati, per di piu' a fronte di una disposta rinnovazione dibattimentale che, nel concreto, non si e' tenuta. Dai verbali di udienza risulta che all'udienza del 18 marzo 2019 si e' dato atto della presenza dell'avv. (OMISSIS), difensore della parte civile (OMISSIS) e sostituto processuale dei difensori delle altre parti civili. Peraltro, la Corte territoriale all'udienza del 2 luglio 2019, dopo la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, ha disposto pure la rinnovazione della discussione, sicche' legittimamente le difese delle parti civili hanno concluso nel contraddittorio con le altre parti. Tali annotazioni su quanto accaduto processualmente nella specie rendono superfluo il richiamo al principio di immanenza della costituzione di parte civile. Invero, anche la parte civile costituita, che non partecipi al giudizio di appello personalmente e non presenti conclusioni scritte ai sensi dell'articolo 523 c.p.p., deve ritenersi comunque presente nel processo e le sue conclusioni, pur rassegnate in primo grado, restano valide in ogni stato e grado in virtu' del principio di immanenza previsto dall'articolo 76 c.p.p. (Sez. 5, Sentenza n. 24637 del 06/04/2018, Rv. 273338; Sez. 6, Sentenza n. 25012 del 23/05/2013, Rv. 257032). 4. Il terzo motivo di ricorso e' parzialmente fondato e, in ragione di cio', poiche' in relazione ai reati di cui ai capi A e B e' decorso il termine prescrizionale, la sentenza va annullata ai fini penali senza rinvio, mentre agli effetti civili va disposto il rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Brescia. Tale rinvio al giudice penale e non a quello civile e' conseguente alla connessione dei suddetti reati al delitto di falso ideologico di cui al capo C), in relazione al quale l'annullamento con rinvio e' da disporre anche agli effetti penali. 4.1. Infondata e' la censura difensiva circa l'erroneita' dell'applicazione della normativa all'epoca vigente per gli allevamenti di animali destinati alla sperimentazione scientifica e farmacologica (Decreto Legislativo n. 116 del 1992 articolo 5 ed allegato 2). Il ricorrente ha contestato, in particolare, l'argomentazione della Corte territoriale nella parte in cui ha affermato che "il citato Decreto Legislativo n. 116 del 1992, articolo 5, fissando alcuni elementari principi guida per gli allevamenti, contiene indicazioni di massima e l'Allegato 2 da esso richiamato precisa quelle regole, sebbene non fissi in termini meticolosi ogni aspetto dell'esecuzione dell'attivita' di allevamento (il rigore e' circoscritto all'obiettivo di assicurare complessivamente un trattamento appropriato agli animali)", aderendo in tal modo alla "interpretazione stretta" della sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Terza penale, n. 2558 (numero sezionale) del 3 ottobre 2017, che "impone di ritenere che anche la minima infrazione delle prescrizioni dell'articolo 5 in riferimento alle previsioni di dettaglio dell'Allegato 2 integra il delitto di maltrattamenti, sempre che ricorrano gli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie" (pag. 48 della sentenza impugnata). Questo Collegio condivide i principi affermati dalla richiamata sentenza della Sezione Terza (che ha definito il c.d. processo "madre"), secondo la quale l'articolo 19 ter disp. coord. c.p. esclude la configurabilita' del reato previsto dall'articolo 544 ter c.p. e delle altre disposizioni del titolo 9-bis, libro secondo, del c.p. all'attivita' di allevamento di animali destinati alla sperimentazione scientifica ed alle ulteriori attivita' ivi menzionate solo se svolte nel rispetto della normativa di settore (Sez. 3, Sentenza n. 10163 del 03/10/2017, Rv. 272620; in senso conforme Sez. 3, Sentenza n. 11606 del 06/03/2012, Rv. 252251). 4.2. Infondato e' l'altro profilo del motivo di ricorso, con il quale il (OMISSIS) si duole del fatto che nella sentenza impugnata, al fine di dare conto della sussistenza dei reati di maltrattamenti ed uccisione ingiustificata di animali, si sia fatto riferimento alle risultanze del processo c.d. madre, svoltosi a carico dei gestori della (OMISSIS) s.r.l., valutando nuovamente i fatti di cui alla sentenza di appello n. 597 del 2016, passata in giudicato in seguito alla citata sentenza n. 10163-18 della Terza Sezione Penale di questa Corte. Va qui ricordato che, secondo la disposizione di cui all'articolo 238 bis c.p.p., "fermo quanto previsto dall'articolo 236 c.p.p., le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova di fatto in esse accertato e sono valutate a norma dell'articolo 187 c.p.p. e articolo 192 c.p.p., comma 3". Correttamente, dunque, la Corte territoriale, dopo aver acquisito la sentenza emessa nel processo c.d. "madre", ha ritenuto provati i fatti oggetto delle imputazioni di maltrattamenti, assolvendo all'onere motivazionale in ordine alla valutazione delle risultanze del precedente giudicato penale. 4.3. Fondati invece sono i rilievi del ricorrente circa i vizi motivazionali relativi all'affermazione della sua responsabilita' in concorso con i gestori dell'allevamento nella commissione dei reati di cui agli articoli 544 ter e 544 bis c.p., attraverso il richiamo alle disposizioni di cui all'articolo 40 c.p., comma 2, e articolo 43 c.p., comma 1. 4.3.1. E' utile sottolineare come nella sentenza assolutoria del Giudice di primo grado si era rilevato (pag. 9 e ss. della sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del 7 febbraio 2018) che i due imputati (OMISSIS) e (OMISSIS) erano veterinari inseriti in una struttura gerarchica, ridotta come organico rispetto all'estensione delle poliedriche attivita' da espletare; l'attivita' dei predetti (nonche' dei colleghi incardinati nella medesima struttura) era gestita secondo un'articolata calendarizzazione involgente incarichi dei piu' variegati da espletarsi, in strutture poste nell'ambito del territorio di competenza, comunque in orari di servizio prestabiliti e secondo turnazioni prefissate. Il Giudice dell'udienza preliminare precisava che, quantunque il capo di imputazione sub A) recasse quale data di commissione del fatto quella dell'accertamento, ossia il 18 luglio 2012, non poteva nascondersi che l'epoca prossima al sequestro della struttura doveva essere presa in considerazione, onde valutare se l'autorita' di controllo cui competeva la vigilanza su (OMISSIS) avesse agito nel rispetto della normativa in vigore. Non si comprendevano, allora, le ragioni per cui dovessero rispondere di concorso nel delitto di maltrattamenti solo (OMISSIS) e (OMISSIS), avendo l'accusa raccolto elementi da cui ricavare con assoluta certezza che gli interventi "di routine" o "programmati" o "a sorpresa" presso l'allevamento di Montichiari erano stati compiuti da piu' e distinti funzionari, operatori, veterinari del distretto medesimo, nel corso del tempo. Infatti, non solo (OMISSIS) o (OMISSIS) si erano recati presso l'allevamento, ma anche altri colleghi ( (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS)) e nessuno di costoro aveva formalizzato alcuna denuncia per maltrattamenti o soppressione di animali e a nessuno di costoro era stata contestata alcuna omissione. Ne' risultava che agli imputati fosse stata mossa censura di sorta da parte dei superiori, cui i medesimi dovevano rispondere nell'ambito della verticistica struttura dell'azienda. Si chiedeva, pertanto, il Giudice di primo grado se solo in occasione degli accessi compiuti dai due imputati si fossero verificate le situazioni descritte nella rubrica ed una risposta positiva sembrava alquanto sorprendente e implausibile. Non poteva, peraltro, tralasciarsi l'esito dell'ispezione effettuata dall'Istituto Zooprofilattico Sperimentale della (OMISSIS) (che nessun rapporto aveva con i due imputati) in data 21 febbraio 2012 (ossia cinque mesi prima dell'intervento del 18 luglio 2012), indirizzata alla D.I.G.O.S., con la quale si concludeva per l'insussistenza di condotte penalmente rilevanti quanto a (OMISSIS). A seguito di richiesta del Pubblico ministero, il G.I.P. aveva decretato, in data 28.3.2012, l'archiviazione del procedimento nei confronti di (OMISSIS) e nel corpo del provvedimento, si leggeva che gia' la Polizia locale di Montichiari, precedentemente delegata dall'autorita' requirente, aveva escluso condotte di reato nella gestione dell'allevamento (OMISSIS). Fatti di reato, poi, esclusi anche dall'I.Z.P., autorita' che aveva specifica maggior competenza rispetto a quella di (OMISSIS), accidentalmente occupatosi del benessere animale della struttura di (OMISSIS). La relazione di detto istituto era di soli cinque mesi prima dell'intervento di luglio, a seguito del quale, leggendo i capi di imputazione, pareva essersi aperta una vera e propria voragine sotto (OMISSIS), inghiottendo esponenti e veterinario interno, i quali venivano accusati di maltrattamenti, soppressioni di animali e, anche - sia pur non esplicitamente - di velata collusione con le autorita' amministrative deputate al controllo. In atti, peraltro, esisteva documentazione attestante interventi dell'A.S.L. - a seguito di controlli eseguiti proprio da (OMISSIS) e da (OMISSIS) - da cui scaturivano sanzioni per (OMISSIS). Il Giudice, poi, aveva ritenuto dirimente l'osservazione per cui non emergevano dagli atti condotte collusive, compiacenti o di natura tale da spiegare logicamente che gli imputati (OMISSIS) e (OMISSIS) - quali veterinari dell'A.S.L. - avessero concorso nei reati di cui agli articoli 544 ter e 544 bis c.p. con i rappresentanti legali di (OMISSIS), fornendo dolosamente un contributo causale alla realizzazione delle condotte ben indicate nei capi A) e B). Invero, il concorso omissivo nel reato doloso necessitava della dimostrazione della percezione del fatto che costituisce il reato, ossia della prova certa della volontarieta' dell'agente di contribuire alla relazione del fatto principale, ossia - nel caso in esame - dei maltrattamenti. Che le visite ed i controlli dell'A.S.L., fossero caratterizzate da superficialita' poteva anche non essere escluso, ma andava esclusa intenzionalita' e cio' sia in capo a (OMISSIS) sia in capo a (OMISSIS), muovendosi entrambi in ottemperanza a direttive impartite dai superiori. A tutto concedere - ma non vi erano obiettivi ancoraggi all'assunto - poteva configurarsi una sorta di negligenza od imperizia da parte dei prevenuti i quali, vuoi per la mancanza di esperienza specifica nel settore del benessere degli animali ( (OMISSIS)), vuoi per la intensa attivita' dell'ufficio, che non permetteva approfondimenti per la singola azienda nel periodo (e tali addirittura da un lato da indurre i dirigenti a predisporre moduli standard da compilare e, dall'altro lato, ad escludere, a priori, dalla programmazione per un intero anno - 2012 - il controllo proprio della (OMISSIS)) non conducevano con qualificata professionalita' gli accertamenti: poteva, pertanto, ravvisarsi un profilo di colpa in capo ai predetti, profilo tuttavia insufficiente per ascrivere ex articolo 110 c.p. la compartecipazione nel delitto in rubrica (si veda pag. 12 della sentenza di primo grado). Infine, solo un accenno meritava di essere fatto al tema delle "mail", che secondo l'accusa costituiva un tassello nell'ottica della dimostrazione dell'ipotesi accusatoria. Lo iato temporale fra tali comunicazioni e i fatti in esame rendeva tale elemento d'accusa del tutto eccentrico, irrilevante e, sinanco, suggestivo. Si trattava di mail prive di concreti riscontri dichiarativi e non provenienti dai prevenuti, contestate dagli imputati e risalenti alla prima decade del 2000, quindi di gran lunga precedenti i controlli e gli interventi da parte degli stessi (si veda pag. 12 della sentenza di primo grado). Del pari, non vi erano riscontri concreti della consapevolezza da parte dei due imputati in ordine alle asserite soppressioni dei cani di cui al capo B). Il controllo, che veniva fatto dai predetti era di tipo documentale e cio' comportava, all'analisi della documentazione stessa, una mortalita' in linea con il dato scientifico dovuto a cause fisiologiche. Nel caso in cui si fosse voluto ritenere superficiale l'accertamento dell'ufficio, la condotta di (OMISSIS) e (OMISSIS) rientrava al piu' nel campo della negligenza e, conseguentemente, della colpa, con le conseguenze gia' accennate sotto il profilo giuridico (pagg. 12 e 13 della sentenza di primo grado). 4.3.2. A fronte di argomentazioni del giudice di primo grado cosi' puntuali e ancorate a elementi probatori specifici, nella sentenza di appello non si rinviene, sul punto della responsabilita' ex articolo 40 c.p. attribuita al (OMISSIS), una motivazione "rafforzata". Sono state svolte le seguenti considerazioni: "E' pacifico che due degli odierni imputati, il dottor (OMISSIS) dal 1991-1992 sino all'aprile 2012 e la dottoressa (OMISSIS) dal maggio 2012 sino alla data del sequestro, fossero i veterinari a cui era stata affidata, nell'ambito dell'attivita' di controllo dell'A.S.L. di appartenenza, la sorveglianza del rispetto normativo concernente la gestione e il benessere animale all'interno dell'allevamento (OMISSIS). Tali attivita', in particolare, sono inquadrabili nell'alveo della Legge Regionale Lombardia 30 dicembre 2009, n. 33, articolo 99, e segg., che prevede, tra l'altro, la vigilanza sull'esercizio della professione medico veterinaria e delle arti ausiliari veterinarie (e, dunque, nel caso dell'operato del Dott. (OMISSIS), direttore sanitario di (OMISSIS)), la vigilanza sulla somministrazione, produzione, distribuzione, trasporto dei farmaci ad uso veterinario e sull'utilizzazione degli animali da esperimento per quanto di competenza veterinaria, la vigilanza sull'assistenza zooiatrica e sugli ambulatori veterinari. Per quanto riguarda gli animali d'affezione, al dipartimento A.S.L. territorialmente competente spetta inoltre, ai sensi del combinato disposto degli articoli 105 e 107 della predetta legge regionale, l'attivita' di vigilanza volta a far si' che i proprietari, possessori e detentori di animali, a qualunque titolo, di animali d'affezione assicurino ad essi condizioni di vita adeguate sotto il profilo dell'alimentazione, dell'igiene, della salute, del benessere, della sanita' dei luoghi di ricovero, di contenimento degli spazi di movimento, secondo le caratteristiche di specie e di razza, nel rispetto delle loro esigenze fisiologiche ed etologiche. Vi e', quindi, in capo agli odierni imputati una posizione di garanzia assicurata dall'investitura formale fornita dal tessuto normativo, che imponeva loro di gestire il pericolo connesso alla non corretta applicazione delle disposizioni concernenti l'allevamento degli animali d'affezione a fini sperimentali e, di intervenire, nel caso di violazione. E', infatti, evidente che le condotte integranti maltrattamento ed uccisione di animali di cui si e' sopra detto non avrebbero potuto aver luogo senza che gli organi pubblici preposti al controllo del benessere degli animali non avessero a loro volta tenuto condotte omissive tali da integrare il medesimo reato, ai sensi degli articoli 110, 81 cpv. c.p., articolo 40 c.p., comma 2. Sul punto, tuttavia, il giudice di prime cure si e' laconicamente limitato a rilevare che i due imputati erano veterinari inseriti in una struttura gerarchica ridotta come organico rispetto all'estensione delle poliedriche attivita' da espletare e che l'attivita' era gestita secondo una articolata e tambureggiante calendarizzazione involgente incarichi dei piu' variegati da espletarsi in orari prestabiliti e secondo turnazioni prefissate. Peraltro, proprio la turnazione, cui erano sottoposti i due imputati, unitamente ai colleghi d'ufficio, avrebbe reso incoerente la scelta adottata, persino adombrando che questa fosse stata adottata sulla scia dell'eco mediatica, che le vicende dell'allevamento aveva avuto a livello nazionale. Tali considerazioni, tuttavia, - e a prescindere dalla gratuita' ingiustificata e incomprensibile dell'ultima affermazione - non elidono certo l'obbligo di vigilanza facente capo alla posizione di garanzia dei due imputati. Le affermazioni del giudicante trascurano, poi, il fatto che i due veterinari erano coloro, che, a parte alcune turnazioni necessarie per ragioni personali o d'ufficio, rivestivano il ruolo di responsabili della sorveglianza sanitaria e sul benessere animale di detto impianto, si' da poter essere considerati come "i veterinari ufficiali dell'allevamento", per come si desume dalle lettere di incarico versate in atti a firma del Direttore dell'A.S.L. territorialmente competente. Che poi gli altri colleghi, deputati al controllo sull'allevamento, nel corso dell'avvicendamento nell'attivita' di sorveglianza sulla struttura, non avessero rilevato le conclamate violazioni al benessere animali di cui si discute, cio' non esclude in alcun modo la sussistenza delle stesse, ne' che queste dovessero e potessero essere rilevate dagli imputati, gettando semmai una sinistra ombra sull'operato degli altri funzionari coinvolti e piu' in generale sull'atteggiamento lassista da parte dell'A.S.L. medesima, quanto meno sino all'arrivo dell'ultimo direttore prima del sequestro dell'azienda" (pagg. 64 - 66 della sentenza impugnata). Dunque, la Corte territoriale, pur criticando i passaggi motivazionali della sentenza di primo grado, non ha compiutamente chiarito in base a quali specifici elementi probatori ha ritenuto che le cadenze e le modalita' dei controlli in concreto esercitati ed esercitabili dal ricorrente abbiano avuto un ruolo causale nella verificazione degli eventi accertati nel processo cd. madre. Ne' si rinviene una motivazione logica e sufficiente sulla sussistenza dell'elemento soggettivo, non avendo la Corte territoriale compiutamente spiegato perche' a carico del solo (OMISSIS) si dovesse ritenere con certezza la consapevolezza che la gestione dell'allevamento fosse condotta con modalita' che integravano degli illeciti penali che gli vengono addebitati ex articolo 40 c.p.. 4.3.3. Sul punto non appaiono sufficienti le considerazioni fatte nella sentenza di appello nella parte in cui sono stati valorizzati i contenuti di alcune mail acquisite nel processo cd madre, per inferirne una sorta di collusione tra il ricorrente e i gestori dell'allevamento. "Il contenuto degli hard disk sequestrati presso (OMISSIS) e' poi indicativo, non solo del fatto che la situazione, all'interno dell'allevamento, fosse tutt'altro che idilliaca, ma di quanta poca solerzia, impiegasse il sanitario nello svolgimento del proprio incarico di ispettore. Non possono che riportarsi alcuni frammenti delle comunicazioni ivi rinvenute. In una mail agli atti del 1 ottobre 2008, inviata da (OMISSIS) (all'epoca impiegata presso (OMISSIS)) a (OMISSIS), (OMISSIS) e al (OMISSIS) indicato per conoscenza si legge che "la mia impressione e' che il nuovo direttore (evidentemente il nuovo direttore dell'ASL) stia controllando il lavoro del dottor (OMISSIS) e abbia rilevato che negli anni passati non abbia realmente controllato nulla". Il sospetto, che (OMISSIS) non controllasse sostanzialmente nulla, trova poi riscontro in altra mail del 10 aprile 2009 inviata da (OMISSIS) e (OMISSIS), ove si legge "mercoledi' (OMISSIS) e' venuto per riempire il rapporto periodico sulla nostra colonia... Come sempre non e' voluto andare nei capannoni quindi tutto era ok (come sai stiamo tenendo cani in alcune celle in numero superiore a quello consentito)". Ed ancora, in una successiva mail del 17 settembre 2009 inviata da (OMISSIS) ad (OMISSIS) (altro dipendente di (OMISSIS)) si legge "ieri abbiamo avuto una visita di preavviso del Dott. (OMISSIS) (altro veterinario ASL di (OMISSIS)). Egli ha iniziato dicendo che gli piacerebbe controllare il lavoro del Dott. (OMISSIS) dato che sembra che non guardi mai i capannoni e i cani". Orbene non si comprende la ragione, per la quale dovrebbe svalutarsi il contenuto di tali comunicazioni, sol perche' di qualche anno antecedenti alla contestazione. Queste, infatti, danno atto di un contegno omissivo del sanitario, pressoche' abitudinario, che corrisponde alla pressoche' totale assenza di rilievi per circa un ventennio e che corrobora un modus operandi, che e' rimasto sostanzialmente invariato sino alla data della sua sostituzione. Peraltro i conversanti appaiono tanto piu' credibili, laddove riferiscono di fatti vissuti in prima persona e rispetto ai quali non hanno alcuna ragione o interesse nel mentire. Ne' si vede di quale ulteriore riscontro dichiarativo queste comunicazioni abbisognerebbero, quando e' lo stesso dato oggettivo della superficialita' dei verbali redatti dal medesimo sanitario a darne dimostrazione, tanto piu' laddove raffigurano, contrariamente al vero e ad onta di un'unica eccezione ben spiegabile, una situazione all'interno dell'allevamento pressoche' idilliaca. Va, quindi, verificato se questo atteggiamento omissivo sia in qualche modo giustificabile; al riguardo il giudicante ritiene credibile l'assunto propalato dall'imputato, secondo il quale la superficialita' nei controlli sarebbe stata addebitabile all'eccessivo carico di lavoro gravante sul medesimo, con cio' avvallando la tesi della buona fede e della mancanza di percezione di quello che avveniva all'interno dell'allevamento. Ritiene questa Corte territoriale che la tesi difensiva non sia credibile. Se cosi' non fosse, non si comprende come il veterinario, che non avrebbe avuto il tempo per procedere nemmeno ad una sommaria visita all'interno dei capannoni, tuttavia lo trovasse per relazionarsi con i vertici di (OMISSIS) e dare loro suggerimenti e indicazioni per eludere possibili controlli a sorpresa. Quello che colpisce non e' solo la contiguita' e il singolare atteggiamento di complicita' tra l'imputato e i vertici di (OMISSIS), che peraltro (OMISSIS) vorrebbe ricondurre a mera normalita', secondo un concetto del tutto soggettivo e personale, ma soprattutto il fatto che l'oggetto di tali segnalazioni da parte del veterinario riguarda alcune delle criticita', poi stigmatizzate dal Tribunale di Brescia e dalla Corte di Appello come condotte di maltrattamento e uccisione di animali. Emblematico al riguardo e' il coinvolgimento del (OMISSIS) nell'avallare la prassi del tatuaggio sugli animali, pur nella consapevolezza della sua contrarieta' alla legge vigente; si richiama la mail del 16.2.2012, intervenuta tra (OMISSIS) e (OMISSIS), laddove si legge suo suggerimento (n.d. est.: il riferimento e' al Dott. (OMISSIS) veterinario ASL) e' di scrivere menzionando le attuali leggi. La lettera dovrebbe essere un pochino naive (ingenua), chiedendo se ci siano altre leggi che richiedono l'utilizzo del microchip per gli animali da laboratorio. Secondo me, anche se l'Autorita' non rispondera', questa lettera sara' utile anche per il nostro avvocato nel caso di una futura ispezione, se l'ASL sollevasse qualche problema o desse delle multe". Del pari vale per le problematiche sollevate dall'associazione animalista "(OMISSIS)", ove il sanitario si premura di fornire preziose informazioni per la societa' stessa che egli, nella sua veste istituzionale di "controllore", avrebbe dovuto astenersi dal comunicare. In particolare, nella mail del 14 novembre 2008 inviata da (OMISSIS) a (OMISSIS) si legge che "il Dott. (OMISSIS) e' stato qui a GH diverse volte questa settimana. E' sembrato un po' preoccupato circa la visita alla ASL, nel pomeriggio di giovedi' di qualcuno dell'associazione animalista "(OMISSIS)". Quindi ha fatto pressioni su di noi e sul Comune di Montichiari per l'autorizzazione che stavamo aspettando, per fortuna il Sindaco di Montichiari l'ha firmata in tempo". Ed ancora, nella mail del 27 novembre 2008, rivolta alla (OMISSIS), scrive che "ho incontrato (OMISSIS) con (OMISSIS). Ci ha detto che l'associazione "(OMISSIS)" sa molte cose su di noi, cose che solo qualcuno dall'interno puo' conoscere. Presteremo attenzione su cio' che diciamo specialmente in ufficio". Nella mail del 18 giugno 2009, inviata da (OMISSIS) a (OMISSIS) si legge "il Dott. (OMISSIS) e' stato qui mercoledi' dopo un incontro a Milano con il delegato della ASL della Regione Lombardia. In quell'incontro il Dott. (OMISSIS) e' stato chiamato per parlare di noi dopo un'ulteriore segnalazione da parte di "(OMISSIS)". Il Dott. (OMISSIS) e' venuto da noi in modo ufficioso per darci qualche consiglio. Nonostante abbia speso buone parole nei nostri confronti e tutta la documentazione che ha presentato fosse "ok" per il numero di "ispezioni" che ha effettuato nelle nostre strutture, ha avuto il forte sentore che, per essere totalmente sicura che l'Autorita' locale stia svolgendo in modo corretto il proprio lavoro e non vi sia collusione tra di noi, l'Autorita' Regionale preparera' una visita a (OMISSIS) nell'immediato futuro. Il Dott. (OMISSIS) ci ha dato alcune utili informazioni sui problemi sollevati da "(OMISSIS)" e su quali punti si focalizzera' l'ispezione: - gestione delle medicine (specialmente il Tanax); - registrazione dei trattamenti medici; - procedura di carico dei camion; - presenza del veterinario durante le procedure di tatuaggio, vaccinazioni e trattamento medico; - registrazione dei cani morti e documentazione sull'azienda che si occupa della distruzione di questi cani; - quanti cani =2 e cani fuori della produzione abbiamo e come li gestiamo; - documentazione riguardante il letame e i liquidi e come la gestiamo; - temperatura; - numero di cani per metro quadrato. La mail chiudeva con tale frase " e' difficile sapere cosa potrebbe succedere durante un'ispezione se gia' sapessero cosa cercare". In una e-mail del 16 febbraio 2012 inviata dal Dott. (OMISSIS) a (OMISSIS) e per conoscenza al (OMISSIS), si legge infine che: " (OMISSIS) ha visto la lista di lettere senza risposta, ma ha detto che non puo' fare molto per premere per una risposta. Inoltre, egli pensa che non sarebbe molto efficace se egli portasse un sollecito circa le nostre lettere, perche' potrebbe essere visto come un atteggiamento non neutrale"; la comunicazione conclude con l'affermazione: " (OMISSIS) e' stato molto gentile come al solito, cercando di supportarci". E' del tutto evidente allora che, se il carico di lavoro fosse stato tale da indurre il veterinario al compimento di ispezioni solo formali sull'allevamento, questi non avrebbe trovato nemmeno il tempo per compiere un'attivita' contraria ai suoi doveri istituzionali, quale quello di dare suggerimenti sul modo di aggirare le regole alla controllata, di mettere pressioni agli organi locali per il rilascio delle autorizzazioni alla predetta, di effettuare incontri in via ufficiosa con i suoi vertici per fare delazioni, dare indicazioni e sottolineare i temi sensibili di una potenziale e rischiosa visita da parte di un'associazione animalista. Si e' in presenza di una serie di comportamenti reiterati, il cui contesto d'insieme, non puo' che deporre per l'esclusione della buona fede del sanitario, ma di una precisa e consapevole scelta di omettere i propri doveri a favore della controllata, confidando sul fatto che la stessa, almeno sotto il profilo formale, era in regola con le debite autorizzazioni, cosi' da esimere il controllato ad effettuare verifiche in concreto. Orbene deve anche puntualizzarsi che le ragioni di tale omissione non rilevano nella presente sede, in quanto cio' che rileva e' comprendere se da questa consapevole scelta di dismettere le proprie funzioni di controllore potesse derivare la consapevolezza in ordine ai suoi effetti, quali appunto l'adozione da parte della controllata di condotte maltrattanti nei confronti degli animali ivi allevati. Se, infatti, e' evidente che tali omissioni abbiano permesso ai titolari dell'allevamento l'adozione di adottare condotte maltrattanti, occorre tuttavia che di esse il sanitario possa averne avuto percezione. Si ritiene, al riguardo, che non sia necessario che il sanitario abbia materialmente assistito ad episodi di maltrattamento o di uccisione di animali, per come sostiene la difesa (OMISSIS), in quanto in questo caso la condotta sarebbe inquadrabile nell'ambito dell'articolo 110 c.p., sub specie del concorso morale. E' sufficiente verificare se vi fossero quegli aspetti sintomatici che avrebbe dovuto indurre l'imputato a vigilare al fine di evitare la commissione del reato, costituendo l'inerzia al riguardo sintomo della previsione dell'evento e dell'accettazione della sua verificazione" (pagg. 72 - 75 della sentenza impugnata). Dopo aver citato una pronunzia di questa Corte in materia, la Corte territoriale ha aggiunto: "Orbene non appare dubitabile che, anche in assenza di una specializzazione in benessere animale, in una struttura priva di sistemi di raffreddamento ed ove si era constatato il rilevante superamento della temperatura, vi fosse gia' un palese e inequivocabile segnale di allarme in ordine alla sussistenza di condizioni tali da rendere ampiamente prevedibile la sofferenza negli animali ivi allevati. Peraltro nel periodo ricompreso tra il dicembre 2009 e il febbraio 2012, l'analisi della documentazione consentiva di accertare un tasso di mortalita' degli animali, pari al 35%, di ben lunga superiore alla media indicata dalla bibliografia scientifica, circostanza questa che ben avrebbe dovuto indurre, anche sulla base di un riscontro meramente cartolare, îl sospetto circa le condizioni, in cui gli animali erano tenuti. A cio' si aggiunga che lo stesso (OMISSIS) aveva constatato come, in alcuni casi, la societa' non denunciasse la morte di alcuni esemplari, circostanza questa che ben poteva amplificare il sospetto in ordine alla commissione di irregolarita' nella registrazione degli animali, gia' di per se' valorizzata dall'immotivato ricorso all'uso del tatuaggio quale prassi per identificare gli esemplari. Senza contare che una delle cause ricorrenti della mortalita' animale era legata alla segatura, circostanza che vieppiu' avrebbe dovuto far insorgere nel sanitario l'esigenza di approfondire e accertare le cause di tali decessi. E del resto non si comprenderebbe altrimenti, se non con una piena consapevolezza di una situazione non conforme alle normative e sicuramente rischiosa per la salute degli animali, la preoccupazione del sanitario per l'interessamento dell'associazione animalista "(OMISSIS)" per le condizioni in cui questi erano tenuti. Non si vede quale ragione di preoccupazione avrebbe dovuto avere il sanitario, se fosse stato convinto del fatto che la situazione era in ordine, come i verbali da lui redatti lasciavano prevedere. Guarda caso, invece, il (OMISSIS), ad onta dei suoi improrogabili impegni di lavoro, trova il tempo per informare i vertici della struttura di una possibile ispezione e li invita a porre attenzione a specifiche criticita', circostanza questa che rende del tutto evidente come egli stesso fosse piu' che consapevole della gravita' delle irregolarita', in cui versava (OMISSIS). Ne consegue, pertanto, che l'atteggiamento consapevolmente omissivo e volutamente di copertura all'irregolare gestione dell'allevamento, per come reiterato nel tempo e accompagnato da atteggiamenti di inspiegabile complicita' e contrari a qualsivoglia deontologia professionale, e' stato accompagnato non solo dalla previsione che questa si traducesse in condotte maltrattanti e di morte per gli animali oggetto di allevamento, ma anche dall'accettazione della loro verificazione" (pagg. 76 - 77 della sentenza impugnata). Fondate sono le censure della difesa del (OMISSIS) sui vizi motivazionali relativi al dato certo (valorizzato - come si e' visto - anche nella sentenza di primo grado) della discrasia temporale delle mail rispetto ai fatti come contestati nell'imputazione (che hanno come data dell'accertamento il 18 luglio 2012). Infatti, generica sotto tale profilo e' l'argomentazione utilizzata nella sentenza in esame secondo la quale "non puo' svalutarsi il contenuto di tali comunicazioni, sol perche' di qualche anno antecedenti alla contestazione". Altrettanto generica e' l'affermazione che le suddette mail "danno atto di un contegno omissivo del sanitario, pressoche' abitudinario, che corrisponde alla pressoche' totale assenza di rilievi per circa un ventennio e che corrobora un modus operandi, che e' rimasto sostanzialmente invariato sino alla data della sua sostituzione". La Corte territoriale non ha spiegato in alcun modo come le condotte del (OMISSIS), indicate nelle suddette mail, abbiamo avuto incidenza (ovvero siano legate da nesso di causalita') sugli specifici fatti di maltrattamenti e uccisione di animali contestati nei capi A) e B) delle imputazioni. 4.3.4. E' opportuno allora precisare che la responsabilita' ex articolo 40 c.p., comma 2, presuppone la titolarita' di una posizione di garanzia nei confronti del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice violata, dalla quale deriva l'obbligo di attivarsi per la salvaguardia di quel bene; obbligo che si attualizza in ragione del perfezionarsi della c.d. situazione tipica. In presenza di tali condizioni, la semplice inerzia assume significato di violazione dell'obbligo giuridico (di attivarsi per impedire l'evento) e l'esistenza di una relazione causale tra omissione ed evento consente di ascrivere il reato secondo la previsione dell'articolo 40 c.p., comma 2. E il tema della sussistenza della posizione di garanzia e' focale tanto con riferimento alla responsabilita' penale nel reato omissivo improprio monosoggettivo, quanto in relazione al concorso omissivo nel reato commissivo ovvero nell'ipotesi in cui l'evento, che si ha l'obbligo di impedire, coincide con la commissione di un reato da parte di altri. In effetti, il fondamento della responsabilita' omissiva si identifica nella necessita', riconosciuta dall'ordinamento (di qui la "giuridicita'" dell'obbligo), di assicurare ad alcuni beni una tutela rafforzata; cio' accade proprio in dipendenza dell'incapacita' del titolare del bene leso di proteggerlo, individuando una "speciale" posizione di garanzia in capo a determinati soggetti, assuntori del ruolo di garante nei confronti del suddetto titolare del bene. Peraltro, lo speciale vincolo di tutela puo' anche derivare dall'assunzione di fatto e volontaria della posizione di garante, quando la condotta dell'agente determini o accentui l'esposizione a rischio o impedisca l'attivarsi di alternative istanze di protezione (Sez. 4, n. 13848 del 04/02/2020, Rv. 279137; si veda anche, in motivazione, Sez. 4, n. 39261 del 18/04/2019, Rv. 277193; nonche', in epoca piu' risalente, Sez. 4, n. 12781 del 12/10/2000, Rv. 217904). In altri termini, la posizione di garanzia - che puo' essere generata da investitura formale o dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante - deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarita' del potere - dovere di cura dello specifico bene giuridico che necessita di protezione e di gestione della specifica fonte di pericolo di lesione di tale bene, alla luce delle circostanze in cui si e' verificato l'evento (Sez. 4, n. 28316 del 29/09/2020, Rv. 280080; Sez. 4, n. 37224 del 05/06/2019, Rv. 277629; Sez. 4, n. 39261 del 18/04/2019, Rv. 277193; Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Rv. 276292; Sez. 4, n. 57937 del 09/10/2018, Rv. 274774; Sez. 4, n. 48793 del 11/10/2016, Rv. 268216; Sez. 4, n. 38624 del 19/06/2019, Rv. 277190; Sez. 4, n. 34975 del 29/01/2016, Rv. 267539; Sez. 4, n. 2536 del 23/10/2015, Rv. 265797; Sez. 4, n. 50606 del 05/04/2013). Non ignora questo Collegio che v'e' un contrasto in dottrina sull'individuazione delle fonti dalle quali discende l'assunzione volontaria della posizione di garante. Secondo la c.d. teoria formale, la situazione fattuale tipica, da cui dipende l'obbligo di impedire l'evento, va individuata in base a una fonte formale dell'ordinamento giuridico: la legge, il contratto e la precedente attivita' pericolosa. Per quel che concerne, in particolare, quest'ultima, essa viene considerata fonte della posizione di garanzia tutte le volte in cui crea una situazione di pericolo per i terzi, che l'autore della condotta ha l'obbligo di controllare, attivandosi affinche' non ne derivino offese ai terzi. Tuttavia, tale ultimo profilo e' stato oggetto di critica, giacche' non esiste un'espressa norma giuridica che impone di impedire le offese che possono derivare dalla propria attivita' pericolosa. Il criterio della precedente attivita' pericolosa si porrebbe quindi in contrasto con il principio di legalita', atteso che, a differenza di quanto avviene in altri ordinamenti, l'articolo 40 c.p., comma 2 non fa alcun riferimento, ne' esplicito ne' implicito, a tale criterio. Ulteriore critica che e' stata mossa alla teoria formale e' che essa finisce per subordinare la tutela penale per omesso impedimento dell'evento alle scelte effettuate da altri rami del diritto; si e' infatti osservato che non ogni obbligo extrapenale di attivarsi e' suscettibile di convertirsi in un obbligo di impedire l'evento penalmente rilevante. Diversamente opinando si aggiunge - si finirebbe col subordinare il giudizio di rilevanza penalistica ex articolo 40 c.p., comma 2, al richiamo di criteri di valutazione facenti capo ad altre branche dell'ordinamento giuridico. Altro orientamento interpretativo privilegia la teoria contenutistico - funzionale, che sostiene l'esigenza di tutela e la necessita' di costruire la posizione di garanzia in base allo scopo di protezione della fattispecie incriminatrice. Esistono beni giuridici meritevoli di una tutela rafforzata, in quanto i loro titolari non sono in grado di proteggerli affatto o non sono in grado di proteggerli adeguatamente. Ne deriva che il primo requisito della sussistenza della posizione di garanzia e' la particolare vulnerabilita' del bene, a causa dell'incapacita' del titolare di proteggerlo. L'altro fondamentale requisito e' che la tutela del bene sia affidata, anteriormente alla verificazione della situazione di pericolo, a un terzo, che e' per l'appunto il garante. Infine, la terza condizione necessaria e' che il garante sia in grado di intervenire sullo svolgimento dei decorsi causali, in modo da impedire la verificazione dell'evento tipico; proprio tale criterio finisce per circoscrivere la teoria funzionalistica, giacche' e' il comportamento del garante ad aver determinato un aumento del rischio per il bene da proteggere. Tornando al caso in esame, la Corte territoriale ha ritenuto di individuare solo nello specifico ruolo rivestito dal (OMISSIS), quale veterinario della ASL incaricato dei controlli dell'allevamento, la posizione di garanzia comportante l'obbligo giuridico di impedire l'evento. Tuttavia, non ha motivato specificamente sugli elementi comprovanti l'inerzia del (OMISSIS) che deve assumere il significato di violazione dell'obbligo giuridico (di attivarsi per impedire l'evento) e, soprattutto, l'esistenza di una relazione causale tra omissione ed evento che consenta di ascrivere i reati di cui agli articoli 544 bis e 544 ter c.p. secondo la previsione dell'articolo 40 c.p., comma 2. Ne' si rinviene motivazione su un altro requisito essenziale ovvero che il (OMISSIS), con i suoi interventi quale veterinario della ASL, potesse essere in grado di intervenire sullo svolgimento dei decorsi causali, in modo da impedire la verificazione dell'evento tipico. Sara' compito del giudice del rinvio indicare i necessari elementi probatori e motivare attenendosi ai principi sopra indicati; e cio' - come si e' detto - solo agli effetti civili, giacche' ai fini penali l'annullamento e' da disporsi senza rinvio per intervenuta prescrizione. 5. Fondato e' il quarto motivo, con il quale il ricorrente ha denunziato violazione di legge e correlati vizi motivazionali in relazione al reato di falso ideologico aggravato ex articolo 476 c.p., comma 2. Nell'imputazione di cui al capo C) si contesta al ricorrente di avere redatto un atto falso (verbale di sopralluogo del 15 marzo 2012) per omissione, per non avere, cioe', indicato tutte quelle circostanze che configurerebbero le condizioni illecite in cui operava l'allevamento. 5.1. Erra il ricorrente nell'assumere che l'articolo 479 c.p. non contempli il falso per omessa indicazione di fatti ma soltanto di dichiarazioni che siano state rese al pubblico ufficiale. Questa Corte ha gia' avuto modo di chiarire che integra il reato di falso ideologico in atto pubblico la condotta del pubblico ufficiale che, formando un verbale di sopralluogo e sequestro, esponga una parziale rappresentazione di quanto accertato, tacendo dati la cui omissione, non ultronea nell'economia dell'atto, limiti la portata applicativa del vincolo di coercizione reale, nel contempo offrendo una documentazione dello stato dei luoghi incompleta e parzialmente contraria al vero (Sez. 6, n. 23819 del 30/01/2019, Rv. 275994; Sez. 5, Sentenza n. 32951 del 21/05/2014, Rv. 261651; Sez. 5, n. 6182 del 03/11/2010, Rv. 249701). E' stato poi correttamente precisato che il falso ideologico per omissione e' integrato allorche' l'attestazione incompleta - perche' priva dell'informazione su un determinato fatto attribuisca all'atto il significato di un'attestazione non conforme ai fatti e che tuttavia la condotta illecita e' configurabile soltanto se sussiste un relativo obbligo giuridico di rappresentazione (Sez. 5, n. 22200 del 19/01/2017, Rv. 270215). Inoltre, la falsita' in atto pubblico puo' integrare il falso per omissione allorche' l'attestazione incompleta attribuisca al tenore dell'atto un senso diverso, cosi' che l'enunciato descrittivo venga ad assumere nel suo complesso un significato contrario al vero (Sez. 5, n. 5635 del 10/12/2014, Rv. 262668). 5.2. Va anche rilevata l'infondatezza dell'assunto secondo il quale il verbale di sopralluogo non possa fare fede fino a querela di falso sugli elementi indicati nell'imputazione e nella sentenza in quanto oggetto dell'omissione, essendo logicamente inconcepibile che un atto possa provare, fino a querela di falso, dati di fatto assenti nell'atto stesso. Va premesso che, affinche' sia configurabile la circostanza aggravante prevista dall'articolo 476 c.p., comma 2, la falsita' ideologica deve riguardare documenti dotati di fede privilegiata ovvero quelli emessi dal pubblico ufficiale investito di una speciale potesta' documentatrice, attribuita da una legge o da norme regolamentari, anche interne, ovvero desumibili dal sistema, in forza della quale l'atto assume una presunzione di verita' assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l'accoglimento della querela di falso o con sentenza penale (ex multis, Sez. 5, n. 47241 del 02/07/2019, Cassarino Emanuele, Rv. 27764802; Sez. 6, n. 35219 del 28/04/2017, Re e altri, Rv. 27085501; Sez. 5, n. 39682 del 04/05/2016, Franchi, Rv. 26779001; Sez. 6, n. 24768 del 31/03/2016, P.G. e altri in proc. Caruso e altri, Rv. 26731601; Sez. 6, n. 25258 del 12/03/2015, Guidi e altro, Rv. 26380601). Questa Corte da tempo ha avuto modo di puntualizzare che cio' che caratterizza l'atto pubblico fidefacente, alla stregua delle disposizioni di cui all'articolo 2699 c.c. (secondo il quale l'atto pubblico "e' il documento redatto, con le richieste formalita', da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto e' formato") e articolo 2700 c.c. (secondo il quale l'atto pubblico "fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonche' delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti"), e', da una parte, l'attestazione di fatti appartenenti all'attivita' del pubblico ufficiale o caduti sotto la sua percezione (ex pluribus, Sez. 3, sentenza n. 15764 del 13/12/2017, Adinolfi ed altro, Rv. 272589; Sez. 5, sentenza n. 39682 del 04/05/2016, Franchi, Rv. 267790; Sez. 6, sentenza n. 24768 del 31/03/2016, P.G. ed altri in proc. Caruso ed altri, RV. 267316; Sez. 6, sentenza n. 25258 del 12/03/2015, Guidi, Rv. 263806; Sez. 5, sentenza n. 15951 del 16/01/2015, Bandettini, Rv. 263265; Sez. 5, sentenza n. 48738 del 14/10/2014, Moramarco, Rv. 261298; Sez. 1, sentenza n. 49086 del 24/05/2012, Acanfora, Rv. 253959) e, dall'altra, la circostanza che esso sia destinato ab initio alla prova ovvero sia precostituito a garanzia della pubblica fede, in quanto redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell'esercizio di una speciale funzione certificatrice (ex multis, Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014, Rv. 260208; Sez. 5, n. 7921 del 16/01/2007, Rv. 236518). Non senza rilievo e' quanto evidenziato sul punto nella Relazione al codice civile, secondo la quale un notevole ritocco, nel determinare l'efficacia dell'atto pubblico, ha apportato l'articolo 2700 c.c. "all'articolo 1317 del Codice precedente, comma 1, il quale stabiliva far l'atto pubblico piena fede della convenzione, mentre e' ovvio che l'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, non propriamente della convenzione, ma delle dichiarazioni delle parti: lo speciale grado di efficacia probatoria non si estende alla sincerita' di tali dichiarazioni, le quali possono anche essere simulate. L'articolo 2700 c.p. menziona anche la prova della provenienza, di cui non c'era cenno nel codice del 1865. Essendo per altro intuitivo, e pertanto sottinteso, in relazione alla nozione di documento, enunciata nell'articolo 2699 c.p., che altri sono gli elementi da cui risulta la provenienza, altri quelli da cui risulta la prova delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti dei quali l'articolo parla". Questa Corte ha quindi affermato che "dal collegamento tra la veste di pubblico ufficiale del rogante e la fede privilegiata dell'atto discende direttamente (....) che la natura di documenti dotati di fede privilegiata puo' riconoscersi soltanto a quei documenti, o meglio a quei contenuti documentati, che - in quanto emessi da pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall'ordinamento interno della pubblica amministrazione ad attribuire all'atto medesimo pubblica fede - presentino "i requisiti dell'attestazione da parte del pubblico ufficiale, de visu o de auditu, di fatti giuridicamente rilevanti e della formazione dell'atto nell'esercizio del potere di pubblica certificazione"" (cosi', in motivazione, la citata Sez. 6, n. 25258 del 12/03/2015, Guidi e altro, Rv. 26380601). Si e', peraltro, sottolineato come possa individuarsi, "nell'ambito degli atti pubblici aventi fede privilegiata, un primo livello - per cosi' dire fisiologico - di forza probante privilegiata, circoscritto alla provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato e relativo unicamente a quei fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, ed un secondo livello, riguardante, invece, la valutazione di tali fatti, che non gode invece della forza probante privilegiata, a meno che la legge non attribuisca al pubblico ufficiale il potere di valutare i fatti stessi con valore legale (Sez. 5, n. 4339 del 10/02/1984, Manarin, Rv. 164130; Sez. 2, sentenza n. 1417 del 11/10/2012, dep. 11/01/2013, Platamone, Rv. 254305; Sez. 5, sentenza n. 49025 del 12/11/2004, Margarino, Rv. 231284). Cio' in quanto, nel caso in cui il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attivita' e' assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non puo' essere destinato a provare la verita' di alcun fatto. Diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento anche implicito a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si e' in presenza di un esercizio di discrezionalita' tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformita' della situazione fattuale a parametri predeterminati, sicche' l'atto potra' risultare falso se detto giudizio di conformita' non sara' rispondente ai parametri cui esso e' implicitamente vincolato" (cosi', in motivazione, la gia' citata Sez. 5, n. 47241 del 02/07/2019, Cassarino Emanuele, Rv. 27764802). E' evidente, alla luce dei suesposti principi, che e' fidefacente anche il verbale di sopralluogo redatto dal pubblico ufficiale nel quale venga esposta una parziale rappresentazione di quanto si abbia il dovere di accertare, tacendo dati la cui omissione, non ultronea nell'economia dell'atto, limiti la finalita' dello stesso atto, nel contempo offrendo una documentazione dello stato dei luoghi e/o delle cose incompleta e parzialmente contraria al vero. Quindi, ancora una volta va ribadito che il falso ideologico in atto fidefacente e' integrato solo se l'attestazione incompleta attribuisca all'atto il significato di un'attestazione non conforme ai fatti e se sussista un relativo obbligo giuridico di rappresentazione. 5.3. Precisati i suindicati principi di diritto, si deve rilevare nella specie come la motivazione della sentenza impugnata evidenzi lacune motivazionali in ordine alla ritenuta sussistenza del reato ascritto al (OMISSIS) nel capo C) delle imputazioni. Si legge infatti nella sentenza quanto segue. "Risulta che il 15 marzo 2012 il Dipartimento di Prevenzione Veterinaria di (OMISSIS) della A.S.L. di (OMISSIS) interveniva, a seguito di chiamata dovuta alla scoperta che l'acqua potabile contenuta in un serbatoio presso (OMISSIS) si era colorata di rosso. L'imputato, in sede di esame, ha precisato che, a seguito della segnalazione di un presunto sabotaggio dell'acqua destinata all'abbeveraggio dei cani, era intervenuto per un controllo, estesosi ad alcuni capannoni ed ai box; in quel giorno aveva effettuato due accessi all'azienda (OMISSIS) e, anche in entrambe tali occasioni, non aveva constatato anomalie di sorta. Il secondo verbale, stilato alle ore 16.00 risulta, peraltro, riportare che da una verifica a campione i cani risultavano in buone condizioni di salute e in buone condizioni di idratazione e che il Dott. (OMISSIS) riferiva che i cani non presentavano alcun sintomo. E', tuttavia, evidente che, anche in questo caso, l'accertamento condotto dal sanitario sia stato del tutto formale e limitato ad acquisire le interessate dichiarazioni del veterinario della struttura. Diversamente un esame un minimo approfondito avrebbe fatto emergere alcune conclamate situazioni di criticita', quali non solo le condizioni dei luoghi - illuminazione esclusivamente artificiale, lettiera non confacente, eccessivo rumore, assenza di spazi all'interno delle gabbie che consentissero l'isolamento del singolo animale -, ma la presenza stessa di animali affetti da rogna demodettica non separati dagli altri esemplari. Lo stesso esame della documentazione avrebbe consentito, peraltro, di verificare che solo quattro giorni prima di tale sopralluogo si erano verificati ben tre decessi di animali, di cui uno per cause di natura traumatica - e come avrebbe fatto un animale a riportare simili lesioni rimane un mistero ancora da svelare- e due per ingestione di segatura. Appare evidente come se il controllo fosse stato eseguito in modo corretto ed approfondito, tali circostanze sarebbero state immediatamente notate ed avrebbero portato ad un approfondimento delle loro cause ed effetti. Viceversa la laconica affermazione - nel solco di una consuetudine volta a dimostrare che tutto era nella norma, ad onta di verifiche pressoche' inesistenti - che i cani erano in buone condizioni, costituisce una falsa attestazione in quanto non corrispondente al vero e posta in essere nella consapevole previsione e relativa accettazione del rischio, che cosi' potesse essere" (pagg. 77 e 78 della sentenza di appello). Come si desume dalla stessa ricostruzione dei fatti, il sopralluogo effettuato in data 15 marzo 2012 aveva solo la finalita' di accertare le cause delle problematiche segnalate con riferimento al servizio idrico a servizio dell'allevamento. Ed invero, nello stesso atto (il verbale redatto nel secondo intervento alle ore 16), con dati indicati in un prestampato, si rileva che l'intervento e' stato determinato da "emergenza idrica (acqua con colorazione anomala)". Quindi, nel verbale si e' dato atto dell'attivita' compiuta durante il sopralluogo nell'ambito della finalita' dello stesso intervento e la verifica a campione su alcuni esemplari degli animali e' stata mirata esclusivamente ad accertare che l'evento non avesse provocato conseguenze sulla salute e sull'idratazione degli stessi. Non hanno spiegato allora i giudici di appello come l'attestazione ritenuta incompleta sulle condizioni dell'allevamento abbia attribuito al tenore dell'atto un senso diverso da quello cui era finalizzato, cosi' che l'enunciato descrittivo abbia assunto nel suo complesso un significato contrario al vero. Va, inoltre, rilevato che Corte d'appello ha attribuito al (OMISSIS) la condotta di avere svolto l'accertamento con superficialita', tale da non rilevare quelle situazioni che avrebbero portato a doverosi approfondimenti. In tal modo, pero', si e' ritenuto sussistente un comportamento colposo, incompatibile con la fattispecie di reato ascritta, che - come e' noto - sebbene prescinda dalle finalita' dell'autore, punisce la condotta di falso a titolo di dolo generico, consistente nella rappresentazione e nella volonta' dell'immutatio veri, mentre non e' richiesto l'animus nocendi ne' l'animus decipiendi, con la conseguenza che il delitto sussiste sia quando la falsita' sia compiuta senza l'intenzione di nuocere, sia quando la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno. Fondata, peraltro, e' la censura della difesa del (OMISSIS) in relazione all'addebito del falso per omissione derivante anche dall'ulteriore travisamento della prova: il dato riportato nel verbale relativo alla verifica in tutti i capannoni e' oggetto della dichiarazione resa dal dottor (OMISSIS), responsabile dell'allevamento e non l'attestazione di un fatto compiuto dal (OMISSIS) in quanto pubblico ufficiale. Sara' dunque compito del giudice del rinvio correggere i vizi motivazionali sopra rilevati, attenendosi ai principi di diritto evidenziati. 6. Anche il reato di cui all'articolo 361 c.p., contestato al (OMISSIS) al capo F), e' estinto perche' e' decorso il termine prescrizionale. La sentenza va comunque annullata con rinvio agli effetti civili, rilevandosi i vizi motivazionali denunziati dal ricorrente, giacche' indubbiamente la Corte territoriale (si veda pag. 78 della sentenza in esame) ha trascurato di dar conto di elementi specifici in base ai quali si possa ritenere provato che il (OMISSIS) fosse o potesse essere a conoscenza dei fatti costituenti i reati di cui agli articoli 544 bis e 544 ter c.p.. In proposito si richiamano tutte le considerazioni sopra svolte in relazione ai reati di cui ai capi A) e B). Il giudice del rinvio, peraltro, dovra' valutare, dopo aver corretto i vizi motivazionali rilevati e dato conto degli elementi di prova relativi alla posizione del (OMISSIS), se debba ritenersi sussistente il reato di omessa denunzia ex articolo 361 c.p. ovvero quelli di cui agli articoli 110, 81 c.p., articolo 40 c.p., comma 2, articoli 544 bis e 544 ter c.p., giacche' essi non possono concorrere (arg. anche da Sez. 3, n. 3100 del 30/01/1996, Rv. 205000). In proposito, va ribadito che il concorso omissivo nel reato ai sensi dell'articolo 40 c.p., comma 2, si distingue dalla fattispecie di omessa denuncia di reato, di cui all'articolo 361 c.p., in quanto in quest'ultima ipotesi il pubblico ufficiale si limita ad omettere o ritardare di denunciare un reato di cui sia venuto a conoscenza, nella prima, invece, non pone in essere un comportamento doveroso, di carattere positivo che avrebbe potuto impedire la commissione di un reato (Sez. 6, n. 11295 del 02/12/2014, Rv. 263169; Sez. 1, n. 43273 del 23/09/2013, Rv. 256858). 7. Rimane assorbito il sesto motivo, con il quale il (OMISSIS) ha denunziato violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all'articolo 62 bis e 185 c.p.. 8. Infondato e' il primo motivo di ricorso proposto nell'interesse di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS). Sebbene succintamente, la Corte territoriale ha motivato sull'eccezione di inammissibilita' dell'appello proposto dal Pubblico Ministero per difetto di specificita' dei relativi motivi. 9. Fondato, invece, e' il secondo motivo. 9.1. Risulta che la difesa dei ricorrenti gia' in appello, dopo aver evidenziato che le imputazioni a carico dei ricorrenti erano scaturite dalle dichiarazioni rese dagli stessi in qualita' di testi nel processo a carico dei gestori dell'allevamento, aveva dedotto che le circostanze di fatto ritenute oggetto di dichiarazioni false erano state indicate anche da altri soggetti, nei confronti dei quali pero' non si era proceduto per il reato di falsa testimonianza. La Corte territoriale sul punto ha omesso di motivare (si vedano pagg. 81 - 84 della sentenza in esame). Peraltro, la Corte territoriale non ha adempiuto all'onere della motivazione c.d. rafforzata, a fronte di specifiche argomentazioni che avevano portato il giudice di primo grado ad assolvere gli imputati. 9.2. Invero, il Giudice dell'udienza preliminare aveva ritenuto minante la fondatezza dell'ipotesi accusatoria la circostanza che le versioni rese in istruttoria dagli imputati - allora testimoni - fossero state del tutto coerenti con precedenti versioni rese in fase di indagini preliminari. Il parametro della coerenza, per come noto, era fra gli indici di credibilita' di un testimone, dovendosi ritenere che l'omogeneita' di un racconto disvelasse sincerita', essendo difficile ipotizzare che un soggetto potesse rendere piu' volte la stessa versione dei fatti, in sedi distinte e a distanza di tempo, se il narrato non era corrispondente al vero. Nel corso della deposizione del 12 novembre 2014 (OMISSIS) dichiarava che era "supervisore dell'allevamento", un ruolo sostanzialmente tecnico con competenza sui capannoni 3, 4 e 5. Le superfici di sgambamento - osservava il teste durante la deposizione - erano nei capannoni 4 e 5, ma sempre all'interno, nel senso che venivano aperti 9-10 box alla volta durante le operazioni di pulizia per due o tre ore. Secondo il pubblico ministero tali dichiarazioni non erano veritiere. Di contro, ha osservato il Giudice di primo grado, non si comprendeva quale fosse il profilo di falso addebitato all'imputato. (OMISSIS) aveva riferito che lo sgambamento avveniva all'interno del capannone, dato emerso anche da altre fonti nel corso del processo, visto che i cani non potevano fare sortite esterne per timore di contaminazione. Gli animali, quindi, uscivano durante l'arco di tempo in cui venivano eseguite le pulizie dei box ed anche tale circostanza era riferita in istruttoria ed anche dagli imputati nel corso dell'udienza camerale. Lo stesso Pubblico ministero - nella requisitoria nel corso del processo avanti al Tribunale - sosteneva che "come emerso anche durante l'esame dei dipendenti (cfr. escussione teste (OMISSIS) 12 novembre 2014) la possibilita' di utilizzo dei corridoi avrebbe comunque riguardato soltanto 9 box per capannone al giorno, ovverosia una parte minima dei presenti, permettendo di fatto una breve uscita dei cani una volta ogni dieci giorni visti i numeri elevati delle celle per ciascun padiglione". La risposta del teste ("era sufficiente per un allevamento di cani da esperimento") alla domanda se tale sgambamento fosse o non sufficiente per mantenere il benessere dell'esemplare non poteva essere tacciata di falsita', posto che si trattava di una considerazione. La deduzione dell'accusa per cui, in realta', non venisse fatto alcuno sgambamento, neppure nei termini riferiti dal teste (OMISSIS), pareva piu' un'illazione che una conclusione fondata su dati obiettivi. A nulla rilevava, infatti, che il Manuale Procedure Interne (MPI) testualmente indicasse quali fossero le modalita' di collocazione dei cani durante le operazioni di pulizia, non essendovi alcuna acquisizione istruttoria che comprovava il rispetto di tali prescrizioni del manuale. Ne' poteva desumersi che i cani non fossero "abituati" ad uscire dai box in caso di apertura delle porte dalla reazione degli stessi animali al momento in cui operanti del Corpo Forestale dello Stato intervenivano, filmando la scena. Era un dato logico ed incontrovertibile che un animale non necessariamente si avvicinasse a sconosciuti, tanto piu' se presentatisi in buon numero; l'approccio all'animale risultava, invero, descritto in termini logici e condivisibili dalla Dott. (OMISSIS) nel corso del suo interrogatorio, approccio che doveva essere progressivo, condotto con tecnica tale da non incutere nel cane alcuna soggezione o spavento (pagg. 13 e 14 della sentenza di primo grado). A fronte di argomentazioni cosi' specifiche, la Corte territoriale si e' limitata a rilevare: " Le dichiarazioni del teste, che, peraltro, ha rivestito il ruolo di supervisore dei capannoni 4 e 5, non appaiono certo convincenti per ritenere che venisse comunque effettivamente assicurata la possibilita' di movimento agli animali. Invero, per come gia' riportato, il fatto che i beagle uscissero dalle gabbie, ancorche' secondo una regolare turnazione, appare incompatibile con lo scarso numero di addetti alla pulizia, con l'elevato numero di cani ospitati e dell'impossibilita' di identificare i cani al di sotto dei sessanta giorni in quanto privi di tatuaggio. Al riguardo, infatti, basta immaginare alla perdita di tempo che avrebbe impiegato il personale nel recupero dei singoli animali e nella loro identificazione al fine di rimetterli nei rispettivi box di alloggio, senza peraltro tenere conto dell'eventuale intralcio che questi avrebbero arrecato durante le operazioni di passaggio nei corridoi e all'ulteriore aggravio, in termini di dispendio e fatica, sporcando anche le zone di passaggio comune. A cio' si aggiunga che la riferita abitudine dei cani di uscire dal box, una volta aperta la porta di accesso, risulta smentita da quanto appurato il 18 luglio 2012, allorche', in piu' occasioni, si constatava che nonostante venissero aperte le gabbie dei box i cani restavano dentro e nessuno ne usciva" (pagg. 83 e 84 della sentenza impugnata). E' evidente che si tratta di motivazione insufficiente e basata su una serie di argomentazioni non riferite a elementi specifici che possano consentire di valutare come false le dichiarazioni rese dal (OMISSIS). Analoghe considerazioni vanno fatte per (OMISSIS). Il giudice di primo grado, dopo aver rilevato che questi era incaricato di provvedere alla socializzazione dei cuccioli del capannone n. 3 e - come dichiarato dal teste all'udienza del 26 novembre 2014 - espletava tale incarico sia in termini manuali (accarezzando gli animali, prendendoli in braccio, ponendo un dito sul palato) sia con strumenti (giocattoli ed altro); partecipava a riunioni di aggiornamento anche per migliorare il benessere animale con riguardo alla qualita' della segatura presente nella lettiera. Non risultavano, aliunde, elementi apertamente contrastanti con quanto dichiarato dal teste. Invero - come evidenziato dalla difesa nella memoria depositata - altri testimoni sentiti in istruttoria dibattimentale avevano reso versioni dei fatti in linea con quella resa dal (OMISSIS) e dagli altri imputati ex articolo 372 c.p. Cosi' i testi (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) (udienza 19.11.2014) avevano affermato che i giochi per i cani erano sempre sostituiti in caso di deterioramento e che vi erano in continuo lavori per migliorare le strutture al fine di consentire agli animali di vivere in un ambiente piu' salutare. I predetti escludevano soppressione di cani non idonei alla vendita; davano conto di costanti riunioni fra il personale e la parte dirigente; escludevano che gli ispettori avvertissero del loro arrivo prima di accedere allo stabilimento. Tali testimoni non erano stati accusati di aver dichiarato il falso, sicche' non si vedeva come si potesse contestare il reato di cui all'articolo 372 c.p. agli imputati, autori di narrazioni sulla stessa linea (pagg. 14 e 15 della sentenza di primo grado). La Corte territoriale si e' limitata ad argomentare come segue: "Anche in questo caso se non si puo' escludere la buona fede, allorche' il teste riferisce che l'azienda poneva grande attenzione al deterioramento dei giocattoli e al fatto che si tenessero riunioni quindicinali organizzate dalla dirigenza per trovare modi sempre nuovi per aumentare il benessere dei cani, non appare credibile il teste nel momento in cui ha dichiarato che il problema della segatura, era solo quello di trovare una segatura che assorbisse meglio le loro deiezioni e che fosse meno polverosa. Proprio nel periodo, in cui il teste era addetto alla socializzazione dei cuccioli, il tasso di mortalita' dei nuovi nati, con cui lui stesso aveva un rapporto diretto, era aumentato esponenzialmente proprio in ragione della ingestione della segatura troppo fine, tanto che l'argomento era stato oggetto di un apposito report da parte della societa' proprietaria dell'allevamento con i dipendenti della struttura. E' allora evidente che sul punto il teste riferisce, in piena consapevolezza, circostanze difformi dal vero, in quanto la problematica della granulometria della segatura era soprattutto legata alla sua ingestione da parte dei cuccioli con evidenti rischi per la loro sopravvivenza" (pagg. 82 - 83 della sentenza di appello). Quanto alla (OMISSIS), il Giudice dell'udienza preliminare ha affermato che non si vedeva come il suo narrato come testimone potesse essere indicato, da un lato, perno di sostegno della bonta' dell'assunto accusatorio (a titolo esemplificativo, si richiamavano i passaggi di cui alle pagg. 17, 18 e 60 della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale) e, dall'altro lato, qualificato come menzognero e quindi dar luogo alla accusa di falsa testimonianza. Peraltro, era considerazione tanto elementare, quanto logica quella per cui non poteva sostenersi fondatamente che tutti i dipendenti fossero a piena conoscenza di quanto accadeva all'interno dei capannoni dell'azienda, come gia' scritto in precedenza (pag. 15 della sentenza di primo grado). La Corte territoriale, invece, ha osservato che "il fatto che la (OMISSIS), nel corso della sua deposizione del 12 novembre 2014, abbia reso dichiarazioni che sono risultate credibili, non per cio' stesso esclude ed e' incompatibile con il fatto che la stessa possa avere, su altre circostanze, dichiarato il falso. Al riguardo va rilevato che l'imputata ha ricoperto l'incarico di tecnico di allevamento, adibita alla sala parto presso il capannone 3 dal marzo 2010; le sue mansioni consistevano nel fornire assistenza alle fattrici e si occupava della socializzazione e dell'alimentazione dei cuccioli nei primi mesi di vita. Ne consegue che le considerazioni espresse dalla stessa circa gli atteggiamenti degli animali adulti, l'eutanasia praticata agli stessi e le cause di detta pratica, la destinazione a fine carriera delle fattrici, i preavvisi in ordine alle ispezioni da parte dei veterinari dell'A.S.L. ben possono essere ritenute frutto di una conoscenza poco approfondita, non rientrando dette circostanze nelle mansioni espletate dalla predetta; ne consegue che eventuali incertezze, al riguardo, possono essere spiegabili con una conoscenza superficiale e de relato dell'argomento. Cosi', tuttavia, non puo' essere in merito alla negazione tranciante del fatto che presso l'allevamento non si sarebbero verificate morti di cani per ingestione di segatura. Nel caso di specie, si tratta di un problema che toccava direttamente la gestione dei cuccioli e dei quali la stessa (OMISSIS) era a conoscenza, tanto da avere dichiarato nel verbale di sit del 18 luglio 2012 che la segatura nelle casse parto da circa sei mesi era stata cambiata per evitare che i cuccioli la ingerissero. Se si considera che almeno un cucciolo su cinque moriva per ingestione di segatura, tanto che nel report del gennaio 2012 la Dott.ssa (OMISSIS), dipendente della (OMISSIS), azienda statunitense proprietaria della (OMISSIS), si era confrontata con il personale dell'allevamento in ordine al fatto che i cuccioli non fossero nutriti a sufficienza e morissero per l'ingestione della segatura, non si comprende come la (OMISSIS) fosse l'unica, all'interno dello stabilimento, a non conoscere tale circostanza, che peraltro toccava da vicino le sue mansioni. Basti pensare, a tal proposito, quanto riferisce altro addetto al capannone 3 con mansioni di pulizia e alimentazione dei cani, (OMISSIS), il quale, in sede di sommarie informazioni, il 18.7.2012 riferisce come la problematica della morte per soffocamento dei cuccioli per ingestione della segatura fosse dato notorio, tant'e' che dopo gli accertamenti condotti dal veterinario anche in riferimento all'otturamento dell'intestino delle bestiole, era stata presa la decisione di sostituire la lettiera con altra di granulometria piu' grossa. E' allora evidente che quanto dalla stessa affermato sul punto e' stato reso nella piena consapevolezza che esso differiva dal vero e, per questo, deve essere ritenuta colpevole del reato in contestazione" (pagg. 81 - 82 della sentenza di appello). Le argomentazioni della Corte territoriale certamente non hanno i requisiti della motivazione c.d. rafforzata, che - come e' noto - deve tener conto delle valutazioni del primo giudice ed essere in grado di superarle persuasivamente circa la configurabilita' del diverso apprezzamento come l'unico ricostruibile al di la' di ogni ragionevole dubbio. Inoltre, non va trascurato che, soprattutto con riferimento alla posizione della (OMISSIS), il diverso apprezzamento della Corte territoriale e' basato sulla valutazione di prove dichiarative, che non sono state oggetto di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. 9.3. Va detto, infine, che i giudici di merito non hanno considerato che i suddetti imputati erano dipendenti della (OMISSIS) e che, nei loro rispettivi ruoli, avevano potuto partecipare alle condotte poi ritenute penalmente rilevanti nel processo c.d. madre. Va allora rilevata d'ufficio (si veda in tal senso quanto condivisibilmente affermato da Sez. 5, n. 9806 del 11/02/2021, Rv. 280577) la questione relativa alla configurabilita' nella specie della causa di esclusione della punibilita' prevista dall'articolo 384 c.p. per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessita' di salvare se' stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella liberta' o nell'onore, operando tale causa di non punibilita' anche nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia reso mendaci dichiarazioni per evitare un'accusa penale nei suoi confronti, ovvero per il timore di essere licenziato e perdere il proprio posto di lavoro; e' evidente che tale timore attiene ad un rapporto di derivazione del danno dal contenuto della deposizione, rilevabile sulla base di un criterio di immediata ed inderogabile consequenzialita' e non di semplice supposizione. Tale valutazione, pero', compete al giudice di merito, il quale deve valutare nel suo complesso le dichiarazioni rese dai testi e dar conto, con motivazione logica e sufficiente, delle condizioni per l'applicabilita' della suddetta causa di non punibilita'. La sentenza va dunque annullata anche per i reati di falsa testimonianza, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Brescia per nuovo esame. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di (OMISSIS) agli effetti penali senza rinvio quanto alle imputazioni di cui ai capi a), b) e d) per essere i reati estinti per prescrizione e agli effetti civili con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Brescia. Annulla la medesima sentenza nei confronti del (OMISSIS) quanto al capo c) e nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS) E (OMISSIS) quanto ai reati loro rispettivamente ascritti con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Brescia.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI MILANO PRIMA CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Martina Flamini ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 19484/2017 promossa da: VA.TO. (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. GR.GA. e dell'avv. GR.AL. (...), elettivamente domiciliata in MILANO, VIALE (...) 26 presso il difensore avv. GR.GA. ATTORE contro RO.SA. (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. GO.GI., elettivamente domiciliato in MILANO, VIA (...) presso il difensore AZIENDA SANITARIA LOCALE n. (...) LANCIANO - VASTO - CHIETI (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. CA.RA., elettivamente domiciliata in LANCIANO, Via (...) presso il difensore CONVENUTI IS.AU. (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. GO.GI., elettivamente domiciliato in MILANO, VIA (...) presso il difensore Ro.Sa. e Au.Be., Au.Gi., Au.Cl., Au.Is. e Au.Gi., con il patrocinio dell'avv. GO.GI., elettivamente domiciliati in MILANO, VIA (...) presso il difensore AS.MI. S.P.A., con il patrocinio dell'avv. En.Be. e Al.Pa., elettivamente domiciliata in Milano, via (...), presso lo studio dell'avv. Pa. AM., con il patrocinio degli avv.ti Gu.Fo., Mi.Zu. e Ma.Ma., elettivamente domiciliata in Milano, via (...), presso lo studio dell'avv. Zu. TERZI CHIAMATI Fatto Con atto di citazione notificato il 10.4.2017 Va.To. ha evocato in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, l'Azienda Sanitaria (...) (di seguito (...)) e la signora Sa.Ro., quest'ultima in qualità di erede testamentaria della metà del patrimonio del marito defunto prof. Au., onde sentirli condannare, in via contrattuale al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, derivatile dall'errata esecuzione dell'intervento chirurgico di "correzione totale di genere con emasculatio, vulvovaginoplastica per inversione scalpopeniena ed impianto protesi mammaria 375 gr" (nell'ambito di un trattamento di chirurgia transessuale da maschio a femmina) eseguito presso il reparto di Urologia dell'Ospedale "(...)" di Chieti il 19.05.2012, dal prof. Ed.Au. (primo operatore) e dal prof. Ra.Te.. A sostegno delle domande proposte, parte attrice ha dedotto: che l'intervento del 19.5.2012, cui l'attrice si era sottoposta per porre rimedio alla grave dicotomia tra l'aspetto esteriore (maschile) e l'identità personale (femminile), era stato eseguito in modo imperito ed aveva causato all'attrice gravi disfunzionalità (che avevano reso necessario l'esecuzione di ulteriori interventi chirurgici); che, in particolare, in seguito all'intervento andro-ginoide, la vagina aveva subito gravi disfunzionalità (difficoltà nella minzione, necessità di continui cateterismi, vizi estetici, stenosi dell'uretra, assenza del clitoride e conseguente impossibilità di avere rapporti sessuali e di raggiungere l'orgasmo); che anche l'intervento di mastoplastica era stato eseguito in modo non corretto, atteso che le protesi erano state mal posizionate e che vi era un'eccessiva distanza tra il capezzolo ed il margine superiore della protesi; che l'attrice aveva deciso di rivolgersi proprio al prof. Au. (ritenuto un luminare della chirurgia plastica transessuale) per la sua grande esperienza e che era stato proprio costui a suggerirle di operarsi a Chieti; che i sanitari convenuti non avevano fornito all'attrice tutte le informazioni necessarie (con particolare riferimento ai rischi delle gravi complicanze poi realmente verificatesi) e che, se fosse stata correttamente informata, avrebbe scelto di farsi operare all'estero; che, unitamente alla lesione del diritto alla salute ed all'autodeterminazione, erano stati violati, altresì il diritto alla dignità personale ed all'identità di genere; che i gravi difetti estetici e funzionali avevano, altresì, provocato un elevato grado di sofferenza psicofisica; che l'attrice era stata, altresì, impossibilità a svolgere attività lavorativa ed aveva, pertanto, diritto al danno da lucro cessante (da quantificarsi, in via equitativa, nella somma di Euro 50,00 per 80 giorni); che la sig. To. aveva, inoltre, subito un danno patrimoniale relativo a tutte le spese per affrontare gli interventi chirurgici emendativi (nonché le spese di viaggio e di trasferta per l'intervento eseguito negli Stati Uniti); che l'esistenza dell'inesatto adempimento era stata già accertata nel corso del procedimento per accertamento tecnico preventivo promosso dall'attrice. Ha, dunque, concluso, chiedendo: "accertare e dichiarare la responsabilità diretta ed indiretta ai sensi degli art. 1218, 2236 e 1228 c.c. della struttura sanitaria convenuta nella causazione delle gravi lesioni subite da To.Va., per i motivi di cui alle premesse e di quelli accertandi in corso di causa; accertare, altresì, la responsabilità anche del prof. Au. nella pianificazione, nell'esecuzione e nella mancata informazione sulle competenze dell'equipe operatoria e la sua causalità con la lesione dei diritti costituzionalmente protetti dell'attrice; condannare l'ASL n. (...), in persona del legale rappresentante pro tempore e la sig.ra Sa.Ro., in qualità di erede testamentaria del chirurgo operante dott. Au. (quest'ultima nei limiti della propria quota ereditaria e dell'attivo ereditario), al risarcimento ex art. 1218, 1223 e 1226 c.c. di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, patiti e patiendi dalla ricorrente in conseguenza delle inadempienze contrattuali dei convenuti, nelle voci e nelle misure indicate ovvero in quelle maggiori e minori ritenute di giustizia dopo aver accertato la lesione dei beni della salute, della dignità, dell'identità di genere e del diritto all'autodeterminazione, oltre alla rivalutazione dall'evento lesivo al soddisfo ed al riconoscimento degli interessi cc.dd. compensativi, pari almeno al 5% annuo (risultante dalla media ponderata tra il saggio legale, quello dei titoli di stato e quello data da quelle forme di prudente investimento bancario quali sono i fondi di investimento obbligazionari o in altro bene-rifugio), a decorrere dalla data dell'illecito, oltre agli interessi ex art. 1284, comma 4, c.c. (così come introdotto dal D.L. n. 132/2014, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 162/2014) maturandi sulla somma complessiva dovuta dalla domanda giudiziale sino al saldo effettivo. Con vittoria di spese e compensi professionali, rimborso forfettario, oltre IVA e CAP come per legge sia per il procedimento di a.t.p. che per il presente giudizio". L'Azienda Sanitaria (...) si è costituita eccependo la carenza di legittimazione passiva atteso che l'Unità Operativa di Urologia dell'Ospedale "(...)" di Chieti, presso la quale era stato eseguito l'intervento per cui è causa era, all'epoca dei fatti, soggetto, in forza di apposita convenzione, alla direzione dell'Università degli studi (...) di Chieti Pescara; che l'attrice, peraltro, aveva scelto direttamente il prof. Au. e che l'ospedale di Chieti si era limitato a mettere a disposizione la struttura operatoria e di degenza; che l'intervento chirurgico andro ginoide era di rilevante complessità ed era stato correttamente eseguito; che non vi era stata alcuna violazione del diritto al consenso informato. Ha concluso chiedendo la chiamata in causa di tutti gli eredi del prof. Au., del dott. te. e di Am. rassegnando le seguenti conclusioni: "a) in via principale dichiarare il difetto di legittimazione passiva della medesima ASL comparente e comunque rigettare in toto le domande avanzate nei suoi confronti dall'attrice Sig.ra To.Va.; b) subordinatamente all'accoglimento, anche solo parziale, delle domande attrici, e salvo gravame: b.1. dichiarare la compagnia AM., in persona del legale rappresentante pro tempore, obbligata a manlevare e tenere indenne l'Azienda Sanitaria (...), da ogni pregiudizio economico dipendente dall'accoglimento anche parziale delle domande attrici, per quanto eccedente la franchigia contrattuale;b.2. di conserva condannare la medesima AM. a corrispondere all'Azienda Sanitaria Locale (...) - ovvero, si opus sit, direttamente in favore dell'attrice To.Va. - tutte le somme, anche a titolo di spese e competenze legali, eccedenti rispetto alla franchigia prevista nel contratto di assicurazione, delle quali venisse affermato l'obbligo risarcitorio a carico della stessa Azienda Sanitaria (...) ed in favore dell'attrice To.Va.; b.3. accertare il diritto dell'Azienda Sanitaria (...) a rivalersi nei confronti dei sanitari che hanno eseguito l'intervento per cui è causa, Prof. Ed.Au. e Prof. Ra.Te., e quindi responsabili diretti degli accertandi eventi dannosi;b.4. per l'effetto condannare il Prof. Ra.Te. e gli eredi del Prof. Ed.Au. (la Sig.ra Ro.Sa., nata 1/6/1962, per quota pari a 5/10; i Signori Be.Ed. Au. nato il (...) Gi.Ed. nato il (...) Cl.An. nata il (...) Is.Au. nata il (...) Gi.Au. nato l'11/10/1999, ciascuno per quota pari ad 1/10) a corrispondere all'Azienda Sanitaria (...) tutte le somme, anche a titolo di spese e competenze legali, delle quali venisse affermato l'obbligo risarcitorio a carico della stessa Azienda Sanitaria (...) ed in favore dell'attrice To.Va., al netto di quanto eventualmente corrisposto dalla compagnia assicuratrice Am.;c) regolare le spese e le competenze del presente giudizio secondo il principio della soccombenza rispetto alle conclusioni come formulate". Ro.Sa. e Au.Be., Au.Cl., Au.Is. e Au.Gi. si sono costituiti chiedendo, preliminarmente, l'autorizzazione alla chiamata in causa di As.Mi. S.p.A. (peraltro già evocata in giudizio, nel corso del procedimento per accertamento tecnico preventivo da Ro.Sa.). Nel merito hanno dedotto l'infondatezza delle domande spiegate dalla sig. To. ed in via subordinata hanno chiesto la condanna della compagnia di assicurazione a corrispondere all'attrice le somme dovute in dipendenza della presente sentenza. Am. si è costituita aderendo all'eccezione di difetto di legittimazione passiva, spiegata dall'assicurata, ed eccependo l'inoperatività della copertura assicurativa per i vizi estetici e l'esistenza di una franchigia di Euro 75.000,00. Ra.Te. si è costituito eccependo, preliminarmente, l'improcedibilità delle domande formulate dalla (...) per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione e deducendo l'infondatezza delle stesse in quanto del tutto indeterminate. As.Mi. si è costituita chiedendo, in merito al rapporto assicurativo, l'accertamento e la dichiarazione di inoperatività della polizza assicurativa azionata dagli eredi del prof. Au. con conseguente rigetto della loro domanda o, quantomeno, con riduzione delle somme indennitarie dovute. Ha eccepito, inoltre, l'inammissibilità della domanda di manleva spiegata dall'(...) nei confronti degli eredi Au., ai sensi dell'art. 9, I comma, L. n. 24/2017, e la sua infondatezza. In subordine ha chiesto che la domanda di regresso dell'ente fosse limitata alla quota di responsabilità direttamente e specificamente ad essi riferibile. Dopo la prima udienza, e a seguito di memorie depositate dalle parti interessate ai sensi dell'art. 101 c.p.c. sulla questione riguardante la domanda di rivalsa formulata dall'(...) nei confronti del dott. te., il Giudice, con ordinanza 12.09.2018, ha dichiarato la nullità dell'atto di chiamata in causa del dott. te. ed ha disposto la separazione della causa relativa ai rapporti tra la (...) e il dott. te.. Chiesti e concessi i termini di cui all'art. 183 sesto comma c.p.c., espletata una CTU medico legale collegiale, all'udienza del 6.10.2020 le parti hanno precisato le conclusioni (in un'udienza con trattazione scritta) ed il giudice, previa concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. ha trattenuto la causa in decisione. 2. Difetto di legittimazione passiva della (...) L'eccezione è infondata e deve essere rigettata per i motivi che seguono. In primo luogo, non pare inutile ricordare che come è noto, la legittimazione ad causam dal lato passivo (o legittimazione a contraddire), quale presupposto processuale, si determina non in base alla effettiva titolarità del rapporto controverso, che è questione di merito, ma in base alla prospettazione che di tale rapporto viene data dall'attore, e consiste precisamente nella corrispondenza tra colui nei cui confronti è chiesta la tutela e colui in capo al quale si afferma l'esistenza del dovere asseritamente violato (tra le tante, Cass. Sez. III, 1 marzo 2004, n. 4121; Cass. Sez. I, 12 agosto 2005, n. 16878; Cass. Sez. I, 7 ottobre 2005, n. 19647; Cass. Sez. I, 23 novembre 2005, n. 24594). Nel caso di specie, atteso che parte attrice assume di aver subito dei danni in conseguenza dell'errata esecuzione di un intervento chirurgico che, in ossequio al c.d. contratto di spedalità, la (...) doveva eseguire, la legittimazione passiva deve ritenersi sussistente. La doglianza non attiene allora certamente alla dedotta legitimatio ad causam, attenendo essa all'identificazione del soggetto cui spetta la prestazione dovuta e pertanto all'accertamento in concreto dell'effettiva titolarità del rapporto sostanziale insorto tra le parti e fatto valere in giudizio (Cass. 18 novembre 2005, n. 24457). La questione è quindi di merito. Orbene, solo la diretta gestione della clinica costituisce l'elemento idoneo ad individuare il soggetto titolare del rapporto instaurato con il paziente e conseguentemente a fondare la correlativa responsabilità (cfr. sul punto, Cass. 26.5.2011 n. 11621). Nel caso in esame dal tenore della Convenzione tra Università ed ASL (doc. 1 prodotto dalla (...)) non si evince che, quanto all'attività di assistenza sanitaria ed in modo rilevante per i terzi, la gestione delle cliniche universitarie fosse in capo all'Università. Con riferimento a tale aspetto, peraltro, neanche la difesa della ASL indica le specifiche disposizioni della Convenzione in forza delle quali vi sarebbe stato un trasferimento della gestione in capo all'Università. In secondo luogo, osserva il Tribunale come la predetta Convenzione possa avere rilievo interno tra le parti contraenti, ma non possa comunque produrre effetti (in questo caso limitativi del diritto di agire per chiedere il risarcimento dei danni subiti) nei confronti dei terzi. A tali considerazioni va poi aggiunto come nella copiosa documentazione sanitaria prodotta dalla difesa di parte attrice non sia contenuto alcun elemento che potesse portare la paziente a ritenere di aver concluso un contratto di spedalità con l'Università e non, invece, con la ASL. La stessa ASL, peraltro, in sede di accertamento tecnico preventivo, si è costituita senza nulla eccepire sul punto ed omettendo di rilevare come la titolarità del rapporto dovesse ritenersi radicata in capo all'Università. Deve ritenersi, pertanto, che la sig. To. abbia concluso un contratto di spedalità con la (...) legittimamente evocata in giudizio. 3. Responsabilità professionale della struttura sanitaria e del medico convenuto Nel merito, le domande spiegate da parte attrice sono fondate e meritano accoglimento per i motivi che seguono. Nel caso in esame, l'attrice ha evocato in giudizio la (...), con la quale aveva concluso il c.d. contratto di spedalità, ed il medico chirurgo al quale si era rivolta per l'esecuzione dell'intervento per cui è causa (nella persona della di lui erede, Ro.Sa.), deducendo (implicitamente) di aver concluso un contratto d'opera intellettuale con il professionista. L'attrice, infatti, ha specificamente allegato di essersi rivolta al prof. Au., in quanto considerato un luminare nella chirurgia plastica transessuale. La conclusione di un contratto d'opera intellettuale - fatto non contestato - deve ritenersi, pertanto, un fatto pacifico. Orbene, deve ritenersi che entrambe le parti convenute rispondano a titolo di responsabilità contrattuale. Tanto premesso, in via generale, è opportuno richiamare l'ormai consolidato orientamento della Corte di Cassazione secondo il quale incombe sul creditore l'onere di provare il nesso di causalità fra la condotta del sanitario e l'evento di danno quale fatto costitutivo della domanda risarcitoria, non solo nel caso di responsabilità da fatto illecito, ma anche nel caso di responsabilità contrattuale (Cass. 26 luglio 2017, n. 18392, cui sono conformi: Cass. 26 febbraio 2019, n. 5487; 17 gennaio 2019, n. 1045; 20 novembre 2018, n. 29853; 30 ottobre 2018, nn. 27455, 27449, 27447, 27446; 23 ottobre 2018, n. j 26700; 20 agosto 2018, n. 20812; 13 settembre 2018, n. 22278; 22 agosto 2018, n. 20905; 19 luglio 2018, n. 19204; 19 luglio 2018, n. 19199; 13 luglio 2018, n. 18549; 13 luglio 2018, n. 18540; 9 marzo 2018, n. 5641; 15 febbraio 2018, nn. 3704 e 3698; 7 dicembre 2017, n. 29315; 14 novembre 2017, n. 26824; si vedano tuttavia già prima Cass. 24 maggio 2006, n. 12362; 17 gennaio 2008, n. 867; 16 gennaio 2009, n. 975; 9 ottobre 2012, n. 17143; 26 febbraio 2013, n. 4792; 31 luglio 2013, n. 18341; 12 settembre 2013, n. 20904; 20 ottobre 2015, n. 21177; 9 giugno 2016, n. 11789). Più di recente, la Suprema Corte, nella sentenza n. 28992 dell'11.n.2019, ha affermato che: "ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica, o l'insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l'esatta esecuzione della prestazione". Più diffusamente, la Corte ha precisato che: "Una volta che il creditore abbia provato, anche mediante presunzioni, il nesso eziologico fra la condotta del debitore, nella sua materialità, e l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie, sorgono gli oneri probatori del debitore, il quale deve provare o l'adempimento o che l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione a lui non imputabile. Emerge così un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle. Il nesso di causalità materiale che il creditore della prestazione professionale deve provare è quello fra intervento del sanitario e danno evento in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie; il nesso eziologico che invece spetta al debitore di provare, dopo che il creditore abbia assolto il suo onere probatorio, è quello fra causa esterna, imprevedibile ed inevitabile alla stregua dell'ordinaria diligenza di cui all'art. 1176, comma 1, ed impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale (art. 1218). Se la prova della causa di esonero è stata raggiunta vuol dire che l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di una nuova patologia è eziologicamente riconducibile all'intervento sanitario, ma il rispetto delle leges artis è nella specie mancato per causa non imputabile al medico. Ne discende che, se resta ignota anche mediante l'utilizzo di presunzioni la causa dell'evento di danno, le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul creditore della prestazione professionale, se invece resta ignota la causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale, ovvero resta indimostrata l'imprevedibilità ed inevitabilità di tale causa, le conseguenze sfavorevoli ricadono sul debitore". Ciò posto, nel caso in esame si osserva quanto segue. La consulenza tecnica espletata nel procedimento per accertamento tecnico preventivo e l'integrazione effettuata nel presente giudizio - le cui conclusioni meritano di essere pienamente condivise (a parte alcune valutazioni relative al risarcimento dei danni, sui quali ci si soffermerà in seguito), in quanto basate su un completo esame anamnestico e su un obiettivo, approfondito e coerente studio della documentazione medica prodotta - depositata a firma della dott.ssa El.Ma. (specialista in medicina legale e delle assicurazioni), del dott. Wa.Po. (specialista in chirurgia plastica), Pi.Mo. (specialista in ostetricia e ginecologia) e del dott. Ma.Gr. (specialista in urologia) - ha consentito di accertare gli elementi principali della vicenda sanitaria che ha coinvolto Va.To.. L'attrice, con diagnosi di disturbo di identità di genere, è stata sottoposta in data 19.5.2012 ad intervento di "correzione totale di genere con emasculatio vulvovaginaplastica per inversione scalpo peniena, impianto protesi mammaria 375 g", eseguito da un equipe chirurgica costituita dal dott. Au. (primo operatore) e dal dott. Te.. Il decorso post operatorio è stato regolare e la sig. To. è stata dimessa il 26.5.2012 con "con l'indicazione ad eseguire controlli ambulatoriali" e visita dopo due o tre giorni. Nella relazione di CTU svolta nel procedimento per accertamento tecnico preventivo - le cui conclusioni sono richiamate nell'odierno accertamento peritale -, gli ausiliari del Giudice danno conto dei numerosi problemi manifestati dall'attrice sin da due mesi dopo l'intervento. In particolare: - Il 24.7.2012 l'attrice si è recata presso il Policlinico S. Orsola per lamentare difficoltà minzionali; - Il 16/08/2012 una visita neurologica ha accertato che, da dopo l'intervento di mastoplastica (maggio 2012) è comparsa disestesia avambraccio di destra, deficit stenico a tutto AS di destra (in miglioramento), difficoltà nella prensione con la mano di destra; - Il 27.9.2012 è stata sottoposta ad intervento di mastoplastica di ampliamento previa riconfigurazione inferiore della neovagina; - Dal 25.7.2012 è stata sottoposta a visite fisiatriche per parestesie all'avambraccio destro, dolore all'arto superiore destro e deficit di forza alla mano destra; - Nel corso del 2013 risultano plurimi accessi presso strutture ospedaliere per disturbi disurici (che richiedono dilatazioni) e per deficit di forza alla mano destra; - Nel settembre del 2012 è stata sottoposta, presso l'Ospedale Policlinico Sant'Orsola di Bologna, ad intervento di meato plastica di ampliamento previa riconfigurazione della commisura inferiore della neovagina; - Il 27.2.2014, presso il (...), è stata sottoposta ad intervento chirurgico (eseguito dalla dott.ssa Bo.) di "labioplasty, urethroplasty and cosmetic revision". Con riferimento all'intervento di mastoplastica, gli ausiliari del Giudice hanno evidenziato che: - "Partendo dalla considerazione che nel caso specifico la finalità dell'intervento era di completare una neo-mammella con caratteristiche di tipo femminile su soggetto maschile, con relativa struttura muscoloscheletrica normoconformata e ben sviluppata (in particolare nella componente toracica ossea e muscolare gran pettorale e piccolo pettorale), pur con una ghiandola mammaria ipertrofizzata dalle terapie femminilizzanti di tipo ormonale (determinante già un sostanziale aumento dimensionale della parte anatomica); - La scelta di accesso chirurgico sottomammario, a preferenza di accesso alternativo sottoascellare (gravato comunque da maggior frequenza e probabilità di ematomi postoperatori e richiedente comunque una competenza superspecialistica) o di accesso periareolare (qui controindicato data la limitata area periareolare), risulta certamente corretta, rappresentando la via di accesso più sicura e che meglio permette un ampio e simmetrico scollamento muscolare, onde ricavare una adeguata e simmetrica tasca di alloggiamento protesico sottomuscolare; - Va comunque rilevato che qui si evidenzia senza alcun dubbio un difetto di confezionamento della tasca di alloggiamento protesico per difetto e difformità di scollamento muscolare, pur utilizzando la via di accesso chirurgica più favorevole in tal senso, cui va imputato l'effetto di eccessiva risalita protesica e il dislocamento latero-sup. Dx, determinanti nell'insieme un effetto meno favorevole di quanto sarebbe stato possibile, se l'intervento fosse stato eseguito in maniera idonea allo scopo prefissato, parte integrante del contratto terapeutico, che nel caso specifico acquista una valenza curativa e non solo estetica, rappresentando qui la ricostruzione di una naturale salienza mammaria elemento indispensabile al raggiungimento di una accettabile femminilità intesa nel senso più allargato del termine e vissuto dalla persona con particolari aspettative. Si rimarca una presumibile maggiore difficoltà tecnica a priori, al raggiungimento del risultato su una struttura con torace atletico e muscolatura sviluppata di tipo maschile, che avrebbe richiesto precedentemente una preparazione con espansione cutanea in modo da ampliare il volume mammario globale, aumentandone la tasca di inserimento protesico. Del resto, considerando che l'intervento è stato a carico del SSN e che era finalizzato alla creazione di salienza anatomica di tipo femminile a completamento di un iter clinico - chirurgico complesso a finalità terapeutiche (anche considerandone i risvolti psichici), dobbiamo convenire - ad ulteriore distanza di tempo osservazionale - che il risultato è stato grossolanamente ottenuto, non in modo ottimale. In merito alle problematiche di tipo ginecologico, gli ausiliari del Giudice hanno evidenziato che: - Attualmente dal punto di visto ginecologico l'aspetto esterno dei genitali, in riferimento all'ultima visita effettuata il 15. 09. 2014, successivamente alla plastica effettuata negli USA qualche mese prima con limitati esiti estetici, è praticamente invariato (vedi documentazione fotografica) ed è peggiorata la dimensione dell'ostio vulvare essendosi ridotto di circa 1 cm nel diametro; - L'intervento di modifica in senso femminile dei genitali maschili è da considerare un intervento tecnicamente complesso, non alla portata di tutti gli specialisti urologhi o ginecologi in quanto non fa parte dell'insegnamento standard nelle scuole di specialità. In Italia si fanno attualmente circa 60 interventi all'anno; - La particolare complessità del tempo ricostruttivo successivo all'evirazione, per la creazione di una neovagina nello spazio anatomico compreso tra l'uretra, la base vescicale e il retto richiede un ampio scollamento per circa 10/12 cm delle due strutture, particolarmente delicate e la creazione di una tasca utilizzando lembi o innesti di mucosa peniena e/o scrotale Da SICPRE: "L'intervento di demolizione e ricostruzione, è effettuato in un unico momento (rimozione dei testicoli; parziale rimozione del pene; creazione della neo-vagina, clitoride, grandi labbra e piccole labbra, e creazione di un condotto vaginale). La tecnica più in uso per la creazione della neo-vagine, è quella tramite l'inversione peniena. In questo tipo di intervento, la pelle del pene viene staccata e rigirata a guanto per rivestire le pareti della neo-vagina. Inoltre, parte del glande verrà conservato per creare una clitoride sensibile. L'uretra ovvero il condotto che porta le urine dalla vescica all'esterno per permettere la minzione è naturalmente più lungo nei maschi rispetto alle femmine, ed è posizionato in maniera differente. Durante intervento di ricostruzione della neo vagina, l'uretra verrà accorciata e riposizionata come parte della nuova vagina. I rischi connessi più frequenti sono: Reazione allergica all'anestesia, Trombosi, Fistola tra retto e vagina, emorragia, ostacoli urinari apertura delle cicatrici infezioni delle cicatrici lenta guarigione, necrosi dei tessuti; Non sempre le aspettative da parte del paziente rispondono in maniera adattiva ai risultati dell'operazione chirurgica, in quanto questi dipendono dalla reale situazione anatomica iniziale; inoltre possono essere presenti dolore e perdita di sensibilità per un certo periodo di tempo. Oltre a ciò, alcune donne con tendenza alla cicatrizzazione ipertrofica o cheloidea potrebbero ritrovarsi a seguito dell'intervento una spiacevole cicatrice e quindi dover intervenire nuovamente"; - Se ne deduce che gli esiti sul breve e lungo termine dell'intervento dipendono non solo dalla tecnica utilizzata e dalla abilità del chirurgo ma anche dalla reazione individuale nei processi di riparazione delle ampie ferite; - Dalla cartella clinica risulta che nel corso dell'intervento sono state poste in atto le normali precauzione per ridurre il rischio di complicanze infettive emorragiche e deiscenze delle suture; il decorso postoperatorio è avvenuto regolarmente e alla dimissione dopo 7 gg., con riscontro di parametri di normalità e regolare funzione urinaria, sono state prescritte terapie specifiche locali, generali, e controlli programmati. In merito alla chirurgia femminilizzante, in particolare alla vaginoplastica, dalla relazione di CTU emerge che: - L'unico evento dimostrato nel post-operatorio e corretto chirurgicamente è stato la stenosi del meato uretrale distale. Tale evento come già evidenziato, è considerato una delle più frequenti complicanze della conversione di sesso facilmente emendabile con una meato plastica; - Sotto il profilo strettamente urologico si fa rilevare che avere effettuato l'intervento di conversione genitale nello stesso tempo della mastoplastica non ha evocato conseguenze ascrivibili alla doppia procedura (infezioni da riferire all'allestimento di doppio campo operatorio); - I disturbi "peraltro vaghi e generici" deposti dalla paziente vanno inquadrati considerando che la Sig.ra Va.To. ha un'uretra posteriore di tipo maschile, prostata e vescicole seminali; - Si fa rilevare che da uretroscopia ed uroflussimetrie del 2014 allegate dalla Sig.ra Va.To. emerge ostruzione nell'uretra posteriore e "lenta apertura del collo vescicale". - La fascia d'età è peraltro tale da indurre a considerare ascrivibili a patologie cervico prostatiche la maggior parte delle eventuali problematiche di minzione; - Dall'analisi letteratura più recente emerge come la Sig.ra To. sottoposta ad un intervento di particolare difficoltà, abbia ottenuto, sotto il profilo urologico, un risultato esteticamente e funzionalmente adeguato essendo incorsa in un'unica dimostrata complicanza (stenosi del meato uretrale) peraltro già corretta per scelta della paziente non in struttura nazionale ma negli Stati Uniti. Permane, peraltro, la modesta latero deviazione a sinistra del meato uretrale; - Per quanto riguarda la sintomatologia disurica segnalata per altro come discontinua dalla paziente si ritiene riferibile a problematiche del distretto uretrale posteriore. Premessi tali elementi, gli ausiliari del Giudice, hanno evidenziato che: - Per quanto riguarda l'obiettività all'arto superiore destro, alla visita del 4 aprile 2019, si è rilevato un miglioramento della funzionalità della mano rispetto a quanto rilevato anni fa in sede di ATP (2014) con scomparsa del deficit funzionale al I e al II dito e residua sfumata ipostenia della pinza I-II dito; - Per quanto riguarda l'intervento di mastoplastica adRePertn1112/2021 del16/02/2l condotta professionale del Chirurgo Operatore che ebbe ad effettuare tale intervento in un tempo unico e con confezionamento inadeguato delle tasche; - Per quanto riguarda l'intervento di cambio di sesso andro-ginoide: "sono ascrivibili ad erronea condotta professionale del Prof. Au. la sostanziale assenza dello pseudoclitoride e delle pseudopiccolelabbra, la lieve lateroposizione sinistra del meato uretrale e la stenosi dell'ostio della pseudo vagina con attendibili difficoltà al coito, quest'ultima responsabilità, peraltro, in condivisione con gli altri operatori che avrebbero dovuto seguire la paziente nel post operatorio presso l'Ente Resistente e probabilmente anche con la segnalata tendenza ad abnorme cicatrizzazione della Perizianda"; - In ultimo, con riferimento alla sindrome di Sindrome di Kiloh-Nevin (o compressione del nervo interosseo anteriore) di cui oggi residuano gli esiti alla mano destra è da ritenere, in termini di maggior probabilità che non, che la stessa sia da ricondursi causalmente ad una abnorme compressione del nervo da parte di fenomeni emorragici (ematoma) e/o edematosi derivanti da probabili incongrue manovre degli operatori che ebbero in cura la Sig. To. presso l'Ente Resistente, tenuto conto di quanto dalla stessa riferito e di quanto segnalato nella documentazione in atti" (come già segnalato attualmente - 2019 - la funzionalità della mano destra è stata completamente recuperata). Tali circostanze inducono univocamente a ritenere che la struttura sanitaria e il medico convenuto non abbiano adempiuto con la necessaria diligenza e la dovuta prudenza alle proprie obbligazioni. In particolare, è emerso che sono stati commessi errori sia durante l'esecuzione dei due interventi chirurgici (con riferimento sia all'intervento di mastoplastica che a quello di vaginoplastica, con riferimento agli specifici elementi sopra indicati), che nella fase post operatoria. Tali considerazioni non possono essere revocate in dubbio alla luce delle contestazioni svolte dai consulenti tecnici e dalla difesa dei convenuti. In primo luogo, non appare inutile ricordare che la limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo e colpa grave, di cui all'art. 2236, co. II c.c., ricorre nelle sole ipotesi in cui la prestazione implica la soluzione di problemi di particolare difficoltà ed attiene, dunque, ai soli casi in cui è richiesta una particolare perizia che trascende la preparazione media, ovvero in cui la particolare complessità deriva dal fatto che il caso non è stato ancora studiato a sufficienza o non è stato ancora definitivamente dibattuto con riferimento ai metodi da adottare. Nel caso in esame, come specificamente chiarito dagli aufì°irr cfìt Giuaice,rinterveeto effettuato - sicuramente complesso e non routinario - non può ritenersi intervento che richiede una perizia che trascende la preparazione media o la cui complessiva deriva dal fatto che non sia stato studiato a sufficiente. Non può, pertanto, invocarsi la limitazione di cui all'art. 2236 c.c.. In secondo luogo, con riferimento alle censure svolte dai consulenti e dalle difese delle parti convenuta, osserva il Tribunale come i CTU, sia nella relazione svolta nel procedimento di ATP che nel presente procedimento, abbiano individuato le specifiche criticità ascrivibili all'esecuzione degli interventi chirurgici (in merito ad un difetto di confezionamento della tasca di alloggiamento della protesi mammaria, ad una sostanziale assenza dello pseudoclitoride e delle pseudopiccolelabbra, alla lieve lateroposizione sinistra del meato uretrale ed alla stenosi dell'ostio della pseudo vagina con attendibili difficoltà al coito ed alle incongrue manovre chirurgiche che hanno provocato la compressione del nervo interosseo anteriore). Dagli elementi risultanti dalla c.t.u. emerge in modo chiaro che il comportamento del dott. Au. (unitamente a quello dei sanitari che con lui hanno eseguito gli interventi) e della (...) ha determinato, in termini di probabilità relativa, i danni subiti da Va.To. (nei termini di seguito precisati). Nell'operato dei convenuti, pertanto, è ravvisabile un inesatto adempimento delle prestazioni necessarie a ad evitare le lesioni poi subite dall'attrice, con conseguente responsabilità per violazione del dovere di diligenza, ex art. 1176 c.c., e diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali e patrimoniali emergenti che sono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento (art. 1223 c.c.). 4. Danni risarcibili In merito all'entità delle lesioni subite da Va.To., dalla relazione di c.t.u. emerge che: - Per quanto riguarda la valutazione delle menomazioni complessive derivate dagli eventi in discussione - ascrivibile ai rilevati profili di responsabilità professionale sanitaria - le stesse configurano un danno biologico permanente valutabile nella misura del 13%-14%; - "La ulteriore riduzione dell'ostio vulvare rilevato alla visita ginecologica dal CTU Dott. Mo. - rispetto a quanto rilevato nel corso delle operazioni peritali svolte nel procedimento di ATP - stante il riferito non uso di dilatatori da parte della Sig.a To., non può che a questo essere causalmente ascritto, essendo di fondamentale importanza per il mantenimento delle dimensioni della neovagina il corretto uso di tali presidi"; - si delinea un periodo di inabilità temporanea assoluta di un giorno, un periodo di inabilità temporanea parziale, mediamente al 75% di 30 giorni, un periodo di inabilità temporanea parziale, mediamente al 50 % di 30 giorni, un periodo di inabilità temporanea parziale mediamente al 25% di circa 180 giorni". Parte attrice ha contestato la quantificazione dei danni evidenziando che: i CTU avevano arbitrariamente limitato la percentuale di danno biologico solo in ragione del fatto che il danno si era verificato all'esito di un intervento "finalizzato ad una modificazione morfologica del proprio corpo con sovvertimento completo dei caratteri sessuali (da maschile a femminile)"; contrariamente rispetto a quanto indicato dai CTU le mancate dilatazioni vaginali non possono essere ritenute ascrivibili alla sig. To. (e portare ad una riduzione del danno), atteso che le stesse sono state interrotte a causa dell'elevato dolore che provocavano e che i convenuti non hanno provato di aver correttamente informato l'attrice in merito alla necessità di eseguirle; il danno funzionale che rende impossibile il coito a causa delle minime dimensioni dell'ostio vaginale e della inadeguata profondità del canale vaginale lungo solo 7-8 cm., associato ad una persistente condizione di anorgasmia per inesistenza del neoclitoride è valutato già nella misura del 25% dalle Linee SIMLA 2016, mentre il danno uretrale, da solo, comporta, secondo le stesse tabelle, un'invalidità dell'8-9%; non è stata valutata la gravissima compromissione delle funzioni sessuali. Le osservazioni di parte attrice possono, in parte, essere condivise. In primo luogo, si osserva che, contrariamente rispetto a quanto dedotto dalla difesa di parte attrice (anche nella comparsa conclusionale) i CTU propongono una quantificazione del 13/14% non in ragione del fatto che l'intervento eseguito - essendo diretto ad un sovvertimento dei caratteri sessuali - avrebbe dovuto necessariamente portato ad un risultato non ottimale, ma alla luce delle diverse concause naturali, la cui responsabilità non può essere ascritta a parte convenuta (cfr., in particolare, miglioramento della funzionalità del I e II dito, tendenza all'abnorme cicatrizzazione della sig. To., problematiche di minzione riconducibili a patologie cervico prostatiche e posizione dell'uretra posteriore di tipo maschile). Tanto premesso, ritiene il Tribunale che la quantificazione del danno biologico permanente proposta dai CTU non tenga conto di alcuni elementi che consentono una quantificazione in misura superiore. In primo luogo non è contestato che le dimensioni dell'ostio vulvare si sia ulteriormente ridotta (rispetto a quanto emerso nel corso del procedimento di ATP). Tale progressiva riduzione deve essere causalmente ascritta all'operato non diligente dei convenuti nella fase post operatoria. Come emerso nel corso della relazione di CTU, svolta nel procedimento per accertamento tecnico preventivo, infatti, "non risulta dalla documentazione clinica in atti che nel post-operatorio siano state date alla Signora indicazioni precise e puntuali sull'utilizzo dello stesso (intrusore), si che si delineano in tal senso profili di negligenza degli operatori Sanitari che avrebbero dovuto seguire la Paziente nel post-operatorio". In merito al fatto che la sig. To. non avrebbe eseguito le dilatazioni vaginali, basti osservare che - in ragione delle ridotte dimensioni dell'ostio vulvare - appare presumibile che l'inserimento dell'intruso possa essere stato causa di dolore e possa, pertanto, aver portato l'attrice ad interrompere le predette dilatazioni. In merito alla componente di danno relativa alla compromissione delle funzioni sessuali, le conclusioni dei CTU non possono in alcun modo essere condivise. L'età della perizianda all'epoca dei fatti (47 anni) e dell'accertamento peritale (indicata dai CTU come causa di presumibile calo del desiderio sessuale, unitamente alla condizione di menopausa) e la circostanza che la stessa abbia contratto matrimonio (indicata dai CTU a pag. 33 della relazione di CTU), appaiono elementi del tutto inconferenti ed inidonei a superare l'elemento certo - specificato dagli stessi ausiliari del Giudice - relativo al fatto che le dimensioni della vagina rendono molto difficoltoso il coito. Con riferimento a tale ultimo aspetto deve essere valutato come un'incidenza concorrente possa aver assunto anche la tendenza all'abnorme cicatrizzazione evidenziata dai CTU e come della stessa, nella quantificazione del danno, debba tenersi conto. Alla luce di tutti i predetti elementi, ritiene il Tribunale di poter quantificare il danno biologico permanente subito dalla sig. To. nella misura del 20% - come conseguenza immediata e diretta di quanto verificatosi al nel corso dell'intervento chirurgico eseguito dai convenuti. Orbene, per procedere alla liquidazione del danno non patrimoniale subito dalla sig. To., nel caso di specie, si può ancora fare applicazione delle tabelle elaborate da questo Tribunale comunemente adottate per la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. del danno non patrimoniale derivante da lesione dell'integrità psico/fisica - criterio di liquidazione condiviso dalla Suprema Corte (Cass. 7/6/2011 n. 12408 e Cass. 22/12/2011 n. 28290). Con riferimento alle voci di danno contenute nelle predette Tabelle, la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo il quale la voce di danno morale mantiene la sua autonomia e non è conglobabile nel danno biologico, trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, e perciò meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per gli aspetti dinamici compromessi (in tal senso, Cass. n. 901/2018, Cass. n. 7513/2018, Cass. n. 28989/2019). Nella sentenza del 10.11.2020 n. 25164, la Corte di Cassazione, in primo luogo, ha chiarito che nell'art. 138 n. 3 del nuovo C.d.A. trova definitiva conferma normativa, come già da tempo affermato da questa Corte, il principio della autonomia del danno morale rispetto al danno biologico, atteso che il sintagma "danno morale" 1) non è suscettibile di accertamento medicolegale; 2) si sostanzia nella rappresentazione di uno stato d'animo di sofferenza interiore, che prescinde del tutto (pur potendole influenzare) dalle vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato". Tanto premesso, la Suprema Corte prosegue affermando che: "nel procedere alla liquidazione del danno alla salute, il giudice di merito dovrà: 1) accertare l'esistenza, nel singolo caso di specie, di un eventuale concorso del danno dinamico-relazionale e del danno morale; 2) in caso di positivo accertamento dell'esistenza (anche) di quest'ultimo, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano, che prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno, ma pervengono (non correttamente, per quanto si dirà nel successivo punto 3) all'indicazione di un valore monetario complessivo (costituito dalla somma aritmetica di entrambe le voci di danno); 3) in caso di negativo accertamento, e di conseguente esclusione della componente morale del danno (accertamento da condurre caso per caso, secondo quanto si dirà nel corso dell'esame del quarto motivo di ricorso), considerare la sola voce del danno biologico, depurata dall'aumento tabellarmente previsto per il danno morale secondo le percentuali ivi indicate, liquidando, conseguentemente il solo danno dinamico-relazionale, 4) in caso di positivo accertamento dei presupposti per la cd. personalizzazione del danno, procedere all'aumento fino al 30% del valore del solo danno biologico, depurato, analogamente a quanto indicato al precedente punto 3, dalla componente morale del danno automaticamente (ma erroneamente) inserita in tabella, giusta il disposto normativo di cui al già ricordato art. 138, punto 3, del novellato codice delle assicurazioni". Orbene, nel caso in esame, alla luce dell'entità delle lesioni, della natura delle stesse e delle specifiche allegazioni di parte attrice, è possibile valutare, con i criteri di cui alle richiamate tabelle, sia l'aspetto interiore del danno sofferto quanto quello dinamico-relazione. Con riferimento al danno da sofferenza, le valutazioni dei CTU non possono essere in alcun modo condivise. Nella relazione di CTU gli ausiliari del Giudice affermano che: "Quanto alle sofferenze patite dalla Sig.a To. si deve tenere a mente che la stessa prima di iniziare l'iter di cambio di sesso andro ginoide era portatrice di una disforia di genere ovvero da una incongruenza tra genere esperito e dato biologico, condizione di per sé di indubbio profondo disagio e sofferenza. La Sig.a To. attualmente riferisce in particolare impossibilità al coito per via vaginale, che rappresenta indubbiamente anch'esso motivo di sofferenza, ma che, fortunatamente, non ha impedito alla Sig. a To. di contrarre matrimonio, come dalla stessa riferito (cfr verbale IOP). Per poter valutare il grado di sofferenza patito dalla Sig.a To. a seguito dei profili di malpractice medica già segnalati nella relazione di ATP, si devono fare, innanzi tutto, alcune considerazioni: la Sig. a To. era portatrice di disforia di genere con disagio e sofferenza che la hanno spinta ad intraprendere il percorso di cambio di genere andro ginoide; la attuale impossibilita al coito per via vaginale della Sig. a To. è dovuto a plurime cause, non tutte ascrivibili a responsabilità sanitaria (non sufficiente uso di dilatatori, abnorme cicatrizzazione della stessa); in assenza delle cause non riferibili a responsabilità professionale sanitaria, in termini di maggior probabilità che non, la Sig.a To. oggi avrebbe difficoltà al coito per via vaginale non impossibilità; la Sig.a To. ha oggi un'età (54-55 anni) corrispondente a quella in cui la pressoché totalità delle donne è in menopausa, fase di calo del desiderio sessuale, riduzione della attività sessuale e di involuzione degli organo sessuali con conseguenti difficoltà al coito (atrofia delle mucose dei genitali, riduzione della lubrificazione)". Parte attrice ha specificamente allegato una condizione di sofferenza, frustrazione, delusione e rabbia per gli esiti di un intervento chirurgico, posto all'esito di un complicato percorso di mutamento di genere. Tale condizione di sofferenza può essere presunta in ragione dei seguenti elementi: contrariamente rispetto a quanto evidenziato dai CTU, il grado di sofferenza e frustrazione deve ritenersi più acuito in ragione del fatto che si pone al termine di un percorso di transizione che ha, emotivamente, psicologicamente e fisicamente, impegnato l'attrice (e nel quale la stessa aveva presumibilmente riposto le speranze di un completo adeguamento degli organi genitali alla nuova identità femminile); il senso di vergogna relativo all'insoddisfacente risultato estetico rispetto ad un organo che concorre all'espressione della nuova dimensione sessuale cui voleva giungere l'attrice; gli inevitabili riflessi anche sulla vita sessuale dell'attrice (complicati anche dalle inevitabili conseguenze che un difficile percorso di transizione reca inevitabilmente con sé). Sulla base dei predetti elementi, può ritenersi adeguatamente provata l'esistenza di un danno da sofferenza, che giustifica l'applicazione delle c.d. Tabelle di Milano. Pertanto, tenuto conto dell'età della danneggiato al momento dell'intervento (47 anni), della percentuale di invalidità permanente conseguente alla lesione (20%), si perviene ad una liquidazione del danno biologico permanente di Euro 67.715,00. Ad avviso di questo giudice, gli elementi sopra considerati - relativi al grado di sofferenza subito dall'attrice (le cui aspettative e speranze sono state frustrate, con riferimento ad uno degli elementi più qualificanti della nuova identità di genere dalla stessa conquistata attraverso un lungo e travagliato percorso) - giustificano una quantificazione del danno da sofferenza che si discosti da quella contenuta nelle Tabelle sopra indicate. In via equitativa, pertanto, tenendo conto della maggiore incidenza del danno da sofferenza, può giungersi ad una quantificazione di Euro 75.000,00. Con riferimento all'invocata personalizzazione, si osserva che la Suprema Corte (nella sentenza 11.11.2019 n. 28988) ha definitivamente chiarito che: "Le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti "dinamico-relazionali", che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale. Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico. Ma ciò, non perché abbiano inciso, sic et simpliciter, su "aspetti dinamico relazionali": non rileva, infatti, quale aspetto della vita della vittima sia stato compromesso, ai fini della personalizzazione del risarcimento; rileva, invece, che quella conseguenza sia straordinaria e non ordinaria, perché solo in tal caso essa non sarà ricompresa nel pregiudizio espresso dal grado percentuale di invalidità permanente, consentendo al giudice di procedere alla relativa personalizzazione in sede di liquidazione (così già, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 21939 del 21/09/2017; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014)". Il Giudice, procedendo ad una valutazione nella sua effettiva consistenza dei danni subiti dalla sig. To. (così da tendere ad un risarcimento del danno nella misura più prossima alla sua integralità, puramente tendenziale atteso che trattasi di danno alla persona) ritiene presuntivamente che, nel caso di specie, la voce del danno non patrimoniale - nella sola componente di danno biologico, non sia adeguatamente risarcita con la sola applicazione dei predetti valori monetari. La danneggiata, infatti, ha riportato lesioni di media gravità (relative, però, ad organi che maggiormente qualificano la nuova identità di genere assunta) ed ha dovuto affrontare una nuova vita sessuale resa più difficoltosa (anche) a causa dell'errata condotta dei convenuti proprio in un momento in cui, all'esito del percorso di transizione, invece, avrebbe potuto affrontarla con una serenità (e senza il dolore provato a causa dell'errata esecuzione della vaginoplastica). Tutti questi elementi portano il Tribunale a ritenere che la fattispecie in esame si differenzi dai casi consimili di invalidità dello stesso grado. Pertanto si reputa opportuno procedere ad una adeguata personalizzazione; della sola componente del danno dinamico relazione, che consenta di congruamente risarcire la voce di danno non patrimoniale liquidandolo nella complessiva somma di Euro 90.000,00. Con riferimento ai danni patrimoniali, si osserva quanto segue. Dalla relazione di CTU risulta come solo la somma di Euro 398,62 possa essere ricondotta agli accertamenti ed alle terapie rese necessarie dal danno all'arto superiore destro (mentre le altre spese indicate dall'attrice siano relative all'iter terapeutico per il cambio di genere). Parte attrice ha chiesto, inoltre, il risarcimento dei danni patrimoniali subiti per le spese relative all'intervento effettuato negli Stati Uniti, alle spese di trasferta e alle spese accessorie al predetto intervento (quali le spese per l'interprete di lingua che ha dovuto nominare). In merito alle predette voci di danno, ritiene il Tribunale che la domanda possa trovare accoglimento solo con riferimento alle spese dell'intervento chirurgico (pari ad Euro 3.071,32) ed alle spese di degenza in clinica (pari ad Euro 1.437,03), atteso che, come chiarito dagli ausiliari del giudice nella relazione di CTU svolta nel procedimento di ATP, si tratta di intervento eseguito per porre rimedio agli errori commessi nel corso dell'intervento per cui è causa. La risarcibilità di tale danno, contrariamente rispetto a quanto dedotto dalla difesa della (...) nella comparsa conclusionale, non può essere negata in ragione del fatto che l'intervento in esame non ha portato ai risultati sperati. Non possono essere accolte, invece, le domande volte ad ottenere il rimborso di tutte le spese accessorie al predetto intervento (quali spese di viaggio, pernottamento, spese dell'interprete) atteso che non vi è prova che il predetto intervento sarebbe potuto essere eseguito solo a San Francisco. Del pari infondata la domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno da lucro cessante, atteso che l'attrice non ha fornito la prova della diminuzione patrimoniale invocata (limitandosi a proporre solo un criterio equitativo di risarcimento). In conclusione, a titolo di danno patrimoniale, spetta all'attrice la somma di Euro 4.907,00. Il credito risarcitorio di parte attrice ammonta, pertanto, ad Euro 94.907,00. Inoltre, l'attrice che venga riconosciuta la rivalutazione monetaria e gli interessi al tasso legale sul danno liquidato, con decorrenza dall'evento al saldo. Sulle somme sopra indicate vanno aggiunti gli interessi legali da oggi - data della liquidazione - al saldo. Va in proposito richiamato l'insegnamento della Suprema Corte che ha precisato come: "In materia di inadempimento contrattuale, l'obbligazione di risarcimento del danno configura un debito di valore, sicché, qualora si provveda all'integrale rivalutazione del credito relativo al maggior danno fino alla data della liquidazione, secondo gli indici di deprezzamento della moneta, gli interessi legali sulla somma rivalutata dovranno essere calcolati dalla data della liquidazione, poiché altrimenti si produrrebbe l'effetto di far conseguire al creditore più di quanto lo stesso avrebbe ottenuto in caso di tempestivo adempimento della obbligazione" (Cass. 6545/16). D'altra parte l'attrice non ha specificamente allegato di aver subito un maggior danno derivante dal teorico reimpiego della somma a lei spettante a titolo di risarcimento. "Tale pregiudizio, tuttavia, non è in re ipsa, ma deve essere allegato e provato da chi lo invoca: vuoi dimostrando quale fosse la propria propensione al risparmio; vuoi dimostrando quale fosse il rendimento delle operazioni finanziarie in cui avrebbe verosimilmente investito il capitale dovutogli, in caso di tempestivo adempimento da parte del debitore; vuoi dimostrando quali maggiori oneri od interessi passivi avrebbe evitato di pagare se, disponendo tempestivamente della somma dovutagli, avesse potuto evitare di ricorrere al mercato del credito" (Cass. n. 3173/16). 5. Consenso informato Parte attrice ha lamentato, altresì, la violazione del diritto ad essere informata in merito alle possibili complicanze ed ai rischi specifici anche legati all'esecuzione di entrambi gli interventi insieme, deducendo che, ove correttamente informata avrebbe potuto scegliere di eseguire l'intervento all'estero e di sottoporsi ai due interventi in due momenti separati. Viene, così, implicitamente allegato sia un danno alla salute che un danno all'autodeterminazione. Le domande di parte attrice non possono trovare accoglimento. In via generale si osserva che, come definitivamente chiarito dalla Suprema Corte (nella sentenza dell'11.n.2019 n. 28985), "la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente - sul quale grava il relativo onere probatorio - se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all'intervento (onde non subirne le conseguenze invalidanti); b) un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute (ex multis Cass. 2854/2015; 24220/2015; Cass. 24074/2017; Cass. 16503/2017; Cass. 7248/2018)". Nella richiamata pronuncia, la Corte di Cassazione ha precisato che: "possono, pertanto, prospettarsi le seguenti situazioni conseguenti ad una omesso od insufficiente informazione: A) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi, nelle medesime condizioni, "hic et nunc": in tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale; B) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente; C) omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute - da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l'intervento non sarebbe stato eseguito - andrà valutata in relazione alla eventuale situazione "differenziale" tra il maggiore danno biologico conseguente all'intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto; D) omessa informazione in relazione ad un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi: in tal caso, nessun risarcimento sarà dovuto; E) Omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, ma che gli ha tuttavia impedito di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti (come nel caso del tri-test eseguito su di una partoriente, senza alcuna indicazione circa la sua scarsa attendibilità e senza alcuna, ulteriore indicazione circa l'esistenza di test assai più attendibili, quali l'amniocentesi, la villocentesi, la translucenza nucale): in tal caso, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, alla autodeterminazione sarà risarcibile (giusta il già richiamato insegnamento del giudice delle leggi) qualora il paziente alleghi che, dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione, gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente - salva possibilità di provata contestazione della controparte". Con una recente pronuncia (Cass. 26.8.2020 n. 17806), la Suprema Corte ha ribadito che: "Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito "secundum legem artis", ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione - perfezionatosi con la condotta omissiva violativo dell'obbligo informativo preventivo - e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale. Il paziente che alleghi l'altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che: a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicché la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. "vicinanza della prova"; c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell'intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all'"id quod plerumque accidit". In merito alla questione relativa alle modalità attraverso le quali il consenso è prestato, la Suprema Corte ha sottolineato come la struttura e il medico vengano in effetti meno all'obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato al paziente non solo quando omettono del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando acquisiscano con modalità improprie il consenso dal paziente (v. Cass. 21/4/2016, n. 8035). La Corte di Cassazione, ad esempio, ha ritenuto inidoneo un consenso ottenuto mediante la sottoposizione alla sottoscrizione del paziente di un modulo del tutto generico (v., da ultimo, Cass. 19/9/2019, n. 23328; Cass. 4/2/2016, n. 2177), non essendo a tale stregua possibile desumere con certezza che il medesimo abbia ricevuto le informazioni del caso in modo esaustivo (v. Cass. 8/10/2008, n. 24791) ovvero oralmente. Orbene, nel caso in esame sono stati prodotti due moduli di consenso. Nel primo modulo sono contenute informazioni generiche, del tutto inidonee a consentire al paziente di comprendere i rischi legati all'intervento da eseguire. Nel secondo modulo sono riportate, invece, in modo specifico le possibili complicanze relative - per quel che rileva in questa sede - al lembo invaginato e all'ostio vaginale. Anche se tali complicanze sono definite nel modulo come "rare" tale precisazione non appare dirimente ai fini della completezza delle informazioni fornite alla paziente. Il predetto modulo, peraltro, è stato sottoscritto il 27.3.2012 e il 18.5.2012, in tal modo risultando evidente come la sig. To. Abbia potuto riflettere sui possibili rischi connessi all'intervento nel periodo di tempo da fine marzo a metà maggio. Risulta, pertanto, assolto l'obbligo di informazione gravante sui convenuti. Tanto premesso, osserva il Tribunale come nel caso in esame l'attrice non abbia neanche allegato che, ove correttamente informata, non si sarebbe sottoposta agli interventi, limitandosi a precisare che li avrebbe probabilmente eseguiti in una struttura all'estero e avrebbe scelto di eseguire non simultaneamente (elemento questo che appare del tutto irrilevante, in quanto i CTU hanno evidenziato come l'esecuzione dei due interventi nello stesso giorno non solo non abbia arrecato alcun pregiudizio, ma abbia, al contrario, ridotto il rischio anestesiologico). Alcun danno può, pertanto, essere riconosciuto in merito né in merito alla dedotta lesione del diritto all'autodeterminazione né in merito al diritto alla salute. 6. Domanda di rivalsa Occorre premettere alcune considerazioni introduttive in merito alla qualificazione della domanda svolta dalla (...) nei confronti di Ro.Sa. e degli altri eredi del prof. Au. ed alla questione dell'oggetto e della natura della responsabilità della struttura sanitaria convenuta. L'accettazione del paziente nella struttura deputata a fornire assistenza sanitaria e ospedaliera comporta la conclusione di un contratto atipico "di spedalità". L'obbligazione scaturente dal contratto, genericamente detta di assistenza sanitaria, ha un contenuto complesso, perché comprende sia la prestazione medica o chirurgica principale sia una serie di obblighi cd. accessori, consistenti nella messa a disposizione del personale medico, ausiliario e infermieristico, dei medicinali e delle attrezzature tecniche necessarie e nelle prestazioni lato sensu alberghiere comprendenti il ricovero e la fornitura di alloggio, vitto e assistenza al paziente fino alla sua dimissione (da ultimo Cass. 19541/2015). La struttura medica risponde, quindi, a titolo contrattuale per la mancata o inesatta esecuzione di ciascuna delle prestazioni ricomprese nell'obbligazione assunta, ivi inclusa la prestazione medica principale. Più recentemente, la Suprema Corte (nella sentenza n. 28987 dell'11.n.2019) ha precisato che "il medico opera pur sempre nel contesto dei servizi resi dalla struttura presso cui svolge l'attività, che sia stabile o saltuaria, per cui la sua condotta negligente non può essere agevolmente "isolata" dal più ampio complesso delle scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei propri servizi operate dalla struttura, di cui il medico stesso è parte integrante, mentre il già citato art. 1228 c.c., fonda, a sua volta, l'imputazione al debitore degli illeciti commessi dai suoi ausiliari sulla libertà del titolare dell'obbligazione di decidere come provvedere all'adempimento, accettando il rischio connesso alle modalità prescelte, secondo la struttura di responsabilità da rischio d'impresa ("cuius commoda eius et incommoda") ovvero, descrittivamente, secondo la responsabilità organizzativa nell'esecuzione di prestazioni complesse; ne consegue che, se la struttura si avvale della "collaborazione" dei sanitari persone fisiche (utilità) si trova del pari a dover rispondere dei pregiudizi da costoro eventualmente cagionati (danno): la responsabilità di chi si avvale dell'esplicazione dell'attività del terzo per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale trova radice non già in una colpa "in eligendo" degli ausiliari o "in vigilando" circa il loro operato, bensì nel rischio connaturato all'utilizzazione dei terzi nell'adempimento dell'obbligazione (Cass. 27/03/2015, n. 6243), realizzandosi, e non potendo obliterarsi, l'avvalimento dell'attività altrui per l'adempimento della propria obbligazione, comportante l'assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino (cfr. Cass. 06/06/ 2014, n. 12833)". Tanto premesso, occorre esaminare la fondatezza dell'azione di regresso svolta dall'(...). In via generale, non pare inutile ricordare che, nell'adempimento del contratto di spedalità, vi è un solo debitore (la struttura sanitaria) - nel caso in cui il paziente non abbia stipulato un contratto anche con il professionista - ed una condotta che si inserisce nel programma esecutivo del rapporto obbligatorio. Il debitore (la struttura sanitaria) adempie, pertanto (art. 7 comma 1 legge 24/2017: ... "nell'adempimento della propria obbligazione..."), con uno strumento che non è materiale, ma è rappresentato dalle prestazioni svolte dall'ausiliario (l'esercente la professione sanitaria). Il paziente danneggiato, dunque, è creditore del soggetto tenuto all'adempimento (la struttura sanitaria), le cui obbligazioni sono state eseguite in modo inesatto dall'ausiliario (cui il predetto adempimento era demandato). Di conseguenza, la mancata realizzazione dell'interesse del creditore (il paziente) - contrariamente a quanto argomentata dalla difesa della (...) - è direttamente imputabile, per fatto proprio, a chi ha assunto l'obbligazione e, dunque, alla struttura sanitaria. Con riferimento ai rapporti interni tra debitore, responsabile ex art. 1228 c.c., ed ausiliario, incaricato di adempiere l'obbligazione assunta dal primo, l'azione di regresso deve tenere conto del contributo personale all'illecito dell'ausiliario e della riconduzione del danno all'inadempimento di un'obbligazione che resta, comunque, nella titolarità del debitore. Nella sentenza appena citata (Cass. 28987/2019) la Corte di Cassazione, con riferimento alle caratteristiche ed ai limiti dell'azione in esame, ha precisato: "dovendo escludersi l'ipotesi che il giudizio di rivalsa integri gli estremi di un'ordinaria azione da inadempimento del contratto che lega la struttura sanitaria al medico, posto che, come ricostruito, tale profilo contrattuale non risulta assorbente rispetto alle implicazioni della responsabilità medica verso terzi, i criteri generali della relativa quantificazione non possono che essere ricondotti, sia pure in modo complessivamente analogico, al portato degli artt. 1298 e 2055 c.c., a mente dei quali il condebitore in solido che adempia all'intera obbligazione vanta il diritto di rivalersi, con lo strumento del regresso, sugli altri corresponsabili, secondo la misura della rispettiva responsabilità In presenza di un unico evento dannoso astrattamente imputabile a più soggetti, sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, per ritenere tutti i soggetti tenuti ad adempiere all'obbligo risarcitorio è sufficiente, per costante giurisprudenza di questa Corte, in base ai principi sul concorso di concause nella produzione dell'evento, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno (da ultimo, Cass. 6 dicembre 2017, n. 29218); al riguardo va ulteriormente premesso che, secondo il costante orientamento di questa Corte in tema di responsabilità solidale dei danneggianti, l'art. 2055 c.c., comma 1, richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorchè le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone e anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, atteso che l'unicità del fatto dannoso considerata dalla norma dev'essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come - ovvero si astrae dalla - identità delle norme giuridiche da essi violate (Cass. 1701/2019, n. 1070, Cass. 16/12/2005, n. 27713)". Premesse tali considerazioni in ordine alle caratteristiche della responsabilità solidale, la Suprema Corte ribadisce che la misura del regresso varia a seconda della gravità della rispettiva colpa e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate e che l'art. 1298 c.c. detta regola secondo la quale l'obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori in parti che si presumono eguali, "se non risulti diversamente". In conclusione, la Corte di Cassazione - prendendo in esame l'ipotesi limite, quella nella quale vi sia prova della colpa esclusiva del medico (colpa esclusiva che spetta alla struttura provare) - afferma che, anche in questo caso, e dunque "in tema di danni da "malpractice" medica nel regime anteriore alla L. n. 24 del 2017, nell'ipotesi di colpa esclusiva del medico la responsabilità dev'essere paritariamente ripartita tra struttura e sanitario, nei conseguenti rapporti tra gli stessi, eccetto che negli eccezionali casi d'inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza dal programma condiviso di tutela della salute cui la struttura risulti essersi obbligata". Viene, pertanto, definitivamente esclusa la possibilità che la struttura, nel caso di colpa esclusiva del sanitario - ad eccezione del caso in cui si "manifesti un evidente iato tra (grave e straordinaria) "malpractice" e fisiologica attività economica di impres" - eserciti un diritto di rivalsa integrale nei confronti del medico. Le predette considerazioni - relative alle caratteristiche dell'azione di regresso tra condebitori solidali nell'ipotesi dell'adempimento di un'obbligazione che nasce dal contratto di spedalità - devono essere ribadite a prescindere dalla natura del rapporto di lavoro e di collaborazione tra debitore (struttura sanitaria) ed ausiliario (medico). L'esecuzione (imperita) del professionista che operi nell'ambito di una struttura sanitaria - sia come lavoratore dipendente, sia come collaboratore non dipendente - integra comunque un inadempimento dell'impegno assunto dal debitore. Orbene, alla luce delle risultanze della CTU, atteso che la (...) non ha allegato (e provato) che si versi in ipotesi di colpa "non solo grave, ma anche straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile" (cfr. punti 5 lettera c) e 16 della sentenza n. 28987/2019), deve farsi applicazione del principio presuntivo di cui agli artt. 1298, secondo comma c.c. e 2055, terzo comma, c.c.. La domanda di regresso non può, pertanto, essere accolta in misura superiore al 50% del danno che la (...) sarà tenuta a risarcire a parte attrice. Alla luce delle considerazioni appena svolte, pertanto, Ro.Sa., Au.Be., Au.Gi., Au.Cl., Au.Is. e Au.Gi. devono essere condannati - in misura corrispondente alle rispettive quote ereditarie - a tenere indenne, in via di regresso, nei limiti del 50%, la (...) di quanto lo stesso andrà a pagare a parte attrice per capitale, interessi e spese in dipendenza della presente sentenza. 7. Garanzie assicurative La domanda spiegata dalla (...) nei confronti di Am. è fondata e deve essere accolta nei limiti che seguono. In primo luogo si osserva che gli interventi eseguiti sulla persona della sig. To. non possono essere in alcun modo qualificati come interventi di chirurgia estetica. La limitazione della garanzia, pertanto, non può dirsi operante. Am., pertanto, deve essere condannata a manlevare la (...) di quanto questi pagherà in conseguenza della presente sentenza e a rifonderla delle spese processuali a suo carico. Ro.Sa. e gli altri eredi Au. hanno domandato di essere manlevati e mantenuti indenni dalla pretese attoree da As.Mi. S.p.A. presso la quale il loro dante causa era, al tempo dell'intervento, assicurato per la responsabilità civile come da polizza n. (...) (contratto stipulato il 30.6.2010). As.Mi. ha chiesto il rigetto della domanda di garanzia, eccependo l'inoperatività della copertura assicurativa. In primo luogo la terza chiamata ha dedotto: che l'efficacia della polizza stipulata dal Dott. Au., ai sensi dell'art. 15 del contratto, era venuta meno in data 30.6.2013, ossia alla prima scadenza annuale del contratto successiva alla morte dell'assicurato, avvenuta il 20.9.2012; che la prima richiesta risarcitoria è stata inviata ad As.Mi. da Ro.Sa. il 5.2.2014. Premessi tali elementi, ha eccepito l'inoperatività della garanzia in forza del disposto dell'art. 17 delle condizioni contrattuali, ai sensi del quale l'assicurazione vale per le richieste di risarcimento pervenute alla Società dall'assicurato per la prima volta durante il periodo di validità del contratto, qualunque sia l'epoca in cui è stato commesso il fatto che ha dato origine alla richiesta di risarcimento. Ha, inoltre, evidenziato come nel caso in esame l'assicurato non avesse optato per la stipula di una garanzia postuma (ai sensi dell'art. 17 bis) e come, ai sensi dell'art. 18 (ad eccezione delle sole ipotesi di cui albati 17 bis), restassero espressamente escluse le risarcimento pervenute alla Società successivamente alla cessazione del contratto per qualsiasi motivo, anche se il comportamento colposo è stato posto in essere durante il periodo di durata della polizza. Con riferimento alla clausola claims made, si osserva quanto segue. Come affermato dalle Sezioni Unite (Cass. SS.UU. 9140/2016 e 22437/2018), va innanzitutto premesso, in termini generali, che, nel corpo del tipo "assicurazione contro i danni" (artt. 1882 e 1904 e 1918 c.c.), si inquadra il sottotipo "assicurazione della responsabilità civile", caratterizzato dalla circostanza che il sinistro, delle cui conseguenze patrimoniali l'assicurato intende traslare il rischio sul garante, è collegato non solo alla condotta dell'assicurato danneggiante ma anche alla richiesta, avanzata dal danneggiato, di risarcimento per detta condotta; ove, infatti, al comportamento lesivo non faccia seguito alcuna domanda di ristoro, non sorge ovviamente nessun diritto di indennizzo e, specularmente, nessun obbligo di manleva; siffatto sottotipo, delineato dall'art. 1917 c.c., è improntato al sistema "loss occurrence" o "act committed" (e cioè della "insorgenza del danno"), ove la copertura opera, come evidente dal tenore letterale del menzionato art. 1917 c.c., comma 1, in relazione a tutte le condotte generatrici di domande risarcitone insorte nel periodo di durata del contratto, indipendentemente dalla data della richiesta risarcitoria; siffatto modello codicistico, tuttavia, non essendo l'art. 1917 c.c., comma 1, menzionato dall'art. 1932 c.c., tra le norme inderogabili, non è intangibile, sicché è consentito alle parti, nell'esercizio della loro facoltà di determinare il contenuto del contratto (art. 1322 c.c., comma 1), modulare l'obbligo del garante di tenere indenne il garantito; nell'ambito di detta determinazione del contenuto contrattuale va inquadrato il contratto di assicurazione per responsabilità civile con clausola "claims made" (e, cioè, "a richiesta fatta"), che si caratterizza per il fatto che la copertura assicurativa è condizionata alla circostanza che il sinistro venga denunciato (dal danneggiato all'assicurato e da questi all'assicurazione) nel periodo di vigenza della polizza (o anche in un delimitato arco temporale successivo, ove sia pattuita la c.d. "sunset clause"); detta clausola "claims made", a sua volta, può essere "pura", se la copertura assicurativa è condizionata solo alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito; oppure "impura" (o "mista"), se la copertura assicurativa è condizionata alla circostanza che sia la denuncia sia il fatto illecito intervengano nel periodo di efficacia del contratto (con retrodatazione, in alcuni casi, alle condotte poste in essere anteriormente; in genere due o tre anni dalla stipula del contratto). Ciò precisato in termini generali, va poi evidenziato, in particolare, che, per quanto concerne la vessatorietà, nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l'operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto, o comunque entro determinati periodi di tempo preventivamente individuati (e, cioè, la clausola "claims made" mista o impura), non è vessatoria, in quanto non può essere qualificata come limitativa della responsabilità, per gli effetti dell'art. 1341 c.c. (Cass. S.U. 9140/2016). In ordine, poi, alla meritevolezza, la Suprema Corte (Cass. 8817/2020) ha di recente ribadito che: "va ribadito che il modello dell'assicurazione della responsabilità civile con clausole "on claims made basis", caratterizzato dal predetto meccanismo di operatività della polizza legato alla richiesta risarcitoria del terzo danneggiato comunicata all'assicuratore, non incide sulla funzione assicurativa (e, quindi, sulla causa in astratto del contratto), in quanto il contratto assicurativo è pur sempre volto ad indennizzare il rischio dell'impoverimento del patrimonio dell'assicurato; siffatto modello, già ampiamente diffuso nell'ambito del mercato assicurativo (anche internazionale), ha trovato, peraltro, di recente, espresso riconoscimento legislativo (con particolare riferimento alla L. n. 24 del 2017, art. 11 e D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, convertito con modificazioni in L. n. 148 del 2011, come novellato dalla L. n. 124 del 2017, art. 1, comma 26), ed è divenuto, pertanto, legalmente tipico; dette disposizioni, infatti, nell'imporre l'obbligatorietà (per le strutture sanitarie) dell'assicurazione per la responsabilità civile, prevedono, al "fatto accaduto durante il tempo dell'assicurazione", di cui dell'art. 1917 c.c., comma 1. Da siffatta collocazione del modello "claims made "nell'area della tipicità legale, consegue che, rispetto al singolo contratto di assicurazione, non si impone un test di meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, ai sensi dell'art. 1322 c.c., comma 2 (che presuppone l'aticipità), e la tutela invocabile dal contraente assicurato agisce invece sul solo piano della libera determinazione del contenuto contrattuale e della "causa concreta" del contratto (e, cioè dello scopo pratico del negozio, quale sintesi degli interessi che lo stesso negozio è concretamente diretto a realizzare), e concerne il rispetto, in detta determinazione, dei "limiti imposti dalla legge", ai sensi dell'art. 1322 c.c., comma 1; siffatto test, necessario per ogni intervento conformativo sul contratto inerente al tipo (in ragione del suo farsi concreto regolamento dell'assetto di interessi perseguiti dai contraenti), può investire, in termini di effettività, diversi piani, dalla fase che precede la conclusione del contratto (v. obblighi informativi sul contenuto del contratto) sino a quella dell'attuazione del rapporto (v. facoltà di recesso, da parte dell'assicuratore, al verificarsi del sinistro compreso nei rischi assicurati), con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili implicati; a tal fine va dato massimo rilievo all'equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni, occorrendo accertare se vi sia stato un "arbitrario squilibrio giuridico" tra rischio assicurato e premio (Cass. 22437/2018) ". Tanto premesso in via generale, l'elemento rappresentato dall'arbitrario squilibrio giuridico deve essere esaminato nel caso di specie. In primo luogo osserva il Tribunale come l'estensione della garanzia a tutti i sinistri verificatesi in epoca anteriore alla data del sinistro, senza alcuna limitazione temporale (alla sola condizione che, nel periodo di validità, l'assicurato denunci il sinistro) rappresenta un elemento che milita per l'insussistenza del predetto squilibrio. In secondo luogo, si rileva come nel caso di specie, per scelta dell'assicurato, nella garanzia assicurativa non rientri la garanzia postuma di cui all'art. 17 bis - che estende la validità della copertura anche a richieste pervenute alla Compagnia successivamente alla scadenza del contratto e in particolare "a favore degli Eredi per il caso di morte del Professionista in pendenza del contratto di assicurazione senza alcun onere o costo aggiuntivo, escluso il caso di suicidio o eutanasia" (doc. 2 di As.Mi., p. 5, art. 17bis, lettera "c"). I predetti elementi devono essere valutati alla luce delle specifiche circostanze del caso concreto nel quale l'imprevista ed improvvisa scomparsa dell'assicurato rappresenta un elemento di cui non può non tenersi conto. Ad avviso della Corte d'Appello di Milano - proprio nella causa promossa tra gli eredi del dott. Au. ed As.Mi. (cfr. sentenza n. 1661/2020) - la posizione di svantaggio incolpevole in cui si sono venuti a trovare gli eredi del professionista defunto per non aver comunicato una circostanza di rischio dagli stessi non acquisibile (atteso che gli stessi nulla sapevano dell'evento e dei profili risarcitoli connessi) avrebbe provocato una condizione di evidente squilibrio contrattuale in favore dell'assicurazione (senza alcuna contropartita per l'assicurato ed i suoi eredi). Ad avviso di questo giudice, l'elemento costituito dall'improvvisa scomparsa dell'assicurato (e le conseguenze in ordine allo squilibrio contrattuale) deve essere, però, esaminato alla luce dello specifico contratto concluso dal professionista. Quest'ultimo, infatti, pur avendo la possibilità di optare per una garanzia postuma (a fronte, ovviamente, di un premio che sarebbe stato ben più elevato), ha scelto di non estendere la garanzia agli eventi verificatesi dopo la sua morte. In assenza di una garanzia postuma non può ritenersi che la sola improvvisa scomparsa del professionista - alla luce degli elementi relativi alla previsione di una copertura assicurativa a retroattività illimitata e ad un premio alquanto contenuto, pari ad Euro 4.238,01 a fronte di un massimale di Euro 1.500.000,00 - sia tale da determinare un significativo squilibrio contrattuale, tale da provocare la nullità della clausola. Né a diverse conclusioni può giungersi in forza delle motivazioni della Suprema Corte nella sentenza 8894/2020 - nella quale i giudici di legittimità hanno si sono pronunciati su un contratto assicurativo nel quale era inserita una clausola claims made in forza della quale, nel termine di 12 mesi successivo alla scadenza del contratto, l'assicurato avrebbe dovuto esercitare il diritto, pur potendosi però trovare nella situazione di non essere ancora a conoscenza di alcuna richiesta risarcitoria da parte del danneggiato (così, di fatto, introducendosi una decadenza che rende particolarmente difficile l'esercizio di un diritto)-diritto) - atteso che, nel caso in esame, l'assicurato aveva optato per escludere una garanzia postuma. La valutazione dell'equilibrio contrattuale nel caso in esame, pertanto, prescinde dalle valutazioni compiute dalla Suprema Corte relative alla possibile violazione degli artt. 1341 e 2965 c.c.. Alla luce di tali considerazioni, in accoglimento dell'eccezione spiegata da As.Mi., rilevato che la richiesta di risarcimento è pervenuta alla terza chiamata dopo la cessazione del rapporto assicurativo (cessazione intervenuta il 30.6.2013), si impone una pronuncia di rigetto delle domande formulate dagli eredi Au. nei confronti di As.Mi.. 8. Le spese di lite Le spese di lite (comprensive delle spese relative alle consulenze tecniche di parte, pari ad Euro 10.000,00 e delle spese di mediazione, pari ad Euro 61,00) relative al procedimento per accertamento tecnico preventivo e al presente procedimento seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, con distrazione in favore del difensore, avv. Alessandro Gracis, che si dichiara antistatario. Le spese di lite nei rapporti tra li eredi Au. e As.Mi., in ragione dell'esistenza di non univoci orientamenti giurisprudenziali sulle clausola claims made, possono essere integralmente compensate. Le spese di CTU, già liquidate con separati provvedimenti, devono essere poste definitivamente a carico dei convenuti, in solido. P.Q.M. Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda, istanza od eccezione disattesa, così provvede: 1) Accoglie le domande di parte attrice e, per l'effetto, condanna l'Azienda Sanitaria (...) e Ro.Sa., Au.Be., Au.Gi., Au.Cl., Au.Is. e Au.Gi. (questi ultimi in misura corrispondente alle rispettive quote ereditarie) al pagamento, in favore di Va.To. al pagamento della somma di Euro 94.907,00, oltre gli interessi legali dalla data della presente pronuncia sino al soddisfo; 2) In parziale accoglimento dell'azione di regresso, condanna Ro.Sa., Au.Be., Au.Gi., Au.Cl., Au.Is. e Au.Gi. - in misura corrispondente alle rispettive quote ereditarie - a tenere indenne, in via di regresso, nei limiti del 50%, la l'Azienda Sanitaria (...) di quanto la stesso andrà a pagare a parte attrice per capitale, interessi e spese in dipendenza della presente sentenza; 3) Condanna Am. a manlevare l'Azienda Sanitaria (...), con i limiti di franchigia contrattualmente previsti, di quanto pagherà in conseguenza della presente sentenza; 4) Rigetta le domande spiegate dagli eredi del dott. Au. nei confronti As.Mi. S.p.A.; 5) Condanna l'Azienda Sanitaria Locale (...), Au.Be., Au.Gi., Au.Cl., Au.Is. e Au.Gi. (questi ultimi in misura corrispondente alle rispettive quote ereditarie), al pagamento, in favore dell'attrice delle spese di lite (del procedimento per accertamento tecnico preventivo e del presente procedimento), liquidate in Euro 19.895,00, oltre Euro 10.000,00 per spese di consulenza tecnica di parte ed Euro 61,00 per spese di mediazione, oltre il 15% di spese generali, i.v.a. e c.p.a. come per legge - da distrarsi in favore del difensore, avv. Al.Gr., che si dichiara antistatario; 6) Condanna Am. al pagamento, in favore dell'Azienda Sanitaria (...) delle spese di lite, che liquida in Euro 9.137,00, oltre spese il 15% delle spese generali, i.v.a. e c.p.a. come per legge; 7) Compensa le spese di lite tra As.Mi. S.p.A. e gli eredi del dott. Au.; 8) Pone definitivamente a carico dei convenuti, in solido, le spese di c.t.u., già liquidate con separato provvedimento. Così deciso in Milano il 16 febbraio 2021. Depositata in Cancelleria il 16 febbraio 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ZAZA Carlo - Presidente Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. TUDINO A. - rel. Consigliere Dott. SCORDAMAGLIA Irene - Consigliere Dott. MOROSINI Elisabetta - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 14/06/2019 della CORTE APPELLO di PERUGIA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ALESSANDRINA TUDINO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. TASSONE KATE, che ha concluso chiedendo l'inammissibilita'. udito il difensore: Per la parte civile l'avvocato (OMISSIS) si riporta alla memoria depositata; deposita conclusioni e nota spese. L'avvocato (OMISSIS) dopo aver ampiamente illustrato i motivi di ricorso ne chiede l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1.Con sentenza del 14 giugno 2019, la Corte d'appello di Perugia ha, in parziale riforma della decisione del tribunale di Perugia-sez. distaccata di Citta' di Castello, dichiarato improcedibile per difetto di querela il reato di diffamazione contestato in danno di (OMISSIS) ed estinto per prescrizione il delitto in danno di (OMISSIS), confermando le statuizioni accessorie in favore di quest'ultima. 2.1 fatti riguardano la pubblicazione del libro "(OMISSIS)", edito per i tipi di (OMISSIS) s.r.l. e dato alle stampe in Citta' di Castello, nel cui testo l'autrice, nel ripercorrere la storia del cavallo (OMISSIS), ne descriveva gli ultimi anni di vita, significando tra l'altro come, dopo l'epilogo della sua attivita' agonistica, fosse "...morto dopo anni di stenti, quando, preda di una bolsaggine in stadio avanzato (era) stato lasciato a se stesso, non piu' in grado di mangiare, e chi ne era il proprietario sulla carta non lo (aveva) soppresso in tempo per evitargli dolori inutili. Un'agonia protratta in nome di un egoismo cieco sbandierato ai quattro venti come amore", in tal guisa rappresentando fatti non conformi al vero e offendendo la reputazione delle sorelle (OMISSIS) e (OMISSIS), padrone del cavallo. 2. Avverso la sentenza della Corte d'appello di Perugia ha proposto ricorso l'imputata, con atto a firma del difensore, Avv. (OMISSIS), articolando quattro motivi, ai quali premette la disamina delle dichiarazioni testimoniali in punto di veridicita' dei fatti oggetto di contestazione. 2.1. Con il primo motivo, deduce violazione degli articoli 8 e 9 c.p.p. per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto la competenza territoriale, in presenza della prima distribuzione diffusa, come enunciato in un precedente di merito richiamato, da localizzarsi in (OMISSIS), il solo luogo in cui, peraltro, l'assenza di ulteriori indicazioni avrebbe reso riconoscibili le proprietarie del cavallo (OMISSIS), anche tenuto conto della natura della pubblicazione, per la quale non vi e' stata contestuale distribuzione nazionale. 2.2. Con il secondo motivo, lamenta violazione di legge e travisamento delle prove in relazione alla natura diffamatoria delle espressioni censurate, in considerazione della veridicita' dei fatti quanto alle condizioni del cavallo e del legittimo esercizio del diritto di critica. 2.3. Con il terzo motivo, contesta la tempestivita' della querela sporta da (OMISSIS) il 7 settembre 2005, per aver erroneamente i giudici di merito collocato in tempi diversi l'acquisizione della notitia criminis da parte delle querelanti, quando invece la predetta era stata informata dalla sorella (OMISSIS) nell'immediatezza della lettura del libro, nei primi giorni del mese di giugno del 2005. 2.4. Con il quarto motivo, deduce inosservanza o erronea applicazione 2de1l'articolo 120 c.p.p. quanto alla legittimazione alla querela di (OMISSIS), riferendosi le espressioni diffamatorie al proprietario sulla carta del cavallo, da identificarsi esclusivamente in (OMISSIS). 3. Con memoria depositata in Cancelleria il 12 ottobre 2020, la Parte Civile ha controdedotto analiticamente alle ragioni dell'impugnazione. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso e' infondato. 1.Non colgono nel segno le preliminari censure svolte nel terzo e nel quarto motivi di ricorso in riferimento al diritto di querela ed alla tempestivita' di quest'ultima. 1.1.1. In riferimento alla legittimazione a proporre l'istanza di punizione da parte di (OMISSIS), va rilevato come, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di diffamazione a mezzo stampa, l'individuazione del destinatario dell'offesa deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione dell'offesa, sicche' e' necessario fare ricorso ad un criterio oggettivo, non essendo consentito il ricorso ad intuizioni o soggettive congetture di soggetti che ritengano di potere essere destinatari dell'offesa (Sez. 5, n. 11747 del 05/12/2008 - dep. 2009, Ferrara, Rv. 243329), secondo una valutazione da svolgersi ex ante ed in concreto, tenuto conto delle circostanze di fatto atte ad attribuirne la riferibilita' a soggetti determinati. Di guisa che non osta all'integrazione del reato di diffamazione l'assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione e' lesa, se lo stesso sia ugualmente individuabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone (Sez. 5, n. 7410 del 20/12/2010 - 2011, A., Rv. 249601). A tal fine, va qui precisato come rilevi l'oggettiva attribuibilita' del fatto narrato, alla stregua dei dati identificativi e di prossimita' esposti nel medesimo contesto narrativo, non richiedendosi una successiva ed ulteriore verificazione dell'esistenza di rapporti giuridici qualificati tra le circostanze esposte ed i soggetti alle quali le medesime siano riferite. 1.1.2. Nel caso in esame, dal testo della sentenza impugnata risulta come fosse notorio, almeno nell'ambiente ippico ravennate, che il cavallo (OMISSIS) fosse di proprieta' o, comunque, esclusivamente riconducibile alle sorelle (OMISSIS), entrambe evocate nel testo nella misura in cui al "proprietario sulla carta" si e' fatto riferimento, con tale modalita' semantica peraltro evocandosi criticamente anche la dissociazione tra titolarita' formale ed effettiva cura dell'esemplare, mentre il ricorrente pretende di attribuirne l'esclusiva proprieta' alla sola (OMISSIS) alla stregua dell'indicazione nominativa della fattura inerente i costi di smaltimento della carcassa, richiamando un documento postumo, al piu' ricognitivo di una vicenda negoziale e del tutto inidoneo a superare la riferibilita' estrinseca ad entrambe le sorelle, ampiamente disaminata dai giudici del merito. Donde l'infondatezza della relativa censura. 1.2.1. E', del pari, infondata la deduzione di tardivita' della querela sporta da (OMISSIS). Sul punto, l'orientamento di legittimita' si esprime nel senso che il termine per la presentazione della querela decorre dal momento in cui il titolare ha conoscenza certa, sulla base di elementi seri e concreti, del fatto-reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva (Sez. 2, n. 37584 del 05/07/2019, Di Lorenzo, Rv. 277081; N. 31964 del 2001 Rv. 219324, N. 14660 del 1999 Rv. 215188, N. 46485 del 2014 Rv. 261018, N. 33466 del 2008 Rv. 241395, N. 12634 del 2001 Rv. 218565); principio che, in tema di diffamazione, si declina nell'indivuiduazione del momento in cui il soggetto passivo del reato acquisisca personale e diretta percezione della natura offensiva delle espressioni censurate, e non gia' la mera notizia della loro propalazione. 1.2.2. Ne viene che, correttarznete, nel caso al vaglio il dies a quo per la presentazione dell'istanza di punizione sia stato temporalmente collocato nel momento in cui (OMISSIS) abbia personalmente letto il testo reputato diffamatorio anche nei propri confronti, dopo averne ricevuto la mera infomazione telefonica dalla sorella che aveva antecedentemente - in tali termini derivandone l'intempestivita' della querela sporta da (OMISSIS) proceduto alla consultazione del libro e ne aveva tratto le proprie considerazioni, determinandosi di conseguenza. 2. E', del pari, infondato il rilievo svolto nel primo motivo. Con affermazione mai smentita, questa Corte ha condivisibilmente statuito come, nei procedimenti per reati commessi con il mezzo della stampa, la competenza per territorio vada determinata con riferimento al luogo di cosiddetta "prima diffusione", il quale di solito coincide con quello della stampa, per la ragionevole presunzione che la possibilita' che lo stampato venga letto da altre persone e, quindi, la sua diffusione in senso potenziale, si verifichi immediatamente all'uscita dello stampato dalla tipografia (Sez. 1, n. 25804 del 12/06/2007, Confl. comp. in proc. Belpietro, Rv. 237339). Ed a fronte dell'accertata stampa del libro presso gli stabilimenti tipografici siti in (OMISSIS) - e della immediata diffusivita' ivi del relativo testo - non dispiega rilevanza la deduzione secondo cui la vicenda narrata fosse localizzata nel riminese e che in tale contesto ambientale fossero notoriamente identificabili i protagonisti, in assenza di elementi atti a superare la presunzione di immediata e potenziale percezione, all'atto della tiratura, dell'offesa alla reputazione dei soggetti coinvolti. 3. Le censure svolte nel secondo motivo sono inconducenti. 3.1. Dalla mera lettura del testo riportato nella contestazione emerge, all'evidenza, la natura marcatamente critica delle riflessioni consegnate alla pubblica opinione dall'imputata, involgenti il tema dell'eutanasia nella misura in cui viene aspramente contestata la decisione di affidare il cavallo, gia' campione di salto in competizioni ippiche ed ormai vecchio e gravemente malato, ad una residenza di campagna, piuttosto che praticarne la pietosa soppressione ed evitarne, quindi, una predicata sofferenza. 3.2. Nel quadro cosi' delineato, le censure del ricorrente involgono, esenzialmente, il rapporto tra la verita' del fatto, integrante il presupposto delle espressioni di cui si rivendica la riconducibilita' all'esercizio del diritto di critica, e la configurabilita' della scriminante. 3.2.1. Va, sul punto, rilevato come la scriminante del diritto di critica non e' configurabile qualora manchi il requisito della verita' del fatto riferito e costituente oggetto della valutazione critica, il quale sia, pertanto, privo di riscontro nella realta' (Sez. 5, n. 8721 del 17/11/2017 - dep. 2018, Coppola, Rv. 272432 e l'ampia rassegna ivi contenuta; Sez. 5, n. 3389 del 12/11/2004 - dep. 2005, Perna, Rv. 231395). La critica si articola, invero, in due momenti logici, che vanno tenuti ben distinti, rappresentati dall'"esposizione del fatto attribuito all'uomo pubblico", il primo, e dalle "critiche che alle parole pronunciate o ai comportamenti assunti dalla persona oggetto di attenzione vengono rivolte". In tale struttura bifasica, "il fatto che costituisce il presupposto delle espressioni critiche (deve) essere vero, perche' non puo' essere assolutamente consentito attribuire ad una persona comportamenti mai tenuti o frasi mai pronunciate e poi esporlo a critica come se quelle parole e quei fatti fossero davvero a lui attribuibili"; di conseguenza, "in ordine alla verita' del fatto che costituisce il presupposto della critica non e' ravvisabile nessuna differenza apprezzabile tra l'esercizio del diritto di cronaca e di critica, dal momento che entrambe le esimenti richiedono la verita' del fatto narrato" (Sez. 5, n. 24087 del 13/01/2004, Boldrini, Rv. 228900; conf. Sez. 5, n. 7662 del 31/01/2007, Iannuzzi, Rv. 236524; Sez. 1, n. 35646 del 04/07/2008, Morrione, Rv. 240676, in motivazione). Fermo restando, dunque, che "il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l'altro, nella narrazione di fatti, bensi' nell'espressione di un giudizio o, piu' genericamente, di un'opinione che, come tale, non puo' pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non puo' che essere fondata su un'interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti" (Sez. 5, n. 7499 del 14/04/2000, Chinigo', Rv. 216534), sicche' quando il discorso critico abbia una funzione prevalentemente valutativa, non pone un problema di veridicita' di proposizioni assertive e i limiti scriminanti del diritto garantito dall'articolo 21 Cost. sono solo quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza di espressione (Sez. 5, n. 935 del 16/12/1998 - dep. 1999, P.M. e p.o. in proc. Ferrara, Rv. 212342; conf. Sez. 5, n. 11211 del 24/11/1993, Paesini, Rv. 196459; Sez. 5, n. 3477 del 08/02/2000, Beha, Rv. 215577; Sez. 5, n. 38448 del 25/09/2001, Uccellobruno, Rv. 220000, in tema di critica politica), il rilievo del requisito della verita', ai fini della configurabilita' della scriminante del diritto di critica, va limitato all'"oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni e delle valutazioni espresse" (Sez. 5, n. 34432 del 05/06/2007, Blandini, Rv. 237711, in tema di esimente del diritto di critica giudiziaria; conf. Sez. 5, n. 20474 del 14/02/2002, PG in proc. Trevisan, Rv. 221904, secondo cui la critica non puo' essere "fantasiosa o astrattamente speculativa, svincolata cioe' da qualsivoglia profilo di verita', ponendosi magari come strumentale pretesto per attentati all'altrui reputazione"; Sez. 5, n. 26745 del 26/02/2016, Rao). Il diritto di critica, dunque, "presuppone un contenuto di veridicita' limitato alla oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni e delle valutazioni espresse" (Sez. 5, n. 11662 del 06/02/2007, Iannuzzi, Rv. 236362): in altri termini, la critica che si manifesti attraverso l'esposizione di una personale interpretazione ha valore di esimente, nella ricorrenza degli altri requisiti, senza che possa pretendersi la verita' oggettiva di quanto rappresentato, ma da tale requisito non puo' prescindersi, viceversa, quando un fatto obiettivo sia posto a fondamento della elaborazione critica (Sez. 5, n. 29383 del 06/06/2006, Moncalvo, Rv. 235004; conf. Sez. 1, n. 40930 del 27/09/2013, P.M., P.C. in proc. Travaglio, Rv. 257794; Sez. 5, n. 8635 del 09/06/2000, Simeone, Rv. 217844). Di guisa che anche con riferimento alla scriminante dell'esercizio del diritto di critica "un nucleo di veridicita' e' comunque esigibile, in quanto, diversamente, la critica sarebbe pura congettura e possibile occasione di dileggio e mistificazione" (Sez. 5, n. 43403 del 18/06/2009, Ruta, Rv. 245098); ai fini della scriminante in esame non si richiede percio' che la critica sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali "purche' il nucleo ed il profilo essenziale di essi non sia stato strumentalmente travisato e manipolato" (Sez. 5, n. 7798 del 27/11/2018 - dep. 2019, Maritan, Rv. 276026; Sez. 5, n. 57005 del 27/09/2018, Pieralisi, Rv. 274625; Sez. 5, n. 19334 del 05/03/2004, Giacalone, Rv. 227754; conf. Sez. 1, n. 4496 del 14/01/2008, Pansa, Rv. 239158). Anche con riguardo alla configurabilita' della scriminante dell'esercizio del diritto di critica il giudice di merito deve, dunque, accertare la veridicita' del fatto oggetto di critica (Sez. 5, n. 3287 del 04/01/2000, Grisini, Rv. 215578), ossia la necessaria correlazione tra quanto narrato e quanto accaduto (Sez. 5, n. 24709 del 22/04/2004, Cortese, Rv. 229710): presupposto imprescindibile per l'applicazione dell'esimente dell'esercizio del diritto di critica e', dunque, la verita' del fatto storico posto a fondamento della elaborazione critica (Sez. 5, n. 7715 del 04/11/2014 - dep. 2015, Caldarola, Rv. 264064; conf. Sez. 5, n. 7419 del 03/12/2009 - dep. 2010, Cacciapuoti, Rv. 246096, secondo cui anche la critica politica deve fondarsi sull'attribuzione di fatti veri). 3.2.2. La giurisprudenza di questa Corte ha ulteriormente precisato che "la verita' del fatto narrato e' sicuramente essenziale ai fini del corretto esercizio del diritto di cronaca (salve le eccezioni che riguardano la putativita' della esimente) mentre non e' un elemento necessariamente costitutivo del diritto di critica", il quale "puo' vivere della elaborazione speculativa di concetti con la conseguenza che non viene posta sul terreno, in tal caso, la questione della verita' di eventi oggettivi", laddove, qualora prenda le mosse da un fatto storico, "non vi e' motivo alcuno per sostenere che tale fatto possa essere rappresentato anche in distonia con la realta', posto che, cosi' ragionando, verrebbe a crearsi un insanabile conflitto fra il diritto costituzionalmente tutelato alla libera manifestazione del pensiero con quello, protetto allo stesso livello, della tutela dei diritti inviolabili della persona di cui all'articolo 2 Cost.", posto che neanche la formulazione di una critica "puo' giungere fino al punto di rappresentare la realta' in modo falso e far apparire come veri fatti oggettivamente insussistenti", fermo restando che il limite del rispetto della verita' riguarda "il nucleo della notizia oggetto della elaborazione critica, essendo trascurabili imprecisioni o errori che concernano aspetti marginali della situazione rappresentata e cio', proprio nella prospettiva di assicurare che la libera manifestazione del pensiero non trovi inciampo a causa della rappresentazione di difformita' dal vero che non condizionano in alcun modo tangibile la formazione del pensiero dei fruitori della notizia" (Sez. 5, n. 12807 del 25/02/2005, Ferrara, Rv. 231696). La ricognizione della giurisprudenza di legittimita' consente dunque di mettere a fuoco gli aspetti essenziali, sotto il profilo in esame, della scriminante dell'esercizio del diritto di critica: da un lato, la distinzione tra "il fatto che costituisce il presupposto delle espressioni critiche" e la valutazione critica di esso (Sez. 5, n. 24087 del 13/01/2004, Boldrini, cit.); dall'altro, il rilievo in forza del quale, a differenza che per le opinioni e per le valutazioni espresse (Sez. 5, n. 11662 del 06/02/2007, Iannuzzi, cit.), il requisito della verita' deve connotare il fatto riferito e costituente oggetto della valutazione critica (Sez. 5, n. 3389 del 12/11/2004 - dep. 02/02/2005, Perna, cit.), almeno quanto al suo nucleo essenziale, che non puo' essere strumentalmente travisato e manipolato. In tal senso, e' necessario che l'estensore, nel selezionare fatti accaduti nel tempo reputati rilevanti per illustrare la personalita' dei soggetti criticati, non manipoli le notizie o non le rappresenti in forma incompleta, in maniera tale che, per quanto il risultato complessivo contenga un nucleo di verita', l'operazione stravolga il fatto nella sua rappresentazione (Sez. 5, n. 57005 del 2018, Rv. 274625, cit.). 3.2.3. Nei termini indicati, l'orientamento ermeneutico di legittimita' si muove in perfetta consonanza con i principi enunciati dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, cosi' come delineati dalla sentenza della Quarta Sezione del 30/06/2015, Peruzzi c. Italia (§ 48): corrisponde all'indicata distinzione tra fatto costituente il presupposto della critica e lo stesso giudizio critico quella operata dalla Corte di Strasburgo tra "dichiarazioni fattuali" e "giudizi di valore", con la precisazione che "se la materialita' dei fatti si puo' provare, i giudizi di valore non si prestano ad alcuna dimostrazione per quanto riguarda la loro esattezza"; la necessaria veridicita' del nucleo essenziale del fatto oggetto della critica e' affermata, sostanzialmente, dalla Corte Edu, secondo cui "anche quando equivale a un giudizio di valore, una dichiarazione deve fondarsi su una base fattuale sufficiente", in assenza della quale risulterebbe "eccessiva", ossia ingiustificabile (V. anche sentenza del 28/07/2020, Macovei contro Romania; sentenza del 16/01/2020, Magosso e Brindani contro ITALIA).. 3.2.4. Collocate nella prospettiva delineata dalla giurisprudenza di legittimita' e convenzionale richiamata, le censure svolte dalla ricorrente s'appalesano infondate. A fondamento dell'elaborazione critica sopra richiamata (§ 3.1.), l'imputata ha posto la narrazione di fatti risultati smentiti dall'istruttoria dibattimentale, esplicitamente affermando uno stato di "abbandono a se stesso" in cui il cavallo (OMISSIS) sarebbe stato lasciato, stravolgendo il fatto nella sua rappresentazione, in tal guisa finendo con illustrare la personalita' dei soggetti criticati in modo falsato, premettendo alla critica rivolta alla scelta di fondo, ovvero quella di non abbattere il cavallo, un dato storico invece immediatamente suggestivo di una forma di incuria seguita ad un cincio sfruttamento agonistico, idoena a indurre i lettori a condividere il giudizio negativo apertamente manifestato, cosi' impedendo loro di formarsi un'opinione consapevole, fondata su un'oggettiva e fedele rappresentazione dei fatti. Ne viene l'insussistenza del denunciato error in iudicando e l'infondatezza del motivo in esame. Il ricorso e', pertanto, infondato. 3. Al rigetto del ricorso segue, ex articolo 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, oltre alla rifusione alla parte civile delle spese di assistenza nel grado, come liquidate in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche' alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 2.200 oltre accessori di legge.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SABEONE Gerardo - Presidente Dott. ZAZA Carlo - rel. Consigliere Dott. MAZZITELLI Caterina - Consigliere Dott. SETTEMBRE Antonio - Consigliere Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), (CL. (OMISSIS)) nato a (OMISSIS); (OMISSIS), (CL. (OMISSIS)) nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 24/10/2017 della CORTE di APPELLO di NAPOLI; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere Carlo Zaza; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale De Leo Giovanni, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti del (OMISSIS) limitatamente alla pena, da rideterminarsi nella misura indicata nella sentenza di primo grado, e in subordine per il rigetto del ricorso del (OMISSIS), per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti del (OMISSIS) limitatamente all'aumento della pena per la continuazione, da rideterminarsi in un anno e quattro mesi di reclusione, per l'annullamento con rinvio della stessa sentenza nei confronti del (OMISSIS) sulla determinazione della pena, nei confronti del (OMISSIS) sulla recidiva e nei confronti del (OMISSIS) sull'aumento di pena per la continuazione, e per l'inammissibilita' dei ricorsi del (OMISSIS), del (OMISSIS), dell' (OMISSIS), del (OMISSIS), del (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), del (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), del (OMISSIS), del (OMISSIS), del (OMISSIS) e del (OMISSIS); uditi i difensori, avv. (OMISSIS) per (OMISSIS) nato nel (OMISSIS) e (OMISSIS), avv. (OMISSIS) per (OMISSIS), avv. (OMISSIS) per (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), in sostituzione dell'avv. (OMISSIS) per (OMISSIS) e in sostituzione dell'avv. (OMISSIS) per (OMISSIS), che hanno concluso per l'accoglimento dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) ricorrono avverso la sentenza del 24 ottobre 2017 con la quale la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Napoli del 8 febbraio 2011, confermava l'affermazione di responsabilita' degli imputati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) per il reato di direzione ed organizzazione, quanto al (OMISSIS), e di partecipazione per gli altri ad un'associazione di tipo mafioso denominata clan (OMISSIS)- (OMISSIS)- (OMISSIS), operante in Boscotrecase, Boscoreale, Torre Annunziata, Trecase e zone limitrofe fino al 1 marzo 2010; degli imputati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) per il reato di organizzazione, quanto al (OMISSIS), e di partecipazione per gli altri ad un'associazione diretta alla commissione di reati importazione dalla Spagna e dall'Olanda e di commercializzazione in Italia di sostanze stupefacenti quali cocaina, hashish e marijuana, operante in Boscotrecase, Torre Annunziata e zone limitrofe fino al 1 marzo 2010; degli imputati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) per reati di traffico di stupefacenti; del (OMISSIS) e del (OMISSIS), inoltre, per reati di detenzione e porto illegale di armi; del (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), inoltre, per reati di corruzione, falso in carta di identita', esposizione di false generalita' e fittizie intestazioni di beni; e del (OMISSIS) nato nel (OMISSIS) per il reato di intestazione fittizia di beni. La sentenza di primo grado era riformata con l'assoluzione del (OMISSIS), del (OMISSIS), del (OMISSIS), dei (OMISSIS) e del (OMISSIS) da altre imputazioni e con la rideterminazione della pena nei confronti dei predetti, del (OMISSIS), del (OMISSIS), dell' (OMISSIS), del (OMISSIS), del (OMISSIS), del (OMISSIS) e del (OMISSIS). La sentenza impugnata era pronunciata a seguito di annullamento con rinvio della precedente sentenza della stessa Corte di appello del 29 aprile 2013, disposto con sentenza di questa Corte del 4 maggio 2015 in accoglimento del ricorso del Procuratore generale territoriale, sulla ritenuta insussistenza dell'aggravante dell'ingente quantita' per reati di acquisto e detenzione di sostanze stupefacenti, esclusa anche all'esito del giudizio di rinvio, e, in accoglimento dei ricorsi degli imputati, sui punti che per quanto qui interessa saranno di seguito richiamati con riguardo alle posizioni dei singoli ricorrenti. 2. I ricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS), nei confronti dei quali il rinvio era disposto quanto al (OMISSIS) sulla responsabilita' per il reato di associazione diretta al traffico di stupefacenti, per il quale l'imputato veniva assolto con la sentenza impugnata, e quanto al (OMISSIS) sull'esclusione della continuazione con un reato di traffico di stupefacenti giudicato in altra sede, riconosciuta nel giudizio di rinvio, deducono violazione di legge e vizio motivazionale sul trattamento sanzionatorio, e in particolare che: 2.1. gli aumenti di pena per la continuazione erano immotivatamente quantificati in misura differenziata per i diversi reati; 2.2. per il solo (OMISSIS), l'aumento per la continuazione con i fatti di cui alla sentenza della Corte di appello di Roma del 2 ottobre 2006 era stabilito nella misura di anni uno e mesi quattro di reclusione, superiore a quello indicato nella stessa sentenza per reati analoghi. 3. Il ricorrente (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sulla responsabilita' per il reato di associazione diretta al traffico di stupefacenti, da cui l'imputato veniva assolto con la sentenza impugnata, il ricorrente deduce violazione di legge sul trattamento sanzionatorio, e in particolare che: 3.1. con la sentenza annullata la pena era stabilita nella misura-base di dieci anni di reclusione per il reato associativo di cui sopra, aumentata a dodici anni per i tre reati satelliti di detenzione di stupefacenti di cui ai capi B3, C3 e D3 e ridotta per il rito a otto anni; 3.2. con la sentenza impugnata la pena era rideterminata nella misura-base di dieci anni di reclusione ed Euro cinquantamila di multa per il piu' grave reato di cui al capo D3, ridotta per le attenuanti generiche a nove anni ed Euro quarantottomila, aumentata per la continuazione con il reato di cui capo B3 a undici anni ed Euro cinquantaseimila e per la continuazione con il reato di cui al capo C3 a dodici anni ed Euro sessantamila e ridotta per il rito ad otto anni ed Euro quarantamila; 3.3. gli aumenti di pena per i reati di cui ai capi B3 e C3 erano pertanto quantificati in misura superiore a quella stabilita individuata nella sentenza annullata, in violazione del divieto di reformatio in pejus. 4. Il ricorrente (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sulla responsabilita' per i reati di traffico di stupefacenti di cui ai capi T2 e V2, da cui l'imputato veniva assolto con la sentenza impugnata, e sulla sussistenza delle aggravanti di cui alla L. 12 luglio 1991, n. 203, articolo 7 e Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 74, comma 4, escluse nel giudizio di rinvio, il ricorrente deduce vizio motivazionale sulla determinazione della pena, immotivatamente inflitta per il reato associativo in una misura-base superiore al minimo edittale, in contrasto con il riconoscimento delle attenuanti generiche, in equivalenza alla recidiva, al dichiarato fine di adeguare la pena all'entita' dei fatti. 5. Il ricorrente (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sulla confisca di immobili, revocata con la sentenza impugnata, e per la rideterminazione della pena in conseguenza della declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati di falso in carta di identita' e patente di guida e false dichiarazioni sulle generalita', deduce violazione di legge e vizio motivazionale sull'aumento di pena per la recidiva in mancanza dell'indicazione delle ragioni a sostegno dell'applicazione della stessa. 6. Il ricorrente (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sulla responsabilita' per il reato di associazione diretta al traffico di stupefacenti, da cui l'imputato veniva assolto con la sentenza impugnata, e per il reato di corruzione, dichiarato estinto per prescrizione nel giudizio di rinvio, deduce violazione di legge sul trattamento sanzionatorio nella determinazione della pena-base per il reato di associazione mafiosa in misura superiore al minimo edittale viceversa a suo tempo irrogato per il reato associativo in materia di stupefacenti, in violazione del divieto di reformatio in pejus e comunque con decisione illogica rispetto al ruolo subordinato ed alla mancanza di autonomia decisionale dell'imputato nell'organizzazione criminosa, che la stessa sentenza impugnata riconosceva. 7. Il ricorrente (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sulla responsabilita' per il reato di concorso con il (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) nell'acquisto di un quantitativo di cocaina, commesso nel maggio del 2006, di cui al capo Q2, sulla sussistenza delle aggravanti di cui alla L. n. 203 del 1991, articolo 7 e Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 74, comma 4, escluse con la sentenza impugnata, e sulla confisca di un'autovettura, propone cinque motivi. 7.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge sull'affermazione di responsabilita' per il reato di cui al capo Q2, e in particolare che: 7.1.2. nella sentenza impugnata si richiamavano le conclusioni della sentenza di primo grado per le quali entrambi gli (OMISSIS) sarebbero partiti per la Spagna con il (OMISSIS), mentre dalla ricostruzione esposta nella stessa sentenza richiamata risultava che (OMISSIS) si era limitato ad accompagnare il (OMISSIS) e (OMISSIS) all'aeroporto di Fiumicino rientrando poi subito a Napoli; 7.1.2. difetta la prova che l'imputato fosse a conoscenza delle ragioni del viaggio dei concorrenti in Spagna, in assenza della quale non e' configurabile l'elemento psicologico del reato nel descritto accompagnamento; 7.1.3. dalle conversazioni intercettate non emergeva comunque che l'imputato avesse accompagnato i concorrenti all'aeroporto, ma risultavano solo contatti per una riunione con (OMISSIS), essendo peraltro illogico che tale accompagnamento fosse avvenuto in un orario notturno, nel quale non vi e' partenza di aerei, e che l'imputato avesse nell'occasione lasciato la propria autovettura presso l'abitazione e non avesse indicato alla moglie l'ora del suo rientro. 7.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio motivazionale sul diniego delle attenuanti generiche, motivato in base ad un precedente penale che si esauriva nel reato contestato ad altri imputati al capo R2, inerente allo stesso contesto criminoso, e contraddittorio rispetto al riconoscimento delle attenuanti in favore del (OMISSIS), gravato da piu' precedenti. 7.3. Con il terzo motivo deduce violazione di legge sulla determinazione della pena, motivata in base ad un ruolo dell'imputato nell'organizzazione in realta' assente, essendo l' (OMISSIS) coinvolto solo in due episodi delittuosi. 7.4. Con il quarto motivo deduce violazione di legge sulla confisca, in ordine alla quale era stato pronunciato l'annullamento con rinvio, per mancanza di motivazione sul punto. 7.5. Con il quinto motivo deduce violazione di legge sul diniego della continuazione con i fatti di fatti di cui ad una sentenza pronunciata dall'autorita' giudiziaria spagnola e riconosciuta in Italia, motivato in base alla mancata indicazione delle valutazioni sulla continuazione fra le finalita' del riconoscimento della sentenza straniera previste dall'articolo 12 c.p., comma 1, e in particolare che: 7.5.1. la decisione del Consiglio dell'Unione Europea del 24 luglio 2008, recepita in Italia con Decreto Legislativo 12 maggio 2016, n. 73, prevede l'attribuzione, alla condanne pronunciate in altro Stato, di effetti giuridici equivalenti a quelli derivanti da condanne emesse in ciascuno degli Stati dell'Unione; 7.5.2. nella specie la continuazione sussisteva in quanto la condanna pronunciata in Spagna era relativa ad un fatto ascritto anche al (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), al (OMISSIS) ed al (OMISSIS) nel presente procedimento al capo R2, per il quale l' (OMISSIS) era stato arrestato in (OMISSIS). 8. Il ricorrente (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sulla responsabilita' per i reati di traffico di stupefacenti, sequestro di persona, estorsione tentata e consumata, incendio, detenzione e porto illegale di armi e ricettazione di cui ai capi D, G2, 12, L2, Z2, E3, N3, 03, P3, R3, U3, J, K, W e X, da cui l'imputato veniva assolto con la sentenza impugnata, sulla sussistenza dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, articolo 7 per i reati di intestazione fittizia di cui ai capo H4 e L4, esclusa nel giudizio di rinvio, propone due motivi. 8.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge sulla ritenuta capacita' processuale dell'imputato, e in particolare che: 8.1.1. con istanze presentate nel maggio del 2017 la difesa dell'imputato produceva copia dell'ordinanza del Tribunale dell'Aquila del 17 gennaio 2017 e della perizia precedentemente effettuata, chiedeva l'acquisizione di una relazione psichiatrica aggiornata e allegava che con provvedimento del 24 febbraio 2017 il Direttore dalla Casa circondariale di Parma aveva sospeso l'esecuzione della sanzione dell'esclusione dalle attivita' in comune; 8.1.2. dette istanze erano rigettate dalla Corte territoriale con ordinanze del 4 e del 18 maggio del 2017, nelle quali si osservava che alla Corte non erano pervenute segnalazioni dalla Casa circondariale, ma non si considerava che dalla produzioni difensive risultava come il Tribunale dell'Aquila avesse accertato un disturbo schizofrenico della personalita', attribuendo rilievo ad elementi irrilevanti quali la presenza del (OMISSIS) alle udienze, i colloqui dello stesso con i difensori e le dichiarazioni spontanee rese dall'imputato, nelle quali peraltro lo stesso manifestava comportamenti incongrui, come la richiesta di eutanasia o quella di valutare la posizione dei propri familiari, e la mancanza di interesse per la propria posizione personale. 8.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio motivazionale sul trattamento sanzionatorio, e in particolare che: 8.2.1. il rigetto dell'istanza di disapplicazione dell'ordine di esecuzione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli del 15 maggio 2017, motivato con la ritenuta definitivita' dell'annullata sentenza del 29 aprile 2013 con riguardo alla pena inflitta per il reato di associazione diretta al traffico di stupefacenti, non teneva conto che detta sentenza non era in realta' divenuta definitiva sul punto nel momento in cui l'irrevocabilita' si era formata sull'affermazione di responsabilita' per il reato ma non sulla pena, essendo rimasta indeterminata la pena minima eseguibile; 8.2.2. la pena inflitta in primo grado veniva confermata, nonostante l'assoluzione per diversi reati e l'esclusione dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, articolo 7 per due reati, in considerazione dell'ostativita' del numero dei reati residui, con motivazione illogica e meramente ripetitiva del contenuto della sentenza annullata, e in violazione del divieto di reformatio in pejus e della disposizione di rinvio per la rideterminazione della pena. 9. Il ricorrente (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sulla responsabilita' per il reato di intestazione fittizia di beni di cui al capo 14, da cui l'imputato era assolto con la sentenza impugnata, e sulla sussistenza dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, articolo 7 per il reato di intestazione fittizia di cui al capo H4, esclusa all'esito del giudizio di rinvio, deduce violazione di legge sul trattamento sanzionatorio, lamentando che la pena era ridotta per le attenuanti generiche in misura inferiore al terzo, mentre la riduzione doveva essere effettuata nella massima estensione. 10. Il ricorrente (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sulla responsabilita' per il reato di associazione diretta al traffico di stupefacenti, da cui l'imputato era assolto con la sentenza impugnata, e sulla sussistenza dell'aggravante di cui alla L. n. 2013 del 1991, articolo 7 esclusa all'esito del giudizio di rinvio, deduce violazione di legge e vizio motivazionale sul trattamento sanzionatorio nell'immotivata determinazione della pena-base e degli aumenti per la continuazione. 11. Il ricorrente (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sul diniego della continuazione con i fatti giudicati in altra sentenza, viceversa riconosciuta con la sentenza impugnata, deduce con due motivi violazione di legge sulla determinazione dell'aumento di pena per la continuazione, e in particolare che: 11.1. con la sentenza impugnata, la pena era determinata per il reato di associazione diretta al traffico di stupefacenti nella misura-base di dodici anni di reclusione, aumentata a sedici anni per l'aggravante di cui alla L. n. 2013 del 1991, articolo 7 a diciotto anni per i reati satelliti, segnatamente di un anno per l'associazione mafiosa e di sei mesi per ciascuno dei reati in materia di stupefacenti di cui ai capi P2 e R2, e a ventiquattro anni per la continuazione con il reato di cui alla sentenza del Tribunale di Torre Annunziata del 3 dicembre 2007, con riduzione finale per il rito; 11.2. con la citata sentenza del Tribunale di Torre Annunziata, come riformata in appello, la pena era stata determinata nella misura-base di quattro anni di reclusione ed Euro novecento di multa, aumentata per l'aggravante di cui alla L. n. 2013 del 1991, articolo 7 ad anni sei ed Euro milleduecento, per la recidiva ad anni otto ed Euro 2.000 e per la continuazione ad anni undici ed Euro tremila; 11.3. l'aumento di pena di sei anni di reclusione, applicato con la sentenza impugnata per la continuazione con i reati di cui alla sentenza del Tribunale di Torre Annunziata, era pertanto maggiore della pena a suo tempo inflitta in via definitiva con detta sentenza, considerato che per l'aggravante e per la recidiva l'aumento non poteva essere duplicato, che la pena corrispondente ai tre reati satelliti giudicati in primo grado a Torre Annunziata era pari a tre anni, e quindi a un anno per ciascuno di essi, e che con la sentenza impugnata per i quattro reati oggetto della sentenza del Tribunale di Torre Annunziata era irrogato un aumento di pena pari a sei anni, e quindi ad un anno e sei mesi per ciascuno di detti reati, superiore alla misura dell'anno per quanto detto computata in quella sentenza per i reati satelliti e a quella dei sei mesi stabilita per taluni dei reati satelliti oggetto della sentenza impugnata, in violazione dei principi per i quali l'aumento per la continuazione deve essere applicato sulla pena determinata per il reato piu' grave e il riconoscimento della continuazione deve condurre ad un trattamento sanzionatorio piu' favorevole con riguardo non solo alla pena complessiva, ma anche agli aumenti per i singoli reati; 11.4. non vi era comunque motivazione relativamente agli aumenti di pena applicati per i singoli reati giudicati dal Tribunale di Torre Annunziata, rispetto ai piu' gravi reati oggetto della sentenza impugnata. 12. Il ricorrente (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sulla sussistenza dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, articolo 7 esclusa con la sentenza impugnata, propone due motivi. 12.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio motivazionale sulla ritenuta operativita' della recidiva per effetto dell'esclusione dell'aggravante di cui sopra, in contrasto con l'espressa disapplicazione della recidiva nella sentenza annullata. 12.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio motivazionale sulla determinazione della pena, rimasta invariata negli aumenti per i reati-fine nonostante l'esclusione dell'aggravante, in violazione del divieto di reformatio in pejus. 13. Il ricorrente (OMISSIS), per la cui posizione la precedente sentenza della Corte di appello di Napoli era stata impugnata unicamente con il ricorso del Procuratore generale territoriale con riguardo alla ritenuta insussistenza dell'aggravante dell'ingente quantita' per reati di acquisto e detenzione di sostanze stupefacenti, per quanto detto in premessa esclusa anche con la sentenza impugnata, deduce violazione di legge sul rigetto dell'eccezione di omessa notifica dell'avviso di deposito della sentenza della Corte di appello di Napoli del 29 aprile 2013, e in particolare che: 13.1. l'avviso non era segnatamente notificato all'avv. Francesco Romano, difensore del (OMISSIS) unitamente all'avv. (OMISSIS); 13.2. la motivazione della sentenza impugnata, per la quale l'eccezione non poteva essere esaminata in sede di rinvio, non teneva conto che nella sentenza di annullamento venivano esaminati i ricorsi degli imputati (OMISSIS) e (OMISSIS), benche' tardivi, evidentemente in considerazione dell'omessa notifica ai relativi difensori dell'avviso di deposito della precedente sentenza oggetto dei ricorsi, implicitamente valutata con effetto estensivo anche nei confronti del (OMISSIS). 14. Il ricorrente (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sulla sussistenza dell'aggravante di cui alla L. n. 2013 del 1991, articolo 7 esclusa con la sentenza impugnata, deduce violazione di legge sulla determinazione della pena, e in particolare che: 14.1. con la sentenza di primo grado, ritenuta la continuazione con i fatti di cui alla sentenza della Corte di appello di Catania del 16 marzo 2008, con la quale l'imputato era condannato alla pena di sette anni di reclusione, era inflitta una pena complessiva di nove anni di reclusione, due dei quali pertanto corrispondenti all'aumento per la continuazione relativo ai fatti di cui al presente procedimento; 14.2. detta porzione di pena era aumentata a tre anni per l'aggravante e ridotta nuovamente a due anni per il rito; 14.3. con la sentenza impugnata, nonostante l'esclusione dell'aggravante, l'aumento di pena era determinato in due anni e tre mesi ed Euro seimila di multa e ridotto ridotta ad un anno e sei mesi ed Euro quattromila per il rito, in violazione del divieto di reformatio in pejus. 15. Il ricorrente (OMISSIS), nei confronti del quale il rinvio era disposto sulla determinazione nel massimo dell'aumento di pena per la recidiva e sulla misura di sicurezza della liberta' vigilata, revocata con la sentenza impugnata, deduce con due motivi violazione di legge e vizio motivazionale sull'applicazione della recidiva, e in particolare che: 15.1. il relativo motivo era ritenuto con la sentenza impugnata coperto dal giudicato, non considerando che l'annullamento della precedente sentenza sulla misura dell'aumento per la recidiva era logicamente collegato alla questione sull'applicazione della recidiva, non obbligatoria per effetto della declaratoria di parziale illegittimita' dell'articolo 99 c.p. pronunciata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 185 del 8 luglio 2015, successivamente alla sentenza annullata; 15.2. la recidiva doveva nella specie essere disapplicata, tenuto conto che la condotta associativa di fatto si protraeva per soli quattro mesi e cessava nel maggio del 2007, precedentemente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna per il delitto presupposto, avvenuto il 4 gennaio 2009. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I motivi dedotti dai ricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS) sul trattamento sanzionatorio sono inammissibili. Le censure di carenza motivazionale sulla differenziazione degli aumenti di pena per la continuazione, con riguardo ai diversi reati satelliti, sono precluse in questa sede per il (OMISSIS), e generiche per il (OMISSIS). Quanto al primo, infatti, il punto non era oggetto dell'annullamento pronunciato con la sentenza rescindente, concernente solo l'aumento per la continuazione con i fatti di cui alla sentenza della Corte di appello di Roma del 2 ottobre 2006. Per la posizione del (OMISSIS), gli aumenti erano determinati nella misura di sei mesi di reclusione ed Euro seicento di multa, e in un caso di cinque mesi di reclusione ed Euro duecento di multa, per i reati in materia di stupefacenti, e di tre mesi di reclusione ed Euro trecento di multa, e in un caso di quattro mesi di reclusione ed Euro trecento di multa, per i reati in materia di armi; e quindi tenendo conto all'evidenza della differente natura e gravita' dei reati, aspetto sul quale il ricorrente non oppone alcuna specifica deduzione. La doglianza proposta dal (OMISSIS) sulla determinazione per l'aumento per la continuazione con riguardo ai fatti di cui alla diversa sentenza di condanna sopra menzionata, quantificato con la sentenza impugnata in due anni di reclusione ridotti per il rito abbreviato, e' anch'essa generica nel riferimento ad una differente quantificazione dell'aumento per non meglio precisati reati analoghi, oggetto della sentenza della Corte di appello di Roma, e si risolve comunque in una difforme valutazione di merito, non consentita in questa sede, nel richiamo ad un improprio raffronto con valutazioni sanzionatorie effettuate in altra sede per fatti diversi. 2. Il motivo dedotto dal ricorrente (OMISSIS) sul trattamento sanzionatorio e' infondato. Le doglianze del ricorrente si appuntano in particolare sulla determinazione degli aumenti per la continuazione relativi ai reati in materia di stupefacenti di cui ai capi B3 e C3. Nel ricorso si indicano correttamente a questi fini il computo della pena indicato nella sentenza annullata, con un aumento di pena pari a due anni di reclusione per i reati in materia di stupefacenti di cui ai B3, C3 e D3 sulla pena-base stabilita per il reato associativo in dieci anni di reclusione, e quello esposto nella sentenza impugnata, con aumenti di pena di due anni di reclusione ed Euro ottomila di multa per il reato di cui al capo B3, e di un anno di reclusione ed Euro quattromila di multa per il reato di cui al capo C3, sulla pena-base quantificata in nove anni di reclusione ed Euro quarantottomila di multa, a seguito della riduzione per le attenuanti generiche, per il reato di cui al capo D3, divenuto piu' grave in conseguenza dell'assoluzione dell'imputato per il reato associativo; ed altrettanto correttamente si conclude che il complessivo aumento di pena, determinato con la sentenza impugnata per i reati satelliti di cui ai capi B3 e C3 in tre anni di reclusione ed Euro dodicimila di multa, era superiore a quello irrogato per gli stessi reati nell'ambito della porzione di pena di due anni di reclusione, allora comprendente anche il reato di cui al capo D3, individuata a titolo di aumento per la continuazione nella sentenza annullata. Ora, e' ben vero che, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimita', il divieto di reformatio in pejus opera nel giudizio di rinvio non consentendo che all'esito dello stesso sia irrogata una pena piu' grave di quella inflitta con la sentenza annullata (Sez. 2, n. 46307 del 20/07/2016, Buono, Rv. 268315; Sez. 4, n. 47900 del 24/10/2013, Abagnale, R. 258097; Sez. 6, n. 4162 del 07/11/2012, dep. 2013, Ancora, Rv. 254263). La stessa giurisprudenza, tuttavia, ha altresi' affermato che il divieto di reformatio in pejus non e' violato dalla decisione che determini per taluno dei reati satelliti un aumento di pena maggiore del precedente allorche' con la stessa decisione venga mutata la struttura del reato continuato, come avviene nel caso - in effetti corrispondente a quello qui esaminato - in cui un reato ritenuto satellite nella precedente decisione diventi quello piu' grave nell'ambito della continuazione; cio' a condizione che la pena conclusivamente inflitta non sia nel suo complesso maggiore (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653; Sez. 2, n. 50949 del 10/10/2017, Bivol, Rv. 271376; Sez. 3, n. 1957 del 22/0/2017, dep. 2018, Vallozzi, Rv. 272072). Tale condizione ricorre puntualmente nella specie, considerato che con la sentenza impugnata la pena detentiva finale era determinata, a seguito della diminuzione per il rito abbreviato, in otto anni di reclusione, cosi' come nella sentenza annullata. E' irrilevante che con la sentenza impugnata sia stata inflitta anche la pena pecuniaria, non presente nel trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza annullata, dato che tale circostanza, come pure stabilito dalla giurisprudenza, non costituisce violazione del divieto di riforma peggiorativa laddove, come anche per questo aspetto riscontrabile nel caso esaminato, tanto dipenda dal fatto che la pena pecuniaria non era prevista per il reato precedentemente ritenuto piu' grave ma escluso con la decisione successiva, essendo invece contemplata nelle pena edittale del reato ritenuto piu' grave con quest'ultima decisione (Sez. 6, n. 15890 del 03/12/2013, dep. 2014, Lleshi, Rv. 261528). 3. Il motivo dedotto dal ricorrente (OMISSIS) sulla determinazione della pena e' infondato. E' in primo luogo insussistente la lamentata contraddittorieta' della quantificazione della pena in misura superiore al minimo edittale con il riconoscimento delle attenuanti generiche, alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza sull'indipendenza delle valutazioni che competono al giudice di merito nell'applicazione dei due istituti (Sez. 6, n. 1694 del 22/12/1998, dep. 1999, (OMISSIS), Rv. 212505). In questa prospettiva, il riferimento della sentenza impugnata alla necessita' di adeguare la pena all'entita' del fatto - indicato a sostegno del riconoscimento delle attenuanti generiche unitamente alla giovane eta' ed al comportamento processuale dell'imputato - seguendo nella successione delle argomentazioni della Corte territoriale la determinazione della pena-base nella misura di dodici anni di reclusione, evidenzia un'implicita valutazione di congruita' di detta pena nell'ambito della valutazione specificamente inerente alla fissazione della misura della sanzione su cui operare la riduzione ai sensi dell'articolo 62-bis c.p. per giungere alla pena finale complessivamente equa. Tanto esclude il dedotto vizio di carenza motivazionale sul punto. 4. Il motivo dedotto dal ricorrente (OMISSIS) sull'aumento di pena per la recidiva e' inammissibile. Nella sentenza di annullamento non si dava atto della proposizione di uno specifico motivo di ricorso sulla recidiva. La questione e' pertanto preclusa in questa sede. 5. Il motivo dedotto dal ricorrente (OMISSIS) sul trattamento sanzionatorio e' infondato. E' in primo luogo infondata, per le ragioni esposte al precedente punto 2 sull'analogo motivo dedotto dal ricorrente (OMISSIS), la deduzione di violazione del divieto di reformatio in pejus nella determinazione della pena-base per il reato di associazione mafiosa in misura superiore al minimo edittale a suo tempo irrogato per il reato associativo in materia di stupefacenti. Vale anche in questo caso, infatti, il richiamo al principio per il quale la ristrutturazione della continuazione, con la diversa individuazione del reato piu' grave nell'ambito della stessa, consente la determinazione in misura superiore alla precedente di singole componenti della pena ove, come nel caso di specie, la sanzione complessiva rispetti il limite di quella anteriormente inflitta. Per il resto, le censure di illogicita' della decisione, rispetto al ruolo subordinato e non autonomo del'imputato nel contesto associativo, sono generiche ove non si confrontano con quanto osservato nella sentenza impugnata sulla rilevanza, pur nell'ambito di un ruolo siffatto, dell'incarico di responsabile del riciclaggio e del reimpiego dei proventi dell'associazione nel settore immobiliare. 6. I motivi dedotti dal ricorrente (OMISSIS) sono fondati quanto alla confisca, e inammissibili nel resto. 6.1. Sull'affermazione di responsabilita' per il reato di cui al capo Q2, il ricorrente si limita a riproporre genericamente gli argomenti difensivi per i quali l'imputato non avrebbe partecipato al viaggio in Spagna con il (OMISSIS) e (OMISSIS), e neppure avrebbe accompagnato i coimputati all'aeroporto, opponendo non consentite valutazioni di merito alle considerazioni della sentenza impugnata, con le quali si osservava che precedentemente al viaggio l'imputato, il quale curava nell'ambito dell'associazione criminosa gli aspetti logistici relativi agli acquisti di stupefacente, aveva contatti telefonici con (OMISSIS), (OMISSIS) e con il (OMISSIS), e che il suo telefono cellulare risultava significativamente disattivato in concomitanza con la partenza per la Spagna. 6.2. Sul diniego delle attenuanti generiche, il ricorso propone non consentite valutazioni di merito sulla consistenza del precedente penale dell'imputato, ed e' comunque generico ove non considera l'ulteriore riferimento della sentenza impugnata alla gravita' dei fatti. 6.3. Sulla determinazione della pena, il rilievo del ricorrente sulla marginalita' del ruolo dell'imputato nell'associazione, oltre a risolversi anche in questo caso in valutazioni di merito, e' generico nel momento in cui si fonda solo sul numero degli episodi delittuosi contestati all' (OMISSIS) e non considera quanto osservato dalla Corte territoriale sulla cura degli aspetti logistici allo stesso affidata. 6.4. Sul diniego della continuazione con i fatti di fatti di cui ad una sentenza pronunciata dall'autorita' giudiziaria spagnola e riconosciuta in Italia, il ricorrente pone una questione gia' ritenuta infondata nella sentenza di annullamento, ove si rilevava a questo proposito, conformemente ai principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimita' (Sez. 5, n. 8365 del 26/09/2013, dep. 2014, Piscioneri, Rv. 259035; Sez. 1, n. 44604 del 24/10/2011, Figliolino, Rv. 251477), che l'articolo 12 c.p., comma 1, non indica il giudizio sull'eventuale continuazione fra le finalita' per le quali e' previsto il riconoscimento della sentenza penale straniera. La conseguente preclusione della questione in questa sede non e' superata dal riferimento del ricorso alla sopravvenuta previsione di cui al Decreto Legislativo n. 73 del 2016, articolo 3 in quanto la stessa nulla ha innovato in ordine alle finalita' per le quali e' consentita la valutazione della sentenza straniera, limitandosi a reiterare le indicazioni del citato articolo 12 sul punto e ad estendere la possibilita' di detta valutazione alle sentenze di condanna non riconosciute, purche' oggetto di informazioni nell'ambito delle procedure comunitarie di assistenza giudiziaria. 6.5. E' invece fondato, come premesso, il motivo dedotto sulla confisca. Nonostante la questione fosse compresa fra quelle per le quali veniva pronunciata la decisione di annullamento con rinvio, la stessa non era infatti oggetto di alcuna motivazione nella sentenza impugnata. Quest'ultima deve pertanto essere annullata nei confronti dell' (OMISSIS) con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo esame sul punto. 7. I motivi dedotti dal ricorrente (OMISSIS) nato nel (OMISSIS) sono inammissibili. 7.1. Sulla ritenuta capacita' processuale dell'imputato, il ricorrente ripropone genericamente le argomentazioni difensive sul contenuto della documentazione sopravvenuta alla sentenza di annullamento, non confrontandosi con quanto osservato nella sentenza impugnata in ordine all'irrilevanza di detta documentazione. La Corte territoriale osservava infatti che non vi erano le condizioni per rivedere, alla luce dei documenti prodotti, il giudizio formulato nella sentenza rescindente sulla ravvisabilita' nell'imputato, al piu', di un disturbo della personalita' non incidente sulla capacita' dello stesso, considerato che il (OMISSIS) partecipava attivamente alle udienze, colloquiava costantemente con i difensori, proponeva numerose istanze sulla liberta' e rendeva logiche dichiarazioni spontanee, in cui manteneva ferma la negazione della propria responsabilita' e si preoccupava che fossero considerate le impugnazioni dei familiari. 7.2. Sul trattamento sanzionatorio, la censura di violazione del divieto di reformatio in pejus, con riguardo alla conferma della pena inflitta in primo grado nonostante l'assoluzione per taluni reati e l'esclusione dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, articolo 7 per altri, e' generica rispetto alle osservazioni della sentenza impugnata, per le quali detta pena era stata irrogata nella misura di venti anni di reclusione solo per effetto dell'applicazione del criterio moderatore di cui all'articolo 78 c.p.. Tale considerazione implica la manifesta infondatezza dell'ulteriore questione posta dal ricorrente in ordine alla definitivita' del titolo esecutivo della pena inflitta in relazione al reato di partecipazione ad associazione diretta al traffico di stupefacenti, derivandone la formazione del giudicato su un minimo sanzionatorio comunque inderogabile, e pertanto immediatamente eseguibile secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimita' (Sez. 1, n. 12904 del 10/11/2017, dep. 2018, Centonze, Rv. 272610). La deduzione e' in ogni caso generica ove non considera il dirimente rilievo della Corte territoriale, per il quale la richiesta di revoca dell'ordine di esecuzione relativo alla pena in esame era oggetto di un separato procedimento. 8. Il motivo dedotto dal ricorrente (OMISSIS) nato nel (OMISSIS) sul trattamento sanzionatorio e' inammissibile. La censura si risolve nella generica affermazione per la quale la riduzione della pena, per effetto delle riconosciute attenuanti generiche, doveva essere operata nella massima estensione, omettendo di indicare alcuna ragione a sostegno di tale assunto, la cui mancanza era per l'appunto indicata nella sentenza impugnata per motivare la decisione. 9. Il motivo dedotto dal ricorrente (OMISSIS) sul trattamento sanzionatorio e' infondato. La determinazione della pena-base nella misura di otto anni di reclusione ed Euro ventisettemila di multa era immediatamente preceduta, nell'argomentazione della sentenza impugnata, dalla sottolineatura del quantitativo di trecento grammi di cocaina oggetto della cessione contestata. Tanto integra un'implicita valutazione di congruita' della pena rispetto all'entita' del fatto, che inevitabilmente si estende agli aumenti per la continuazione con riguardo ai reati satelliti, quantificati in misure varianti dai quattro ai sei mesi di reclusione. Deve pertanto escludersi la sussistenza del lamentato vizio di carenza motivazionale sul punto. 10. I motivi dedotti dal ricorrente (OMISSIS) sulla determinazione dell'aumento di pena per la continuazione sono infondati. La denunciata illegittimita' dell'aumento di pena di sei anni di reclusione per la continuazione con i reati di cui alla sentenza del Tribunale di Torre Annunziata del 3 dicembre 2007, in quanto risultante da aumenti per detti reati singolarmente superiori a quelli determinati per i delitti ritenuti satelliti nell'ambito della continuazione a suo tempo riconosciuta con detta sentenza, e' insussistente alla luce dei principi richiamati al precedente punto 2 sul ricorso del (OMISSIS). Anche in questo caso, infatti, la continuazione fra i fatti giudicati a Torre Annunziata era ristrutturata rispetto ad un reato-base diverso e piu' grave, quale quello di associazione diretta al traffico di stupefacenti ritenuto in questa sede; escludendosi pertanto che la Corte territoriale, nel determinare gli aumenti per quei fatti, divenuti satelliti del reato associativo, fosse vincolato dalle quantificazioni di pena operate nel giudizio del Tribunale torrese su detti aumenti, ove, come nel caso di specie, la sanzione complessiva rispettava il limite di quella anteriormente inflitta. Per le stesse ragioni non e' ravvisabile la dedotta carenza motivazionale sulla misura degli aumenti di pena in esame, implicitamente giustificata dal contesto associativo nel quale gli stessi venivano valutati con la sentenza impugnata. 11. I motivi dedotti dal ricorrente (OMISSIS) sul trattamento sanzionatorio sono fondati. Con la sentenza impugnata, nella determinazione della pena, si computava in primo luogo l'aumento di pena per la recidiva, che veniva viceversa disapplicata con la sentenza annullata; tale aumento doveva pertanto essere escluso. In secondo luogo, la Corte territoriale manteneva inalterati gli aumenti di pena per i reati satelliti, per i quali era specificamente contestata l'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, articolo 7 eliminata con la sentenza impugnata. Tale contestazione implica che la determinazione degli aumenti di pena, stabilita per detti reati con la sentenza annullata, teneva conto della presenza dell'aggravante; la cui esclusione doveva pertanto essere valutata nella rideterminazione degli aumenti in esame. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata nei confronti del (OMISSIS) con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo esame sui punti indicati. 12. Il motivo dedotto dal ricorrente (OMISSIS), sul rigetto dell'eccezione di omessa notifica dell'avviso di deposito della sentenza della Corte di appello di Napoli del 29 aprile 2013, e' inammissibile. Trattandosi, per come prospettata nel ricorso, di questione relativa alla mancata notifica dell'avviso nei confronti di uno solo dei due difensori dell'imputato, indicandosi il destinatario avv. (OMISSIS) quale codifensore del (OMISSIS) unitamente all'avv. (OMISSIS), l'eventuale omissione da' luogo, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimita', ad una nullita' a regime intermedio, sanata ove non tempestivamente dedotta (Sez. U, n. 39060 del 16/07/2009, Aprea, Rv. 244187; Sez. 5, n. 55800 del 03/10/2018, Intoppa, Rv. 274620; Sez. 6, n. 17267 del 16/04/2010, Gabriele, Rv. 247086). Come correttamente osservato nella sentenza impugnata, detta questione era pertanto preclusa in sede di rinvio; ne' la tassativita' di questa preclusione e' superabile alla luce dei rilievi del ricorrente sull'esame, nella sentenza di annullamento, di ricorsi dei coimputati (OMISSIS) e (OMISSIS) che si sostiene essere tardivi, in base alla considerazione meramente ipotetica, e comunque non oggetto di alcuna indicazione fra le disposizioni di rinvio, che tale esame fosse dovuto all'omessa notifica ai difensori di detti coimputati. 13. Il motivo dedotto dal ricorrente (OMISSIS) sulla determinazione della pena e' fondato. Con la sentenza di primo grado, l'imputato era condannato alla pena complessiva di nove anni di reclusione ed Euro quarantacinquemila di multa, indicandosi espressamente nella stessa sentenza che per i fatti di cui al presente procedimento era irrogata la pena di due anni di reclusione ed Euro cinquemila di multa quale aumento per la riconosciuta continuazione con i fatti di cui alla sentenza della Corte di appello di Catania del 16 marzo 2008. Come osservato dal ricorrente, tale aumento era il risultato di un computo per il quale la relativa porzione di pena, determinata nella misura-base di cui sopra, era aumentata per effetto dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, articolo 7 e ricondotta alla dimensione di partenza con l'applicazione della diminuente del rito abbreviato. Con la sentenza impugnata, esclusa l'aggravante, l'aumento di pena era determinato in due anni e tre mesi di reclusione ed Euro seimila di multa, prima della riduzione per il rito; ed era pertanto illegittimamente quantificato in misura superiore a quella stabilita con la sentenza di primo grado, pari per quanto detto a due anni di reclusione ed Euro cinquemila di multa precedentemente all'aumento per l'aggravante. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata nei confronti del (OMISSIS) con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo esame sulla determinazione della pena. 14. I motivi dedotti dal ricorrente (OMISSIS) sull'applicazione della recidiva sono fondati nei seguenti termini. Con la sentenza impugnata, la questione era ritenuta preclusa per essere stato l'annullamento con rinvio disposto unicamente sulla determinazione dell'aumento per la recidiva. Non vi e' dubbio, a questo proposito, che nel giudizio di rinvio non possono essere rivalutate questioni che costituiscono i presupposti della pronuncia di annullamento, come affermato dalla giurisprudenza di legittimita' (Sez. 6, n. 11641 del 20/02/2018, Ranzi, Rv. 272641). Nel caso di specie, l'annullamento sulla misura dell'aumento per la recidiva implicava senz'altro il riconoscimento della legittimita' dell'applicazione di tale aumento, e quindi il rigetto del relativo motivo di ricorso, sostenuto in base alla distanza temporale dei fatti qui giudicati rispetto alla precedente condanna. All'epoca in cui veniva pronunciata la sentenza di annullamento, tuttavia, era ancora vigente la previsione di obbligatorieta' dell'aumento per la recidiva per i reati di cui all'articolo 407 c.p.p., comma 2, lettera a), e quindi anche per il reato di associazione mafiosa contestato al (OMISSIS), di cui all'articolo 99 c.p., comma 5. Tale disposizione veniva pero' successivamente dichiarata illegittima con la sentenza della Corte costituzionale n. 185 del 8 luglio 2015. Il tema della facoltativita' dell'applicazione dell'aumento, e della sussistenza dei relativi presupposti per la posizione del (OMISSIS), non si poneva pertanto nell'orizzonte valutativo della sentenza rescindente; e sullo stesso, di conseguenza, non si e' formato il giudicato implicito viceversa ritenuto nella sentenza impugnata. Quest'ultima deve pertanto essere annullata nei confronti del (OMISSIS) con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo esame sulla sussistenza dei presupposti per l'applicazione in concreto dell'aumento di pena per la recidiva. 15. Al rigetto dei ricorsi di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Alla declaratoria di inammissibilita' dei ricorsi di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), (OMISSIS) nato nel (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che, valutata l'entita' della vicenda processuale, appare equo determinare in Euro tremila. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di (OMISSIS), limitatamente alla confisca, inammissibile nel resto il ricorso, e nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) limitatamente al trattamento sanzionatorio, e rinvia per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli; rigetta i ricorsi di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), che condanna al pagamento delle spese processuali; dichiara inammissibili i ricorsi di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) classe (OMISSIS), (OMISSIS) classe (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno a favore della Cassa delle ammende.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. VALITUTTI Antonio - Presidente Dott. MELONI Marina - Consigliere Dott. PARISE Clotilde - Consigliere Dott. MARULLI Marco - Consigliere Dott. CAIAZZO Luigi - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso 4026/2017 proposto da: (OMISSIS); (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato (OMISSIS), con procura in calce al ricorso; - ricorrenti - contro Procura Generale presso la Corte Appello di Genova; Procura Generale presso la Corte di Cassazione; - intimati - avverso il decreto della CORTE D'APPELLO di GENOVA, del 19/07/2016; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/02/2019 dal Cons. CAIAZZO ROSARIO; lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per l'inammissibilita' del ricorso, con le conseguenze di legge. FATTI DI CAUSA Con ricorso al giudice tutelare di Savona, in data 30.7.15, (OMISSIS), moglie di (OMISSIS), chiese la sua nomina quale amministratore di sostegno del (OMISSIS), a norma degli articoli 404 c.c. e ss., essendo gia' stata designata nella funzione dal marito con scrittura privata del 20.12.14 e con procura speciale del 12.1.15, autenticata. Il giudice respinse il ricorso con decreto dell'1.8.15, ritenendo il (OMISSIS) "allo stato pienamente capace d'intendere e di volere". (OMISSIS) e (OMISSIS) proposero reclamo, rigettato dalla Corte d'appello di Genova con ordinanza del 19.7.16 che, nel ribadire la valutazione di piena capacita' del (OMISSIS), osservo' come il diritto di rifiutare determinate terapie fosse al di fuori dell'ambito d'applicazione dell'istituto dell'amministrazione di sostegno, trattandosi di diritto azionabile autonomamente in giudizio e non tutelabile, in via indiretta, mediante l'istituto in questione. (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. Non si sono costituite le Procure Generali, presso la Corte d'appello di Genova e la Corte di Cassazione, alle quali il ricorso e' stato notificato. RITENUTO CHE: Con il primo motivo e' denunziata violazione e falsa applicazione dell'articolo 404 c.c., articolo 405 c.c., comma 5, n. 4, articolo 406 c.c., comma 1, articoli 407, 409, 410 e 414 c.c., non avendo la Corte d'appello valutato correttamente le norme invocate in ordine ai presupposti della nomina dell'amministratore di sostegno, cioe': infermita' o menomazione psichica o fisica e l'incidenza di tali condizioni sull'impossibilita' del soggetto di provvedere ai propri interessi. In particolare, i ricorrenti si dolgono che il giudice d'appello abbia ritenuto che il requisito soggettivo di cui all'articolo 404 c.c. riguardi uno stato di totale incapacita' d'intendere e di volere, mentre la norma in questione contempla il concetto di "infermita'", ossia una malattia o patologia fisica o mentale, non necessariamente involgente una totale incapacita' di provvedere ai propri interessi, che puo' anche essere parziale e temporanea. Con il secondo motivo e' dedotto l'omesso esame di un fatto decisivo, quale lo stato di salute del (OMISSIS) e l'incidenza della patologia da cui e' affetto sull'impossibilita' a provvedere ai propri interessi e, dunque, la violazione dell'articolo 407 c.c. in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5. Al riguardo, i ricorrenti lamentano che la Corte d'appello non abbia esaminato la documentazione medica prodotta e non abbia tenuto conto del fatto che la patologia diagnosticata (Malformazione artero-venosa- MAV) determinava l'impossibilita' del (OMISSIS) di comunicare la propria decisione, consistente in una sostanziale obiezione di coscienza, di non sottoporsi alle trasfusioni di sangue nel corso delle crisi emorragiche da cui era colpito, trasfusioni ritenute necessarie per la cura. In particolare, i ricorrenti si dolgono che il giudice di secondo grado, senza neppure sentire il (OMISSIS)- comparso in appello- abbia ritenuto che la domanda di nomina dell'amministratore di sostegno riguardava un'eventualita' futura e non invece attuale (cioe' l'impossibilita' di opporsi alle trasfusioni emetiche a seguito delle crisi emorragiche che comportavano la perdita dello stato cosciente). Con il terzo motivo e' denunziata violazione e falsa applicazione dei suddetti articoli 404 c.c. e ss., nonche' degli articoli 2, 3, 13, 19, 24 e 32 Cost., articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, 1, 5, 6, 8, 9 e 14 della Convenzione sui Diritti Umani e la Biomedicina, avendo la Corte territoriale erroneamente ritenuto che l'amministrazione di sostegno non fosse la misura adeguata ed idonea per soddisfare il diritto fatto valere dai ricorrenti, in quanto l'unico modo possibile di informare i medici circa il rifiuto di trasfusioni mediche consiste nell'impartire direttive anticipate che, appunto, richiedono la nomina di un rappresentante legale- nella persona dell'amministratore di sostegno- che esprimerebbe tale diniego nei casi in cui il (OMISSIS) fosse attinto da crisi emorragiche, cagionate dalla MAV, con conseguente perdita della coscienza del paziente. In particolare, i ricorrenti lamentano che la diversa interpretazione adottata dai giudici di merito violi le richiamate norme costituzionali in ordine al diritto di rifiutare le cure trasfusionali nella piena consapevolezza delle conseguenze prospettate di tale omissione. Con il quarto motivo e' denunziata la violazione degli articoli 3 e 24 Cost., nonche' dell'articolo 13 della Convenzione Europea dei diritti umani, in quanto la decisione impugnata ha precluso ai ricorrenti un rimedio effettivo per la grave violazione subita dei suoi diritti all'integrita' fisica e alla dignita' umana. I quattro motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente per la loro evidente connessione, sono fondati. I ricorrenti lamentano che la Corte d'appello, nel pronunciarsi sul reclamo ex articolo 739 c.p.c., avverso il decreto del giudice tutelare del Tribunale di Savona, che aveva disatteso l'istanza di nomina di (OMISSIS) ad amministratore di sostegno del marito (OMISSIS), avrebbe operato una non corretta applicazione delle disposizioni in tema di amministrazione di sostegno (articoli 404 c.c. e ss.), ritenendo non applicabile l'istituto in considerazione della ritenuta capacita' di intendere e di volere del (OMISSIS), e reputando che il diritto di rifiutare determinate terapie fosse al di fuori dell'ambito di applicazione dell'istituto dell'amministrazione di sostegno, trattandosi di un diritto azionabile autonomamente e direttamente in giudizio, e non tutelabile, in via indiretta, mediante tale forma di protezione. Secondo i ricorrenti la pronuncia impugnata si sarebbe, inoltre, posta in palese contrasto con i principi costituzionali (articoli 2, 3, 19, 24 e 32 Cost.), e con quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (articoli 8, 9 e 13), laddove garantiscono il diritto al rispetto della vita privata e familiare, la liberta' di coscienza e di religione, nonche' il diritto ad un ricorso giurisdizionale effettivo dinanzi ad un giudice nazionale. Cio' in quanto la decisione impugnata avrebbe ingiustamente disconosciuto al (OMISSIS) il diritto di avvalersi - in mancanza di una norma di legge che imponga al medico il rispetto delle direttive anticipate, dal medesimo espresse con scrittura del 20 dicembre 2014 - dell'amministrazione di sostegno per far valere, mediante la persona designata (la moglie), la sua granitica ed irrevocabile volonta', in quanto testimone di Geova, di non essere sottoposto - anche in ipotesi di morte certa ed imminente - a trasfusioni a base di emoderivati. Tanto premesso, in via pregiudiziale, va osservato che il ricorso per cassazione sia ammissibile, essendo certamente ricorribile per cassazione - per la sua incidenza in maniera definitiva su diritti personalissimi - il decreto della Corte d'appello che nega l'apertura dell'amministrazione di sostegno (Cass., 20/07/2016, n. 14983), essendo ricorribili, ex articolo 720 bis c.p.c., u.c., tutti i decreti aventi carattere decisorio - come quello che apre o denega l'apertura del procedimento in questione - poiche' assimilabili, per loro natura, alle sentenze di interdizione ed inabilitazione (Cass., 28/09/2017, n. 22693; Cass., 20/04/2018, n. 9839). Ancora in via pregiudiziale, non rileva, ai fini dell'ammissibilita' del ricorso per amministrazione di sostegno, la sopravvenuta L. 22 dicembre 2017, n. 219, poiche' entrata in vigore solo il 31 gennaio 2018, ossia dopo la proposizione della domanda di amministrazione di sostegno da parte dei ricorrenti, e non avendo la legge efficacia retroattiva. Ed invero, l'unica disposizione transitoria, contenuta nell'articolo 6, dispone che "le disposizioni della medesima legge" si applicano esclusivamente "ai documenti atti ad esprimere le volonta' del disponente in merito ai trattamenti sanitari, depositati presso il comune di residenza o presso un notaio prima della data di entrata in vigore della presente legge", laddove, nella specie, le "direttive anticipate" del (OMISSIS) erano da questi personalmente conservate e portate con se' dal medesimo, ai fini di mostrarle ai medici ad ogni ricovero in ospedale (p. 21 del ricorso). Tutto cio' premesso, il collegio osserva che non possa essere condiviso l'assunto della Corte d'appello, laddove afferma che il presupposto essenziale dell'amministrazione di sostegno, costituito dall'impossibilita' del beneficiario, anche parziale e temporanea, di provvedere ai propri interessi, per effetto di una infermita' o di una menomazione fisica e/o psichica, sarebbe - nella specie insussistente. E cio' sulla base del mero rilievo, evidenziato nel provvedimento impugnato, che "il (OMISSIS), comparso personalmente all'odierna udienza, e' apparso allo stato pienamente capace di intendere e di volere". Va osservato, al riguardo, che l'applicazione dell'amministrazione di sostegno presuppone la sussistenza di una ipotesi nella quale una persona sia priva, in tutto o in parte, di autonomia - non solo a cagione di una infermita' di mente, come nel caso dell'interdizione, ai sensi dell'articolo 414 c.c. - bensi' anche per una qualsiasi altra "infermita'" o "menomazione fisica", anche parziale o temporanea, che lo ponga nell'impossibilita' di provvedere ai propri interessi. Per il che, il giudice - in siffatta ipotesi, corrispondente allo schema normativo di cui all'articolo 404 c.c. - e' tenuto, in ogni caso, a nominare un amministratore di sostegno poiche' la discrezionalita' attribuita dalla norma ha ad oggetto solo la scelta della misura piu' idonea (amministrazione di sostegno, inabilitazione, interdizione), e non anche la possibilita' di non adottare alcuna misura, che comporterebbe la privazione, per il soggetto incapace, di ogni forma di protezione dei suoi interessi, ivi compresa quella meno invasiva (Cass., 18/06/2014, n. 13929; Cass., 26/10/2011, n. 22332). Ne discende che soltanto la persona che si trovi nella piena capacita' psico-fisica non e' legittimata a richiedere l'amministrazione di sostegno, presupponendo l'attivazione della procedura la sussistenza della condizione attuale d'incapacita', in quanto l'intervento giudiziario non puo' essere che contestuale al manifestarsi dell'esigenza di protezione del soggetto (Cass., 20/12/2012, n. 2370). Ora, nel caso concreto, la Corte territoriale - nel fondare il diniego di apertura della procedura in questione sull'erroneo presupposto della sussistenza della capacita' di intendere e di volere del beneficiario - non ha considerato la gravissima patologia della quale il (OMISSIS) e' portatore (MAV- malformazione artero-venosa) che - come si desume dalle diverse certificazioni mediche trascritte nel ricorso, ed a suo tempo sottoposte al giudice del reclamo - comportano emorragie continue, con conseguente "instaurarsi di shock emorragico con rapida perdita della coscienza e compromissione delle funzioni vitali", e con gravi difficolta' nell'eloquio; tanto che, stando alle predette certificazioni, il medesimo si esprime - e non sempre ci riesce - esclusivamente mediante computer (cfr. relazioni dei Dott. (OMISSIS), Ospedale (OMISSIS), e (OMISSIS), otorinolaringoiatra, in atti). Da tali certificazioni si evince, altresi', che il (OMISSIS) e' ben consapevole del rischio di morte che corre in caso di shock emorragico violento, e che - essendo testimone di Geova fin dal 1982 - nell'evenienza tali crisi, in special modo se sedato, non potrebbe in alcun modo manifestare il proprio dissenso alla terapia trasfusionale (cfr. relazione del Dott. (OMISSIS), ricercatore universitario, Dott. (OMISSIS), Ospedale (OMISSIS), in atti). Inoltre, deve ritenersi che la Corte di appello sia incorsa anche nella denunciata violazione dell'articolo 407 c.c., nella parte in cui impone al giudice di "sentire personalmente la persona cui il provvedimento si riferisce", risultando - per converso - dall'esame della epigrafe e dal contenuto del decreto impugnato, che la Corte si e' limitata a sentire soltanto la (OMISSIS) ed il difensore, mentre non ha in alcun modo sentito il (OMISSIS), accontentandosi del fatto che il medesimo fosse comparso personalmente. Da quanto suesposto - contrariamente all'assunto della Corte d'appello - deriva dunque la ineludibilita' dell'apertura dell'amministrazione di sostegno a favore del (OMISSIS). Tutto cio' premesso, e' del tutto evidente che, nel caso di specie, la designazione della (OMISSIS) come amministratrice di sostegno del marito e' stata compiuta dal (OMISSIS) sulla base del paradigma normativo fissato nell'articolo 408 c.c., comma 1, che prevede che "l'amministratore di sostegno puo' essere designato dallo stesso interessato in previsione della propria eventuale futura incapacita'". E cio' al fine precipuo di esprimere, in caso di impossibilita' del marito, il dissenso alla somministrazione di trasfusioni a base di emoderivati. Tanto si evince dalla ragione essenziale posta a fondamento della istanza - ai sensi dell'articolo 407 c.c., comma 1, secondo cui il ricorso deve contenere, tra l'altro, "le ragioni per cui si richiede la nomina dell'amministratore di sostegno" - consistente proprio nel palesare ai sanitari tale rifiuto - espresso dal (OMISSIS) nelle direttive anticipate - di essere sottoposto a trasfusioni, per motivi religiosi. (v. ricorso, p. 6). Ebbene, non puo' revocarsi in dubbio che tale designazione anticipata non abbia la mera funzione della scelta del soggetto cui, ove si presenti la necessita', deve rivolgersi il provvedimento di nomina del giudice tutelare (salvo il limitato potere di deroga dalla designazione previsto dalla norma stessa "in presenza di gravi motivi")) come affermato da questa Corte con sentenza n. 23707/12 secondo cui, in un caso di ritenuta probabile futura incapacita' del ricorrente, ha subordinato la nomina dell'amministratore di sostegno alla sussistenza della condizione attuale d'incapacita' del designante. Invero, il collegio, dissentendo dalle cui conclusioni cui e' pervenuta la suddetta sentenza- ed aderendo invece al principio affermato da Cass., 07/06/2017, n. 14158- ritiene che la designazione anticipata in questione abbia anche la finalita' di poter impartire delle direttive, quando si e' nella pienezza delle proprie facolta' cognitive e volitive, sulle decisioni sanitarie o terapeutiche da far assumere all'amministratore di sostegno designato, qualora si prospetti tale nuova condizione del designante. Invero, l'articolo 408 c.c. - il quale ammette la designazione preventiva dell'amministratore di sostegno da parte dello stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacita', mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata - e' espressione del principio di autodeterminazione della persona, in cui si realizza il valore fondamentale della dignita' umana, ed attribuisce quindi rilievo al rapporto di fiducia interno fra il designante e la persona prescelta, che sara' chiamata ad esprimerne le intenzioni in modo vincolato, anche per quel che concerne il consenso alle cure sanitarie. Nel caso concreto la scelta del soggetto e' eziologicamente collegata alle direttive espresse con la suddetta scrittura privata in ordine alla negazione del consenso ai trattamenti medici futuri fondati sulle trasfusioni di sangue, negazione che ha costituito la ragione fondante dell'istanza stessa di apertura dell'amministrazione di sostegno e risulta ad essa strettamente ed inscindibilmente legata. Al riguardo, questa Corte ha gia' da tempo affermato- muovendo dalla considerazione che l'articolo 32 Cost. il quale, dopo aver espresso il principio generale per cui "la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettivita', e garantisce cure gratuite agli indigenti" precisa che "nessuno puo' essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge" e che, in ogni caso, "la legge non puo' in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana" -che in tema di attivita' medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite allorche' da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c'e' spazio nel quadro dell'"alleanza terapeutica" che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di cio' che e' bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una strategia della persuasione, perche' il compito dell'ordinamento e' anche quello di offrire il supporto della massima solidarieta' concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c'e', prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorche' il rifiuto abbia tali connotati non c'e' possibilita' di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Ne' il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, puo' essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, (omicidio del consenziente, articolo 579 c.p., o aiuto al suicidio, articolo 580 c.p.), ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacche' tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. Il consenso informato ha come correlato la facolta' non solo di scegliere tra le diverse possibilita' di trattamento medico, ma - atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in se' e guarda al limite del "rispetto della persona umana" in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralita' della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non piu' intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di se', anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) - altresi' di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale (Cass. 16/10/2007, n. 21748). Cio' assume connotati ancora piu' forti, degni di tutela e garanzia, laddove il rifiuto del trattamento sanitario rientri e sia connesso all'espressione di una fede religiosa il cui libero esercizio e' sancito dall'articolo 19 Cost.. In tale prospettiva vanno collocati i disposti dell'articolo 408 c.c., laddove prevede che la scelta dell'amministratore di sostegno avvenga con "esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona", ed il successivo articolo 410 c.c., comma 1, che impone al predetto di agire tenendo conto dei bisogni e delle "aspirazioni" del beneficiario, a maggior ragione se questi le abbia gia' dichiarate con l'atto di designazione proprio in previsione della sua futura incapacita'. La dignita' umana costituisce il valore fondamentale a base dei principi suesposti, e su di essa converge il reticolo delle fonti giuridiche interne e sovranazionali, rappresentate dagli articoli 2, 3 e 35 della Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, vincolante dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, dai principi di cui agli articoli 5, 9 e 21 della Convenzione di Oviedo - che impongono di tener conto, a proposito di un intervento medico, dei desideri del paziente non in grado di esprimere la sua volonta' -, dall'articolo 38 del Codice Deontologico nella formulazione del 2006, che impone al medico di tener conto di quanto precedentemente manifestato dal paziente in modo certo e documentato, dalla Risoluzione del Parlamento Europeo del 18 dicembre 2008 che reca raccomandazioni alla Commissione sulla protezione giuridica degli adulti. Ancor piu' significativa e' la Convenzione di New York ratificata con L. 3 marzo 2009, n. 18, che nel preambolo riconosce l'importanza per le persone con disabilita' nell'autonomia ed indipendenza individuale della liberta' di scegliere le cure mediche, e ne promuove, garantisce e protegge il pieno godimento dei diritti umani e delle liberta' fondamentali, ed agli articoli 3, 12 e 17 garantisce il rispetto della dignita' del disabile, attraverso l'eliminazione di barriere che ne determinino disuguaglianze, il rispetto dell'integrita' fisica e l'esercizio effettivo della capacita' giuridica, imponendo agli Stati d'assicurare tutte le misure relative (Cass., 20/12/2012, n. 23707). In tal senso si e', del resto, espressa anche la giurisprudenza Europea, secondo la quale "In materia di cure mediche, il rifiuto di accettare un trattamento particolare potrebbe, in maniera ineluttabile, portare a un esito fatale, ma l'imposizione di un trattamento medico senza il consenso del paziente se adulto e sano di mente si tradurrebbe in una violazione dell'integrita' fisica dell'interessato che puo' mettere in discussione i diritti protetti dall'articolo 8 § 1 della Convenzione". Come ha ammesso la giurisprudenza interna, una persona puo' rivendicare il diritto di esercitare la propria scelta di morire rifiutandosi di acconsentire a un trattamento che potrebbe produrrel'effetto di prolungare la sua vita." (Corte EDU, 29/04/2002, Pretty c. R.U.) Ed ancora, il diritto di un individuo di decidere in quale modo e in quale momento la sua vita deve terminare, a condizione che egli sia in grado di formare liberamente la propria volonta' a questo proposito e di agire di conseguenza, e' uno dei corollari del diritto al rispetto della sua vita privata (Corte EDU, 20/01/2011, Haas c. Svizzera). Tali principi sono stati, da ultimo, ribaditi dalla Grande Camera: "La Corte rammenta anzitutto che il paziente, anche se non in grado di esprimere la propria volonta', e' colui il cui consenso deve rimanere al centro del processo decisionale, che ne e' il soggetto e autore principale. La "Guida al processo decisionale nell'ambito del trattamento medico nelle situazioni di fine vita" del Consiglio d'Europa raccomanda che il paziente sia inserito nel processo decisionale attraverso le volonta' da lui precedentemente espresse, di cui prevede che possano essere state comunicate oralmente a un famigliare o a un congiunto - paragrafo 63- (Corte CEDU, 05/06/2016, Grande Camera, Lambert c. Francia). Alla stregua di tale quadro normativo, nazionale e sovranazionale, e giurisprudenziale di riferimento, e' evidente che si palesa erronea l'affermazione della Corte d'appello, secondo cui l'amministrazione di sostegno - in quanto finalizzata solo a consentire al beneficiario la cura dei propri interessi, alla quale e' impedito a causa di una malattia o una menomazione psichica fisica - non puo' essere funzionale alla tutela del diritto soggettivo a rifiutare determinati trattamenti terapeutici, trattandosi di un diritto azionabile autonomamente e direttamente in giudizio, e non tutelabile, in via indiretta, mediante tale forma di protezione. Al contrario, deve ritenersi che - attraverso la scelta dell'amministratore da parte del beneficiario - sia possibile esprimere, nella richiesta di amministrazione di sostegno - ai sensi del combinato disposto degli articoli 406 e 408 c.c. - proprio l'esigenza che questi esprima, in caso di impossibilita' dell'interessato, il rifiuto di quest'ultimo di determinate terapie; tale esigenza rappresenta la proiezione del diritto fondamentale della persona di non essere sottoposto a trattamenti terapeutici, seppure in via anticipata, in ordine ad un quadro clinico chiaramente delineato. Peraltro, la motivazione adottata dalla Corte d'appello appare anche contraddittoria nell'affermare che la procedura diretta alla nomina dell'amministratore di sostegno non sia funzionale alla tutela del diritto avente ad oggetto il rifiuto di essere sottoposto ad un trattamento terapeutico, e che essa richiederebbe invece l'esercizio di un'autonoma azione di accertamento, in quanto tale azione, nella fattispecie in esame, seppure esperita dal (OMISSIS), non garantirebbe, di per se', la realizzazione del diritto fatto valere, poiche', nell'ipotesi dell'evenienza delle paventate crisi emorragiche, egli sarebbe verosimilmente privo della capacita' di agire e necessiterebbe comunque della nomina di un rappresentante legale- anche nella qualita' di amministratore di sostegno- il quale, in nome e per conto dell'interessato, esprima il diniego attuale del trattamento fondato su trasfusioni ematiche. In definitiva, il collegio ritiene che l'interpretazione sopra prospettata del combinato disposto degli articoli 408 e 410 c.p.c., debba imporsi poiche' conforme ad un canone ermeneutico costituzionalmente orientato- riguardo alle esigenze sottese agli articoli 2, 19 e 32, Cost. - in linea peraltro con il citato orientamento della giurisprudenza della CEDU. Per quanto esposto, il decreto impugnato va cassato, in relazione ai quattro motivi accolti, con rinvio alla Corte territoriale, anche per le spese del grado di legittimita'. P.Q.M. La Corte accoglie i quattro motivi del ricorso e cassa il decreto impugnato. Rinvia alla Corte d'appello di Genova, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimita'.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SARNO Giulio - Presidente Dott. ESPOSITO Aldo - Consigliere Dott. CENTOFANTI Francesco - Consigliere Dott. REYNAUD Carlo - Consigliere Dott. ESPOSITO Aldo - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), n. il (OMISSIS); avverso la sentenza n. 2/2017 della Corte di assise di appello di Bologna del 26/04/2017; visti gli atti, la sentenza e il ricorso; udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dott. Aldo Esposito; udite le conclusioni del Procuratore generale, in persona della dott.ssa Antonietta Picardi, che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito per il ricorrente l'avv. (OMISSIS), che ha chiesto l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di assise di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del G.U.P. del Tribunale di Ferrara del 12/07/2016, emessa a seguito di giudizio abbreviato, ha ridotto ad anni nove e mesi quattro la pena inflitta a (OMISSIS) per il reato di cui all'articolo 575 c.p., (omicidio della moglie Tassinari Carmen con concessione delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla contestata aggravante di cui all'articolo 577 c.p. - in (OMISSIS)). Dalle risultanze istruttorie e' emerso che (OMISSIS) e' morta dissanguata per la profonda coltellata infertale dal marito a mezzo di un coltellaccio da cucina, della lunghezza complessiva di 40 cm. e della lunghezza della lama di cm. 24. La lesione interessava il peritoneo, un'ansa intestinale, il retroperitoneo ed il rene. La lesione provocava uno shock emorragico dovuto alla lacerazione dell'aorta addominale e della vena cava inferiore, produttiva di massiva emorragia acuta. Emergevano altre due lesioni da taglio, coeve a quelle dell'addome, nella regione clavicolo-sternale destra e sotto la mandibola sinistra, prodotte verosimilmente dalla stessa arma. L'omicidio era commesso da (OMISSIS), ottantunenne, che si giustificava sostenendo di versare in stato di crisi di disperazione sotto lo stress dell'estenuante assistenza della consorte sofferente, che versava in gravissime condizioni di salute, in stato di invalidita'. 1.1. La Corte territoriale ha confutato gli elementi prospettati dal ricorrente con l'intento di sminuire il proprio grado di responsabilita': - la dedotta alterazione della capacita' di intendere e di volere era sconfessata dalla buona condizione psico-fisica dell'imputato, descritta dal perito ed attestata da inquirenti, soccorritori e familiari, ai quali aveva rievocato lucidamente l'accaduto; la mancanza di oscuramenti della coscienza relativamente al fatto, non accompagnata da cedimenti psicologici o richieste di aiuto contro la depressione, lasciavano condividere la preferenza del G.U.P. per le conclusioni peritali rispetto all'obnubilamento, ancorche' parziale, della capacita' ipotizzata dal consulente dell'imputato; l'oscuramento isolato dalla coscienza per pochi attimi, evidenziato dalla difesa, rappresentava un elemento troppo spurio dal punto di vista psichiatrico in mancanza di documentazione medica che lo accreditasse; non ricorrevano, pertanto, i presupposti per applicare la diminuente di cui all'articolo 89 c.p.; - il presunto intento di porre fine alle sofferenze di (OMISSIS) era smentito dall'ammissione dell'imputato di aver agito per disperazione e sfinimento provocati dagli eccessivi oneri di assistenza della moglie, dalla mancata condivisione dell'eutanasia da parte della medesima e dalle modalita' esecutive impietose (costituenti cause dell'emorragia mortale sicuramente all'origine della sofferenza della donna), per cui non sussistevano gli estremi della circostanza attenuante di cui all'articolo 61 c.p., n. 1; si doveva escludere l'esistenza di un movente pietistico dell'imputato, il quale ricorreva ad uno strumento letale particolarmente doloroso e non a mezzi alternativi meno invasivi; l'imputato, peraltro, non sosteneva di aver chiesto aiuto a terzi per fronteggiare la situazione e di aver ricevuto un rifiuto; - i figli di (OMISSIS) avevano rifiutato l'offerta del padre, peraltro, informale, dell'unica proprieta' immobiliare, per cui sfumava il conflitto di interesse tra offensore ed offesi, costituente presupposto indefettibile dell'effettivita' del risarcimento, con conseguente esclusione dell'attenuante di cui all'articolo 62 c.p., n. 6; - la genericita' e l'inattualita' delle manifestazioni della voglia materna di morte riferite dai figli, la mancanza di un accenno al riguardo nelle prime parole pronunziate dall'imputato agli inquirenti e la minorata difesa psichica della vittima impedivano di inquadrare la vicenda criminosa nell'ipotesi piu' lieve di omicidio del consenziente ex articolo 579 c.p.; la vittima all'epoca del fatto era priva di lucidita' e, in quelle condizioni, non poteva concepire come porre fine alla propria vita; - la prova che l'omicidio era scaturito per la disperazione e lo stress non consentiva di configurare l'errore di fatto ex articolo 47 c.p., o l'errore sul consenso della vittima ex articolo 59 c.p.; senza nessuna richiesta della vittima e senza una qualificazione della personalita' della vittima in relazione al valore vita - morte e ai profili religiosi o ideologici, non si poteva accreditare un'ipotesi di errore di (OMISSIS) nell'ipotizzare che la moglie intendesse morire; - per il giudice di primo grado, le modalita' esecutive, l'intensita' del dolo e la sofferenza causata alla vittima non permettevano di applicare il minimo di pena; la pena era poi ridotta in sede di appello in considerazione della vicenda umana, della collaborazione con gli inquirenti e dell'assenza di precedenti penali dell'imputato. 2. (OMISSIS), a mezzo del proprio difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di assise di appello, proponendo sei motivi di impugnazione. 2.1. Violazione dell'articolo 62 c.p., n. 6. Si sostiene che l'offerta di risarcimento era congrua, in quanto consistente nella dazione dell'unico bene immobile di proprieta' di (OMISSIS) e che era stato erroneamente valutato negativamente il punto di vista delle persone offese. La Corte di assise di appello avrebbe dovuto valutare la congruita' e la serieta' dell'offerta: le persone offese si erano limitate a non accettare che il padre si spogliasse del suo unico bene, avendo compreso le ragioni dell'insano gesto. 2.2. Vizio di motivazione in riferimento all'articolo 62 c.p., n. 6. Si sostiene che la Corte territoriale non ha assolutamente motivato in relazione alle caratteristiche di serieta', chiarezza, concretezza e congruita' dell'offerta di risarcimento. 2.3. Violazione dell'articolo 89 c.p.. Si afferma che la diminuente del vizio parziale di mente poteva essere concessa in quanto - come evidenziato dal perito di parte dr. (OMISSIS) - l'alterazione dello stato psichico di (OMISSIS) aveva determinato una grave diminuzione della sua capacita' di autodeterminazione nei termini di una corretta valutazione delle proprie azioni e delle loro conseguenze. La perizia d'ufficio del dr. (OMISSIS) e la consulenza di parte erano perfettamente sovrapponibili e divergevano solo in relazione alle conclusioni. In entrambe si dava atto della depressione di (OMISSIS), del grave carico emotivo derivante dalla forte sofferenza della moglie e dall'ininterrotta e quotidiana assistenza prestatale. Anche uno squilibrio, non irreversibile, ma indotto da un temporaneo e transitorio obnubilamento delle facolta' psichiche poteva comportare la diminuzione della capacita' di intendere e di volere, come confermato dalle Sezioni Unite della Corte Suprema (Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005, Raso). 2.4. Vizio di motivazione in relazione all'articolo 62 c.p., n. 1. Si rileva che, nell'escludere la circostanza in questione, la Corte di merito aveva erroneamente valutato in senso negativo le modalita' cruente, confondendo la condotta col movente dell'omicidio. Anche qualora fosse esistita una componente lato sensu egoistica di (OMISSIS), egli comunque aveva agito per una motivazione altruistica, evincibile dalla manifestata condizione di stanchezza psicologica e dalla soddisfazione per la fine delle sofferenze della moglie. 2.5. Violazione dell'articolo 62 c.p., n. 1. Si osserva che la circostanza attenuante in esame puo' essere concessa in caso di eutanasia, costituendo tale principio un valore presso una significativa parte dei consociati. 2.6. Vizio di motivazione per il mancato riconoscimento dell'ipotesi attenuata di cui all'articolo 579 c.p.. Si deduce che, all'epoca in cui era ancora in possesso delle proprie facolta' intellettive, (OMISSIS) aveva piu' volte manifestato il desiderio di morire, piuttosto che di vivere in una condizione di grave invalidita'. Il lungo rapporto tra i coniugi, perdurante da sessanta anni, poteva aver indotto l'imputato a interpretare il suo desiderio, sebbene non espresso a parole. Egli, pertanto, aveva agito nella convinzione della validita' del consenso espresso dalla moglie alla propria uccisione e ricorreva l'ipotesi di cui agli articoli 47 o 59 c.p.. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso e' fondato, limitatamente al diniego della circostanza attenuante di cui all'articolo 62 c.p., n. 6, ed e' infondato nel resto. I plurimi motivi di impugnazione vanno trattati secondo ordine logico diverso da quello esposto in ricorso. 2. In riferimento al terzo motivo di ricorso, si censura l'ingiustificato diniego della diminuente del vizio parziale di mente ai sensi dell'articolo 89 cod. pen.. I giudici di primo grado hanno descritto dettagliatamente (OMISSIS) come persona lucidissima, anche nell'interazione col prossimo, con memoria efficiente, capacita' affettiva ampiamente articolata e capacita' cognitiva normorappresenta-ta; hanno disatteso le conclusioni del perito di parte dr. (OMISSIS), rilevando l'inesistenza di dati documentali di tipo clinico, a supporto di un giudizio di infermita'; con la ricostruzione dei fatti operata, l'imputato descriveva le emozioni provate nei momenti antecedenti all'omicidio della moglie (OMISSIS), circostanza idonea ad escludere un raptus o un turbamento emotivo tale da alterare la capacita' di intendere e di volere (vedi pag. 5 e ss. sentenza di primo grado). La Corte territoriale ha condiviso tali valutazioni, rafforzandole mediante il richiamo alla mancanza di oscuramenti di coscienza di (OMISSIS), alla vita efficiente anche in vecchiaia scevra da cedimenti psicologici e alla mancanza di sue richieste di sostegno psicologico per il proprio stato di depressione. La decisione impugnata, pertanto, da' adeguato conto del contrasto tra le varie opinioni scientifiche (perito/consulente di parte) ed esprime adesione ai risultati della perizia d'ufficio del dr. (OMISSIS), sottolineando la completezza dell'accertamento peritale e lo stato di particolare sofferenza emotiva, non in grado tuttavia di elidere o di ridurre grandemente la capacita' di intendere e di volere al momento del fatto. Da cio' puo' dedursi agevolmente che, pur attraverso una tecnica espositiva obiettivamente sintetica (ma non per questo viziata), la Corte territoriale ha mostrato ampia conoscenza e considerazione dei temi trattati, pervenendo ad un giudizio di eaustivita' dell'elaborato peritale. Deve poi escludersi il travisamento delle valutazioni del perito d'ufficio, in quanto l'elaborato tecnico da lui redatto, aveva effettivamente considerato gli ipotetici dati favorevoli a (OMISSIS) (la sua depressione e il suo grave carico emotivo); esso, pero', non attribuisce ai medesimi, con congrua opinione scientifica, il "valore" ipotizzato dal consulente di parte. In tal caso, infatti, non puo' parlarsi di "travisamento" (concetto che richiede una obiettiva difformita' tra il significato dimostrativo di un elemento e il modo in cui tale elemento viene invece valorizzato nell'economia della decisione) quanto di un "contrasto" di opinioni scientifiche tra periti e consulenti, che il giudice di merito risolve anche soltanto attraverso un giudizio di valore consistente nella complessiva affidabilita' della perizia. Sul punto va osservato che un'eventuale sindrome depressiva e' inidonea a far escludere o a far scemare grandemente la capacita' di intendere e di volere (Sez. 5, n. 44045 del 06/11/2008, Roda', Rv. 241804; Sez. 6, n. 22765 del 12/03/2003, Moranziol, Rv. 226006). Come accuratamente segnalato dalla Corte di Assise di appello, al momento del fatto l'imputato non versava in condizioni di infermita' mentale o di alterazioni psicotiche, derivanti da condizione psicopatologica o da disturbo della personalita'. 3. In ordine al sesto motivo di ricorso, si sostiene che la condotta criminosa doveva essere riqualificata in quella meno grave di omicidio del consenziente ai sensi dell'articolo 579 c.p.; si deduce, inoltre, che, anche a voler escludere il consenso della vittima alla propria uccisione, (OMISSIS) doveva aver agito nell'erroneo convincimento dell'esistenza dello stesso nelle ipotesi di cui agli articoli 47 o 59 c.p.. 3.1. L'infondatezza delle mosse censure consegue al rilievo che la valutazione organica delle risultanze processuali, che si assume manchevole e contraddittoria con riguardo alla invocata sussistenza o putativita' del consenso, e' stata correttamente ed esaustivamente condotta nel giudizio di merito secondo un iter logico-argomentativo che, coerente in diritto ai principi costantemente affermati da questa Corte e non incongruo ai dati fattuali disponibili e utilizzati, ha fornito una persuasiva disamina della vicenda, dando conto delle linee interpretative seguite e rappresentando le ragioni significative della decisione adottata a fronte del compiuto vaglio delle deduzioni difensive fatte oggetto dei motivi di appello. La Corte di merito, infatti, procedendo dalla preliminare analisi della tesi difensiva posta a fondamento della chiesta diversa qualificazione giuridica del non contestato fatto materiale, ascritto all'imputato quale omicidio volontario, in termini di omicidio del consenziente ai sensi dell'articolo 579 c.p., ha ritenuto non condivisibile tale tesi, anche riconducendola, secondo l'interpretazione indotta dalla lettura del motivo di gravame, alla commissione dell'uxoricidio, a opera dell'imputato, nella erronea convinzione soggettiva di avere colto il consenso della moglie, in stato di limitata, grave e irrimediabile autosufficienza, a essere soppressa, pur non esternato con parole assolutamente inequivocabili, nelle sue frasi e manifestazioni di sconforto. Secondo i condivisibili arresti di legittimita', il consenso presupposto dall'omicidio del consenziente deve essere serio, esplicito, non equivoco e perdurante sino al momento della commissione del fatto (Sez. 1, n. 32851 del 06/05/2008, Sapone, Rv. 241231) ed esprimere una volonta' di morire, la cui prova deve essere univoca, chiara e convincente in considerazione dell'assoluta prevalenza da riconoscersi al diritto personalissimo alla vita, non disponibile a opera di terzi (Sez. 1, n. 43954 del 17/11/2010, Anselmi, Rv. 249052). La Corte territoriale ha rimarcato che non era mai emersa dagli atti processuali una scelta certa della moglie di essere uccisa, per porre fine alle proprie sofferenze, durante la fase in cui persisteva la sua lucidita' (temporalmente ricondotta dai figli della vittima ad epoca remota della progressione della malattia personale); anche in occasione delle dichiarazioni rese a inquirenti e familiari, (OMISSIS) non formulava nessun riferimento ad un eventuale consenso prestato dalla vittima. Per le stesse ragioni non e' stato ritenuto ipotizzabile un errore di fatto, non emergendo che la vittima abbia reso dichiarazioni in tal senso, equivocabili da (OMISSIS). 3.2. In ogni caso, anche a voler ritenere sussistente un errore di (OMISSIS) al riguardo, esso sarebbe irrilevante. In tema di omicidio del consenziente, infatti, il consenso e' elemento costitutivo del reato, sicche' ove il reo incorra in errore circa la sussistenza del consenso trova applicazione la previsione dell'articolo 47 c.p., in base al quale l'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilita' per un reato diverso, nel caso di specie individuabile nel delitto di omicidio volontario (Sez. 1, n. 12928 del 12/11/2015, dep. 2016, Holmes, Rv. 266409 - in motivazione, la Corte ha precisato che il consenso previsto quale scriminante dall'articolo 50 c.p., non corrisponde al consenso richiesto dall'articolo 579 c.p., atteso che, in questa seconda ipotesi, il consenso incide sulla tipicita' del fatto e non quale mera causa di giustificazione). 4. Col quarto e col quinto motivo di ricorso si sostiene la tesi della sussistenza degli estremi dell'attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale di cui all'articolo 61 c.p., n. 1, (intento di porre fine alle sofferenze della moglie ed eutanasia costituente principio di valore presso una considerevole parte di consociati). 4.1. In linea generale, la circostanza attenuante in questione viene in rilievo, quando la condotta dell'agente rinviene il suo movente in ragioni sicuramente corrispondenti ad un'etica, che sottolinei i valori piu' elevati della natura umana (quanto alla sfera morale) o parimenti consentanei a ragioni di elevato spessore avvertite e favorevolmente valutate societa' civile (quanto alla sfera sociale) (Sez. 1, n. 7390 del 06/07/2017, dep. 2018, Vergelli, non massimata). Le clausole generali a cui la disposizione ricorre, per individuare i requisiti legittimanti il riconoscimento del trattamento sanzionatorio attenuato, si collegano a valutazioni - almeno in parte - storicamente condizionate al diffondersi ed anche al modificarsi dei valori morali e sociali in una determinata epoca, sempre nel binario costituito da quelli fondamentali iscritti nella Costituzione e nelle altre fonti, anche sovranazionali, alla stessa coordinate. Il valore morale o sociale del motivo che ha determinato la condotta illecita va comunque apprezzato sul piano oggettivo: sia nel senso che esso deve essere considerato come tale, non da ambienti sociali circoscritti sul piano culturale, ideologico od anche territoriale, ma dalla prevalente coscienza collettiva espressione della comunita' (Sez. 1, n. 20443 del 08/04/2015, Nobile, Rv. 263593; Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano, Rv. 224077). Ai fini dell'integrazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, non e' sufficiente, quindi, l'intima convinzione dell'agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, ma occorre anche l'obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettivita', sicche' tale attenuante non puo' trovare applicazione se il fatto di particolare valore morale o sociale esiste soltanto nell'opinione del soggetto attivo del reato (Sez. 2, n. 197 del 07/12/2016, dep. 2017, Dolce, Rv. 268779; Sez. 1, n. 20443 del 08/04/2015 cit., che richiama anche la disciplina prevista dall'articolo 59 c.p., in base a cui le circostanze aggravanti ed attenuanti devono essere considerate e applicate per le loro connotazioni di oggettivita'). La netta distinzione logica fra il particolare valore morale o sociale del motivo che ha determinato l'azione antigiuridica e l'accertata illiceita' penale dell'azione stessa rende chiaro che l'approvazione della coscienza collettiva che rende giuridicamente rilevante il primo deve inerire - sempre e soltanto - al motivo, non alla condotta, in tesi sanzionata dalla norma incriminatrice. Nella complessa valutazione da compiersi, poi, rileva, secondo il consolidato orientamento di legittimita', la verifica del mezzo prescelto rispetto al fine perseguito (Sez. 5, n. 3967 del 13/07/2015, dep. 2016, Petrache, Rv. 265889; Sez. 1, n. 11236 del 27/11/2008, dep. 2009, Minardi, Rv. 243220, che ne esclude la ricorrenza quando i motivi dedotti siano di scarsa rilevanza rispetto alla gravita' del reato commesso), tanto piu' quando l'obiettivo della condotta sia identificato nel sacrificio estremo della vita della vittima. Va accertato altresi' se nel determinismo generatore della condotta antigiuridica all'addotto motivo avente valore morale o sociale si siano affiancati, anche in modo implicito, concorrenti interessi di natura lato sensu egoistica. In questa cornice, con specifico riferimento all'omicidio perpetrato per pieta' verso il congiunto gravemente sofferente, e' da riflettere come sia stata gia' esclusa la riconoscibilita' dell'attenuante in parola. Si e' ritenuto che essa non puo' essere riconosciuta all'omicida del coniuge affetto da grave malattia, il cui movente sia stato quello di porre fine a una vita di strazi, in quanto dall'azione criminosa non esula la finalita' egoistica di trovare rimedio alla sofferenza, consistente nella necessita' di accudire un malato grave ridotto in uno stato vegetativo (Sez. 1, n. 47039 del 11/12/2007, Mancini, Rv. 238169). 4.2. Alla luce dei principi indicati, la Corte di merito ha correttamente escluso l'attenuante sul rilievo della sussistenza di una prevalente finalita' egoistica di (OMISSIS). La Corte di merito, con motivazione logica ed adeguatamente supportata dagli elementi di prova indicati, ha ritenuto che la vicenda omicidiaria doveva essere ricondotta, in via prevalente, all'incapacita' dell'imputato di sopportare le sofferenze e l'inarrestabile decadimento fisico e cognitivo della moglie. La Corte di assise di appello ha valorizzato al riguardo, con motivazione logica e coerente, incensurabile in sede di legittimita', le modalita' cruente dell'omicidio, caratterizzate da uno squarcio addominale e da altre due ferite non letali su di un essere totalmente inerme, inferti con un coltello da cucina, senza preoccuparsi del dolore del corpo sofferente, causato dalla pluralita' dei colpi e dalla profondita' della lacerazione viscerale. E' certamente logica appare l'affermazione secondo cui, in caso di intento pietistico dell'imputato, questi avrebbe procurato la morte mediante modalita' meno cruente o, in alternativa, avrebbe chiesto preventivamente ausilio a figli, medici o ad altri su come procedere. I motivi di ricorso sul punto devono essere ritenuti conclusivamente manifestamente infondati. 5. Il primo e il secondo motivo di ricorso, con cui si censura il diniego della circostanza attenuante del risarcimento del danno di cui all'articolo 62 c.p., n. 6, sono, invece, fondati. 5.1. Va premesso che, in linea generale, ai fini della configurabilita' della circostanza attenuante prevista dall'articolo 62 c.p., n. 6, e' necessario che la riparazione del danno, oltre che volontaria ed integrale, sia anche effettiva, nel senso che la somma di danaro proposta dall'imputato come risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale deve essere offerta alla parte lesa in modo da consentire alla medesima di conseguirne la disponibilita' concretamente e senza condizioni di sorta, nel rispetto delle prescrizioni civilistiche relative al versamento diretto del danaro o a forme equipollenti che rivelano la reale volonta' dell'imputato di eliminare, per quanto possibile, le conseguenze dannose del reato commesso (Sez. 5, n. 21517 del 08/02/2018, Del Pizzo, Rv. 273021). Inoltre, il risarcimento del danno deve essere integrale, comprensivo non solo di quello patrimoniale, ma anche di quello morale, e la valutazione della sua congruita' e' rimessa all'apprezzamento del giudice (Sez. 2, n. 9143 del 24/01/2013, Corsini, Rv. 254880). Il risarcimento del danno deve essere volontario, integrale, comprensivo sia del danno patrimoniale che morale ed effettivo (Sez. 6, n. 6405 del 12/11/2015, dep. 2016, Minzolini, Rv. 265831). 5.2. Cio' posto, la Corte di assise di appello non ha concesso la circostanza attenuante di cui all'articolo 62 c.p., n. 6, per l'inesistenza del presupposto essenziale dell'effettivita' del risarcimento individuato nel "conflitto offensore - persone offese", avendo i figli rifiutato l'offerta del padre - comunicata mediante una lettera raccomandata, depositata in udienza preliminare ed inviata in epoca di poco anteriore di trasferimento della proprieta', a sue spese, della casa dove abitava, del valore di Euro quarantunmila, unico bene a lui appartenente. Sul punto la Corte territoriale ha condiviso le argomentazioni della sentenza di primo grado. Il G.U.P. aveva rilevato la carenza di effettivita' del risarcimento, stante il mancato soddisfacimento dell'obbligazione sorta dal reato, a prescindere dalle dichiarazioni di rinuncia o di accettazione della parte lesa. Si tratta, tuttavia, di affermazione di principio priva sostanzialmente di motivazione sulle verifiche richieste alla luce degli arresti di questa Corte. Alla luce dell'esistenza di un'offerta concreta, sarebbe risultata necessaria una valutazione - sotto il profilo oggettivo - dell'entita' del danno provocato ai figli per la perdita della madre. In proposito, deve rilevarsi che e' sufficiente un'offerta di risarcimento del danno, anche non formale, che, pero' deve tenere conto degli effetti del reato e deve possedere i requisiti della congruita' e della serieta', pure quando la persona offesa non abbia accettato l'offerta (Sez. 3, n. 31927 del 28/05/2015, G, Rv. 264249). Il risarcimento del danno contemplato dall'articolo 62, n. 6, cod. pen., peraltro, non consente differenziazioni in ordine alle conseguenze pregiudizievoli derivate dal reato, ricomprendendosi in esso, al pari di ogni tipologia di illecito, entrambe le categorie riconducibili ai principi civilistici sui danni patrimoniali, intesi quali ricadute pregiudizievoli, suscettibili di valutazione economica sotto forma di danno emergente e lucro cessante, ed i danni non patrimoniali che includono, invece, ogni forma di interessi inerenti alla persona afferenti alla sfera immateriale e percio' non connotati da rilevanza economica. Tenuto conto della notevole peculiarita' del caso in esame, il ricorrente ha formulato un'offerta effettiva, mediante modalita' corrette; egli, cioe', risulta essersi sostanzialmente attivato, al fine di diminuire la sofferenza dei figli. I giudici di merito, limitando nella motivazione la loro analisi ad un aspetto marginale (la presunta inesistenza del conflitto "offensore - persone offese"), non hanno quindi compiutamente valutato i predetti elementi caratterizzanti l'attenuante de quo e, specificamente: a) la congruita' e la tempestivita' dell'offerta; b) la natura pienamente satisfattiva del risarcimento del danno, al fine di accertare l'effettiva resipiscenza del reo (Sez. 2, n. 36037 del 06/07/2011, Ruvolo, Rv. 251073). Occorre, quindi, procedere ad un nuovo giudizio in ordine alla sussistenza della circostanza attenuante in questione, tenendo conto dei suesposti principi. 6. Si impone, dunque, l'annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al diniego della circostanza attenuante di cui all'articolo 62 c.p., n. 6, con rinvio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Bologna per un nuovo, piu' approfondito, giudizio sul punto, da condursi in piena liberta', ma alla luce dei rilievi sopra formulati. Il ricorso va rigettato nel resto. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al diniego della circostanza attenuante di cui all'articolo 62 c.p., n. 6, e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di assise di appello di Bologna. Rigetta nel resto il ricorso.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. IASILLO Adriano - Presidente Dott. BIANCHI Michele - rel. Consigliere Dott. ROCCHI Giacomo - Consigliere Dott. ESPOSITO Aldo - Consigliere Dott. RENOLDI Carlo - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 06/04/2017 della CORTE ASSISE APPELLO di FIRENZE; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere MICHELE BIANCHI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. TAMPIERI Luca, che ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilita' del ricorso; udito il difensore l'avvocato (OMISSIS) del foro di FIRENZE che conclude per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza pronunciata in data 6.4.2017 la Corte di assise di appello di Firenze ha confermato la sentenza pronunciata in data 3.3.2016 dalla Corte di assise di Firenze che aveva ritenuto (OMISSIS) colpevole del reato di omicidio volontario e lo aveva condannato alla pena di anni sei e mesi sei di reclusione. L'imputazione riguarda l'omicidio volontario, con,tre colpi di pistola, di (OMISSIS), moglie dell'imputato, gravemente ammalata e ricoverata all'ospedale di (OMISSIS); fatto commesso il (OMISSIS). Le sentenze di merito hanno, pacificamente, accertato il fatto sulla base delle testimonianze di chi, ricoverato nella medesima stanza della vittima, aveva visto l'imputato sparare tre colpi di pistola contro la moglie, distesa nel suo letto, circostanza che lo stesso imputato aveva poi riconosciuto a dibattimento. Sulla base degli esiti delle perizie psichiatriche, disposte con incidente probatorio e quindi a dibattimento, e' stato ritenuto che l'imputato, al momento del fatto, si trovasse in condizione di diminuita capacita' di intendere. Sono state riconosciute anche le attenuanti generiche e l'attenuante per l'avvenuto risarcimento del danno, considerate prevalenti sull'aggravante del rapporto di coniugio. Non e' stata riconosciuta l'attenuante di cui all'articolo 62 c.p., n. 1, richiesta con l'atto di appello. 2. Il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione, denunciando violazione di legge e difetto di motivazione in ordine al mancato riconoscimento della attenuante di cui all'articolo 62 c.p., n. 1. Quanto alla motivazione, il secondo motivo ne sostiene la sostanziale assenza, per aver la sentenza di appello valorizzato le osservazioni dei periti dott. (OMISSIS) e (OMISSIS) per sostenere che la deliberazione omicidiaria fosse stata motivata dal fatto che l'imputato, con il ricovero della moglie in ospedale, ne aveva perso il controllo. Inoltre, il giudice di appello avrebbe escluso il riconoscimento, nella collettivita', di particolare valore morale alla scelta di far cessare le sofferenze altrui dipendenti da una condizione patologica irreversibile, solo sulla base di una controversa, in ambito sociale, discussione circa la liceita' della eutanasia. La censura di violazione di legge viene svolta, dal primo motivo di ricorso, con riferimento, da una parte, alla esclusione che il fatto fosse stato determinato solo da motivi altruistici, giustificata dalla compresenza di motivi, definiti di natura egoistica, connessi alla perdita di controllo sulla moglie, a seguito del ricovero in ospedale, e, dall'altra, alla esclusione del particolare rilievo morale della scelta di interrompere le insopportabili sofferenze altrui, motivata dal mezzo utilizzato e dalle controversie nel dibattito sulla liceita' della eutanasia. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso propone motivi da ritenere infondati, e va quindi respinto. 1. La questione giuridica proposta dal ricorso riguarda il riconoscimento, nella vicenda di cui trattasi della attenuante per aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale, sia sotto il profilo della motivazione che in ordine alla corretta applicazione della norma di cui all'articolo 62 c.p., n. 1. Si deve dar conto di quanto accertato, sul punto, dalle sentenze di merito. 1.1. La sentenza di primo grado ha riconosciuto che l'imputato aveva agito con l'intenzione di porre fine alle sofferenze della moglie, da tempo malata di morbo di Alzheimer con una progressione sempre piu' invalidante sino al punto da rendere necessario il ricovero in ospedale, non essendo piu' sufficienti le cure domiciliari prestate direttamente dall'imputato. L'individuazione di un motivo definibile come "altruistico" e' incontroversa, risultando dalla complessiva condotta, antecedente e successiva, dell'imputato, il quale si era sempre preso cura della moglie, non aveva tenuto nascosto il grave gesto compiuto, ed aveva sempre spiegato la sua azione con la constatazione della condizione irreversibile della malattia della moglie, sottratta anche al conforto costituito dal trovarsi tra le mura domestiche. Le sentenze di merito hanno, peraltro, osservato che al menzionato fine "altruistico" si era accompagnato anche un fine collegato a esigenze personali: il ricovero in ospedale aveva sottratto la vittima alle cure esclusive del marito, che cosi' vedeva alterato un fattore di equilibrio psicologico personale; inoltre, il protrarsi delle sofferenze della moglie determinava sofferenza morale anche per l'imputato. Dunque, i giudici del merito hanno ritenuto che l'imputato avesse agito, uccidendo la moglie, anche per eliminare un fattore - la grave sofferenza della moglie in ospedale - che determinava anche una sua personale sofferenza, e quindi per conseguire una condizione di maggior benessere. 1.2. Le sentenze di merito hanno aggiunto che in ordine alla scelta di sopprimere la vita di un proprio caro in condizioni di sofferenza fisica totale ed irreversibile non vi era da parte della comunita' sociale un riconoscimento di particolare valore morale. Sul punto, si e' osservato che dibattuta e' la liceita' della eutanasia, ancora non consentita dall'ordinamento e che non e' mai emerso che la coscienza sociale avesse approvato le particolari modalita' operative scelte dall'imputato: l'utilizzo di arma da fuoco in una camera di ospedale. 2. Il Collegio ritiene che la motivazione data dalle sentenze di merito non sia censurabile in termini tali da configurare il particolare vizio definito dall'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e). La sentenza di appello, in conformita' a quanto gia' osservato dal primo giudice, ha preso in esame gli aspetti di fatto rilevanti nel giudizio sulla sussistenza della attenuante, giungendo ad escludere, con argomenti logicamente incensurabili e collegati al compendio probatorio acquisito, sia l'esclusivita' del fine " altruistico", sia il particolare valore morale di quel fine " altruistico". Il secondo motivo di ricorso, in realta', si risolve in una lettura alternativa del compendio probatorio, senza alcuna specifica censura di manifesta illogicita', contraddittorieta' od apparenza della motivazione della sentenza impugnata. 3. Il primo motivo di ricorso sostiene che i giudici di merito avrebbero, nell'escludere la sussistenza dell'attenuante, non correttamente interpretato la norma di cui all'articolo 62 c.p., n. 1. Quanto al requisito soggettivo della finalita' " altruistica" dell'azione, il motivo censura il giudizio che ha ritenuto necessario, per la sussistenza del requisito, che tale fine fosse stato l'unico ed esclusivo. Quanto al requisito oggettivo del riconoscimento del valore morale dell'azione, il ricorso contesta la legittimita' del rilievo, negativo, dato alle modalita' dell'azione e alla controversia circa l'efficacia scriminante dell'eutanasia, questione del tutto distinta da quella relativa alla sussistenza dell'attenuante in parola. 3.1. Il Collegio osserva che la attenuante in esame da' rilievo, al fine di diminuire la pena, ai motivi dell'azione, qualora essi siano qualificabili come " di particolare valore morale o sociale". E' dunque necessario, da una parte, accertare i motivi dell'azione, con un vaglio che concerne il profilo soggettivo e quindi la personale valutazione compiuta dal reo nel determinarsi a commettere il reato. Nella presente vicenda assume un particolare rilievo il giudizio circa la compresenza, nella sfera soggettiva del reo, di una pluralita' di motivazioni. Va inoltre compiuta la verifica circa il riconoscimento da parte della comunita' sociale di un particolare valore al motivo che aveva determinato il reo al reato. Il riferimento, operato dalla norma, al rilievo " morale o sociale" del valore riconosciuto consente di apprezzare sia i valori attinenti piu' direttamente la sfera personale che i cd. valori sociali. Nel caso in esame vengono in rilievo motivi attinenti la sfera personale (della vittima e del reo), e dunque si deve verificare il particolare valore morale dei motivi dell'azione. Tale giudizio va compiuto con riferimento agli orientamenti che la comunita' sociale esprime, siano essi codificati in disposizioni normative come anche in comportamenti che, per la loro ripetizione, possano essere considerati espressione di un diffuso e comune sentire. Si deve aggiungere che il giudizio deve riguardare il motivo determinante in relazione con l'azione, di tal che si possa affermare che secondo la coscienza sociale e', o meno, di particolare valore morale perseguire quel fine con quella determinata azione. 3.2. Quanto alla sfera soggettiva, e dunque ai motivi che hanno determinato l'imputato all'azione omicida, le sentenze di merito hanno riconosciuto che (OMISSIS) aveva agito per far cessare le sofferenze fisiche, sempre piu' invalidanti ed irreversibili, della moglie. Gli atti difensivi assimilano tale finalita' al sentimento di pieta', inteso come comprensione delle sofferenze altrui. Le sentenze di merito parlano di finalita' o matrice altruistica, per rappresentare la direzione della volonta' del reo a porre fine alle sofferenze fisiche della moglie. La sentenza impugnata, in senso conforme a quanto ritenuto dal primo giudice, ha ritenuto che la compresenza, nella psiche del reo, di finalita' "egoistiche" comportasse la insussistenza, nel determinismo soggettivo dell'azione, di un motivo qualificabile come di valore morale. Ora, sul punto le censure del ricorrente sono fondate. Le sentenze di merito, con un vaglio approfondito che ha utilizzato gli apporti scientifici acquisiti con le perizie sulla capacita' di intendere e di volere dell'imputato, hanno individuato, tra i motivi dell'azione, anche la finalita' di benessere personale del reo, non piu' in grado, psicologicamente, di partecipare alle sofferenze fisiche della moglie, costretta in ambiente ospedaliero. Tale accertamento e' congruamente motivato e dunque si puo' ritenere provato che nel formarsi della volonta' omicida abbia influito sia il fine di far cessare le sofferenze fisiche della moglie che quello di porre fine ad una situazione che determinava sofferenza anche per il reo. Peraltro, si tratta di motivi che traggono origine dalla vicinanza affettiva del (OMISSIS) verso la moglie, sentimento che lo aveva sorretto nella assistenza finche' la moglie era rimasta a casa e che, nella mutata condizione del ricovero ospedaliero, gli faceva sentire non piu' sopportabile la condizione in cui la moglie era venuta a trovarsi. La giurisprudenza che ritiene necessario che il fine di rilievo morale sia esclusivo esprime l'esigenza di dare rilievo, ai fini dell'attenuante, al motivo che sia stato la causa del reato, e non anche al motivo che sia stato presente, ma non determinante nella deliberazione criminosa. Nel caso in esame vi e' un accertamento che individua nella partecipazione soggettiva dell'imputato alle sofferenze della moglie il motivo che aveva fatto sorgere, nella particolare condizione del ricovero e della gravita' irreversibile della patologia, la decisione omicida. Le sentenze di merito hanno evidenziato l'ambivalenza di tale motivo, ma cio' non toglie che nella psiche dell'imputato e' stata la compassione rispetto alla malattia della moglie a determinare il reo all'omicidio. 3.3. I motivi di ricorso proposti in relazione al giudizio sul requisito oggettivo dell'attenuante non sono fondati. Il ricorso propone una critica agli argomenti valorizzati dai giudici di merito per negare che sia riconosciuto valore morale alla condotta dell'imputato e deduce che, secondo il sentire diffuso della comunita' sociale, la partecipazione all'altrui sofferenza puo' essere vissuto, in casi estremi, anche con la soppressione della vita sofferente. Il Collegio osserva che la nozione di compassione rappresentata in ricorso e' attualmente applicata con riguardo agli animali di compagnia, rispetto ai quali e' usuale, e ritenuta espressione di civilta', la pratica di determinarne farmacologicamente la morte in caso di malattie non curabili. Nei confronti degli esseri umani, invece, operano i principi espressi dalla Carta costituzionale, finalizzati alla solidarieta' e alla tutela della salute. Ne consegue che la nozione di compassione, cui il sentire comune riconosce un altissimo valore morale, rimane segnata dal superiore principio del rispetto della vita umana, che e' il criterio della moralita' dell'agire. Del tutto distinto e' il dibattito culturale sui limiti al trattamento di fine vita e sul rilievo del consenso del malato, fondato sul principio costituzionale del divieto di trattamenti sanitari obbligatori. Le sentenze di merito hanno osservato che nella coscienza sociale e' ancora dibattuto il tema della eutanasia, e che comunque e' chiaro il ripudio di condotte, come quella posta in essere dall'imputato, connotate da violenza mediante uso di arma da fuoco, e in un luogo pubblico. Si tratta di argomenti non decisivi, ma significativi del perdurante rifiuto, nella coscienza sociale, di condotte caratterizzate da violenza su persona indifesa. Il Collegio quindi ritiene che la sentenza impugnata abbia fatto corretta applicazione al caso concreto della norma di cui all'articolo 62 c.p., n. 1, dovendosi affermare il principio secondo cui "Nella attuale coscienza sociale il sentimento di compassione o di pieta' e' incompatibile con la condotta di soppressione della vita umana verso la quale si prova il sentimento medesimo. Non puo' quindi essere ritenuta di particolare valore morale la condotta di omicidio di persona che si trovi in condizioni di grave ed irreversibile sofferenza fisica". 4. Va dunque pronunciato il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CORTESE Arturo - Presidente Dott. NOVIK Adet Toni - Consigliere Dott. VANNUCCI Marco - Consigliere Dott. ESPOSITO Aldo - rel. Consigliere Dott. MINCHELLA Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), n. il (OMISSIS); avverso l'ordinanza n. 96/2017 TRIB. LIBERTA' di GENOVA del 24/03/2017; visti gli atti, l'ordinanza e il ricorso; udita in camera di consiglio la relazione fatta dal Consigliere Dott. Aldo Esposito; udite le conclusioni del Procuratore generale, in persona della Dott.ssa Maria Francesca Loy, che ha chiesto dichiararsi l'inammissibilita' del ricorso; udite per la ricorrente le conclusioni dell'avv. (OMISSIS), che ha chiesto l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 24/03/2017 il Tribunale di Genova, in funzione di giudice del riesame, ha rigettato l'appello proposto ai sensi dell'articolo 310 c.p.p. nell'interesse di (OMISSIS) avverso l'ordinanza del G.I.P. del Tribunale di La Spezia del 20/02/2017 di rigetto della richiesta di revoca della misura cautelare in atto del divieto di espatrio in ordine ai reati di cui all'articolo 575 c.p., articolo 576 c.p., n. 1, articoli 577, 110, 485 e 491 c.p. (omicidio del fratello (OMISSIS) nonche' formazione e uso di falso testamento olografo del fratello). Il G.I.P. aveva osservato che permaneva il pericolo di fuga, disponendo l'indagata di molteplici contatti personali e professionali - sia nella Guyana francese, luogo di svolgimento dell'attivita' lavorativa di medico anestesista, che altrove utilizzabili per sottrarsi alla pretesa punitiva dello Stato, e che la misura, minimamente invasiva, appariva indispensabile per salvaguardare le esigenze cautelari. Il Tribunale del riesame ha rilevato l'esistenza di un rischio di reiterazione dei reati, sebbene non esplicitamente ribadito dal G.I.P., alla luce delle modalita' dell'azione, delle pregresse esperienze di eutanasia risultanti dalla conversazione telefonica n. 61 del (OMISSIS) ("aiuti" prestati al padre e al fratello di tale (OMISSIS)), della professione esercitata e della facilita' di accesso ai farmaci all'uopo necessari, e ha confermato la persistenza del pericolo di fuga, correlato alla variegata e lunga esperienza dell'indagata, emergente dai molteplici incarichi assunti tra il 2000 e il 2015 e dall'iscrizione all'AIRE, che le consente di muoversi con disinvoltura in realta' diverse, svolgere l'attivita' lavorativa ovunque e sfruttare il suo radicamento all'estero. 2. La (OMISSIS), a mezzo dei propri difensori, propone ricorso per Cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame sulla base dei motivi di impugnazione di seguito indicati. 2.1. Vizio di motivazione in ordine alla persistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura in atto in relazione all'articolo 274 c.p.p., comma 1, lettera c). Si deduce l'assenza di motivazione in ordine alla persistenza del pericolo concreto e attuale di recidiva, osservando che il giudice del riesame si e' limitato a ripercorrere ab origine gli elementi di accusa indicati dal P.M., attinenti alla gravita' indiziaria e privi di rilevanza prognostica in un'ottica specialpreventiva; nonostante il considerevole lasso di tempo dal fatto, si rileva l'assenza di motivazione in relazione al requisito dell'attualita'. La motivazione risulterebbe poi viziata nella parte dell'indebita sovrapposizione dei concetti di eutanasia e sedazione palliativa del malato terminale. Ne' il pericolo di recidiva puo' essere ancorato allo svolgimento di professione medica, in quanto all'estero sarebbe soggetto a controlli meno stringenti, trattandosi di affermazione del tutto congetturale. 2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di un concreto e attuale pericolo di fuga, ai sensi dell'articolo 274 c.p.p., comma 1, lettera b). Si sostiene che l'ordinanza non reca l'indicazione delle ragioni per le quali la residenza all'estero dell'indagata e la sua maturata esperienza professionale in ordine alle organizzazioni umanitarie costituirebbero occasione di nuovi contatti lavorativi, rendendo concreto e attuale il pericolo di una sua sottrazione alla pretesa punitiva dello Stato. In particolare la documentata trasparenza dei rapporti con detti enti escluderebbe il predetto rischio. Congetturale e generico sarebbe anche il riferimento a una non meglio specificata "disinvoltura" dell'indagata. Si osserva infine che il trasferimento della (OMISSIS) in un paese estero in epoca di molto antecedente all'inizio del procedimento non puo' rappresentare di per se' un criterio sintomatico della situazione di pericolosita' di cui all'articolo 274 c.p.p., comma 1, lettera b). Ne' risultano sufficienti la mera residenza all'estero o la disponibilita' all'estero di mezzi e strutture, trattandosi di aspetti funzionali all'AIRE. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso e' infondato. Si ritiene opportuno preliminarmente ricordare che per eutanasia, secondo classica e condivisa definizione, s'intende un'azione od omissione che ex se procura la morte, allo scopo di porre fine a un dolore. La sedazione profonda, invece, e' ricompresa nella medicina palliativa e fa ricorso alla somministrazione intenzionale di farmaci, nella dose necessaria richiesta, per ridurre, fino ad annullare, la coscienza del paziente, per alleviarlo da sintomi fisici o psichici intollerabili nelle condizioni di imminenza della morte con prognosi di ore o poco piu' per malattia inguaribile in stato avanzato e previo consenso informato. Cio' chiarito, si osserva che il Tribunale, facendo riferimento, da un lato, alla piena consapevolezza e chiara e specifica volonta' dell'indagata di provocare con non irrilevante anticipo la morte del, non informato ne' consenziente, fratello,- e non semplicemente praticarne la sedazione palliativa, come si prospetta nel ricorso -, ai sospetti casi di analoghi interventi effettuati in precedenza e alla facilita' di accesso, anche illecito, ai farmaci all'uopo necessari, e, dall'altro, al solido radicamento all'estero della ricorrente e alla sua possibilita' di muoversi e operare agevolmente nelle realta' piu' disparate, ha reso una motivazione sufficiente e non manifestamente illogica a sostegno della persistenza dei presupposti cautelari (pericoli di recidivanza e fuga) giustificativi della contenuta misura del divieto di espatrio. Da tale motivazione emerge infatti un atteggiamento della ricorrente tuttora incline a reiterare, con l'utilizzo della propria competenza professionale, comportamenti di "positiva" agevolazione dei decessi e, parallelamente, a sottrarsi, grazie ai molteplici contatti e alla facile mobilita' in campo internazionale, al controllo e alla specifica pretesa di perseguirla penalmente per uno dei detti comportamenti da parte di uno Stato del quale, all'evidenza - come si evince dalla riferita posizione difensiva tenuta innanzi al TdR -, essa non condivide la definizione e la valutazione delle pratiche eutanasiche. Superfluo, infine, aggiungere che nessuno puo' invocare la propria pluriennale e ulteriormente auspicata esperienza lavorativa all'estero come uno speciale status che lo sottrae alle minimali esigenze della giustizia italiana. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. AMOROSO Giovanni - Presidente Dott. ROSI Elisabetta - Consigliere Dott. ACETO Aldo - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro - rel. Consigliere Dott. RENOLDI Carlo - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato il (OMISSIS); (OMISSIS), nato il (OMISSIS); (OMISSIS), nato il (OMISSIS); (OMISSIS) S.R.L. LEGALE RAPP. (OMISSIS); avverso la sentenza del 23/02/2016 della CORTE APPELLO di BRESCIA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ALESSANDRO MARIA ANDRONIO; Udito il Pubblico Ministero, in persona dei Sostituto Procuratore Dr. Dr. ANGELILLIS CIRO che ha concluso per il rigetto; Udito il difensore presente DI PC avv. (OMISSIS) DEPOSITA IN UDIENZA NOTA SPESE E CONCLUSIONI SCRITTE ALLE QUALI SI RIPORTA PER (OMISSIS); il difensore presente DI PC AVV. (OMISSIS) DEPOSITA NOTA SPESE E CONCLUSIONI SCRITTE ALLE QUALI SI RIPORTA PER (OMISSIS); i difensore presente DI PC AVV. (OMISSIS) CHIEDE IL RIGETTO DEL RICORSO E DEPOSITA IN UDIENZA NOTA SPESE PER (OMISSIS) ONLUS; il difensore presente DI PC Avv. (OMISSIS) PER (OMISSIS) DEPOSITA IN UDIENZA NOTA SPESE E CONCLUSIONI SCRITTE ALLE QUALI SI RIPORTA; il difensore presente Avv. (OMISSIS) si riporta ai motivi e ne chiede l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. - Con sentenza del 23 febbraio 2016, la Corte d'appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Brescia del 23 gennaio 2015, con la quale gli imputati erano stati condannati, per i reati di cui all'articolo 110 c.p., articolo 81 c.p., comma 2, articoli 544 bis e 544 ter c.p., anche risarcimento del danno nei confronti delle parti civili, in solido con il responsabile civile. L'imputazione si articola nel capo A (articolo 110 c.p., articolo 81 c.p., comma 2, articolo 544 ter c.p., commi 1 e 3), contestato a (OMISSIS), quale gestore di fatto delle procedure di allevamento, a (OMISSIS) quale legale rappresentante della societa' che gestiva l'allevamento e cogestore di fatto, a (OMISSIS) quale direttore dell'allevamento, che eseguiva le direttive impartite dei primi due, a (OMISSIS) quale veterinario responsabile dell'allevamento, perche', in concorso tra loro, con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, senza necessita', privando i 2639 cani di razza Beagle detenuti nell'allevamento dei loro pattern comportamentali, li sottoponevano a comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche, analiticamente descritti nell'imputazione, anche eseguendo la tatuatura degli stessi con aghi, in violazione del divieto imposto dal Decreto Legislativo n. 116 del 1992, articolo 13 e Legge Regionale Lombardia n. 16 del 2006, articolo 7, e tagliavano loro le unghie fino alla base, cagionando rotture dei vasi sanguigni; con l'aggravante della cassazione della morte di alcuni cani Beagle. Al capo B, si contesta agli stessi soggetti, nelle stesse vesti, di avere, in concorso tra loro, con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso e senza necessita', se non quella di liberarsi di animali non piu' vendibili sul mercato, di avere cagionato la morte mediante eutanasia di alcuni cani Beagle. 2. - Avverso la sentenza hanno proposto ricorsi per cassazione, tramite il difensore e con unico atto, gli imputati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e il responsabile civile (OMISSIS) s.r.l., in persona del legale rappresentante, chiedendone l'annullamento. 2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si deducono la violazione dell'articolo 544 ter c.p., commi 1 e 3, e del Decreto Legislativo n. 116 del 1992, articolo 13, nonche' vizi della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilita' penale. Si richiama l'articolo 19 ter disp. coord. trans. c.p., nella parte in cui esclude l'applicazione della sanzione penale nel caso in cui siano rispettate le disposizioni previste dalle leggi speciali che disciplinano l'allevamento di animali a fini di sperimentazione. Si lamenta che la Corte d'appello non avrebbe verificato se le etoanomalie riscontrate siano conseguenza delle condizioni nelle quali gli animali venivano tenuti nell'ambito dell'allevamento. E non si sarebbe considerato che si trattava del normale stato in cui questi animali vengono tenuti e che, in ogni caso, la funzione sociale dell'attivita' di allevamento a fine di sperimentazione deve essere ritenuta prevalente nel bilanciamento con il benessere dell'animale. La difesa prosegue sostenendo che, nel descrivere le etoanomalie riscontrate (freezing, comportamenti ridiretti, comportamenti stereotipati, comportamenti "pica"), la Corte d'appello sostanzialmente ne esclude la relazione causale con le ritenute violazioni del Decreto Legislativo n. 116 del 1992. Non si sarebbe considerato, inoltre, che le disposizioni dell'allegato 2 di tale Decreto Legislativo devono essere considerate come linee di indirizzo non immediatamente precettive, cosicche' non poteva essere riscontrata, nel caso di specie, alcuna loro violazione. 2.2. - Con un secondo motivo di doglianza, si lamentano la mancata riqualificazione del fatto ai sensi dell'articolo 727 c.p., comma 2, nonche' vizi della motivazione sul punto. La Corte d'appello basa la sua decisione sulla considerazione che le condotte degli imputati, in relazione alle condizioni in cui gli animali erano mantenuti, abbiano determinato in essi rilevanti sofferenze. Tale affermazione, ad avviso della difesa, avrebbe dovuto indurre i giudici a ritenere sussistente al piu' il reato di cui all'articolo 727 c.p., comma 2, che si riferisce proprio alle condizioni di detenzione che siano incompatibili con la natura dell'animale e, percio', produttive di sofferenze. Nell'ambito di tale doglianza si propone, per il caso in cui la Corte di cassazione ritenga di non poter addivenire all'interpretazione prospettata dalla difesa, la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 544 ter c.p., in riferimento all'articolo 3 Cost., articolo 27 Cost., comma 3, articolo 117 Cost., comma 1, nonche' articolo 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nella parte in cui esso punisce piu' gravemente chi sottopone un animale a comportamenti insopportabili per le sue caratteristiche etologiche rispetto a quanto previsto dall'articolo 727 c.p., per chi detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di grave sofferenza. Per il caso di sofferenze cagionate dalle modalita' di tenuta degli animali, vi sarebbe una identita' sostanziale tra la fattispecie delittuosa e quella contravvenzionale; con la conseguenza che per non potrebbero essere disposte sanzioni di diversa gravita', contrastando il dettato del richiamato articolo 544 ter anche con la funzione rieducativa della pena. 2.3. - In terzo luogo, si lamentano vizi della motivazione quanto al capo B dell'imputazione, riferito ai cani sottoposti ad eutanasia, in relazione al fatto che il consulente tecnico del pubblico ministero aveva ritenuto giustificate alcune delle eutanasie praticate. La sentenza impugnata non terrebbe conto della comparazione fra le informazioni contenute nei cartellini identificativi e nelle schede sanitarie dei cani per i quali si e' stata ritenuta giustificata l'eutanasia e gli analoghi documenti riferiti ai cani per i quali l'eutanasia e' stata ritenuta ingiustificata. Non si sarebbero considerate, in particolare le differenti situazioni dei singoli cani e le diverse patologie di ciascuno. Si contesta, inoltre, l'affermazione della Corte d'appello relativa all'inadeguatezza delle diagnosi, per la mancanza di esami di laboratorio, perche' se tale fosse la causa della eutanasia non si configurerebbe una uccisione del cane senza necessita', ma un semplice errore diagnostico. Si contesta, infine, l'affermazione dei giudici di merito secondo cui i cani sarebbero stati gestiti in un'ottica meramente commerciale, mentre emergerebbe dagli atti che gli stessi erano stati eliminati solo in pochissimi casi ed erano stati ceduti gratuitamente ad associazioni o famiglie, nei casi in cui erano inidonei alla vendita a fini di sperimentazione scientifica. 3. - Il difensore della parte civile (OMISSIS) Onlus ha depositato memoria, con la quale rileva, in primo luogo, che e' pendente un procedimento a carico di (OMISSIS) e (OMISSIS), medici veterinari presso la Asl di Brescia, sia per concorso con i reati oggi contestati, sia per reati di falso, omessa denuncia e falsa testimonianza in relazione alla vicenda oggetto del presente procedimento. Si ribadisce che l'allevamento in questione presentava evidentissime criticita' e che l'attivita' veniva svolta in totale violazione delle metodologie tecnicamente adeguate. Si rileva che, in ogni caso, anche dalle testimonianze dei testi indotti dalla difesa era emersa la circostanza che i cani non avessero possibilita' di muoversi e fossero costretti a sopportare il continuo frastuono provocato dal loro stesso abbaiare all'interno del capannone, nel quale vi era un'illuminazione del tutto insufficiente; vi era, inoltre, un alto tasso di mortalita' perinatale, a causa dell'utilizzazione di segatura. Quanto all'eliminazione degli animali, si sostiene che per alcuni erano emerse terapie di durata brevissima per patologie non particolarmente gravi, alle quali era inspiegabilmente seguita l'eutanasia. La difesa della parte civile sostiene, inoltre, l'inapplicabilita' della clausola di esclusione di cui all'articolo 19 ter delle disp. coord. trans. C.p., essendo evidentemente violate le norme sull'allevamento. Si condivide infine la ritenuta riconducibilita' delle condotte alla fattispecie di cui all'articolo 544 ter anziche' a quella di cui all'articolo 727 c.p., comma 2. 4. - Le parti civili (OMISSIS) Onlus e (OMISSIS) hanno depositato memoria, tramite il difensore, rilevando l'inammissibilita' o, comunque, l'infondatezza del ricorso, sulla base di considerazioni in larga parte analoghe a quelle dell'altra parte civile. Evidenziano, in particolare, gli elementi a sostegno della ritenuta violazione delle normative tecniche applicabili, che avrebbero causato le gravi sofferenze agli animali. Ribadiscono, inoltre, la precettivita' del Decreto Legislativo n. 116 del 1992 e, quanto alla motivazione sull'eutanasia, sostengono che la relativa censura sarebbe stata proposta per la prima volta con il ricorso per cassazione e sarebbe, dunque, preclusa, ancor prima che manifestamente infondata. CONSIDERATO IN DIRITTO 5. - I ricorsi sono inammissibili. 5.1. - Il primo motivo di doglianza - con cui si deducono la violazione dell'articolo 544 ter c.p., commi 1 e 3, e del Decreto Legislativo n. 116 del 1992, articolo 13, nonche' vizi della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilita' penale - e' manifestamente infondato quanto ai profili giuridici e, comunque, sostanzialmente diretto a ottenere da questa Corte una rivalutazione del merito della decisione impugnata; rivalutazione preclusa in sede di legittimita', ai sensi dell'articolo 606 c.p.p.. Secondo quanto previsto dall'articolo 19 ter disp. coord. c.p., introdotto dalla L. n. 189 del 2004, articolo 3, comma 1, "le disposizioni del titolo 9 bis del libro 2 c.p. non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, di pesca, di allevamento, di trasporto, di macellazione degli animali, di sperimentazione scientifica sugli stessi, di attivita' circense, di giardini zoologici, nonche' dalle altre leggi speciali in materia di animali. Le disposizioni del titolo 9 bis del libro 2 c.p. non si applicano altresi' alle manifestazioni storiche e culturali autorizzate dalla regione competente". La ratio di tale disposizione e' quella di scriminare attivita' che, gia' riconosciute come lecite dalle leggi speciali, possano essere obiettivamente lesive della vita e della salute degli animali. E la scriminante trova il proprio limite applicativo nella funzionalita' della condotta posta in essere rispetto agli scopi e alle ragioni posti a base della normativa speciale: dette attivita', segnatamente contemplate dalla suddetta norma di coordinamento, devono essere svolte, per potere essere esentate da sanzione penale, nell'ambito della normativa speciale stessa (cfr., con riferimento all'attivita' circense, Sez. 3, n. 11606 del 06/03/2012, Rv. 252251). La norma in questione, alla pari di quella, generale, dell'articolo 51 c.p. appare, dunque, espressione del principio della necessaria coerenza dell'ordinamento giuridico, posto che un medesimo comportamento non puo', allo stesso tempo, essere consentito o addirittura imposto, da una parte, e vietato dall'altra. Ne consegue che deve riaffermarsi il principio di diritto secondo cui incombe sul giudice l'onere di verificare che, in effetti, l'attivita' concretamente posta in essere sia disciplinata da una legge speciale riconducibile all'interno delle materie tassativamente elencate, e, in caso di soluzione affermativa, di accertare, successivamente, se le condotte si siano svolte nei limiti consentiti o imposti dalla norma speciale individuata. 5.1.1. - Nella specie, i giudici di merito hanno proceduto correttamente alla prima verifica: dopo avere rilevato che l'attivita' di allevamento, suscettibile di per se' di comportare l'eventuale sottoposizione degli animali a condizioni di vita non perfettamente in linea con la loro etologia, rientra all'interno dell'articolo 19 ter richiamato, hanno individuato nel Decreto Legislativo n. 116 del 1992 all'epoca vigente - ed in particolare nell'articolo 5, dedicato all'allevamento di "animali da esperimento", e nell'allegato 2, da detto articolo richiamato, la norma di possibile "copertura", anche sotto un profilo sanzionatorio, affidato dall'articolo 14 a sanzioni di natura amministrativa, delle condotte di specie. Tale normativa speciale, oltre a disciplinare le caratteristiche dell'attivita' di allevamento (in particolare attraverso l'allegato 2) e dell'attivita' di sperimentazione (attraverso l'articolo 6), pone, essa stessa, espressamente, i limiti che non devono essere oltrepassati in entrambe dette attivita', pena, diversamente, secondo quanto previsto dall'articolo 14, l'integrazione, "salvo che il fatto costituisca reato", di illeciti amministrativi. Anzi, proprio l'articolo 14 segnala significativamente che lo stesso legislatore ha riconosciuto come non funzionali e non necessarie alla attivita' di allevamento (oltre che all'attivita' di sperimentazione) tutte quelle condotte che vengano poste in essere in violazione dei precetti stabiliti in particolare dall'articolo 5 ed allegato 2 Decreto Legislativo in parola, con conseguente esclusione, per quanto si e' gia' detto in principio, dell'operativita' della scriminante di cui al citato articolo 19 ter. Tale essendo il quadro di riferimento, Deve rilevarsi che la ricostruzione difensiva secondo cui le norme dell'allegato 2 citato non sarebbero immediatamente precettive risulta smentita proprio dalla funzione scriminante esercitata, nel sistema vigente all'epoca dei fatti, dal Decreto Legislativo n. 116 del 1992. Proprio perche' tale testo normativo deve essere interpretato nel suo complesso come eccezione alla regola della punibilita', i confini del suo ambito di applicazione devono essere definiti in modo sufficientemente chiaro; e non puo' essere che questo il senso di richiamo dell'articolo 5 all'allegato 2. 5.1.2. - Individuata la normativa speciale di riferimento, applicabile all'epoca dei fatti, i giudici di merito hanno poi ritenuto integrati i reati di cui agli articoli 544 bis e 544 ter c.p. laddove il trattamento degli animali sia stato attuato, rispetto alle linee guida dettate dal Decreto Legislativo n. 116 del 1992, con modalita' tali da sfociare in comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche, proprio perche', come appena rilevato, lo stesso articolo 14 fa espressamente salvi gli eventuali reati derivanti dal superamento dei limiti. E' sufficiente qui sinteticamente richiamare, la motivazione pienamente adeguata coerente - e, dunque, insindacabile in sede di legittimita' - della sentenza impugnata, laddove questa evidenzia che: a) le ispezioni svolte presso l'allevamento nel periodo tra il 2003 e il 2007 non avevano fatto emergere anomalie, ma erano del tutto inadeguate, Perche' si svolgevano attraverso il mero disbrigo di pratiche burocratico-amministrative e senza un effettivo controllo sulla condizione degli animali; b) le ispezioni del periodo tra il 2010 il 2012 avevano, invece, accertato una serie di violazioni che avevano portato all'instaurazione del procedimento penale; c) in particolare, nell'attivita' ispettiva posta in essere nella giornata del (OMISSIS) erano state accertate e analiticamente descritte una serie di anomalie relative alla temperatura dei capannoni, alle condizioni igieniche dei luoghi, all'inadeguatezza dell'alimentazione, alla mancata somministrazione di farmaci, alla provocata deprivazione sensoriale degli animali; d) contrariamente a quanto ritenuto della difesa - e ribadito nel ricorso per cassazione - le anomalie comportamentali degli animali, analiticamente elencate, erano la diretta conseguenza delle condizioni nelle quali questi erano tenuti. 5.2. - Il secondo motivo di doglianza - con cui si lamentano la mancata riqualificazione del fatto ai sensi dell'articolo 727 c.p., comma 2, nonche' vizi della motivazione sul punto - e' anch'esso inammissibile. La Corte d'appello correttamente basa la sua decisione sulla considerazione che le condotte degli imputati, in relazione alle condizioni in cui gli animali erano mantenuti, hanno determinato in essi rilevanti sofferenze. Si e' trattato, in altri termini, di precise e consapevoli scelte decisionali di violazione delle corrette regole di tenuta dell'allevamento adottate da soggetti pienamente dotati della competenza tecnica per comprenderne le conseguenze negative sugli animali. E il dolo degli imputati emerge con chiarezza anche dalla corrispondenza scambiata fra gli stessi, che costituisce un elemento di decisivo riscontro. La difesa ha proposto, per il caso in cui la Corte di cassazione ritenga di non poter addivenire alla richiesta derubricazione, la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 544 ter c.p., in riferimento all'articolo 3 Cost., articolo 27 Cost., comma 3, articolo 117 Cost., comma 1, nonche' articolo 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nella parte in cui esso punisce piu' gravemente chi sottopone un animale a comportamenti insopportabili per le sue caratteristiche etologiche rispetto a quanto previsto dall'articolo 727 c.p., per chi detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di grave sofferenza. Secondo la prospettazione difensiva, per il caso di sofferenze cagionate dalle modalita' di tenuta degli animali, vi sarebbe una identita' sostanziale tra la fattispecie delittuosa e quella contravvenzionale; con la conseguenza che per non potrebbero essere disposte sanzioni di diversa gravita'. La questione e' manifestamente infondata. Dalla semplice lettura dell'articolo 544 ter c.p. e articolo 727 c.p., comma 2, emerge che essi si riferiscono a fattispecie diverse e dotate di diversa gravita'. La fattispecie delittuosa punisce chi "cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche", e' caratterizzata dal solo elemento soggettivo del dolo e non anche da quello della colpa, nonche' dall'ulteriore presupposto della crudelta' o della mancanza di necessita'. La fattispecie contravvenzionale, invece, punisce, anche a titolo di colpa, la meno grave condotta di chi "detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze", senza richiedere la crudelta' o la mancanza di necessita', ne' la causazione di lesioni, o la sottoposizione a sevizie, comportamenti, fatiche, lavori insopportabili. Ne consegue che non vi e' alcuna possibile identita' fra le due fattispecie, perche' la seconda, di portata piu' ampia, rappresenta un'ipotesi residuale rispetto alla prima; e cio' giustifica sul piano costituzionale la previsione di due ipotesi di reato distinte, nonche' di sanzioni proporzionate alla loro diversa gravita'. 5.3. - Anche il terzo motivo di doglianza - con cui si denunciano vizi della motivazione quanto al capo B dell'imputazione, riferito ai cani sottoposti ad eutanasia, in relazione al fatto che il consulente tecnico del pubblico ministero aveva ritenuto giustificate alcune delle eutanasie praticate - e' inammissibile. A differenza di quanto sostenuto dalla difesa, la sentenza impugnata tiene conto della comparazione fra le informazioni contenute nei cartellini identificativi e nelle schede sanitarie dei cani per i quali si e' stata ritenuta giustificata l'eutanasia e gli analoghi documenti riferiti ai cani per i quali l'eutanasia e' stata ritenuta ingiustificata, laddove fa proprie le corrette conclusioni del consulente tecnico del pubblico ministero. E la Corte d'appello non ritiene rilevanti, ai fini penali, eutanasie causate da meri errori diagnostici, ma evidenzia con chiarezza i casi nei quali l'eutanasia e' stata praticata per patologie modeste e dopo periodi di cura troppo brevi, come avvenuto, ad esempio, per le precise e consapevoli scelte aziendali di non curare adeguatamente i cani affetti da demodicosi e di non somministrare flebo a quelli affetti da diarrea (pag. 90-91 della sentenza impugnata). La motivazione della sentenza impugnata risulta del tutto adeguata e coerente anche laddove opera una valutazione globale delle considerazioni delle analitiche conclusioni cui e' giunto il consulente del pubblico ministero, il quale ha adottato un opportuno approccio prudenziale, giustificando l'operato degli imputati per tutti quei casi in cui vi era dubbio sulla possibilita' di sottoporre a cure l'animale con esito fausto. Rispetto a tali analitiche conclusioni, i rilievi contenuti nell'atto di appello e sostanzialmente reiterati con il ricorso per cassazione rappresentano semplicemente un tentativo di proporre un'interpretazione alternativa dei fatti, che - come ben evidenziato dai giudici di merito non tiene conto dei riscontri rappresentati dalla politica aziendale, quale emerge dal complesso dell'istruttoria, nonche' dall'inequivocabile tenore della corrispondenza sul punto. 6. - I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibili. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita'", alla declaratoria dell'inammissibilita' medesima consegue, a norma dell'articolo 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonche' quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. I ricorrenti devono anche essere condannati a rifondere alle parti civili le spese del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende e alla rifusione delle spese di parte civile nel grado, come segue: a) in favore di (OMISSIS) Onlus, liquidate in Euro 3.500,00, oltre accessori di legge; b) in favore di (OMISSIS) Onlus, liquidate in Euro 3.500,00, oltre accessori di legge; c) in favore di (OMISSIS), liquidate in Euro 3.500,00, oltre accessori di legge; a) in favore di (OMISSIS), liquidate in Euro 2.500,00, oltre accessori di legge.

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