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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5487 del 2023, proposto da Do. Gi., rappresentato e difeso dall'avvocato Or. Ab., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Fr. Del Mo., rappresentato e difeso dagli avvocati Fr. Del Mo., An. Zo., Se. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Comune di (omissis), rappresentato e difeso dall'avvocato Do. Ge., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Pa. Le., An. Lo., non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza, redatta in forma semplificata, del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata n. 00222/2023, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Fr. Del Mo. e del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 dicembre 2023 il Cons. Antonino Masaracchia e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. - Con la sentenza oggetto del presente gravame, meglio individuata in epigrafe, il TAR Basilicata, in accoglimento delle doglianze avanzate da un candidato che non aveva superato le prove scritte, ha annullato l'intero concorso bandito dal Comune di (omissis) (PZ) per l'assunzione del Comandante della Polizia municipale con rapporto a tempo indeterminato e parziale al 50% (18 ore settimanali). Il TAR ha accolto tre dei numerosi motivi di gravame, assorbendo gli altri, giungendo così all'annullamento del concorso per le seguenti ragioni: incompetenza del Segretario comunale quanto alla nomina della commissione esaminatrice; incompatibilità di uno dei commissari per "grave inimicizia" con il ricorrente (candidato non ammesso alle prove orali), derivante da una pregressa vicenda caratterizzata da numerose denunce/querele; violazione delle regole del bando di concorso, quanto alla scelta dei membri della commissione esaminatrice. In particolare, in ordine a quest'ultimo profilo, la sentenza ha rilevato che, mentre il bando aveva previsto una scelta comparativa tra gli aspiranti membri basata sulla valutazione dei curricula, il Segretario comunale avrebbe ritenuto di procedere valorizzando un diverso criterio, quello "oggettivo" della "minor distanza" tra il luogo di residenza/ abitazione del prescelto e il Comune di (omissis). Con l'atto di appello richiamato in epigrafe - proposto dal vincitore del concorso, rimasto soccombente in primo grado - è stata domandata la riforma della sentenza del TAR, previa sua sospensione cautelare. Le censure sono articolate su due motivi di impugnazione, con i quali, nella sostanza, vengono sottoposte a critica le motivazioni spese dal Giudice di prime cure a sostegno della ritenuta illegittimità delle operazioni concorsuali. 2. - Nel presente giudizio di appello si è costituito il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, chiedendo l'accoglimento dell'appello e proponendo, con deposito del 21 luglio 2023, appello incidentale volto, analogamente all'altro, alla riforma della sentenza del TAR. Si è anche costituita la parte privata ricorrente in primo grado, chiedendo la conferma della sentenza del TAR, non senza sollevare, con memoria depositata il 22 agosto 2023, alcune eccezioni di inammissibilità dei due appelli, principale e incidentale. Mediante la medesima memoria, inoltre, la parte appellata ha anche riproposto, ai sensi dell'art. 101, comma 2, cod. proc. amm., i motivi del proprio ricorso di primo grado che il TAR, nell'ambito della statuizione di accoglimento, ha dichiarato assorbiti. In vista della discussione sulla domanda cautelare, l'amministrazione e la parte privata appellata hanno svolto ulteriori difese, con memorie di replica depositate - rispettivamente - il 24 e il 25 agosto 2023. Alla camera di consiglio del 29 agosto 2023, chiamata per la discussione dell'incidente cautelare, la causa è stata rinviata al merito. 3. - Nell'approssimarsi della discussione sul merito, il Comune di (omissis) e la parte privata appellata hanno svolto difese, anche nella forma delle repliche, con atti depositati il 16 e il 25 novembre 2023, ciascuno insistendo sulle già spiegate argomentazioni. Alla pubblica udienza del 19 dicembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. 4. - Vanno anzitutto trattate le eccezioni preliminari, sollevate dalla parte privata appellata. 4.1. - Quest'ultima, anzitutto, ha eccepito l'inammissibilità dei due appelli per mancanza di alcuna critica nei confronti di una delle plurime rationes decidendi poste a fondamento della decisione appellata. Il riferimento è al passaggio della sentenza del TAR che, a pag. 18, nell'affrontare le censure di incompetenza, rivolte contro la determinazione del segretario comunale di nomina della commissione esaminatrice, ha ritenuto fondata la dedotta violazione dell'art. 101, comma 1, del contratto collettivo degli Enti locali del 17 dicembre 2020, rilevando che la pur prevista sostituzione nelle incombenze relative alla complessiva gestione dell'ente, nella specie, sarebbe stata "incongruamente esercitat[a]". L'eccezione non è fondata. Occorre invero rilevare che, alla luce dei motivi di appello spiegati dalle controparti, la menzionata ratio decidendi non è tale da sorreggere, da sola, il rilevato vizio di incompetenza del segretario comunale. I motivi di appello hanno infatti fatto valere ulteriori ragioni che, se fondate, condurrebbero comunque al rigetto dell'originario motivo di incompetenza: sono stati invocati, in proposito, sia il decreto del Sindaco n. 3, del 19 marzo 2018 (che aveva previsto, in caso di assenza o di impedimento del responsabile del servizio, e quindi anche per l'ipotesi delle ferie che viene in rilievo nel caso di specie, la sua sostituzione attraverso il segretario comunale), sia alcuni successivi atti adottati dal responsabile del servizio che - in tesi - avrebbero comportato una "ratifica implicita" delle nomine compiute dal segretario comunale. Anche a voler ritenere che l'incombenza espletata dal segretario fosse in violazione delle regole di competenza indicate dalla fonte collettiva, ne discende che la nomina dei membri della commissione sarebbe comunque salva qualora la relativa competenza del segretario comunale trovi titolo nel richiamato decreto del Sindaco ovvero sia stata "ratificata" successivamente dall'organo competente. 4.2. - Né può giovare alla parte privata appellata quanto essa (sempre nella memoria depositata il 28 agosto 2023) ulteriormente eccepisce - peraltro, limitatamente al rilievo avversario che fa valere, ai fini della disamina sul profilo di incompetenza, il decreto del Sindaco n. 3, del 19 marzo 2018 - in ordine alla "novità " dei fatti introdotti per la prima volta in appello a sostegno del primo motivo dell'appello incidentale, con asserita violazione dell'art. 104 cod. proc. amm. Invero, deve ricordarsi che tali argomenti, e i relativi fatti e documenti a sostegno, costituiscono non un'eccezione in senso tecnico non rilevabile d'ufficio (la quale, come tale, deve rispettare il divieto dei nova in appello), ma una mera difesa che la parte, resistente e soccombente in primo grado, ben è legittimata a proporre in grado di appello. Come più volte rammentato da questa Sezione, "la preclusione o il divieto di nova in appello di cui all'art. 104, comma 1, cod. proc. amm., si applica all'appellante che nel giudizio di primo grado abbia assunto la posizione processuale del ricorrente; non già a chi in primo grado sia stato chiamato in giudizio come parte resistente (è il caso dell'odierno appellante) o come controinteressato (principio pacifico: ex multis Cons. Stato, sez. IV, 29 dicembre 2020, n. 8475)" (così, da ultimo, della Sezione, la sentenza n. 5042 del 2022). 5. - Nel merito, i due appelli - principale e incidentale - sono fondati. 5.1. - La prima ragione di illegittimità rinvenuta dal TAR, riguardante il profilo dell'incompetenza del segretario comunale nella nomina dei componenti della commissione esaminatrice, non resiste alle precise deduzioni delle parti appellanti. In proposito, Comune fa notare che, ai fini degli atti di nomina così posti in essere, il segretario comunale aveva piena facoltà di sostituirsi al dirigente responsabile; quest'ultimo, infatti, si trovava in ferie nel giorno in cui la commissione è stata formata e, quindi, la sostituzione poteva adottarsi alla stregua di quanto aveva stabilito il decreto del Sindaco n. 3, del 19 marzo 2018 (la cui produzione nell'odierno giudizio può essere ammessa, in quanto documento indispensabile alla decisione, ai sensi dell'art. 104, comma 2, cod. proc. amm., per di più a sostegno di argomento difensivo non precluso alla parte). Tale decreto, infatti, con formulazione generale, applicabile anche al caso delle ferie del responsabile, stabiliva che, "in caso di assenza o di impedimento del Responsabile del Settore, fatta salva la possibilità di diversi provvedimenti, la relativa sostituzione avviene attraverso il SEGRETARIO COMUNALE Pro- Tempore". Deve dunque ritenersi che il segretario comunale, nel caso di specie, si trovava a svolgere una funzione esplicitamente conferitagli dal Sindaco, ai sensi dell'art. 97, comma 4, lettera d), del d.lgs. n. 267 del 2000, a norma del quale il segretario comunale "esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente della provincia". Anche a voler prescindere da ciò, comunque, deve rilevarsi che il vizio di incompetenza non può che ritenersi sanato, nel caso di specie, per effetto dei successivi atti posti in essere dall'organo che si assume competente (ossia, il responsabile del servizio), il quale ha dapprima provveduto a sostituire un membro dimissionario della commissione, senza nulla modificare quanto agli altri (ciò, con determina n. 28, del 7 febbraio 2023), e ha poi approvato tutti gli atti e i verbali della commissione stessa (ciò, con determina n. 44, del 1° marzo 2023). Come correttamente ritenuto dalle parti appellanti, questi atti comportano una sostanziale ratifica dell'operato della commissione, come composta dai membri nominati dal segretario comunale, e quindi anche una implicita conferma della nomina di questi ultimi. Va invero preferita - come da ultimo statuito da questa Sezione in tema di ratifica dell'operato dell'organo incompetente - "una prospettiva sostanziale e non meramente formale", che valorizza l'operato del dirigente "dominus della procedura concorsuale" le cui determinazioni confermano l'operato altrui superando l'originario vizio di incompetenza, dovendosi affermare l'ammissibilità del provvedimento implicito "qualora l'Amministrazione, pur non adottando formalmente la propria determinazione, ne determini univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un contegno conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del corrispondente provvedimento formale non adottato: le quante volte, cioè, emerga senza equivoco un collegamento biunivoco tra l'atto adottato o la condotta tenuta e la determinazione che da questi si pretende di ricavare, onde quest'ultima sia l'unica conseguenza possibile della presupposta manifestazione di volontà " (così, da ultimo, della Sezione, la sentenza n. 3817 del 2023, che richiama, sempre di questa Sezione, la sentenza n. 589 del 2019). 5.2. - Fondate sono, altresì, le censure riguardanti la seconda ragione di illegittimità individuata dal TAR, afferente alla rimarcata "situazione di incompatibilità " di uno dei membri della commissione, per asserita sua "grave inimicizia" con il candidato ricorrente in primo grado. In proposito le parti appellanti hanno riferito che le denunce/querele, dalle quali simile situazione di "inimicizia" è stata fatta discendere, hanno avuto unilaterale provenienza (sono state presentate, cioè, unicamente dal candidato, mentre non ne risulterebbero sporte ad opera del commissario di concorso) e sono oltretutto significativamente risalenti nel tempo. Si tratta, hanno aggiunto gli appellanti, di episodi risalenti a più di dieci anni prima del concorso, quando furono presentate alcune denunce, da parte dell'odierno appellato, per le attività svolte dal suo antagonista come commissario di (altra) selezione concorsuale e come comandante della Polizia municipale; essi hanno anche riferito che tutte le suddette rinunce sono state poi archiviate. La loro controparte, in replica, si è limitata ad affermare il fatto contrario positivo - ossia, che le denunce sarebbero state "reciproche" - ma ha omesso di provarlo, non avendo menzionato alcun particolare episodio a sostegno delle proprie affermazioni ed essendosi, piuttosto, limitata a richiamare una congerie di documenti che sono stati depositati in questo giudizio di appello. Tali documenti non possono essere ammessi nel presente grado, per disposto dell'art. 104, comma 2, cod. proc. amm., in quanto - considerata la loro mole, e considerato altresì che la parte non ha provveduto a dettagliarne il deposito indicando quali, tra di essi, fossero davvero rilevanti ai fini di introdurre elementi di prova di quanto affermato - non possono ritenersi indispensabili ai fini della decisione. Deve, pertanto, riconoscersi credito a quanto affermato dalle parti appellanti, il che - peraltro - trova anche conferme nella sentenza di primo grado, la quale, nella disamina del motivo poi accolto, ha elencato una serie di denunce, tutte risalenti a più di dieci anni prima lo svolgimento del concorso e tutte presentate dall'odierna parte appellata. Questi dati di fatto rendono oggettivamente inconsistente il profilo di illegittimità lamentato in primo grado, anche a prescindere dalle circostanze ambientali di contorno valorizzate dal TAR (l'esiguo numero dei partecipanti al concorso e le piccole dimensioni del Comune di (omissis)); in definitiva, deve concludersi che non si hanno elementi sufficienti per poter sostenere che il commissario di concorso serbasse, personalmente, un atteggiamento di inimicizia nei confronti del candidato ricorrente in primo grado. 5.3. - Fondate sono anche le censure che hanno sottoposto a critica l'ultima delle ragioni individuate dal TAR ai fini dell'annullamento degli atti in primo grado. Non emerge, invero, alcun profilo di violazione delle regole, fissate del bando di concorso, per la scelta dei commissari. Dalla determinazione n. 7, del 6 dicembre 2022, risulta, infatti, che il segretario comunale ha conferito rilievo al criterio della minor distanza di provenienza solo in quanto, tra tutti gli aspiranti, emergeva la "parità di requisiti": il che presuppone l'esistenza di una valutazione comparativa tra i vari aspiranti che deve presumersi eseguita, in mancanza di evidenze diverse, secondo le indicazioni del bando. 6. - La fondatezza delle censure di appello comporta il vaglio degli ulteriori motivi del ricorso di primo grado, rimasti assorbiti dalla decisione del TAR e in questa sede riproposti con la memoria della parte appellata depositata il 22 agosto 2023. 6.1. - Il primo dei motivi riproposti attiene ad una presunta illogicità e incongruità del punteggio attribuito alle prove scritte del ricorrente in primo grado. In particolare, si sostiene che tali prove sarebbero esaustive, pertinenti e pienamente rispondenti ai quesiti che erano stati proposti ai candidati, tanto da risultare inspiegabile l'attribuzione, da parte della commissione, di un punteggio largamente insufficiente. Inoltre, si lamenta una disparità di trattamento, a danno dell'esponente, rispetto ai punteggi attribuiti agli altri candidati (tra i quali, anche l'odierno appellante, vincitore del concorso), facendosi notare alcune "criticità " negli elaborati di questi ultimi che ulteriormente dimostrerebbero l'illegittimità dell'operato della commissione. Il motivo - che, nonostante quanto sostenuto in replica dall'amministrazione appellata, non risulta essere stato trattato dal TAR - non può essere condiviso. Deve infatti ricordarsi, sulla base del tradizionale e fermo orientamento della giurisprudenza amministrativa, che va riconosciuta, di norma, amplia discrezionalità alla commissione esaminatrice nell'attribuzione dei punteggi: e ciò, sia nella fase a monte che consiste nell'individuazione dei criteri secondo le indicazioni provenienti dal bando, sia nella fase a valle di effettiva attribuzione dei punteggi ai singoli candidati. L'esercizio di tale discrezionalità, come è noto, è sottratta al puntuale sindacato di legittimità del giudice amministrativo, riguardando piuttosto il merito dell'azione amministrativa, salvo che siano apprezzabili macroscopici vizi di eccesso di potere per irragionevolezza, manifesta iniquità e palese arbitrarietà (tra le tante, cfr. Cons. Stato, questa sez. V, sentenza n. 9531 del 2023; sez. II, sentenza n. 10684 del 2023; sez. IV, sentenza n. 2754 del 2016). Inoltre, la predeterminazione di criteri di massima, da parte della stessa commissione, funge da adeguato parametro di riscontro, mettendo il candidato nella possibilità di comprendere le valutazioni riferite alla propria prova, pur se tradotte nell'assegnazione di un voto numerico il quale, in mancanza di una contraria disposizione, esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della commissione di concorso, contenendo in sé stesso la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni (cfr., di recente, ex aliis, Cons. Stato, sez. VII, sentenza n. 1291 del 2024). Nel caso di specie è pacifico che la commissione avesse prestabilito i criteri di giudizio e che, conseguentemente, il voto numerico attribuito agli elaborati consentisse la ricostruzione dell'iter logico-motivazionale. Non emergono, peraltro, aspetti di macroscopica illogicità e/o iniquità nelle valutazioni compiute dalla commissione, neanche in prospettiva di comparazione tra i vari candidati: le contestazioni, in proposito mosse dal ricorrente, non fanno emergere palesi errori di fatto o travisamenti tali da fondare le censure di ingiustizia manifesta. 6.2. - Quanto al secondo dei motivi riproposti - attinente alla mancata apposizione, sui fogli degli elaborati scritti, del timbro dell'ente e della firma di almeno un componente della commissione - il Collegio non può esimersi da una diagnosi di inammissibilità, in accoglimento della corrispondente eccezione sollevata dal Comune. La sentenza del TAR, sia pure nella parte in fatto, ha invero trattato e deciso tale censura: a pag. 14 si legge che la dedotta circostanza "risulta smentita dagli elaborati della prova scritta del ricorrente e degli altri 4 candidati ammessi alla prova orale, depositati in giudizio, tutti recanti il timbro e la firma di una dei componenti della Commissione giudicatrice". Ciò avrebbe richiesto di introdurre la censura in esame con specifico motivo di appello, e non attraverso la riproposizione ex art. 101, comma 2, cod. proc. amm. L'inammissibilità, peraltro, travolge anche la parte del motivo in esame in cui si accenna ad un'ulteriore carenza formale che sarebbe stata commessa nel procedimento, quella cioè della mancata indicazione "del numero dei fogli complessivamente consegnati ai candidati o a ciascun candidato e, finanche, di quelli residuati alla fine della prova scritta": si tratta, infatti, di un profilo di censura solo genericamente accennato, senza il riscontro di alcun parametro di legittimità, e meramente ancillare all'altro, del quale segue la sorte. 7. - Le spese del doppio grado seguono la soccombenza e vanno dunque poste a carico dell'originario ricorrente in primo grado, secondo la liquidazione di cui al dispositivo della presente sentenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quinta, definitivamente pronunciando, Accoglie l'appello principale e l'appello incidentale e, per l'effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso di primo grado. Condanna il ricorrente in primo grado alla refusione delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate in euro 3.000,00 (tremila/00) in favore di ciascuna delle due controparti, odierne appellanti principale e incidentale, per un totale di euro 6.000,00 (seimila/00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Diego Sabatino - Presidente Stefano Fantini - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Antonino Masaracchia - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI PATTI Il Tribunale di Patti, sezione civile, riunito in camera di consiglio in persona dei seguenti (...) dott. (...) dott.ssa (...) rel. dott.ssa (...) ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. (...)/2019 R.G. riunito al procedimento n. (...)/19 R.G. tra (...) (c.f. (...)), nato a (...) il .., residente (...), ed elettivamente domiciliato in (...), presso lo Studio dell'Avv. (...), giusta procura in atti; - ricorrente E (...) (c.f. (...)) nata a (...) il (...), residente (...), ed elettivamente domiciliata (...) in (...) (Via (...), presso lo studio dell'avv. (...)) che la rappresenta e difende giusta procura in atti; -resistente PUBBLICO MINISTERO presso il Tribunale di Patti OGGETTO: separazione giudiziale (...) e (...) premettendo di avere contratto matrimonio con (...) - trascritto all'ufficio dello Stato civile del Comune di (...) n. (...), p. (...), S. A, anno (...) - che dall' unione erano nati due figli, (...) il (...) e (...) il (...), che successivamente era venuta meno la comunione materiale e spirituale a causa della relazione extraconiugale intrapresa dalla resistente con un altro uomo, ha chiesto all'adito Tribunale la separazione giudiziale con addebito. Lo stesso ha, altresì, chiesto l'affido congiunto dei minori con collocazione presso l'abita)ione della madre, l'assegnazione della casa familiare alla resistente, un contributo da porre suo carico di 1/4, mensili per il mantenimento della prole, nonché la quota del 50% per le spese straordinarie. (...) costituitasi in giudizio, contestando quanto asserito dalla controparte ha chiesto, in via riconvenzionale, l'addebito della separazione a carico del (...) l'affido congiunto dei minori, l'assegnazione della casa familiare e un assegno mensile per il suo mantenimento di 1/4, e di 1/4, per il mantenimento di ciascun figlio. (...) sentiti i coniugi ed esperito invano il tentativo di conciliazione, ha disposto la riunione tra il presente procedimento e quello recante n. (...) stante l'identità del petitum e della causa petendi; ha adottato i provvedimenti temporanei ed urgenti ed ha rimesso gli atti al giudice istruttore previa integrazione degli scritti difensivi. L'ordinanza presidenziale - a seguito del reclamo proposto dal (...) - è stato in parte riformato dalla Corte d'Appello Nelle more del giudizio è stato iscritto - a seguito di istanza avanzata dalla (...) - il sub procedimento recante n. (...)- (...) stato disposto l'affido esclusivo del figlio (...) alla madre, essendo la figlia (...) divenuta nelle more del giudizio maggiorenne. Nel presente procedimento è stata espletata l'istruttoria ed è stata disposto un accertamento tramite la (...) di (...) Fatta questa premessa, ritiene il Collegio che alla luce delle risultanze processuali, deve essere pronunciata la separazione personale dei coniugi. Invero, ai sensi dell'art. comma I, c.c., la pronuncia di separazione giudiziale (...), ma è collegata all'accertamento dell'esistenza di fatti che rendano intollerabile per i coniugi la prosecuzione della convivenza, circostanza questa che si evince dagli atti introduttivi e dalle stesse dichiarazioni rese dalle parti all'udienza presidenziale. Il Tribunale, con la declaratoria della separazione, dichiara - ove ne ricorrano i presupposti e sempre che sia espressamente chiesto - a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione a condizione che sia raggiunta la prova che la irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile al comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o di entrambi i coniugi (cfr. Cass. n. 16691/20). L'art. 143 c.c. dispone che Dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale alla collaborazione nell'interesse della famiglia e alla coabitazione. Ai fini dell'addebito, nonostante la violazione dell'obbligo di fedeltà costituisca una violazione particolarmente grave, tuttavia, è necessario che sussista - secondo un costante orientamento della giurisprudenza - la sussistenza del "nesso di causa fra l'infedeltà e la crisi del rapporto di coppia. L'addebito della separazione, pertanto, non viene disposto se è stata accertata la preesistenza di una crisi coniugale già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. La Suprema Corte, al riguardo, ha ritenuto che "Ai fini della pronuncia di addebito, non q sufficiente la sola violazione dei doveri previsti a carico dei coniugi dall'art. 143 c.c., ma occorre verificare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale ovvero se essa sia intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza" (Cass. n. 14414/16). Ciò precisato, la domanda di addebito della separazione deve essere rigettata nei confronti della resistente in quanto dalle risultanze istruttorie non si evince la prova che la (...) abbia intrattenuto una relazione extraconiugale in costanza di matrimonio o comunque prima della rottura della crisi coniugale dovuta all'intollerabilità della condotta. Al riguardo osserva il Collegio che dalle dichiarazioni rese dai testi escussi - (...) - non trova conferma l'esistenza di una relazione sentimentale intrattenuta dalla moglie con un latro uomo durante il rapporto di convivenza. La domanda di addebito avanzata, in via riconvenzionale, dalla resistente è invece fondata e, come tale, è meritevole di accoglimento. Invero dalle dichiarazioni rese dai testimoni (...) e (...) si evince che il (...) ha abbandonato il tetto coniugale nel mese di giugno 2018 e, prima ancora di tale periodo, aveva intrattenuto una relazione sentimentale con (...) collaboratrice della azienda di proprietà "Al riguardo, la teste (...) ha affermato quanto segue: "(...) che il (...) è andato via di casa a giugno 2018, ho mandato io stessa un messaggio al ricorrente per cercare di capire cosa stesse s(...) nei rapporti con la moglie. In quell'occasione il (...) ebbe a dirmi che si trattava solo di un momento di crisi passeggera. (...) mi ha riferito della relazione del marito con una signora di nome (...) Dopo circa un mese da quando il (...) è andato via di casa, lo stesso ha iniziato a frequentare apertamente la detta (...) Li ho visti personalmente affacciati al balcone della casa coniugale dopo qualche mese. Ricordo che i figli del (...) mi hanno riferito che nel corso di una giornata di mare dello stesso anno (2018) si trovavano a (...) con il padre e vi era presente anche la (...). La teste (...) ha riferito vi erano diversi indizi, riferiti da mia figlia e confermati poi dal (...) (...) presenza di (...) donna nella (...) del ricorrente, già nel 2016. Era di (...), so che diverse volte è andata in azienda perché aveva rapporti di la(...) con il (...) io non l'ho mai (...) ed ancora la teste ha affermato ""preciso che anche prima a gi(...) ho (...) la (...) sul balcone della casa di (...) del (...) e poi li ho incontrati alla (...) quando lui la stava accompagnando a prendere i treno, mentre lei aveva un trollev"; un giorno nel mese di giugno 2018, mia nipote (...) mi ha in(...) le foto di casa di (...) (...) che ritraeva lo specchio del bagno con s(...) scritto frasi d'amore con il rossetto, firmate (...) Dalle dichiarazioni sopra indicate si ex che l'affectio coniugalis tra le parti era venuta meno a causa della condotta del ricorrente che ha posto in essere una condotta contraria ai doveri coniugali tra cui rientra l'obbligo di fedeltà. Con riferimento alla domanda avente ad oggetto l'affidamento della prole il Collegio evidenzia che per la figlia (...) - divenuta maggiore nelle more del giudizio -la suddetta domanda deve essere rigettata in quanto è venuto meno il suo presupposto e, cioè, la sua minore età. Con riferimento, invece, al figlio minore (...) il Collegio ritiene di dover confermate quanto statuito nel sub-procedimento n. (...) R.G. per le seguenti ragioni. In materia di affidamento dei figli minori, il giudice deve attenersi al criterio fondamentale rappresentato dall' esclusivo interesse morale e materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo il pregiudizio derivante dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore. La Corte di Cassazione ha affermato che "(...)(...)ione di tale genitore deve essere fatta sulla base di un giudizio prognostico circa la capacità del padre o della madre di crescere ed educare il figlio, che potrà fondarsi sulle modalità con cui il medesimo ha svolto in passato il proprio ruolo, con particolare riguardo alla sua capacità di relazione affettiva, di attenzione, di comprensione, di educazione, di disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché sull'apprezzamento della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente che è in grado di offrire al minore" (Cass. n. 28244/19). Dall'esame della documentazione depositata nell'ambito del sub-procedimento cui si rinvia si evince 1) che i (...) del Comune di (...) - a cui è stato dato il mandato di effettuare indagine - hanno potuto constatare che il (...) non aveva esercitato come avrebbe dovuto la responsabilità genitoriale, 2) che con sentenza penale, emessa nel procedimento n. (...)/20 R.G., il (...) è stato condannato per il reato ex art. 570 c.p., 3) che il figlio (...) - sentito all'udienza (...) - ha confermato che il (...) era una figura paterna assente e poco comprensiva alle esigenze materiali e morali della prole. Sulla base degli elementi istruttori acquisiti e sopra indicati si ritiene, quindi, di dover confermare l'affido esclusivo del minore (...) alla madre, con collocazione presso l'abitazione di (...) Conseguentemente la casa familiare deve essere assegnata a (...) come tra l'altro richiesto da entrambe le parti. Sul punto si evidenzia che la giurisprudenza ha più volte affermato che "La casa familiare deve essere assegnata tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli minorenni e dei figli maggiorenni non autosufficienti a permanere nell'ambiente domestico in cui sono cresciuti, per garantire il mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale ambiente si sono radicate, sul rilievo che la revoca dell'assegnazione della casa familiare è provvedimento che ha come esclusivo presupposto l'accertamento del venir meno dell'interesse dei figli alla conservazione dell' habitat domestico in conseguenza del raggiungimento della maggiore età e del conseguimento dell'autosufficienza economica o della cessazione del rapporto di convivenza con il genitore assegnatario (Cass. n. (...)/23). L'esercizio del diritto di visita del (...) nei confronti del figlio (...) è regolamentato nel dispositivo, tenuto conto dell'età raggiunta dal minore e dell'esigenza a che lo stesso mantenga un sano ed equilibrato rapporto con entrambi i genitori. Passando ad esaminare le domande di natura patrimoniale si osserva quanto segue. Con l'ordinanza presidenziale, allegata in atti, q stato disposto a carico del (...) assegno mensile per il mantenimento in favore della moglie di 1/4, e di 1/4, per il mantenimento della prole (1/4400,00 per ciascun figlio), oltre la quota del 50 % per le spese straordinarie, nonché il pagamento a carico del (...) delle rate di mutuo di 1/4617,00 mensili relative all'acqua della casa con (...) sita in via (...) a (...) al foglio (...) part. (...), sub (...) e sub (...), con terreno circostante annotato al foglio (...) particelle (...), (...), (...) e (...). omissis P.Q.M. Il Tribunale di Patti in composizione collegiale, definitivamente pronunciando nel giudizio iscritto al n. (...) /2019 R.G. così provvede: 1 dichiara la separazione personale dei coniugi (...) e (...) con addebito a carico del (...) 2 rigetta la domanda di addebito avanzata dal (...) 3 rigetta la domanda di affidamento e diritto di visita con riferimento alla figlia (...) stante la maggiore età raggiunta; 4 dispone l'affidamento esclusivo del minore (...) 5 assegna la casa familiare a (...) 6 regolamenta l'esercizio del diritto di visita del (...) nei confronti del minore (...) salvo diverso accordo tra le parti che tenga conto delle esigenze del minore, come segue: - per due giorni a settimana dalle ore 13,30 alle ore 20,00 (ore 22,00 nei mesi di luglio ed agosto) da concordare preventivamente con la madre (e, in mancanza di accordo, il lunedì ed il mercoledì), nonché, a settimane alterne, il venerdì dalle 13,30 alle 15,00 della domenica; - durante le ferie estive per un periodo di (...) giorni nell'arco di tempo per esso da concordare preventivamente entro il 30 maggio di ogni anno, tenendo sempre conto delle esigenze del minore, oppure in difetto, dall (...) al agosto di (...)n anno e dal al l(...) dell'anno s(...) con sospensione, per analogo periodo, del diritto di visita del padre; - per un periodo di quattro giorni consecutivi durante le vacanze natalizie in modo da consentire al padre di poter trascorrere con il figlio, alternativamente, un anno il giorno di Natale e l'anno s(...) il giorno di (...), da concordare preventivamente entro il 31 ottobre di ogni anno oppure, in difetto, dal 24 al 27 dicembre il primo anno e dal 30 dicembre al 2 gennaio il secondo anno; - durante le festività pasquali, ad anni alterni, la domenica di (...) o il lunedì dell(...) -sempreché il predetto regime delle festività natalizie e pasquali non si riveli, nella sua attuazione concreta, incompatibile con le esigenze di qualsiasi altra natura dei minori; - il giorno del compleanno dei minori alternativamente a pranzo o a cena; - il giorno del compleanno del padre dalle ore 16,00 alle ore 22,00; 7 dispone che il (...) provveda a versare a (...) entro il giorno 5 di ogni mese, presso il domicilio di (...), in alternativa, con di (...) modalità da concordare tra le parti, (...) n assegno mensile di 1/4.500,00 di cui 1/4, per il mantenimento della 1oto ed 1/4., per il mantenimento della prole in ragione di 1/4600,00 per ciascun figlio), annualmente rivalutabile secondo indici (...) oltre la quota del 50% delle spese straordinarie da effettuarsi nell'intesse per i figli; 8 rigetta la domanda avente ad oggetto il pagamento esclusivo delle rate del mutuo a carico del (...) 9 condanna il (...) a corrispondere in favore dell'erario la somma (...) già dimezzata di 1/4., a titolo di onorari, oltre spese generali iva e cpa come per legge
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 392 del 2024, proposto dal sig. -OMISSIS- in proprio e quale titolare dell'omonima ditta individuale, rappresentato e difeso dagli avvocati Do. Ra., Vi. Eu. Am. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ufficio Territoriale del Governo Matera, Ministero dell'Interno, Agea - Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Me. Ce. - Ba. del Me. S.p.A., non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata Sezione Prima n. -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Ufficio Territoriale del Governo Matera, del Ministero dell'Interno e di Agea - Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Giovanni Pescatore e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Nel giudizio di primo grado il sig. -OMISSIS-titolare di un'azienda agricola con sede a -OMISSIS-(MT) attiva nella coltivazione e commercializzazione delle fragole, è insorto avverso l'informazione interdittiva antimafia emanata nei suoi confronti dalla Prefettura di Matera il 28 marzo 2023. L'impugnativa è stata estesa con motivi aggiunti avverso la nota AGEA - Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura prot. -OMISSIS-del 13.04.2023, avente ad oggetto "provvedimento di decadenza dei contributi erogati e intimazione di restituzione delle somme indebitamente percepite". 2. L'interdittiva rappresenta l'esito di un procedimento amministrativo svoltosi a margine di una attività di indagine penale condotta dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di -OMISSIS-, nel corso della quale: -- con ordinanza del G.I.P. presso il Tribunale di -OMISSIS-del 22 maggio 2020 il sig. -OMISSIS- è stato ristretto in via cautelare agli arresti domiciliari (capo 23 della rubrica) per il reato di cui all'art. 603 bis c.p., misura poi revocata con ordinanza del 24 dicembre 2020; -- l'impresa agricola è stata sottoposta a sequestro preventivo (insieme ad altre 10 aziende del -OMISSIS-) con provvedimento del 22 maggio 2020, successivamente annullato dal Tribunale della Libertà di Cosenza (con ordinanza n. -OMISSIS-del 22 luglio 2020 confermata dalla sentenza n. -OMISSIS-dell'11 novembre 2021 della Corte di Cassazione, IV Sez. Penale) a motivo, tra l'altro, della carenza degli indici di sfruttamento indicati dall'art. 603 bis c.p.; -- medio tempore (e cioè prima della pronunzia della Suprema Corte di Cassazione) il G.U.P presso il Tribunale di -OMISSIS-ha disposto in data 7 dicembre 2020 il rinvio a giudizio del sig. -OMISSIS- per i capi di imputazione relativi agli artt. 81, 110, 603 bis commi n° 1-2-3-4 c.p., contestandogli l'assunzione e l'impiego di manodopera con le condizioni di cui all'art. 603 bis c.p. (erogazione di retribuzioni difformi dai contratti collettivi nazionali o territoriali e, comunque, sproporzionate rispetto alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato; reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, all'aspettativa obbligatoria e alle ferie; violazione delle norme in materia di sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro). 3. Il Prefetto di Matera - a seguito di una fase di contraddittorio svoltasi mediante l'audizione personale dell'interessato e il deposito da parte di questi di documentazione e note scritte - ha emanato l'avversata informazione antimafia interdittiva, valorizzando, tra gli altri, i seguenti elementi indiziari: - dal complessivo provvedimento di rinvio a giudizio del 7 dicembre 2020 è possibile confermare l'esistenza di un quadro accusatorio "molto complesso che ha riguardato gli indagati nell'indagine -OMISSIS-"; - tale attività "si è articolata in un periodo di tempo che va dalla fine del 2017 al maggio 2020, portando all'individuazione di due associazioni criminali operanti nel territorio calabrese e lucano. Una di queste associazioni, capeggiata da -OMISSIS-, è dedita principalmente alla commissione del reato di cui all'art. 603 bis c.p. (spia di infiltrazione mafiosa)"; - -OMISSIS- "è considerato un pericoloso criminale che non ha esitato ad adottare metodi brutali nei confronti dei braccianti. Egli contrattava direttamente con gli imprenditori agricoli rapportandosi invece ai braccianti agricoli con modalità che esprimono i cosiddetti indici di sfruttamento previsti dalla normativa"; - la predetta associazione ha assicurato manodopera a numerose aziende agricole, tra cui quella dell'odierno deducente; - dal "provvedimento di rinvio a giudizio risulta che non solo -OMISSIS-, ma, tra gli altri, anche -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, sono stati rinviati a giudizio nel medesimo procedimento per il reato di cui all'art. 416 commi 1-2-3-5 c.p. per aver fatto parte dell'associazione criminale capeggiata da -OMISSIS- (capo di imputazione n° I del decreto che dispone il giudizio)"; - i predetti dalle indagini risultano aver svolto il ruolo di sodali e subcaporali per l'impresa -OMISSIS-; - -OMISSIS- è "inserito in un ambiente sociale estremamente caratteristico della cittadina di -OMISSIS- (CS) in quanto risiede in contrada "-OMISSIS-", strada "-OMISSIS-", tristemente famosa per essere luogo di residenza di numerose famiglie criminali che ne hanno fatto la loro roccaforte. In quella contrada insistono, infatti, le abitazioni di numerosi criminali e, tra gli altri, anche di sodali della famiglia `ndranghetista "locale -OMISSIS-", molto attiva e pericolosa dal punto di vista criminale, che controlla il territorio di -OMISSIS-con metodi militari. Lo stesso -OMISSIS- e il sodale -OMISSIS-, oltre a risiedere nella predetta contrada risultano accompagnarsi con elementi dalla notevole caratura criminale tra gli altri anche ad appartenenti alla cosca -OMISSIS-, alla quale, per necessità ambientali e per operare nel territorio sottoposto allo stretto controllo della locale di `Ndrangheta, devono rapportarsi"; - i "pagamenti da parte dell'impresa agricola -OMISSIS- (con retribuzione comunque inferiore a quella prevista dai contratti collettivi di categoria) sono avvenuti sia in contanti sia grazie a metodi tracciati. L'illiceità dei pagamenti destinati ai braccianti, comunque in misura difforme, deriva dalla circostanza che le somme dovute quale salario erano raccolte direttamente da -OMISSIS- altri caporali che le distribuivano successivamente ai braccianti secondo criteri non corrispondenti a quanto stabilito dai contratti collettivi di lavoro ma bensì in base a dispotiche ed estemporanee valutazioni dei caporali stessi, i quali decurtavano previamente, dalle somme destinate ai lavoratori, una quota che corrispondeva al loro compenso per l'intermediazione e il trasporto"; - quanto innanzi circa la "veridicità di questo supposto modus operandi aziendale interviene, inoltre, la constatazione che, contrariamente a quanto affermato dalla società in sede di partecipazione procedimentale e in sede di audizione, l'impresa -OMISSIS- alla data del 21 luglio 2022 non risultava aver pagato i contributi di legge per euro 26.467 e che dal 2018 non riportava un certificato dure regolare, per questo l'INPS, in data 26 luglio 2022, ha richiesto la regolarizzazione della posizione contributiva". 4. Nell'impugnativa di primo grado, il ricorrente ha lamentato l'illegittimità dell'interdittiva prefettizia per insufficienza della sottostante istruttoria e sviamento di potere, in quanto, a suo dire: - il provvedimento " dequota (recte: omette l'esame) tutti gli elementi che rivengono dall'ordinanza del Tribunale del Riesame e dalla sentenza della Suprema Corte che univocamente escludono financo la sussistenza del fumus, e che intervengono dopo il rinvio a giudizio (unico elemento fondante l'interdittiva) al punto che il giudizio inferenziale e deduttivo che se ne ritrae è inattendibile e travisato nei fatti"; - "l'unico elemento che attesterebbe il tentativo di infiltrazione mafiosa tale da condizionare scelte ed indirizzi dell'impresa riguarda il procedimento penale per utilizzo di manodopera ai sensi dell'art. 602 bis cod. pen. cui, però, è stata attribuita rilevanza unica e decisiva in presenza di un diverso quadro indiziario più favorevole al -OMISSIS- ma ignorato in istruttoria"; - sotto altro profilo, "il reato di cui all'art. 603 bis c.p., una volta slegato da un contesto associativo di tipo mafioso (il -OMISSIS- non è imputato di reato associativo ex art. 416 c.p.) non è idoneo, in assenza di ulteriori elementi, ad integrare la fattispecie di cui all'art. 84 del d.lgs. n. 159/2011 e, quindi, a giustificare l'emanazione del provvedimento interdittivo"; - "diversamente da quanto riportato nel provvedimento prefettizio, l'azienda del -OMISSIS- è in regola con il pagamento degli obblighi previdenziali e fiscali. In sede di audizione la circostanza è stata evidenziata in quanto l'irregolarità riscontrata deriva da un errato ricalcolo della retribuzione per l'anno 2018. La somma ha formato oggetto di sgravio e la circostanza è attestata nella allegata relazione del consulente"; - "successivamente ai fatti contestati dall'indagine della Procura della Repubblica di -OMISSIS-, oggetto di rinvio a giudizio, l'azienda del -OMISSIS- ha subito numerosi controlli da parte dell'Ispettorato del lavoro di Matera/Potenza e di Cosenza, che non ha portato a particolari sanzioni"; Non vi sarebbero in atti di causa elementi indiziari o fatti rilevanti a carico di dipendenti dell'impresa individuale ricorrente, o indicanti la presenza in azienda di "soggetti controindicati", o ancora la prova di rapporti commerciali o associativi tra l'impresa ricorrente e altro soggetto imprenditoriale già ritenuto esposto al rischio di influenza criminale, mentre le condotte ascritte all'odierno deducente sarebbero risalenti nel tempo"; - in sintesi, "non solo non vengono evidenziati fatti e vicende significative relative a presunti rapporti del -OMISSIS- con soggetti accusati di reati associativi tali da raggiungere la soglia richiesta in punto di permeabilità dell'impresa; ma neppure appare dal quadro indiziario - come declinato dalla Suprema Corte - raggiunto quel minimo grado di probabilità "; - sussiste, infine, la violazione e falsa applicazione dell'art. 94-bis d.lgs. n. 159/2011, per avere l'interdittiva "rigettato anche la richiesta di misure alternative di prevenzione collaborativa di cui all'art. 94-bis formulata, in via subordinata". 5. Con la sentenza n. -OMISSIS- qui impugnata, il T.A.R. per la Basilicata - dopo avere richiamato i principi regolatori del sindacato giurisdizionale esperibile nei confronti dell'atto prefettizio - ha ritenuto sufficienti ad integrare una valida prognosi di rischio infiltrativo le seguenti circostanze: "- l'approvvigionamento da parte dell'impresa del ricorrente di manodopera da parte di un'organizzazione criminale costituita da una pluralità di soggetti imputati per il reato di cui all'art. 416 cod. pen., in cui il vertice -OMISSIS- risulta avere "direttamente contrattato con gli imprenditori agricoli rapportandosi invece ai braccianti agricoli con modalità che esprimono i cosiddetti indici di sfruttamento previsti dalla normativa"; - i rapporti intercorsi tra l'impresa del ricorrente e altri soggetti (c.d. "caporali), segnatamente -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, pure imputati per il reato di cui all'art. 416 cod. pen., connotati da stabilità e ordinarietà, emergendo dalle attività oggetto d'indagine "la circostanza che le somme dovute quale salario erano raccolte direttamente da -OMISSIS- altri caporali che le distribuivano successivamente ai braccianti"; - l'elemento di speciale rilievo per cui -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, (imputati per il reato di cui all'art. 416 cod. pen.), come pure risulta in sede d'indagine poi sfociata nel rinvio a giudizio, hanno anche "direttamente svolto il ruolo di sodali e subcaporali per l'azienda -OMISSIS-"; - la centralità e l'assoluta rilevanza della manodopera nei processi produttivi dell'impresa del ricorrente, dedita alla coltivazione della frutta, e l'importanza che, in un contesto di tal genere, assumono i canali illeciti di reclutamento; - l'avere ritenuto, il Gruppo Interforze, che "il fenomeno del caporalato rappresenti un mezzo attraverso il quale le aziende si espongono all'infiltrazione criminale per la sussistenza di un'interessenza reciproca fra caporali e imprese che si manifesta attraverso modalità criminose direttamente afferenti i meccanismi imprenditoriali e aziendali. Tali relazioni rappresentano occasione da parte delle organizzazioni criminali di esercitare la propria influenza e rendono le imprese conniventi e ricattabili intaccando irreparabilmente la loro indipendenza"; - l'essere state le risultanze della decisione della Suprema Corte debitamente considerate nel provvedimento qui in contestazione, ma ritenute inidonee a porre in crisi i cennati rilevanti profili dell'impianto accusatorio, con giudizio ampiamente discrezionale e in un'ottica di prevenzione, che risulta scevro dai limitati elementi apprezzabili in sede giurisdizionale". 6. Il T.A.R. ha inoltre ritenuto esente da mende anche la decisione prefettizia di non applicare le misure amministrative di prevenzione collaborativa esperibili in caso di agevolazione occasionale, di cui all'art. 94-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, e ciò in quanto "il presupposto per l'applicazione di tali misure è .. costituito dalle situazioni di "agevolazione occasionale", mentre nel caso di specie la situazione indiziaria offerta dal provvedimento impugnato (contatti plurimi e continuati con soggetti imputati dei reati di cui all'art. 416 cod. pen., carattere nevralgico del fattore lavoro nell'attività d'impresa, l'essersi avvalso direttamente il ricorrente di alcuni dei soggetti afferenti all'associazione criminale capeggiata da -OMISSIS-) appare idonea a qualificare come "non occasionali" tali rapporti". 7. Nell'atto di appello il ricorrente, con due motivi di censura, contesta il carattere a suo dire "apparente" della motivazione impugnata, in quanto la prognosi di condizionamento criminale operata dalla Prefettura e avallata dal T.A.R. non risulterebbe fondata su una rigorosa ricostruzione e valutazione degli elementi processuali raccolti, posti che questi ultimi, attraverso le pronunce del Tribunale del Riesame e della Corte di Cassazione, varrebbero ad escludere la sussistenza di indici rilevatori del reato spia di cui all'art. 603 bis c.p.. 7.1. Dunque il T.A.R., pur diffondendosi nella ricognizione dei principi astratti fondanti l'esercizio del potere preventivo e dei criteri ai quali il G.A. deve ispirare l'attività di controllo di legittimità, avrebbe omesso di esaminare in concreto la gravità del quadro indiziario e le censure svolte nel ricorso a confutazione dell'unico elemento indiziante, in particolare tralasciando di considerare che: -- il rinvio a giudizio per uno dei delitti di cui all'art. 84, co. 4, lett. a) d.lgs. 159/2011 non è sufficiente da solo a motivare un'informativa antimafia, non essendovi alcun automatismo tra decreto di rinvio e provvedimento prefettizio (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 2 marzo 2017, n. 981); -- pur a fronte dell'enfatizzato approvvigionamento di manodopera da parte di un'organizzazione criminale, al -OMISSIS- non è stato contestato il delitto di cui all'art. 416 c.p., ma il reato di sfruttamento del lavoro ex art. 603 bis comma 1 n. 2, quale presunto "utilizzatore" della manodopera; -- nell'ambito di questa contestazione, non emerge alcuna forma di collaborazione o di asservimento alle associazioni criminali, né sussistono elementi indiziari o fatti rilevanti a carico dei dipendenti dell'impresa, o indicanti la presenza in azienda di "soggetti controindicati", né prova di rapporti commerciali e/o associativi con altro soggetto esposto al rischio di influenza criminale; -- la ritenuta "stabilità e ordinarietà " dei rapporti con i caporali (pg. 9 sentenza) non è sufficientemente motivata e provata: è una valutazione di carattere ipotetico e congetturale, in assenza di elementi concreti e significativi sul piano dell'attualità di una immanente situazione di condizionamento mafioso; -- a tal fine non rileva neppure che "le somme dovute quale salario erano raccolte direttamente da -OMISSIS- altri caporali che le distribuivano successivamente ai braccianti", avendone l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Cosenza recisamente escluso ogni rilevanza a fini penali (v. cit. ordinanza pag. 9); -- l'azienda si compone di dipendenti regolarmente assunti, e tanto il Tribunale del Riesame quanto la Corte di Cassazione hanno escluso la sussistenza di tutti i fattori sintomatici del presunto sfruttamento del lavoratore, così come i numerosi controlli ispettivi e relazione del consulente dr. Gallotto hanno confermato la regolarità contributiva e fiscale dell'azienda. 7.2. Il fatto, poi, che la situazione indiziaria si riconduca solo ed esclusivamente all'approvvigionamento di forza lavoro da parte della ditta in un circoscritto periodo temporale risalente nel tempo (anno 2017), senza alcun carattere stabile e strutturale e senza condizionamento (o pericoli di condizionamento) delle scelte aziendali o forme di ingerenza nella gestione, fa intendere - diversamente da quanto ritenuto dal T.A.R. - che il rischio di contaminazione, quand'anche ritenuto sussistente, non possa considerarsi inemendabile e quindi ostativo alla sperimentazione di misure di prevenzione collaborativa ex art. 94 bis. 8. Il giudizio di secondo grado, a seguito della costituzione in giudizio dell'amministrazione intimata e della reiezione dell'istanza cautelare (ordinanza n. -OMISSIS-del 2024), è pervenuto alla decisione all'esito dell'udienza pubblica di discussione del 16 maggio 2024. 9. L'appello è infondato. Esso fa perno su due elementi argomentativi che attengono (i) al dedotto ridimensionamento del quadro accusatorio penale, all'esito della sua riconsiderazione da parte del Tribunale della Libertà e della Corte di Cassazione; e (ii) al conseguente supposto indebolimento degli elementi indiziari idonei a tracciare un plausibile rischio di condizionamento dell'impresa da parte delle consorterie criminali locali. Entrambi i passaggi deduttivi si rivelano non conducenti. 9.1. Anzitutto, i provvedimenti del Tribunale dei Riesame e della Corte di Cassazione, pur escludendo la violazione delle norme in materia di lavoro (sotto i diversi profili dell'osservanza delle disposizioni in materia di retribuzione, orario di lavoro, ferie e riposi festivi, sicurezza ed igiene dei luoghi di esecuzione della prestazione) o limitando la rilevanza penale dei fatti contestati, danno concordemente atto: -- della "presenza di alcuni braccianti su automezzi condotti dai vari caporali sui terreni di proprietà del -OMISSIS-, impegnati nella raccolta delle fragole", quale dato pacifico "giammai smentito dalla difesa"; -- del fatto che "le somme dovute quale salario erano raccolte direttamente da -OMISSIS- altri caporali che le distribuivano successivamente ai braccianti"; -- della consapevolezza del sig. -OMISSIS- "del prezzo dei caporali di turno per le rispettive attività di intermediazione". 9.2. In disparte, quindi, i profili afferenti alla valida contestazione del reato di cui all'art. 603 bis c.p. - concernenti la sottoposizione dei lavoratori a condizioni di sfruttamento in violazione della normativa lavoristica - dagli atti dell'istruttoria penale risulta confermato un dato di specifico rilievo ai fini della prevenzione amministrativa, apprezzabile indipendentemente dai suoi riflessi di natura penalistica (Cons. Stato, sez. III, 22 maggio 2023, n. 5024; 16 maggio 2023, n. 4856; 29 settembre 2022, n. 9558). 9.3. Venendo quindi alla considerazione di questo nucleo di condotte storiche rilevanti a fini preventivi, occorre osservare che, in sé considerata, la pratica dell'approvvigionamento di manodopera mediato dall'intervento della malavita locale - la quale si avvantaggia di parte della retribuzione corrisposta ai lavoratori e gestisce il reperimento e la fornitura dei lavoratori, interagendo direttamente con il datore di lavoro - rappresenta un dato di oggettiva pregnanza ai fini antimafia, in quanto denota una chiara e strutturale condizione di consapevole e accettata soggiacenza dell'impresa alla forza criminale, certamente idonea alla configurazione di una infiltrazione - più che temuta - a tutti gli effetti consumata. 9.4. A questo proposito nel testo dell'interdittiva si legge che "le somme dovute quale salario erano raccolte direttamente da -OMISSIS-e da altri caporali che le distribuivano successivamente ai braccianti secondo criteri non corrispondenti a quanto stabilito dai contratti collettivi di lavoro ma bensì in base a dispotiche ed estemporanee valutazioni dei caporali stessi, i quali decurtavano previamente, dalle somme destinate ai lavoratori, una quota che corrispondeva al loro compenso per l'intermediazione e il trasporto. In molti casi gli stessi caporali trattenevano per sé qualcosa in più del dovuto (c.d. "cresta") di modo che al termine delle predette decurtazioni la retribuzione che giungeva al lavoratore risultava insufficiente e completamente inconferente rispetto a quella prevista dai contratti collettivi di lavoro". 9.5. Ebbene, questa Sezione (v. sentenze nn. 5347 e 758/ del 2019) ha ripetutamente affermato il principio secondo cui una forma assai insidiosa e sfuggente di pericolo infiltrativo è quella della contiguità compiacente, che può consistere in un accordo o nella mera soggiacenza dell'imprenditore con la criminalità mafiosa. 9.6. La positiva corrispondenza - che si riscontra nel caso di specie - dell'impresa ricorrente alle richieste impositive dei clan rappresenta, nell'ottica di una reciprocità sinallagmatica di vantaggi, un obiettivo ausilio alle organizzazioni malavitose, in quanto l'imprenditore coartato, oltre a fornire provvista finanziaria ai clan, ne evidenzia ed esalta, anche nei confronti delle altre imprese, la forza intimidatrice e di controllo del territorio. 9.7. Al contempo, la pratica in commento segnala una chiara interferenza degli interessi economici della criminalità (la cui speculazione affaristica si concretizza nell'applicazione di una trattenuta sulla retribuzione dei lavoratori) e dell'impresa collusa, disposta ad accettare manovalanza sottopagata (sebbene formalmente inquadrata nei limiti contrattuali vigenti) pur di assecondare i voleri dei clan e riceverne (oltre ad un beneficio in termini di protezione) anche un ausilio nel reperimento di forza lavoro. 9.8. Il fatto poi - come ben evidenziato nell'atto prefettizio - che l'attività dell'azienda ricorrente sia finalizzata alla coltivazione, alla raccolta e alla commercializzazione delle fragole e quindi strutturalmente si basi sull'attività dei braccianti, che nel ciclo produttivo agricolo rappresentano insostituibile risorsa, consente di escludere la marginalità o la settorialità del punto di collegamento dell'impresa con l'associazione criminale, poiché l'interessenza tra le due entità ha riguardo non già ad un ambito estraneo o marginale nell'economia dell'azienda agricola, ma ad un aspetto nevralgico nei suoi processi produttivi, pesantemente tributario della collaborazione corrotta e connivente con un'associazione criminale. 9.9. Anche l'apparente e formale osservanza dei minimi retributivi e contrattuali garantiti dal datore di lavoro, sulla quale fa leva il giudizio di rilevanza penale dei fatti espresso nelle pronunce del Tribunale del riesame e della Corte di Cassazione, non offusca - quale dato storico sottostante - il fatto che i lavoratori, reperiti e condotti sul posto dagli affiliati al clan malavitoso, subivano una sistematica decurtazione della loro retribuzione, falcidiata dalla trattenuta illecita operata dagli intermediari, coperta dalla complice consapevolezza del loro datore di lavoro. Ancora una volta, appare plasticamente evidente l'effetto fuorviante che si determina nell'attribuire centralità decisiva agli esiti (provvisori) del procedimento penale, in quanto le due vicende percorrono traiettorie solo in parte coincidenti, nella condivisione di un comune sostrato di fatti storici, ma in altra misura del tutto disallineate nella diversificazione dei parametri legali di valutazione ai quali quei medesimi fatti rimandano. 9.10. Sotto questo aspetto la lettura dei cennati passi dei provvedimenti cautelari del procedimento penale mostra come la Prefettura non sia affatto incorsa in un deficit istruttorio, come preteso dalla ricorrente, ma, al contrario, lungi dal limitarsi a prendere atto dell'esito "assolutorio" della fase cautelare, abbia compiuto una ragionata lettura della motivazione delle pronunce tenendo conto dei profili indiziari che, pur non avendo una rilevanza penale, finiscono per assumerla nell'ottica anticipatoria propria della prevenzione amministrativa. 9.11. Quanto alla dedotta carenza di attualità degli elementi oggetto di valutazione, deve osservarsi che l'interdittiva antimafia può legittimamente fondarsi anche su fatti risalenti nel tempo, purché dall'analisi del complesso delle vicende esaminate emerga, comunque, un quadro indiziario idoneo a giustificare il necessario giudizio di attualità e di concretezza del pericolo di infiltrazione mafiosa nella gestione dell'attività di impresa. In questo senso, il mero decorso del tempo è in sé un elemento neutro, che non smentisce da solo la persistenza di legami, vincoli e sodalizi, né determina la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo o la loro inutilizzabilità quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, occorrendo, piuttosto, che sono solo emergano fatti nuovi positivi, ma che questi nel tempo si consolidino al punto da far virare in modo irreversibile l'impresa verso una condizione di fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della contiguità malavitosa (cfr., Cons. Stato, sez. III, n. 1142/2024). 9.12. Nel caso di specie merita considerare che non solo i fatti contestati non risultano particolarmente risalenti nel tempo, ma che gli stessi non vengono indeboliti nella loro forza persuasiva dalla segnalazione nell'istruttoria procedimentale di elementi di segno contrario rispetto a quelli valorizzati dalla Prefettura. Nondimeno, è sull'impresa incisa che incombe l'onere di provare l'adozione di fatti nuovi e contrari a quelli addotti dalla Prefettura o di documentare misure di self-cleaning in grado di fugare la sospetta compiacenza operativa con i clan (sospetto evidentemente non fugato dalla mera condizione di regolarità fiscale e contributiva della gestione aziendale). 10. Le considerazioni che precedono consentono di ritenere infondata anche la censura di violazione e falsa applicazione dell'art. 94-bis d.lgs. n. 159/2011, per avere l'interdittiva "rigettato anche la richiesta di misure alternative di prevenzione collaborativa di cui all'art. 94-bis formulata, in via subordinata". Invero, il provvedimento prefettizio contiene una esaustiva e plausibile motivazione sul punto, che fa riferimento al carattere non occasionale dei rapporti intrattenuti con alcuni dei soggetti afferenti all'associazione criminale capeggiata da -OMISSIS-, ovvero alla natura strutturale del rischio infiltrativo riscontrato, riguardante un processo fondamentale dell'attività aziendale, oltre che alla ritenuta inidoneità delle misure previste dall'art. 94 bis del D.Lgs 159 del 2011 ad eradicare il rischio di permeabilità nei confronti della criminalità organizzata, poiché indirizzate a circoscrivere solo in parte le modalità con le quali nel caso concreto l'infiltrazione è venuta ad estrinsecarsi. 11. Per le ragioni esposte, confermative dell'adeguatezza motivazionale della decisione impugnata, l'appello è integralmente respinto. 12. Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante a rifondere in favore della parte appellata le spese del presente grado di giudizio che liquida nell'importo di Euro 3.000,00 (tremila//00), oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti private. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Stefania Santoleri - Presidente FF Giovanni Pescatore - Consigliere, Estensore Nicola D'Angelo - Consigliere Giulia Ferrari - Consigliere Luca Di Raimondo - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DORONZO Adriana - Presidente Dott. LEONE Margherita Maria - Consigliere Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere Dott. AMENDOLA Fabrizio - Consigliere Dott. MICHELINI Gualtiero - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 27792-2022 proposto da: Se.Di., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato AN.GI.; - ricorrente - contro (...) Spa - Società con socio unico, soggetta all'attività di direzione e coordinamento di (...) Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato PA.TO.; - controricorrente - avverso la sentenza n. 457/2022 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 17/10/2022 R.G.N. 239/2022; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2024 dal Consigliere Dott. GUALTIERO MICHELINI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'avvocato AN.GI.; udito l'avvocato AN.UB. per delega verbale avvocato PA.TO. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d'Appello di Torino, in accoglimento del gravame di (...), ha rigettato le domande di Se.Di., dipendente con mansioni di macchinista, accolte dal Tribunale della stessa sede nei limiti della prescrizione quinquennale, dirette alla declaratoria del diritto a percepire, durante il periodo di ferie, il trattamento economico commisurato a quello percepito per il lavoro ordinariamente svolto secondo le statuizioni della Corte di Giustizia Europea e, quindi, a ottenere l'indennità di utilizzazione giornaliera professionale (IUP), corrisposta in ragione del solo importo fisso, con esclusione della parte variabile, quindi inferiore all'indennità di utilizzazione/condotta percepita nei periodi lavorati, nonché l'indennità di assenza dalla residenza, non corrisposta durante il periodo feriale, voci previste dai CCNL e dai Contratti aziendali applicati al rapporto, da calcolarsi, secondo la prospettazione attorea, sulla media dei compensi percepiti a tali titoli nei 12 mesi precedenti la fruizione di ciascun periodo di ferie. 2. La Corte di merito, in estrema sintesi, ha escluso l'applicazione alla presente fattispecie della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE richiamata dal lavoratore, in particolare la cd. sentenza Williams del 16.9.2011 - C -155/10, che impone di prendere in considerazione "qualsiasi incomodo intrinsecamente collegato alle mansioni che il lavoratore è tenuto ad espletare in forza del suo contratto di lavoro" ai fini della determinazione dell'ammontare della retribuzione spettante durante le ferie annuali, per evitare il rischio di dissuasione del lavoratore dalla fruizione delle ferie per non perdere una quota significativa della retribuzione; tale esclusione è stata motivata dall'autonomia delle parti negoziali nell'individuazione della retribuzione proporzionata e sufficiente e dalla ritenuta contenuta incidenza delle differenze di indennità rivendicate rispetto alla retribuzione ordinaria. 3. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, con tre motivi, cui ha resistito con controricorso la società; entrambe le parti hanno depositato memorie e discusso la causa all'odierna udienza. 4. il P.G. ha concluso (anche con memoria scritta) per l'accoglimento del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Parte ricorrente deduce, con il primo motivo, violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della Direttiva 88/2003/CE e dell'art. 31, par. 2, della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea riguardo alla retribuzione dei giorni di ferie, come interpretati dalle sentenze della Corte di Giustizia UE, nonché degli artt. 2109 e 2243 c.c. e 10 D.Lgs. n. 66/2003 in relazione all'art. 34.8.4.1 dell'Accordo di Confluenza 2003 e all'art. 31 dei contratti aziendali di Gruppo FS Italiane 2012 e 2016, e agli effetti dell'art. 1418 c.c.; sostiene che la Corte di merito, limitandosi a valorizzare l'autonomia negoziale delle parti sociali che avrebbe disposto l'assorbimento della IUP fissa introdotta nel CCNL 1990-1991 nel salario di produttività, non avrebbe tenuto in considerazione la recente giurisprudenza di legittimità, che delinea una nozione europea di retribuzione dovuta al lavoratore durante il periodo di ferie annuali, fissata dall'articolo 7 della direttiva 88/2003, come interpretato dalla Corte di Giustizia; argomenta circa il carattere imperativo dell'art. 7 della Direttiva 2003/88 e le indicazioni giurisprudenziali dettate al riguardo dalla Corte di Giustizia (come evidenziate dalla sentenza CGUE 15 settembre 2011, Williams, cit.); assume che deve valutarsi sussistente nella specie il rapporto di funzionalità che intercorre tra gli elementi della retribuzione richiesti e le mansioni ordinariamente affidate, e che possono escludersi dal calcolo dell'importo da versare durante le ferie annuali solo gli elementi della retribuzione complessiva del lavoratore diretti esclusivamente a coprire spese occasionali o accessorie che sopravvengano in occasione dell'espletamento delle mansioni; afferma che siffatti principi sono già stati declinati da questa Corte (Cass. n. 20216/2022) al fine di ritenere l'obbligo per le parti sociali, nel redigere le norme collettive, di tenere conto dei principi e degli orientamenti consolidati in materia; specifica, nella memoria conclusiva, che questa Corte si è recentemente pronunciata più volte nel senso dell'accoglimento di analoghe rivendicazioni di dipendenti (...), società partecipata da (...) che applica il medesimo CCNL. 2. Con il secondo motivo viene denunciata la nullità della sentenza di merito per violazione e falsa applicazione degli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. per motivazione apparente e intrinsecamente contraddittoria. 3. Con il terzo motivo, viene dedotta violazione dell'art. 7 della Direttiva 88/2003/CE e dell'art. 31, par. 2, della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea riguardo alla retribuzione dei giorni di ferie, come interpretati dalle sentenze delle Corte di Giustizia UE, nonché dell'art. 2109 anche in relazione all'art. 36 Cost. e all'art. 10 D.Lgs. n. 66/2003, e violazione e falsa applicazione dell'art. 72.2 CCNL 2003 e dell'art. 77.2.4 dei CCNL della Mobilità, Area Attività Ferroviarie del 20.7.2012 e del 16.12.2016, con riferimento agli artt. 1362 e 1363 c.c. 4. I motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati. 5. Questa Corte (come anche rilevato dal P.G. nella requisitoria scritta) ha in più occasioni affermato che la nozione di retribuzione da applicare durante il periodo di godimento delle ferie subisce la decisiva influenza dell'interpretazione data dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, la quale ha precisato come l'espressione "ferie annuali retribuite" contenuta nell'art. 7, n. 1, della Direttiva n. 88 del 2003 faccia riferimento al fatto che, per la durata delle ferie annuali, deve essere mantenuta la retribuzione che il lavoratore percepisce in via ordinaria (Cass. n. 18160/2023 e successive conformi, con richiamo a CGUE 20.1.2009, C-350/06 e C-520/06, Schultz-Hoff, nonché, con riguardo al personale navigante dipendente di compagnia aerea, Cass. n. 20216/2022). 6. I principi informatori di tale indirizzo giurisprudenziale sono nel senso di assicurare, a livello retributivo, una situazione sostanzialmente equiparabile a quella ordinaria del lavoratore nei periodi di lavoro, sul rilievo che una diminuzione della retribuzione potrebbe essere idonea a dissuadere il lavoratore dall'esercitare il diritto alle ferie, in contrasto con le prescrizioni del diritto dell'Unione (cfr. CGUE 15.9.2011, C-155/10, Williams; CGUE 13.12.2018, C-385/17, Torsten Hein). 7. In questo senso, si è precisato nelle pronunce indicate che qualsiasi incentivo o sollecitazione che risulti volto ad indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie è incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo, che si propone di assicurare ai lavoratori il beneficio di un riposo effettivo, anche per un'efficace tutela della loro salute e sicurezza (cfr. in questo senso anche la recente CGUE 13.1.2022, C-514/20, DS c. Koch). 8. Conseguentemente, è stato ribadito che la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell'art. 7 della Direttiva 2003/88/CE, per come interpretata dalla Corte di Giustizia, comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore (Cass. n. 13425/2019). 9. In applicazione di tali orientamenti ed in applicazione di siffatta nozione europea di retribuzione, nell'ambito del personale navigante dipendente di compagnia aerea, è stato ritenuto rientrante nella retribuzione dovuta l'importo erogato a titolo di indennità di volo integrativa, ritenendo nel contempo la nullità della relativa disposizione del contratto collettivo nazionale (in quel caso l'art. 10 del CCNL Trasporto Aereo - sezione personale navigante tecnico) nella parte in cui escludeva nel periodo di ferie la voce stipendiale, in quel caso in violazione dell'art. 4 del D.Lgs. n. 185/2005 (che attuava la direttiva 2000/79/CE relativa all'Accordo europeo sull'organizzazione dell'orario di lavoro del personale di volo dell'aviazione civile - Cass. n. 20216/2022). 10. Atteso che, per giurisprudenza consolidata di questa Corte, le sentenze della Corte di Giustizia UE hanno efficacia vincolante e diretta nell'ordinamento nazionale, i giudici di merito non possono prescindere dall'interpretazione data dalla Corte europea, che costituisce ulteriore fonte del diritto dell'Unione europea, non nel senso che esse creino ex novo norme UE, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito dell'Unione (cfr. Cass. n. 13425/2019, n. 22577/2012). 11. Pertanto, a fronte della rivendicazione di voci non corrisposte nel periodo feriale, è necessario accertare il nesso intrinseco tra l'elemento retributivo e l'espletamento delle mansioni affidate e, quindi, se l'importo pecuniario si ponga in rapporto di collegamento funzionale con l'esecuzione delle mansioni e sia correlato allo status personale e professionale di quel lavoratore (cfr. Cass. n. 13425/2019 cit., così come, per il caso del mancato godimento delle ferie, Cass. n. 37589/2021). 12. Nella controversia in esame, vengono in discussione la cd. indennità di utilizzazione professionale (IUP) e l'indennità per assenza dalla residenza. 13. Quanto a quest'ultima, essa, in quanto voce diretta a compensare il disagio dell'attività tipica del dipendente viaggiante derivante dal non avere un luogo fisso di lavoro, è stata già ritenuta da questa Corte come voce da includere nella retribuzione feriale, allorché si è esaminata analoga controversia che aveva come parte datoriale la società (...) (tra le molte, Cass. nn. 2963, 2682, 2680, 2431, 1141/2024; nn. 35578, 33803, 33793, 33779, 19716, 19711, 19663, 18160/2023). 14. La corresponsione, in forma continuativa, di una simile indennità è immediatamente collegata alle mansioni tipiche dei dipendenti macchinisti, essendo destinata a compensare il disagio dell'attività derivante dal non avere una sede fissa di lavoro e dall'essere continuamente in movimento, lontano dalla sede formale di lavoro. 15. In base alla medesima ratio (collegamento funzionale con le mansioni tipiche) sono fondate le domande collegate alla parte variabile dell'indennità di utilizzazione professionale, in quanto voce ordinariamente corrisposta per i periodi di lavoro, la cui erogazione in misura ridotta nel periodo di ferie, in base a una verifica ex ante, è potenzialmente dissuasiva al godimento delle stesse, tenuto conto della continuatività dell'erogazione nel corso dell'anno e dell'incidenza sul trattamento economico mensile. 16. Nell'interpretazione delle norme collettive che regolano gli istituti di cui è stata chiesta l'inclusione nella retribuzione feriale è necessario tenere conto della finalità della direttiva, recepita dal legislatore italiano, di assicurare un compenso che non possa costituire per il lavoratore un deterrente all'esercizio del suo diritto di fruire effettivamente del riposo annuale. Tale effetto deterrente può, infatti, realizzarsi qualora le voci che compongono la retribuzione nei giorni di ferie sono limitate a determinate voci, escludendo talune indennità di importo variabile (previste dalla contrattazione collettiva nazionale o aziendale) che sono comunque intrinsecamente collegate a compensare specifici disagi derivanti dalle mansioni normalmente esercitate. 17. La giurisprudenza UE ha, invero, chiarito che il lavoratore, in occasione della fruizione delle ferie, deve trovarsi in una situazione che, a livello retributivo, sia paragonabile ai periodi di lavoro; ciò in quanto il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite va considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale UE, al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla stessa direttiva. 18. È stato affermato che "la retribuzione delle ferie annuali deve essere calcolata, in linea di principio, in modo tale da coincidere con la retribuzione ordinaria del lavoratore" (sent. CGUE Williams cit., par. 21); che '"l'ottenimento della retribuzione ordinaria durante il periodo di ferie annuali retribuite è volto a consentire al lavoratore di prendere effettivamente i giorni di ferie cui ha diritto", e che "quando la retribuzione versata a titolo del diritto alle ferie annuali retribuite previsto all'articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 (...) è inferiore alla retribuzione ordinaria ricevuta dal lavoratore durante i periodi di lavoro effettivo, lo stesso rischia di essere indotto a non prendere le sue ferie annuali retribuite, almeno non durante i periodi di lavoro effettivo, poiché ciò determinerebbe, durante tali periodi, una diminuzione della sua retribuzione" (sent. CGUE Torsten Hein cit., par. 44); che il giudice nazionale è tenuto a interpretare la normativa nazionale in modo conforme all'articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, con la precisazione che "una siffatta interpretazione dovrebbe comportare che l'indennità per ferie retribuite versata ai lavoratori, a titolo delle ferie minime previste da tale disposizione, non sia inferiore alla media della retribuzione ordinaria percepita da questi ultimi durante i periodi di lavoro effettivo" (sent. CGUE Torsten Hein cit., par. 52); che "occorre dichiarare che, sebbene la struttura della retribuzione ordinaria di un lavoratore di per sé ricada nelle disposizioni e prassi disciplinate dal diritto degli Stati membri, essa non può incidere sul diritto del lavoratore (...) di godere, nel corso del suo periodo di riposo e di distensione, di condizioni economiche paragonabili a quelle relative all'esercizio del suo lavoro" (sent. CGUE Williams cit., par. 23), sicché "qualsiasi prassi o omissione da parte del datore di lavoro che abbia un effetto potenzialmente dissuasivo sulla fruizione delle ferie annuali da parte di un lavoratore è incompatibile con la finalità del diritto alle ferie annuali retribuite" (sent. CGUE Koch cit., par. 41), 19. In tale prospettiva, osserva il Collegio che non può ritenersi che l'incidenza dell'effetto dissuasivo possa essere apprezzata raffrontando la differenza retributiva mensile con quella annuale, dal momento che, per il lavoratore dipendente, la possibile induzione economica alla rinuncia al proprio diritto alle ferie deriva dall'incidenza sulla retribuzione che ogni mese, e quindi anche in quello di ferie, egli può impegnare per garantire a sé o alla sua famiglia le ordinarie condizioni economiche di vita. 20. In conclusione, in concordanza all'interpretazione conforme alla citata giurisprudenza dell'Unione europea e di legittimità delle norme collettive che regolano gli istituti di cui è stata chiesta l'inclusione nella retribuzione feriale, il ricorso va accolto, in linea con la finalità della direttiva, recepita dal legislatore italiano, di assicurare nel periodo feriale un compenso che non possa costituire per il lavoratore un deterrente all'esercizio del suo diritto di fruire effettivamente del riposo annuale. 21. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti, e rinviata al giudice indicato in dispositivo, per il riesame delle originarie domande alla luce dei principi sopra espressi, e altresì per provvedere sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Torino in diversa composizione, anche per le spese di giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2024.
AULA 'A' 2024 1023 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ADRIANA DORONZO - Presidente - Dott. MARGHERITA MARIA LEONE - Consigliere - Dott. FRANCESCOPAOLO PANARIELLO - Consigliere - Dott. FABRIZIO AMENDOLA - Consigliere - Dott. GUALTIERO MICHELINI - Rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 11330-2023 proposto da: TRENITALIA S.P.A. - Società con socio unico, soggetta all'attività di direzione e coordinamento di Ferrovie dello Stato Italiane S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato PAOLO TOSI; - ricorrente - contro BRANCATI ROSITA, CALASCIBETTA FRANCESCA, CIRILLO ANTONIO, GUGLIANDOLO CARMELA, REDAVIDE EMILIO, SANTORUVO EMANUELE, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE CARSO 14, presso lo studio dell'avvocato Oggetto RETRIBUZIONE FERIALE R.G.N. 11330/2023 Cron. Rep. Ud. 05/03/2024 PU ANNARITA D'ERCOLE, rappresentati e difesi dall'avvocato CRISTIAN FERRARI; - controricorrenti - avverso la sentenza n. 966/2022 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 21/11/2022 R.G.N. 811/2022; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2024 dal Consigliere Dott. GUALTIERO MICHELINI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'avvocato ANDREA UBERTI per delega verbale avvocato PAOLO TOSI; udito l'avvocato ANNARITA D'ERCOLE. FATTI DI CAUSA 1.La Corte d’Appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa sede che, in accoglimento del ricorso proposto dai lavoratori indicati in epigrafe, tutti dipendenti di Trenitalia con qualifica di Capo Treno o Capo Servizio Treno, aveva accertato il loro diritto a percepire, durante il periodo di ferie, il trattamento economico commisurato a quello percepito per il lavoro ordinariamente svolto, e condannato la società al pagamento delle somme per ciascuno specificate. 2.La Corte territoriale, a fronte della domanda di computo nella retribuzione dovuta durante le ferie dell’indennità di assenza dalla residenza, dell’indennità di scorta vetture eccedenti, del premio scoperta irregolarità, dell’indennità di utilizzazione professionale (IUP) senza esclusione della parte variabile (ossia inferiore all’indennità di utilizzazione/condotta percepita nei periodi lavorati), ha confermato le statuizioni del Tribunale di accoglimento delle domande. 3.Precisamente, il Tribunale aveva dichiarato la nullità per violazione dell’art. 7 della direttiva 2003/88/CE, come interpretato dalla Corte di Giustizia Europea, dell’art. 31 punto 5 dei Contratti Aziendali 2012 e 2016 del Gruppo Ferrovie dello Stato, nella parte in cui limitano l’indennità di utilizzazione professionale giornaliera, da corrispondere nelle giornate di ferie, al solo importo fisso di € 4,50, nonché l’inapplicabilità dell’art. 77, punto 2.4 del CCNL della Mobilità, Area Attività Ferroviarie del 16.12.2016, nella parte in cui esclude l’indennità per assenza della residenza dal calcolo della retribuzione spettante per i periodi di ferie; aveva accertato il diritto dei ricorrenti al pagamento di ciascuna giornata di ferie con una retribuzione comprensiva dell’indennità di assenza dalla residenza, dell’indennità di utilizzazione/scorta di cui all’art. 31 tabella B, dell’indennità di scorte vetture eccedenti (art. 32 dei Contratti aziendali del 2012 e 2016), e del premio scoperta irregolarità (art. 36 dei Contratti aziendali del 2012 e 2016), calcolate sulla media dei compensi percepiti a tali titoli nei 12 mesi precedenti la fruizione delle ferie, detratto l’importo fisso giornaliero di € 4,50 già riconosciuto, e per l’effetto condannato la società a corrispondere ai ricorrenti le differenze retributive maturate. 4.La Corte territoriale ha richiamato la giurisprudenza, propria e di questa Corte, che, con riguardo alla retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell'art. 7 della Direttiva 2003/88/CE, per come interpretata dalla Corte di Giustizia, ha ritenuto che sussiste una nozione europea di retribuzione che comprende qualsiasi importo pecuniario che si ponga in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore; ha ribadito che occorre verificare se la retribuzione corrisposta possa costituire una dissuasione dal godimento delle ferie, e in tale prospettiva ha accertato che una sensibile diminuzione è effettivamente idonea a dissuadere i lavoratori dal beneficiarne; ha confermato l’accertamento della stretta connessione tra le indennità in questione e le mansioni e lo status dei lavoratori. 5.La società ha proposto ricorso per cassazione con nove motivi, cui hanno resistito con controricorso i lavoratori; entrambe le parti hanno depositato memorie e discusso la causa all’odierna udienza. 6.il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.Parte ricorrente deduce, con il primo motivo, in tema di corretta interpretazione delle sentenze della CGUE, violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della Direttiva CE 88/2003 e degli artt. 1362 ss. c.c. in relazione agli artt. 31 Contratto Aziendale 2012 e 31 Contratto Aziendale 2016. Sostiene che la Corte di merito ha erroneamente applicato i principi sanciti dalla giurisprudenza comunitaria, in quanto non ha considerato che per le giornate di servizio la IUP è quantificata in due diverse ed alternative misure del medesimo compenso in relazione alle diverse modalità di erogazione della prestazione, entrambe tipiche del Capo Treno/Capo Servizi Treno, che per le giornate di ferie l’indennità è riconosciuta in una delle misure riconosciute al personale in servizio per attività svolte tipiche del Capo Treno/Capo Servizi Treno, che tale riconoscimento è quindi conforme al principio di tendenziale corrispondenza tra retribuzione percepita in servizio e retribuzione percepita in ferie. 2.Con il secondo motivo, deduce, in tema di corretta interpretazione delle sentenze della CGUE, violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della Direttiva CE 88/2003 e degli artt. 1362 ss. c.c. in relazione agli artt. 31 Contratto Aziendale 2003 e 32 dei Contratti Aziendali 2012 e 2016. Sostiene erronea applicazione nella sentenza impugnata dei principi sanciti dalla giurisprudenza comunitaria, in quanto non ha considerato che l’indennità di scorta vetture eccedenti non viene attribuita per il solo svolgimento delle mansioni di capotreno, ma dipende da un fatto oggettivo esterno alle mansioni e al ruolo professionale. 3.Con il terzo motivo, deduce, in tema di corretta interpretazione delle sentenze della CGUE, violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della Direttiva CE 88/2003 e degli artt. 1362 ss. c.c. in relazione agli artt. 41, punto 1.3, Contratto Aziendale 2003 e 36, punto 5, dei Contratti Aziendali 2012 e 2016. Contesta l’inclusione nella base di calcolo della retribuzione feriale del premio di controlleria, non essendo stato considerato che il premio scoperta irregolarità, giusta la sua natura premiale e aleatoria, non costituisce una voce retributiva intrinsecamente collegata alle mansioni in questione. 4.Con il quarto motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della Direttiva CE 88/2003, dell’art. 10 d. lgs. n. 66/2003, dell’art. 2109 c.c., con riferimento agli artt. 36 e 39 Cost. e all’art. 77 punto 2.4 dei CCNL Mobilità – Attività Ferroviarie del 20.7.2012 e 16.12.2016. Sostiene che la Corte d’Appello ha errato nell’applicare i principi sanciti dalla giurisprudenza comunitaria, in quanto non ha considerato che l’indennità di assenza dalla residenza ha natura e funzione risarcitoria e non rientra nell’imponibile fiscale, e che quindi l’esclusione dell’indennità è conforme all’orientamento comunitario che ha escluso proprio le voci risarcitorie non imponibili fiscalmente. 5.Con il quinto motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della Direttiva CE 88/2003, dell’art. 10 d. lgs. n. 66/2003, dell’art. 2109 c.c.; sostiene che la sentenza gravata non ha considerato che vi è l'espressa previsione legislativa dell'obbligo di far godere delle ferie in forma specifica, obbligo sorretto da sanzioni amministrative, con espresso divieto di monetizzazione, così essendo superato alla radice ogni possibile spazio per un effetto dissuasivo del trattamento economico, e che la qualificazione delle ferie è sempre operata su base annua. 6.Con il sesto motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della Direttiva CE 88/2003, nonché applicazione in via generale e astratta di principi generali espressi dalla CGUE con violazione degli artt. 36 e 39 Cost., per mancata adeguata valutazione del ruolo della contrattazione collettiva nel nostro ordinamento, dato che il diritto vivente demanda proprio alla contrattazione collettiva la determinazione della retribuzione. 7.Con il settimo motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 267 TFUE e del principio di diritto vivente sull’efficacia ultra partes delle sentenze CGUE e dell’art. 7 della Direttiva CE 88/2003, dell’art. 10 d. lgs. n. 66/2003, dell’art. 2109 c.c. con riferimento agli artt. 36 e 39 Cost.; sostiene che la Corte territoriale ha erroneamente applicato i principi sanciti dalla giurisprudenza comunitaria, poiché non ha considerato la diversità fattuale delle fattispecie e strutturale dei compensi analizzati dalla CGUE (sentenza Robinson Steele del 16.3.2006; sentenza Schultz- Hoff del 20.1.2009; sentenza Williams del 16.9.2011, sentenza Lock del 22.5.2014, sentenza Torsten Hein del 13.12.2018) rispetto alla fattispecie e ai compensi oggetto di causa, diversità che impediva di applicare tali precedenti al diverso caso qui in esame. 8.Con l’ottavo motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della Direttiva CE 88/2003, dell’art. 267 TFUE e del derivato principio di diritto vivente sull’efficacia ultra partes delle sentenze CGUE per omesso esame sul fatto decisivo della diversità fattuale e strutturale delle fattispecie concrete analizzate dalla CGUE nelle sentenze invocate a fondamento della domanda rispetto alla fattispecie oggetto di causa. 9.Con il nono motivo, subordinato, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2948, n. 4 c.c. in combinato disposto con l’art. 18, commi 1 e 2, legge n. 300/1970 come modificato dalla legge n. 92/2012. Sostiene la prescrizione quinquennale dei crediti retributivi rivendicati dai dipendenti per i titoli dedotti in giudizio, con riferimento alla data delle rispettive richieste con pec o con la notifica del ricorso introduttivo. 10.I primi otto motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, in quanto tutti concernenti, sotto diversi profili e angolazioni, l’interpretazione dell’art. 7 della Direttiva CE 88/2003, operata dai giudici di merito alla luce della giurisprudenza in materia della Corte di Giustizia dell’Unione europea. 11.Essi non sono fondati. 12.Questa Corte ha in più occasioni affermato che la nozione di retribuzione da applicare durante il periodo di godimento delle ferie subisce la decisiva influenza dell’interpretazione data dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha precisato come l’espressione «ferie annuali retribuite» contenuta nell'art. 7, n. 1, della direttiva n. 88 del 2003 faccia riferimento al fatto che, per la durata delle ferie annuali, deve essere mantenuta la retribuzione che il lavoratore percepisce in via ordinaria (cfr. Cass. n. 18160/2023, con richiamo a CGUE 20.1.2009, C-350/06 e C- 520/06, Schultz-Hoff, nonché, con riguardo al personale navigante dipendente di compagnia aerea, Cass. n. 20216/2022). 13.I principi informatori di tale indirizzo giurisprudenziale sono nel senso di assicurare, a livello retributivo, una situazione sostanzialmente equiparabile a quella ordinaria del lavoratore nei periodi di lavoro, sul rilievo che una diminuzione della retribuzione può essere idonea a dissuadere il lavoratore dall’esercitare il diritto alle ferie, in contrasto con le prescrizioni del diritto dell'Unione (cfr. CGUE 15.9.2011, C-155/10, Williams; CGUE 13.12.2018, C- 385/17, Torsten Hein). 14.In questo senso, si è precisato, nelle pronunce indicate, che qualsiasi incentivo o sollecitazione che risulti volto ad indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie è incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo, che si propone di assicurare ai lavoratori il beneficio di un riposo effettivo, anche per un’efficace tutela della loro salute e sicurezza (cfr. in questo senso anche la recente CGUE 13.1.2022, C-514/20, DS c. Koch). 15.Conseguentemente, è stato ribadito che la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell'art. 7 della Direttiva 2003/88/CE, per come interpretata dalla Corte di Giustizia, comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore (Cass. n. 13425/2019, n. 37589/2021). 16.In applicazione di tali orientamenti e in applicazione di siffatta nozione europea di retribuzione, nell’ambito del personale navigante dipendente di compagnia aerea, è stato ritenuto rientrante nella retribuzione dovuta l’importo erogato a titolo di indennità di volo integrativa, ritenendo nel contempo la nullità della relativa disposizione del contratto collettivo nazionale (in quel caso l’art. 10 del CCNL Trasporto Aereo - sezione personale navigante tecnico) nella parte in cui escludeva nel periodo di ferie la voce stipendiale, in quel caso in violazione dell’art. 4 del d.lgs. n. 185/2005 (che attuava la direttiva 2000/79/CE relativa all’Accordo europeo sull’organizzazione dell’orario di lavoro del personale di volo dell’aviazione civile - Cass. n. 20216/2022). 17.Atteso che, per giurisprudenza consolidata di questa Corte, le sentenze della Corte di Giustizia UE hanno efficacia vincolante e diretta nell’ordinamento nazionale, i giudici di merito non possono prescindere dall’interpretazione data dalla Corte europea, che costituisce ulteriore fonte del diritto dell’Unione europea, non nel senso che esse creino ex novo norme UE, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito dell’Unione (cfr. Cass. n. 13425/2019, n. 22577/2012). 18.Pertanto, a fronte della rivendicazione di voci non corrisposte nel periodo feriale, è necessario accertare il nesso intrinseco tra l’elemento retributivo e l’espletamento delle mansioni affidate e, quindi, se l’importo pecuniario si ponga in rapporto di collegamento funzionale con l’esecuzione delle mansioni e sia correlato allo status personale e professionale di quel lavoratore (cfr. Cass. n. 13425/2019 cit., così come, per il caso del mancato godimento delle ferie, Cass. n. 37589/2021). 19.Nella controversia in esame, vengono in discussione la cd. indennità di utilizzazione professionale (IUP), l’indennità per assenza dalla residenza, l’indennità di scorta vetture eccedenti, il premio scoperta irregolarità. 10 20.L’indennità di assenza dalla residenza, in quanto voce diretta a compensare il disagio dell’attività tipica del dipendente viaggiante derivante dal non avere un luogo fisso di lavoro, è stata già ritenuta da questa Corte come voce da includere nella retribuzione feriale, allorché si è esaminata analoga controversia che aveva come parte datoriale la società Trenord (tra le molte, Cass. nn. 2963, 2682, 2680, 2431, 1141/2024; nn. 35578, 33803, 33793, 33779, 19716, 19711, 19663, 18160/2023). 21.La corresponsione, in forma continuativa, di una simile indennità è immediatamente collegata alle mansioni tipiche dei dipendenti con mansioni di Capo Treno o Capo Servizio Treno, essendo destinata a compensare il disagio dell’attività derivante dal non avere una sede fissa di lavoro e dall’essere continuamente in movimento, lontano dalla sede formale di lavoro. 22.In base alla medesima ratio (collegamento funzionale con le mansioni tipiche)sono fondate le domande collegate alla parte variabile dell’indennità di utilizzazione professionale, in quanto voce ordinariamente corrisposta per i periodi di lavoro, la cui erogazione in misura ridotta nel periodo di ferie, in base a una verifica ex ante, è potenzialmente dissuasiva al godimento delle stesse, tenuto conto della continuatività dell’erogazione nel corso dell’anno e dell’incidenza sul trattamento economico mensile. 23.Sono ugualmente fondate le rivendicazioni relative all’indennità di scorta vetture eccedenti e al premio scoperta irregolarità, in quanto voci retributive di fatto continuative per tale personale mobile, correlate al disagio intrinseco della mansione. 24.Nell’interpretazione delle norme collettive che regolano gli istituti di cui è stata chiesta l’inclusione nella retribuzione feriale è necessario tenere conto della finalità della direttiva, 11 recepita dal legislatore italiano, di assicurare un compenso che non possa costituire per il lavoratore un deterrente all’esercizio del suo diritto di fruire effettivamente del riposo annuale. Tale effetto deterrente può, infatti, realizzarsi qualora le voci che compongono la retribuzione nei giorni di ferie sono limitate a determinate voci, escludendo talune indennità di importo variabile (previste dalla contrattazione collettiva nazionale o aziendale) che sono comunque intrinsecamente collegate a compensare specifici disagi derivanti dalle mansioni normalmente esercitate. 25.La giurisprudenza UE ha, invero, chiarito che il lavoratore, in occasione della fruizione delle ferie, deve trovarsi in una situazione che, a livello retributivo, sia paragonabile ai periodi di lavoro; ciò in quanto il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite va considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale UE, al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla stessa direttiva. 26.È stato affermato che “la retribuzione delle ferie annuali deve essere calcolata, in linea di principio, in modo tale da coincidere con la retribuzione ordinaria del lavoratore” (sent. CGUE Williams cit., § 21); che “l’ottenimento della retribuzione ordinaria durante il periodo di ferie annuali retribuite è volto a consentire al lavoratore di prendere effettivamente i giorni di ferie cui ha diritto”, e che “quando la retribuzione versata a titolo del diritto alle ferie annuali retribuite previsto all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 (…) è inferiore alla retribuzione ordinaria ricevuta dal lavoratore durante i periodi di lavoro effettivo, lo stesso rischia di essere indotto a non prendere le sue ferie annuali retribuite, almeno non durante i periodi di lavoro effettivo, 12 poiché ciò determinerebbe, durante tali periodi, una diminuzione della sua retribuzione” (sent. CGUE Torsten Hein cit., § 44); che il giudice nazionale è tenuto a interpretare la normativa nazionale in modo conforme all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, con la precisazione che “una siffatta interpretazione dovrebbe comportare che l’indennità per ferie retribuite versata ai lavoratori, a titolo delle ferie minime previste da tale disposizione, non sia inferiore alla media della retribuzione ordinaria percepita da questi ultimi durante i periodi di lavoro effettivo” (sent. CGUE Torsten Hein cit., § 52); che “occorre dichiarare che, sebbene la struttura della retribuzione ordinaria di un lavoratore di per sé ricada nelle disposizioni e prassi disciplinate dal diritto degli Stati membri, essa non può incidere sul diritto del lavoratore (…) di godere, nel corso del suo periodo di riposo e di distensione, di condizioni economiche paragonabili a quelle relative all’esercizio del suo lavoro” (sent. CGUE Williams cit., § 23), sicché “qualsiasi prassi o omissione da parte del datore di lavoro che abbia un effetto potenzialmente dissuasivo sulla fruizione delle ferie annuali da parte di un lavoratore è incompatibile con la finalità del diritto alle ferie annuali retribuite” (sent. CGUE Koch cit., § 41). 27.In tale prospettiva, osserva il Collegio che non può ritenersi che l’incidenza dell’effetto dissuasivo possa essere apprezzata raffrontando la differenza retributiva mensile con quella annuale, dal momento che, per il lavoratore dipendente, la possibile induzione economica alla rinuncia al proprio diritto alle ferie deriva dall’incidenza sulla retribuzione che ogni mese, e quindi anche in quello di ferie, egli può impegnare per garantire a sé o alla sua famiglia le ordinarie condizioni economiche di vita. 28.Deve perciò essere ribadito che la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell'art. 13 7 della Direttiva 2003/88/CE, per come interpretata dalla Corte di Giustizia, comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore (cfr. Cass. n. 13425/2019, n. 37589/2021). 29.A questi principi si è attenuta la Corte di merito che ha proceduto, correttamente, ad una verifica ex ante della potenzialità dissuasiva dell’eliminazione di voci economiche dalla retribuzione erogata durante le ferie al godimento delle stesse, senza trascurare di considerare la pertinenza di tali compensi rispetto alle mansioni proprie della qualifica rivestita; ha, poi, verificato che durante il periodo di godimento delle ferie al lavoratore non erano erogati dalla società compensi (indennità di scorte vetture eccedenti - art. 32 dei Contratti aziendali del 2012 e 2016; premio scoperta irregolarità - art. 36 dei Contratti aziendali del 2012 e 2016; indennità di assenza dalla residenza - art. 77, punto 1, CCNL Mobilità, Area Attività Ferroviarie del 20.0.2012 e del 16.12.2016; cd. IUP in misura intera -art. 31 tabella A e B dei rispettivi Contratti aziendali 2012 e 2016), calcolati sulla media dei compensi percepiti a tali titoli nei 12 mesi precedenti la fruizione delle ferie (detratto l’importo fisso giornaliero di € 4,50 già riconosciuto) connessi ad attività ordinariamente previste dai contratti collettivi nazionali e aziendali; ha accertato la continuatività della loro erogazione e l’incidenza non residuale sul trattamento economico mensile. 30.In conclusione, in concordanza all’interpretazione conforme alla citata giurisprudenza dell’Unione europea e di legittimità delle norme collettive che regolano gli istituti di cui è stata chiesta l’inclusione nella retribuzione feriale, i motivi in esame devono essere rigettati, perché la pronuncia 14 impugnata si pone in linea con la finalità della direttiva, recepita dal legislatore italiano, di assicurare nel periodo feriale un compenso che non possa costituire per il lavoratore un deterrente all’esercizio del suo diritto di fruire effettivamente del riposo annuale. 31.Il nono motivo non è fondato. 32.Questa Corte ha affermato, in ordine alla questione della decorrenza della prescrizione dei crediti maturati nel corso del rapporto di lavoro, che, per effetto delle modifiche apportate dalla legge n. 92/2012 e poi dal d.lgs. n. 23/2015, nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato è venuto meno uno dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata; conseguentemente, per tutti quei diritti che, come nella specie, non sono prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n. 26246/2022). 33.Il Collegio intende dare continuità ai principi espressi con la sentenza n. 26246/2022, confermati in numerosi provvedimenti successivi (v., tra le molte, Cass. n. 4321/2023, n. 4186/2023, n. 29831/2022, n. 30957/2022, n. 30958/2022). 34.Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del d. lgs n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è più, di regola, assistito da un regime di stabilità reale, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a 15 norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro. 35.Il principio è stato affermato a seguito della ricostruzione del quadro normativo sviluppatosi con l’entrata in vigore della legge n. 92/2012 e del d. lgs n. 23/2015 e del rilievo che, in ragione delle predette riforme, l’individuazione del regime di stabilità sopravviene solo a seguito di una qualificazione definitiva del rapporto per attribuzione del giudice, e, quindi, solo all’esito di un accertamento in giudizio, ex post. 36.Invero, la varietà delle ipotesi di tutela contemplate nel rinnovato art. 18 legge n. 300/1970 e la concreta possibilità che le stesse non necessariamente garantiscano il ripristino del rapporto di lavoro in caso di illegittimo recesso, evidenzia come il regime di stabilità del rapporto, in precedenza assicurato, sia venuto meno nella sua integralità; a tale evidente rinnovata situazione deve quindi conseguire che la prescrizione dei crediti del lavoratore decorre, in assenza di un regime di stabilità reale, dalla cessazione del rapporto di lavoro e rimane sospesa in costanza dello stesso. 37.In conclusione, il ricorso va rigettato. 38.Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c. e sono da distrarsi a favore dell’avv. Cristian Ferrari che ha dichiarato di averle anticipate. 39.Sussistono le condizioni processuali di cui all'art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002; P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in € 4.500 per compensi professionali, € 200 per esborsi, 15% per spese forfettarie oltre accessori dovuti per legge, da distrarsi. 16 Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5 marzo 2024 . La Presidente dott.ssa Adriana Doronzo
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DORONZO Adriana - Presidente Dott. LEONE Margherita Maria - Consigliere Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere Dott. AMENDOLA Fabrizio - Consigliere Dott. CASO Francesco Giuseppe Luigi - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 14382-2022 proposto da: Tr. Spa - Società con socio unico, soggetta all'attività di direzione e coordinamento di Fe. Spa, in persona del legale rappresentante prò tempore, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato Pa.To.; - ricorrente - contro Ra.Pe., Gi.Vu., domiciliati in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall'avvocati ROBERTO CARAPELLE; - controricorrenti - avverso la sentenza n. 1470/2021 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 02/12/2021 R.G.N. 847/2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2024 dal Consigliere Dott. FRANCESCO GIUSEPPE LUIGI CASO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO che ha concluso per il rigetto ricorso; udito l'Avvocato ANDREA UBERTI per delega verbale Tosi Paolo; udito l'Avvocato ROBERTO CARAPELLE. FATTI DI CAUSA 1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d'appello di Milano ha rigettato l'appello proposto da Tr. Spa contro la sentenza del Tribunale della medesima sede, che, in accoglimento del ricorso proposto dai due lavoratori in epigrafe indicati, entrambi dipendenti di Tr. con la qualifica di macchinisti, aveva accertato il loro diritto a vedersi retribuire ciascuna giornata di ferie con una retribuzione comprensiva dell'indennità di assenza dalla residenza e dell'intera indennità di utilizzazione professionale (in sigla "IUP"), calcolate sulla media dei compensi percepiti, a tali titoli, nei 12 mesi precedenti la fruizione delle ferie, detratto l'importo fisso giornaliero di Euro 12,80 già riconosciuto, e aveva quindi condannato detta società a corrispondere agli attori le differenze retributive maturate, per i titoli ed il periodo indicati, come quantificate, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle scadenze al saldo. 1.1. La Corte territoriale ha anzitutto richiamato i principi espressi in talune decisioni di legittimità sulla questione della retribuzione feriale in relazione al quadro normativo e giurisprudenziale europeo, con particolare riferimento alla incidenza su di essa delle voci retributive variabili. 1.2. Quanto all'indennità di utilizzazione professionale, la Corte ha ritenuto che la quantificazione della quota di indennità riconosciuta durante le ferie ad opera della contrattazione collettiva non poteva in alcun modo escludere la valutazione, in sede giurisdizionale, della sua rispondenza alla sovraordinata normativa interna e sovranazionale, e che tale vaglio, da compiersi secondo i criteri in precedenza illustrati, prevaleva certamente sulla determinazione operata dalle parti sociali, il cui effetto dissuasivo rispetto alla fruizione delle ferie - se accertato nel caso concreto - ne determinava l'illegittimità per contrasto con fonti di rango prevalente. 1.3. In tale ottica risultava, infatti, decisiva - non già la misura solo parziale della decurtazione - bensì la sua incidenza sulla retribuzione feriale e, di conseguenza, sulla piena libertà di fruizione del periodo di riposo costituzionalmente garantito; e considerava che, contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, tale raffronto non poteva limitarsi alla sola prospettiva annuale, ma andava calato nel breve periodo, ben potendo valutazioni di carattere immediato rivestire in concreto portata dissuasiva; portata dissuasiva che la Corte accertava in concreto per entrambi i lavoratori. 1.4. Circa l'indennità di assenza dalla residenza, poi, rilevava trattarsi di componente retributiva certamente rientrante nel concetto di retribuzione, delineato dalla giurisprudenza in precedenza richiamata, e che essa appare volta a compensare - non già una modalità temporanea o un esborso occasionale - bensì un disagio intrinsecamente connesso alla prestazione lavorativa tipica del personale mobile, determinato dalla mancanza di un luogo fisso di lavoro e dalla costante lontananza della propria sede, richiamando a riguardo l'art. 77 c. 2 del CCNL. 1.5. Inoltre, la Corte d'appello riteneva irrilevanti, in senso contrario, l'omologazione del relativo regime fiscale a quello del trattamento di trasferta e l'esclusione dell'elemento in esame dal calcolo della retribuzione spettante per tutti gli istituti di legge e/o di contratto, stabilite dai punti nn. 3 e 4 del citato art. 77 c. 2, in quanto inidonee ad incidere sulla funzione sostanziale dell'emolumento e, in particolare, sulla sua diretta correlazione ad un disagio intrinseco alla mansione. 1.6. Infine, la Corte ha escluso che per le somme chieste operasse la prescrizione, evidenziando che, nel regime novellato dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori per effetto delle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012, la prescrizione non decorre in costanza di rapporto di lavoro. 2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Tr. Spa, affidato ad otto motivi. 3. I lavoratori intimati resistono con controricorso. 4. Le parti hanno depositato memoria. 5. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo la ricorrente fa valere quella che giudica "La corretta interpretazione delle sentenze della CGE nel rispetto dei limiti stabiliti dall'art. 267 TFUE", e lamenta la "Violazione e falsa applicazione dell'art. 7, Dir. CE 88/2003 e degli artt. 1362 e seguenti C.C. in relazione agli artt. 31, CA 2012 e art. 31, CA 2016 (art. 360, n. 3 c.p.c.". 1.1. Sostiene la ricorrente che la Corte di merito ha erroneamente applicato i principi sanciti dalla giurisprudenza comunitaria, in quanto non ha considerato che: - per le giornate di servizio la IUP è quantificata in due diverse ed alternative misure in relazione alla tipologia di attività svolte, entrambe tipiche del macchinista; - per le giornate di ferie l'indennità è riconosciuta in una delle misure riconosciute al personale in servizio per attività svolte tipiche del macchinista, e tale riconoscimento per la ricorrente è quindi conforme al principio di tendenziale corrispondenza tra retribuzione percepita in servizio e retribuzione percepita in ferie. 2. Con il secondo motivo è denunciata la "violazione e falsa applicazione dell'art. 7, Dir. CE 88/2003, dell'art. 10, D.Lgs. 66/2003, nonché dell'art. 2019 (n.d.r.: rectius, 2109) c.c., con riferimento agli artt. 36 e 39 Cost. e all'art. 77 punto 2.4. del CCNL Mobilità - Attività Ferroviarie del 20.7.2012 e del 16.12.2016 (art. 360, n. 3 c.p.c.)". 2.1. Sostiene la società che la Corte ha erroneamente applicato i principi sanciti dalla giurisprudenza comunitaria, in quanto non ha considerato che: - l'indennità assenza dalla residenza ha natura e funzione risarcitoria; - l'indennità assenza dalla residenza non rientra nell'imponibile fiscale; sicché l'esclusione di tale indennità è conforme all'orientamento comunitario che ha escluso proprio le voci risarcitorie non imponibili fiscalmente. 3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia, ancora una volta, la "Violazione e falsa applicazione dell'art. 7, Dir. CE 88/2003 nonché applicazione in via generale ed astratta dei principi giurisprudenziali espressi dalla CGE con violazione degli artt. 36 e 39 Cost. (art. 360, n. 3 c.p.c.". 3.1. Sostiene che la Corte di merito non ha adeguatamente valutato il "ruolo" della contrattazione collettiva nel nostro ordinamento, così violando l'art. 36 Cost. ed il diritto vivente che demanda proprio alla contrattazione collettiva la determinazione della retribuzione. 4. Con il quarto motivo di ricorso è denunciata la "Violazione e falsa applicazione dell'art. 267 TFUE (ex art. 234 del TCE) e del principio di diritto vivente sulla efficacia ultra partes delle sentenze CGE nonché dell'art. 7, Dir. CE 88/2003, dell'art. 10, D.Lgs. 66/2003, nonché dell'art. 2019 (n.d.r.: rectius, 2109) c.c., con riferimento agli artt. 36 e 39 Cost. (art. 360, n. 3 c.p.c.)". 4.1. Secondo la ricorrente, la Corte ha erroneamente applicato i principi sanciti dalla giurisprudenza comunitaria in quanto non ha considerato la diversità fattuale delle fattispecie e strutturale dei compensi analizzati dalla CGE (sentenza Robinson Steele del 16.3.2006; sentenza Schultz-Hoff del 20.1.2009; sentenza Williams n. 155/2010; sentenza Z.J.R. Lock del 22.5.2014; Sentenza Torsten Hein - causa C-385/17) rispetto alla fattispecie e ai compensi oggetto di causa, diversità che impediva di applicare tali precedenti al diverso caso qui in esame, con conseguente rigetto delle domande. 5. Con un quinto motivo deduce "Violazione e falsa applicazione dell'art. 7, Dir. CE 88/2003 nonché dell'art. 267 TFUE (ex art. 234 del TCE) e del derivato principio di diritto vivente sulla efficacia ultra partes delle sentenze CGE per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, n. 5) c.p.c.)". 5.1. Per la ricorrente, la Corte ha erroneamente applicato i principi sanciti dalla giurisprudenza comunitaria in quanto non ha accertato che i fatti e la disciplina dei compensi oggetto dei casi concreti sottoposti all'esame della CGE sono diversi sotto ogni profilo da quelli oggetto di questo giudizio; tale diversità impediva di applicare tali precedenti al diverso caso qui in esame, con conseguente rigetto delle domande. 6. Con un sesto motivo, in subordine, denuncia "Violazione e falsa applicazione dell'art. 267 TFUE (ex art. 234 TCE) e del principio di diritto vivente sulla efficacia ultra partes delle sentenze CGE e violazione degli artt. 289 e 294 TFUE (funzione normativa procedura ordinaria e straordinaria), nonché violazione dell'art. 7 della Direttiva CE 88/2003 (art. 360, n. 3 c.p.c.)". 6.1. Deduce la ricorrente che, ove si ritenesse che la Corte territoriale ha correttamente applicato i principi espressi dalle sentenze della CGE, nonostante la conclamata diversità della fattispecie oggetto del presente giudizio rispetto ai casi concreti analizzati dai giudici europei, la sentenza impugnata (come altre pronunce simili) avrebbe elevato di fatto a fonte normativa generale ed astratta le sentenze della CGE rese su un caso concreto, ponendosi in contrasto con le norme del TFUE sia laddove istituiscono e disciplinano la funzione della Corte di Giustizia (CGE), definendo l'efficacia delle sue pronunce sia laddove distinguono tra funzione normativa da un lato, riservata al Parlamento Europeo e/o al Consiglio Europeo dagli art. 289 e 294 TFUE e funzione giurisdizionale dall'altro, assegnata alla CGE dall'art. 267 TFUE. 7. Con un settimo motivo, sempre in subordine, denuncia "Violazione e falsa applicazione dell'art. 267 TFUE (ex art. 234 TCE) e del principio di diritto vivente sulla efficacia ultra partes delle sentenze CGE in relazione ai principi di ordine pubblico che impongono nel nostro ordinamento la distinzione tra potere normativo e potere giurisdizionale (artt. 70 e 71 Cost., artt. 101 e 102 Cost.); nonché violazione dell'art. 7, Dir. CE 88/2003 (art. 360, n. 3 c.p.c.)". 7.1. Deduce che, ove si ritenesse che la Corte territoriale ha correttamente applicato i principi espressi dalle sentenze della CGE, elevando di fatto a fonte normativa generale ed astratta le sentenze della CGE rese su un caso concreto, essa avrebbe violato i principi di ordine pubblico del nostro ordinamento che impongono la distinzione tra potere legislativo e potere giurisdizionale. 8. Con l'ottavo ed ultimo motivo, in subordine, denuncia "Violazione e falsa applicazione dell'art. 2948, n. 4 c.c. in combinato disposto con l'art. 18, commi 1 e 2, L. 300/1970 come modificato dalla L. 92/2012 (art. 360, 1° comma, n. 3 c.p.c.)". 9. Rileva preliminarmente il Collegio che questa Sezione si è già espressa sulla massima parte delle questioni di diritto anche qui poste nelle recenti sent. n. 18160/2023, n. 19663/2023, n. 19711/2023, n. 19716/2023 in relazione a motivi di ricorso per cassazione di altra società (la Trenord Spa) parzialmente analoghi a quelli ora in esame. 9.1. Pertanto, anche ai sensi dell'art. 118, comma primo, disp. att. c.p.c., alle citate sentenze si farà riferimento in questa sede. 10. Tanto rilevato, i primi sette motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, vanno disattesi. 10.1. Occorre premettere che la nozione di retribuzione da applicare durante il periodo di godimento delle ferie è fortemente influenzata dalla interpretazione data dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la quale, sin dalla sentenza Robinson Steele del 2006, ha precisato che con l'espressione "ferie annuali retribuite" contenuta nell'art. 7, nr. 1, della direttiva nr. 88 del 2003 si vuole fare riferimento al fatto che, per la durata delle ferie annuali, "deve essere mantenuta" la retribuzione con ciò intendendosi che il lavoratore deve percepire in tale periodo di riposo la retribuzione ordinaria (nello stesso senso CGUE 20 gennaio 2009 in C.350/06 e C-520/06, Schultz-Hoff e altri). Ciò che si è inteso assicurare è una situazione equiparabile a quella ordinaria del lavoratore in atto nei periodi di lavoro sul rilievo che una diminuzione della retribuzione potrebbe essere idonea a dissuadere il lavoratore dall'esercitare il diritto alle ferie, il che sarebbe in contrasto con le prescrizioni del diritto dell'Unione (cfr. C.G.U.E. Williams e altri, C-155/10 del 13 dicembre 2018 ed anche la causa To.He. del 13/12/2018, C-385/17). Qualsiasi incentivo o sollecitazione che risulti volto ad indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie è infatti incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo che si propone di assicurare ai lavoratori il beneficio di un riposo effettivo, anche per un'efficace tutela della loro salute e sicurezza (cfr. in questo senso anche la recente C.G.U.E. del 13/01/2022 nella causa C-514/20). 10.2. Di tali principi si è fatta interprete questa Corte che in più occasioni ha ribadito che la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell'art. 7 della Direttiva 2003/88/CE (con la quale sono state codificate, per motivi di chiarezza, le prescrizioni minime concernenti anche le ferie contenute nella direttiva 93/104/CE del Consiglio, del 23 novembre 1993, cfr. considerando 1 della direttiva 2003/88/CE, e recepita anch'essa con il D.Lgs. n. 66 del 2003), per come interpretata dalla Corte di Giustizia, comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo "status" personale e professionale del lavoratore (cfr. Cass. 17/05/2019 n. 13425). 10.3. Anche con riguardo al compenso da erogare in ragione del mancato godimento delle ferie, pur nella diversa prospettiva cui l'indennità sostitutiva assolve, si è ritenuto che la retribuzione da utilizzare come parametro debba comprendere qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo "status" personale e professionale del lavoratore (cfr. Cass, 30/11/2021 n. 37589). 10.4. Proprio in applicazione della nozione c.d. "europea" di retribuzione, nell'ambito del personale navigante dipendente di compagnia aerea, poi, si è chiarito che nel calcolo del compenso dovuto al lavoratore nel periodo minimo di ferie annuali di quattro settimane si deve tenere conto degli importi erogati a titolo di indennità di volo integrativa e a tal fine si è ritenuta la nullità della disposizione collettiva (l'art. 10 del c.c.n.l. Trasporto Aereo - sezione personale navigante tecnico) nella parte in cui la esclude per tale periodo minimo di ferie evidenziandosi il contrasto con l'art. 4 del D.Lgs. n. 185 del 2005 (decreto di attuazione della direttiva 2000/79/CE relativa all'Accordo europeo sull'organizzazione dell'orario di lavoro del personale di volo dell'aviazione civile) interpretando tale disposizione proprio alla luce del diritto europeo che impone di riconoscere al lavoratore navigante in ferie una retribuzione corrispondente alla nozione europea di remunerazione delle ferie, in misura tale da garantire al lavoratore medesimo condizioni economiche paragonabili a quelle di cui gode quando esercita l'attività lavorativa (cfr. Cass. 23/06/2022 n. 20216). 10.5. È opportuno poi rammentare, come già ritenuto nella sentenza da ultimo citata, "che le sentenze della Corte di Giustizia dell'UE hanno, infatti, efficacia vincolante, diretta e prevalente, sull'ordinamento nazionale" sicché non può prescindersi dall'interpretazione data dalla Corte Europea che, quale interprete qualificata del diritto dell'unione, indica il significato ed i limiti di applicazione delle norme. Le sue sentenze, pregiudiziali o emesse in sede di verifica della validità di una disposizione UE, hanno perciò "valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità" (cfr. Cass. n. 13425 del 2019 ed ivi la richiamata Cass. n. 22577 del 2012). 10.6. Nell'applicare il diritto interno il giudice nazionale è tenuto ad una interpretazione per quanto possibile conforme alle finalità perseguite dal diritto dell'Unione nell'intento di conseguire il risultato prefissato dalla disciplina Eurounitaria conformandosi all'art. 288, comma 3, TFUE. L'esigenza di un'interpretazione conforme del diritto nazionale attiene infatti al sistema del Trattato FUE, in quanto permette ai giudici nazionali di assicurare, nell'ambito delle rispettive competenze, la piena efficacia del diritto dell'Unione quando risolvono le controversie ad essi sottoposte (cfr. CGUE 13/11/1990 causa C-106/89 Marleasing p. 8, CGUE 14/07/1994 causa C-91/92 Faccini Dori p. 26, CGUE 10/04/1984 causa C-14/83 von Colson p. 26, CGUE 28/06/2012 causa C-7/11 Caronna p. 51, tutte citate da Cass. n. 22577 del 2012 alla cui più estesa motivazione si rinvia), obbligo che viene meno solo quando la norma interna appaia assolutamente incompatibile con quella Eurounitaria, ma non è questo il caso. 10.7. A questi principi si è attenuta la Corte di merito che, come ricordato, ha proceduto, correttamente, ad una verifica ex ante della potenzialità dissuasiva dell'eliminazione di voci economiche dalla retribuzione erogata durante le ferie al godimento delle stesse senza trascurare di considerare la pertinenza di tali compensi rispetto alle mansioni proprie della qualifica rivestita. 10.8. Rileva allora il Collegio che nell'ambito in particolare del primo motivo la ricorrente asserisce che "la sentenza impugnata (come molte altre) muove dall'erronea percezione che la IUP variabile di cui al comma 4 dell'art. 31 CA 2012 e 2016 (la cui incidenza viene rivendicata in causa) sia l'intero, il tutto, il compenso che percepisce il macchinista quando fa il suo lavoro, mentre la IUP giornaliera in misura fissa di cui al punto 5 sia solo una parte, un minus per quando il macchinista non lavora". 10.9. Sennonché, tale specifica affermazione così attribuita alla Corte distrettuale e nel contempo censurata dalla ricorrente neppure si riscontra nel testo dell'impugnata sentenza, la quale, con precipuo riferimento all'indennità di utilizzazione professionale (in sigla IUP), ha svolto tutt'altro genere di considerazioni, legate essenzialmente all'incidenza di tale indennità "sulla retribuzione feriale e, di conseguenza, sulla piena libertà di fruizione del periodo di riposo costituzionalmente garantito"; indagine, questa, che la stessa Corte ha operato accertando le decurtazioni subite a riguardo da entrambi i lavoratori all'epoca appellati (cfr. in extenso facciate 8-10 della sua decisione). 10.10. E tale accertamento è in linea con le indicazioni provenienti dalla Corte di Lussemburgo ed in sintonia con la finalità della direttiva, recepita dal legislatore italiano, che è innanzi tutto quella di assicurare un compenso che non possa costituire per il lavoratore un deterrente all'esercizio del suo diritto di fruire effettivamente del riposo annuale. 10.11. Inoltre, con riguardo specificatamente alla idoneità della mancata erogazione di tali compensi ad integrare una diminuzione della retribuzione idonea a dissuadere il lavoratore dal godere delle ferie, ritiene il Collegio che la sua valutazione in concreto appartiene al giudice di merito che nella specie ha plausibilmente dato conto delle ragioni per le quali l'ha ravvisata. 10.12. Del resto, è la stessa ricorrente ad ammettere che la IUP è comunque riconosciuta "per attività svolte tipiche del macchinista", ossia, in relazione alla qualifica rivestita da entrambi i lavoratori attuali controricorrenti. 11. Quanto all'indennità di assenza dalla residenza, come premesso in narrativa, la Corte di merito ne ha motivatamente ritenuto la natura "di componente retributiva certamente rientrante nel concetto di retribuzione, delineato dalla giurisprudenza" in precedenza richiamata (cfr. in extenso facciate 10-11 della sua sentenza). 11.1. A fronte di tale argomentata qualificazione di detta indennità, la ricorrente assume essenzialmente che essa "costituisce un ristoro forfettizzato delle micro-spese variabili (considerato anche l'importo esiguo) che il macchinista deve sopportare quando si trova fuori dall'impianto", sicché si tratterebbe di emolumento che avrebbe "natura realmente indennitaria" oppure "natura e funzione risarcitoria". 11.2. Tale tesi, però, è sostenuta in termini essenzialmente assertivi, assumendosi la "pacifica natura giuridica" appunto "indennitaria" della voce in questione, e senza specificare da quali precisi indici letterali della precipua previsione collettiva cui si è riferita la Corte di merito, ossia, l'art. 77, comma 2, dei CCNL Mobilità, Area Attività Ferroviaria, del 20.7.2012 e del 16.12.2016, si dovrebbe trarre "il valore ristorativo del compenso (rimborso forfettizzato di micro-spese, es. bottiglia di acqua) che coerentemente scatta solo dopo 3 ore di lontananza". Del resto, è la stessa ricorrente a far presente che il compenso per assenza dalla residenza è erogato solo per "... servizi che comportano complessivamente, per ciascuna giornata di turno, un'assenza di durata non inferiore a 3 ore ...", e non già a titolo di rimborso magari forfettizzato. 11.3. La ricorrente insiste, poi, sull'assunto che l'indennità in questione non rientrerebbe nell'imponibile fiscale, ma correttamente la Corte territoriale ha ritenuto non rilevante tale profilo. La nozione di retribuzione ai fini fiscali e previdenziali non è, infatti, dirimente per accertare l'effettiva natura retributiva di un determinato emolumento al diverso scopo di stabilire se rientri nella retribuzione dovuta nel periodo feriale. Condivisibilmente, perciò, la stessa Corte a riguardo ha evidenziato la funzione sostanziale dello stesso emolumento, in "diretta correlazione ad un disagio intrinseco alla mansione". 12. Le considerazioni innanzi richiamate, espressive dell'indirizzo di questa Corte in subiecta materia, valgono a respingere anche il terzo, il quarto, il quinto, il sesto ed il settimo motivo di ricorso. 13. Più nello specifico, con riferimento al terzo motivo ed al quinto motivo, la Corte d'appello non ha certamente fatto un'applicazione in via generale ed astratta dei principi espressi dalla CGUE nella materia che ci occupa, ma, avuto riguardo all'orientamento delineato nelle due decisioni di questa Corte Suprema che ha richiamato, a loro volta basate su estesa considerazione della specifica giurisprudenza di detta Corte UE (cfr. facciate 5-8 della sua sentenza), e tenendo conto di conformazione, natura ed incidenza delle indennità in questione secondo la contrattazione collettiva di settore e aziendale, ha concluso che dette indennità dovessero essere incluse (integralmente, nel caso della IUP) nella retribuzione dovuta nel periodo feriale. E si è già chiarito, del resto, che precipue disposizioni collettive, ove risultanti in contrato con la nozione "europea" di retribuzione come recepita nel nostro ordinamento, possano essere giudicate nulle. 14. Contrariamente, poi, a quanto sostenuto nel quarto motivo, la Corte di merito non ha operato un'erronea lettura di Cass. n. 22401/2020 e n. 13425/2019, che ha richiamato nella propria motivazione. Come già rilevato in precedenza, infatti, ai medesimi principi di diritto già enunciati in quelle decisioni di legittimità è stata poi data continuità da questa Corte anche nel campo della mobilità/settore attività ferroviarie, che qui viene in considerazione. Né assume rilievo il dato che "i casi concreti decisi dalla CGE riguardano situazioni di fatto e compensi strutturalmente differenti rispetto a quelli qui in esame". Come evidenziato nelle recenti sent. n. 18160/2023, n. 19663/2023, n. 19711/2023, n. 19716/2023, citate all'inizio di questa motivazione, la valutazione del caso concreto, vale a dire la verifica se alcune indennità aggiuntive legate al concreto svolgimento di una determinata mansione, possano o meno essere escluse dal computo della retribuzione da erogare nei giorni per le ferie annuali, è attività riservata comunque al giudice nazionale e non ha quello europeo che vi ha provveduto applicando le direttive provenienti dalla Corte del Lussemburgo. 15. Inoltre, per quanto già osservato, la decisione gravata non ha sicuramente "elevato di fatto a fonte normativa generale ed astratta le sentenza della CGE rese su un caso concreto", come invece sostenuto nel sesto e nel settimo motivo di ricorso. 16. È infine infondato anche l'ottavo motivo di ricorso in cui viene riproposta, in subordine, la questione della prescrizione dei crediti vantati dai lavoratori. 16.1. Va precisato che in giudizio sono state chieste differenze retributive maturate nel periodo da settembre 2012 al 31 dicembre 2019. Orbene questa Corte, proprio affrontando la questione della decorrenza della prescrizione dei crediti maturati nel corso del rapporto di lavoro, ha recentemente affermato che per effetto delle modifiche apportate dalla Legge n. 92 del 2012 e poi dal D.Lgs. n. 23 del 2015, nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato è venuto meno uno dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, di tal che questo non è assistito da un regime di stabilità. Ne consegue che per tutti quei diritti che, come nella specie, non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c. dalla cessazione del rapporto di lavoro (così Cass. 06/09/2022 n. 26246, poi seguita da altre conformi). 16.2. La sentenza gravata, pertanto, nel respingere il motivo d'appello con il quale l'allora appellante si doleva del rigetto dell'eccezione di prescrizione dalla stessa sollevata in primo grado, è conforme a tali principi. 17. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e, liquidate in dispositivo, devono essere distratte in favore del difensore dei controricorrenti, dichiaratosi anticipatario. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell'art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 3.300,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e C.P.A. come per Legge, e distrae in favore del difensore dei controricorrenti. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 5 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi sigg.ri magistrati: Dott. TRIA Lucia - Presidente Dott. MAROTTA Caterina - Consigliere Dott. ZULIANI Andrea - Consigliere Dott. BELLÈ Roberto - Consigliere - Rel. Dott. DE MARINIS Nicola - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 12741/2022 R.G. proposto da: (...) - FEDERAZIONE (...), rappresentate e difese dall'Avv. MA.PI. presso il cui studio in Roma, via (...) elettivamente domiciliata - ricorrente - contro COMMISSIONE DI GARANZIA DELL'ATTUAZIONE DELLA LEGGE SULLO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso la quale in Roma, via dei Portoghesi 12, è domiciliata - controricorrente - avverso la sentenza della Corte d'Appello di Roma, n. 4694/2021, depositata il 11.1.2022, RG 1911/2016; udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 7.2.2024 dal Consigliere ROBERTO BELLE'; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Fr.Ma. il quale ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi gli avv.ti Ma.Pi. per la ricorrente e l'Avvocato dello Stato De.Be., per la controricorrente. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d'Appello di Roma, riformando la sentenza del Tribunale della stessa città, ha rigettato il ricorso proposto dall'organizzazione sindacale ricorrente al fine di sentir accertare l'illegittimità dei provvedimenti con i quali la Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (di seguito, Commissione) aveva disposto, ai sensi dell'art. 4, Co. 2, della legge n. 146 del 1990, la sospensione del pagamento dei contributi associativi a favore della predetta, per un ammontare economico di euro 20.000,00, perché ritenuta responsabile, insieme ad altre associazioni sindacali, della preordinata e anomala astensione collettiva in violazione delle disposizioni normative sull'esercizio del diritto di sciopero, concretizzatasi nelle massicce assenze dei lavoratori della Polizia Locale del Comune di Roma nella notte tra il 31.12.2014 ed il 1.1.2015. La vicenda riguarda quanto accaduto nel dicembre 2014 e poi, appunto, il 31.12 di quell'anno e il 1.1.2015 nella città di R, nel contesto di contrasti su vari profili lavoristici ed organizzativi tra le Organizzazioni Sindacali (di seguito, anche OO.SS.) e i dipendenti della Polizia Municipale, da un lato ed il Comune di R, dall'altro. La Corte territoriale riteneva provato che, nonostante la revoca delle assemblee originariamente indette dalle OO.SS. per le ore 21.00 del 31.12.2014 e le ore 3.00 del 1.1.2015, fosse stato mantenuto uno stato di agitazione che veniva desunto dal fatto che non era stato revocato l'invito ai lavoratori ad astenersi dall'adesione allo straordinario volontario per i turni di fine anno, dalle modalità temporali con cui si era avuta la revoca delle predette assemblee, intervenuta solo il 30.12 e da un comunicato in forma congiunta sempre del 30.12 con cui venivano preannunciate ulteriori forme di lotta. Secondo la Corte territoriale non costituiva poi un intervento realmente dissuasivo il comunicato del segretario regionale della UIL del 30.12, sia per il suo tenore ambiguo, sia perché esso non poteva essere letto isolatamente rispetto ai tre post, apparsi tra il 18 ed il 20 dicembre sul profilo ufficiale della stessa UIL, con cui si preannunciava che una delle tre occasioni di impegno (Capodanno, epifania, derby cittadino di calcio) "non ci sarebbe stato", che a Capodanno avrebbero "lavorato in tre" e che sarebbero state rimosse le deleghe a chi si fosse impegnato in turni di straordinario. La Corte territoriale ha quindi evidenziato il dato statistico, tale per cui i permessi per il 31.12 erano quasi raddoppiati rispetto agli anni precedenti e le assenze per malattia erano più che quintuplicate, sostenendo che l'elevato tasso di incremento non rendesse verosimile il risalire dell'accaduto a reali stati patologici e rimarcando che più della metà dei lavoratori assenti era iscritto ad una delle OO.SS. sanzionate, segno palese della influenza di esse sui lavoratori. Pertanto, la sentenza, evidenziando anche la rilevante convergenza di autonomi comportamenti individuali, riteneva che non potessero residuare dubbi sul fatto che, nella notte del 31.12.2014, si fosse realizzata un'astensione collettiva dal lavoro per motivi sindacali promossa attraverso l'azione congiunta di tutte le sigle coinvolte. 2. (...) (di seguito, in breve, UIL) ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, cui la Commissione ha resistito con controricorso. Il Pubblico Ministero ha depositato requisitoria scritta con cui ha insistito per il rigetto del ricorso, confermando in udienza pubblica tali conclusioni. UIL ha depositato memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo di ricorso è rubricato come violazione e falsa applicazione dell'art. 4, Co. 2 della legge n. 146 del 1990 (art. 360 n. 3 c.p.c.) e con esso si assume che la Corte d'Appello avrebbe assunto una nozione estensiva di sciopero, considerando tale il mero fatto di essere state indotte o favorite condotte di fatto illegittime, senza contare che l'invito a non prestare lavoro straordinario non equivaleva a proclamare un'astensione collettiva dal lavoro, che le assemblee dapprima fissate erano state poi revocate e che la facoltà dei lavoratori di aderire o meno all'invito escludeva logicamente la riconducibilità delle condotte disaminate nell'ambito del concetto stesso di sciopero. Più in generale la censura ritiene debba escludersi la configurabilità di uno sciopero, in presenza di condotte individuali, benché plurime e non sussistendo condotte ingiustificate, ma assenze per malattia. Con il secondo motivo è addotta la violazione dell'art. 2729 c.c. e dell'art. 116 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.) sul presupposto che la Corte di merito abbia basato la propria decisione su prove presuntive prive dei caratteri legali della precisione, gravità e concordanza, erroneamente concludendo anche rispetto al contenuto di prove documentali - quale il messaggio Facebook del segretario UIL - che andavano valutate secondo il significato loro proprio. 2. I suesposti motivi, stante la loro stretta connessione, vanno esaminati congiuntamente, secondo l'ordine logico delle questioni. 3. La Corte territoriale, in esito ad ampia motivazione, ha concluso la propria disamina affermando che la notte nel 31.12.2014, a R, gli addetti della Polizia Municipale realizzarono una "astensione collettiva dal lavoro per motivi sindacali", la quale fu "organizzata e promossa" anche da UIL. Non essendovi mai stata una formale "proclamazione" di tale sciopero, si addebita quindi alle OO.SS. che avrebbero di fatto organizzato e promosso quell'astensione dal lavoro, la violazione di tutte le regole di cui all'art. 2 della legge n. 146/1990 (comunicazione scritta, nel termine di preavviso, della durata e delle modalità di attuazione, nonché delle motivazioni dell'astensione collettiva dal lavoro), con applicazione consequenziale della sanzione di cui all'art. 4, Co. 2, della stessa legge, che appunto prevede la sospensione dell'erogazione dei contributi di cui agli artt. 23 e 26 della legge n. 300 del 1970 e la loro devoluzione all'INPS. 4. Si deve premettere come sia indubbio che la vicenda riguardi "servizi pubblici essenziali" ovverosia, secondo la dizione dell'art. 1 della legge n. 146 del 1990, quelli "volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione ed alla libertà di comunicazione". È infatti chiaro - e sostanzialmente incontestato - che fra i compiti prioritari della Polizia Municipale vi siano quelli relativi alla sicurezza dei cittadini e alla circolazione di essi. Gli effetti potenzialmente pregiudizievoli di un'alterazione nella prestazione di quei servizi di sicurezza sono poi destinati ad insistere non solo su una generica facoltà di movimento dei cittadini, ma anche - in casi mano a mano più gravi - a realizzare pericoli per la loro incolumità. La vicenda oggetto del contendere riguarda i servizi di Polizia Municipale per la notte tra l'ultimo dell'anno del 2014 e il Capodanno del 2015 nella città di R e dunque una situazione di fatto rispetto alla quale l'importanza di una piena efficienza del corpo di Polizia Municipale destinato strutturalmente e fisiologicamente ad operare sul territorio non merita ulteriori spiegazioni per essere compresa. Non vi è quindi dubbio che il regime dello sciopero su cui si deve decidere rientra nell'ambito della disciplina di cui alla legge n. 146 del 1990, concernendo un servizio pubblico essenziale e che quindi si applichino gli artt. 1, 2 e 4 della stessa legge. 4.1 In tale contesto è poi ininfluente il verificarsi o meno di un concreto pregiudizio per il servizio pubblico. Il Comune di R - come si dirà - ha sopperito ricorrendo al turno ordinario e poi alla pronta disponibilità - ovverosia a forme diverse di reperimento del personale diverse da quella in genere attuata per la notte di Capodanno - ma ciò che conta è il dato obiettivo del verificarsi di uno sciopero, con coinvolgimento dei sindacati, senza l'osservanza delle regole che la materia dei servizi pubblici essenziali impone di rispettare, onde prevenire e/o tutelare in modo adeguato rispetto ad eventuali pericoli o violazioni con riferimento ai diritti primari delle persone. Le già citate regole di preavviso di cui all'art. 2 della legge n. 146 sono finalizzate ad una pronta organizzazione di chi eroga il servizio essenziale, ai controlli cui è deputata la Commissione (Co. 4) ed ai tentativi di composizione (Co. 5), che sono con tutta evidenza indispensabili per assicurare il bilanciamento ordinato dei contrapposti interessi. Come efficacemente precisato - seppure in altro contesto - da Corte Costituzionale 24 febbraio 1995 n. 57 "l'esercizio del diritto di sciopero nel settore dei servizi pubblici essenziali è assoggettato, dalla legge n. 146 del 1990, ad una disciplina di marcata connotazione procedimentale" che muove "dalla fissazione dei requisiti minimi delle prestazioni indispensabili" e determina poi "la sequela degli atti strumentalmente necessari per pervenire alla fase di astensione dall'attività lavorativa", nel senso che l'iter procedimentale è appunto finalizzato ad assicurare il contemperamento degli opposti interessi ed a salvaguardare dal pericolo che, in assenza di quelle valutazioni necessarie ad assicurare legittimità all'astensione, vi possa essere per i beni primari indicati dalla legge stessa a sopra richiamati. In altre parole, la violazione dell'iter procedimentale è in sé causa di illegittimità dello sciopero che sia ciononostante attuato e fonte di responsabilità. Non è inopportuno ricordare in proposito come questa S.C. abbia già ritenuto che i comportamenti sanzionati dall'art. 4, comma secondo, della legge n. 146 del 1990, ovverosia la proclamazione o l'adesione ad uno sciopero illegittimo - quale è certamente quello non sviluppato nell'osservanza delle regole di cui alla legge n. 146 - siano fonte di responsabilità addirittura anche nel caso in cui non siano seguite da un'effettiva astensione dal lavoro e ciò in quanto la proclamazione provoca, in tutta evidenza, disagi e danni per la collettività e per il datore di lavoro, sulla cui considerazione si fonda la ratio della previsione legislativa delle sanzioni di cui si tratta (Cass. 5 ottobre 1998, n. 9876). Del resto, va altresì rammentato come la Corte costituzionale abbia ampiamente ritenuto - come riepilogato da Cass. 28 gennaio 2019, n. 2298 cui risale la sintesi che segue - che il diritto di sciopero di cui all'art. 40 Cost. "possa essere oggetto di particolari limitazioni, relativamente agli addetti ai servizi pubblici essenziali, proprio in ragione della tutela di interessi generali assolutamente preminenti che trovano diretta protezione in principi consacrati dalla Costituzione (Corte cost. n. 123 del 1962), ovverosia di una tutela che attiene alla soddisfazione di interessi assolutamente essenziali (Corte cost. n. 124 del 1962) o di valori fondamentali legati alla integrità della vita e della personalità dei singoli, principi e limitazioni, cioè, diretti ad evitare la compromissione di funzioni da considerare essenziali per il loro carattere di preminente interesse generale (Corte cost. n. 31 del 1969, n. 290 del 1974, n.222 del 1976, n. 125 del 1980 e n. 165 del 1983)". 5. Ciò posto, il primo punto - di diritto - da dirimere è se l'astensione collettiva dei lavoratori che si realizzi sulla base di giustificazioni formali delle assenze (permessi; malattia) possa essere definita sciopero ed a quali condizioni. Il punto si suddivide tuttavia in due profili, tra loro consequenziali e dunque da analizzare secondo l'ordine logico, dovendosi stabilire dapprima se le assenze nella notte del 31.12.2014 fossero astensioni da un lavoro dovuto e, in caso positivo, se esse si qualifichino come sciopero. 5.1 Rispetto al primo punto la dinamica fattuale appare pacifica: - i turni di fine anno sono stati negli anni sempre regolati sulla base di straordinario volontario ed in tal senso il 18.12 il Comandante aveva trasmesso il piano operativo dei servizi; - le organizzazioni sindacali hanno tuttavia emanato e mai revocato l'invito ai lavoratori ad astenersi dalla disponibilità a quei turni volontari; - nell'impossibilità di procedere secondo le modalità consuete il Comune di R organizzò altrimenti i servizi di fine anno e tuttavia si manifestarono le assenze per malattia e permessi di cui si dirà, sicché il Comune dovette sopperire poi con il regime della "pronta disponibilità", per cui evidentemente furono chiamati al lavoro dipendenti diversi da quelli che avrebbero dovuto coprire il servizio secondo l'organizzazione comunale e che erano risultati a quel punto assenti. 5.2. Non può aversi per utilmente richiamata la giurisprudenza (ad es. Cass. 31 marzo 2021, n. 8958) in ambito di lavoro (privato) ove si fa riferimento ad un diritto soggettivo a non prestare lavoro, se non su base volontaria, nelle festività infrasettimanali, quale il Capodanno. È infatti evidente che tale regime non può valere per i servizi pubblici caratterizzati da continuità di svolgimento, ove è la normativa sui turni e sulle conseguenti indennità e riposi (art. 22 CCNL 14.9.2000 e poi art. 23 CCNL 21.5.2018 e 30 CCNL 16.11.2022) ed eventualmente sugli straordinari, a costituire la disciplina di riferimento. D'altra parte, non risulta che le prestazioni di fine anno fossero incongrue rispetto ai turni di lavoro propri dei dipendenti addetti ai servizi di polizia di un ente locale secondo la contrattazione collettiva. Il fatto, dunque, che la Corte d'Appello non abbia considerato la natura meramente volontaria del lavoro festivo e dello straordinario non ha rilievo, in quanto si tratta di profilo giuridicamente infondato. 5.3 Quanto al verificarsi di un'astensione dal lavoro e quindi di uno sciopero, è certo che l'iniziativa comunale di copertura dei servizi con il consueto straordinario volontario non fosse andata a buon fine e che il Comune - essendo evidente la necessità di coprire i servizi - doveva utilizzare in forme non volontarie il proprio personale. È parimenti pacifico che il Comune, quando si organizzò per ottenere le prestazioni in forme non volontarie, non poté fare riferimento ad un gran numero di addetti che sarebbero stati chiamati, perché in malattia o a vario titolo in permesso. Tralasciando il caso dei permessi, il diniego della prestazione insito nell'invio di certificato medico cui si abbia astrattamente titolo è senza dubbio in sé legittimo. Se tuttavia il diniego della prestazione su tali basi si fondi su giustificazioni puramente formali e non corrispondenti a reali stati di malattia, va da sé - sulla base di quanto sopra detto - che si realizzi un'astensione dal lavoro la quale, se motivata da ragioni di rivendicazione collettiva, non può sfuggire alla qualificazione come sciopero, se si vuole "occulto", in quanto apparentemente, ma infondatamente, coperto da giustificazioni formali delle assenze. Non è qui questione di forme anomale di sciopero (a singhiozzo, a scacchiera, sciopero pignolo, comportamenti dilatori, su cui v., rispetto ai servizi pubblici essenziali, Cass. 5 maggio 1999 n. 476), quanto di una astensione dal lavoro, la cui particolarità sta nel fatto di essere essa occultata attraverso giustificazioni ritenute fittizie. 5.4 Pertanto, ricorrendo lo sciopero e ricorrendo l'interferenza con i servizi pubblici essenziali, ne deriva che l'attuazione senza osservanza delle forme di cui alla legge n. 146 del 1990 determina l'illiceità dello strumento e, nel ricorrere di una situazione in cui vi siano organizzazioni sindacali che "proclamano" o "aderiscono" ad una tale agitazione, una loro responsabilità ai sensi della normativa sopra citata. 5.5 L'assoluta preponderanza nel caso di specie del fenomeno delle "malattie", numericamente (745 casi) e percentualmente (oltre il quintuplo rispetto agli anni precedenti) assai elevate, consente peraltro di concentrare su di esse - come del resto ha fatto la Corte territoriale - la valutazione della liceità o meno di quanto accaduto, senza necessità di affrontare il tema dell'incremento anomalo dei permessi, peraltro risultati anch'essi sostanzialmente raddoppiati proprio in corrispondenza della fine dell'anno. 6. In gran parte la questione, rispetto a questa causa, diviene dunque di fatto, per quanto articolata rispetto ai vari profili che gradatamente integrano la fattispecie ultima della responsabilità del sindacato ricorrente per la sanzione infine irrogata. 7. Procedendo in ordine logico, la prima questione da affrontare è quella in ordine alla portata fittizia delle giustificazioni addotte dai lavoratori per restare assenti dai servizi propri di quella notte di fine anno. Quanto accertato dalla Corte d'Appello è che le giustificazioni delle malattie fossero fittizie e quindi esse avessero il fine di realizzare l'effetto dell'astensione dal lavoro con assenza del servizio, senza far apparire che si attuava in tal modo una protesta a fini di rivendicazione lavoristica ed un incremento significativo di assenze risulta esservi stato anche con riguardo ai permessi. Il manifestarsi di assenze per malattia fittizie, evidentemente, se vero, riporta di per sé appieno, per quanto sopra detto, nell'alveo dello sciopero, con l'aggravante del tentativo di un occultamento di esso a fini elusivi delle regole di tutela della collettività che lo riguardano quando si interferisca con servizi pubblici essenziali. 7.1 Su questo primo punto di fatto, la Corte territoriale ha argomentato evidenziando: - il rilevante incremento statistico delle assenze (più che quintuplicate quelle per malattia e più che duplicate quelle per permessi) rispetto al corrispondente periodo degli anni precedenti; - l'assenza di elementi atti a dimostrare l'esistenza di picchi epidemici in quel frangente temporale; - la rilevante convergenza dei comportamenti dei lavoratori nel medesimo lasso di tempo dal 29 dicembre e nel contesto di una situazione di conflittualità sindacale che già precedentemente era stata indirizzata (v. indizione delle assemblee per l'ultimo dell'anno, a cavallo della mezzanotte, poi revocate) verso la creazione di un disservizio proprio nel momento di particolare necessità per il servizio pubblico. 7.2 I dati valorizzati sono indubbiamente precisi ("rilevante" - perché numericamente di assoluta evidenza - incremento delle assenze; assenza di picchi epidemici; sussistenza di iniziative sindacali aventi ad oggetto i servizi dell'ultimo dell'anno), gravi (in quanto tutti attinenti alla giustificazione di quelle assenze) e concordanti (in quanto tutti destinati ad indirizzare nello stesso senso interpretativo). I principi in tema di presunzioni sono del resto consolidati, nel senso che, con riferimento agli artt. 2727 e 2729 c.c., spetta al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 5 agosto 2021, n. 22366). Va aggiunto che la censura per vizio di motivazione in ordine all'utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l'ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l'assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio ed anche la censura ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c. non può avere corso, se non quando esso porterebbe la controversia con certezza ad una soluzione diversa, sicché non si tratti invece dell'opzione tra due scelte possibili, altrimenti realizzandosi una indebita sostituzione del giudice di merito nella selezione delle fonti di convincimento (Cass. 12 dicembre 2017, n. 29781; Cass. 28 marzo 2017, n. 7916). Neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità (tra le molte, Cass. 1 agosto 2007, n. 1693; Cass. 29 maggio 2006, n. 12802; Cass. 10 gennaio 2006, n. 154) visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. 13 marzo 2014 n. 5787 e, ancora Cass. 22366/2021 cit.). L'evidenziarsi, nel ricorso per cassazione, di altri elementi o la critica rispetto alla valorizzazione dei profili ritenuti decisivi dal giudice, è dunque inammissibile, perché a fronte di un ragionamento basato su elementi dotati delle caratteristiche idonee a sorreggere il ragionamento presuntivo, quella che si persegue in tal modo è una diversa valutazione del merito e dell'istruttoria, il che è improprio rispetto al giudizio di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148; ora anche Cass. 22 novembre 2023, n. 32505). 7.3. Il ragionamento può essere ulteriormente precisato. Nulla muta, rispetto al tema dell'accertamento della natura fittizia delle malattie dei dipendenti, anche a voler considerare l'assenza di specifici riscontri sulla falsità delle singole certificazioni. La Corte territoriale ha infatti dato preponderanza al dato statistico, per concluderne che, al di là di singoli casi, in assenza di epidemie comprovate, esso stesse ad attestare che le malattie o un numero significativo di esse doveva essere fittizio. L'eclatanza del dato statistico (più che quintuplicarsi delle malattie rispetto agli anni precedenti) esclude che il ragionamento sia in sé implausibile e ciò appare di evidenza inoppugnabile. Su tale presupposto, la scelta sul valorizzare l'uno o l'altro elemento appartiene al libero convincimento del giudice, che ha evidentemente ritenuto impossibile una ricostruzione ex post caso per caso di malattie non più esistenti ed ha invece dato preponderanza ad un elemento numerico in sé assai sintomatico e, date le dimensioni, tutt'altro che equivocabile. Ciò secondo i principi del tutto consolidati che si sono ricordati al punto che precede, che escludono altresì la rilevanza di altri fatti e rilievi minori al fine di sovvertire l'asse decisionale precedentemente ricostruito nei suoi diversi dettagli. 7.4 I motivi sul verificarsi di un'astensione collettiva dal lavoro non giustificabile, nel suo insieme e senza riguardo a posizioni di singoli, vanno dunque disattesi. 8. Il secondo punto di fatto rispetto a tale astensione lavorativa è quello in ordine ai motivi che l'hanno determinata. La Corte qui ha argomentato in difformità dal Tribunale escludendo che si potesse essere trattato di ragioni "soggettive" dei singoli lavoratori e per fare ciò ha: - sostanzialmente escluso il mero intento di riposarsi, evidenziando come fosse in tal caso più ragionevole attendersi una tempestiva richiesta di ferie; - evidenziato il convergere del fenomeno di quei plurimi comportamenti individuali realizzati sin dal 29 dicembre, ovverosia nel periodo (il fine anno) cui avevano fatto riferimento le prospettate iniziative sindacali dei conflitti pregressi del dicembre di quell'anno. Si tratta ancora di ragionamento indiziario fondato su elementi chiari, che esprime un non implausibile convincimento di merito e per il quale valgono dunque le considerazioni sopra esposte. 9. Gli elementi di cui sopra attestano dunque, nel ragionamento della Corte territoriale, il verificarsi di un'astensione collettiva a fini sindacali in occasione dell'ultimo dell'anno/Capodanno 2014/2015, in R. 10. Vi è quindi da affrontare il tema sotto il profilo - anch'esso essenziale per quanto vi è qui da decidere - dell'avere le organizzazioni sindacali, tra cui la UIL, "organizzata e promossa" l'astensione collettiva dal lavoro di cui si è detto. Qui la Corte d'Appello ha valorizzato i seguenti elementi: - gli originari post apparsi tra il 18 ed il 20 dicembre, sul profilo ufficiale della UIL, in cui si manifestavano minacciose iniziative di sabotaggio degli eventi della città: Capodanno, epifania e derby "una delle tre non ci sarà"; "lavoreranno in 3 !!! Capodanno in famiglia"; rimozione deleghe a chi si impegnasse in turni di straordinario; - la mancata revoca dell'invito ai lavoratori di astenersi dalla prestazione di lavoro su base volontaria, su cui il Comune di R aveva sempre fatto affidamento negli anni precedenti per assicurare il servizio; - il verificarsi di un mero differimento delle assemblee già indette per la notte di Capodanno, avvenuto con modalità temporali (il 29.12) tali da non contraddire il persistente intento di protesta delle organizzazioni sindacali; - il comunicato a firma congiunta del 30 dicembre con cui le Organizzazioni Sindacali preannunciavano "ulteriori forme di lotta per rendere più incisiva ed eclatante l'azione intrapresa"; - l'ambiguità del post sul profilo Facebook del rappresentante UIL del 30 dicembre che, nell'invitare i colleghi a comportarsi "correttamente", manifestava tuttavia il verificarsi di una sorta di cooptazione e poteva anche sembrare tale ("fosse così facile") da suggerire espedienti per reagire al comportamento datoriale. Da ciò la Corte di merito ha sostanzialmente desunto l'esistenza di un indirizzo delle organizzazioni sindacali ai lavoratori perché si astenessero dal prestare la propria opera nella notte del 31 dicembre. L'impianto indiziario muove da fatti precisi, assunti nella loro oggettività (post del 18-20 dicembre; mancata revoca dell'invito a rifiutare le prestazioni volontarie dell'ultimo dell'anno; i tempi di disdetta delle assemblee; il comunicato del 30.12) o ricostruiti -non essendovi evidentemente da parlare di prove "legali" - in modo non implausibile (l'ambiguità del comunicato Facebook del 30.12), tra loro convergenti e muniti di indubbie caratteristiche di "gravità" nel manifestare l'intento di protesta. Quindi vale anche da questo punto di vista quanto si è sopra detto rispetto alla validità del ragionamento indiziario. 11. Vi è poi da considerare l'argomento secondo cui la sentenza di appello, ricostruendo in quel modo i fatti, addosserebbe al sindacato una posizione di avallo rispetto a comportamenti illeciti, se non anche a reati. Tuttavia, la fattispecie di reato è individuale e necessita accertamenti puntuali (sul tema specifico, v. Cass. Pen. 7 dicembre 2015, n. 48328) che qui non rilevano come tali. L'accertamento che fonda la sanzione applicata riguarda il verificarsi di uno sciopero in ambito di servizi pubblici essenziali senza l'osservanza delle regole proprie di esso e tanto basta, il resto appartenendo a - comprensibili ma non decisive - enfasi difensive. 12. Quanto poi alla prova che abbiano aderito allo sciopero lavoratori appartenenti alla ricorrente, oltre ad avere la Corte territoriale positivamente accertato che più della metà degli assenti era iscritto ad almeno una delle sigle interessante, vale altresì il rilievo in diritto svolto dalla sentenza impugnata, ovverosia che una volta organizzato e promosso uno sciopero da parte di una certa organizzazione sindacale, non ha rilievo che chi partecipi sia ad essa iscritto, contando solo il nesso causale tra quell'iniziativa e il comportamento dei lavoratori che vi hanno dato attuazione. Rileva cioè la capacità di fatto delle sigle promotrici di trovare adepti rispetto all'iniziativa assunta e non la formale appartenenza sindacale di questi ultimi. 13. Infine è irrilevante anche il fatto che, con altre sentenze, sia stata esclusa la responsabilità di altri sindacati, in quanto ciò è effetto naturale dell'autonomia dei relativi processi, con dato che non può in sé sovvertire il convincimento di merito raggiunto, sui fatti decisivi, dall'ampia ed articolata motivazione della Corte d'Appello nella sentenza qui impugnata. 14. Il ricorso va quindi disatteso e può affermarsi anche il seguente principio di diritto: "nell'ambito dei servizi pubblici essenziali, costituisce sciopero, come tale soggetto alla disciplina di cui alla legge n. 146 del 1990, l'astensione dal lavoro che si realizzi, a fini di rivendicazione collettiva, mediante presentazione di certificazioni mediche che, secondo l'accertamento del giudice del merito, risultino fittizie e finalizzate a giustificare solo formalmente la mancata presentazione al lavoro, senza reale fondamento in un sottostante stato patologico, ma in realtà siano da collegare ad uno stato di agitazione volto all'astensione collettiva dal lavoro nella sostanza proclamato dalle OO.SS. in modo "occulto"". 15. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione delle spese secondo soccombenza. 16. Segue altresì la declaratoria della ricorrenza delle condizioni per il c.d. raddoppio del contributo unificato, cui non si sottraggono, se quel contributo risulti dovuto, le organizzazioni sindacali quali soggetti giuridici legittimati ad agire in giudizio. Ciò per plurime ragioni: a) la disciplina del suddetto raddoppio è di stretto diritto e non contempla deroghe per le organizzazioni sindacali; b) per costante giurisprudenza di questa Corte le circolari non sono fonti del diritto ma semplice presupposto chiarificatore della posizione espressa dall'Amministrazione su un dato oggetto (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23042; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1577; Cass. 6 aprile 2011, n. 7889); c) di conseguenza, non va attribuito alcun valore, nella specie, alla Circolare del Ministero della Giustizia n. 21/2013 secondo cui il procedimento disciplinato dall'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, volto a ottenere da parte dei sindacati la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro - il quale peraltro, nella specie, non è oggetto di causa - sarebbe da considerare esente dal contributo unificato, trattandosi di un procedimento che si fonda sulla violazione di norme costituzionali o quantomeno generali dell'ordinamento, tenuto conto che non vi è esenzione per le cause che riguardino la tutela individuale del lavoratore, per quanto anch'esse destinate a fondarsi sul diritto costituzionale al lavoro di cui agli artt. 4 e 35 Cost. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della Commissione di Garanzia dell'Attuazione della Legge sullo Sciopero nei Servizi Pubblici Essenziali, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE composta dagli ill.mi sigg.ri magistrati: Dott. TRIA Lucia - Presidente Dott. MAROTTA Caterina - Consigliere Dott. ZULIANI Andrea - Consigliere Dott. BELLÈ Roberto - Consigliere - Rel. Dott. DE MARINIS Nicola - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 12079/2022 R.G. proposto da: CISL FP - CONFEDERAZIONE ITALIANA SINDACATI LAVORATORI - FUNZIONE PUBBLICA SEGRETERIA TERRITORIALE DI ROMA CAPITALE - RIETI E SEGRETERIA TERRITORIALE DEL LAZIO, rappresentate e difese dall'Avv. PA.VA. presso il cui studio in Roma, via (...) sono elettivamente domiciliate - ricorrenti - contro COMMISSIONE DI GARANZIA DELL'ATTUAZIONE DELLA LEGGE SULLO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso la quale in Roma, via dei Portoghesi 12, è domiciliata - controricorrente - avverso la sentenza della Corte d'Appello di Roma, n. 4687/2021, depositata il 7.1.2022, RG 452/2017; udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 7.2.2024 dal Consigliere ROBERTO BELLE'; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Mario Fresa il quale ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi gli avv.ti Pa.Va. per le ricorrenti e l'Avvocato dello Stato Gianni De Bellis, per la controricorrente. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d'Appello di Roma, riformando la sentenza del Tribunale della stessa città, ha rigettato il ricorso proposto dalle organizzazioni sindacali ricorrenti al fine di sentir accertare l'illegittimità dei provvedimenti con i quali la Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (di seguito, Commissione) aveva disposto, ai sensi dell'art. 4, co. 2, della legge n. 146 del 1990, la sospensione del pagamento dei contributi associativi a favore delle predette, per un ammontare economico di Euro 20.000,00, perché ritenute responsabili, insieme ad altre associazioni sindacali, della preordinata e anomala astensione collettiva in violazione delle disposizioni normative sull'esercizio del diritto di sciopero, concretizzatasi nelle massicce assenze dei lavoratori della Polizia Locale del Comune di Roma nella notte tra il 31.12.2014 ed il 1.1.2015. La vicenda riguarda quanto accaduto nel dicembre 2014 e poi, appunto, il 31.12 di quell'anno e il 1.1.2015 nella città di Roma, nel contesto di contrasti su vari profili lavoristici ed organizzativi tra le Organizzazioni Sindacali (di seguito, anche OO.SS.) e i dipendenti della Polizia Municipale, da un lato ed il Comune di Roma, dall'altro. La Corte territoriale riteneva provato che, nonostante la revoca delle assemblee originariamente indette dalle OO.SS. per le ore 21.00 del 31.12.2014 e le ore 3.00 del 1.1.2015, fosse stato mantenuto uno stato di agitazione che veniva desunto dal fatto che non era stato revocato l'invito ai lavoratori ad astenersi dall'adesione allo straordinario volontario per i turni di fine anno, dalle modalità temporali con cui si era avuta la revoca delle predette assemblee, intervenuta solo il 30.12 e da un comunicato in forma congiunta sempre del 30.12 con cui venivano preannunciate ulteriori forme di lotta. Secondo la Corte territoriale non costituiva poi un intervento realmente dissuasivo il comunicato del segretario regionale della UIL del 30.12, sia per il suo tenore ambiguo, sia perché esso non poteva essere letto isolatamente rispetto ai tre post, apparsi tra il 18 ed il 20 dicembre sul profilo ufficiale della stessa UIL, con cui si preannunciava che una delle tre occasioni di impegno (Capodanno, epifania, derby cittadino di calcio) "non ci sarebbe stato", che a Capodanno avrebbero "lavorato in tre" e che sarebbero state rimosse le deleghe a chi si fosse impegnato in turni di straordinario. La Corte territoriale ha quindi evidenziato il dato statistico, tale per cui i permessi per il 31.12 erano quasi raddoppiati rispetto agli anni precedenti e le assenze per malattia erano più che quintuplicate, sostenendo che l'elevato tasso di incremento non rendesse verosimile il risalire dell'accaduto a reali stati patologici e rimarcando che più della metà dei lavoratori assenti era iscritto ad una delle OO.SS. sanzionate, segno palese della influenza di esse sui lavoratori. Pertanto la sentenza, evidenziando anche la rilevante convergenza di autonomi comportamenti individuali, riteneva che non potessero residuare dubbi sul fatto che, nella notte del 31.12.2014, si fosse realizzata un'astensione collettiva dal lavoro per motivi sindacali promossa attraverso l'azione congiunta di tutte le sigle coinvolte. 2. CISL FP - Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori -Funzione Pubblica Segreteria territoriale di Roma Capitale - Rieti e Segreteria territoriale del Lazio (di seguito, in breve, CISL) hanno proposto ricorso per cassazione con tre motivi, cui la Commissione ha resistito con controricorso. Il Pubblico Ministero ha depositato requisitoria scritta con cui ha insistito per il rigetto del ricorso, confermando in udienza pubblica tali conclusioni. CISL ha depositato memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo di ricorso è rubricato come violazione e falsa applicazione dell'art. 1, co. 2, 2, co. 1 e 4, co. 2 della legge n. 146 del 1990 (art. 360 n. 3 c.p.c.) e con esso si assume che la Corte d'Appello avrebbe assunto una nozione allargata di sciopero non riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 40 della Costituzione, estendendo indebitamente ad essa la sanzionabilità secondo le norme della legge speciale, a fronte in realtà di condotte individuali consentite dalla legge o dalla contrattazione collettiva e preordinate alla tutela di diritti costituzionalmente garantiti, quale quello alla salute. Con il secondo motivo è addotta la violazione o falsa applicazione dell'art. 40 della Costituzione (art. 360 n. 3 c.p.c.) ancora per essere stato qualificato come sciopero anomalo una manifestazione individuale di esercizio di diritti previsti da leggi o dalla contrattazione collettiva, mentre lo sciopero era da individuare solo nella mancata prestazione di lavoro collettiva posta in essere per conseguire interessi di carattere generale di tutti i lavoratori. Infine, il terzo motivo denuncia la violazione di norme di diritto con riferimento all'art. 2729 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.) sul presupposto che la Corte di merito abbia basato la propria decisione su prove presuntive prive dei caratteri legali della precisione, gravità e concordanza. 2. I suesposti motivi, stante la loro stretta connessione, vanno esaminati congiuntamente, secondo l'ordine logico delle questioni. 3. La Corte territoriale, in esito ad ampia motivazione, ha concluso la propria disamina affermando che la notte nel 31.12.2014, a Roma, gli addetti della Polizia Municipale realizzarono una "astensione collettiva dal lavoro per motivi sindacali", la quale fu "organizzata e promossa" anche da CISL. Non essendovi mai stata una formale "proclamazione" di tale sciopero, si addebita quindi alle OO.SS. che avrebbero di fatto organizzato e promosso quell'astensione dal lavoro, la violazione di tutte le regole di cui all'art. 2 della legge n. 146/1990 (comunicazione scritta, nel termine di preavviso, della durata e delle modalità di attuazione, nonché delle motivazioni dell'astensione collettiva dal lavoro), con applicazione consequenziale della sanzione di cui all'art. 4, co. 2, della stessa legge, che appunto prevede la sospensione dell'erogazione dei contributi di cui agli artt. 23 e 26 della legge n. 300 del 1970 e la loro devoluzione all'INPS. 4. Si deve premettere come sia indubbio che la vicenda riguardi "servizi pubblici essenziali" ovverosia, secondo la dizione dell'art. 1 della legge n. 146 del 1990, quelli "volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione ed alla libertà di comunicazione". È infatti chiaro - e sostanzialmente incontestato - che fra i compiti prioritari della Polizia Municipale vi siano quelli relativi alla sicurezza dei cittadini e alla circolazione di essi. Gli effetti potenzialmente pregiudizievoli di un'alterazione nella prestazione di quei servizi di sicurezza sono poi destinati ad insistere non solo su una generica facoltà di movimento dei cittadini, ma anche - in casi mano a mano più gravi - a realizzare pericoli per la loro incolumità. La vicenda oggetto del contendere riguarda i servizi di Polizia Municipale per la notte tra l'ultimo dell'anno del 2014 e il Capodanno del 2015 nella città di Roma e dunque una situazione di fatto rispetto alla quale l'importanza di una piena efficienza del corpo di Polizia Municipale destinato strutturalmente e fisiologicamente ad operare sul territorio non merita ulteriori spiegazioni per essere compresa. Non vi è quindi dubbio che il regime dello sciopero su cui si deve decidere rientra nell'ambito della disciplina di cui alla legge n. 146 del 1990, concernendo un servizio pubblico essenziale e che quindi si applichino gli artt. 1, 2 e 4 della stessa legge. 4.1 In tale contesto è poi ininfluente il verificarsi o meno di un concreto pregiudizio per il servizio pubblico. Il Comune di Roma - come si dirà - ha sopperito ricorrendo al turno ordinario e poi alla pronta disponibilità - ovverosia a forme diverse di reperimento del personale diverse da quella in genere attuata per la notte di Capodanno - ma ciò che conta è il dato obiettivo del verificarsi di uno sciopero, con coinvolgimento dei sindacati, senza l'osservanza delle regole che la materia dei servizi pubblici essenziali impone di rispettare, onde prevenire e/o tutelare in modo adeguato rispetto a eventuali pericoli o violazioni con riferimento ai diritti primari delle persone. Le già citate regole di preavviso di cui all'art. 2 della legge n. 146 sono finalizzate ad una pronta organizzazione di chi eroga il servizio essenziale, ai controlli cui è deputata la Commissione (co. 4) ed ai tentativi di composizione (co. 5), che sono con tutta evidenza indispensabili per assicurare il bilanciamento ordinato dei contrapposti interessi. Come efficacemente precisato - seppure in altro contesto - da Corte Costituzionale 24 febbraio 1995 n. 57 "l'esercizio del diritto di sciopero nel settore dei servizi pubblici essenziali è assoggettato, dalla legge n. 146 del 1990, ad una disciplina di marcata connotazione procedimentale" che muove "dalla fissazione dei requisiti minimi delle prestazioni indispensabili" e determina poi "la sequela degli atti strumentalmente necessari per pervenire alla fase di astensione dall'attività lavorativa", nel senso che l'iter procedimentale è appunto finalizzato ad assicurare il contemperamento degli opposti interessi ed a salvaguardare dal pericolo che, in assenza di quelle valutazioni necessarie ad assicurare legittimità all'astensione, vi possa essere per i beni primari indicati dalla legge stessa a sopra richiamati. In altre parole, la violazione dell'iter procedimentale è in sé causa di illegittimità dello sciopero che sia ciononostante attuato e fonte di responsabilità. Non è inopportuno ricordare in proposito come questa S.C. abbia già ritenuto che i comportamenti sanzionati dall'art. 4, comma secondo, della legge n. 146 del 1990, ovverosia la proclamazione o l'adesione ad uno sciopero illegittimo - quale è certamente quello non sviluppato nell'osservanza delle regole di cui alla legge n. 146 -siano fonte di responsabilità addirittura anche nel caso in cui non siano seguite da un'effettiva astensione dal lavoro e ciò in quanto la proclamazione provoca, in tutta evidenza, disagi e danni per la collettività e per il datore di lavoro, sulla cui considerazione si fonda la ratio della previsione legislativa delle sanzioni di cui si tratta (Cass. 5 ottobre 1998, n. 9876). Del resto, va altresì rammentato come la Corte costituzionale abbia ampiamente ritenuto - come riepilogato da Cass. 28 gennaio 2019, n. 2298 cui risale la sintesi che segue - che il diritto di sciopero di cui all'art. 40 Cost. "possa essere oggetto di particolari limitazioni, relativamente agli addetti ai servizi pubblici essenziali, proprio in ragione della tutela di interessi generali assolutamente preminenti che trovano diretta protezione in principi consacrati dalla Costituzione (Corte cost. n. 123 del 1962), ovverosia di una tutela che attiene alla soddisfazione di interessi assolutamente essenziali (Corte cost. n. 124 del 1962) o di valori fondamentali legati alla integrità della vita e della personalità dei singoli, principi e limitazioni, cioè, diretti ad evitare la compromissione di funzioni da considerare essenziali per il loro carattere di preminente interesse generale (Corte cost. n. 31 del 1969, n. 290 del 1974, n. 222 del 1976, n. 125 del 1980 e n. 165 del 1983)". 5. Ciò posto, il primo punto - di diritto - da dirimere è se l'astensione collettiva dei lavoratori che si realizzi sulla base di giustificazioni formali delle assenze (permessi; malattia) possa essere definita sciopero ed a quali condizioni. Il punto si suddivide tuttavia in due profili, tra loro consequenziali e dunque da analizzare secondo l'ordine logico, dovendosi stabilire dapprima se le assenze nella notte del 31.12.2014 fossero astensioni da un lavoro dovuto e, in caso positivo, se esse si qualifichino come sciopero. 5.1 Rispetto al primo punto la dinamica fattuale appare pacifica: - i turni di fine anno sono stati negli anni sempre regolati sulla base di straordinario volontario ed in tal senso il 18.12 il Comandante aveva trasmesso il piano operativo dei servizi; - le organizzazioni sindacali hanno tuttavia emanato e mai revocato l'invito ai lavoratori ad astenersi dalla disponibilità a quei turni volontari; - nell'impossibilità di procedere secondo le modalità consuete il Comune di Roma organizzò altrimenti i servizi di fine anno e tuttavia si manifestarono le assenze per malattia e permessi di cui si dirà, sicché il Comune dovette sopperire poi con il regime della "pronta disponibilità", per cui evidentemente furono chiamati al lavoro dipendenti diversi da quelli che avrebbero dovuto coprire il servizio secondo l'organizzazione comunale e che erano risultati a quel punto assenti. 5.2. Non può aversi per utilmente richiamata la giurisprudenza (ad es. Cass. 31 marzo 2021, n. 8958) in ambito di lavoro (privato) ove si fa riferimento ad un diritto soggettivo a non prestare lavoro, se non su base volontaria, nelle festività infrasettimanali, quale il Capodanno. È infatti evidente che tale regime non può valere per i servizi pubblici caratterizzati da continuità di svolgimento, ove è la normativa sui turni e sulle conseguenti indennità e riposi (art. 22 CCNL 14.9.2000 e poi art. 23 CCNL 21.5.2018 e 30 CCNL 16.11.2022) ed eventualmente sugli straordinari, a costituire la disciplina di riferimento. D'altra parte, non risulta che le prestazioni di fine anno fossero incongrue rispetto ai turni di lavoro propri dei dipendenti addetti ai servizi di polizia di un ente locale secondo la contrattazione collettiva. Il fatto, dunque, che la Corte d'Appello non abbia preso in considerazione la natura meramente volontaria del lavoro festivo e dello straordinario non ha rilievo, in quanto si tratta di profilo giuridicamente infondato. 5.3 Quanto al verificarsi di un'astensione dal lavoro e quindi di uno sciopero, è certo che l'iniziativa comunale di copertura dei servizi con il consueto straordinario volontario non fosse andata a buon fine e che il Comune - essendo evidente la necessità di coprire i servizi - doveva utilizzare in forme non volontarie il proprio personale. È parimenti pacifico che il Comune, quando si organizzò per ottenere le prestazioni in forme non volontarie, non poté fare riferimento ad un gran numero di addetti che sarebbero stati chiamati, perché in malattia o a vario titolo in permesso. Tralasciando il caso dei permessi, il diniego della prestazione insito nell'invio di certificato medico cui si abbia astrattamente titolo è senza dubbio in sé legittimo. Se tuttavia il diniego della prestazione su tali basi si fondi su giustificazioni puramente formali e non corrispondenti a reali stati di malattia, va da sé - sulla base di quanto sopra detto - che si realizzi un'astensione dal lavoro la quale, se motivata da ragioni di rivendicazione collettiva, non può sfuggire alla qualificazione come sciopero, se si vuole "occulto", in quanto apparentemente, ma infondatamente, coperto da giustificazioni formali delle assenze. Non è qui questione di forme anomale di sciopero (a singhiozzo, a scacchiera, sciopero pignolo, comportamenti dilatori, su cui v., rispetto ai servizi pubblici essenziali, Cass. 5 maggio 1999 n. 476), quanto di una astensione dal lavoro, la cui particolarità sta nel fatto di essere essa occultata attraverso giustificazioni ritenute fittizie. 5.4 Pertanto, ricorrendo lo sciopero e ricorrendo l'interferenza con i servizi pubblici essenziali, ne deriva che l'attuazione senza osservanza delle forme di cui alla legge n. 146 del 1990 determina l'illiceità dello strumento e, nel ricorrere di una situazione in cui vi siano organizzazioni sindacali che "proclamano" o "aderiscono" ad una tale agitazione, una loro responsabilità ai sensi della normativa sopra citata. 5.5 L'assoluta preponderanza nel caso di specie del fenomeno delle "malattie", numericamente (745 casi) e percentualmente (oltre il quintuplo rispetto agli anni precedenti) assai elevate, consente peraltro di concentrare su di esse - come del resto ha fatto la Corte territoriale - la valutazione della liceità o meno di quanto accaduto, senza necessità di affrontare il tema dell'incremento anomalo dei permessi, peraltro risultati anch'essi sostanzialmente raddoppiati proprio in corrispondenza della fine dell'anno. 6. In gran parte la questione, rispetto a questa causa, diviene dunque di fatto, per quanto articolata rispetto ai vari profili che gradatamente integrano la fattispecie ultima della responsabilità dei sindacati ricorrenti per la sanzione infine irrogata. 7. Procedendo in ordine logico, la prima questione da affrontare è quella in ordine alla portata fittizia delle giustificazioni addotte dai lavoratori per restare assenti dai servizi propri di quella notte di fine anno. Quanto accertato dalla Corte d'Appello è che le giustificazioni delle malattie fossero fittizie e quindi esse avessero il fine di realizzare l'effetto dell'astensione dal lavoro con assenza del servizio, senza far apparire che si attuava in tal modo una protesta a fini di rivendicazione lavoristica ed un incremento significativo di assenze risulta esservi stato anche con riguardo ai permessi. Il manifestarsi di assenze per malattia fittizie, evidentemente, se vero, riporta di per sé appieno, per quanto sopra detto, nell'alveo dello sciopero, con l'aggravante del tentativo di un occultamento di esso a fini elusivi delle regole di tutela della collettività che lo riguardano quando si interferisca con servizi pubblici essenziali. 7.1 Su questo primo punto di fatto, la Corte territoriale ha argomentato evidenziando: - il rilevante incremento statistico delle assenze (più che quintuplicate quelle per malattia e più che duplicate quelle per permessi) rispetto al corrispondente periodo degli anni precedenti; - l'assenza di elementi atti a dimostrare l'esistenza di picchi epidemici in quel frangente temporale; - la rilevante convergenza dei comportamenti dei lavoratori nel medesimo lasso di tempo dal 29 dicembre e nel contesto di una situazione di conflittualità sindacale che già precedentemente era stata indirizzata (v. indizione delle assemblee per l'ultimo dell'anno, a cavallo della mezzanotte, poi revocate) verso la creazione di un disservizio proprio nel momento di particolare necessità per il servizio pubblico. 7.2 I dati valorizzati sono indubbiamente precisi ("rilevante" -perché numericamente di assoluta evidenza - incremento delle assenze; assenza di picchi epidemici; sussistenza di iniziative sindacali aventi ad oggetto i servizi dell'ultimo dell'anno), gravi (in quanto tutti attinenti alla giustificazione di quelle assenze) e concordanti (in quanto tutti destinati ad indirizzare nello stesso senso interpretativo). I principi in tema di presunzioni sono del resto consolidati, nel senso che, con riferimento agli artt. 2727 e 2729 c.c., spetta al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 5 agosto 2021, n. 22366). Va aggiunto che la censura per vizio di motivazione in ordine all'utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l'ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l'assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio ed anche la censura ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c. non può avere corso, se non quando esso porterebbe la controversia con certezza ad una soluzione diversa, sicché non si tratti invece dell'opzione tra due scelte possibili, altrimenti realizzandosi una indebita sostituzione del giudice di merito nella selezione delle fonti di convincimento (Cass. 12 dicembre 2017, n. 29781; Cass. 28 marzo 2017, n. 7916). Neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità (tra le molte, Cass. 1° agosto 2007, n. 1693; Cass. 29 maggio 2006, n. 12802; Cass. 10 gennaio 2006, n. 154) visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. 13 marzo 2014 n. 5787 e, ancora Cass. 22366/2021 cit.). L'evidenziarsi, nel ricorso per cassazione, di altri elementi o la critica rispetto alla valorizzazione dei profili ritenuti decisivi dal giudice, è dunque inammissibile, perché a fronte di un ragionamento basato su elementi dotati delle caratteristiche idonee a sorreggere il ragionamento presuntivo, quella che si persegue in tal modo è una diversa valutazione del merito e dell'istruttoria, il che è improprio rispetto al giudizio di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148; ora anche Cass. 22 novembre 2023, n. 32505). 7.3. Il ragionamento può essere ulteriormente precisato. Nulla muta, rispetto al tema dell'accertamento della natura fittizia delle malattie dei dipendenti, anche a voler considerare l'assenza di denunce di falso per i medici. La Corte territoriale ha infatti dato preponderanza al dato statistico, per concluderne che, al di là di singoli casi, in assenza di epidemie comprovate, esso stesse ad attestare che le malattie o un numero significativo di esse doveva essere fittizio. L'eclatanza del dato statistico (più che quintuplicarsi delle malattie rispetto agli anni precedenti) esclude che il ragionamento sia in sé implausibile e ciò appare di evidenza inoppugnabile. Su tale presupposto, la scelta sul valorizzare l'uno o l'altro elemento appartiene al libero convincimento del giudice, che ha evidentemente ritenuto impossibile una ricostruzione ex post caso per caso di malattie non più esistenti ed ha invece dato preponderanza ad un elemento numerico in sé assai sintomatico e, date le dimensioni, tutt'altro che equivocabile. Ciò secondo i principi del tutto consolidati che si sono ricordati al punto che precede, che escludono altresì la rilevanza di altri fatti e rilievi minori al fine di sovvertire l'asse decisionale precedentemente ricostruito nei suoi diversi dettagli. 7.4 I motivi sul verificarsi di un'astensione collettiva dal lavoro non giustificabile, nel suo insieme e senza riguardo a posizioni di singoli, vanno dunque disattesi. 8. Il secondo punto di fatto rispetto a tale astensione lavorativa è quello in ordine ai motivi che l'hanno determinata. La Corte qui ha argomentato in difformità dal Tribunale escludendo che si potesse essere trattato di ragioni "soggettive" dei singoli lavoratori e per fare ciò ha: - sostanzialmente escluso il mero intento di riposarsi evidenziando come fosse in tal caso più ragionevole attendersi una tempestiva richiesta di ferie; - evidenziato il convergere del fenomeno di quei plurimi comportamenti individuali realizzati sin dal 29 dicembre, ovverosia nel periodo (il fine anno) cui avevano fatto riferimento le prospettate iniziative sindacali dei conflitti pregressi del dicembre di quell'anno. Si tratta ancora di ragionamento indiziario fondato su elementi chiari, che esprime un non implausibile convincimento di merito e per il quale valgono dunque le considerazioni sopra esposte. 9. Gli elementi di cui sopra attestano dunque, nel ragionamento della Corte territoriale, il verificarsi di un'astensione collettiva a fini sindacali in occasione dell'ultimo dell'anno/Capodanno 2014/2015, in Roma. 10. Vi è quindi da affrontare il tema sotto il profilo - anch'esso essenziale per quanto vi è qui da decidere - dell'avere le organizzazioni sindacali, tra cui la CISL, "organizzata e promossa" l'astensione collettiva dal lavoro di cui si è detto. Qui la Corte d'Appello ha valorizzato i seguenti elementi: - gli originari post apparsi tra il 18 ed il 20 dicembre, sul profilo ufficiale della UIL, in cui si manifestavano minacciose iniziative di sabotaggio degli eventi della citta: Capodanno, epifania e derby "una delle tre non ci sarà"; "lavoreranno in 3!!! Capodanno in famiglia"; rimozione deleghe a chi si impegnasse in turni di straordinario; - la mancata revoca dell'invito ai lavoratori di astenersi dalla prestazione di lavoro su base volontaria, su cui il Comune di Roma aveva sempre fatto affidamento negli anni precedenti per assicurare il servizio; - il verificarsi di un mero differimento delle assemblee già indette per la notte di Capodanno, avvenuto con modalità temporali (il 29.12) tali da non contraddire il persistente intento di protesta delle organizzazioni sindacali; - il comunicato a firma congiunta del 30 dicembre con cui le Organizzazioni Sindacali preannunciavano "ulteriori forme di lotta per rendere più incisiva ed eclatante l'azione intrapresa"; - l'ambiguità del post sul profilo Facebook del rappresentante UIL del 30 dicembre che, nell'invitare i colleghi a comportarsi "correttamente", manifestava tuttavia il verificarsi di una sorta di cooptazione e poteva anche sembrare tale ("fosse così facile") da suggerire espedienti per reagire al comportamento datoriale. Da ciò la Corte di merito ha desunto l'esistenza di un indirizzo delle organizzazioni sindacali ai lavoratori perché si astenessero dal prestare la propria opera nella notte del 31 dicembre. L'impianto indiziario muove da fatti precisi, assunti nella loro oggettività (post del 18-20 dicembre; mancata revoca dell'invito a rifiutare le prestazioni volontarie dell'ultimo dell'anno; i tempi di disdetta delle assemblee; il comunicato del 30.12) o ricostruiti in modo non implausibile (l'ambiguità del comunicato Facebook del 30.12), tra loro convergenti e muniti di indubbie caratteristiche di "gravità" nel manifestare l'intento di protesta. Quindi vale anche da questo punto di vista quanto si è sopra detto rispetto alla validità del ragionamento indiziario. 11. Vi è poi da considerare l'argomento, emerso anche in sede id discussione orale, secondo cui la sentenza di appello, ricostruendo in quel modo i fatti, addosserebbe al sindacato una posizione di avallo rispetto a comportamenti illeciti, se non anche a reati. Tuttavia, la fattispecie di reato è individuale e necessita accertamenti puntuali (sul tema specifico, v. Cass. pen. 7 dicembre 2015, n. 48328) che qui non rilevano come tali. L'accertamento che fonda la sanzione applicata riguarda il verificarsi di uno sciopero in ambito di servizi pubblici essenziali senza l'osservanza delle regole proprie di esso e tanto basta, il resto appartenendo a - comprensibili ma non decisive - enfasi difensive. 12. Quanto poi alla prova che abbiano aderito allo sciopero lavoratori appartenenti alle ricorrenti, oltre ad avere la Corte territoriale positivamente accertato che più della metà degli assenti era iscritto ad almeno una delle sigle interessante, vale altresì il rilievo in diritto svolto dalla sentenza impugnata, ovverosia che una volta organizzato e promosso uno sciopero da parte di una certa organizzazione sindacale, non ha rilievo che chi partecipi sia ad essa iscritto, contando solo il nesso causale tra quell'iniziativa e il comportamento dei lavoratori che vi hanno dato attuazione. Rileva cioè la capacità di fatto delle sigle promotrici di trovare adepti rispetto all'iniziativa assunta e non la formale appartenenza sindacale di questi ultimi. 13. Infine è irrilevante anche il fatto che, con altre sentenze, sia stata esclusa la responsabilità di altri sindacati, in quanto ciò è effetto naturale dell'autonomia dei relativi processi, con dato che non può in sé sovvertire il convincimento di merito raggiunto, sui fatti decisivi, dall'ampia ed articolata motivazione della Corte d'Appello nella sentenza qui impugnata. 14. Il ricorso va quindi disatteso e può affermarsi anche il seguente principio di diritto: "nell'ambito dei servizi pubblici essenziali, costituisce sciopero, come tale soggetto alla disciplina di cui alla legge n. 146 del 1990, l'astensione dal lavoro che si realizzi, a fini di rivendicazione collettiva, mediante presentazione di certificazioni mediche che, secondo l'accertamento del giudice del merito, risultino fittizie e finalizzate a giustificare solo formalmente la mancata presentazione al lavoro, senza reale fondamento in un sottostante stato patologico, ma in realtà siano da collegare ad uno stato di agitazione volto all'astensione collettiva dal lavoro nella sostanza proclamato dalle OO.SS. in modo "occulto". 15. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione delle spese secondo soccombenza. 16. Segue altresì la declaratoria della ricorrenza delle condizioni per il c.d. raddoppio del contributo unificato, cui non si sottraggono, se quel contributo risulti dovuto, le organizzazioni sindacali quali soggetti giuridici legittimati ad agire in giudizio. Ciò per plurime ragioni: a) la disciplina del suddetto raddoppio è di stretto diritto e non contempla deroghe per le organizzazioni sindacali; b) per costante giurisprudenza di questa Corte le circolari non sono fonti del diritto ma semplice presupposto chiarificatore della posizione espressa dall'Amministrazione su un dato oggetto (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23042; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1577; Cass. 6 aprile 2011, n. 7889); c) di conseguenza, non va attribuito alcun valore, nella specie, alla Circolare del Ministero della Giustizia n. 21/2013 secondo cui il procedimento disciplinato dall'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, volto a ottenere da parte dei sindacati la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro - il quale peraltro, nella specie, non è oggetto di causa - sarebbe da considerare esente dal contributo unificato, trattandosi di un procedimento che si fonda sulla violazione di norme costituzionali o quantomeno generali dell'ordinamento, tenuto conto che non vi è esenzione per le cause che riguardino la tutela individuale del lavoratore, per quanto anch'esse destinate a fondarsi sul diritto costituzionale al lavoro di cui agli artt. 4 e 35 Cost. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento in favore della Commissione di Garanzia dell'Attuazione della Legge sullo Sciopero nei Servizi Pubblici Essenziali, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO composta dagli ill.mi sigg.ri magistrati: LUCIA TRIAPresidente CATERINA MAROTTA Consigliere ANDREA ZULIANI Consigliere ROBERTO BELLÈ Consigliere - Rel. NICOLA DE MARINISConsigliere Oggetto: SCIOPERO NEI SERVIZIO PUBBLICI ESSENZIALI – ASTENSIONE COLLETTIVA MEDIANTE PRESENTAZIONE DI CERTIFICAZIONI MEDICHE FITTIZIE – SCIOPERO OCCULTO – SANZIONI NEI CONFRONTI DELLE OO.SS. PROMOTRICI O ORGANIZZATRICI. Ud. 7/2/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 11664/2022 R.G. proposto da: FUNZIONE PUBBLICA C.G.I.L. - FUNZIONE PUBBLICA C.G.I.L. ROMA e LAZIO, rappresentati e difesi dall’Avv. ROBERTO D’ATRI presso il cui studio in Roma, via Giulia 66, sono elettivamente domiciliati - ricorrenti - contro COMMISSIONE DI GARANZIA DELL’ATTUAZIONE DELLA LEGGE SULLO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso la quale in Roma, via dei Portoghesi 12, è domiciliata - resistente – avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma, n. 4686/2021, depositata il 7.1.2022, RG 449/2017; udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 7.2.2024 dal Consigliere ROBERTO BELLE’; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Mario Fresa il quale ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi gli avv.ti Roberto d’Atri per i ricorrenti e l’Avvocato dello Stato Gianni De Bellis, per la resistente. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d’Appello di Roma, riformando la sentenza del Tribunale della stessa città, ha rigettato il ricorso proposto dalle organizzazioni sindacali ricorrenti al fine di sentir accertare l’illegittimità dei provvedimenti con i quali la Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (di seguito, Commissione) aveva disposto, ai sensi dell’art. 4, co. 2, della L. n. 146 del 1990, la sospensione del pagamento dei contributi associativi a favore delle predette, per un ammontare economico di euro 20.000,00, perché ritenute responsabili, insieme ad altre associazioni sindacali, della preordinata e anomala astensione collettiva in violazione delle disposizioni normative sull’esercizio del diritto di sciopero, concretizzatasi nelle massicce assenze dei lavoratori della Polizia Locale del Comune di Roma nella notte tra il 31.12.2014 ed il 1.1.2015. La vicenda riguarda quanto accaduto nel dicembre 2014 e poi, appunto, il 31.12 di quell’anno e il 1.1.2015 nella città di Roma, nel contesto di contrasti su vari profili lavoristici ed organizzativi tra le Organizzazioni Sindacali (di seguito, anche OO.SS.) e i dipendenti della Polizia Municipale, da un lato ed il Comune di Roma, dall’altro. La Corte territoriale riteneva provato che, nonostante la revoca delle assemblee originariamente indette dalle OO.SS. per le ore 21.00 del 31.12.2014 e le ore 3.00 del 1.1.2015, fosse stato mantenuto uno stato di agitazione che veniva desunto dal fatto che non era stato revocato l’invito ai lavoratori ad astenersi dall’adesione allo straordinario volontario per i turni di fine anno, dalle modalità temporali con cui si era avuta la revoca delle predette assemblee, intervenuta solo il 30.12 e da un comunicato in forma congiunta sempre del 30.12 con cui venivano preannunciate ulteriori forme di lotta. Secondo la Corte territoriale non costituiva poi un intervento realmente dissuasivo il comunicato del segretario regionale della UIL del 30.12, sia per il suo tenore ambiguo, sia perché esso non poteva essere letto isolatamente rispetto ai tre post, apparsi tra il 18 ed il 20 dicembre sul profilo ufficiale della stessa UIL, con cui si preannunciava che una delle tre occasioni di impegno (Capodanno, epifania, derby cittadino di calcio) “non ci sarebbe stato”, che a Capodanno avrebbero “lavorato in tre” e che sarebbero state rimosse le deleghe a chi si fosse impegnato in turni di straordinario. La Corte territoriale ha quindi evidenziato il dato statistico, tale per cui i permessi per il 31.12 erano quasi raddoppiati rispetto agli anni precedenti e le assenze per malattia erano più che quintuplicate, sostenendo che l’elevato tasso di incremento non rendesse verosimile il risalire dell’accaduto a reali stati patologici e rimarcando che più della metà dei lavoratori assenti era iscritto ad una delle OO.SS. sanzionate, segno palese della influenza di esse sui lavoratori. Pertanto, la sentenza, evidenziando anche la rilevante convergenza di autonomi comportamenti individuali, riteneva che non potessero residuare dubbi sul fatto che, nella notte del 31.12.2014, si fosse realizzata un’astensione collettiva dal lavoro per motivi sindacali promossa attraverso l’azione congiunta di tutte le sigle coinvolte. 2. Funzione Pubblica CGIL e Funzione Pubblica CGIL Roma e Lazio (di seguito, in breve, CGIL) hanno proposto ricorso per cassazione con sette motivi. 3. La Commissione si è limitata alla costituzione in giudizio al fine di partecipare alla discussione in udienza pubblica. Il Pubblico Ministero ha depositato requisitoria scritta con cui ha insistito per il rigetto del ricorso, confermando in udienza pubblica tali conclusioni. CGIL ha depositato memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Va preliminarmente disattesa l’eccezione – anche sotto il profilo della legittimità costituzionale - sollevata all’udienza dalla difesa di CGIL. Come da prassi non inconsueta presso la S.C., la parte raggiunta dal ricorso per cassazione, si è limitata a depositare memoria di costituzione, al fine di partecipare all’udienza pubblica, senza quindi esplicitare prima le proprie difese rispetto al ricorso avversario. Si tratta di assetto in sé coerente con il disposto dell’art. 370, co. 1, c.p.c., che, mentre vieta alla parte che non abbia depositato controricorso di presentare memorie, consente alla stessa di partecipare alla discussione orale; poiché l’udienza pubblica è in sé aperta alla partecipazione di chiunque, la partecipazione alla discussione non può poi che intendersi – come del resto è nel senso proprio delle parole – quale abilitazione alla discussione della causa. Il difensore di CGIL ha sottolineato come in questo modo finisca per non essere assicurata al ricorrente per cassazione la possibilità di replicare rispetto alle difese svolte dalla controparte all’udienza, perché l’art. 379, u.c., c.p.c. stabilisce che “non sono ammesse repliche”. L’art. 379 u.c. c.p.c. aggiungeva, fino alle modifiche intervenute con il d.l. n. 168 conv. con mod., in L. n. 197 del 2016, la possibilità per le parti di presentare “brevi osservazioni per iscritto” rispetto alle conclusioni del Pubblico Ministero, ma tale (limitata) facoltà non è ora più prevista. A ben vedere, la carenza sotto il profilo del rispetto al diritto di difesa che è ipotizzata dalla parte ricorrente non sarebbe neanche propria soltanto del caso in cui la controparte si limiti a depositare un atto di costituzione, ma anche di tutti i casi in cui essa non dispieghi integralmente le proprie difese con il controricorso e nelle successive memorie, sollecitando l’attenzione in sede di discussione su profili ulteriori. Quanto rilevato dal difensore di CGIL è vero, ma, stante l’impianto normativo di cui si è detto, solo un intervento del legislatore potrebbe consentire di impostare diversamente l’assetto del giudizio di legittimità, che non può essere ritenuto in sé in contrasto con gli artt. 24 o 111 Cost., considerando anche l’ampia discrezionalità costantemente riconosciuta al legislatore da parte della Corte costituzionale in materia di configurazione degli istituti processuali. Non si può infatti ritenere che, rispetto ad un processo di pura legittimità, in cui anche la eventuale decisione “nel merito” può aversi solo quando non vi sia necessità di accertamento ulteriore di fatti, contrasti con il diritto di difesa l’impostazione minimale che si realizza quando le posizioni siano espresse dal ricorrente con il ricorso, cui segue la requisitoria del Pubblico Ministero e quindi la discussione dello stesso ricorrente e poi le difese orali della controparte. Per ragionare su un contrasto con il diritto di difesa si dovrebbe ipotizzare che la controparte solleciti il giudice di legittimità alla disamina di profili che il ricorrente non sia già tenuto a considerare al momento della redazione e cura del ricorso per cassazione. Certamente non integrano una tale ipotesi – che non vi è qui luogo ad approfondire con altre esemplificazioni non coinvolte dal caso di specie - le difese svolte dalla Commissione in sede di discussione, con cui si è evidenziato essenzialmente come il ricorso sollecitasse rivisitazioni di accertamenti di fatto e di valutazioni dell’istruttoria. Si tratta infatti di rilievi che coinvolgono aspetti notoriamente e diffusamente propri del giudizio di legittimità, che chi confeziona i corrispondenti motivi non può di certo pensare di ignorare, né si può in alcun modo pensare ad un qualche effetto sorpresa insito in un tale ordine di obiezioni mosse solo oralmente in sede di discussione. La questione di legittimità costituzionale prospettata non può dunque neanche essere presa in considerazione, perché – come si è detto – un processo di mera legittimità in cui il dialogo sia limitato alla manifestazione delle posizioni delle parti, cui segua senza ulteriori interlocuzioni la decisione del giudice, non può essere ritenuto in sé in contrasto con gli artt. 24 o 111 Cost., mentre, d’altra parte, una questione di legittimità non può essere sollecitata, per difetto di rilevanza, quando non si siano verificate, in concreto, circostanze che rendano attuale nel processo trattato profili di vulnus al diritto di difesa (art. 23, co. 2, L. n. 87 del 1953). 2. Ciò posto, il primo motivo di ricorso denuncia la violazione di legge – articolo 360 n. 3 e 5 c.p.c. in relazione agli articoli 342 e 348-bis c.p.c. - la inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi – apodittica motivazione – violazione dell’art. 132 c.p.c. Il motivo riguarda l’eccezione dell’allora appellata CGIL in ordine all’irritualità dell’appello per contrasto con le regole di cui all’art. 342 c.p.c. che lo governano. La censura sostiene che la motivazione addotta dalla Corte territoriale, secondo cui quanto «palesato dalla … riportata sintesi dei motivi … in fatto e diritto … è pienamente rispettosa del disposto dell’art. 434 c.p.c.»” sarebbe da considerare apodittica e dunque insufficiente o comunque formulata con violazione delle regole sull’appello. A questo proposito la censura rileva come il riepilogo dei motivi di gravame operato dalla Corte territoriale si chiuda sinteticamente affermando che «sulla base di dette considerazioni» era chiesta la riforma della sentenza appellata, il che rendeva evidente la carenza di elementi di valutazione alternativi a quelli della sentenza di primo grado, affidando – afferma espressamente il motivo - «al buon cuore» della Corte la ricostruzione presuntiva di quanto necessario a fondare la sanzione irrogata. Poiché – aggiunge la censura - vi era stata un’articolata eccezione di inammissibilità del gravame, con cui era stata rilevata l’assenza di prospettazioni alternative rispetto alla ricostruzione operata dal Tribunale, nonché la ricorrenza di ragioni autonome di sostegno alla decisione di prime cure rimaste in realtà non censurate e vi era stata altresì denuncia dell’assenza di prova dei fatti idonei a fondare la sanzione, non si poteva ritenere che costituisse corretto espletamento dei doveri dell’appellante la mera «riproposizione delle prime difese» svolte presso il Tribunale. 3. Il motivo è infondato. 4. Deve muoversi dai principi ormai consolidati presso questa S.C., secondo cui «gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata» (Cass., S.U., 16 novembre 2017, n. 27199; poi Cass. 30 maggio 2018, n. 13535; Cass., S.U., 13 dicembre 2022, n. 36481). Su tali premesse, l’avere l’appellante – secondo quanto emerge dalla sentenza di secondo grado – censurato, da un lato, la valorizzazione in un certo modo di una serie di circostanze e, dall’altro, la svalutazione o il non corretto apprezzamento di altre, è ben sufficiente ad integrare un rituale appello, ove la rilettura dei dati istruttori così operata realizza l’effetto devolutivo a favore del giudice di secondo grado. Non serve, come precisa la massima sopra indicata, fornire in dettaglio una diversa e specifica ricostruzione di ogni particolare di fatto, bastando la critica alla sentenza di prime cure, con il fine di procurare una diversa ricostruzione fattuale, il cui effetto – appunto devolutivo - è quello di riaprire il giudizio circostanziale, senza che il convincimento giudiziale abbia limiti se non quelli dati dalle regole sul governo delle prove disponibili. Del tutto generico e come tale inidoneo a porsi utilmente come spunto impugnatorio è infine l’assunto in ordine all’esistenza di rationes decidendi sviluppate in primo grado e che si sarebbero stabilizzate per mancanza di appello sui punti specifici, quali parti motivazionali sufficienti all’annullamento della sanzione. 5. Il secondo motivo è rubricato come inerente alla violazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) degli artt. 115 e 416 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c.c., con riferimento all’assetto degli oneri probatori e di contestazione. Il motivo richiama l’allegazione difensiva di primo grado svolta da CGIL in ordine alla necessità che fossero provati i presupposti propri dell’illecito perseguito, ovverosia l’astensione dal lavoro, il pregiudizio al servizio pubblico essenziale, il nesso causale e la responsabilità sindacale, rimarcando come la Commissione fosse tenuta a contestare tali assunti ed a fornire la prova positiva di quanto necessario a fondare la sanzione. In realtà la Commissione in appello aveva solo riproposto gli argomenti difensivi di primo grado e la sentenza aveva omesso di valutare due elementi motivazionali determinanti, ovverosia il fatto che i controlli della P.A. sugli assenti avesse convalidato le loro giustificazioni come legittime e la ragione per cui anche comportamenti di lavoratori non iscritti alle organizzazioni di categoria potessero esser messi carico del sindacato, senza nemmeno distinguere tra le singole organizzazioni e restando non precisato anche quale fosse l’intento perseguito dal sindacato con l’indizione dell’assemblea poi revocata. Il terzo ed il quarto motivo ruotano attorno all’osservazione in ordine al fatto che il lavoro festivo, quello notturno e lo straordinario eccedente le due ore giornaliere fossero volontari e dunque il rifiuto di essi, anche collettivo, non era sciopero, ma manifestazione di un diritto riconosciuto dalla legge. Infatti, il rifiuto della prestazione festiva o del lavoro notturno e straordinario poteva al più essere considerato violazione da parte del singolo di regole contrattuali o normative, ma non poteva radicare responsabilità del Sindacato. Tuttavia, la sentenza non spiegava per quale ragione quel rifiuto fosse illegittimo e ciò veniva censurato come violazione dell’art. 112 c.p.c., rispetto ad un motivo di opposizione alla sanzione dispiegato in primo grado (terzo motivo di ricorso per cassazione) e come violazione dell’art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 n.5 c.p.c., per omessa motivazione di una questione prospettata (quarto motivo di ricorso per cassazione). Il quinto motivo adduce la violazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) degli artt. 2727 e 2729 c.c., nonché della L. 146 del 1990, art. 12, co. 1, art. 13, co. 1, lett. i), art. 2, co. 5 ed infine degli artt. 115 e 116 c.p.c., con riferimento alla prova dell’illecito ed alla dimostrazione presuntiva di esso. Il motivo è sviluppato escludendo che ricorressero i presupposti di gravità, precisione e concordanza negli elementi indiziari valorizzati dalla Corte territoriale. Esso rimarca come rispetto al primo elemento addotto, ovverosia l’invito all’astensione dal lavoro festivo e dallo straordinario notturno, la Corte non spiegasse come il legittimo esercizio del diritto al riposo potesse essere atto illegittimo e fondare un illecito, così come legittima era stata l’indizione dell’assemblea, poi comunque revocata. Analogamente, le assenze per permessi contrattuali e malattia si erano rivelate tutte legittime e lecite, a parte una trentina delle quali nulla era noto e di cui spettava alla Commissione dare notizia. In definitiva, tutti i predetti fatti, in quanto legittimi, non potevano costituire elementi atti a sostenere l’inferenza logica cui ricollegare uno sciopero occulto. Indimostrato con precisione era anche – secondo le ricorrenti - l’assunto per cui le assenze sarebbero state surrettiziamente fasulle, perché la relazione ispettiva della P.A. non aveva raggiunto prova di ciò ed aveva affermato che era impossibile superare la presunzione di affidabilità del complesso della documentazione sanitaria acquisita, sicché la deduzione del fatto ignoto consistente nell’esistenza di uno sciopero era stata tratta dal fatto parimenti ignoto della natura surrettizia delle assenze. Dato non certo – aggiungeva ancora la CGIL – era anche la dichiarazione del sindacalista UIL, senza contare il tenore ambiguo di essa, così come approssimativi erano i dati in ordine all’appartenenza sindacale dei dipendenti assenti. In definitiva, mancando i requisiti propri del ragionamento presuntivo, quanto accaduto la notte della fine dell’anno del 2014 era stato – assumono le ricorrenti - solo suggestivamente addebitato al Sindacato. Il sesto motivo denuncia violazione di legge ed il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., richiamando gli artt. 2727, 2729 e 2697 c.c., nonché la Legge 146/1990, art. 4, co. 2 e art. 2, co.5, in una con il «difetto di motivazione articolo 132», nonché l’assetto degli oneri probatori. Il motivo richiama gli argomenti della quinta censura in ordine al fatto che i comportamenti sulla cui base era stata svolta la ricostruzione indiziaria dell’illecito addebitato erano in realtà tutti legittimi, ribadendo che vi erano elementi probatori trascurati, come la conclusione della relazione del Comune di Roma, o mal valutati, come il rilievo attribuito ad ambigue dichiarazioni del sindacato UIL. Il motivo aggiunge – sul piano del diritto sostanziale – dubbi in ordine alla possibilità per la Commissione di considerare violativi della L. n. 146 del 1990 atti adottati dal lavoratore singolarmente, che si risolvono nel godimento di diritti garantiti dalla legislazione ordinaria, così come vengono sollevati dubbi in ordine alla possibilità che la Commissione possa qualificare l’accaduto come forma di sciopero sulla base di elementi presuntivi non attinenti alla figura dell’istituto quale caratterizzato nella elaborazione dottrinale giurisprudenziale, finendo per ipotizzare una sorta di correità del Sindacato con lavoratori finti malati e medici compiacenti, che avrebbero falsamente attestato le malattie. Infine, il settimo motivo – rubricato come violazione dell’art. 132 c.p.c. e 2697 c.c. e destinato anche alle attività istruttorie chieste e non svolte - sostiene che risulterebbero oscuri i passaggi motivazionali attraverso i quali la Corte d’Appello aveva ricostruito le vicende del 29.12 (giorno in cui fu decisa la revoca delle assemblee) e del 30.12 (giorno in cui fu pubblicato un volantino in cui si sarebbe fatto riferimento ad ulteriori forme di lotta). 6. I suesposti motivi, stante la loro stretta connessione, vanno esaminati congiuntamente, secondo l’ordine logico delle questioni. 7. La Corte territoriale, in esito ad ampia motivazione, ha concluso la propria disamina affermando che la notte nel 31.12.2014, a Roma, gli addetti della Polizia Municipale realizzarono una «astensione collettiva dal lavoro per motivi sindacali», la quale fu «organizzata e promossa» anche da CGIL. Non essendovi mai stata una formale “proclamazione” di tale sciopero, si addebita quindi alle OO.SS. che avrebbero di fatto organizzato e promosso quell’astensione dal lavoro, la violazione di tutte le regole di cui all’art. 2 della legge n.146/1990 (comunicazione scritta, nel termine di preavviso, della durata e delle modalità di attuazione, nonché delle motivazioni dell'astensione collettiva dal lavoro), con applicazione consequenziale della sanzione di cui all’art. 4, co. 2, della stessa legge, che appunto prevede la sospensione dell’erogazione dei contributi di cui agli artt. 23 e 26 della legge n.300 del 1970 e la loro devoluzione all’INPS. 8. Si deve premettere come sia indubbio che la vicenda riguardi “servizi pubblici essenziali” ovverosia, secondo la dizione dell’art. 1 della legge n. 146 del 1990, quelli “volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione ed alla libertà di comunicazione”. È infatti chiaro – e sostanzialmente incontestato – che fra i compiti prioritari della Polizia Municipale vi siano quelli relativi alla sicurezza dei cittadini e alla circolazione di essi. Gli effetti potenzialmente pregiudizievoli di un’alterazione nella prestazione di quei servizi di sicurezza sono poi destinati ad insistere non solo su una generica facoltà di movimento dei cittadini, ma anche - in casi mano a mano più gravi – a realizzare pericoli per la loro incolumità. La vicenda oggetto del contendere riguarda i servizi di Polizia Municipale per la notte tra l’ultimo dell’anno del 2014 e il Capodanno del 2015 nella città di Roma e dunque una situazione di fatto rispetto alla quale l’importanza di una piena efficienza del corpo di Polizia Municipale destinato strutturalmente e fisiologicamente ad operare sul territorio non merita ulteriori spiegazioni per essere compresa. Non vi è quindi dubbio che il regime dello sciopero su cui si deve decidere rientra nell’ambito della disciplina di cui alla legge n. 146 del 1990, concernendo un servizio pubblico essenziale e che quindi si applichino gli artt. 1, 2 e 4 della stessa legge. 8.1 In tale contesto è poi ininfluente il verificarsi o meno di un concreto pregiudizio per il servizio pubblico. Il Comune di Roma – come si dirà - ha sopperito ricorrendo al turno ordinario e poi alla pronta disponibilità – ovverosia a forme diverse di reperimento del personale diverse da quella in genere attuata per la notte di Capodanno – ma ciò che conta è il dato obiettivo del verificarsi di uno sciopero, con coinvolgimento dei sindacati, senza l’osservanza delle regole che la materia dei servizi pubblici essenziali impone di rispettare, onde prevenire e/o tutelare in modo adeguato rispetto ad eventuali pericoli o violazioni con riferimento ai diritti primari delle persone. Le già citate regole di preavviso di cui all’art. 2 della legge n. 146 sono finalizzate ad una pronta organizzazione di chi eroga il servizio essenziale, ai controlli cui è deputata la Commissione (co. 4) ed ai tentativi di composizione (co. 5), che sono con tutta evidenza indispensabili per assicurare il bilanciamento ordinato dei contrapposti interessi. Come efficacemente precisato – seppure in altro contesto – da Corte Costituzionale 24 febbraio 1995 n. 57 «l'esercizio del diritto di sciopero nel settore dei servizi pubblici essenziali è assoggettato, dalla legge n. 146 del 1990, ad una disciplina di marcata connotazione procedimentale» che muove «dalla fissazione dei requisiti minimi delle prestazioni indispensabili» e determina poi «la sequela degli atti strumentalmente necessari per pervenire alla fase di astensione dall'attività lavorativa», nel senso che l’iter procedimentale è appunto finalizzato ad assicurare il contemperamento degli opposti interessi ed a salvaguardare dal pericolo che, in assenza di quelle valutazioni necessarie ad assicurare legittimità all’astensione, vi possa essere per i beni primari indicati dalla legge stessa a sopra richiamati. In altre parole, la violazione dell’iter procedimentale è in sé causa di illegittimità dello sciopero che sia ciononostante attuato e fonte di responsabilità. Non è inopportuno ricordare in proposito come questa S.C. abbia già ritenuto che i comportamenti sanzionati dall'art. 4, comma secondo, della legge n. 146 del 1990, ovverosia la proclamazione o l'adesione ad uno sciopero illegittimo – quale è certamente quello non sviluppato nell’osservanza delle regole di cui alla legge n. 146 - siano fonte di responsabilità addirittura anche nel caso in cui non siano seguite da un'effettiva astensione dal lavoro e ciò in quanto la proclamazione provoca, in tutta evidenza, disagi e danni per la collettività e per il datore di lavoro, sulla cui considerazione si fonda la ratio della previsione legislativa delle sanzioni di cui si tratta (Cass. 5 ottobre 1998, n. 9876). Del resto, va altresì rammentato come la Corte costituzionale abbia ampiamente ritenuto – come riepilogato da Cass. 28 gennaio 2019, n. 2298 cui risale la sintesi che segue - che il diritto di sciopero di cui all’art. 40 Cost. «possa essere oggetto di particolari limitazioni, relativamente agli addetti ai servizi pubblici essenziali, proprio in ragione della tutela di interessi generali assolutamente preminenti che trovano diretta protezione in principi consacrati dalla Costituzione (Corte cost. n. 123 del 1962), ovverosia di una tutela che attiene alla soddisfazione di interessi assolutamente essenziali (Corte cost. n. 124 del 1962) o di valori fondamentali legati alla integrità della vita e della personalità dei singoli, principi e limitazioni, cioè, diretti ad evitare la compromissione di funzioni da considerare essenziali per il loro carattere di preminente interesse generale (Corte cost. n. 31 del 1969, n. 290 del 1974, n. 222 del 1976, n. 125 del 1980 e n. 165 del 1983)». 9. Ciò posto, il primo punto – di diritto – da dirimere è se l’astensione collettiva dei lavoratori che si realizzi sulla base di giustificazioni formali delle assenze (permessi; malattia) possa essere definita sciopero ed a quali condizioni. Il punto si suddivide tuttavia in due profili, tra loro consequenziali e dunque da analizzare secondo l’ordine logico, dovendosi stabilire dapprima se le assenze nella notte del 31.12.2014 fossero astensioni da un lavoro dovuto e, in caso positivo, se esse si qualifichino come sciopero. 9.1 Rispetto al primo punto la dinamica fattuale appare pacifica: - i turni di fine anno sono stati negli anni sempre regolati sulla base di straordinario volontario ed in tal senso il 18.12 il Comandante aveva trasmesso il piano operativo dei servizi; - le organizzazioni sindacali hanno tuttavia emanato e mai revocato l’invito ai lavoratori ad astenersi dalla disponibilità a quei turni volontari; - nell’impossibilità di procedere secondo le modalità consuete il Comune di Roma organizzò altrimenti i servizi di fine anno e tuttavia si manifestarono le assenze per malattia e permessi di cui si dirà, sicché, come precisa lo stesso ricorso di CGIL, il Comune dovette sopperire poi con il regime della “pronta disponibilità”, per cui evidentemente furono chiamati al lavoro dipendenti diversi da quelli che avrebbero dovuto coprire il servizio secondo l’organizzazione comunale e che erano risultati a quel punto assenti. 9.2. Non può aversi per utilmente richiamata la giurisprudenza (ad es. Cass. 31 marzo 2021, n. 8958) in ambito di lavoro (privato) ove si fa riferimento ad un diritto soggettivo a non prestare lavoro, se non su base volontaria, nelle festività infrasettimanali, quale il Capodanno. È infatti evidente che tale regime non può valere per i servizi pubblici caratterizzati da continuità di svolgimento, ove è la normativa sui turni e sulle conseguenti indennità e riposi (art. 22 CCNL 14.9.2000 e poi art. 23 CCNL 21.5.2018 e 30 CCNL 16.11.2022) ed eventualmente sugli straordinari, a costituire la disciplina di riferimento. D’altra parte, non risulta che le prestazioni di fine anno fossero incongrue rispetto ai turni di lavoro propri dei dipendenti addetti ai servizi di polizia di un ente locale secondo la contrattazione collettiva. Il fatto, dunque, che la Corte d’Appello non abbia preso in considerazione l’eccezione in ordine alla natura meramente volontaria del lavoro festivo e dello straordinario non ha rilievo né rispetto all’asserita violazione dell’art. 112 c.p.c. (v. Cass., S.U., 2 febbraio 2017, n. 2731), né rispetto a quella dell’art. 132 n. 4 c.p.c. (v. Cass. 1 marzo 2019, n. 6145 ), in quanto si tratta di profilo giuridicamente infondato. 9.3 Quanto al verificarsi di un’astensione dal lavoro e quindi di uno sciopero, è certo che l’iniziativa comunale di copertura dei servizi con il consueto straordinario volontario non fosse andata a buon fine e che il Comune – essendo evidente la necessità di coprire i servizi – doveva utilizzare in forme non volontarie il proprio personale. È parimenti pacifico che il Comune, quando si organizzò per ottenere le prestazioni in forme non volontarie, non poté fare riferimento ad un gran numero di addetti che sarebbero stati chiamati, perché in malattia o a vario titolo in permesso. Tralasciando il caso dei permessi, il diniego della prestazione insito nell’invio di certificato medico cui si abbia astrattamente titolo è senza dubbio in sé legittimo. Se tuttavia il diniego della prestazione su tali basi si fondi su giustificazioni puramente formali e non corrispondenti a reali stati di malattia, va da sé – sulla base di quanto sopra detto - che si realizzi un’astensione dal lavoro la quale, se motivata da ragioni di rivendicazione collettiva, non può sfuggire alla qualificazione come sciopero, se si vuole “occulto”, in quanto apparentemente, ma infondatamente, coperto da giustificazioni formali delle assenze. Non è qui questione di forme anomale di sciopero (a singhiozzo, a scacchiera, sciopero pignolo, comportamenti dilatori, su cui v., rispetto ai servizi pubblici essenziali, Cass. 5 maggio 1999 n. 476), quanto di una astensione dal lavoro, la cui particolarità sta nel fatto di essere essa occultata attraverso giustificazioni ritenute fittizie. 9.4 Pertanto, ricorrendo lo sciopero e ricorrendo l’interferenza con i servizi pubblici essenziali, ne deriva che l’attuazione senza osservanza delle forme di cui alla legge n. 146 del 1990 determina l’illiceità dello strumento e, nel ricorrere di una situazione in cui vi siano organizzazioni sindacali che “proclamano” o “aderiscono” ad una tale agitazione, una loro responsabilità ai sensi della normativa sopra citata. 9.5 L’assoluta preponderanza nel caso di specie del fenomeno delle “malattie”, numericamente (745 casi) e percentualmente (oltre il quintuplo rispetto agli anni precedenti) assai elevate, consente peraltro di concentrare su di esse – come del resto ha soprattutto fatto la Corte territoriale – la valutazione della liceità o meno di quanto accaduto, senza necessità di affrontare il tema dell’incremento anomalo dei permessi, peraltro risultati anch’essi sostanzialmente raddoppiati proprio in corrispondenza della fine dell’anno. 10. In gran parte la questione, rispetto a questa causa, diviene dunque di fatto, per quanto articolata rispetto ai vari profili che gradatamente integrano la fattispecie ultima della responsabilità del sindacato ricorrente per la sanzione infine irrogata. 11. Procedendo in ordine logico, la prima questione da affrontare è quella in ordine alla portata fittizia delle giustificazioni addotte dai lavoratori per restare assenti dai servizi propri di quella notte di fine anno. Quanto accertato dalla Corte d’Appello è che le giustificazioni delle malattie fossero fittizie e quindi esse avessero il fine di realizzare l’effetto dell’astensione dal lavoro con assenza del servizio, senza far apparire che si attuava in tal modo una protesta a fini di rivendicazione lavoristica ed un incremento significativo di assenze risulta esservi stato anche con riguardo ai permessi. Il manifestarsi di assenze per malattia fittizie, evidentemente, se vero, riporta di per sé appieno, per quanto sopra detto, nell’alveo dello sciopero, con l’aggravante del tentativo di un occultamento di esso a fini elusivi delle regole di tutela della collettività che lo riguardano quando si interferisca con servizi pubblici essenziali. 11.1 Su questo primo punto di fatto, la Corte territoriale ha argomentato evidenziando: - il rilevante incremento statistico delle assenze (più che quintuplicate quelle per malattia e più che duplicate quelle per permessi) rispetto al corrispondente periodo degli anni precedenti; - l’assenza di elementi atti a dimostrare l’esistenza di picchi epidemici in quel frangente temporale; - la rilevante convergenza dei comportamenti dei lavoratori nel medesimo lasso di tempo dal 29 dicembre e nel contesto di una situazione di conflittualità sindacale che già precedentemente era stata indirizzata (v. indizione delle assemblee per l’ultimo dell’anno, a cavallo della mezzanotte, poi revocate) verso la creazione di un disservizio proprio nel momento di particolare necessità per il servizio pubblico. 11.2 I dati valorizzati sono indubbiamente precisi (“rilevante” - perché numericamente di assoluta evidenza - incremento delle assenze; assenza di picchi epidemici; sussistenza di iniziative sindacali aventi ad oggetto i servizi dell’ultimo dell’anno), gravi (in quanto tutti attinenti alla giustificazione di quelle assenze) e concordanti (in quanto tutti destinati ad indirizzare nello stesso senso interpretativo). I principi in tema di presunzioni sono del resto consolidati, nel senso che, con riferimento agli artt. 2727 e 2729 c.c., spetta al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 5 agosto 2021, n. 22366). Va aggiunto che la censura per vizio di motivazione in ordine all'utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l'ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l'assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio ed anche la censura ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. non può avere corso, se non quando esso porterebbe la controversia con certezza ad una soluzione diversa, sicché non si tratti invece dell’opzione tra due scelte possibili, altrimenti realizzandosi una indebita sostituzione del giudice di merito nella selezione delle fonti di convincimento (Cass. 12 dicembre 2017, n. 29781; Cass. 28 marzo 2017, n. 7916). Neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità (tra le molte, Cass. 1° agosto 2007, n. 1693; Cass. 29 maggio 2006, n. 12802; Cass. 10 gennaio 2006, n. 154) visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. 13 marzo 2014 n. 5787 e, ancora Cass. 22366/2021 cit.). L’evidenziarsi, nel ricorso per cassazione, di altri elementi o la critica rispetto alla valorizzazione dei profili ritenuti decisivi dal giudice, è dunque inammissibile, perché a fronte di un ragionamento basato su elementi dotati delle caratteristiche idonee a sorreggere il ragionamento presuntivo, quella che si persegue in tal modo è una diversa valutazione del merito e dell’istruttoria, il che è improprio rispetto al giudizio di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148; ora anche Cass. 22 novembre 2023, n. 32505). 11.3. Il ragionamento può essere ulteriormente precisato. La ricorrente, rispetto al tema dell’accertamento della natura fittizia delle malattie dei dipendenti, evidenzia a più riprese come le verifiche del Comune di Roma non abbiano consentito di superare il dato formale delle certificazioni, se non per un numero limitato di casi. La Corte territoriale ha valorizzato invece il dato statistico, per concluderne che, al di là di singoli casi, in assenza di epidemie comprovate, esso stesse ad attestare che le malattie o un numero significativo di esse doveva essere fittizio. L’eclatanza del dato statistico (più che quintuplicarsi delle malattie rispetto agli anni precedenti) esclude che il ragionamento sia in sé implausibile e ciò appare di evidenza inoppugnabile. Su tale presupposto, la scelta sul valorizzare l’uno o l’altro elemento appartiene al libero convincimento del giudice, che ha evidentemente ritenuto impossibile una ricostruzione ex post caso per caso di malattie non più esistenti ed ha invece dato preponderanza ad un elemento numerico in sé assai sintomatico e, date le dimensioni, tutt’altro che equivocabile. Ciò secondo i principi del tutto consolidati che si sono ricordati al punto che precede, che escludono altresì la rilevanza di altri fatti e rilievi minori al fine di sovvertire l’asse decisionale precedentemente ricostruito nei suoi diversi dettagli. 11.4 I motivi sul verificarsi di un’astensione collettiva dal lavoro non giustificabile, nel suo insieme e senza riguardo a posizioni di singoli, vanno dunque disattesi. 12. Il secondo punto di fatto rispetto a tale astensione lavorativa è quello in ordine ai motivi che l’hanno determinata. La Corte qui ha argomentato in difformità dal Tribunale escludendo che si potesse essere trattato di ragioni “soggettive” dei singoli lavoratori e per fare ciò ha: -sostanzialmente escluso il mero intento di riposarsi evidenziando come fosse in tal caso più ragionevole attendersi una tempestiva richiesta di ferie; -evidenziato il convergere del fenomeno di quei plurimi comportamenti individuali realizzati sin dal 29 dicembre, ovverosia nel periodo (il fine anno) cui avevano fatto riferimento le prospettate iniziative sindacali dei conflitti pregressi del dicembre di quell’anno. Si tratta ancora di ragionamento indiziario fondato su elementi chiari, che esprime un non implausibile convincimento di merito e per il quale valgono dunque le considerazioni sopra esposte. 13. Gli elementi di cui sopra attestano dunque, nel ragionamento della Corte territoriale, il verificarsi di un’astensione collettiva a fini sindacali in occasione dell’ultimo dell’anno/Capodanno 2014/2015, in Roma. 14. Vi è quindi da affrontare il tema sotto il profilo – anch’esso essenziale per quanto vi è qui da decidere – dell’avere le organizzazioni sindacali, tra cui la CGIL, “organizzata e promossa” l’astensione collettiva dal lavoro di cui si è detto. Qui la Corte d’Appello ha valorizzato i seguenti elementi: -gli originari post apparsi tra il 18 ed il 20 dicembre, sul profilo ufficiale della UIL,in cui si manifestavano minacciose iniziative di sabotaggio degli eventi della citta: Capodanno, epifania e derby “una delle tre non ci sarà”; “lavoreranno in 3 !!! Capodanno in famiglia”; rimozione deleghe a chi si impegnasse in turni di straordinario; -la mancata revoca dell’invito ai lavoratori di astenersi dalla prestazione di lavoro su base volontaria, su cui il Comune di Roma aveva sempre fatto affidamento negli anni precedenti per assicurare il servizio; -il verificarsi di un mero differimento delle assemblee già indette per la notte di Capodanno, avvenuto con modalità temporali (il 29.12) tali da non contraddire il persistente intento di protesta delle organizzazioni sindacali; -il comunicato a firma congiunta del 30 dicembre con cui le Organizzazioni Sindacalipreannunciavano “ulteriori forme di lotta per rendere più incisiva ed eclatante l’azione intrapresa”; -l’ambiguità del post sul profilo Facebook del rappresentante UIL del 30 dicembre che, nell’invitare i colleghi a comportarsi “correttamente”, manifestava tuttavia il verificarsi di una sorta di cooptazione e poteva anche sembrare tale (“fosse così facile”) da suggerire espedienti per reagire al comportamento datoriale. Da ciò la Corte di merito ha desunto l’esistenza di un indirizzo delle organizzazioni sindacali ai lavoratori “perché si astenessero dal prestare la propria opera nella notte del 31 dicembre”. L’impianto indiziario muove da fatti precisi, assunti nella loro oggettività (post del 18-20 dicembre; mancata revoca dell’invito a rifiutare le prestazioni volontarie dell’ultimo dell’anno; i tempi di disdetta delle assemblee; il comunicato del 30.12) o ricostruiti in modo non implausibile (l’ambiguità del comunicato Facebook del 30.12), tra loro convergenti e muniti di indubbie caratteristiche di “gravità” nel manifestare l’intento di protesta. Quindi vale anche da questo punto di vista quanto si è sopra detto rispetto alla validità del ragionamento indiziario. 15. Quanto poi ai capitoli di prova su cui insiste l’ultimo motivo di ricorso, è chiaro che i primi tre riguardano fatti relativi alla revoca delle assemblee, che non sono in contrasto con quanto argomentato dalla Corte di merito rispetto a ciò che era avvenuto dopo. Il quarto riguarda il fatto che i sindacati, nel revocare le assemblee, avessero deciso di incontrarsi di nuovo nella seconda settimana di gennaio per valutare ulteriori iniziative. Tuttavia, la Corte territoriale ha valorizzato elementi ben precisi sopra riepilogati al punto 14 traendone conclusioni diverse che non collidono con il fatto che fossero stati ipotizzati incontri nel mese di gennaio, sicché il capo è superfluo. Il quinto capitolo riguarda il fatto che i funzionari sindacali della ricorrente non avrebbero avuto informazioni, nei giorni 31 dicembre e 1° gennaio, circa anomale astensioni. Tuttavia, a parte la genericità del riferimento a tutti i “funzionari”, la Corte d’Appello ha efficacemente spiegato come fosse ininfluente che i funzionari avessero contezza dell’adesione o meno ad una protesta che, sulla base di altri elementi, il giudice di merito ha ritenuto risalisse a loro iniziativa. 16. Vi è poi da considerare l’argomento speso da CGIL secondo cui la sentenza di appello, ricostruendo in quel modo i fatti, addosserebbe al sindacato una posizione di avallo rispetto a comportamenti illeciti, se non anche a reati. Tuttavia, la fattispecie di reato è individuale e necessita accertamenti puntuali (sul tema specifico, v. Cass. pen. 7 dicembre 2015, n. 48328) che qui non rilevano come tali. L’accertamento che fonda la sanzione applicata riguarda il verificarsi di uno sciopero in ambito di servizi pubblici essenziali senza l’osservanza delle regole proprie di esso e tanto basta, il resto appartenendo a - comprensibili ma non decisive - enfasi difensive. 17. Quanto poi alla prova che abbiano aderito allo sciopero lavoratori appartenenti alle ricorrenti, oltre ad avere la Corte territoriale positivamente accertato che più della metà degli assenti era iscritto ad almeno una delle sigle interessante, vale altresì il rilievo in diritto svolto dalla sentenza impugnata, ovverosia che una volta organizzato e promosso uno sciopero da parte di una certa organizzazione sindacale, non ha rilievo che chi partecipi sia ad essa iscritto, contando solo il nesso causale tra quell’iniziativa e il comportamento dei lavoratori che vi hanno dato attuazione. Rileva cioè la capacità di fatto delle sigle promotrici di trovare adepti rispetto all’iniziativa assunta e non la formale appartenenza sindacale di questi ultimi. 18. Infine è irrilevante anche il fatto che, con altre sentenze, sia stata esclusa la responsabilità di altri sindacati. A parte le genericità dell’assunto, ciò è effetto naturale dell’autonomia dei relativi processi, con dato che non può in sé sovvertire il convincimento di merito raggiunto, sui fatti decisivi, dall’ampia ed articolata motivazione della Corte d’Appello nella sentenza qui impugnata. 19. Il ricorso va quindi disatteso e può affermarsi anche il seguente principio di diritto: «nell’ambito dei servizi pubblici essenziali, costituisce sciopero, come tale soggetto alla disciplina di cui alla legge n. 146 del 1990, l’astensione dal lavoro che si realizzi, a fini di rivendicazione collettiva, mediante presentazione di certificazioni mediche che, secondo l’accertamento del giudice del merito, risultino fittizie e finalizzate a giustificare solo formalmente la mancata presentazione al lavoro, senza reale fondamento in un sottostante stato patologico, ma in realtà siano da collegare ad uno stato di agitazione volto all’astensione collettiva dal lavoro nella sostanza proclamato dalle OO.SS. in modo “occulto”». 20. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione delle spese secondo soccombenza. 21. Segue altresì la declaratoria della ricorrenza delle condizioni per il c.d. raddoppio del contributo unificato, cui non si sottraggono, se quel contributo risulti dovuto, le organizzazioni sindacali quali soggetti giuridici legittimati ad agire in giudizio. Ciò per plurime ragioni: a) la disciplina del suddetto raddoppio è di stretto diritto e non contempla deroghe per le organizzazioni sindacali; b) per costante giurisprudenza di questa Corte le circolari non sono fonti del diritto ma semplice presupposto chiarificatore della posizione espressa dall’Amministrazione su un dato oggetto (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23042; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1577; Cass. 6 aprile 2011, n. 7889); c) di conseguenza, non va attribuito alcun valore, nella specie, alla Circolare del Ministero della Giustizia n. 21/2013 secondo cui il procedimento disciplinato dall’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, volto a ottenere da parte dei sindacati la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro – il quale peraltro, nella specie, non è oggetto di causa – sarebbe da considerare esente dal contributo unificato, trattandosi di un procedimento che si fonda sulla violazione di norme costituzionali o quantomeno generali dell’ordinamento, tenuto conto che non vi è esenzione per le cause che riguardino la tutela individuale del lavoratore, per quanto anch’esse destinate a fondarsi sul diritto costituzionale al lavoro di cui agli artt. 4 e 35 Cost. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento in favore della Commissione di Garanzia dell’Attuazione della Legge sullo Sciopero nei Servizi Pubblici Essenziali, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 febbraio 2024. Il Consigliere estensore Roberto Bellè La Presidente Lucia Tria
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. TRIA Lucia - Presidente Dott. MAROTTA Caterina - Consigliere rel. Dott. ZULIANI Andrea - Consigliere Dott. BELLÉ Roberto - Consigliere Dott. DE MARINIS Nicola - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 8782/2018 R.G. proposto da: La.St., rappresentata e difesa dall'Avv. PI.PA. ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, Via (...); - ricorrente - contro MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO; - controricorrente - avverso la sentenza n. 4311/2017 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 14/12/2017 R.G.N. 5192/2014; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2024 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l'assorbimento del ricorso incidentale condizionato; udito l'avvocato TI.AG. per delega verbale avvocato Pi.Pa.; udito l'avvocato GI.SA. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d'appello di Roma rigettava il gravame proposto da La.St. avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva respinto le sue domande volte ad ottenere in via principale l'accertamento della sussistenza di prestazioni di lavoro subordinato, corrispondente alla posizione di dipendente di Area C, posizione economica C2 del CCNL Comparto Ministeri, l'inserimento nei ruoli organici del Ministero della giustizia con il suddetto inquadramento, la condanna dell'Amministrazione al pagamento in suo favore della complessiva somma di Euro 487.526,81 oltre accessori e delle ulteriori differenze retributive fino alla pubblicazione della sentenza, oltre al versamento dei contributi previdenziali e al risarcimento del danno per la mancata regolarizzazione contributiva e alla ricostruzione della carriera, nonché la domanda proposta in via subordinata volta ad ottenere la condanna dell'Amministrazione al pagamento della somma di Euro 487.526,81 oltre accessori, a titolo di ingiustificato arricchimento. 2. La.St., a seguito di selezione pubblica, bandita dal Ministero della Giustizia, ai sensi dell'art. 80, comma 4, della L. n. 354/1975, e degli artt. 13 dell'ordinamento penitenziario e 120 del relativo regolamento di esecuzione, aveva avuto accesso alla lista degli psicologi esperti ed aveva svolto diversi incarichi. Dal settembre 1987 era stata trasferita a Roma presso il nuovo complesso carcerario di Rebibbia ove, per lo svolgimento dei vari incarichi, aveva sottoscritto varie convenzioni. Aveva dedotto che l'attività aveva avuto le connotazioni del lavoro subordinato e che le prestazioni rese corrispondevano alla posizione di un dipendente di area C, posizione economica C2. 3. Il Tribunale aveva respinto la domanda escludendo l'eterodirezione dell'attività, ritenendo riconducibile al lavoro autonomo la possibile revoca dell'incarico, ritenendo infondata la domanda anche in relazione alla parasubordinazione ed all'ingiustificato arricchimento. 4. La Corte territoriale evidenziava che la lavoratrice aveva concordato con la direzione presenze, giorni ed ore, ivi compreso l'orario extra nei casi urgenti. Riteneva tale circostanza incompatibile con l'asserita natura subordinata del rapporto di lavoro, nel quale il dipendente non può rifiutarsi di svolgere il lavoro straordinario che gli venga richiesto. Rimarcava che l'oggetto ed il contenuto della prestazione professionale dello psicologo non richiedono l'impiego di mezzi particolari ed escludeva pertanto la necessità di un'organizzazione propria anche di carattere minimo. Riteneva inoltre che il potere di revocare l'incarico da parte dell'Amministrazione deponesse per l'insussistenza del rischio economico. Considerava, a fronte delle previsioni contenute nell'art. 80 della legge n. 354/1975, priva di valenza indiziaria ai fini della qualificazione del rapporto la circostanza che il compenso percepito dalla lavoratrice fosse commisurato alle ore di presenza nel carcere. 3. Per la cassazione della sentenza di appello La.St. ha prospettato un unico motivo di ricorso. 4. Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso e proposto, altresì ricorso incidentale condizionato affidato ad un unico motivo. La causa, chiamata all'adunanza camerale del 3/10/2023, con ordinanza interlocutoria n. 30236/2023, è stata rimessa all'udienza pubblica. 6. Il P.G. ha presentato memoria scritta concludendo per il rigetto del ricorso principale con assorbimento del ricorso incidentale condizionato. 7. Entrambe le parti hanno depositato memorie. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con l'unico motivo, la ricorrente principale denuncia violazione degli artt. 2094 e 2222 cod. proc. civ, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. lamenta che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto l'inesistenza del potere direttivo dell'Amministrazione, omettendo di considerare le sue incontestate deduzioni relative alla necessità di autorizzazione delle segnalazioni e giustificazioni di assenze per ferie, malattia, motivi di famiglia, nonché l'autorizzazione alla sostituzione dei colleghi, con obbligo di servizio giornaliero e all'osservanza dei rigidi orari serali (inizialmente 19.00 - 21.00 e successivamente 17.00-21.00) comprensivi di giorni festivi e festività; evidenzia che la Direzione del carcere richiedeva la sua presenza quotidiana, le assegnava i casi da trattare determinando così la retribuzione, le forniva indicazioni sulle modalità di intervento attraverso ordini di servizio, fissava orari, autorizzava ferie ed assenze; rimarca che era tenuta a relazionare per iscritto sulle attività e sui risultati ottenuti; sostiene l'irrilevanza del potere di revoca del mandato da parte dell'Amministrazione, visto che comunque il lavoratore subordinato può essere licenziato; argomenta che la modalità e la specificità con cui il datore di lavoro esercita il potere conformativo dipendono dalla natura delle mansioni svolte, dal grado di autonomia che le caratterizza e dalla struttura dei processi organizzativi. Precisa che, ai fini della qualificazione del rapporto in termini di subordinazione, sono sufficienti l'etero organizzazione o l'eterodirezione, intesa come stabile disponibilità nel tempo alle esigenze dell'impresa; richiama la giurisprudenza di legittimità sulla valenza del nomen iuris adottato dalle parti ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, sugli indici sussidiari della subordinazione e sulla "doppia alienità", con specifico riferimento alle pronunce riguardanti la qualificazione del rapporto di lavoro dei medici. 2. Con l'unico motivo di ricorso incidentale, il Ministero della Giustizia denuncia l'omesso accertamento della prescrizione del credito azionato dalla controparte. 3. Il ricorso principale è infondato. 4. Gli psicologi penitenziari sono collocabili in due categorie: 1) psicologi dipendenti di ruolo, che esercitano funzioni sanitarie nell'ambito del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia (si tratta di dipendenti che hanno anche beneficiato dei trasferimenti di cui al D.P.R. 1 aprile 2008, si vedano Cass. 18 maggio 2020, n. 9096; Cass. 11 maggio 2023, n. 12804); 2) psicologi ex art. 80 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento Penitenziario), disposizione (modificata dall'art. 14 del D.L. 14 aprile 1978, n. 111, convertito, con modificazioni, dalla Legge 10 giugno 1978, n. 271 e poi dall'art. 11, comma 1, lettera s), del D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 123) ai sensi della quale: "1.Presso gli istituti di prevenzione e di pena per adulti, oltre al personale previsto dalle leggi vigenti, operano gli educatori per adulti e gli assistenti sociali dipendenti dai centri di servizio sociale previsti dall'articolo 72. 2. L'amministrazione penitenziaria può avvalersi, per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, di personale incaricato giornaliero, entro limiti numerici da concordare annualmente, con il Ministero del tesoro. 3. Al personale incaricato giornaliero è attribuito lo stesso trattamento ragguagliato a giornata previsto per il corrispondente personale incaricato. 4. Per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l'amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, nonché di mediatori culturali e interpreti, corrispondendo ad essi onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate. 5. Il servizio infermieristico degli istituti penitenziari, previsti dall'art. 59, è assicurato mediante operai specializzati con la qualifica di infermieri. 6. A tal fine la dotazione organica degli operai dell'amministrazione degli istituti di prevenzione e di pena, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1971, n. 275, emanato a norma dell'articolo 17 della legge 28 ottobre 1970, n. 775, è incrementata di 800 unità riservate alla suddetta categoria. Tali unità sono attribuite nella misura di 640 agli operai specializzati e di 160 ai capi operai. 7. Le modalità relative all'assunzione di detto personale saranno stabilite dal regolamento di esecuzione". La finalità perseguita dal legislatore, in applicazione di principi di matrice costituzionale secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, è dunque quella dell'effettivo ravvedimento finalizzato al successivo reinserimento del condannato nella società, perseguibile solo attraverso un periodo di osservazione, trattamento e di partecipazione all'opera rieducativa. Come facilmente intuibile, il legislatore ha previsto che, per un più efficace perseguimento di dette finalità, l'amministrazione penitenziaria possa avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, corrispondendo ad essi onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate in relazione alle attività di osservazione e di trattamento. 5. La ricorrente appartiene alla seconda tipologia, rientrando nell'ambito degli specialisti incaricati di coadiuvare il personale di ruolo nell'attività di "osservazione e trattamento" del condannato di cui al comma 4 della suddetta disposizione allo scopo di elaborare un programma rieducativo in carcere finalizzato al suo reinserimento sociale. 6. L'assegnazione degli incarichi ai professionisti esperti ex art. 80 è affidata ai Provveditorati Regionali e prevede procedure di selezione quadriennali da cui scaturiscono elenchi e graduatorie della stessa durata. L'individualizzazione del trattamento è stata, poi, disciplinata dall'art. 13 della stessa legge n. 354/1975. L'art. 132 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) ha dettato disposizioni relativa alla nomina degli esperti per le attività di osservazione e di trattamento e previsto che: "1. Il provveditorato regionale compila, per ogni distretto di Corte d'appello, un elenco degli esperti dei quali le direzioni degli istituti e dei centri di servizio sociale possano avvalersi per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento ai sensi del quarto comma dell'art. 80 della legge. 2. Nell'elenco sono iscritti professionisti che siano di condotta incensurata e di età non inferiore agli anni venticinque. Per ottenere l'iscrizione nell'elenco i professionisti, oltre ad essere in possesso del titolo professionale richiesto, devono risultare idonei a svolgere la loro attività nello specifico settore penitenziario. L'idoneità è accertata dal provveditorato regionale attraverso un colloquio e la valutazione dei titoli preferenziali presentati dall'aspirante. A tal fine, il provveditorato regionale può avvalersi del parere di consulenti docenti universitari nelle discipline previste dal quarto comma dell'art. 80 della legge. 3. Le direzioni degli istituti e dei centri di servizio sociale conferiscono agli esperti indicati nel comma 2 i singoli incarichi, su autorizzazione del provveditorato regionale". In questa cornice legislativa il Provveditore indica il monte ore da attribuire all'esperto, purché questi non operi già nell'istituto ad altro titolo; la collaborazione è formalizzata con la sottoscrizione di un "accordo individuale" con la Direzione dell'istituto penitenziario, dell'UEPE o delle strutture afferenti al Centro per la Giustizia Minorile. Per gli istituti penitenziari, l'accordo ha la durata di un anno con possibilità di rinnovo per un periodo di uguale durata per non più di tre volte, invece negli UEPE e nei Centri per la Giustizia Minorile la possibilità di rinnovo, alla scadenza del primo anno, è di un solo anno. 7. Dal chiaro tenore delle disposizioni richiamate emerge che gli esperti non rientrano tra il personale inserito stabilmente nei ruoli organici dell'amministrazione penitenziaria, trattandosi di liberi professionisti chiamati in convenzione dalle amministrazioni penitenziarie, in ragione della loro particolare qualificazione e specializzazione, come comprovata in sede di selezione finalizzata alla formazione di elenchi da cui in ogni tempo può attingere la singola struttura, secondo le proprie specifiche esigenze. Emerge, ancora, che gli elenchi circoscrivono la platea di specialisti di cui è stata attestata la capacità di offrire un fattivo affiancamento al personale stabile degli istituti di pena, e che possono occuparsi di quella parte di attività specialistica che, gradatamente, si orienta verso le diverse modalità del trattamento attraverso la conoscenza della personalità del detenuto, fino ad individuare le misure concrete finalizzate al successivo reinserimento, anche attraverso la sottoposizione del condannato a misure alternative alla pena detentiva; la semplice iscrizione agli elenchi, peraltro, è condizione necessaria ma non sufficiente per l'impiego degli esperti, che è invece una scelta riservata alle direzioni degli istituti di pena, in proporzione, evidentemente, alla effettiva necessità e/o budget economico disponibile. Nel rispetto della normativa, residua sempre in capo all'amministrazione penitenziaria un potere di definizione (a mezzo di proprie circolari) delle modalità di conferimento degli incarichi e di disciplina dello svolgimento dei medesimi. 8. La soluzione legislativa tiene, dunque, conto, da un lato, delle esigenze di rieducazione di cui si è detto e della necessità di potenziamento delle collaborazioni con specialisti al suddetto fine e, dall'altro, delle specificità del luogo all'interno del quale tale attività di collaborazione deve essere svolta e delle esigenze afferenti ad una rigida predisposizione di quanto occorrente per garantire che gli accessi agli istituti avvengano in piena sicurezza. 9. La situazione non è dissimile da quella del servizio per le guardie infermieristiche di cui all'art. 53 della legge 9 ottobre 1970, n. 740 (guardia infermieristica), egualmente previsto per le esigenze degli istituti di prevenzione e di pena. Proprio con riguardo alle guardie infermieristiche la Corte cost. con la sentenza n. 76/2015 ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 53 della legge 9 ottobre 1970, n. 740, impugnato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 36, primo comma, 38, secondo comma, Cost., in quanto non consente di qualificare il rapporto di lavoro dell'incaricato di guardia infermieristica negli istituti di prevenzione e pena come rapporto di lavoro subordinato e, comunque, prevede per dette prestazioni unicamente un compenso orario, con esclusione di ogni altro trattamento retributivo e previdenziale. Sono evidenti le analogie tra la disciplina di legge del rapporto di lavoro della guardia infermieristica negli istituti di prevenzione e pena, che espressamente denomina come "libero professionale" il rapporto di lavoro, e la disciplina degli psicologi esperti incaricati presso i medesimi istituti. Nel caso degli psicologi esperti, per quanto sopra evidenziato, fermo che è la struttura carceraria a presentare caratteristiche peculiari tali da giustificare la sussistenza di un vincolo di controllo da parte dell'Amministrazione, tuttavia tale vincolo, lungi dal rappresentare un indice rivelatore di un rapporto di lavoro subordinato, si giustifica in virtù della particolarità e della complessità del contesto carcerario. Come evidenziato dal Giudice delle Leggi nella citata sentenza n. 76/2015, i principali elementi che potrebbero in astratto rilevare quali indici di subordinazione, ovvero l'organizzazione del lavoro secondo il modulo dei turni, l'obbligo di attenersi alle direttive e alle prescrizioni impartite dal direttore del carcere e di comunicare le proprie assenze, la percezione di una retribuzione corrisposta secondo cadenze temporali prestabilite e lo svolgimento della prestazione nei locali e con gli strumenti messi a disposizione dall'Amministrazione penitenziaria (elementi che si riscontrano anche con riguardo alla figura dello psicologo esperto) non possono, nello specifico di una attività svolta all'interno di un carcere, qualificare il rapporto di lavoro in termini di lavoro subordinato. Sul punto, la Corte costituzionale è chiara là dove così si esprime: "se l'organizzazione in turni appare coessenziale alla prestazione di lavoro, l'obbligo di rispettare le prescrizioni del direttore del carcere e del personale medico non rispecchia l'assoggettamento dell'infermiere al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro" e "l'obbligo di uniformarsi alle prescrizioni di tenore generale del direttore del carcere, per un verso, non sminuisce l'autonomia e, per altro verso, si spiega con la peculiarità del contesto, in cui la prestazione si svolge, caratterizzato da imperative ragioni di sicurezza e di cautela, che finiscono con il permeare la disciplina del rapporto di lavoro degli infermieri incaricati e ne giustificano particolarità e limitazioni". D'altronde, "nella determinazione dei turni, nella vigilanza esercitata sull'operato degli infermieri, nell'obbligo di comunicare i giorni d'assenza, elementi che si potrebbero reputare emblematici della subordinazione, si estrinseca il necessario coordinamento con l'attività dell'amministrazione e con la complessa realtà del carcere, piuttosto che l'autonomia decisionale e organizzativa del datore di lavoro e il potere direttivo e disciplinare caratteristico della subordinazione. Il direttore del carcere, invero, non è chiamato a ingerirsi in aspetti di dettaglio della prestazione svolta dagli infermieri, né tanto meno a esercitare un controllo sull'adempimento della prestazione professionale, caratterizzata da un bagaglio di conoscenze tecniche e d'esperienza". Il Giudice delle leggi ha, così, conclusivamente chiarito che la qualificazione del rapporto come non avente natura subordinata non si prefigge una finalità elusiva della disciplina inderogabile che attiene alla subordinazione, ma pone in evidenza le peculiarità di una prestazione d'opera sottoposta a vincoli di controllo dell'Amministrazione solo in ragione del luogo in cui la prestazione stessa si svolge, e non di un potere direttivo, connotato in senso tipico e speculare all'inserimento nell'organizzazione del lavoro all'interno degli istituti di pena. 9. La sentenza della Corte costituzionale n. 76/2015 si pone d'altronde in linea con alcuni precedenti del giudice delle leggi che avevano anch'essi affrontato la questione della natura (subordinata o autonoma) del lavoro del personale non di ruolo delle carceri. Così, ad esempio, Corte cost., sent. n. 577/1989, riguardante i medici non di ruolo delle carceri disciplinati anch'essi dalla legge n. 740/1970 ha considerato tali lavoratori "parasubordinati" e Corte cost., sent. n. 149/2010, che aveva riguardato la legittimità della stabilizzazione dei medici non di ruolo delle carceri da parte di una legge regionale, ha pur sempre ribadito la natura non subordinata del loro rapporto di lavoro. 10. Anche questa Corte ha affermato (v. Cass., Sez. Un., 19 marzo 1990, n. 2286; Cass., Sez. Un., 17 dicembre 1998, n. 12618; Cass. Sez. Un., 20 maggio 2003, n. 7901), che le prestazioni dei medici di guardia presso gli istituti di prevenzione e pena, che vengano svolte con le modalità e secondo le prescrizioni dell'art. 51 della L. 9 ottobre 1970 n. 740, integrano non un rapporto di pubblico impiego, ma un rapporto di opera professionale, come tale devoluto alla giurisdizione del giudice ordinario (ed alla competenza del giudice del lavoro, per la presenza dei caratteri di cui all'art. 409 n. 3 c.p.c.), considerando che in dette prestazioni difetta il requisito della subordinazione, cioè lo stabile inserimento del lavoratore nell'organizzazione del datore di lavoro, con assoggettamento ai suoi poteri gerarchici e disciplinari. Il principio è stato più di recente ribadito (Cass. 24 aprile 2017, n. 10189) affermandosi che il rapporto di lavoro dei medici incaricati presso gli istituti di prevenzione e di pena per le esigenze del servizio di guardia medica, ai sensi dell'art. 51 della legge n. 740 del 1970, è di tipo autonomo, come risulta dall'interpretazione letterale e sistematica della disciplina richiamata, atteso che le modalità concrete del relativo svolgimento - in particolare, l'organizzazione del lavoro secondo il modulo dei turni, l'obbligo di attenersi alle direttive impartite dal direttore del carcere e dal dirigente sanitario - non integrano indici della subordinazione, ma sono espressione del necessario coordinamento, che caratterizza il rapporto, con l'attività dell'Amministrazione e con la complessa realtà del carcere. 11. Ed allora del tutto corretta è la decisione della Corte territoriale là dove ha ritenuto, esaminando gli specifici motivi di impugnazione, che non fossero riscontrabili o comunque valorizzabili i tradizionali incidi di subordinazione escludendo l'obbligo di assoggettamento ad un orario fisso e predeterminato e valorizzando la necessità che fossero concordate, di volta in volta, i giorni e le ore della presenza della La.St. presso l'Istituto carcerario, escludendo l'impiego di mezzi particolari ed una organizzazione, sia pur minima, desumendo la sussistenza di un rischio economico dalla prevista possibilità di revoca dell'incarico, svalutando ogni valenza indiziaria del compenso commisurato alle ore di presenza nel carcere espressamente prevista dall'art. 80 della legge n. 354/1975. 12. Conclusivamente il Collegio, superando il proprio precedente costituito da Cass. n. 12850/2023 (posto dall'ordinanza interlocutoria n. 30236/2023 a fondamento della decisione di rimettere la questione alla pubblica udienza), ritiene che non possa utilmente richiamarsi a sostegno della dedotta subordinazione il fatto di dover rendere le prestazioni in giorni ed orari stabiliti dalla Direzione del carcere con l'assegnazione di servizi e reparti di competenza ovvero che esistano meccanismi di verifica delle presenze e la necessità di segnalare e giustificare assenze per malattia o motivi di famiglia o per ferie (da autorizzarsi da parte della Direzione), trattandosi di semplici modalità operative rese indispensabili sia dalla necessità di accertare lo svolgimento della prestazione, comunque connesso al compenso determinato in base alle ore di servizio effettivamente prestate, e sia dall'esigenza (del tutto compatibile con la natura non subordinata del rapporto) di coordinare l'attività professionale in discorso con il più complesso sistema nel quale la stessa si innesta. È del tutto comprensibile, infatti, che chiunque operi in un ambiente di detenzione debba conformare la propria prestazione alle indicazioni (non tecniche) del direttore della struttura, in ragione delle evidenti necessità di sicurezza e cautela. È sempre tale complesso sistema che giustifica l'adozione di disposizioni o direttive da parte dell'Amministrazione, non implicanti esercizio di potere datoriale in senso stretto ed anche le convocazioni degli esperti nei casi urgenti ed in orario extra rispetto a quello concordato. I suddetti indici non bastano dunque a modificare la veste giuridica del prestatore d'opera professionale, il quale resta tale proprio perché rispondente ad una figura espressamente prevista dalla speciale normativa di cui all'art. 80, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354. 13. Il ricorso principale va, pertanto rigettato dovendosi affermare il seguente principio di diritto: "il rapporto di lavoro degli psicologi carcerari ex art. 80, comma 4, della L. n. 354/1975, incaricati presso gli istituti di prevenzione e di pena, sia in ragione della disciplina normativa, sia dell'assetto negoziale, è un rapporto di lavoro autonomo, atteso che, da un lato, la disciplina pone in evidenza che il legislatore ha scelto d'instaurare rapporti di lavoro autonomo; dall'altro, che le modalità concrete del rapporto - in particolare l'organizzazione del lavoro secondo il modulo dei turni, l'obbligo di attenersi alle direttive impartite dal direttore del carcere, la necessità di segnalare e giustificare assenze - non integrano indici della subordinazione, ma sono espressione del necessario coordinamento, che caratterizza il rapporto, con l'attività dell'Amministrazione e con la complessa realtà del carcere. Tale rapporto di lavoro va, quindi, distinto da quello di natura subordinata degli psicologi dipendenti di ruolo, che esercitano funzioni sanitarie nell'ambito del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia". 14. L'esito del ricorso principale determina l'assorbimento del ricorso incidentale condizionato. 15. L'esistenza di precedenti di legittimità di segno contrario giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio. 16. Occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., Sez. Un, 20 febbraio 2020, n. 4315, della sussistenza, quanto alla ricorrente principale, delle condizioni processuali richieste dall'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito l'incidentale condizionato; compensa le spese. Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE DI APPELLO DI ROMA V SEZIONE LAVORO La Corte d'Appello di Roma, in funzione di giudice del lavoro, composta dai Magistrati: Dott.ssa Giovanna Ciardi - Presidente Dott.ssa Alessandra Trementozzi - Consigliere Dott.ssa Sabrina Mostarda - Consigliere rel. all'udienza del 10/05/2024 ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di II Grado iscritta al n. r.g. 2385/2023 vertente tra: COMUNE DI APRILIA con l'avv. (...) Appellante E MA.MA. Con l'avv. (...) Appellata Oggetto: appello avverso la sentenza del Tribunale di Latina n.381/2023 del 23/03/2023 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Ma.Ma., Comandante capo della Polizia Municipale del Comune di Aprilia, ha chiesto la corresponsione indennità sostitutiva delle ferie non godute negli anni 2015, 2016, 2017 per euro 16.857,10, allegando di aver lavorato fino al 30 novembre 2017 e di non aver potuto fruire delle ferie maturate per ragioni di servizio, poiché il Comune non aveva disposto alcuna sostituzione e poiché egli era stato assente per malattia. Il Comune di Aprilia chiedeva il rigetto della domanda affermando che le ferie non potevano essere monetizzate e che l'unica eccezione si poteva prospettare quando il mancato godimento derivava da causa imputabile al datore di lavoro. Questa circostanza non ricorreva nel caso in oggetto perché il Ma., quale dirigente apicale, rispondeva esclusivamente al Sindaco, organizzava da solo gli orari e il proprio tempo di lavoro in modo flessibile. Non era vero che le sue ferie dovevano essere preventivamente autorizzate perché era dirigente apicale che doveva solo comunicare il piano ferie, compatibilmente con le esigenze di servizio. Egli non aveva inviato alcuna richiesta di usufruire delle ferie non godute, precludendo volontariamente la loro fruizione. La documentazione prodotta relativa alla malattia era inconferente e non aveva valore probatorio. Il giudice ha accolto la domanda. Ha affermato che non era applicabile l'art.5 dl.n.95/2012 convertito con modificazioni nella l.n.135/12 sul divieto di monetizzazione delle ferie dei pubblici impiegati perché tale norma era entrata in vigore il 7 luglio 2012 e aveva espressamente escluso, dall' ambito di applicazione, le fattispecie già maturate al momento della loro entrata in vigore (comma 8 art.5 cit.). Ha affermato che la giurisprudenza della Cassazione del 2022 (sent.n.18740/22) aveva superato il precedente orientamento ed aveva affermato che il dirigente ha diritto all'indennità sostitutiva a meno che il datore di lavoro dimostri di averlo messo nelle condizioni di esercitare il diritto prima della cessazione del rapporto di lavoro, mediante un adeguata informazione nonché, se del caso, invitandolo formalmente a farlo. Occorreva muovere dalla verifica degli adempimenti datoriali perché le ferie fossero godute, l'onere probatorio gravando, specie nei casi incerti, sul datore di lavoro. La qualifica di dirigente apicale non mutava il riparto dell'onere probatorio, così come invece affermato dal Comune. Nello specifico, il Comune di Aprilia non aveva fornito alcuna prova in ordine alla impossibilità per il ricorrente di godere delle ferie per eccezionali esigenze di servizio, né in relazione alla necessaria vigilanza in ordine alla effettiva fruizione delle ferie. A fronte della produzione documentale del ricorrente sulle ferie non godute per gli anni 2015, 2016, 2017, nessuna specifica contestazione era stata mossa dal datore di lavoro che, lungi dal produrre documentazione certamente in suo possesso sullo stato delle ferie del ricorrente, si era limitato a contestare la provenienza della documentazione. Proprio appello il Comune di Aprilia. Resiste Ma.Ma. chiedendo il rigetto dell'appello La causa è stata decisa alla odierna udienza con lettura di separato dispositivo. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo d'appello il Comune appellante lamenta la violazione dell'art.5 d.l.95 del 2012 erroneamente ritenuto dal tribunale non applicabile al caso in oggetto. Con un secondo motivo di appello sostiene la violazione dell'art.115 cpc e l'errata valutazione dei fatti. Afferma che il giudice aveva omesso di motivare sulla particolare posizione del Ma. e che il principio affermato in sentenza si riferisce ai soli casi nei quali il lavoratore non ricopre una posizione di svantaggio rispetto al datore di lavoro, il quale ben potrebbe ostacolare la fruizione delle ferie impedendo al lavoratore di poterne fruire o non informandolo dei giorni a disposizione rimasti. Per l'appellante questo principio non può essere applicato al caso in oggetto perché il Ma., quale Comandante della Polizia locale, predisponeva i piani ferie per sé e per gli altri dipendenti in piena autonomia e senza ingerenze alcuna, non aveva avanzato alcuna richiesta di ferie, né ricevuto rifiuti del Comune di usufruirne. Afferma che se così non fosse, tutti i dirigenti che svolgono le mansioni apicali organizzative ben potrebbero arbitrariamente decidere di non usufruire delle ferie maturate sapendo di poter beneficiare della indennità sostitutiva, eludendo in tal modo la previsione normativa di cui all'art. 5 co. 8 L. 92/2012. Il mancato godimento delle ferie era stata una libera scelta del Ma. il quale, stante il ruolo ricoperto, era ben consapevole dei giorni di ferie maturati e non goduti negli anni precedenti. 2.-L'appello è complessivamente fondato. Diversamente da quanto affermato dal giudice, trova applicazione ratione temporis l'art. 5, comma 8, del d.l. n. 95/2012, conv. dalla legge n. 135/2012 in quanto il fatto costitutivo del diritto vantato (mancato godimento delle ferie maturate negli anni dal 2015 al 2017) si è realizzato nel vigore di questa normativa. 1.1-Come noto, questa norma originariamente prevedeva a carico degli impiegati pubblici il generale divieto di monetizzazione delle ferie e delle festività soppresse non godute, in tutte le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro (anche per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età). 1.2.-La norma è stata sospettata di illegittimità costituzionale e la Corte Costituzionale con sentenza n.95/16 ha ritenuto la questione non fondata nella parte in cui il divieto di monetizzazione è correlato a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile ad una scelta o ad un comportamento del lavoratore quali dimissioni o risoluzione, o ad eventi quali la mobilità, il pensionamento, il raggiungimento dei limiti di età, che consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo. In base a questa sentenza, pertanto, il divieto di monetizzazione vige in relazione alla presenza di specifiche fattispecie di cessazione del rapporto di lavoro. 1.3.-Successivamente alla sentenza della Corte Costituzionale la questione è stata sottoposta anche al vaglio della Corte di Giustizia Europea in quanto la norma così come interpretata dalla Corte Costituzionale (in relazione al divieto di monetizzazione in presenza di specifiche ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro) è stata ritenuta in violazione dell'art.7 paragrafo 2 Direttiva 2003/88/CE. Con sentenza del 18 gennaio 2024 nella causa C-218/22 la Corte di Giustizia ha affermato che: -il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell'Unione europea, al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88; -spetta agli Stati membri definire, nella loro normativa interna, le condizioni di esercizio e di attuazione del diritto alle ferie annuali retribuite, precisando le circostanze concrete in cui i lavoratori possono avvalersene, tuttavia, questi ultimi devono astenersi dal subordinare a qualsivoglia condizione la costituzione stessa di tale diritto, il quale scaturisce direttamente dalla suddetta direttiva; -conformemente all'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, un lavoratore, che non sia stato in condizione di usufruire di tutte le ferie annuali retribuite prima della cessazione del suo rapporto di lavoro, ha diritto a un'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute; -la circostanza che un lavoratore ponga fine, di sua iniziativa, al proprio rapporto di lavoro, non ha nessuna incidenza sul suo diritto a percepire, se del caso, un'indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite di cui non ha potuto usufruire prima della cessazione del rapporto di lavoro. Disposizione o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute al lavoratore che non sia stato in condizione di fruire di tutte le ferie annuali cui aveva diritto prima della cessazione di tale rapporto di lavoro, in particolare perché era in congedo per malattia per l'intera durata o per una parte del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto, sono contrarie alla Direttiva; -l'articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale recante modalità di esercizio del diritto alle ferie annuali retribuite espressamente accordato da tale direttiva, che comprenda finanche la perdita del diritto in questione allo scadere del periodo di riferimento o di un periodo di riporto, purché, tuttavia, il lavoratore che ha perso il diritto alle ferie annuali retribuite abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare questo diritto che tale direttiva gli conferisce; -il motivo della cessazione del rapporto di lavoro non è rilevante ai fini del diritto all'indennità finanziaria previsto dall'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88; -la legge nazionale italiana, come interpretata dalla Corte costituzionale (che prevede il divieto di versare al lavoratore un'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute alla data della cessazione del rapporto di lavoro per il motivo che quest'ultimo ha posto fine volontariamente al rapporto di lavoro che lo vincola al suo datore di lavoro), introduce una condizione ulteriore a quelle espressamente previste all'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88; -gli obiettivi perseguiti dal legislatore nazionale, quali risultano dalla rubrica dell'articolo 5 del decreto-legge n. 95 e come interpretati dalla Corte costituzionale, sono, da un lato, il contenimento della spesa pubblica e, dall'altro, le esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, ivi compresa la razionale programmazione del periodo di ferie e l'incentivazione all'adozione di comportamenti virtuosi delle parti del rapporto di lavoro; -per quanto riguarda l'obiettivo inteso al contenimento della spesa pubblica, è sufficiente ricordare che dal considerando 4 della direttiva 2003/88 risulta che la protezione efficace della sicurezza e della salute dei lavoratori non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico; -per quanto riguarda l'obiettivo connesso alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, occorre rilevare che esso concerne, in particolare, la razionale programmazione del periodo di ferie e l'incentivazione dell'adozione di comportamenti virtuosi delle parti del rapporto di lavoro, di modo che esso può essere inteso come finalizzato a incentivare i lavoratori a fruire delle loro ferie e come rispondente alla finalità della direttiva 2003/88; -se il lavoratore, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si è astenuto dal fruire delle ferie annuali retribuite dopo essere stato posto in condizione di esercitare in modo effettivo il suo diritto alle stesse, l'articolo 31, paragrafo 2, della Carta non osta alla perdita di tale diritto né, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla correlata mancanza di un'indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute, senza che il datore di lavoro sia tenuto a imporre a detto lavoratore di esercitare effettivamente il suddetto diritto; -a tale proposito, il datore di lavoro è segnatamente tenuto, in considerazione del carattere imperativo del diritto alle ferie annuali retribuite e al fine di assicurare l'effetto utile dell'articolo 7 della direttiva 2003/88, ad assicurarsi concretamente e in piena trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario formalmente, a farlo, e nel contempo informandolo, in modo accurato e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all'interessato il riposo e la distensione cui esse sono volte a contribuire, del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato, o non potranno più essere sostituite da un'indennità finanziaria. L'onere della prova incombe al datore di lavoro; -ne consegue che, qualora il datore di lavoro non sia in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto, circostanza la cui verifica spetta al giudice del rinvio, si deve ritenere che l'estinzione del diritto a tali ferie alla fine del periodo di riferimento o del periodo di riporto autorizzato e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, il correlato mancato versamento di un'indennità finanziaria per le ferie annuali non godute violino, rispettivamente, l'articolo 7, paragrafo 1, e l'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 nonché l'articolo 31, paragrafo 2, della Carta. Secondo la sentenza della Corte di Giustizia i motivi della cessazione del rapporto di lavoro sono irrilevanti (diversamente da quanto affermato dalla Corte costituzionale, che aveva ancorato la legittimità dell'art.5 cit. ai motivi di cessazione del rapporto) e bisogna nel concreto verificare se il lavoratore sia stato posto in grado di fruire delle ferie, gravando l'onere probatorio sul datore di lavoro. Il divieto di monetizzazione permane, infatti, quando a causa dell'organizzazione datoriale il lavoratore abbia dovuto lavorare, non sia stato posto in grado di usufruire delle ferie, non sia stato informato in tempo utile del fatto che avrebbe potuto usufruire delle ferie e che in difetto queste andranno perse senza indennità sostitutiva. 1.4.-E' però evidente che l'imposizione di oneri organizzativi e informativi non costituisce un mero simulacro, avendo la Corte di Giustizia affermato che nei termini esposti il divieto di monetizzazione di cui all'art.5 cit. può comunque essere conforme al diritto euro-unitario: è pertanto necessario che il lavoratore non sia in grado di decidere da solo sull'organizzazione del proprio lavoro e delle proprie ferie e che non sia in grado di conoscere le proprie ferie residue (in prossimità della cessazione del rapporto di lavoro) nonché di sapere che l'omessa fruizione delle stesse comporta la perdita anche della conseguente indennità. 1.5.-Ritiene il Collegio che assume una particolare posizione il lavoratore che non si trovi nelle condizioni sopra esposte in quanto organizza le ferie proprie in autonomia (ed eventualmente anche quelle dei soggetti a lui sotto-ordinati) ed è in possesso delle capacità organizzative relative al godimento delle ferie e del bagaglio conoscitivo che in via ordinaria il datore di lavoro pubblico, secondo la sentenza della Corte di Giustizia, deve trasmettere al lavoratore in procinto di cessare il rapporto di lavoro. In tale fattispecie infatti, non si è in presenza di quella particolare posizione di tutela del lavoratore che giustifica l'imposizione di oneri informativi ed organizzativi a carico del datore di lavoro pubblico e che comporta la deroga alla ratio dell'art.5 cit. (contenimento della spesa pubblica; esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico). Di conseguenza, nel caso di dirigente apicale che organizza le ferie proprie e altrui e che non presenta richiesta di ferie ad alcun altro soggetto, l'onere probatorio deve tener conto del fatto che secondo regola di comune esperienza non è ipotizzabile che un dirigente apicale che organizza e autorizza le ferie proprie e altrui non sia a conoscenza del contenuto dell'obbligo informativo indicato dalla Corte di Giustizia. 1.6.-Nello specifico, il Comune ha dedotto, non contestato dal Ma., che egli organizza il proprio piano ferie e quello dei dipendenti a lui sotto-ordinati in piena autonomia. Il Comune ha affermato che il Ma. dipendeva direttamente dal Sindaco e non aveva alcun altro sopra-ordinato dal quale dipendeva dal punto di vista organizzativo. Afferma che il Ma. era il titolare del potere organizzativo del suo settore di polizia municipale: di conseguenza non vi era altro soggetto che avrebbe dovuto adempiere agli obblighi organizzativi e informativi previsti dalla Corte di Giustizia, e cioè di consentirgli di godere delle ferie e di avvisarlo del rischio di non poterne usufruire, posto che, come evidenziato, era egli stesso che organizzava il settore e che predisponeva il piano ferie. 1.7.-Inoltre, si deve rilevare che, oltre a non essere noto il motivo della cessazione del rapporto di lavoro (comunque irrilevante ai fini della sentenza della Corte di Giustizia) il Comune ha dedotto, anche in tal caso affatto contestato, che non risulta alcuna richiesta di ferie da parte del Ma. per gli anni in oggetto. 1.8.-Deve poi evidenziarsi che il Ma. si è limitato ad affermare solo genericamente di non aver potuto usufruire delle ferie per ragioni di servizio senza motivare questa affermazione in modo specifico alla luce del fatto che era egli stesso che organizzava il lavoro della polizia locale e che fino al 2015 e nel corso di tutto il rapporto di lavoro aveva regolarmente goduto delle ferie. 1.9.-Da ultimo, la documentazione relativa alla malattia prodotta in primo grado è del tutto inidonea a provare l'impossibilità di fruire delle ferie, trattandosi di un certificato di Pronto Soccorso relativo ad un solo giorno di accesso e di un elenco di patologie con relativa decorrenza scritto a mani e, quindi, di provenienza sconosciuta (non provenendo da strutture mediche o comunque da certificazione medica inviata al datore di lavoro per i giorni di malattia). 2.-Alla luce di quanto sopra esposto, e considerando la specialità della fattispecie in oggetto, si ricorda che già la Cassazione aveva affermato, quanto ai dirigenti apicali, un principio che può trovare ancora applicazione sulla base e nei limiti della sentenza della Corte di Giustizia sopra indicata: "Il dirigente apicale, posto al vertice dell'organizzazione del personale dipendente, può decidere in totale autonomia riguardo al proprio periodo di ferie annuali, senza l'obbligo di dover avvisare il datore di lavoro o tantomeno di dover presentare giustificazioni a riguardo" (Cass., n.31509/23); "Nell'ambito del lavoro pubblico privatizzato, il dirigente che, pur munito del potere di auto organizzarsi le ferie, non sia collocato all'apice dell'ente pubblico e sia, quindi, sottoposto a poteri autorizzatori o comunque gerarchici degli organi di vertice dello stesso, non perde il diritto alle ferie, ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro, ove il mancato godimento dipenda dall'inadempimento degli obblighi organizzativi del datore di lavoro, sul quale, pertanto, grava l'onere di provare di avere esercitato la sua capacità organizzativa in modo da assicurare che le ferie fossero effettivamente godute (Ord.n.29844/22). 3.-La complessità della questione di diritto, che ha visto l'intervento della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia in corso di causa, costituisce giusto motivo per compensare le spese processuali del doppio grado. PQM -in accoglimento dell'appello e in riforma della sentenza appellata, rigetta l'originario ricorso proposto da Ma.Ma.; -compensa le spese processuali del doppio grado. Roma, 10 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. CAVALLARO Luigi - Consigliere-Rel. Dott. BUFFA Francesco - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 3577-2019 proposto da: Ed.Fi., elettivamente domiciliato in Roma, Via (...), presso lo studio dell'avvocato Ma.Ro., rappresentato e difeso dall'avvocato Gn.Al.; - ricorrente - contro I.N.P.S. - Istituto Nazionale Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via (...), presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati Sg.An., Ma.Le., Da.Ca., Ma.Gi., De.Ro., Sc.Es.; - controricorrente - nonché contro Ma.Ir. nella qualità di erede di Ca.Gi.; - intimata - avverso la sentenza n. 765/2018 della Corte D'appello Bologna, depositata il 24 luglio 2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17 gennaio 2024 dal Consigliere Dott. Cavallaro Luigi; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Visonà Stefano, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'Avvocato Gn.Al. FATTI DI CAUSA Con sentenza depositata il 24 luglio 2018, la Corte d'appello di Bologna ha rigettato l'appello e comunque la domanda proposta da Ed.Fi. volta alla costituzione della rendita vitalizia intesa a rimediare all'omissione contributiva di sedici settimane verificatasi in suo danno in relazione ai periodi 10 luglio-19 settembre 1970 e 1° agosto 1972-11 maggio 1974, durante i quali aveva prestato attività lavorativa alle dipendenze di Ca.Gi. senza che il datore di lavoro versasse integralmente i contributi dovuti. La Corte, dato atto che il primo giudice aveva dichiarato inammissibile la domanda di costituzione della rendita vitalizia per non essere stata previamente proposta nei confronti del datore di lavoro, ha ritenuto che, anche a voler ritenere sufficiente a tal fine l'integrazione del contraddittorio disposta già in prime cure nei confronti dell'erede di Ca.Gi., il principio della ragione più liquida imponeva di ritenere la domanda infondata, atteso che dalle prove documentali acquisite agli atti si evinceva solamente la data di inizio e di conclusione dei due precorsi rapporti di lavoro, ma non anche la prova del facere lavorativo nelle sedici settimane in questione, essendo all'uopo generica la prova orale assunta in primo grado. Avverso tale pronuncia Ed.Fi. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo cinque motivi di censura. L'INPS ha resistito con controricorso. L'avente causa di Ca.Gi. non ha svolto in questa sede attività difensiva. RAGIONI DELLA DECISIONE Con il primo e il quarto motivo, il ricorrente denuncia nullità della sentenza per non avere la Corte di merito pronunciato sul primo motivo di appello, concernente l'erronea statuizione di prime cure circa l'inammissibilità della domanda volta alla costituzione della rendita, nonché violazione dell'art. 13, L. n. 1338/1962, per avere la Corte medesima ritenuto che l'integrazione del contraddittorio già disposta in primo grado non fosse sufficiente a radicare i presupposti per la decisione sul merito, e in ogni caso difetto di motivazione in punto di ammissibilità della domanda e contrasto tra motivazione e dispositivo per essere stato respinto l'appello a fronte di una motivazione imperniata sul merito della domanda proposta in giudizio. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 13, L. n. 1338/1962, per avere la Corte territoriale ritenuto insufficiente la prova orale senza considerare che quella documentale aveva già pienamente conseguito lo scopo di dimostrare inizio e durata del rapporto di lavoro. Con il terzo motivo, il ricorrente si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 2110 c.c. e 13, L. n. 1338/1962, per avere la Corte di merito ritenuto necessaria la prova dell'effettività della prestazione lavorativa nei periodi oggetto di omissione contributiva, senza considerare che il rapporto di lavoro è soggetto per sua natura a periodi in cui l'assenza della prestazione (per ferie, malattia, riposi, cassa integrazione) non rileva quale causa di interruzione del rapporto medesimo. Con il quinto motivo, infine, il ricorrente deduce omesso esame circa un fatto decisivo per non avere la Corte territoriale esaminato la dichiarazione del Centro per l'impiego del 25 giugno 2012 da cui risultava l'esistenza e la durata del rapporto di lavoro presso l'impresa Ca.Gi. dal 10 luglio 1970 al 19 settembre 1970 nonché dal 1° agosto 1972 all'11 maggio 1974. Ciò posto, il primo e il quarto motivo sono inammissibili. Come già evidenziato nello storico di lite, i giudici territoriali, richiamando il principio della ragione più liquida, hanno ragionato come se l'integrazione del contraddittorio disposta in primo grado fosse sufficiente a reputare ammissibile la domanda e, esaminatala nel merito, l'hanno reputata infondata; ed è evidente che, in quest'ottica, il ricorrente non ha alcun interesse a dolersi del difetto di pronuncia e di motivazione circa il primo motivo di appello, con cui egli aveva censurato la statuizione d'inammissibilità resa in primo grado: tale censura aveva infatti unicamente lo scopo di ottenere quella pronuncia di merito che, in concreto, la Corte d'appello ha comunque reso, per modo che la stessa locuzione "respinge l'appello", che pure figura nel dispositivo della sentenza accanto all'altra "o comunque la domanda", non può che alludere alla conferma, con diversa motivazione, della reiezione della domanda già disposta da parte del giudice di prime cure. Sono invece fondati il secondo e il terzo motivo, che possono esaminarsi congiuntamente in relazione all'intima connessione delle censure. Com'è noto, l'art. 13, L. n. 1338/1962, prevede al quinto comma che il lavoratore, che intenda sostituirsi al datore di lavoro ai fini della costituzione in suo favore della rendita vitalizia, deve fornire "all'Istituto nazionale della previdenza sociale le prove del rapporto di lavoro e della retribuzione indicate nel comma precedente", ossia "documenti di data certa, dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro, nonché la misura della retribuzione". È del pari noto che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 568 del 1989, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma in esame "nella parte in cui, salva la necessità della prova scritta sulla esistenza del rapporto di lavoro da fornirsi dal lavoratore, non consente di provare altrimenti la durata del rapporto stesso e l'ammontare della retribuzione". Ma dalla declaratoria d'illegittimità costituzionale, che i giudici di merito hanno peraltro richiamato, non può certo farsi discendere l'assoluta irrilevanza, ai fini della prova del rapporto, dei "documenti di data certa, dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro": al contrario, dal tenore della motivazione e dello stesso dispositivo della sentenza appena richiamata si evince piuttosto che la rilevanza delle prove orali, che il giudice delle leggi ha riconosciuto come costituzionalmente necessitata al fine di rimediare ai vulnera che, diversamente, avrebbe patito il lavoratore, rimane circoscritta all'eventualità di conferire data certa al documento oppure per provare una diversa durata del rapporto o la misura della retribuzione. Il che val quanto dire che la prova scritta resta, in subiecta materia, la prova decisiva e che, salvo il caso che se ne accerti la fittizietà, la produzione di "documenti di data certa, dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro, nonché la misura della retribuzione" è sufficiente a guadagnare al lavoratore - previo versamento della riserva matematica e salvo il risarcimento del danno da parte del datore di lavoro - il diritto alla costituzione della rendita vitalizia. Tanto premesso, balza evidente l'errore in cui sono incorsi i giudici territoriali: una volta constatato che "dalle prove documentali si evince (...) l'inizio e la fine dei due rapporti di lavoro sub iudice" (così la sentenza impugnata, pag. 4) affatto irrilevanti, ai fini del decidere, dovevano ritenersi prove orali, che non avevano ad oggetto né l'attribuzione di data certa ai documenti né la dimostrazione di una diversa durata del rapporto o della misura della retribuzione: e ciò perché l'effettivo svolgimento dell'attività lavorativa costituisce per il lavoratore oggetto di un'obbligazione di facere i cui tempi e le cui modalità debbono essere decisi dal datore di lavoro, il quale, ex art. 12, L. n. 153/1969, resta obbligato a corrispondere la contribuzione dovuta perfino in assenza di alcuna prestazione effettiva, solo importando che il rapporto di lavoro sia giuridicamente in essere (cfr. in tal senso Cass. S.U. n. 15143 del 2007 e succ. conf.). Pertanto, dichiarati inammissibili il primo ed il quarto motivo e assorbito il quinto, la sentenza impugnata va cassata in relazione alle censure accolte e la causa va rinviata alla Corte d'appello di Bologna, in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto: "In tema di azione volta alla costituzione della rendita vitalizia, la previsione dell'art. 13, commi quarto e quinto, L. n. 1338/1962, secondo cui il datore di lavoro o il lavoratore che gli si sostituisca debbono fornire all'INPS documenti di data certa dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro nonché la misura della retribuzione, va interpretata nel senso che, salvo il caso che si accerti la fittizietà dei documenti, la prova scritta dell'esistenza e durata del rapporto esime da ogni prova circa il concreto svolgimento dell'attività lavorativa". Il giudice designato provvederà altresì sulle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso, assorbito il quinto e dichiarati inammissibili il primo e il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d'appello di Bologna, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 17 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 10 maggio 2024.
AULA 'A' 2024 1016 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ADRIANA DORONZO - Presidente - Dott. MARGHERITA MARIA LEONE - Consigliere - Dott. FRANCESCOPAOLO PANARIELLO - Consigliere - Dott. FABRIZIO AMENDOLA - Rel. Consigliere - Dott. FRANCESCO GIUSEPPE LUIGI CASO - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 27785-2022 proposto da: BRAMANTE ROBERTO, domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato ANTONIO GIORDANO; - ricorrente - contro TRENITALIA S.P.A. - Società con socio unico, soggetta all'attività di direzione e coordinamento di Ferrovie dello Stato Italiane S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato PAOLO TOSI; - controricorrente - avverso la sentenza n. 259/2022 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 06/07/2022 R.G.N. 60/2022; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2024 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA; Oggetto Lavoro privato R.G.N. 27785/2022 Cron. Rep. Ud. 05/03/2024 PU udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avvocato ANTONIO GIORDANO; udito l'Avvocato ANDREA UBERTI per delega verbale Avvocato PAOLO TOSI. FATTI DI CAUSA 1. La Corte di Appello di Torino, con la sentenza pubblicata il 6 luglio 2022, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto le domande proposte da Bramante Dario, dipendente di Trenitalia Spa con mansioni di capo treno, volte ad accertare il diritto a vedersi computare nel trattamento retributivo corrisposto per le ferie talune indennità contrattuali denominate: “indennità per assenza dalla residenza di lavoro” e “indennità di utilizzazione professionale”. 2. Per la cassazione di tale sentenza, in data 23.11.2022, ha proposto ricorso il soccombente con tre motivi; ha resistito con controricorso la società. Il Pubblico Ministero ha comunicato memoria con cui ha chiesto l’accoglimento del ricorso. Entrambe le parti hanno comunicato memorie ex art. 378 c.p.c. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il ricorso per cassazione deve essere dichiarato improcedibile. 1.1. Ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., unitamente al ricorso notificato, deve essere depositato nella cancelleria della Corte, “a pena di improcedibilità” rilevabile d’ufficio, “copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione”. Le Sezioni unite di questa Corte, nell’interpretare la disposizione, hanno (Cass. SS.UU. n. 21349 del 2022) sancito che: “La dichiarazione contenuta nel ricorso per cassazione di avvenuta notificazione della sentenza impugnata, attesta un ‘fatto processuale’ - la notificazione della sentenza - idoneo a far decorrere il termine ‘breve’ di impugnazione e, quale manifestazione di "autoresponsabilità" della parte, impegna quest'ultima a subire le conseguenze di quanto dichiarato, facendo sorgere in capo ad essa l'onere di depositare, nel termine stabilito dall'art. 369 c.p.c., copia della sentenza munita della relata di notifica (ovvero delle copie cartacee dei messaggi di spedizione e di ricezione, in caso di notificazione a mezzo PEC), senza che sia possibile recuperare alla relativa omissione mediante la successiva, e ormai tardiva, produzione ai sensi dell'art. 372 c.c.”. Nella motivazione si è avuto cura di precisare che non vale neanche “obiettare che tale dichiarazione sarebbe stata frutto di un mero errore materiale di parte ricorrente o che la notificazione sarebbe invalida o indirizzata a precedente difensore”. Tanto anche sulla scorta di quanto precedentemente stabilito dallo speciale collegio per le questioni esclusivamente processuali della Sesta Sezione di questa Corte che, con ordinanza n. 15832 del 2021, ha affermato: “La dichiarazione di avvenuta notificazione della sentenza impugnata contenuta nel ricorso per cassazione, quale atto processuale formale, indipendente dall'intenzione del dichiarante e produttivo degli effetti cui è destinato dalla legge nella serie procedimentale, non può essere successivamente corretta dal ricorrente con la memoria ex art. 380 bis o 378 c.p.c., atteso, per un verso, che l'ordinamento processuale non prevede un istituto che consenta la correzione degli atti processuali di parte (i quali sono normalmente ripetibili, salvo lo spirare dei termini stabiliti a pena di decadenza e il maturare delle preclusioni) e considerato, per altro verso, che la dichiarazione medesima, in quanto espressione dell'autoresponsabilità della parte, deve ritenersi inemendabile, rimettendosi altrimenti nella disponibilità della parte stessa l'applicabilità della sanzione dell'improcedibilità del ricorso”. 1.2. Non è in contestazione che la parte ricorrente, pur avendo esplicitamente dichiarato nel ricorso per cassazione che la sentenza impugnata è stata “notificata il 27/09/2022” - dichiarazione contenuta sia nell’intestazione che nelle conclusioni del ricorso - non ha provveduto ad effettuare nel termine il deposito prescritto dall’art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c. Pertanto, consumatasi l’improcedibilità per il mancato deposito, ogni eventuale questione in ordine alla pretesa invalidità della notificazione della sentenza, così come diffusamente argomentata da parte ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c., è oramai preclusa, atteso che, come stabilito dal precedente delle Sezioni unite citato, una volta effettuata quella dichiarazione che costituisce manifestazione di "autoresponsabilità" della parte, che la “impegna […] a subire le conseguenze di quanto dichiarato”, non vale neanche “obiettare che tale dichiarazione sarebbe stata frutto di un mero errore materiale di parte ricorrente o che la notificazione sarebbe invalida”. 2. Conclusivamente, in ossequio all’insegnamento delle Sezioni unite, il ricorso deve essere dichiarato improcedibile. Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo. Occorre, altresì, dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012, per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ove dovuto (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020). P.Q.M. La Corte dichiara improcedibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 2.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 5 marzo 2024. La Presidente Dott.ssa Adriana Doronzo Il Cons. relatore Dott. Fabrizio Amendola
AULA 'A' 2024 1015 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ADRIANA DORONZO - Presidente - Dott. MARGHERITA MARIA LEONE - Consigliere - Dott. FRANCESCOPAOLO PANARIELLO - Consigliere - Dott. FABRIZIO AMENDOLA - Rel. Consigliere - Dott. FRANCESCO GIUSEPPE LUIGI CASO - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 27770-2022 proposto da: CALLERIO DARIO, domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO GIORDANO; - ricorrente - contro TRENITALIA S.P.A. - Società con socio unico, soggetta all'attività di direzione e coordinamento di Ferrovie dello Stato Italiane S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLO TOSI; - controricorrente - avverso la sentenza n. 258/2022 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 30/06/2022 R.G.N. 700/2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2024 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA; Oggetto Lavoro privato R.G.N. 27770/2022 Cron. Rep. Ud. 05/03/2024 PU udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avvocato ANDREA UBERTI per delega verbale Avvocato PAOLO TOSI; udito l'Avvocato ANTONIO GIORDANO. FATTI DI CAUSA 1. La Corte di Appello di Torino, con la sentenza pubblicata il 30 giugno 2022, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto le domande proposte da Callerio Dario, dipendente di Trenitalia Spa con mansioni di macchinista, volte ad accertare il diritto a vedersi computare nel trattamento retributivo corrisposto per le ferie talune indennità contrattuali denominate: “indennità per assenza dalla residenza di lavoro” e “indennità di utilizzazione professionale”. 2. Per la cassazione di tale sentenza, in data 23.11.2022, ha proposto ricorso il soccombente con tre motivi; ha resistito con controricorso la società. Il Pubblico Ministero ha comunicato memoria con cui ha chiesto l’accoglimento del ricorso. Entrambe le parti hanno comunicato memorie ex art. 378 c.p.c. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il ricorso per cassazione deve essere dichiarato improcedibile. 1.1. Ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., unitamente al ricorso notificato, deve essere depositato nella cancelleria della Corte, “a pena di improcedibilità” rilevabile d’ufficio, “copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione”. Le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. n. 21349 del 2022), nell’interpretare la disposizione, hanno sancito che: “La dichiarazione contenuta nel ricorso per cassazione di avvenuta notificazione della sentenza impugnata, attesta un ‘fatto processuale’ - la notificazione della sentenza - idoneo a far decorrere il termine ‘breve’ di impugnazione e, quale manifestazione di "autoresponsabilità" della parte, impegna quest'ultima a subire le conseguenze di quanto dichiarato, facendo sorgere in capo ad essa l'onere di depositare, nel termine stabilito dall'art. 369 c.p.c., copia della sentenza munita della relata di notifica (ovvero delle copie cartacee dei messaggi di spedizione e di ricezione, in caso di notificazione a mezzo PEC), senza che sia possibile recuperare alla relativa omissione mediante la successiva, e ormai tardiva, produzione ai sensi dell'art. 372 c.c.”. Nella motivazione si è avuto cura di precisare che non vale neanche “obiettare che tale dichiarazione sarebbe stata frutto di un mero errore materiale di parte ricorrente o che la notificazione sarebbe invalida o indirizzata a precedente difensore”. Tanto anche sulla scorta di quanto precedentemente stabilito dallo speciale collegio per le questioni esclusivamente processuali della Sesta Sezione di questa Corte che, con ordinanza n. 15832 del 2021, ha affermato: “La dichiarazione di avvenuta notificazione della sentenza impugnata contenuta nel ricorso per cassazione, quale atto processuale formale, indipendente dall'intenzione del dichiarante e produttivo degli effetti cui è destinato dalla legge nella serie procedimentale, non può essere successivamente corretta dal ricorrente con la memoria ex art. 380 bis o 378 c.p.c., atteso, per un verso, che l'ordinamento processuale non prevede un istituto che consenta la correzione degli atti processuali di parte (i quali sono normalmente ripetibili, salvo lo spirare dei termini stabiliti a pena di decadenza e il maturare delle preclusioni) e considerato, per altro verso, che la dichiarazione medesima, in quanto espressione dell'autoresponsabilità della parte, deve ritenersi inemendabile, rimettendosi altrimenti nella disponibilità della parte stessa l'applicabilità della sanzione dell'improcedibilità del ricorso”. 1.2. Non è in contestazione che la parte ricorrente, pur avendo esplicitamente dichiarato nel ricorso per cassazione che la sentenza impugnata è stata “notificata il 27/09/2022” - dichiarazione contenuta sia nell’intestazione che nelle conclusioni del ricorso - non ha provveduto ad effettuare nel termine il deposito prescritto dall’art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c. Pertanto, consumatasi l’improcedibilità per il mancato deposito, ogni eventuale questione in ordine alla pretesa invalidità della notificazione della sentenza, così come diffusamente argomentata da parte ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c., è oramai preclusa, atteso che, come stabilito dal precedente delle Sezioni unite citato, una volta effettuata quella dichiarazione che costituisce manifestazione di "autoresponsabilità" della parte, che la “impegna […] a subire le conseguenze di quanto dichiarato”, non vale neanche “obiettare che tale dichiarazione sarebbe stata frutto di un mero errore materiale di parte ricorrente o che la notificazione sarebbe invalida”. 2. Conclusivamente, in ossequio all’insegnamento delle Sezioni unite, il ricorso deve essere dichiarato improcedibile. Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo. Occorre, altresì, dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012, per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ove dovuto (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020). P.Q.M. La Corte dichiara improcedibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 2.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 5 marzo 2024. La Presidente Dott.ssa Adriana Doronzo Il Cons. relatore Dott. Fabrizio Amendola
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO composta dagli ill.mi sigg.ri magistrati: LUCIA TRIAPresidente CATERINA MAROTTA Consigliere ANDREA ZULIANIConsigliere-Rel. ROBERTO BELLÈ Consigliere NICOLA DE MARINISConsigliere Oggetto: Pubblico impiego. Sanzioni disciplinari. Licenziamento. Ud. 7/2/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 21064/2022 R.G. proposto da: Daniela PUGLIESE,elettivamente domiciliata in Roma, corso Vittorio Emanuele II n. 269, presso lo studio dell’avv. prof. Romano Vaccarella, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Gianfranco Di Simone - ricorrente - contro MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore,Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana e Istituto Comprensivo di Figline Valdarno, tutti domiciliati in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende ex lege - controricorrente - avverso la Sentenza della Corte d’Appello di Firenze n. 777/2021, depositata il 2.3.2022; udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 7. 2.2024 dal Consigliere Andrea Zuliani; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Mario Fresa, che ha concluso per il rigetto del ricorso. FATTI DI CAUSA La ricorrente, insegnante di scuola primaria dipendente del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca presso l’Istituto Comprensivo di Figline Valdarno, venne licenziata con preavviso di quattro mesi all’esito di un procedimento disciplinare nel quale le era stata contestata l’assenza ingiustificata dal servizio per quattro giorni nell’arco di un quadrimestre e, quindi, «per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio», secondo quanto previsto dall’art. 55-quater, lett. b, del d.lgs. n. 165 del 2001. La lavoratrice impugnò il licenziamento davanti al Tribunale di Firenze, in funzione di giudice del lavoro, negando l’addebito con riferimento a tre giornate di assenza e, comunque, la proporzionalità della sanzione terminativa applicata rispetto alla gravità dell’illecito disciplinare contestato. Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale respinse la domanda della lavoratrice, la quale si rivolse quindi alla Corte d’Appello di Firenze, che respinse a sua volta l’impugnazione, confermando la sentenza di primo grado. Contro la sentenza della Corte d’Appello la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi. Il Ministero si è difeso con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa. Il Pubblico Ministero ha rassegnato conclusioni scritte per il rigetto del ricorso. Alla pubblica udienza sono intervenuti il rappresentante del Pubblico Ministero e i difensori delle parti. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo di ricorso denuncia «violazione e falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 55-quater, lett. b, del d.lgs. n. 165 del 2001». Con questo motivo la ricorrente nega l’esistenza stessa della fattispecie astratta dell’illecito disciplinare contestatole («assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio»), in quanto contesta che sussista l’assenza ingiustificata con riferimento a tre dei quattro giorni indicati nel provvedimento sanzionatorio. 1.1. Il motivo è fondato. 1.1.1. Poiché la sanzione del licenziamento è prevista dalla norma di legge che si assume violata nel caso di cumulo, nell’arco temporale previsto, di più di tre giorni di assenza ingiustificata, l’errata contestazione con riferimento anche ad uno solo dei quattro giorni menzionati nel provvedimento disciplinare è sufficiente per determinarne l’illegittimità. È dunque decisivo ed assorbente il palese errore insito nell’essere stata contestata, come giorno di assenza, anche una domenica, ovverosia un giorno in cui il servizio scolastico non viene prestato e la dipendente non avrebbe dovuto, né potuto, recarsi al lavoro. La Corte d’Appello ha rilevato che, dopo la produzione di un primo certificato medico che attestava la malattia fino al 27.10.2018, un secondo certificato medico attestante la continuazione della malattia venne richiesto dalla ricorrente solo in data 30.10.2018, rimanendo quindi scoperti due giorni: domenica 28 ottobre e lunedì 29 ottobre. Dalla giusta considerazione che, in caso di continuazione di malattia, il nuovo certificato medico deve essere chiesto dal lavoratore nel primo giorno successivo a quello di scadenza del primo certificato, anche se si tratta di un giorno festivo, la Corte territoriale ha tratto l’errata conseguenza che anche la domenica potesse essere contestata, sul piano disciplinare, come giorno di assenza ingiustificata dal servizio. Ma è di tutta evidenza che, ai fini della rilevanza disciplinare, l’assenza ingiustificata dal servizio presuppone necessariamente che il lavoratore abbia omesso di recarsi sul luogo di lavoro e prestare il servizio in un giorno in cui avrebbe dovuto farlo ed era atteso dal datore di lavoro per ricevere la sua prestazione lavorativa; non in un giorno in cui non avrebbe dovuto, e neanche potuto, recarsi al lavoro ed eseguire la sua prestazione. Il ritardo nel richiedere il rilascio del secondo certificato medico potrà eventualmente essere giudicato, di per sé, un inadempimento del lavoratore, ma non può certo essere una base su cui costruire artificiosamenteuna impossibile «assenza» del lavoratore dal servizio … che non c’è. 1.2. La palese erroneità della contestazione dell’assenza domenicale, facendo venire meno il presupposto dell’assenza dal servizio per più di tre giorni, anche non consecutivi, rende superfluo l’esame del motivo di ricorso nella parte in cui è volto a negare la sussistenza dell’assenza ingiustificata con riferimento anche ad altri due giorni di assenza (4.10.2018 e 14.1.2019), ove verrebbero in rilievo anche aspetti della valutazione in fatto, non sindacabile in sede di legittimità (contraddittorietà e intempestività della richiesta del permesso; possibilità di qualificare d’ufficio come richiesta di un giorno di ferie una inammissibile domanda di usufruire di un ulteriore giorno di permesso, dopo esaurito il numero massimo disponibile). 2. Il secondo motivo è rubricato «violazione applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 55-quater, lett. b, in relazione all’art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001 e in relazione all’art. 2106 c.c.». Con questo motivo la ricorrente – premesso che la sanzione disciplinare del licenziamento non può essere comminata in modo automatico in base alla semplice corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, ma richiede sempre un «giudizio di proporzionalità in concreto» (Corte cost. n. 123/2020) – sostiene che la Corte d’Appello non avrebbe di fatto svolto tale giudizio in concreto, essendosi limitata a riconsiderare, come profili di gravità, gli stessi elementi costitutivi dell’illecito. 2.1. Anche questo motivo è fondato e deve essere pertanto accolto, per le ragioni di seguito esposte. 2.1.1. È bene innanzitutto ricordare l’orientamento consolidato di questa Corte (richiamato di recente da Cass. n. 10236/2023) secondo cui le nozioni legali di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo richiedono, al pari di ogni altra clausola generale, di essere specificate in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. È stato evidenziato, in particolare, che il giudizio espresso sulla gravità dell’infrazione ai fini della sussunzione nelle ipotesi legali di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, in quanto fondato su norme di legge che si limitano ad indicare un parametro generale di contenuto elastico, presuppone un’attività di interpretazione giuridica delle norme stesse, attraverso la quale si dà concretezza alla parte mobile delle disposizioni per adeguarle ad un determinato contesto storico-sociale. Detto giudizio di valore svolge una funzione integrativa delle regole giuridiche e, quindi, è soggetto al controllo della Corte di Cassazione, perché le specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. Il discrimine tra giudizio di fatto e giudizio di diritto va, dunque, individuato tenendo conto della distinzione tra «ricostruzione storica (assoggettata ad un mero giudizio di fatto) e giudizi di valore, sicché ogniqualvolta un giudizio apparentemente di fatto si risolva, in realtà, in un giudizio di valore, si è in presenza d'una interpretazione di diritto, in quanto tale attratta nella sfera d'azione della Corte Suprema» (Cass. n. 6501/2013, richiamata, fra le tante, da Cass. nn. 4125/2017; 15640/2018; 11635/2021). Se ne è tratta la conseguenza che se, da un lato, spetta unicamente al giudice del merito accertare se i fatti addebitati al lavoratore rivestano il carattere di grave negazione degli elementi fondamentali del rapporto ed in specie di quello fiduciario e siano tali da meritare il recesso con o senza preavviso, dall’altro lato, esula dal vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., e ricade nella diversa ipotesi della falsa applicazione di norme di diritto, la censura con la quale si addebiti alla sentenza impugnata di avere escluso la gravità dell’inadempimento sulla base di un’errata interpretazione della disciplina di legge e di contratto e si assuma che la condotta, ricostruita nei termini indicati dal giudice del merito, è idonea a giustificare il recesso dal rapporto, perché riconducibile alle nozioni legali, come enunciate dalla Corte di legittimità. Lo stesso principio si applica per il caso in cui il giudice del merito sulla base di un’errata interpretazione della disciplina di legge e di contratto abbia affermato la sussistenza di una giusta causa di recesso mentre, al più, potrebbe essere applicabile una sanzione conservativa (arg. ex Cass. nn. 11665/2022; 20780/2022; 36427/2023). 2.1.2. Inoltre, è stato precisato che in tema di illeciti disciplinari del personale scolastico il giudice del merito è tenuto comunque a formulare un giudizio valoriale di gravità delle condotte addebitate al docente e di proporzionalità della sanzione espulsiva, operando un giudizio di sussunzione della condotta in fatto ricostruita nell’ambito dell’uno o degli altri illeciti disciplinari sia in caso di previsioni di fonte legale che correlano le sanzioni a condotte in parte assimilabili tra loro, salvo l’elemento della maggiore o minore gravità, sia in caso di previsione di condotte non conformi ai doveri specifici inerenti alla funzione, e che quindi denotino l’incompatibilità a svolgere i compiti del proprio ufficio nell’esplicazione del rapporto educativo (Cass. n. 30955/2022). 2.2. L’addebito mosso alla sentenza impugnata con il secondo motivo di ricorso è proprio quello di avere affermato la sussistenza di una giusta causa di licenziamento ricorrendo a parametri incongrui e di non avere effettuato il necessario giudizio di proporzionalità in concreto della sanzione rispetto all’illecito contestato. 2.2.1. Ebbene, formalmente la Corte territoriale non ha messo in discussione il principio per cui è da «escludere qualunque sorta di automatismo» e occorre invece apprezzare le circostanze particolari che rendono proporzionata, nel caso concreto, la sanzione disciplinare espulsiva (Cass. nn. 18858/2016; 9314/2018; 16393/2021; 5805/2023; 9120/2023). Ma poi, in sostanza, riproducendo stralci della motivazione della sentenza di primo grado, la Corte fiorentina ha avallato un elenco di aspetti di speciale gravità del fatto consistente prevalentemente nella mera ripetizione degli stessi elementi costitutivi della fattispecie contestata (le precedenti sanzioni irrogate in rapporto alle singole assenze; il mancato rispetto degli obblighi procedimentali per le comunicazioni e le attestazioni dei motivi di assenza; l’assenza alla visita medica fiscale disposta nel giorno del 4.10.2018, nel quale la ricorrente non era assente per malattia). Si può ben dire che, in tal modo, la valutazione in concreto della gravità del fatto, al fine del giudizio sulla proporzionalità della sanzione del licenziamento, è stata effettuata in modo erroneo e in contrasto con i pertinenti parametri normativi e contrattuali, considerandosi come indice della gravità della condotta la mancata corretta comunicazione delle assenze dal servizio (peraltro male conteggiate, come si è detto), senza alcun riferimento all’elemento soggettivo del comportamento e quindi individuando come comportamento meritevole del licenziamento per giusta causa quello della mancata presentazione della domanda per le assenze in modo regolamentare, senza tuttavia neppure specificare nulla di decisivo sulla proporzionalità della sanzione. 2.2.2. Mentre, come è noto, per costante indirizzo di questa Corte, per il licenziamento tanto più per giusta causa, la valutazione sulla gravità dell’inadempimento e sulla proporzionalità della sanzione rispetto all’addebito contestato deve essere espressa tenendo conto, da un lato, dei profili oggettivi e soggettivi della condotta, dall’altro delle caratteristiche proprie del rapporto in relazione al quale va valutata la possibilità o meno della prosecuzione (Cass. n. 10236/2023; orientamento consolidato). 3. Per tutte le indicate ragioni il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Firenze, in diversa composizione, perché decida anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, attenendosi al seguente principio di diritto: «l’assenza dal servizio priva di valida giustificazione rilevante ai fini dell’art. 55-quater, lett. b, del d.lgs. n. 165 del 2001 presuppone che il lavoratore non si sia presentato al lavoro e abbia omesso di rendere la prestazione lavorativa in un giorno in cui avrebbe dovuto farlo e, dunque, non può sussistere nel caso in cui si tratti di un giorno festivo, in cui il lavoratore non aveva l’obbligo di recarsi al lavoro, a prescindere dalla mancanza di una valida giustificazione per l’assenza dal servizio nelle giornate immediatamente precedenti e successive al giorno festivo. 4. Si dà atto che, in base all’esito del giudizio, non sussistono i presupposti, ex art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo pari al contributo unificato eventualmente dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Firenze, perché decida, in diversa composizione, anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7.2.2024. Il Consigliere estensore Andrea Zuliani La Presidente Lucia Tria
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