Sentenze recenti ictu oculi anomale

Ricerca semantica

Risultati di ricerca:

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI ROMA XVII Sezione Civile in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Fausto Basile, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al n. 32330 del R.G.A.C.C. dell'anno 2019, e vertente tra Un. S.p.A., in persona del suo procuratore speciale, rappresentata e difesa, giusta procura alle liti allegata all'atto di costituzione di nuovo difensore, dall'Avv. (...) ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Milano, via (...) ATTRICE e Ba. S.p.A., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura generale alle liti del 17.07.2018, dall'Avv. (...) ed elettivamente domiciliata in Roma, (...) CONVENUTA OGGETTO: titoli di credito. FATTO E DIRITTO Con atto di citazione notificato in data 7/5/2019, la Un. S.p.A. ha evocato in giudizio, dinanzi all'intesto Tribunale, la Ba. S.p.A. per ivi sentire accogliere le seguenti conclusioni: "... Piaccia all.mo Giudice adito, ogni contraria istanza, ragione ed eccezione disattesa, accertate le contraffazioni e le alterazioni sugli assegni bancari non trasferibili nn. (...), (...), (...) e (...) accertare e dichiarare la responsabilità della società Bn. s.p.a. ex art. 1218 e 1228 c.c., nonchè ex art. 2043 e 2049 c.c. e, ex art. 43 legge assegno, e per l'effetto, condannare la stessa alla restituzione della somma pari ad Euro 6.051,18 oltre gli interessi e rivalutazione maturati dalla data di emissione sino al momento della liquidazione del danno, oltre al risarcimento in favore di (...) S.p.A. di tutti i danni cagionati dall'istituto di credito in parola, da quantificarsi in via equitativa, nei limiti della competenza dell'odierno giudicante. Si chiede altresì al Giudicante il rimborso della somma paria ad Euro 48,80 quali spese di avvio della procedura di mediazione obbligatoria. Con vittoria di spese, competenze ed onorari oltre il 15% si spese forfettarie di cui all'art. 15 L.P., oltre I.V.A. e C.P.A. da distrarsi in favore del sottoscritto procuratore antistatario. Ci si riserva di articolare le richieste istruttorie con i termini di cui all'art. 183 c.p.c. di cui sin da ora si chiede la concessione". A sostegno della domanda, parte attrice esponeva che: 1) la società istante, in virtù della convenzione relativa al servizio di liquidazione sinistri, ordinava al proprio Istituto di credito l'emissione di quattro assegni di traenza non trasferibili per l'ammontare complessivo di Euro 6.051,18, intestati e spediti tramite servizio postale ad altrettanti beneficiari; 2) in particolare, l'assegno n. (...) dell'importo di Euro 1.500,00 era stato inviato alla Sig. Di.To.; l'assegno n. (...) dell'importo di Euro 1.300,00 era stato inviato al Sig. Vi.Ca.; l'assegno n. (...) dell'importo di Euro 1.801,18 era stato inviato alla Sig.ra Ma.Al.; e l'assegno n. (...) dell'importo di Euro 1.450,00 era stato inviato alla Sig.ra Pe.An.; 3) che in seguito ai controlli contabili operati, la società attrice riscontrava come i legittimi beneficiari non avessero mai incassato gli assegni in parola, i quali, peraltro, in seguito, sono risultati essere stati incassati da soggetti non legittimati; 4) segnatamente, i titoli nn. (...) e (...) risultano essere stati incassati presso la Bn. S.p.A. da tale "Pa.Lu." che il titolo n. (...) risulta essere stato incassato presso la Bn. S.p.A. da tale "Ca.Ma."; che infine il titolo n.(...) risulta essere stato incassato presso la Bn. S.p.A. da tale "Da.Gi.", i quali a tal fine si sono illecitamente impossessati dei titoli de quibus. 5) su richiesta dei propri assicurati, legittimi intestatari dei titoli, l'attrice è stata costretta ad ordinare al proprio Istituto di credito di reiterare i pagamenti; conseguentemente, in favore di sig. Di.To. veniva emesso assegno bancario n. (...), regolarmente incassato in data 01/12/10; in favore del sig. Vi.Ca. veniva emesso assegno bancario n. (...), regolarmente incassato in data 23/03/2011; in favore della sig.ra Ma.Al. veniva eseguito bonifico bancario avente CRO n. (...); in favore della Sig.ra Pe.An. veniva eseguito bonifico bancario avente CRO n. (...); 6) presa visione degli assegni per cui è causa, Un. verificava che i titoli presentavano anomale cancellature, con il nome del falso prenditore dattiloscritto con diverso carattere meccanografico. Tanto esposto in punto di fatto, in punto di diritto parte attrice ha dedotto la palese responsabilità in capo alla Bn. S.p.A. per aver negoziato i titoli in favore di soggetti diversi rispetto a quelli legittimati e per aver manifestato incuria e negligenza a mezzo dei suoi cassieri nell'adempimento delle proprie obbligazioni, posto che la negoziazione è avvenuta a favore di clienti, nella maggior parte dei casi, non conosciuti o non correttamente identificati ai quali è stato però consentito aprire un conto corrente presso la Banca convenuta, con l'ulteriore aggravante di aver consentito a soggetti nuovi o in precedenza identificati con negligenza l'incasso di titoli riportanti alterazioni rilevabili ictu oculi che avrebbero dovuto quantomeno indurre a sospettare la loro falsificazione unitamente ai documenti prodotti in sede di apertura del conto corrente e/o del libretto al portatore. Ha altresì sostenuto che dalla spedizione dell'assegno di traenza non trasferibile tramite lettera postale non assicurata non può ravvisarsi alcun concorso di colpa ex art. 1227 c.c. della Un. s.p.a. con l'istituto di credito convenuto, in quanto non sussisterebbe alcun nesso di causalità tra il tipo di spedizione degli assegni e il danno patito dall'attrice sotto forma di doppio esborso a causa dell'imperizia di Bn. s.p.a. nella negoziazione dei titoli per cui è causa. Tale forma di spedizione dei titoli, infatti, non configurerebbe un eventuale comportamento negligente del creditore, rappresentando anzi un comportamento legittimo in quanto il servizio postale è strumento sul quale deve farsi legittimo affidamento. Tanto più, nel caso oggetto del presente giudizio, trattandosi di titoli emessi con la clausola "non trasferibile" e, quindi, ulteriormente tutelati dalle norme sulla circolazione. Inoltre, sempre a detta di parte attrice, andrebbe escluso il concorso di responsabilità ai sensi dell'art. 1227 c.c. della banca emittente (Un. S.p.A.) con quella che ha negoziato i titoli per cui è causa (l'odierna convenuta) mediante la procedura di check, truncation. Tale procedura che prevede che la banca negoziatrice del titolo lo presenti per il pagamento - compensazione - all'istituto trattario/emittente senza inviarne la materialità in stanza di compensazione, ma trasmettendone i dati con mezzi informatici, attraverso rete internazionale interbancaria. Trascorso il termine previsto da accordi interbancari ed in assenza di messaggi di impagato da parte della banca emittente, l'importo portato dall'assegno viene accreditato sul rapporto di versamento. Solo dopo tale momento la somma entra nella disponibilità materiale del beneficiario). Sennonché, nella procedura di check, truncation, i dati che vengono comunicati dalla banca negoziatrice (nel caso in esame la Bn. S.p.A.) sono esclusivamente il numero dell'assegno, il CAB ed ABI identificativi dell'assegno e l'importo dell'assegno, e non anche il nominativo. Per cui, la banca emittente, ricevuto il flusso elettronico da parte della Bn. S.p.A. consistente nei soli dati innanzi indicati, non sia in grado di inviare alcun messaggio di impagato e/o di blocco, non potendo accertare materialmente la contraffazione del nome del beneficiario sul titolo. Al contrario, delle alterazioni degli assegni di traenza non trasferibili avrebbe dovuto prioritariamente e concretamente accorgersi la Bn. S.p.A., detentrice materiale dei titoli per cui è causa. (...) ha, pertanto, dedotto la responsabilità della con venuta Bn. S.p.A. non solo ex art. 2043 c.c., ma anche ex artt. 1218 e 1228, nonché ex art. 2049 c.c. ex art. 43 legge assegni. Si è costituita in giudizio Bn. S.p.A. la quale, contestato tutto quanto ex adverso dedotto ed argomentato, ha chiesto il rigetto delle domande di parte attrice. A tal fine, ha eccepito a) in primis, la genericità e la laconicità della ricostruzione in fatto svolta da parte attrice; b) in ogni caso, il concorso colposo ex art. 1227 c.c. dell'attrice nella causazione del preteso danno, per avere la stessa inviato i titoli con posta ordinaria, ossia con un sistema di corrispondenza notoriamente non sicuro ed esposto ad un elevato rischio di sottrazione dei plichi. All'udienza del 21.02.2019, il Giudice ha ordinato alla Bn. S.p.A., ai sensi dell'art. 210 c.p.c., l'esibizione in originale cartaceo dei quattro titoli oggetto di contestazione nel presente giudizio. All'udienza del 03.11.2022, il Giudice, dato atto del mancato deposito degli assegni in originale, ha assegnato a parte convenuta nuovo termine per il deposito degli stessi titoli e ha rinviato la causa per la precisazione delle conclusioni. All'udienza a trattazione scritta del 26.04.2023, la causa, sulle conclusioni in epigrafe indicate, è stata trattenuta in decisione, previa assegnazione dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. Le domande di parte attrice sono fondate e devono trovare accoglimento per le ragioni di seguito esposte. Al fine dell'inquadramento sistematico della responsabilità della banca che pagato un assegno bancario non trasferibile a persona diversa da quella cartolarmente legittimata come prenditore, va richiamato l'orientamento giurisprudenziale tracciato dalla pronuncia delle SS.UU. n. 14712/2007, secondo cui "la responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall'art. 43 legge assegni (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736), l'incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non traferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo, ha - nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno - natura contrattuale, avendo la banca un obbligo professionale di protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto), operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso". Qualificata la responsabilità della banca negoziatrice come responsabilità da "contatto sociale qualificato", quale species del genus della responsabilità contrattuale si è registrato un contrasto giurisprudenziale sui limiti della responsabilità della banca per il pagamento di un assegno non trasferibile a un soggetto diverso dall'effettivo beneficiario, a seguito di un'errata identificazione di colui che presenti il titolo per l'incasso o del mancato riconoscimento della contraffazione del titolo stesso. Secondo un primo orientamento inaugurato da Cass. n. 1098/1999 - che, a sua volta, ristabiliva il principio enunciato da Cass. n. 3133 del 1958 - "l'art. 43 del R.D. n. 1736 del 1933 disciplina in modo autonomo la fattispecie dell'adempimento dell'assegno non trasferibile, derogando sia alla disciplina generale del pagamento dei titoli di credito a legittimazione variabile, sia al disposto di diritto comune dettato, in tema di obbligazioni, dall'art. 1189 c.c. (che dispone la liberazione del debitore adempiente in buona fede in favore del creditore apparente), con la conseguenza che la banca, nell'effettuare il pagamento in favore di persona diversa dal legittimato, non è liberata dalla propria obbligazione finché non paghi nuovamente al prenditore esattamente individuato l'importo dell'assegno, a prescindere dalla sussistenza dell'elemento della colpa nell'errore sulla identificazione di quest'ultimo". Tale indirizzo interpretativo, seguito da diverse pronunce di legittimità (Cass., n. 3654/2003; Cass. 7949/2010), è stato ribadito più recentemente da Cass. 3405/2016 e da Cass. 4381/2017. A tale soluzione ermeneutica, si contrappone quella giurisprudenza che, facendo leva sui normali criteri di attribuzione della responsabilità per colpa in materia di obbligazioni, ritenute applicabili anche all'attività bancaria, affermava il diverso principio di diritto secondo il quale "se il pagamento dell'assegno bancario non trasferibile è fatto a chi si legittima cartolarmente come prenditore dell'assegno, colui che ha eseguito il pagamento ne rifonde verso il prenditore a norma dell'art. 43, secondo comma, della legge sull'assegno bancario n. 1736 del 1933 - applicabile anche all'assegno circolare in virtù del richiamo contenuto nel successivo art. 86 della stessa legge - soltanto se non ha usato la dovuta diligenza nell'identificazione del presentatore dell'assegno, in quanto la disposizione di cui al secondo comma del citato art. 43, laddove sancisce la responsabilità per il pagamento di chi paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore, si riferisce non alla persona fisica del prenditore, ma alla legittimazione cartolare cioè alla persona che non è legittimata come prenditore, e, quindi, non comporta deroga ai principi generali in tema di identificazione del presentatore dei titoli a legittimatone nominale" (Cass. n. 2360/1968; Cass. n. 686/1983; Cass. n. 9888/1997). Tale orientamento era stato recentemente confermato da Cass. n. 1377/2016. Il contrasto riguardava, quindi, la portata dell'art. 43 L.A., interpretato, da una parte della giurisprudenza, con riferimento agli oneri di identificazione del presentatore dei titoli a legittimazione nominale, sul presupposto che l'art. 43, comma 2, citato, regolasse in modo autonomo l'adempimento del pagamento dell'assegno non trasferibile, con deviazione anche dalla disciplina generale del pagamento dei titoli di credito con legittimazione variabile dettata dall'art. 1992 c.c. e, da altra parte, come riferibile solo alla disciplina della circolazione dell'assegno bancario, trasformato in titolo a legittimazione invariabile. L'indirizzo giurisprudenziale che interpreta l'art. 43 L.A. come riferibile alla sola disciplina della circolazione dell'assegno bancario trasformato in titolo a legittimazione invariabile appare più corretto, dal momento che esso - al fine della disciplina della responsabilità della banca per il pagamento di un assegno non trasferibile a persona diversa dal beneficiario - opera una corretta distinzione tra ipotesi completamente diverse tra di loro: da una parte, quella del pagamento a colui che non è legittimato cartolarmente come prenditore del titolo non trasferibile e, dall'altra parte, quelle, del tutto diverse, della erronea identificazione del soggetto che appare cartolarmente legittimato e del colpevole mancato riconoscimento dell'alterazione del titolo. Risulta chiara la differenza tra le due ipotesi: nel primo caso, la banca paga a Caio, non legittimato, mentre T. è l'intestatario dell'assegno munito di clausola di non trasferibilità; nel secondo caso, in cui non vi è alcuna girata fatta in violazione della clausola di non trasferibilità, la banca paga ad un soggetto di nome T., effettivo intestatario dell'assegno, senza però controllare con la dovuta diligenza se la persona che si presenta all'incasso sia veramente T., oppure un soggetto diverso che ha falsificato il nome del prenditore dell'assegno e/o il documento con il quale si è fatto identificare come T.. Seguire l'opposto orientamento, che afferma la responsabilità della banca a prescindere dalla colpa anche nell'ipotesi di errata identificazione del prenditore o di alterazione del titolo, porterebbe a trattare alla stessa maniera ipotesi radicalmente diverse tra di loro. Esso, inoltre, verrebbe a creare, nell'ambito delle stesse ipotesi, un'ulteriore ingiustificata disparità di trattamento tra la disciplina della responsabilità della banca che negozia un assegno a legittimazione variabile e quella della banca che negozia un assegno a legittimazione invariabile; la prima, basata sulla diligenza media e, la seconda, sulla natura oggettiva della sua responsabilità. Ciò posto, la responsabilità oggettiva della banca (o come, nel caso di specie, di P.I.) si giustifica soltanto nel caso in cui negozi un titolo non trasferibile violando le specifiche prescrizioni del primo comma dell'art. 43, L.A., ovvero quando paghi il titolo con clausola di non trasferibilità a un soggetto diverso da quello che risulta avere la legittimazione cartolare ai sensi della medesima norma (pagamento a Caio di un assegno di traenza il cui prenditore legittimato cartolarmente risulta T.). Nei distinti casi di errore nella identificazione del soggetto legittimato cartolarmente e nel riconoscimento della contraffazione del titolo, appare dunque corretto l'indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la responsabilità della banca (sia quella trattaria, che quella negoziatrice) non possa prescindere da una valutazione in concreto sull'uso della diligenza richiesta al bancario medio sulla base delle sue conoscenze, essendo applicabili all'attività bancaria le disposizioni generali di cui agli artt. 1176, comma 2, c.c. e 1992, comma 2, c.c. A comporre il contrasto giurisprudenziale innanzi indicato, sono recentemente intervenute le SS.UU. con le sentenze nn. 12477 e 12478/2018 che lo hanno risolto in favore della seconda interpretazione. Una volta ricondotta l'attività della banca negoziatrice nell'ambito della responsabilità contrattuale derivante da "contatto sociale qualificato" (come affermato dalle citate SS.UU. n. 14712/2007), le SS.UU. hanno ritenuto insostenibile la tesi secondo la quale la banca risponde del pagamento dell'assegno non trasferibile prescindendo dalla sussistenza dell'elemento della colpa nell'errore sull'identificazione. Una forma di responsabilità oggettiva, infatti, potrebbe predicarsi solo in difetto di un rapporto in senso lato contrattuale tra danneggiante e danneggiato, come ad esempio nelle ipotesi tipiche disciplinate dagli artt. 2048/2053 c.c., appartenenti però all'ambito della responsabilità aquiliana, laddove, invece, nella logica della responsabilità contrattuale (anche nella forma della responsabilità da contatto sociale qualificato), la colpa toma a recuperare la propria centralità ai sensi degli artt. 1176 e 1218 c.c.. Di conseguenza, le SS.UU. hanno affermato il principio secondo il quale, nell'azione promossa dal presunto danneggiato, la banca che ha pagato l'assegno non trasferibile a persona diversa dall'effettivo prenditore "è ammessa a provare che l'inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza dovuta, che è quella nascente, ai sensi del 2 comma dell'art. 1176 c.c., dalla sua qualità di operatore professionale, tenuto a rispondere del danno anche in ipotesi di colpa lievi". In tal modo, la funzione assolta dall'art. 43, comma 2, L.A. viene a consistere nell'impedire la circolazione del titolo, predisponendo "una sanzione di responsabilità cartolare, il cui presupposto risiede nella circostanza che non si è pagato ad un soggetto legittimato come prenditore del titolo" e si pone, pertanto, su un piano differente rispetto alla responsabilità civile collegata all'errore nell'identificazione dell'effettivo prenditore. Dunque, la responsabilità risarcitoria della banca, nel caso di pagamento di assegni bancari non trasferibili a soggetto diverso da colui che appare cartolarmente legittimato, non può discendere oggettivamente dall'art. 43, secondo comma, legge assegno, ma rimane collegata alla mancata o negligente identificazione del presentatore del titolo o al colpevole mancato riconoscimento dell'alterazione dello stesso, alla stregua della dirigenza richiesta al bancario medio sulla base delle sue conoscenze. Nella delineata prospettiva della dirigenza richiesta alla banca negoziatrice di titoli, la S.C. ha più volte affermato che, nel caso di pagamento di un assegno circolare trafugato ed alterato, non basta la mera rilevabilità dell'alterazione, occorrendo che la stessa sia visibile "ictu oculi", in base alle conoscenze del bancario medio, il quale non è tenuto a disporre di particolari attrezzature strumentali o chimiche per rilevare la falsificazione, né deve essere un esperto grafologo. Il giudice di merito deve, pertanto, verificare se la falsificazione sia, o meno, riscontrabile attraverso un attento esame diretto, visivo o tattile, dell'assegno da parte dell'impiegato addetto, in possesso di comuni cognizioni teorico/tecniche, ovvero pure in forza di mezzi e strumenti presenti sui normali canali del mercato di consumo e di agevole utilizzo, o - piuttosto - se la falsificazione stessa sia, invece, riscontrabile soltanto tramite attrezzature tecnologiche sofisticate e di difficile e dispendioso reperimento e/o utilizzo, o tramite particolari cognizioni teoriche e/o tecniche (Cass., 1377/2016; cfr. Cass. 6524/2000; 15066/2005; 20292/2011; 6513/2014). Sempre con riferimento alla diligenza professionale media richiesta nell'attività bancaria, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che la banca, cui sia presentato un assegno per l'incasso, ha il dovere di pagarlo se le eventuali irregolarità (falsificazione o alterazione) dei requisiti esteriori non siano rilevabili con la normale diligenza inerente all'attività bancaria che coincide con la diligenza media, non essendo la stessa tenuta a predisporre un'attrezzatura qualificata con strumenti meccanici o chimici al fine di un controllo dell'autenticità delle sottoscrizioni o di altre contraffazioni dei titoli presentati per la riscossione (Cass., n. 6524/2000). Dunque, la banca negoziatrice non è tenuta a predisporre particolari attrezzature idonee ad evidenziare il falso, né i suoi dipendenti debbono avere una particolare competenza in grafologia, in quanto sussiste la diligenza della banca trattaria allorquando riscontra la corrispondenza delle firme di traenza allo "specimen" depositato dal correntista e la difformità delle sottoscrizioni non sia rilevabile ad un esame attento, benché a vista, del titolo (Cass., n. 12761/1993). Ciò posto, quello dedotto nel presente giudizio non rientra tra i casi nei quali la responsabilità della banca convenuta va ricondotta all'ipotesi di responsabilità oggettiva di cui all'art. 43, secondo comma, L.A. (pagamento a Caio di un assegno di traenza il cui prenditore legittimato cartolarmente è T.). Si tratta, invece, di un caso nel quale la responsabilità deve essere valutata alla stregua dell'uso concreto della diligenza richiesta al bancario medio sulla base delle sue conoscenze, in applicazione dei principi generali di cui agli artt. 1176, secondo comma, e 1992, secondo comma, c.c. Ne discende allora che, poiché la responsabilità della banca negoziatrice di un assegno (circolare o bancario) è di tipo contrattuale, in base ai principi generali in materia di riparto dell'onere della prova sanciti da SS.UU. n. 13533/2001, una volta allegato l'inesatto adempimento dell'obbligazione di pagamento, spetta alla stessa banca negoziatrice provare, ai sensi dell'art. 1218 c.c., di aver correttamente operato, ovvero, non essendo sufficiente una generica prova di diligenza, dimostrare la sussistenza di una impossibilità della prestazione non imputabile alla luce del canone di diligenza del banchiere professionale, ai sensi degli artt. 1176 secondo comma c.c. e 1992, secondo comma, c.c. Sicché, l'indagine che il Tribunale è chiamato ad effettuare riguarda l'osservanza dell'obbligo di diligenza, anche sotto il profilo della colpa lieve, della Bn. S.p.A. in relazione al colpevole mancato riconoscimento della contraffazione del titolo e della sostituzione del nome del beneficiario originario con quello del soggetto che ha presentato all'incasso gli assegni nn. (...), (...), (...) e (...). La misura della diligenza richiesta alla banca negoziatrice, in caso di falsificazione del titolo, necessita di "un accertamento di fatto volto a saggiare, in concreto, il grado di esigibilità della diligenza stessa, verificando, in particolare, se la falsificazione sia, o meno, riscontrabile attraverso un attento esame diretto, visivo o tattile, dell'assegno da parte dell'impiegato addetto, in possesso di comuni cognizioni teorico/tecniche, ovvero pure in forza di mezzi e strumenti presenti sui normali canali del mercato di consumo e di agevole utilizzo, o, piuttosto, se la falsificazione stessa sia, invece, riscontrabile soltanto tramite attrezzature tecnologiche sofisticate e di difficile e dispendioso reperimento e/o utilizzo o tramite particolari cognizioni teoriche e/o tecniche" (Cass., 1377/2016; Cass., 6513/2014; Cass., 20292/2011; Cass., 15066/2005; Cass. 6524/2000). Al riguardo, va osservato che, sebbene ai fini della corretta identificazione del presentatore del titolo l'obbligo di diligenza e di protezione a carico della banca negoziatrice non possa essere spinto fino al punto di imporre all'impiegato addetto di verificare la falsità del documento di identità o di riconoscimento, trattandosi di una cautela estremamente difficile da rispettare anche usando l'ordinaria diligenza, nondimeno, per andare esente da responsabilità, è necessario che essa dimostri di aver adottato tutte le cautele del caso soprattutto in presenza di quegli elementi di sospetto e di allarme innanzi indicati. Inoltre, alla stregua delle più recenti pronunce della S.C., "In tema di titoli di credito, la banca negoziatrice, chiamata a rispondere del danno derivato dal pagamento di un assegno non trasferibile a soggetto che successivamente risulti non essere il beneficiario del titolo, è ammessa a provare che l'inadempimento non è a lei imputabile, ma, trattandosi di operatore professionale qualificato, contrattualmente responsabile anche per colpa lieve in virtù del combinato disposto degli artt. 1176, comma 2, c.c. e 43, comma 2, R.D. n. 1736 del 1933, è tenuta ad offrire una prova liberatoria in grado di escludere anche tale colpa, (Fattispecie relativa al pagamento di un assegno di traenza, inviato al beneficiario a mezzo posta ordinaria e pagato ad un soggetto che poi si è rivelato estraneo al rapporto cartolare)." (Cass. 17737/2019). Nella fattispecie in esame, l'odierna attrice ha allegato l'inadempimento contrattuale della Banca convenuta, sostenendo che la negoziazione dei titoli per cui è causa è avvenuta in favore di soggetti diversi dall'originario beneficiario, a seguito dell'avvenuta contraffazione dei medesimi titoli, e che a seguito di tale inadempimento - che ha comportato la mancata riscossione degli assegi de quibus da parte dei legittimi destinatari, i sig.ri (...) - si era vista costretta ad effettuare un secondo pagamento in favore degli stessi. A sostegno delle proprie allegazioni, (...) ha prodotto copia fotostatica degli assegni per cui è causa successivamente alla negoziazione contenenti i nomi di beneficiari diversi da quelli originari, nonché le dichiarazioni di mancato ricevimento dei titoli da parte dei legittimi beneficiari e copia delle dichiarazioni di nuovo pagamento. Alla stregua dei superiori principi e di quanto dedotto e provato documentalmente dall'odierna attrice, la Banca convenuta, al fine di evitare l'applicazione dell'art. 1218 c.c., avrebbe dovuto provare la diligenza del banchiere professionale di cui agli articoli 1176, comma 2, c.c. e 1992, comma 2, c.c., dimostrando che la contraffazione dei titoli per cui è causa non era visibile "ictu oculi" in base alle conoscenze del bancario medio e, quindi, di non aver avuto alcuna colpa nella mancata individuazione della contraffazione. Questo Tribunale si è già espresso, in ipotesi analoghe a quelle per cui è causa, affermando che qualora la contraffazione del titolo sia avvenuta attraverso la sostituzione del nome del beneficiario, la prova liberatoria possa essere fornita "solo producendo in giudizio l'originale dell'assegno allo scopo di permettere al giudicante di controllare materialmente il titolo e verificare se i segni della falsificazione fossero o meno rilevabili ictu oculi." (Trib. Roma 7903/18). Ebbene, nel caso di specie, l'originale dei titoli in contestazione non è stato prodotto dalla convenuta nonostante l'ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. impartito alla Bn. S.p.A. Tale circostanza induce a ritenere che parte convenuta non abbia assolto all'onere probatorio sulla stessa incombente, non avendo essa dimostrato tramite il deposito in originale dei titoli - al di là di mere petizioni di principio circa la pretesa correttezza del proprio operato - l'apparente regolarità formale, nella loro materialità, degli assegni di traenza per cui è causa. Va dunque riconosciuta la responsabilità contrattuale per inadempimento della Banca convenuta nella negoziazione degli assegni in questione. Inoltre, l'esistenza di un nesso causale tra l'inadempimento della banca convenuta e il danno subito da (...) emerge con dal fatto che, in assenza dell'errata negoziazione, l'assegno non sarebbe stato pagato ad un soggetto non legittimato e, conseguentemente, l'odierna attrice non sarebbe stata costretto ad effettuare un nuovo pagamento in favore dei propri assicurati. La banca convenuta ha poi eccepito la sussistenza di un concorso colposo ex art. 1227 c.c. di Un. per avere la stessa spedito per posta ordinaria ai legittimi intestatari gli assegni di traenza non trasferibili in contestazione, trattandosi notoriamente di una modalità di trasmissione e di consegna non sicura e facilmente soggetta ad episodi di sottrazione/furto dei plichi spediti. Nella specie, che tutti gli assegni risultano spediti con posta prioritaria, salvo quello intestato a Ma.Al., spedito tramite posta assicurata. In ordine a tale questione, questo Giudicante ha escluso in precedenti pronunce la configurabilità di un concorso colposo dell'istituto trattario/emittente che avesse spedito i titoli trafugati e contraffatti con posta ordinaria anziché con posta assicurata. A tale soluzione si è pervenuti in considerazione della mancanza di un nesso di causalità giuridica tra la condotta eventualmente negligente della banca mittente e l'evento dannoso consistente nella condotta inadempiente della banca negoziatrice del titolo in mancanza della diligenza professionale richiesta. Difatti, sebbene per la prevalente giurisprudenza di legittimità il fatto colposo ex art. 1227 c.c. possa ricomprendere "qualsiasi condotta negligente od imprudente che costituisca causa concorrente dell'evento e, quindi, (... ) anche un comportamento antecedente", quest'ultimo deve comunque essere "legato da nesso eziologico con l'evento medesimo" (cfr. Cass. Civ., 15 marzo 2006, n. 5677). Si è, dunque, seguito l'orientamento giurisprudenziale di legittimità che aveva esplicitamente escluso che la spedizione di un assegno a mezzo del servizio postale possa rilevare ai fini del concorso colposo ex art. 1227 c.c., in quanto, "in materia di spedizione, per via postale ordinaria, di un titolo di credito pagabile all'ordine, munito della clausola di non trasferibilità, ove il pagamento a soggetto non legittimato sia attribuibile a negligenza della banca negoziatrice, ai fini della valutazione comparativa dell'incidenza o meno della colpa del creditore-emittente nella determinazione del danno, da accertare in concreto e alla luce del principio di "causalità adeguata", non rilevano né il rischio generico assunto dall'emittente nell'affidarsi al servizio postale ordinario, né le modalità con le quali è stato spedito il plico postale" (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 17 gennaio 2019, n. 1049). Tale orientamento escludeva l'applicabilità dall'art. 1227 c.c. in quanto "l'evento dannoso prodottosi non dipende dall'inoltro dell'assegno a mezzo del plico postale - evenienza, questa, da cui può solo derivare la conseguenza dell'appropriazione del titolo da parte del non legittimato - ma dalla condotta dell'ente giratario per l'incasso, siccome responsabile del pagamento in favore di un soggetto diverso dal beneficiario" (Cass. 10 febbraio 2018, n. 2520; Cass. 4 novembre 2014, n. 23460). Si rileva, inoltre, che anche gli artt. 83 - 84 D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni, concernenti il divieto di includere nella corrispondenza ordinaria denaro o preziosi, erano considerati irrilevanti nei casi analoghi a quello in esame, in quanto tali norme pongono un divieto che attiene esclusivamente ai rapporti fra l'ente postale e gli utenti, al fine di prevenire condotte e comportamenti fonte di responsabilità per le parti del rapporto stesso, onde ne risulterebbe l'irrilevanza al di fuori di quel rapporto, ma soprattutto in considerazione del fatto che l'assegno non trasferibile non è equiparabile né agli oggetti preziosi, né al denaro, né alle carte di valore esigibili al portatore (Cass. 7618/2010, Cass., 20911/2018). Si era ritenuto, difatti, che la spedizione con posta ordinaria, anziché con posta assicurata, del titolo successivamente contraffatto non potesse essere causalmente messa in collegamento con l'evento dannoso de quo, concretizzatosi nel successivo pagamento ad un soggetto diverso dal titolare originariamente indicato. Evento questo che, nella specie, sarebbe stato evitato qualora la Banca negoziatrice avesse rifiutato, in osservanza dei doveri di protezione sulla stessa gravanti, di procedere al pagamento dell'assegno in assenza di ulteriori verifiche/controlli sulla genuinità del titolo presentato per l'incasso, alla luce delle evidenti anomalie che lo stesso presentava. In effetti, la maggiore garanzia della sicurezza dei sistemi di pagamento dovrebbe essere offerta proprio dalla gestione dei medesimi da parte di soggetti (banche ed istituti assimilati) dotati di specifiche competenze e professionalità e assoggettati a stringenti obblighi di diligenza proprio al fine di assicurare la correttezza dei pagamenti anche a fronte di eventuali fatti illeciti di terzi. Di poi, la notorietà e frequenza degli episodi di sottrazione di titoli di credito inviati a mezzo posta ordinaria, anziché determinare il concorso di colpa del mittente/danneggiato nell'evento dannoso, avrebbe dovuto costituire circostanza ulteriore alla luce della quale si imporrebbe alle banche negoziatrici - soprattutto in presenza di altri elementi di sospetto circa l'effettiva titolarità del titolo presentato per l'incasso - una maggiore attenzione nelle operazioni di negoziazione del titolo medesimo, con conseguente innalzamento della diligenza richiesta. Sul tema del concorso di colpa del mittente/danneggiato che ha spedito con posta ordinaria l'assegno successivamente trafugato e contraffatto, sono recentemente intervenute le SS.UU. che con la sentenza del 26/05/2020, n. 9769, nel comporre il contrasto giurisprudenziale in materia, ha affermato il principio secondo il quale "La spedizione per posta ordinaria di un assegno, ancorché munito di clausola d'intrasferibilità, costituisce, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto non legittimato, condotta idonea a giustificare l'affermazione del concorso di colpa del mittente, comportando, in relazione alle modalità di trasmissione e consegna previste dalla disciplina del servizio postale, l'esposizione volontaria del mittente ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gl'interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, e configurandosi dunque come un antecedente necessario dell'evento dannoso, concorrente con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell'identificazione del presentatore". Tale pronuncia, dopo aver riconosciuto l'inesistenza di norme giuridiche che escludono l'utilizzazione della posta ordinaria per i pagamenti a distanza - inclusi gli artt. artt. 83 - 84 D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 - richiama le modalità di prestazione del servizio postale cosi come disciplinate dal D.M. 26 febbraio 2004 vigente all'epoca dei fatti, per poi affermare che "la scelta di avvalersi della posta ordinaria per la trasmissione dell'assegno al beneficiario, pur in presenza di altre forme di spedizione o di strumenti di pagamento ben più moderni e sicuri, si traduce nella consapevole assunzione di un rischio da parte del mittente, che non può non costituire oggetto di valutazione ai fini della individuazione della causa dell'evento dannoso (...) Tale esposizione volontaria al rischio, o comunque la consapevolezza di porsi in una situazione di pericolo, è stata ritenuta da questa Corte sufficiente a giustificare il riconoscimento del concorso di colpa del danneggiato, ai sensi dell'art. 1227, primo comma, cod. civ,...". Il pur autorevole arresto della SS.UU. non può essere condiviso da questo Giudicante, dovendosi ribadire - conformemente alla giurisprudenza di merito formatasi dopo il pronunciamento delle SS.UU. (cfr. Trib. Milano, 07.07.2020, n. 3961; Trib. Milano, 07.07.2020, n. 3965; Trib. Milano, 13.10.2020, n 6205; Trib. Milano, 01.12.2020n. 7818; Trib. Roma, n. 13173/2020) - il principio dell'insussistenza di un concorso di colpa del mittente/danneggiato che utilizza il servizio di posta ordinaria per la spedizione di un assegno bancario/circolare, in assenza di un nesso di causalità giuridica con l'evento dannoso. Infatti, in senso critico rispetto alle argomentazioni utilizzate dalle SS.UU., va osservato come l'utilizzo della posta raccomandata o assicurata non comporti il trasporto e lo smistamento del plico secondo canali diversi, separati o preferenziali e più sicuri rispetto alla posta ordinaria. Difatti, se è vero che nel momento della consegna, la lettera raccomandata o assicurata debba essere consegnata a mani del destinatario o di persona autorizzata al ritiro e non possa essere immessa nella cassetta postale, è altrettanto vero che ciò attiene alla sola fase della consegna, rimanendo il differente mezzo di spedizione privo di rilevanza per tutte le precedenti fasi di lavorazione (trasporto e smistamento), durante le quali più verosimilmente la corrispondenza viene intercettata e trafugata. D'altro canto, una volta effettuata la consegna, la lettera risulta dai registri interni presa in carico dal portalettere, rendendo in tal modo facilmente identificabile il soggetto che ne ha preso il controllo. Neppure potrebbe rilevare in concreto la circostanza che la spedizione con raccomandata o assicurata possa essere monitorata dal mittente, dal momento che il breve lasso di tempo intercorrente tra il trafugamento dell'assegno e la sua presentazione all'incasso non consentirebbe comunque di rilevare un ritardo anomalo, tale da far legittimamente insorgere sospetti nel mittente/ danneggiato. Altrettanto contraddittoria è l'affermazione delle SS.UU secondo la quale la scelta di uno strumento di spedizione a loro dire inaffidabile e comportante un maggior rischio di trafugamento, finirebbe con l'aggravare ingiustamente la "posizione della banca trattoria o negoziatrice, maggiormente esposta alla possibilità di andare in contro a responsabilità, e quindi costretta a munirsi di strumenti tecnici sempre più sofisticati e costosi per l'identificazione dei presentatori e del contrasto dell'uso di documenti falsificati". Se, infatti, la responsabilità della banca negoziatrice non è di natura oggettiva ma, come si è detto, ricade nei parametri della responsabilità contrattuale fondata sull'obbligo di adempimento diligente ex articolo 1176 c.c., la stessa è "ammessa a provare che l'inadempimento non è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall'articolo 1176, 2 comma c.c." (SS.UU. 12477/2018). Sicché, là dove la contraffazione del titolo o dei documenti di identificazione del prenditore non sia riconoscibile in forza di una verifica condotta secondo i parametri della diligenza qualificata, cui la banca negoziatrice è comunque tenuta, la stessa non potrà essere considerata inadempiente e, conseguentemente, non potrà essere condannata ad alcun risarcimento del danno. Considerato, dunque, che la banca negoziatrice è chiamata in ogni caso a comportarsi secondo un parametro di diligenza professionale qualificata nel valutare la correttezza del titolo e nell'identificare il presentatore all'incasso, non si comprende in forza di quale principio essa, qualora non si fosse attenuta al proprio obbligo di condotta diligente, dovrebbe essere considerata meno responsabile (o meglio, corresponsabile con il mittente/danneggiato) per il solo fatto che l'assegno pagato non correttamente fosse stato spedito con lettera ordinaria. Tanto più in considerazione del fatto che, nella fase del pagamento, gli obblighi di adempimento gravanti sulla banca negoziatrice rimangono immutati qualsiasi fosse stata la forma di spedizione del titolo utilizzata dal mittente/ danneggiato. Conclusivamente, deve escludersi che la spedizione a mezzo posta ordinaria del titolo successivamente contraffatto configuri un antecedente necessario dell'evento dannoso de quo concretizzatosi nel pagamento di un assegno contraffatto ad un soggetto diverso dal titolare originariamente indicato. Evento che, va ribadito ancora una volta, sarebbe stato evitabile qualora la banca trattarla avesse rifiutato, in osservanza dei doveri di protezione sulla stessa gravanti, di procedere al pagamento dell'assegno alla stregua delle dovute verifiche/controlli sulla contraffazione del titolo presentato all'incasso. Infine, del tutto condivisibili sono le argomentazioni in base alle quali parte attrice ha escluso qualsiasi concorso di responsabilità, ai sensi dell'art. 1227 c.c., della banca emittente Ba. S.p.A.) con quella che ha negoziato i titoli per cui è causa (l'odierna convenuta) per il comportamento tenuto nell'ambito della procedura di check truncation. Ne deriva che risultano integrati tutti gli estremi per configurare la responsabilità contrattuale esclusiva della Bn. S.p.A. ex art. 1218 c.c., per violazione del precetto di cui all'art. 1176, comma 2, c.c. non avendo la stessa dimostrato - com'era suo onere fare - di aver adoperato la diligenza del bonus argentarius nella negoziazione dei titoli in contestazione. In conclusione, la domanda promossa da Un. S.p.A. risulta fondata e, pertanto, in accoglimento della stessa, va dichiarata la responsabilità contrattuale della Ba. S.p.A., la quale va condannata al pagamento della somma di Euro 6.051,18 oltre interessi legali dalla domanda al saldo, in favore di Un. S.p.A. Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza e pertanto vanno poste a carico di parte convenuta, nella misura liquidata in dispositivo, secondo il parametro medio previsto dal D.M. n. 55 del 2014 e s.m.i. per lo scaglione di valore di riferimento. P.Q.M. Il Tribunale di Roma, XVII Sezione Civile, così provvede: 1) accoglimento della domanda, condanna la Ba. S.p.A. al pagamento in favore di Un. S.p.A., della somma di Euro 6.051,18, oltre interessi legali dalla domanda al saldo effettivo; 2) condanna Ba. S.p.A. alla rifusione delle spese di lite in favore di Un. S.p.A., che liquida in Euro 237,00 per spese vive e in Euro 5.077,00 per compenso professionale, oltre al rimborso forfettario delle spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma il 20 luglio 2023. Depositata in Cancelleria il 10 ottobre 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,   ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 32, commi 7 e 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima ter, nel procedimento vertente tra G. spa e il Ministero dell’interno e altri, con ordinanza del 25 luglio 2022, iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2022. Visti l’atto di costituzione di G. spa, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2023 il Giudice relatore Filippo Patroni Griffi; uditi l’avvocato Antonio Bartolini per G. spa e l’avvocato dello Stato Carmela Pluchino per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 22 marzo 2023.   Ritenuto in fatto 1.− Con ordinanza del 25 luglio 2022, iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2022, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima ter, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 23, 41 e 42 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 32, commi 7 e 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, nella parte in cui, secondo l’interpretazione assunta quale diritto vivente, dispone «la retrocessione degli utili alle stazioni appaltanti» in caso di definitività del provvedimento di informativa antimafia che abbia attinto l’impresa appaltatrice in corso di esecuzione del contratto e che, in ragione della necessità del suo completamento, sia stata sottoposta alla misura della «gestione straordinaria e temporanea». 1.1.− Il TAR Lazio riferisce di essere chiamato a decidere dell’impugnazione da parte di impresa sottoposta alla gestione commissariale di cui all’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, in esito a interdittiva antimafia: a) del provvedimento prefettizio che ha disposto il versamento in favore dell’amministrazione appaltante, anziché in suo favore, degli utili derivanti dall’esecuzione dei contratti affidata alla gestione commissariale e accantonati in apposito fondo vincolato; b) dei relativi atti procedimentali; c) dell’atto generale ad esso presupposto costituito dalle «Quinte linee guida per la gestione degli utili derivanti dalla esecuzione dei contratti d’appalto o di concessione sottoposti alla misura di straordinaria gestione, ai sensi dell’articolo 32 del decreto-legge n. 90/2014» del 16 ottobre 2018 dettate dal Ministero dell’interno e dall’Agenzia nazionale anticorruzione (ANAC), nella parte in cui disciplinano il meccanismo della retrocessione. Il rimettente espone in punto di fatto che: − la ricorrente nel 2015 è stata destinataria di informazione antimafia a carattere interdittivo ai sensi degli artt. 84 e 91 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) per la riscontrata sussistenza di rischi di infiltrazione mafiosa; − sulla base di tale presupposto è stata disposta dal Prefetto di Perugia la gestione straordinaria della società in relazione ad alcuni contratti di appalto in corso con nomina di tre amministratori; − l’impugnazione proposta dalla società avverso l’interdittiva è stata respinta in primo grado; − a seguito di istanza di aggiornamento liberatorio la prefettura nel 2016 ha «revocat[o]» tanto l’interdittiva quanto la gestione straordinaria; − nel 2019 è stato confermato in secondo grado il rigetto dell’impugnazione del provvedimento interdittivo; − la società ha anche proposto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo avverso la sentenza di appello; − il Prefetto, in esito alla sentenza del Consiglio di Stato, ha disposto in favore della stazione appaltante la devoluzione degli utili contrattuali accantonati dai commissari nel fondo vincolato. 1.2.− Tanto premesso, il TAR in via preliminare afferma essere munito di giurisdizione nel giudizio a quo. Infatti, il provvedimento di retrocessione sarebbe conseguenza dell’informazione interdittiva e del “commissariamento” disposto ai sensi dell’art. 32, commi 2 e 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, di cui condividerebbe il carattere potestativo e di conseguenza la posizione del privato sarebbe di interesse legittimo. Tale conclusione − per come anche affermato dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato nel parere 18 giugno 2018, n. 1567 − non contrasterebbe con l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario in relazione a controversia sull’accantonamento degli utili rinvenibile nell’ordinanza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, 11 maggio 2018, n. 11576: tale unica pronuncia in materia sarebbe stata adottata nella diversa ipotesi di commissariamento disposto dal prefetto ai sensi del comma 1 del medesimo art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, ovvero per fatti di corruzione, in cui, secondo il giudice della giurisdizione, «l’accantonamento degli utili, nella struttura della disposizione sopra richiamata, non deriva da una valutazione di natura discrezionale, ma costituisce un atto vincolato, come conseguenza automatica del commissariamento». D’altro canto, sottolinea il TAR, la stessa ordinanza precisa significativamente che «appartiene alla cognizione del giudice ordinario la controversia in cui venga in rilievo un diritto soggettivo nei cui confronti la pubblica amministrazione eserciti un’attività vincolata, dovendo verificare soltanto se sussistano i presupposti predeterminati dalla legge per l’adozione di una determinata misura, e non esercitando, pertanto, alcun potere autoritativo correlato all’esercizio di poteri di natura discrezionale». 1.3.− Il rimettente si dedica, poi, all’analisi delle disposizioni censurate, evidenziando che esse nulla indicano sul destino degli utili accantonati, né per l’ipotesi di rigetto dell’impugnazione dell’informativa antimafia né per l’ipotesi di sua revoca. A fronte di tale silenzio normativo, il TAR afferma, tuttavia, che gli utili spetterebbero alle stazioni appaltanti secondo il diritto vivente, che assume fondato sull’interpretazione fornita dal parere del Consiglio di Stato n. 1567 del 2018, recepita dalle menzionate quinte linee guida di ANAC e Ministero dell’interno, da una pronuncia del giudice amministrativo (si cita Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 16 gennaio 2019, n. 392) e da una del giudice ordinario (si cita Tribunale ordinario di Napoli [Nord], sezione terza, ordinanza 19 ottobre 2020). Secondo il parere del Consiglio di Stato, per effetto dell’interdittiva l’originario rapporto contrattuale si scioglie ai sensi dell’art. 94 cod. antimafia e il commissariamento prefettizio obbliga l’impresa appaltatrice interdetta a portare ad esecuzione l’originaria prestazione per specifiche ragioni di pubblica utilità. La fonte dell’obbligazione sarebbe, dunque, novata dal provvedimento e determinerebbe, sotto il versante civilistico, una vicenda inquadrabile in una (imposta) gestione di affari altrui e, sotto quello pubblicistico, in una prestazione imposta. Al venir meno del titolo contrattuale conseguirebbe il venir meno del corrispettivo pattuito e, piuttosto, all’impresa spetterebbe il solo rimborso dei costi e delle spese con ablazione del profitto. Ciò troverebbe fondamento sia nella necessità di precludere all’impresa attinta da interdittiva di conseguire un arricchimento patrimoniale in virtù di un proprio comportamento antigiuridico, sia nella connotazione restitutoria (e non corrispettiva) di quanto dovuto per il compimento della prestazione nell’interesse pubblico sia, ancora, nella logica compensativa (e non retributiva) che caratterizza le prestazioni personali imposte. 1.4.− L’ordinanza motiva, quindi, sui presupposti per sollevare le questioni di legittimità costituzionale. In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che l’impugnato provvedimento prefettizio è diretta applicazione della norma censurata e che solo la declaratoria di illegittimità costituzionale della stessa potrebbe condurre al suo annullamento per accoglimento del corrispondente motivo di ricorso. Chiarisce, inoltre, che la rilevanza non può essere esclusa dalla pendenza del ricorso proposto dalla ricorrente alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto essa non determina una fattispecie di sospensione necessaria ex art. 295 del codice di procedura civile, per difetto tanto della pregiudizialità logica quanto di quella giuridica. 1.5.− Alla illustrazione delle ragioni di non manifesta infondatezza delle questioni sollevate il TAR fa antecedere talune premesse ricostruttive del quadro normativo. Il rimettente rammenta, anzitutto, la natura cautelare e preventiva del potere di interdittiva antimafia − frutto del bilanciamento dei contrapposti interessi all’ordine e sicurezza pubblica, da un lato, e alla tutela della libertà di iniziativa economica, dall’altra − al cui esercizio è richiesto il rigoroso rispetto del principio di legalità sostanziale. Lo stesso principio, a suo dire, imporrebbe una interpretazione rigorosa dei suoi effetti, con respingimento di ricostruzioni non ricavabili dal dettato legislativo. Per contro l’art. 32, commi 7 e 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, prevede la sola misura dell’accantonamento degli utili di impresa in apposito fondo e non la retrocessione all’appaltante affermata dal diritto vivente. Il rimettente critica, poi, la ricostruzione del parere del Consiglio di Stato posta a fondamento di tale meccanismo. In primo luogo, non ricorrerebbe alcuna novazione della fonte atteso che l’originario contratto, nel difetto di risoluzione, continuerebbe a essere eseguito dalla società ricorrente con propri mezzi, umani e patrimoniali, con correlativa responsabilità, seppur sotto l’amministrazione dei commissari prefettizi. In secondo luogo, sono contestate le conclusioni dell’accostamento della misura del commissariamento alla negotiorum gestio: secondo la disciplina degli artt. 2030 e 2031 del codice civile il soggetto gerendo (il commissario prefettizio) sarebbe, al contrario, tenuto a versare al gerito (la società) i corrispettivi ottenuti dall’esecuzione dei contratti gestiti. Il TAR Lazio, piuttosto, accosta l’incapacità parziale e temporanea derivante dall’interdittiva all’incapacità naturale di cui agli artt. 427 e 428 cod. civ., cui conseguirebbe l’efficacia degli atti compiuti dall’incapace sino all’annullamento. 1.5.1.− Alla luce del delineato quadro, il Tribunale amministrativo regionale assume, anzitutto, il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. perché la misura della retrocessione, quanto meno nel caso di impresa cui sia stata revocata l’interdittiva, sarebbe misura sproporzionata e irragionevole. Il previsto accantonamento degli utili in apposito fondo costituirebbe misura già sufficiente a salvaguardare l’economia legale dai tentativi di infiltrazione mafiosa in quanto sottrarrebbe all’impresa interdetta ogni forma di locupletazione durante il periodo di vigenza dell’interdittiva. Inoltre, la norma censurata contrasterebbe con lo stesso parametro costituzionale trattando la fattispecie in maniera differente da quella similare (per identità di ratio) contemplata dall’art. 94, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011. Tale ultima disposizione − che costituisce una deroga alla regola generale dettata dal precedente comma 2 dello stesso articolo, secondo cui a seguito del rilascio dell’informazione interdittiva le stazioni appaltanti recedono dai contratti in corso – consente all’appaltante la prosecuzione dei contratti di appalti con l’impresa infiltrata se l’opera sia in corso di ultimazione o se la fornitura di beni e servizi sia essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora l’appaltatore non sia sostituibile in tempi rapidi. In tale fattispecie di prosecuzione contrattuale «non si dubita», afferma il TAR, che l’impresa percepisca il corrispettivo previsto dal contratto. 1.5.2.− Tale normativa inciderebbe, ancora, eccessivamente sulla libertà di iniziativa economica privata e sul diritto di proprietà tutelati dagli artt. 41 e 42 Cost. 1.5.3.− I commi censurati contrasterebbero, infine, con l’art. 23 Cost. Il silenzio sulla sorte degli utili derivanti dalle prestazioni rese dall’impresa per effetto del commissariamento prefettizio darebbe luogo a una ipotesi di prestazione imposta in cui la fonte primaria non detterebbe i criteri direttivi e le linee generali della relativa disciplina in particolare in ordine alla sua concreta entità. 2.– Con atto depositato il 21 ottobre 2022, si è costituita in giudizio la società ricorrente nel giudizio principale che ha chiesto la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 32, commi 7 e 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito e come interpretato dal diritto vivente, negli stessi termini auspicati dal rimettente. In via subordinata, per l’ipotesi in cui questa Corte non ritenesse sussistere il diritto vivente nella interpretazione delle disposizioni censurate, la parte domanda di «chiarire che il giudice a quo possa rendere un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 32 cc. 7 e 10 del d.l. n. 90/2014, la quale si differenzi da quella oggi offerta dal Parere n. 1567/2018 del Consiglio di Stato». L’impresa, dopo aver ricostruito i fatti, ha illustrato, condiviso e sostenuto le argomentazioni spese dall’ordinanza di rimessione. In particolare, con riguardo alla ammissibilità della questione in relazione alla giurisdizione del giudice rimettente, ha sottolineato che appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo tutte le controversie nelle quali venga in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo anche solo correlato all’esercizio di poteri di natura discrezionale e ha aggiunto che da una eventuale pronuncia di fondatezza di questa Corte deriverebbe la riconfigurazione del potere prefettizio e, di conseguenza il chiarimento sulla qualificazione della posizione giuridica soggettiva del privato. Nel contestare il fondamento della retrocessione alla stazione appaltante degli utili ha prospettato che: a) la revoca dell’interdittiva determinerebbe il venir meno delle ragioni per cui si era proceduto all’accantonamento degli utili; b) diversamente da quanto affermato nel parere n. 1567 del 2018 del Consiglio di Stato, nel caso della gestione straordinaria e temporanea, da un lato, vi sarebbe prosecuzione del rapporto contrattuale senza alcuna novazione del titolo e, dall’altro, pur riconducendo la fattispecie alla negotiorum gestio, i corrispettivi dei contratti stipulati dal gestore spetterebbero al soggetto sostituito. 3.− Con atto depositato l’8 novembre 2022, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le sollevate questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate. 3.1.− In via preliminare, l’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di giurisdizione del giudice a quo. Diversamente da quanto ritenuto dall’ordinanza di rimessione, l’accantonamento degli utili nella gestione straordinaria e temporanea troverebbe nel comma 7 dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, la medesima disciplina tanto se la gestione sia stata disposta per finalità di anticorruzione (comma 1, lettera b) quanto per finalità di prevenzione dell’infiltrazione mafiosa (comma 10). Conseguentemente, secondo la difesa statale, per entrambi i casi dovrebbe valere l’affermazione delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, di cui all’ordinanza n. 11576 del 2018, dell’appartenenza della giurisdizione al giudice ordinario, in quanto la controversia sugli utili accantonati concerne un diritto soggettivo corrispondente ad una attività vincolata della pubblica amministrazione. 3.2.– Il Governo nell’affrontare il merito delle questioni illustra, anzitutto, l’interpretazione delle disposizioni censurate. Il legislatore, ad avviso dell’interveniente, distinguerebbe sotto il profilo temporale la cessazione della misura della gestione straordinaria dalla statuizione sulla destinazione del fondo. Il limite temporale dell’accantonamento degli utili sarebbe individuato nel passaggio in giudicato della sentenza che decide sul ricorso per l’annullamento del provvedimento interdittivo comportando, in caso di suo rigetto, la restituzione degli utili all’amministrazione appaltante e, in caso di suo accoglimento, la restituzione all’operatore economico. Nulla, invece, sarebbe previsto in caso di aggiornamento dell’interdittiva ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011. Diversamente, in relazione alla misura della gestione straordinaria il comma 10 dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, ne prevede la cessazione in caso di sentenza di annullamento o di ordinanza cautelare che la sospenda «in via definitiva» e anche in caso di aggiornamento dell’informazione interdittiva. In tale ultimo caso si avrebbe un «ritorno in bonis» dell’operatore, ma non anche la restituzione degli utili dipendente dalla decisione sull’impugnazione dell’interdittiva. Ancora, secondo la difesa statale, le disposizioni censurate distinguerebbero la durata dell’accantonamento, coincidente con il periodo di applicazione della misura, dalla durata dell’obbligo di tenuta del relativo fondo segnata dall’esito dei giudizi di impugnazione dell’interdittiva. In tale contesto normativo, secondo l’interveniente, l’interpretazione dell’art. 32, commi 7 e 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, adottata dalle quinte linee guida a firma del Ministro dell’interno e del Presidente dell’ANAC − riconducibili al potere di regolazione di tale Autorità previsto dall’art. 213 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) − sarebbe coerente con il sistema normativo in materia di prevenzione antimafia e rispettosa del dettato costituzionale. 3.3.– Il Presidente del Consiglio si sofferma, poi, sull’informazione antimafia liberatoria che ha interessato la ricorrente del giudizio principale e della cui portata il TAR non si sarebbe debitamente occupato. Tale provvedimento è emanato, infatti, in esito a nuova istruttoria e nuova valutazione, al ricorrere di sopravvenienze fattuali che non sconfessano la legittimità della precedente valutazione interdittiva e, dunque, ha effetti ex nunc. Coerentemente, dovrebbe ritenersi che l’impresa destinataria del provvedimento di aggiornamento liberatorio non possa essere destinataria degli utili accantonati sotto la gestione commissariale. Nell’arco temporale tra l’adozione dell’interdittiva e il suo aggiornamento vige, infatti, il divieto per l’interdetta di stipulare i contratti con la pubblica amministrazione e di ricevere erogazioni (art. 94, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011) e il principio della caducazione dei contratti in corso di esecuzione. Rispetto a tali regole generali la prosecuzione di specifici contratti prevista dall’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, è deroga prevista in via eccezionale per la necessità e l’urgenza di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la salvaguardia di determinati diritti e interessi (per tutela di diritti fondamentali, per l’integrità dei livelli occupazionali e dell’integrità dei bilanci pubblici). Per l’Avvocatura dello Stato, inoltre, tale cornice normativa avvalorerebbe l’interpretazione del Consiglio di Stato secondo cui all’esecuzione contrattuale eccezionalmente imposta dal provvedimento prefettizio corrispondono non utili, ma solo rimborso di costi e spese. 3.4.– Alla luce dell’illustrato quadro normativo, l’atto di intervento ha resistito alle singole questioni. 3.4.1.– La violazione dell’art. 3 Cost. sarebbe, anzitutto, non fondata sotto entrambi i profili denunciati. In primo luogo, in relazione alla comparazione delle norme censurate con l’art. 94, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011, il giudice rimettente non avrebbe tenuto conto della valenza applicativa ormai nulla di tale norma proprio a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito. Il comma 10 di tale articolo, con la dicitura «ancorché ricorrano i presupposti di cui all’articolo 94, comma 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159», in particolare, sancirebbe la prevalenza della misura prefettizia della gestione straordinaria sulla determinazione della stazione appaltante nella prosecuzione del contratto stipulato e ciò per l’intento di sottrarre all’operatore economico la gestione dei contratti in corso e l’incameramento degli utili. In secondo luogo, la misura della gestione straordinaria e temporanea non risulterebbe irragionevole alla luce del complessivo sistema di prevenzione. Il legislatore, infatti, ha previsto plurimi strumenti con diverso grado di pervasività sulla gestione dell’impresa in ragione della diversa rilevanza dell’infiltrazione criminale. Così, se per l’agevolazione mafiosa di carattere solo occasionale il codice antimafia prevede misure di controllo (il controllo giudiziario dell’art. 34-bis cod. antimafia) e di tutoraggio (la prevenzione collaborativa dell’art. 94-bis cod. antimafia), in cui l’impresa conserva la capacità di contrattare, di eseguire i contratti e di incamerare i corrispettivi, di contro per le ipotesi più gravi è adottabile la gestione temporanea e straordinaria con l’ablazione degli utili riportabile all’incapacità dell’operatore economico. Ragionando diversamente, si garantirebbe alle imprese infiltrate la permanenza nel mercato a detrimento delle imprese sane. 3.4.2.– Le disposizioni censurate per come interpretate dalle quinte linee guida sarebbero, inoltre, rispettose dell’art. 23 Cost. Il legislatore stesso stabilisce che i corrispettivi versati dalle appaltanti non entrino a far parte nella disponibilità dell’operatore, ma siano versati in un fondo cautelare le cui somme non sono pignorabili dai creditori né distribuibili tra i soci. L’ablazione degli utili all’impresa con retrocessione alla appaltante per l’ipotesi di intervenuta definitività del provvedimento interdittivo (per rigetto della sua impugnazione o per mancata impugnazione) troverebbe fondamento nell’evocato parametro in quanto la gestione straordinaria e temporanea «assume i connotati di un munus publicum per il soddisfacimento di interessi pubblici superiori». 3.4.3.– In ultimo, il Presidente del Consiglio dei ministri deduce l’insussistenza della violazione degli artt. 41 e 42 Cost. non essendo rinvenibile, alla luce della ratio dell’istituto, alcuna irragionevole incidenza su iniziativa economica privata e su diritto di proprietà. 4.− In vista dell’udienza pubblica la parte ha depositato memoria, ove ha replicato all’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura dello Stato deducendo essere superabile con il rilievo che il giudice a quo abbia espressamente motivato in modo non implausibile sulla giurisdizione. Nel merito ha dedotto che gli argomenti della difesa statale non superano le ragioni di fondatezza delle questioni sollevate dal TAR.   Considerato in diritto 1.− Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima ter, dubita della legittimità costituzionale di alcune disposizioni inserite nell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, che disciplina il potere del prefetto di disporre un parziale commissariamento delle imprese destinatarie di informazioni interdittive antimafia al fine di dare completa esecuzione ai contratti pubblici loro aggiudicati, in deroga alla regola generale dell’obbligo delle appaltanti di risolvere il contratto al sopravvenire del provvedimento interdittivo. È censurato, in particolare, in riferimento agli artt. 3, 23, 41 e 42 Cost., il combinato disposto dei commi 7 e 10 del citato art. 32, nella parte in cui, «per come interpretato nel cd. “diritto vivente”», dispone che gli utili contrattuali, accantonati dai commissari prefettizi in apposito fondo vincolato, siano «retrocessi» alle stazioni appaltanti in caso di rigetto dell’impugnazione dell’informazione interdittiva anziché corrisposti all’impresa. Il giudice amministrativo solleva le questioni nell’ambito di un giudizio per l’annullamento del provvedimento del prefetto (e degli atti ad esso presupposti) che ha fatto applicazione di tale previsione, nonostante che l’appaltatrice interdetta, tra il rigetto del ricorso avverso l’informativa in primo e in secondo grado, avesse ottenuto “informazione liberatoria” ai sensi dell’art. 91, comma 5, cod. antimafia e, di conseguenza, l’anticipata cessazione della misura della «gestione straordinaria». Secondo il rimettente la retrocessione degli utili sarebbe, anzitutto, contraria al principio di proporzionalità − quanto meno nel caso in cui l’impresa abbia ottenuto la “riabilitazione” con l’aggiornamento in senso liberatorio −, perché il fine di salvaguardia dell’economia legale dai tentativi di infiltrazione mafiosa sarebbe già adeguatamente preservato dal legislatore con l’accantonamento degli utili nell’apposito fondo (e dunque con relativa sottrazione) in costanza di interdittiva. La norma censurata tratterebbe, inoltre, la fattispecie con ingiustificata disparità rispetto alla ipotesi simile della continuazione del rapporto contrattuale con l’impresa interdetta per decisione dell’appaltante, disciplinata dall’art. 94, comma 3, cod. antimafia, nel qual caso «non si dubita» del riconoscimento del corrispettivo contrattuale alla appaltatrice. Ancora, il riversamento del guadagno all’amministrazione contrasterebbe con gli artt. 41 e 42 Cost., incidendo in maniera eccessiva sulla libertà di iniziativa economica privata e sul diritto di proprietà. Infine, l’imposizione all’impresa interdetta dell’ultimazione della prestazione contrattuale costituirebbe una prestazione imposta che, nel silenzio della norma sulla sorte dei relativi utili, non troverebbe nella fonte primaria criteri di determinazione della sua concreta entità, in violazione dell’art. 23 Cost. 2.− In via preliminare, il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di giurisdizione del giudice a quo. La controversia sugli utili accantonati ai sensi del comma 7 dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, apparterrebbe alla giurisdizione del giudice ordinario, concernendo una posizione di diritto soggettivo, per come già affermato dalla Corte di cassazione (Cass., sez. un., n. 11576 del 2018), in relazione alla similare ipotesi della misura di straordinaria gestione disposta per finalità anticorruzione ai sensi del comma 2 dello stesso art. 32. L’accantonamento costituirebbe, infatti, atto vincolato quale conseguenza del commissariamento. 2.1.− L’eccezione non è fondata. È noto che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la sussistenza della giurisdizione costituisce un presupposto della legittima instaurazione del processo principale, la cui valutazione è rimessa al giudice a quo, rispetto al quale spetta a questa Corte una verifica esterna e strumentale al riscontro della rilevanza della questione (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2020 e n. 52 del 2018). Ne consegue che il difetto di giurisdizione del rimettente determina l’inammissibilità della questione, per irrilevanza, solo ove esso sia macroscopico e, quindi, rilevabile ictu oculi (tra le tante, sentenze n. 79 del 2022, n. 65 del 2021 e n. 267 del 2020). Ebbene, nella specie il TAR Lazio afferma la propria giurisdizione sul rilievo che la decisione di retrocessione degli utili adottata dal prefetto è conseguenza (pur automatica) del provvedimento di informativa antimafia e di quello del correlativo “commissariamento”, emessi nell’esercizio di poteri di natura discrezionale, sicché ne condividerebbe il carattere di autoritatività. A tale determinazione potestativa corrisponderebbe, dunque, in capo al privato una posizione di interesse legittimo. L’ordinanza esclude, inoltre, la pertinenza di quanto affermato nella citata ordinanza della Corte di cassazione in ordine alla sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario perché relativa all’accantonamento delle somme in diversa ipotesi di commissariamento, quello “anticorruzione”, come anche sostenuto dal Consiglio di Stato nel parere n. 1567 del 2018. Per contro, il TAR sottolinea come nella motivazione delle stesse sezioni unite si escluda il ricorrere di un diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione quando questa esercita un «potere autoritativo correlato all’esercizio di poteri di natura discrezionale». La motivazione del rimettente sul potere prefettizio in ordine (non all’accantonamento, ma) al versamento degli utili accantonati per effetto della conferma del provvedimento interdittivo e sulla correlativa posizione sostanziale dell’impresa non è implausibile: tanto basta per escludere che la giurisdizione del giudice amministrativo sia ictu oculi manifestamente insussistente (di recente, sentenze n. 152 del 2021, n. 99 e n. 24 del 2020). 3.− L’esame del merito delle questioni sollevate richiede una essenziale ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce la misura della «gestione straordinaria e temporanea dell’impresa» per l’esecuzione del contratto pubblico tramite amministratori (d’ora in avanti, anche: commissariamento del contratto) disposta dal prefetto in esito alla informazione antimafia interdittiva (art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito) e del conseguente necessario accantonamento, in apposito fondo, dell’utile di impresa derivante da quel contratto (art. 32, comma 7, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito). 3.1.− L’informazione antimafia con effetto interdittivo (artt. 84, 92 e 94 cod. antimafia) è provvedimento rivolto all’imprenditore (individuale o collettivo) con cui il prefetto attesta (in termini vincolati, al pari della comunicazione antimafia) la sussistenza di un provvedimento definitivo di prevenzione personale emesso dall’autorità giudiziaria o di una sentenza di condanna (definitiva o anche solo in grado di appello) per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale nonché (in termini tipicamente discrezionali), sulla base degli elementi elencati dal legislatore (artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, cod. antimafia), la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Come rilevato da questa Corte, il provvedimento interdittivo ha natura cautelare e preventiva in funzione di difesa della legalità dalla penetrazione della criminalità organizzata nell’economia (sentenze n. 180 del 2022 e n. 57 del 2020) e determina una particolare forma d’incapacità del destinatario, tendenzialmente temporanea, in riferimento ai rapporti giuridici con la pubblica amministrazione (sentenze n. 118 del 2022 e n. 178 del 2021 che richiamano Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3). Con specifico riferimento ai contratti pubblici, l’informazione interdittiva: a) costituisce causa di esclusione dalla procedura di evidenza pubblica (art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016 e art. 94 del decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36, recante «Codice dei contratti pubblici in attuazione dell’articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici»); b) impedisce l’aggiudicazione per riscontro del difetto dei requisiti di capacità a contrarre (in particolare l’efficacia dell’aggiudicazione ai sensi dell’art. 32 del d.lgs. n. 50 del 2016 e la sua adozione ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 36 del 2023); c) preclude alle stazioni appaltanti di stipulare, approvare o autorizzare contratti o subcontratti (art. 94 cod. antimafia); d) nel caso in cui sopravvenga nel corso dell’esecuzione del contratto, a mente degli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, cod. antimafia, le stazioni appaltanti «recedono». Alla regola generale dell’obbligo di recesso (recte: risoluzione), l’art. 94, comma 3, cod. antimafia giustappone l’eccezionale facoltà per le stazioni appaltanti di proseguire il rapporto contrattuale «nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi». Altra deroga all’ordinario obbligo di “scioglimento del rapporto” con la contraente è costituita proprio dall’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito. Tale disposizione prevede che il prefetto che abbia emesso un’informazione interdittiva, al fine di «assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto ovvero dell’accordo contrattuale, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell’integrità dei bilanci pubblici», possa adottare diverse misure di sottoposizione dell’impresa appaltatrice ad un regime di “legalità controllata”: il rinnovo degli organi sociali, il sostegno e il monitoraggio dell’impresa con nomina di esperti e la «gestione straordinaria e temporanea dell’impresa» con nomina di amministratori. In particolare, con la gestione straordinaria si attribuiscono agli amministratori prefettizi tutti i poteri e le funzioni degli organi di amministrazione dell’operatore economico (cosiddetto commissariamento dell’impresa) o solo quelli necessari all’ultimazione della prestazione contrattuale (cosiddetto commissariamento del contratto), ipotesi quest'ultima verificatasi nel giudizio a quo (combinato disposto dei commi 1, lettera b, e 3, dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, per come modificato dall’art. 12, comma 1, del decreto-legge 10 settembre 2021, n. 121, recante «Disposizioni urgenti in materia di investimenti e sicurezza delle infrastrutture, dei trasporti e della circolazione stradale, per la funzionalità del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, del Consiglio superiore dei lavori pubblici e dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali», convertito, con modificazioni, nella legge 9 novembre 2021, n. 156). La misura prefettizia cessa in via naturale con l’ultimazione della prestazione contrattuale, ma il legislatore ne prevede la definizione anticipata al sopravvenire di provvedimenti favorevoli all’impresa costituiti dall’annullamento dell’informazione interdittiva, dichiarato con sentenza passata in giudicato, dalla sua sospensione cautelare disposta con ordinanza definitiva (cosiddetto giudicato cautelare), ovvero dall’aggiornamento della predetta informazione in senso liberatorio, ai sensi dell’art. 91, comma 5, cod. antimafia, per il venir meno degli elementi che avevano fondato il riscontro dei tentativi di infiltrazione mafiosa (art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito). 3.2.− Quanto al rapporto tra la prosecuzione del contratto per determinazione dell’appaltante (art. 94, comma 3, cod. antimafia) e il commissariamento prefettizio, è lo stesso comma 10 dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, che dirime il concorso tra norme in termini di prevalenza della misura prefettizia (essa è disposta «ancorché ricorrano i presupposti di cui all’articolo 94, comma 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159»). 3.3.− Per quanto di interesse è necessario, ancora, rammentare che il commissariamento può essere anche disposto, in virtù dell’art. 32, commi 1 e 2, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, dal prefetto su proposta del Presidente dell’ANAC in caso di pendenza di un procedimento penale per una serie di reati contro la pubblica amministrazione o se sia acquisita notizia di «situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali» attribuibili alla aggiudicataria del contratto pubblico (cosiddetto commissariamento anticorruzione). 3.4.− Per entrambe le gestioni straordinarie è previsto che gli amministratori prefettizi accantonino l’utile dell’impresa derivante dalla esecuzione dei contratti da loro gestiti in apposito fondo che «non può essere distribuito né essere soggetto a pignoramento» sino all’esito dei giudizi penali, nel caso del commissariamento anticorruzione, o sino all’esito dei giudizi amministrativi di impugnazione dell’interdittiva (di merito e cautelare), nel caso del commissariamento antimafia (art. 32, comma 7, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito). <p>In proposito, con specifico riguardo al commissariamento antimafia, deve essere rimarcata la previsione, da parte del combinato disposto dei commi 7 e 10, di due distinte cesure temporali: quella di durata della misura (per ultimazione della prestazione contrattuale o per effetto del sopravvenire dei suddetti provvedimenti favorevoli all’impresa), cui è correlato l’obbligo di accantonamento degli utili in apposito fondo, e quella di indisponibilità del fondo (per effetto della definizione del contenzioso amministrativo sulla interdittiva). Il diverso termine può far sì che la permanenza del fondo vincolato possa oltrepassare la fine della misura: così nel caso in cui il facere dell’appaltatore sia ultimato, ma non lo sia il giudizio amministrativo, o così nel caso (come in quello del giudizio a quo) in cui l’impresa abbia ottenuto l’aggiornamento liberatorio e, dunque, abbia riacquisito ex nunc la capacità a contrarre e a eseguire la prestazione contrattuale, ma sia ancora sub iudice l’originaria interdittiva. In sede applicativa, è stato rilevato il silenzio del comma 7 dell’art. 32 in ordine alla destinazione degli utili accantonati nel fondo all’esito definitivo dei giudizi amministrativi sull’informazione interdittiva cui la misura di gestione straordinaria è collegata: così, tanto le seconde linee guida ANAC («per l’applicazione delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese nell’ambito della prevenzione anticorruzione ed antimafia» adottate dal Ministro dell’interno e dal Presidente dell’ANAC il 27 gennaio 2015), che hanno recepito sul punto il parere dell’Avvocatura generale dello Stato (del 23 dicembre 2014), quanto le quinte linee guida ANAC che hanno recepito il parere del Consiglio di Stato n. 1567 del 2018. Nessun dubbio esegetico in proposito si è posto per l’ipotesi in cui venga annullato o sospeso in via definitiva il provvedimento interdittivo: argomentando dal comma 10 e dagli effetti retroattivi del provvedimento giurisdizionale, la gestione temporanea perde immediatamente e retroattivamente il suo presupposto, al pari, di conseguenza, del meccanismo accessorio del congelamento degli utili, i quali vanno corrisposti all’impresa secondo le originarie previsioni contrattuali. Al contrario, discussa è la sorte delle somme giacenti nel fondo nell’opposta ipotesi di rigetto definitivo (o diniego definitivo della sospensiva) dell’impugnazione dell’informazione interdittiva. L’interrogativo non ha, anzitutto, trovato soluzione nella “logica funzionale”. Infatti, mentre nel commissariamento anticorruzione il congelamento delle somme è, pacificamente, strumentale a garantire l’attuazione della confisca eventualmente emessa in caso di sentenza di condanna per i reati che lo hanno giustificato, nel commissariamento antimafia alla conferma giurisdizionale del provvedimento antimafia non consegue una specifica misura “ablativa” che vada a soddisfarsi su quanto cautelativamente accantonato. L’accantonamento è stato, infatti, definito «fine a sé stesso». Piuttosto, l’Autorità anticorruzione e il Consiglio di Stato in sede consultiva hanno ricavato dall’inquadramento sistematico delle disposizioni la regola della retrocessione degli utili e, dunque, il riversamento delle somme accantonate nel fondo in favore dell’amministrazione contraente o del soggetto finanziatore dell’investimento pubblico. Il parere consultivo e le quinte linee guida hanno sostenuto l’operatività di tale meccanismo in base al seguente ragionamento: in esito all’interdittiva, per l’incapacità giuridica dell’operatore economico che ne consegue, si ha una automatica risoluzione del contratto e il provvedimento prefettizio di commissariamento diviene nuova e unica fonte della obbligazione di ultimazione dell’originario programma negoziale. Ne deriva in capo all’impresa, in termini pubblicistici, una prestazione imposta «nella logica dell’art. 23 della Costituzione» e, in termini civilistici, una obbligazione rapportabile a una gestione di affari altrui; correlativamente viene meno l’obbligo contrattuale del corrispettivo in capo all’appaltante con obbligo di restituzione all’impresa dei soli costi sopportati «per portare a compimento, nell’interesse pubblico, il programma negoziale» e con «(definitiva) ablazione del profitto» (in virtù degli artt. 2030, primo comma, e 1713, primo comma, cod. civ. e della «logica “compensativa” [della] prestazione personale imposta»). Si ritiene, così, di evitare che l’operatore economico interdetto consegua un arricchimento patrimoniale in virtù di un proprio comportamento antigiuridico. 4.− La conclusione esegetica della retrocessione degli utili cui sono pervenuti il Consiglio di Stato e le linee guida ANAC è stata dal TAR rimettente assunta a diritto vivente e sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale di questa Corte. Alla riportata interpretazione il giudice a quo afferma di ritenersi vincolato per l’autorevolezza degli organi che l’hanno resa, perché seguita da una sentenza del giudice amministrativo (Consiglio di Stato, n. 392 del 2019) e da una ordinanza del giudice ordinario (Tribunale di Napoli Nord, 19 ottobre 2020) nonché per l’attinenza della questione al delicato settore della prevenzione antimafia. Questa Corte ritiene, per contro, che l’isolato precedente giurisdizionale del Consiglio di Stato e il riferimento ad unico precedente di merito del giudice ordinario non danno luogo a quella interpretazione giurisprudenziale consolidata, perché reiterata e uniforme, idonea ad integrare un diritto vivente (ex plurimis, sentenze n. 54 del 2023, n. 243 e n. 20 del 2022, n. 192 e n. 123 del 2020, n. 141 del 2019 e n. 122 del 2017). Neppure conducono in senso diverso le linee guida ANAC, che − prive di valore vincolante, in difetto di apposita “delega di disciplina” da parte di fonti primarie e di natura regolamentare (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 3 marzo 2021, n. 1791 e sezione prima, parere 17 ottobre 2019, n. 2627) – sono atti di indirizzo interpretativo, fatte proprie dai provvedimenti dei prefetti e che hanno, al più, dato origine a una prassi amministrativa alla quale da lungo tempo è stato negato autonomo valore di diritto vivente (sentenza n. 83 del 1996 e ordinanza n. 188 del 1998). 5.− Nel merito le questioni di legittimità costituzionale non sono fondate, nei termini che seguono. 5.1.− Ritiene, infatti, questa Corte che diversa sia l’interpretazione da attribuire alle disposizioni censurate, secondo il loro corretto inquadramento sistematico e alla luce dei canoni costituzionali (sentenze n. 65 del 2022, n. 206 del 2015, n. 198 del 2003, n. 316 del 2001 e n. 113 del 2000). E tale diversa interpretazione consente di superare i prospettati dubbi di illegittimità costituzionale. 5.1.1.− Più elementi comprovano, anzitutto, che l’originario rapporto contrattuale prosegua senza essere risolto. In tal senso depone la lettera dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, che espressamente prevede la gestione straordinaria come misura (sull’impresa) strumentale al «completamento dell’esecuzione del contratto» (comma 10) e l’utile accantonato come «derivante dalla conclusione de[l] contratt[o]» (recte: della prestazione contrattuale) (comma 7). Ancora, dal punto di vista sistematico, la determinazione prefettizia di cui all’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, va equiparata alla determinazione della stazione appaltante di cui all’art. 94, comma 2, cod. antimafia, in quanto entrambe giustificano per ragioni di pubblico interesse l’eccezionale prosecuzione del rapporto contrattuale in deroga alla regola dell’obbligo per le appaltanti di risolvere il contratto al sopravvenire dell’interdittiva. L’equivalente protrazione dell’accordo nelle due ipotesi derogatorie non solo è ricavabile dalla citata prevalenza per specialità della prima misura sulla seconda, ma risulta anche esplicitata in un recente intervento legislativo: l’art. 3 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, nel consentire la stipula degli appalti sulla base di informative liberatorie provvisorie (comma 2), obbliga ancora le amministrazioni alla risoluzione in caso di pervenimento di informazioni interdittive definitive, «fermo restando quanto previsto dall’articolo 94, commi 3 e 4, [cod. antimafia], e dall’articolo 32, comma 10» del d.l. n. 90 del 2014, come convertito (comma 4). Infine, la conclusione cui questa Corte perviene in via ermeneutica trova ulteriore conforto in quelle pronunce del giudice amministrativo che ritengono la riassunzione della titolarità dell’esecuzione del contratto in corso, in caso di riacquisizione della capacità da parte dell’operatore economico per annullamento o revoca dell’interdittiva, o per effetto della ammissione alla misura del «controllo giudiziario» (così, Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 25 luglio 2019, n. 5268). 5.1.2.− Se pur, dunque, è certa la prosecuzione del rapporto tra amministrazione e impresa in virtù dell’originario contratto, altrettanto vero è che questo subisce mutamenti sia sul versante soggettivo sia su quello oggettivo. Dal punto di vista soggettivo, la prestazione contrattuale è posta in essere dall’impresa con i propri mezzi, ma è eseguita sotto la “direzione e vigilanza” degli amministratori prefettizi. Dal punto di vista oggettivo, inoltre, la “ratio” funzionale del rapporto contrattuale viene a permearsi del pubblico interesse. Infatti, da un lato, il mantenimento del contratto è giustificato non dall’essenzialità per l’interesse pubblico della prestazione contrattuale “di per sé” (come nel caso dell’art. 94, comma 3, cod. antimafia), bensì dall’essere questa a sua volta mezzo di soddisfazione di selezionati e preminenti interessi pubblici (individuati nella continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nella salvaguardia dei livelli occupazionali o nell’integrità dei bilanci pubblici). Dall’altro lato, l’attività di temporanea e straordinaria gestione dell’impresa è espressamente definita «di pubblica utilità» dal comma 4 dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito. Proprio la significativa incidenza del commissariamento sullo svolgimento del contratto non consente di ricondurre la vicenda in termini di modifica solo soggettiva per sopravvenuta gestione (da parte degli amministratori prefettizi) dell’affare altrui (dell’imprenditore interdetto). D’altra parte, l’inquadramento della vicenda nella negotiorum gestio porterebbe a conseguenze opposte a quelle prospettate dall’interpretazione che il rimettente ha censurato: i commissari, gravati dei medesimi obblighi del mandatario (art. 2030 cod. civ.), dovrebbero rimettere alla gerita impresa il corrispettivo ricevuto dalla stazione appaltante (art. 1713 cod. civ.) al netto di spese (art. 2031 cod. civ.) e compenso (artt. 1709 e 2031 cod. civ.). 5.1.3.− Nel descritto rinnovato contesto contrattuale, anche il corrispettivo originariamente pattuito risulta inciso dalla sopravvenuta misura prefettizia ove divenga definitiva l’interdittiva su cui è stata fondata. Il sinallagma contrattuale si trova, infatti, alterato da vicende imputabili alla contraente privata cui quella pubblica ha dovuto porre rimedio. È, invece, nella lettura sistematica delle disposizioni censurate con quelle relative all’incidenza dell’interdittiva sui contratti in corso che si rinviene la rideterminazione del dovuto nel contratto conformato dall’interesse pubblico. Posto che dall’originario corrispettivo va detratto il compenso liquidato ai commissari (art. 32, comma 7, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito), è nell’art. 94, commi 2 e 3, cod. antimafia che deve essere rivenuta la regola di rideterminazione del quantum della prestazione resa nel regime di “legalità controllata”. Le indicate norme regolano, infatti, le conseguenze della sopravvenienza dell’interdittiva sui contratti pubblici in corso e all’appaltatore riconoscono espressamente, per il caso della “ordinaria” scelta dell’amministrazione di risolvere il contratto, «il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite» dall’amministrazione. La medesima quantificazione si ritrova ribadita nel comma 3 dell’art. 93 cod. antimafia e nel menzionato art. 3 del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, e coincide con quella dettata per le risoluzioni conseguenti al sopravvenire della comunicazione antimafia (art. 88 cod. antimafia). Tale regime pecuniario si discosta da quello previsto dal codice dei contratti pubblici per le ordinarie ipotesi di risoluzione pubblicistica, che riconosce all’appaltatore il prezzo delle prestazioni regolarmente eseguite decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto (art. 108 del d.lgs. n. 50 del 2016 e art. 122, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 36 del 2023). L’art. 94, comma 3, cod. antimafia non detta a sua volta espressamente la regola del compenso per l’ipotesi, ivi prevista in termini alternativi, seppur residuali, in cui l’amministrazione si determini per la prosecuzione del contratto. In proposito (diversamente da quanto affermato dal rimettente) non si rinvengono pronunce giurisprudenziali o prassi amministrative, ma alla fattispecie può agevolmente estendersi la regola dettata nella disposizione che la precede e a cui è legata: le opere interamente eseguite per volontà dell’amministrazione vanno ugualmente compensate nel loro valore nei limiti dell’utilità ricavata dalla controparte. Nel caso del commissariamento tale regola vale a maggior ragione: se il legislatore, nell’ipotesi in cui l’amministrazione si determini a recidere il rapporto con l’impresa interdetta (in primis per tentativi di infiltrazione pregressi, ma successivamente acclarati), riconosce all’appaltatrice per la prestazione, sino ad allora eseguita in autonomia, il relativo valore nei limiti dell’utilità, a fortiori il medesimo importo deve essere riconosciuto all’impresa che, per valutazione discrezionale della stessa amministrazione (prefettizia), porti a termine la prestazione con propri mezzi, ma nel regime di legalità controllata. Al venir meno del vincolo di indisponibilità del correlato fondo, dunque, andrà versato all’operatore economico non l’intero guadagno lì accantonato (costituito dalla differenza tra il prezzo e i costi già corrisposti), bensì il minor importo dato dal valore della prestazione nei limiti dell’utilità conseguita dall’amministrazione, al netto dei costi già versati. Ciò, comunque, sempre salve le eventuali ritenzioni per compensazioni con somme dovute all’appaltante dall’appaltatrice per risarcimenti da inadempimento o per confische penali (artt. 240, 240-bis, 416-bis, comma 7, cod. pen.) o confische della prevenzione (artt. 24 e 34, comma 7, cod. antimafia), se l’interdittiva è collegata a vicende di rilevanza penale o della prevenzione giurisdizionale. 5.1.4.− Il riconoscimento del compenso nei limiti dell’utilità conseguita dall’amministrazione è coerente, del resto, per diversi profili con i princìpi sottesi alla logica del sistema, i quali si rinvengono anche nell’istituto dell’arricchimento ingiustificato. In primo luogo, gli utili accantonati in costanza di commissariamento non costituiscono di per sé guadagni illecitamente prodotti dall’operatore economico e rispetto ai quali l’ordinamento reagisce con specifiche misure di neutralizzazione dell’arricchimento, come con le misure ablatorie penali o della prevenzione (sentenza n. 24 del 2019): essi, piuttosto, si producono per richiesta dell’amministrazione e sotto il suo controllo. In secondo luogo, il riconoscimento del valore della prestazione compiuta dall’imprenditore interdetto nei limiti dell’utilità dell’amministrazione che ne trae vantaggio si può accostare (con i dovuti distinguo) a quelle fattispecie in cui il legislatore codicistico, per «trovare in un’ottica redistributiva un equilibrio tra le prestazioni (e comunque tra i due patrimoni)», compensa lo spostamento patrimoniale del “depauperato” in favore dell’“arricchito” con il suo valore (del bene o del suo uso o il valore della prestazione ex artt. 935, 936, 939, 940 e 1150 cod. civ.) anziché con la sola diminuzione subita (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 11 settembre 2008, n. 23385). Infine, tramite la previsione del comma 2 dell’art. 94 cod. antimafia (e con quella identica dell’art. 92, comma 3), il legislatore intende riconoscere «al soggetto interdetto [...] il diritto a vedersi corrisposto un compenso limitato all’utilità conseguita dall’amministrazione, onde evitare che quest’ultima, dall’esecuzione dell’opera, possa trarre un ingiustificato arricchimento» (così, Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenze 6 agosto 2021, n. 14 e 26 ottobre 2020, n. 23). 5.1.5.− La predetta interpretazione delle disposizioni censurate, diversamente dalla regola della retrocessione degli utili, ipotizzata dal giudice a quo, trova anche riscontro nel dato letterale: al venir meno del vincolo di indisponibilità del fondo, il comma 7 dell’art. 32 prevede che quell’importo vada «distribuito», con significativo utilizzo del linguaggio codicistico adottato per il pagamento degli utili o dividendi tra soci (artt. 2303, 2433, e 2433-bis e 2478-bis, cod. civ.). Ancora, in quel momento le somme tornano soggette al regime ordinario di aggredibilità («pignora[bilità]») da parte dei creditori dell’imprenditore, altrimenti soppiantati da una non prevista acquisizione al soggetto pubblico. 5.2.− Questa ricostruzione ermeneutica delle disposizioni censurate supera ogni profilo di contrasto con i parametri evocati (artt. 3, 23, 41 e 42 Cost.) oltre che con il pur pertinente principio di legalità. 5.2.1.− In primo luogo, il riversamento delle somme accantonate in favore dell’impresa interdetta che le ha prodotte, con sola riduzione fondata sulla dinamica contrattuale secondo il combinato disposto dell’art. 32, comma 7, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, e dell’art. 94, comma 2, cod. antimafia, trova chiaro fondamento in norme primarie. Ciò, innanzi tutto, integra quella «base legale» richiesta dal dettato costituzionale agli artt. 41 e 42 Cost. (per tutte, rispettivamente, sentenze n. 113 del 2022 e n. 24 del 2019), oltre che dall' art. 1 del Protocollo addizionale CEDU, secondo l’interpretazione datane dalla Corte EDU, per fondare i limiti alla libertà di impresa e al diritto di proprietà. In più, diversamente dall’ipotizzato meccanismo della retrocessione in favore dell’amministrazione degli utili accantonati, l’interpretazione adottata esclude la configurabilità di una ablazione amministrativa del ricavato che, pur giustificata dalla finalità della prevenzione, risulti priva della necessaria previsione legislativa e, dunque, in contrasto con le disposizioni costituzionali e convenzionali (artt. 41 e 42 Cost. e art. 1 Prot. addiz. CEDU; ancora sentenza n. 24 del 2019). Del pari, in applicazione del principio di legalità posto a presidio dell’attività dell’amministrazione (sentenze n. 12 del 2019, n. 115 del 2011 e, per lo specifico caso dell’informazione antimafia, n. 57 del 2020), si evita di estendere gli effetti restrittivi dell’interdittiva oltre ai casi legislativamente previsti: il pagamento del valore nei limiti dell’utilità per la prestazione contrattualmente resa è erogazione pubblica sottratta al divieto sancito dall’art. 94, comma 1, cod. antimafia in quanto espressamente fatta salva dagli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, cod. antimafia (Consiglio di Stato, sentenze n. 14 del 2021 e n. 23 del 2020). 5.2.2.− Sotto diverso angolo visuale, l’interpretazione adottata consente di superare ogni dubbio di violazione dell’art. 23 Cost. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la riserva di legge relativa posta da tale disposizione costituzionale è rispettata quando la fonte primaria stabilisce sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dai pertinenti precetti legislativi (sentenze n. 139 del 2019, n. 69 del 2017, n. 83 del 2015 e n. 115 del 2011). Orbene, sulla base della adottata interpretazione, il facere richiesto all’impresa non trova imposizione pubblicistica, avendo la sua fonte nell’originario contratto, e inoltre questo, come il suo “valore”, sono determinati da norma primaria nel rispetto della riserva di legge in parola. 5.2.3.− Ancora, il riconoscimento all’imprenditore del compenso, pur ridotto, evita la configurabilità di irragionevoli compressioni della libertà di impresa e del diritto di proprietà. Costante è, in proposito, la giurisprudenza di questa Corte nell’affermare che la restrizione della libertà di iniziativa economica è giustificata dall’utilità sociale, ma alla condizione che gli interventi del legislatore non la perseguano mediante «misure palesemente incongrue» (ex plurimis, sentenze n. 150 e n. 113 del 2022, n. 218 del 2021, n. 85 del 2020) e che sussista un «giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e l’ingerenza nel diritto individuale al godimento dei beni (da ultimo, sentenza n. 213 del 2021). Si è visto che la misura del commissariamento è eccezionale deroga all’incapacità dell’impresa interdetta ad intrattenere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione per ragioni di interesse generale: essa è prevista per assicurare il completamento di prestazioni contrattuali di peculiare rilievo pubblicistico ed è bilanciata dall’intervento (anche solo parziale) sull’assetto di governo dell’impresa ad argine del rischio di infiltrazione della criminalità organizzata nella gestione del contratto. Orbene, con la determinazione prefettizia è richiesta all’imprenditore l’esecuzione di attività gravose e protratte nel tempo, con distoglimento dei relativi mezzi aziendali a lui necessari per intraprendere o svolgere attività imprenditoriali nei confronti dei privati di cui, nonostante l’interdizione, rimane capace o che potrebbe altrimenti mettere a frutto: l’acquisizione pubblica delle «utilità» prodotte con il compendio aziendale e sotto “controllo pubblico”, senza alcun compenso – cui si perverrebbe sulla base dell’interpretazione prospettata dal rimettente − darebbe luogo a misura che, aggiungendosi agli effetti restrittivi dell’interdittiva, andrebbe a comprimere in termini sproporzionati il diritto di proprietà e la libertà di iniziativa economica. Il congelamento degli utili per il tempo di durata della misura commissariale e sino al successivo momento della definizione del giudizio amministrativo, del resto, costituisce già sufficiente garanzia per l’interesse pubblico, in quanto assicura sia l’esatto adempimento sia la realizzabilità delle misure dei sequestri e delle confische, anche solo della prevenzione, laddove ne ricorressero i relativi presupposti. 6.− In conclusione, le disposizioni censurate si prestano a una interpretazione diversa da quella posta a base dei prospettati dubbi di legittimità costituzionale e conforme a Costituzione; da qui la non fondatezza, nei sensi indicati, delle questioni sollevate.   Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 32, commi 7 e 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 23, 41 e 42 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima ter, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 2023. F.to: Silvana SCIARRA, Presidente Filippo PATRONI GRIFFI, Redattore Valeria EMMA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2023. Il Cancelliere F.to: Valeria EMMA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO DECIMA CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Damiano Spera ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 63553/2019 promossa da: (...) (C.F. (...)), rappresentato e difeso dall'avvocato (...) (...) (C.F. (...)), rappresentata e difesa dall'avvocato (...) (...) (C.F. (...)), rappresentata e difesa dall'avvocato (...) ATTORI contro (...) SPA (C.F. (...)), rappresentata e difesa dall'avvocato BR.MA. (...) (C.F. (...) ), contumace CONVENUTI CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Breve svolgimento del processo. Con atto di citazione ritualmente notificato, (...), (...) e (...), rispettivamente madre, fratello e sorella del signor (...), convenivano in giudizio (...) s.p.a. e il signor (...), quali assicuratore e proprietario/conducente dell'automobile (...) tg. (...), per sentirli condannare al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali, diretti ed indiretti, a qualsiasi titolo subiti e subendi, derivanti dal sinistro stradale occorso in data 22 aprile 2017 ore 18.30 in Sabbioneta (MN), sulla SP 420 al km 30 + 8,900, nel quale era deceduto il signor (...). (...) s.p.a. si costituiva in giudizio contestando la responsabilità del proprio assicurato, nonché la sussistenza dei danni reclamati. Il Giudice dichiarava la contumacia di (...). Successivamente al deposito delle memorie ex articolo 183 sesto comma c.p.c., ed espletate le prove testimoniali e per interpello del convenuto, il Tribunale disponeva lo svolgimento di una CTU cinematica e una CTU medico legale. Seguiva successivamente una integrazione del quesito in merito alla CTU cinematica, all'esito della quale veniva disposta udienza di precisazione delle conclusioni. All'udienza del 31 gennaio 2023, le parti precisavano le conclusioni come da verbale di causa e il Tribunale tratteneva la causa in decisione, assegnando i termini di legge ex articolo 190 c.p.c.. 2. Con riferimento all'an debeatur. La relazione di consulenza tecnica d'ufficio cinematica ha concluso evidenziando come entrambi i mezzi hanno concorso nella causazione dell'incidente. In particolare, risulta accertato che "il sinistro è indubitabilmente originato dalla condotta del conducente della (...), sig. (...), il quale ha invaso l'opposto senso di marcia. È altamente probabile che tale condotta sia stata conseguenza delle condizioni di ebrezza alcolica in cui si trovava il soggetto. La condotta del conducente della (...) è stata altresì negligente ed imprudente, per aver mantenuto una velocità di circa 100 km/h (...) superiore al limite nel tratto interessato", limite che era di 90 km/h. Il Giudice disponeva supplemento di CTU cinematica al fine di verificare l'ipotesi che, se la velocità dell'automobile del convenuto fosse stata contenuta entro i limiti consentiti di 90 km/h, avrebbe determinato un esito differente, non mortale, del sinistro. Il CTU ha quindi chiarito che: "se l'urto fosse comunque avvenuto, avendo la (...) velocità all'urto di 79 km/h, anziché 86 km/h, è certo che la potenzialità lesiva dell'incidenza (proporzionale all'energia d'urto, a sua volta proporzionale al quadrato della velocità) sarebbe stata inferiore, avendo la (...) un'energia cinetica all'urto di circa il 35% inferiore. Ad una minore velocità all'urto sarebbe conseguita un'azione impulsiva inferiore sulla (...), ed una conseguente minor accelerazione sul corpo del conducente. Il (...), non indossava le cinture di sicurezza, ciò che lo rendeva comunque molto vulnerabile in un urto frontale, anche nel caso di intensità inferiore". Per quanto riguarda la disposta CTU medico legale, volta a rispondere alla domanda se il corretto uso delle cinture di sicurezza avrebbe determinato un esito non mortale del sinistro, il prof. (...) ha così risposto: "dalla Letteratura emerge in maniera indiscutibile che - in generale - l'uso della cintura di sicurezza riduce in maniera considerevole il rischio di lesioni gravi/mortali (ed ancor più se si associa a questa il dispositivo airbag). Ciò detto, nella valutazione dei casi concreti risulta però indispensabile la combinata conoscenza di dati cinematici/ biomeccanici e clinico/autoptici da integrare con le conoscenze epidemiologiche/biostatistiche disponibili, al fine di cercare di giungere a determinazioni precise ed affidabili. Purtroppo, come anticipatamente precisato, nel caso in oggetto i dati tecnici disponibili (esigui e non completi quelli clinici ed assenti quelli autoptici) sono insufficienti al fine di poter fornire indicazioni dirimenti al riguardo. Si è detto che l'andamento della vicenda clinica induce a valorizzare come più probabile - in considerazione dei tempi e dei modi in cui ebbe a determinarsi il decesso - una prevalenza della componente anemizzante, senza potersi però esprimere quali-quantitavamente sulle precise lesioni che la sostenevano. I dati strumentali disponibili localizzano queste ultime in sede addominale, distretto che però può essere traumatizzato e riportare lesioni interne anche nel caso di corretto utilizzo della cintura di sicurezza, così da non poter consentire di prospettare -nello specifico caso in discussione - una motivata e perentoria graduazione tecnica di probabilità causale". Riassumendo, pare dimostrato come l'incidente si sia verificato per prevalente colpa del signor (...), che guidando in stato di ebbrezza, ha invaso la corsia di marcia in senso opposto, costringendo il signor (...) ad una manovra di emergenza che si è comunque conclusa con l'impatto dall'esito fatale. Il mancato uso delle cinture di sicurezza hanno certamente aumentato le probabilità di esito mortale del sinistro stesso, ma senza un grado di certezza tale da escludere che l'evento morte non si sarebbe comunque verificato, stante che il decesso, probabilmente, è stato determinato non tanto dall'urto della testa del conducente contro il parabrezza, piuttosto dalle lesioni da questo subite nella parte addominale, parte che sarebbe rimasta lesa, con esiti fatali, anche in ipotesi di corretto impiego delle cinture di sicurezza. Dall'altra, risulta altresì accertato che il signor (...) stesse conducendo la propria autovettura oltre i limiti di velocità, ponendosi in ogni caso come soggetto corresponsabile del relativo sinistro, anche se in misura causale del tutto inferiore rispetto al comportamento del signor (...). Orbene, il comportamento del signor (...), con le precisazioni sopra riportate, seppur non idoneo ad interrompere del tutto il nesso di causa tra la condotta del conducente dell'autovettura e l'evento dannoso, integra in ogni caso, ai sensi dell'art. 1227 c.c., primo comma, un concorso colposo nella causazione del danno. Bisogna premettere che, ai sensi dell'art. 2054 comma 1 cod. civ. il conducente è responsabile dei danni cagionati dalla circolazione del veicolo "se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno" e, nel caso di scontro tra veicoli, "si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno". Incombeva, dunque, ad entrambe le parti l'onere di superare la presunzione di colpa, provando una condotta prudente e diligente nella fattispecie concreta. Ebbene, detta presunzione non risulta superata in considerazione del costante principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione (di recente, Cass. Civ. n. 30338 del 2017) relativo alla necessità che sia data prova non solo dell'elemento negativo della condotta del conducente del veicolo, ossia del non aver violato specifiche norme di legge o di diligenza, prudenza e perizia, con particolare riguardo alla velocità idonea in relazione allo stato dei luoghi, ma anche dell'elemento positivo, consistente nel concreto e attivo tentativo di evitare in ogni modo il sinistro, approntando idonee manovre di emergenza. Dalla descritta dinamica dell'incidente risulta, quindi, non del tutto superata la presunzione di responsabilità ex art. 2054 c.c. citato e pertanto, alla luce di tutte le argomentazioni esposte, appare adeguato alla fattispecie concreta riconoscere al signor (...) una corresponsabilità nella misura del 85% nella produzione dell'incidente di cui è causa e alla parte convenuta contumace una corresponsabilità del 15%. 3. In punto di quantum debeatur, si osserva quanto segue. 3.1. In relazione al danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, le parti attrici lamentano il pregiudizio subito con la morte del signor (...), richiedendo, a tal fine, il relativo risarcimento del danno in loro favore, nella loro qualità, rispettivamente, di madre, fratello e sorella dello stesso. Sul punto questo Giudice ritiene di dover confermare quanto già esposto nella propria precedente sentenza Tribunale di Milano n. 6059/2022 (ex art. 118 disp. att. c.p.c.). Ebbene, già avvertivano le note cd. "sentenze gemelle" del 2003 (Cass., sent. n. 8827/2003 e 8828/2003) che "il soggetto che chiede "iure proprio" il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta l'incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare (la cui tutela "ex" art. 32 Cost., ove risulti intaccata l'integrità psicofisica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall'interesse all'integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all'art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l'interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.". Anche nelle successive cd. "sentenze San Martino" del 2008 le Sezioni Unite della Cassazione affermavano: "la perdita del prossimo congiunto cagiona pregiudizi di tipo esistenziale, i quali sono risarcibili perché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona: nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), il pregiudizio di tipo esistenziale è risarcibile appunto perché consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.)". Giova premettere che, con la voce di danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, si deve intendere quel pregiudizio, subito dal prossimo congiunto, che va ad incidere tanto sul profilo della sofferenza interiore soggettiva, quanto sul piano dinamico-relazionale (Cass. n. 28989/2019). Per quanto concerne più specificamente la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, occorre ricordare quanto segue. In mancanza di parametri di quantificazione analitica, il danno da perdita del rapporto parentale, così come altre ipotesi di danno non patrimoniale, è liquidabile esclusivamente mediante il ricorso a criteri equitativi a norma del combinato disposto degli artt. 1226 e 2056 c.c. L'art. 1226 c.c., nel prevedere che, se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, "per una parte risponde alla tecnica della fattispecie, quale collegamento di conseguenze giuridiche a determinati presupposti di fatto, per l'altra ha natura di clausola generale, cioè di formulazione elastica del comando giuridico che richiede di essere concretizzato in una norma individuale aderente alle circostanze del caso". Più precisamente, "quale fattispecie, l'art. 1226 richiede sia che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, la prova del danno nel suo ammontare, sia che risulti assolto l'onere della parte di dimostrare la sussistenza e l'entità materiale del danno medesimo. Quale clausola generale, l'art. 1226 viene a definire il contenuto del potere del giudice nei termini di "valutazione equitativa"" (così Cass., sentenza n. 10579/2021 e, nello stesso senso, Cass. sentenza n. 28990/2019). Nella concretizzazione della clausola generale dell'equità in sede di quantificazione del danno non patrimoniale, il giudice di merito deve perseguire il massimo livello di certezza, uniformità e prevedibilità del diritto, così da assicurare la parità di trattamento di cui l'equità integrativa è espressione. Difatti, "l'adozione della regola equitativa di cui all'art. 1226 c.c., deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti uffici giudiziari" (Cass. n. 10579/2021; Cass. n. 12408/2011). Proprio per assicurare l'esigenza di uniformità di trattamento in situazioni analoghe e, quindi, di certezza del diritto, sono state predisposte delle Tabelle - prima di origine pretoria, poi anche di produzione legislativa - che individuano parametri uniformi per la liquidazione del danno non patrimoniale. Tanto più diffusa è l'applicazione sul territorio nazionale di un'unica tabella di liquidazione del danno, tanto maggiore è l'auspicata uniformità di trattamento, in ossequio al disposto dell'art. 3 Cost. La giurisprudenza di legittimità ha, però, recentemente rilevato che non ogni criterio di quantificazione del danno è in grado di assicurare la prevedibilità nell'esercizio della discrezionalità rimessa al giudice di merito. Sicuramente tale finalità è assicurata dall'adozione del sistema del punto variabile, il quale consente di pervenire ad una "conversione della clausola generale in una pluralità di ipotesi tipizzate risultanti dalla standardizzazione della concretizzazione giudiziale della clausola di valutazione equitativa del danno", con ciò definendo "un complesso di caselle entro le quali sussumere il caso, analogamente a quanto avviene con la tecnica della fattispecie, in funzione dell'uniforme risoluzione delle controversie" (Cass. n. 10579/2021). A tale tecnica di liquidazione del danno si fa ricorso nel sistema tabellare inaugurato dalle Tabelle milanesi con riferimento al danno cd. biologico: si individua la misura standard del risarcimento per l'appunto tramite il sistema del punto variabile, misura che può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. Il sistema tabellare milanese disciplinante la quantificazione del danno biologico ha trovato larga diffusione sull'intero territorio nazionale, consentendo, così, di perseguire l'esigenza di prevedibilità ed uniformità delle liquidazioni giudiziali, tanto da veder riconosciuto la sua natura paranormativa (recentemente Cass. n. 8532/2020, ma già nella citata sentenza Cass. n. 12408/2011 si attribuiva alla tabella milanese "una sorta di vocazione nazionale". Per quanto qui di rilievo, occorre ricordare che l'Osservatorio sulla giustizia civile di Milano aveva già predisposto un sistema tabellare che fornisce parametri uniformi per la liquidazione di un'altra tipologia di danno non patrimoniale, nella specie quello da perdita del rapporto parentale. Anche tale tabella ha avuto larga diffusione sul territorio nazionale, come si evince dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale anche per la liquidazione di tale voce di danno non patrimoniale occorre fare riferimento ai criteri elaborati dall'Osservatorio sulla giustizia civile di Milano (cfr. 3.2.5. Cass. n. 12408/2011). Tuttavia, in questo caso, differentemente da quanto si è visto per il danno biologico, non si è fatto ricorso alla tecnica del punto variabile, ma si è prevista fino all'anno 2021 una forbice edittale risarcitoria che consente di tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto tipizzabili, in particolare: della sopravvivenza o meno di altri congiunti del nucleo familiare primario, della convivenza o meno di questi ultimi, della qualità ed intensità della relazione affettiva familiare residua, della qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale con la persona perduta, dell'età della vittima primaria e secondaria. Sulla base di questi parametri sono stati identificati dei valori edittali massimi e minimi, differenziati a seconda del rapporto di parentela sussistente tra danneggiato e congiunto deceduto. Proprio la tecnica di liquidazione del danno prescelta è stata censurata dalla citata sentenza Cassazione n. 10579/2021, in quanto ritenuta inadeguata a perseguire le esigenze di uniformità sottese ad ogni valutazione equitativa. Nella specie, vengono individuati due principali limiti al sistema tabellare milanese in materia di danno da perdita del rapporto parentale: da un lato, esso "si limita ad individuare un tetto minimo ed un tetto massimo, fra i quali ricorre peraltro una assai significativa differenza(ad esempio a favore del coniuge è prevista nell'edizione 2021 delle tabelle un'oscillazione fra Euro 168.250,00 e Euro 336.500,00)"; dall'altro lato, non si fa ricorso al criterio del punto variabile, il quale consentirebbe di tradurre la clausola generale dell'equità in una fattispecie, con ciò circoscrivendo l'esercizio della discrezionalità del giudice in sede di liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale e assicurando, conseguentemente, l'uniformità di trattamento sul territorio nazionale. Proprio tali elementi precludono alla Tabella di garantire "la funzione per la quale è stata concepita, che è quella dell'uniformità e prevedibilità delle decisioni a garanzia del principio di eguaglianza. L'individuazione di un così ampio differenziale costituisce esclusivamente una perimetrazione della clausola generale di valutazione equitativa del danno e non una forma di concretizzazione tipizzata quale è la tabella basata sul sistema del punto variabile. Resta ancora aperto il compito di concretizzazione giudiziale della clausola, della quale, nell'ambito di un range assai elevato, viene indicato soltanto un minimo ed un massimo. In definitiva si tratta ancora di una sorta di clausola generale, di cui si è soltanto ridotto, sia pure in modo relativamente significativo, il margine di generalità. La tabella, così concepita, non realizza in conclusione l'effetto di fattispecie che ad essa dovrebbe invece essere connaturato" (Cass. n. 10579/2021). A fronte di tali considerazioni, la Corte di Cassazione auspica la predisposizione di "una tabella per la liquidazione del danno parentale basata sul sistema a punti, con la possibilità di applicare sull'importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione. In particolare, i requisiti che una tabella siffatta dovrebbe contenere sono i seguenti: 1) adozione del criterio "a punto variabile"; 2) estrazione del valore medio del punto dai precedenti; 3) modularità; 4) elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, da indicare come indefettibili, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza) e dei relativi punteggi" (Cass. n. 10579/2021). Recentemente, in data 29 giugno 2022, sono state pubblicate, sul sito del Tribunale di Milano e sul sito dell'Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano, le nuove tabelle elaborate dal "Gruppo danno alla persona" dell'Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano e licenziate dall'intero Osservatorio milanese nella riunione del 16 maggio 2022, contenute nel documento denominato "Criteri orientativi per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da perdita del rapporto parentale- Tabelle integrate a punti - Edizione 2022"; i Criteri orientativi sono anche corredati di due allegati: "Allegato 1. Esempi di calcolo risarcitorio confrontati con il monitoraggio" e "Allegato 2. Domande & risposte". Giova premettere che sin dal 2015 l'Osservatorio di Milano aveva iniziato un ampio monitoraggio delle sentenze in materia di liquidazione del danno da perdita/grave lesione del rapporto parentale al fine di verificare i criteri con cui i giudici liquidano questa voce di danno non patrimoniale. Negli anni successivi sono state raccolte ed esaminate circa 600 sentenze. Nel luglio 2018 il Gruppo di studio aveva rilevato l'incongruenza di una Tabella milanese che prevedeva liquidazioni per importi assai differenziati, con range in aumento fino al 100% di quello base, per genitori, figli, coniuge ed "assimilati" e fino al 500%, per il fratello ed il nonno. Dopo la citata sentenza Cass. n. 10579/2021, il Gruppo danno dell'Osservatorio decise di elaborare nuove tabelle integrate a punti sulla perdita del rapporto parentale. In primo luogo, si valutò se aderire alla tabella romana, che era l'unica tabella a punti già esistente, ma questa ipotesi fu scartata. Il gruppo dell'Osservatorio di Milano, quasi all'unanimità, nella riunione del 28.05.2021, ritenne che questa via non fosse percorribile perché: - la tabella romana non aveva estratto il valore del punto dai precedenti, a differenza di quanto indicato da Cass. 10579/2021 e certamente, come accennato, non dalla gran parte degli uffici giudiziari, in cui vengono applicati i valori monetari delle tabelle milanesi; - la tabella romana non era il frutto del confronto tra le componenti dei giudici e degli avvocati (delle vittime e delle compagnie assicuratrici) ma era nata in una riunione ex art. 47quater Ordinamento giudiziario tra i giudici di tre sezioni civili e della sezione lavoro del Tribunale di Roma; - la tabella romana appariva per un verso troppo "ingessata", perché con il semplice certificato anagrafico si potevano ottenere liquidazioni vicino al massimo di oltre Euro 300.000,00, senza una specifica allegazione ed indagine sulle concrete relazioni affettive tra vittima primaria e secondaria e, per altro verso, lasciava troppa discrezionalità al giudice di diminuire fino ad un terzo i valori monetari in assenza di convivenza; mentre, in assenza di altri familiari entro il secondo grado, prevedeva un aumento da 1/3 a 1/2, risultando quindi addirittura meno predittiva di quella milanese edizione 2021; - i valori monetari finali non risultavano allineati al monitoraggio effettuato dall'Osservatorio milanese. Il gruppo di studio dell'Osservatorio ha quindi proseguito i lavori tenendo sempre presente i seguenti "paletti", propri del metodo degli Osservatori e, cioè: 1) l'humus di partenza sono stati i valori monetari delle tabelle milanesi, in quanto seguite da almeno l'80% degli uffici giudiziari d'Italia e considerato che la sentenza della Cassazione n. 10579/2021 non ha censurato i valori monetari ma solo i criteri di applicazione. Del resto, già qualche mese dopo la sentenza n. 10579/2021, il Tribunale di Milano affermava: "E tuttavia, in attesa dell'elaborazione della "tabella a punti", appare certamente corretta l'individuazione sin d'ora dei parametri minimi e massimi previsti dalle Tabelle milanesi, che costituiscono con tutta evidenza l'humus da cui far germogliare il valore del punto" (Trib. Milano - sentenza n. 5947/2021 pubblicata il 7/07/2021); Pertanto, il valore-punto è stato determinato dividendo per 100 il valore monetario massimo previsto dalle due tabelle milanesi per la liquidazione del rispettivo danno parentale: per la perdita del parente di primo grado/coniuge ed "assimilati" il valore-punto è pari ad Euro 3.365,00 (Euro 336.500,00 : 100) e per la perdita del parente di secondo grado (nipote/fratello) il valore punto è pari ad Euro 1.461,20 (Euro 146.120,00 : 100); anche per questo motivo le tabelle sono state denominate tabelle "integrate a punti"; 2) gli importi liquidabili sono stati elaborati secondo la regola della coerenza con il monitoraggio già effettuato; 3) rispetto ed applicazione dei principi elaborati dalla Cassazione, tra cui, in primis, quelli esposti nella già citata sentenza n. 10579/2021 ed in particolare la regola per cui il "valore medio del punto" deve essere estratto dai precedenti; 4) evitare che il risarcimento si traduca in un mero calcolo matematico e le tabelle siano usate come una scorciatoia per eludere gli oneri di allegazione e prova gravanti sulle parti e l'obbligo di motivazione gravante sul giudice; le tabelle devono tener conto, invece, delle peculiarità della fattispecie concreta e dar modo ai difensori di allegare e provare (spesso anche in via presuntiva) i fatti posti a fondamento della domanda, ovvero di eccepirne l'insussistenza, ed al Giudice di motivare sul punto, sì da evitare che si liquidi un danno in re ipsa. Anche recentemente la Corte di Cassazione ha ribadito che il giudice di merito deve valutare analiticamente "tutte le singole circostanze di fatto che risultino effettivamente specifiche e individualizzanti, allo scopo di non ricadere nel vizio consistente in quella surrettizia liquidazione del danno non patrimoniale in un danno forfettario o (peggio)in re ipsa che caratterizza tanta parte dello stile c.d. 'tabellare' in tema di perdita del rapporto parentale" (Cass. 11689/2022). Come già scritto anche nei criteri orientativi delle tabelle milanesi ed. 2021: "Rimane sempre fermo il dovere di motivazione dei criteri adottati per graduare il risarcimento nel range previsto dalla Tabella od anche (eccezionalmente) al di fuori della stessa; come si legge nella sentenza n. 12408/2011, la Tabella esprime un valore "equo", "e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entità". I parametri rilevanti, indicati dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 10579/2021 sono quelli già previsti in linea generale dalle precedenti versioni delle tabelle milanesi: corrispondenti all'età della vittima primaria e della vittima secondaria, alla convivenza tra le due, alla sopravvivenza di altri congiunti, alla qualità e intensità della specifica relazione affettiva perduta. Per distribuire i punti tra le dette circostanze il G.D. alla persona dell'Osservatorio di Milano ha proceduto per tentativi con tante simulazioni su dei "casi", confrontando gli importi monetari liquidabili in base alle ipotesi di distribuzione dei punti e le liquidazioni in concreto riconosciute dai giudici di merito per casi simili nelle sentenze raccolte con il monitoraggio. In definitiva, quindi, nelle nuove tabelle integrate a punti (edizione 2022) è stato previsto un punteggio per ognuno dei menzionati parametri: si determina così il totale dei punti secondo le circostanze presenti nella fattispecie concreta e quindi si moltiplica il totale dei punti per il menzionato "valore punto" (pari ad Euro 3.365,00 ed Euro 1.461,20), pervenendo così all'importo monetario liquidabile. Giova sottolineare che le cinque circostanze considerate ai fini della distribuzione dei punti non costituiscono ciascuna un pregiudizio in sé ovviamente, ma integrano tutte elementi che rivelano - secondo le note massime di comune esperienza, cfr. Cass. 25164/2020- l'esistenza e consistenza di una sofferenza soggettiva e di pregiudizi dinamico-relazionali derivanti dalla perdita del parente. Le prime quattro circostanze (età della vittima primaria e della vittima secondaria, convivenza tra le due, sopravvivenza di altri congiunti) hanno natura "oggettiva" e sono quindi "provabili" anche con documenti anagrafici; la quinta circostanza (lett. "E", qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava lo specifico rapporto parentale perduto) è invece di natura "soggettiva" e riguarda sia gli aspetti cd "esteriori" del danno da perdita del parente (stravolgimento della vita della vittima secondaria in conseguenza della perdita) sia gli aspetti cd "interiori" di tale danno (sofferenza interiore) e deve essere allegata, potendo poi essere provata anche con presunzioni. Nell'apprezzamento dell'intensità e qualità della relazione affettiva (lett. "E"), si dovrà valutare lo specifico rapporto parentale perduto, con tutte le caratteristiche obiettive e soggettive, sulla scorta di quanto allegato e provato (anche con il ricorso alle presunzioni) in causa. Infine, si è rimesso al singolo giudice la scelta se procedere alla liquidazione dei valori monetari riconducibili al parametro "E" con un unico importo monetario o con somme distinte per ciascuna delle menzionate voci/componenti del danno non patrimoniale: sofferenza soggettiva interiore e dimensione dinamico relazionale. Ai fini dell'attribuzione dei punti per il parametro "E" (fino ad un massimo di 30 punti nelle due tabelle), il giudice potrà tenere conto, sia delle circostanze obiettive di cui ai precedenti 4 parametri ("obiettivi") e delle consequenziali valutazioni presuntive, sia di ulteriori circostanze che siano allegate e provate (anche con presunzioni) relative, ad esempio, ma non solo, alle seguenti circostanze di fatto: - frequentazioni/contatti (in presenza o telefonici o in internet), - condivisione delle festività/ricorrenze, - condivisione di vacanze, - condivisione attività lavorativa/hobby/sport, - attività di assistenza sanitaria/domestica, - agonia/penosità/particolare durata della malattia della vittima primaria laddove determini una maggiore sofferenza nella vittima secondaria, - altri casi. In entrambe le nuove tabelle integrate a punti ed. 2022, in coerenza con i criteri orientativi delle precedenti tabelle milanesi ed. 2021, si conferma il principio che "non esiste un minimo garantito", con l'espressa avvertenza che "contrasti di rilevante intensità o controversie giudiziarie tra le due vittime, violenze o reati commessi dalla vittima secondaria nei confronti della vittima primaria possono ridurre, fino ad azzerare, l'ammontare risarcitorio riconosciuto in base a tutti i parametri/punti della tabella". Si conferma altresì, come per la precedente edizione 2021, che per il danno da perdita del rapporto parentale (come peraltro per quelle del danno biologico), vanno distinte le ipotesi integranti reati colposi o dolosi; le tabelle si applicano solamente alle prime. Nelle fattispecie in cui l'illecito sia stato cagionato con dolo, spetta al giudice valutare tutte le peculiarità del caso concreto e pervenire eventualmente ad una liquidazione che superi l'importo massimo previsto in tabella. Infatti, nelle ipotesi di liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale conseguente a rapina, sequestro di persona, percosse, violenza sessuale, ecc., senza aderire alla tesi del c.d. "danno punitivo" (nettamente smentita dalla sentenza Cass. Sez. U. n. 15350/2015 e ben circoscritta dalla sentenza Cass. Sez. U. n. 16601/2017), è indubbio che sia (di regola) maggiore l'intensità delle sofferenze psicofisiche patite dalla vittima primaria e secondaria. Anche nella sentenza Cass. n. 10579/2021 si afferma: "Poiché si tratta di un'opera di astrazione dalle decisioni della giurisprudenza di merito, la tabella non ha la cogenza del dettato legislativo e consente pertanto la riespansione della clausola generale se le peculiarità del caso concreto non tollerano la sussunzione nella fattispecie tabellare. A parte la previsione di "finestre" per l'aumento in ragione delle peculiarità del caso, è sempre data la possibilità al giudice di liquidare il danno, oltre i valori massimi o minimi previsti dalla tabella, in relazione a casi la cui eccezionalità, specificatamente motivata, fuoriesca ictu oculi dallo schema standardizzato". Alla luce di quanto esposto, dei Criteri orientativi e degli allegati pubblicati sul sito del Tribunale di Milano, può dunque concludersi che le nuove tabelle integrate a punti elaborate dall'Osservatorio di Milano siano coerenti con i principi di diritto enunciati nella sentenza Cass. n. 10579/2021 e possano essere utilizzati dal giudice per determinare una liquidazione equa, uniforme e prevedibile del danno da perdita del rapporto parentale. Ritiene inoltre questo giudice che nella liquidazione del danno non patrimoniale occorre fare riferimento alla tabella più recente in uso al momento della decisione (Cass., ord. n. 13269/2020 e cfr. anche Cass. Sentenza n. 28994/2019, nell'ipotesi di successiva emanazione di una tabella normativa). E dunque, nella fattispecie concreta, potranno agevolmente applicarsi le nuove tabelle milanesi integrate a punti - edizione 2022. Ebbene, in applicazione delle nuove "tabelle milanesi integrate a punti" si devono riconoscere all'attrice (...), madre convivente del signor (...), i seguenti punti: punti 18 in considerazione dell'età della vittima primaria: 55 anni alla data del decesso (lett. "A" della Tabella); punti 8 in considerazione dell'età della vittima secondaria: 84 anni alla data del decesso del figlio (lett. "B" della Tabella); punti 16 in relazione alla lett. "C" della Tabella in forza dello stato di convivenza; punti 12 in considerazione della sopravvivenza di n. 2 superstiti (lett. "D" della Tabella); punti 20 in considerazione della qualità e intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale perduto (lett. "E" della Tabella); per un totale quindi di punti 74, pari ad Euro 249.010,00 (74 punti x Euro 3.365,00). Accertato il concorso di colpa del signor (...) nella causazione del sinistro pari al 85%, deve essergli riconosciuta all'attrice (...), a titolo di danno non patrimoniale da perdita parentale, la cifra complessiva, già rivalutata, di Euro 37.351,50. All'attore, (...), fratello convivente del signor (...), i seguenti punti: punti 12 in considerazione dell'età della vittima primaria: 55 anni alla data del decesso (lett. "A" della Tabella); punti 14 in considerazione dell'età della vittima secondaria: 49 anni alla data del decesso del fratello (lett. "B" della Tabella); punti 20 in relazione alla lett. "C" della Tabella in forza dello stato di convivenza; punti 12 in considerazione della sopravvivenza di n. 2 superstiti (lett. "D" della Tabella); punti 15 in considerazione della qualità e intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale perduto (lett. "E" della Tabella); per un totale quindi di punti 73, pari ad Euro 106.667,60 (73 punti x Euro 1.461,20). Accertato il concorso di colpa del signor (...) nella causazione del sinistro pari al 85%, deve essergli riconosciuto all'attore (...), a titolo di danno non patrimoniale da perdita parentale, la cifra complessiva, già rivalutata, di Euro 16.000,00. All'attrice, (...), sorella non convivente del signor (...), i seguenti punti: punti 12 in considerazione dell'età della vittima primaria: 55 anni alla data del decesso (lett. "A" della Tabella); punti 12 in considerazione dell'età della vittima secondaria: 60 anni alla data del decesso del fratello (lett. "B" della Tabella); zero punti in relazione alla lett. "C" della Tabella in forza dello stato di non convivenza; punti 12 in considerazione della sopravvivenza di n. 2 superstiti (lett. "D" della Tabella); punti 12 in considerazione della qualità e intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale perduto (lett. "E" della Tabella); per un totale quindi di punti 48, pari ad Euro 70.137,60 (48 punti x Euro 1.461,20). Accertato il concorso di colpa del signor (...) nella causazione del sinistro pari al 85%, deve essergli riconosciuto all'attrice (...), a titolo di danno non patrimoniale da perdita parentale, la cifra complessiva, già rivalutata, di Euro 10.521,00. 3.2. In relazione al danno patrimoniale, le parti attrici chiedono il relativo risarcimento. In particolare è stato documentato il rimborso delle spese per la perizia di parte dell'ing. (...), per Euro 1.317,60, prodotta in atti in capo all'attrice (...). Detta somma deve essere riconosciuta nella misura del 50%, e non del 15%, in quanto la perizia di parte è risultata comunque utile ai fini dell'accertamento in contraddittorio della dinamica dell'incidente di cui è causa. Pertanto la somma di Euro 658,80, rivalutata ad oggi è pari a Euro 765,00, e i convenuti in solido devono essere condannati al relativo pagamento a favore dell'attrice (...). Per quanto riguarda le spese di assistenza stragiudiziale, le stesse - anche in considerazione del richiamato concorso di colpa in capo al signor (...) - vengono riconosciute nella complessiva somma di Euro 375,00, da liquidarsi in favore degli attori in solido ed a carico dei convenuti in solido. Gli interessi compensativi - secondo l'ormai consolidato indirizzo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (v. sentenza n. 1712/1995) - decorrono dalla produzione dell'evento di danno sino al tempo della liquidazione; per questo periodo, gli interessi compensativi si possono calcolare applicando un tasso annuo medio ponderato, equitativamente determinato, sul danno rivalutato. Da oggi, giorno della liquidazione, all'effettivo saldo decorrono gli interessi legali sulla somma rivalutata. Pertanto, alla luce di tale criterio di calcolo, il convenuto (...), in solido con la compagnia assicuratrice (...) spa devono essere condannati al pagamento, in favore degli attori delle seguenti somme: Per l'attrice (...), la complessiva somma di Euro 37.351,50 liquidata in moneta attuale, oltre: interessi compensativi, al tasso annuo medio ponderato dell'1%, sulla somma di Euro 37.351,50 dalla data del 22 aprile 2017 ad oggi; interessi, al tasso legale, sulla complessiva somma di Euro 37.351,50, dalla data della presente sentenza al saldo effettivo. Per l'attore (...), la complessiva somma di Euro 16.000,00 liquidata in moneta attuale, oltre: interessi compensativi, al tasso annuo medio ponderato dell'1%, sulla somma di Euro 16.000,00 dalla data del 22 aprile 2017 ad oggi; interessi, al tasso legale, sulla complessiva somma di Euro 16.000,00 dalla data della presente sentenza al saldo effettivo. Per l'attrice (...), la complessiva somma di Euro 10.521,00 liquidata in moneta attuale, oltre: interessi compensativi, al tasso annuo medio ponderato dell'1%, sulla somma di Euro 10.521,00 dalla data del 22 aprile 2017 ad oggi; interessi, al tasso legale, sulla complessiva somma di Euro 10.521,00, dalla data della presente sentenza al saldo effettivo. Inoltre, per l'attrice (...), l'ulteriore somma di Euro 765,00 liquidata in moneta attuale, oltre: interessi compensativi, al tasso annuo medio ponderato dell'1%, sulla somma di Euro 765,00 dalla data del 31 dicembre 2018 ad oggi; interessi, al tasso legale, sulla complessiva somma di Euro 765,00, dalla data della presente sentenza al saldo effettivo. 4. Consegue alla parziale e limitata soccombenza, la condanna dei convenuti in solido a rifondere alle parti attrici il 15% delle spese processuali relative al presente giudizio, da liquidarsi in favore dell'avv. Ma.Im., antistatario ex art. 93 c.p.c., con compensazione tra le parti del rimanente 85%. Le spese delle consulenze tecniche d'ufficio vanno poste, per il 50%, a carico delle parti convenute in solido fra loro e, per il 50%, a carico delle parti attrici, trattandosi di accertamenti tecnici necessari ai fini di una corretta decisione. P.Q.M. Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando, così provvede: - dichiara la responsabilità concorrente del signor (...) e del convenuto (...) nella causazione dell'incidente verificatosi il 22 aprile 2017, nella misura, rispettivamente, del 85% e del 15%; - condanna il convenuto (...), in solido con la (...) spa, al pagamento, in favore dell'attrice (...), della somma di Euro 37.351,50, oltre interessi come specificato in motivazione; - condanna il convenuto (...), in solido con la (...) spa, al pagamento, in favore dell'attore (...), della somma di Euro 16.000,00, oltre interessi come specificato in motivazione; - condanna il convenuto (...), in solido con la (...) spa, al pagamento, in favore dell'attrice (...), delle somme di Euro 10.521,00 e di Euro 765,00, oltre interessi come specificato in motivazione; - rigetta le altre domande ed istanze proposte dalle parti; - condanna il convenuto (...) in solido con la (...) spa, al pagamento, in favore delle parti attrici in solido, del 15% delle spese processuali che, in tale proporzione, liquida in Euro 375,00 per spese stragiudiziali, Euro 90,00 per esborsi ed anticipazioni, Euro 4.050,00 per onorario di avvocato, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre C.P.A. ed I.V.A. somma da distrarsi in favore dell'avv. Ma.Im., antistatario, con compensazione tra le parti del rimanente 85% - pone le spese delle CTU per il 50% a carico delle parti attrici in solido ed il restante 50% a carico dei convenuti in solido; - dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva. Così deciso in Milano il 28 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 28 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI ROMA XVII Sezione civile in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Fausto Basile, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile di secondo grado iscritta al n. 60037 del R.G.A.C.C. dell'anno 2019, e vertente tra (...) S.p.A., rappresentata dal Dott. (...), giusta delibera di conferimento dei poteri, rappresentata e difesa in virtù di mandato allegato all'atto di citazione in appello dall'Avv. Pa.Ci. ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell'Avv. Ca.Na., sito in Roma, Via (...) APPELLANTE e (...) S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura generale alle liti per atto del notaio Pi.Am., registrato a Roma il 6 aprile 2017, dall'Avv. Do.Fe., ed elettivamente domiciliata in Roma, viale (...); APPELLATA avverso e per la riforma della sentenza del Giudice di Pace di Roma n. 10538/2019, del 15.04.2019. OGGETTO: titoli di credito. FATTO E DIRITTO Con atto di appello ritualmente notificato, (...) S.p.A. (in sede di prime cure (...) S.p.A. oggi incorporata da (...) S.p.A.; di seguito, anche (...)) ha impugnato, dinanzi all'intestato Tribunale, la sentenza emessa dal Giudice di Pace di Roma, n. 10538/2019, depositata il 15.04.2019, con la quale è stata rigettata la domanda formulata nei confronti di (...) S.p.A. (di seguito anche (...)). L'odierna appellante ha dedotto di aver chiesto in primo grado la condanna di (...) S.p.A. al pagamento della somma di Euro 1.785,21 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, per avere la stessa pagato negligentemente, a soggetto diverso dal legittimo beneficiario, l'assegno di traenza "non trasferibile" n. (...) intestato a (...), dell'importo di Euro 1.785,21. Si costituiva in giudizio, di fronte al giudice di pace di Roma, (...) S.p.A. che sosteneva di aver legittimamente negoziato il titolo in questione e chiedeva, pertanto, il rigetto della domanda attorea. La causa veniva istruita con CTU sul titolo oggetto di causa e all'esperto veniva posto il seguente quesito: "dica il CTU se l'assegno n. (...) dell'importo di Euro 1.785,21 intestato a (...) presenti elementi di contraffazione nel nome del beneficiario, rilevabili ictu oculi". Espletata la CTU, il Giudice di Pace di Roma, con sentenza n. 10538/2019, rigettava la domanda di (...) con conseguente sua condanna al pagamento delle spese di lite. (...), con il proposto appello, lamenta l'erroneità della sentenza di prime cure nella parte in cui ha ritenuto provato che la convenuta avesse diligentemente adempiuto agli obblighi sulla stessa incombenti in sede di negoziazione dei titoli di credito, sulla base dell'errato presupposto per cui la stessa aveva provveduto a verificare sia la regolarità dell'assegno presentato che l'identità della persona che ne aveva chiesto la riscossione, il Sig. (...), identificato tramite carta d'identità. Al riguardo, rileva parte appellante che il titolo per cui è causa, negoziato presso (...), è un assegno di traenza contraffatto nel nominativo. Infatti, l'appellante ritiene di aver provato documentalmente, senza peraltro aver smentita alcuna, che l'originario assegno era stato emesso da (...) S.p.a. su mandato di (...) S.p.A. in favore del Sig. (...), nei confronti del quale ha dovuto effettuare un secondo pagamento. (...), invece, ha negoziato l'assegno contraffatto in favore del sedicente (...). L'appellante ha altresì censurato il punto di motivazione della sentenza impugnata che sottintende il fatto che (...) non potrebbe essere considerata responsabile poiché il pagamento a soggetto diverso dal beneficiario sarebbe dipeso dal mancato invio del messaggio di blocco da parte della trattaria (...). A tale riguardo, (...) ha evidenziato che l'impiego della procedura di invio denominata di check truncation si caratterizza per il fatto che la banca negoziatrice omette di presentare il titolo (in originale o copia fotografica) alla banca trattaria, limitandosi a trasmetterle, in forma elettronica, solo taluni dati (il numero dell'assegno, l'importo, data di emissione), tra cui non è compreso il nominativo del soggetto indicato sul titolo come beneficiario. A detta dell'appellante, nel caso di specie si dovrebbe escludere qualsiasi responsabilità in capo alla banca trattaria, giacché, in quanto banca emittente, nel sistema di negoziazione sopra descritto, non ha avuto alcuna possibilità di esaminare gli assegni nella loro materialità e, quindi, di potersi avvedere di eventuali falsificazioni dei titoli, ma ha ricevuto solo il flusso elettronico dei dati ad esso relativi, comunicatole dall'Ufficio Postale. L'appellante ha altresì evidenziato l'erroneità delle argomentazioni del Giudice di Pace circa la presunta responsabilità della Compagnia assicuratrice per le modalità di spedizione del titolo di credito al titolare del rimborso, laddove afferma che: "Nel corso del giudizio, la (...) S.p.A. non ha comprovato la data di spedizione dell'assegno, né di aver usato tutte le cautele previste dalla legge, come stabilito dall'art. 83 del D.P.R. n. 156 del 1973 che fa espresso divieto di includere nella corrispondenza ordinaria denaro o preziosi". Infatti, l'invio dell'assegno a mezzo posta ordinaria non può considerarsi causale rispetto al danno consequenziale alla erronea identificazione del presentatore, non potendosi affermare a priori, ai fini di cui all'art. 1227 c.c., che l'utilizzo di tale accorgimento avrebbe impedito il verificarsi dell'evento dannoso, laddove, come nella specie, non risultano accertate le modalità con cui in concreto è avvenuta la sottrazione del titolo; mentre, qualora l'Ufficio Postale avesse tenuto un comportamento diligente in occasione della negoziazione del titolo, l'evento dannoso si sarebbe certamente evitato. Si è costituita nel giudizio di appello (...) S.p.A. contestando tutto quanto dedotto dall'appellante. In particolare, la carenza di legittimazione attiva della (...) S.p.A. in quanto non avrebbe provato di avere effettivamente subito il danno lamentato, attraverso nella rinnovazione del pagamento al presunto beneficiari del titolo in contestazione. Circa invece i primi due motivi, l'appellata ha evidenziato che l'Ufficio Postale presso il quale era stato negoziato l'assegno aveva provveduto ad identificare il presentatore del titolo, dietro presentazione di apposito documento di identità e codice fiscale, in apparenza perfettamente regolari; aveva verificato la rispondenza della sottoscrizione del titolo con quella depositata dal cliente; aveva verificato, secondo le proprie competenze, la regolarità dell'assegno e l'intestazione del medesimo titolo. Tra l'altro, l'assegno era stato regolarmente pagato dopo l'esame dei dati trasmessi dalla Banca emittente con l'ausilio della Rete Nazionale Interbancaria e, quindi, accreditato sul libretto postale del presentatore. Ha contestato, altresì, trattandosi di orientamento superato, la tesi avversaria dell'asserita sussistenza di una responsabilità "da contatto sociale" della banca negoziatrice che paghi un assegno bancario non trasferibile a persona diversa dal legittimo prenditore, a prescindere dalla sussistenza della colpa nell'errore sulla identificazione di quest'ultimo. Difatti, il più recente orientamento delle SS.UU. della Corte di Cassazione ha escluso la natura extracontrattuale di detta responsabilità riconducendola nell'alveo della responsabilità contrattuale dove la colpa (presunta) assume fondamentale rilevanza potendo essere esclusa solamente dalla prova, posta a carico del debitore e fornita, nella fattispecie in esame da (...), del comportamento diligente della banca che ha negoziato il titolo. Ha, infine, rilevato l'appellata come il titolo in contestazione, essendo stato inviato a mezzo posta ordinaria, non fosse stato spedito con le dovute cautele imposte dalla normativa vigente, ossia mediante posta assicurata, secondo quanto prescritto dall'art. 83 del D.P.R. del 29 marzo 1973, n. 156 che fa espresso divieto di includere nelle corrispondenze ordinarie e raccomandate, denaro e oggetti preziosi. Infatti, la trasmissione dell'assegno de quo a mezzo posta ordinaria non solo non avrebbe evitato che l'assegno finisse in mani sbagliate ma neppure avrebbe garantito la possibilità di avere un riscontro su eventuali anomalie verificatesi durante l'iter di consegna. All'udienza del 5.11.2020, nessuno è comparso, il Giudice ha rinviato per gli stessi incombenti all'udienza del 07.07.2021. All'udienza del 07.07.2021 il Giudice ha rinviato per precisazione delle conclusioni alla udienza a trattazione scritta del 26.10.2022, disponendo altresì, a cura della Cancelleria, l'acquisizione del fascicolo di primo grado. All'esito dell'udienza a trattazione scritta del 26.10.2022, il Giudice ha trattenuto la causa in decisione, previa assegnazione dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e le memorie di replica. L'appello va accolto per le ragioni di seguito indicate. Innanzitutto, non coglie nel segno eccezione preliminare, riproposta anche in appello da parte appellata, di carenza di legittimazione attiva dell'odierna appellante per non avere la stessa fornito la prova del mancato ricevimento del titolo da parte del legittimo beneficiario (...), né della duplicazione del pagamento nei suoi confronti e quindi della perdita economica sofferta. In astratto, va riconosciuta legittimazione del soggetto che ha richiesto l'emissione da parte della banca di un assegno di traenza riscosso da un destinatario diverso dall'effettivo beneficiario ad agire nei confronti della banca negoziatrice dello stesso assegno per il pregiudizio economico subito. Nel caso concreto, la CTU espletata nel giudizio di primo grado ha accertato - come si vedrà meglio con riferimento alla diligenza dell'odierna appellata - l'avvenuta alterazione - sia pure non visibile ictu oculi - del titolo nella parte dell'intestazione del beneficiario. Ebbene, l'avvenuta falsificazione del nominativo del beneficiario dell'assegno di traenza in contestazione, dimostra la circostanza dell'originaria emissione del titolo in favore di un soggetto diverso da colui che l'ha presentato per l'incasso presso le (...). Di poi, il fatto che l'assegno è stato incassato da un soggetto diverso dall'intestatario originario, prova altresì che la provvista che la Compagnia aveva fornito alla trattaria (...) S.p.A., è stato impiegato indebitamente, con conseguente danno patrimoniale per la (...). Il danno per la Compagnia appellante è rappresentato proprio dal mancato incasso del titolo da parte di chi era legittimato all'incasso e non presuppone la dimostrazione di un secondo pagamento in favore di quest'ultimo. Difatti, in caso di assegno di traenza, emesso dalla banca trattaria a fronte della costituzione della relativa provvista da parte del richiedente, il pregiudizio economico subito da quest'ultimo non postula la dimostrazione dell'avvenuta effettuazione di un nuovo pagamento in favore del prenditore, potendo essere ravvisato nella mera perdita dell'importo versato o addebitato a causa dello indebito pagamento del titolo (cfr. Cass. S.U. n. 9769/2020). Passando al merito, vanno trattati congiuntamente, per evidenti ragioni di connessione, i primi due motivi di appello che censurano la sentenza di primo grado nella parte in cui ha respinto la domanda attorea sul presupposto del riconoscimento della diligenza di (...) nella negoziazione dell'assegno di traenza per cui è causa. Ai fini dell'inquadramento sistematico della fattispecie in esame, va preliminarmente accertata la natura della responsabilità della banca che paga un assegno bancario non trasferibile a persona diversa dalla persona cartolarmente legittimata come prenditore. Al riguardo, occorre richiamare l'orientamento giurisprudenziale tracciato dalla pronuncia delle SS.UU. n. 14712/2007, secondo cui "la responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall'art. 43 legge assegni (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736), l'incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo, ha - nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno - natura contrattuale, avendo la banca un obbligo professionale di protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto), operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso". Inquadrata in ambito contrattuale la responsabilità dell'istituto negoziatore, si è registrato, tuttavia, un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione, che qui rileva, dei limiti della responsabilità della banca in caso di pagamento di un assegno non trasferibile a un soggetto diverso dall'effettivo beneficiario, in ragione di un'errata identificazione di colui che presenti il titolo per l'incasso o del mancato riconoscimento della contraffazione del titolo stesso. Secondo l'orientamento giurisprudenziale inaugurato da Cass. n. 1098/1999 - che, a sua volta, ristabiliva il principio enunciato da Cass. n. 3133 del 1958 - "l'art. 43 del R.D. n. 1736 del 1933 disciplina in modo autonomo la fattispecie dell'adempimento dell'assegno non trasferibile, derogando sia alla disciplina generale del pagamento dei titoli di credito a legittimazione variabile, sia al disposto di diritto comune dettato, in tema di obbligazioni, dall'art. 1189 c.c. (che dispone la liberazione del debitore adempiente in buona fede in favore del creditore apparente), con la conseguenza che la banca, nell'effettuare il pagamento in favore di persona diversa dal legittimato, non è liberata dalla propria obbligazione finché non paghi nuovamente al prenditore esattamente individuato l'importo dell'assegno, a prescindere dalla sussistenza dell'elemento della colpa nell'errore sulla identificazione di quest'ultimo". Tale indirizzo interpretativo, seguito da diverse pronunce di legittimità (Cass., n. 3654/2003; Cass. 7949/2010), era stato più recentemente ribadito da Cass. 3405/2016 e da Cass. 4381/2017. A tale soluzione ermeneutica, si contrapponeva quella giurisprudenza che, facendo leva sui normali criteri di attribuzione della responsabilità per colpa in materia di obbligazioni, ritenute applicabili anche all'attività bancaria, affermava il diverso principio di diritto secondo il quale "se il pagamento dell'assegno bancario non trasferibile è fatto a chi si legittima cartolarmente come prenditore dell'assegno, colui che ha eseguito il pagamento ne risponde verso il prenditore a norma dell'art. 43, secondo comma, della legge sull'assegno bancario n. (...) del 1933 - applicabile anche all'assegno circolare in virtù del richiamo contenuto nel successivo art. 86 della stessa legge - soltanto se non ha usato la dovuta diligenza nell'identificazione del presentatore dell'assegno, in quanto la disposizione di cui al secondo comma del citato art. 43 R.D. n. 1736 del 1933, laddove sancisce la responsabilità per il pagamento di chi paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore, si riferisce non alla persona fisica del prenditore, ma alla legittimazione cartolare cioè alla persona che non è legittimata come prenditore, e, quindi, non comporta deroga ai principi generali in tema di identificazione del presentatore dei titoli a legittimazione nominale" (Cass. n. 2360/1968; Cass. n. 686/1983; Cass. n. 9888/1997). Tale orientamento era stato più recentemente confermato da Cass. n. 1377/2016. Il contrasto atteneva quindi alla portata dell'art. 43 L.A., interpretato, da una parte della giurisprudenza, con riferimento agli oneri di identificazione del presentatore dei titoli a legittimazione nominale, sul presupposto che l'art. 43 R.D. n. 1736 del 1933, comma 2, citato, regolasse in modo autonomo l'adempimento del pagamento dell'assegno non trasferibile, con deviazione anche dalla disciplina generale del pagamento dei titoli di credito con legittimazione variabile dettata dall'art. 1992 c.c. e, da altra parte, come riferibile solo alla disciplina della circolazione dell'assegno bancario, trasformato in titolo a legittimazione invariabile. Questo Giudicante, in alcuni precedenti in termini, ha già ritenuto di aderire all'indirizzo giurisprudenziale che interpreta l'art. 43 L.A. come riferibile solo alla disciplina della circolazione dell'assegno bancario trasformato in titolo a legittimazione invariabile, dal momento che esso - al fine della disciplina della responsabilità della banca per il pagamento di un assegno non trasferibile a persona diversa dal beneficiario - opera una corretta distinzione tra ipotesi completamente diverse tra di loro. Da un canto, quella del pagamento a colui che non è legittimato cartolarmente come prenditore del titolo non trasferibile e, dall'altro canto, quelle, del tutto diverse, della erronea identificazione del soggetto che appare cartolarmente legittimato e del colpevole mancato riconoscimento dell'alterazione del titolo. Risulta chiara la differenza tra le due ipotesi: nel primo caso, la banca paga a Caio, non legittimato, mentre Tizio è l'intestatario dell'assegno munito di clausola di non trasferibilità; nel secondo caso, in cui non vi è alcuna girata fatta in violazione della clausola di non trasferibilità, la banca paga ad un soggetto di nome Tizio, effettivo intestatario dell'assegno, senza però controllare con la dovuta diligenza se la persona che si presenta all'incasso sia veramente Tizio, oppure un soggetto diverso che ha falsificato il nome del prenditore dell'assegno e/o il documento con il quale si è fatto identificare come Tizio. Seguire l'opposto orientamento, che afferma la responsabilità della banca a prescindere dalla colpa anche nell'ipotesi di errata identificazione del prenditore o di alterazione del titolo, porterebbe a trattare alla stessa maniera ipotesi radicalmente diverse tra di loro. Esso, inoltre, verrebbe a creare, nell'ambito delle stesse ipotesi, un'ulteriore ingiustificata disparità di trattamento tra la disciplina della responsabilità della banca che negozia un assegno a legittimazione variabile e quella della banca che negozia un assegno a legittimazione invariabile; la prima, basata sulla diligenza media e, la seconda, sulla natura oggettiva della sua responsabilità. Ciò posto, la responsabilità oggettiva della banca (o come, nel caso di specie, di (...)) si giustifica soltanto nel caso in cui negozi un titolo non trasferibile violando le specifiche prescrizioni del primo comma dell'art. 43, L.A., ovvero quando paghi il titolo con clausola di non trasferibilità a un soggetto diverso da quello che risulta avere la legittimazione cartolare ai sensi della medesima norma (pagamento a Caio di un assegno di traenza il cui prenditore legittimato cartolarmente risulta Tizio). Nei distinti casi di errore nella identificazione del soggetto legittimato cartolarmente e nel riconoscimento della contraffazione del titolo, appare dunque corretto l'indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la responsabilità della banca (sia quella trattaria che quella negoziatrice) non possa prescindere da una valutazione in concreto sull'uso della diligenza richiesta al bancario medio sulla base delle sue conoscenze, essendo applicabili all'attività bancaria le disposizioni generali di cui agli artt. 1176, comma 2, c.c. e 1992, comma 2, c.c. A comporre il contrasto giurisprudenziale innanzi indicato, risolto in favore di quest'ultima interpretazione, sono recentemente intervenute le SS.UU. con le sentenze nn. 12477 e 12478/2018. Una volta ricondotta la condotta della banca negoziatrice nell'ambito della responsabilità contrattuale derivante da contatto qualificato (come affermato dalle citate SS.UU. n. 14712/2007), le SS.UU. hanno ritenuto che la tesi secondo la quale la banca risponde del pagamento dell'assegno non trasferibile prescindendo dalla sussistenza dell'elemento della colpa nell'errore sull'identificazione non possa più essere sostenuta. Una forma di responsabilità oggettiva, infatti, potrebbe predicarsi solo in difetto di un rapporto in senso lato contrattuale tra danneggiante e danneggiato, come ad esempio nelle ipotesi tipiche disciplinate dagli artt. 2048/2053 c.c., appartenenti però all'ambito della responsabilità aquiliana, laddove, invece, nella logica della responsabilità contrattuale (anche nella forma della responsabilità da contatto sociale qualificato), la colpa torna a recuperare la propria centralità ai sensi degli artt. 1176 e 1218 c.c.. La conseguenza che le SS.UU. ricavano da tali considerazioni di carattere generale consiste nel fatto che, nell'azione promossa dal presunto danneggiato, la banca che ha pagato l'assegno non trasferibile a persona diversa dall'effettivo prenditore "è ammessa a provare che l'inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza dovuta, che è quella nascente, ai sensi del 2 comma dell'art. 1176 c.c., dalla sua qualità di operatore professionale, tenuto a rispondere del danno anche in ipotesi di colpa lieve". In tal modo, la funzione assolta dall'art. 43, comma 2, L.A. consiste nell'impedire la circolazione del titolo, predisponendo "una sanzione di responsabilità cartolare, il cui presupposto risiede nella circostanza che non si è pagato ad un soggetto legittimato come prenditore del titolo" e si pone, pertanto, su un piano differente rispetto alla responsabilità civile collegata all'errore nell'identificazione dell'effettivo prenditore. Dunque, la responsabilità risarcitoria della banca, nel caso di pagamento di assegni bancari non trasferibili a soggetto diverso da colui che appare cartolarmente legittimato, non può discendere oggettivamente dall'art. 43, secondo comma, legge assegno, ma rimane collegata alla mancata o negligente identificazione del presentatore del titolo o al colpevole mancato riconoscimento dell'alterazione dello stesso, alla stregua della diligenza richiesta al bancario medio sulla base delle sue conoscenze. Orbene, nella delineata prospettiva della diligenza richiesta alla banca negoziatrice di titoli, la S.C. ha più volte affermato che, nel caso di pagamento di un assegno circolare trafugato ed alterato, non basta, ai fini dell'applicazione dell'art. 43, comma 2, del R.D. n. 1736 del 1933, la mera rilevabilità dell'alterazione, occorrendo che la stessa sia visibile "ictu oculi", in base alle conoscenze del bancario medio, il quale non è tenuto a disporre di particolari attrezzature strumentali o chimiche per rilevare la falsificazione, né deve essere un esperto grafologo. Il giudice di merito deve, pertanto, verificare se la falsificazione sia, o meno, riscontrabile attraverso un attento esame diretto, visivo o tattile, dell'assegno da parte dell'impiegato addetto, in possesso di comuni cognizioni teorico/tecniche, ovvero pure in forza di mezzi e strumenti presenti sui normali canali del mercato di consumo e di agevole utilizzo, o - piuttosto - se la falsificazione stessa sia, invece, riscontrabile soltanto tramite attrezzature tecnologiche sofisticate e di difficile e dispendioso reperimento e/o utilizzo, o tramite particolari cognizioni teoriche e/o tecniche (Cass., 1377/2016; cfr. Cass. 6524/2000; 15066/2005; 20292/2011; 6513/2014). Sempre con riferimento alla diligenza professionale media richiesta nell'attività bancaria, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che la banca, cui sia presentato un assegno per l'incasso, ha il dovere di pagarlo se le eventuali irregolarità (falsificazione o alterazione) dei requisiti esteriori non siano rilevabili con la normale diligenza inerente all'attività bancaria che coincide con la diligenza media, non essendo la stessa tenuta a predisporre un'attrezzatura qualificata con strumenti meccanici o chimici al fine di un controllo dell'autenticità delle sottoscrizioni o di altre contraffazioni dei titoli presentati per la riscossione (Cass., n. 6524/2000). Del resto, la banca negoziatrice non è tenuta a predisporre particolari attrezzature idonee ad evidenziare il falso, né i suoi dipendenti debbono avere una particolare competenza in grafologia, in quanto sussiste la diligenza della banca trattaria nel riscontrare la corrispondenza delle firme di traenza allo "specimen" depositato dal correntista quando la difformità delle sottoscrizioni non sia rilevabile ad un esame attento, benché a vista, del titolo (Cass., n. 12761/1993). Ciò posto, quello dedotto nel presente giudizio non rientra tra i casi nei quali la responsabilità di parte convenuta va ricondotta all'ipotesi di responsabilità oggettiva di cui all'art. 43, secondo comma, L.A. (pagamento a Caio di un assegno di traenza il cui prenditore legittimato cartolarmente è Tizio), bensì si tratta di un caso nel quale la responsabilità deve essere valutata alla stregua dell'uso concreto della diligenza richiesta al bancario medio sulla base delle sue conoscenze, in applicazione dei principi generali di cui agli artt. 1176, secondo comma, e 1992, secondo comma, c.c. Ne discende allora che, poiché la responsabilità della banca negoziatrice di un assegno (circolare o bancario) è di tipo contrattuale, una volta contestato l'inesatto adempimento dell'obbligazione di pagamento, spetta alla stessa banca negoziatrice provare, ai sensi dell'art. 1218 c.c., di aver correttamente operato, ovvero, non essendo sufficiente una generica prova di diligenza, dimostrare la sussistenza di una impossibilità della prestazione non imputabile alla luce del canone di diligenza del banchiere professionale, ai sensi degli artt. 1176 secondo comma c.c. e 1992, secondo comma, c.c. Nella fattispecie in esame, l'indagine che il Giudice è chiamato ad effettuare riguarda, dunque, l'osservanza dell'obbligo di diligenza, anche sotto il profilo della colpa lieve, di (...) sia in relazione al colpevole mancato riconoscimento della contraffazione del titolo consistente nella sostituzione del nome del beneficiario originario con quello del soggetto che ha presentato all'incasso l'assegno, che con riferimento alla non corretta identificazione del medesimo soggetto portatore del titolo. Alla stregua dei principi giurisprudenziali innanzi richiamati (Cass., 1377/2016; Cass., 6513/2014; Cass., 20292/2011; Cass., 15066/2005; Cass. 6524/2000), la misura della diligenza richiesta alla banca negoziatrice, in caso di falsificazione del titolo, necessita di "un accertamento di fatto volto a saggiare, in concreto, il grado di esigibilità della diligenza stessa, verificando, in particolare, se la falsificazione sia, o meno, riscontrabile attraverso un attento esame diretto, visivo o tattile, dell'assegno da parte dell'impiegato addetto, in possesso di comuni cognizioni teorico/tecniche, ovvero pure in forza di mezzi e strumenti presenti sui normali canali del mercato di consumo e di agevole utilizzo, o, piuttosto, se la falsificazione stessa sia, invece, riscontrabile soltanto tramite attrezzature tecnologiche sofisticate e di difficile e dispendioso reperimento e/o utilizzo o tramite particolari cognizioni teoriche e/o tecniche". Al riguardo, va osservato che, sebbene ai fini della corretta identificazione del presentatore del titolo l'obbligo di diligenza e di protezione a carico della banca negoziatrice non possa essere spinto fino al punto di imporre all'impiegato addetto di verificare la falsità del documento di identità o di riconoscimento, trattandosi di una cautela estremamente difficile da rispettare anche usando l'ordinaria diligenza, nondimeno, per andare esente da responsabilità, è necessario che essa dimostri di aver adottato tutte le cautele del caso soprattutto in presenza di quegli elementi di sospetto e di allarme innanzi indicati. Inoltre, alla stregua delle più recenti pronunce della Corte di Cassazione, "In tema di titoli di credito, la banca negoziatrice, chiamata a rispondere del danno derivato dal pagamento di un assegno non trasferibile a soggetto che successivamente risulti non essere il beneficiario del titolo, è ammessa a provare che l'inadempimento non è a lei imputabile, ma, trattandosi di operatore professionale qualificato, contrattualmente responsabile anche per colpa lieve in virtù del combinato disposto degli artt. 1176, comma 2, c.c. e 43, comma 2, R.D. n. 1736 del 1933, è tenuta ad offrire una prova liberatoria in grado di escludere anche tale colpa. (Fattispecie relativa al pagamento di un assegno di traenza, inviato al beneficiario a mezzo posta ordinaria e pagato ad un soggetto che poi si è rivelato estraneo al rapporto cartolare)." (Cass. 17737/2019). Nella fattispecie in esame, il Giudice di primo grado ha disposto apposita CTU al fine di accertare se l'assegno in contestazione presentasse elementi di contraffazione nel nome del beneficiario, rilevabili "ictu oculi". All'esito delle operazioni peritali, il CTU ha risposto a tale quesito affermando che "l'assegno n. (...) dell'importo di Euro 1.785,21 intestato a (...) non presenta elementi di contraffazione nel nome del beneficiario, rilevabili ictu oculi". Ai fini di giustizia, tuttavia, il CTU rilevava altresì che dall'analisi strumentale dell'assegno de quo era emerso che "per la compilazione dell'assegno verificato sono stati utilizzati due mezzi meccanici differenti", circostanza rilevabile ictu oculi, nonché che "in corrispondenza dell'importo in lettere ed in corrispondenza del nome del beneficiario, si riscontra uno sfaldamento delle fibre del supporto cartaceo", circostanza, questa non rilevabile ictu oculi, se non con l'utilizzo di specifici strumenti tecnici. Parte opponente censura il punto della sentenza impugnata che avrebbe tratto da tali affermazioni del CTU l'affermazione della dimostrazione del comportamento diligente di (...) nella negoziazione del titolo in questione. Parte appellata sostiene, invece, la correttezza della decisione di primo grado, atteso che la CTU avrebbe confermato che la contraffazione del nome del beneficiario non fosse evidente ictu oculi, ma soltanto attraverso l'utilizzo di speciali apparecchiature. In realtà, dagli accertamenti compiuti dal CTU, se da un lato non emerge alcun elemento di contraffazione rilevabile ictu oculi nella dattiloscrittura del nome del beneficiario (cfr. pag. 4), dall'altro lato, che il mezzo meccanico utilizzato per la dattiloscrittura della data di emissione e dell'importo in cifre è emerge ictu oculi differente dal mezzo meccanico che ha apposto sul medesimo assegno l'importo in lettere. Dunque, benché non possa parlarsi di evidente contraffazione del nominativo del prenditore del titolo, tuttavia, attraverso l'esame diretto dello stesso, l'agente postale avrebbe dovuto rivelare con la diligenza richiesta al bonus argentarius, anche senza l'impiego di speciali apparecchiature, l'utilizzo di strumenti meccanici differenti per la compilazione di parti diverse dell'assegno e, dunque, la contraffazione del medesimo titolo, sia pure in parti diverse dal nome del beneficiario. Un tale contraffazione del titolo, pur non dimostrando di per sé la negligenza del buon banchiere nella negoziazione dell'assegno, tuttavia costituisce un elemento di sospetto e di allarme circa l'effettiva titolarità del titolo presentato per l'incasso che, unitamente agli altri riscontrabili nel caso di specie, avrebbe dovuto indurre l'operatore di cassa ad adottare una maggiore attenzione nelle operazioni di negoziazione, effettuando maggiori controlli sul conto della persona presentatasi per l'incasso dell'assegno stesso. Altra evidente anomalia che emerge dal confronto del cognome del beneficiario dattiloscritto sul titolo e quello riportato sulla carta d'identità acquisita in occasione della presentazione del titolo, è rappresentato dal fatto che mentre sul primo è scritto "DELUCIA" senza soluzione di continuità, sulla seconda è scritto "D.L." con punto di separazione tra "DE" e "LUCIA". D'altro canto, un atteggiamento maggiormente prudenziale avrebbe dovuto essere stato adottato anche alla luce di quegli ulteriori elementi di sospetto (ovvero, indici di allarme) a fronte dei quali la giurisprudenza - sia di merito, che di legittimità richiede un innalzamento del livello di attenzione e di diligenza richiesto all'operatore di cassa. Difatti, l'orientamento giurisprudenziale a cui si intende dare seguito, in situazioni analoghe a quelle verificatesi nel caso in esame, si è invero espresso nel senso che "la banca, nel consentirel'apertura di un libretto bancario ad un soggetto che le era in precedenza sconosciuto ed in una situazione di per sé stessa sospetta, in cui risultava evidente che l'unico scopo perseguito era quello di incassare l'assegno, non poteva accontentarsi di identificare il cliente (?), ma avrebbe dovuto adottare maggiori cautele, acquisendo ulteriori informazioni, sia attraverso il sistema bancario, sia mediante l'interpello dello stesso presentatore del titolo" (cfr. Cass., SS.UU. n. 12477/2018). Tale principio è stato ribadito anche recentemente dalla S.C., laddove ha affermato che " in tema di assegno bancario cd. "di traenza" l'attività di controllo della rispondenza della persona che presenta il titolo al reale beneficiario, da espletare nel rispetto delle prescrizioni di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., deve essere particolarmente attenta, non potendosi esaurirsi nell'esame del solo documento d'identità esibito dal prenditore, ma deve investire anche la valutazione di eventuali circostanze "extracartolari" anomale. (Nella specie la S.C. ha ritenuto che l'ufficio postale innanzi al quale l'assegno era stato presentato avrebbe dovuto valutare che il prenditore era persona totalmente sconosciuta all'ufficio ed aveva appena aperto un libretto postale dove aveva depositato le somme riscosse a mezzo dell'assegno) (Cass., n. 13152/21 e Cass., n. 9842/21). Sotto tale profilo, non è però corretta l'affermazione di parte appellante secondo la quale, ai fin della corretta identificazione del presentatore del titolo, l'obbligo di diligenza e di protezione a carico della banca negoziatrice si sarebbe dovuto spingere fino al punto di imporre all'impiegato addetto di acquisire due documenti di identità munito di foto di riconoscimento, - come previsto dalla raccomandazione contenuta nella circolare ABI del 7 maggio 2001 indirizzata agli associati - e non solo uno come avvenuto nel caso di specie, avendo l'operatore postale identificato il (...) attraverso un solo documento d'identità (la carta d'identità rilasciata dal Comune di Grumo Nevano - NA) e il codice fiscale. Difatti, la più recente giurisprudenza di legittimità ha negato qualsiasi portata precettiva alla circolare ABI del 07.05.2001 e conseguentemente ha escluso l'obbligo di identificare il presentatore del titolo attraverso due documenti d'identità, affermando il principio secondo il quale "in materia di pagamento di un assegno di traenza non trasferibile in favore di soggetto non legittimato, al fine di valutare la sussistenza della responsabilità colposa della banca negoziatrice nell'identificazione del presentatore del titolo, la diligenza professionale richiesta deve essere individuata ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c., che è norma "elastica", da riempire di contenuto in considerazione dei principi dell'ordinamento, come espressi dalla giurisprudenza di legittimità, e dagli "standards" valutativi esistenti nella realtà sociale che, concorrendo con detti principi, compongono il dirittovivente; non rientra in tali parametri la raccomandazione, contenuta nella circolare ABI del 7 maggio 2001 indirizzata agli associati, che segnala l'opportunità per la banca negoziatrice dell'assegno di traenza di richiedere due documenti d'identità muniti di fotografia al presentatore del titolo, perché a tale prescrizione non può essere riconosciuta alcuna portata precettiva, e tale regola prudenziale di condotta non si rinviene negli standard valutativi di matrice sociale ovvero ricavabili dall'ordinamento positivo, posto che l'attività di identificazione delle persone fisiche avviene normalmente tramite il riscontro di un solo documento d'identità personale". (Cass., 34107 del 19/12/2019) Tale principio è stato confermato dalla S.C. laddove ha stabilito che "nel caso di pagamento di una somma in favore di soggetto non legittimato, non concorre ad individuare il livello di diligenza qualificata, esigibile da (...) ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c., la raccomandazione ABI contenuta nella circolare del 7 maggio 2001 (che prescrive l'identificazione del beneficiario del pagamento attraverso due documenti muniti di fotografia), dal momento che alla stessa non può essere riconosciuta alcuna portata precettiva, né tale regola prudenziale di condotta si rinviene negli "standards" valutativi di matrice sociale ovvero ricavabili dall'ordinamento positivo, posto che l'attività di identificazione delle persone fisiche avviene normalmente tramite il riscontro di un solo documento d'identità personale". (Cass., Ordinanza n. 26866 del 13/09/2022) Sebbene ai fini della corretta identificazione del presentatore del titolo, l'obbligo di diligenza e di protezione a carico della banca negoziatrice non possa essere spinto fino al punto di imporre all'impiegato addetto l'acquisizione di due documenti d'identità, nondimeno, per andare esente da responsabilità è necessario che essa dimostri di aver adottato tutte le cautele del caso, soprattutto in presenza di quegli elementi di sospetto e di allarme riscontrati. Nel caso in esame, dalla stessa documentazione allegata alla comparsa di costituzione e risposta in primo grado emerge che il (...) era persona "sconosciuta" a (...) e cioè non legata da precedenti rapporti di conto corrente o di risparmio con la banca negoziatrice, avendo lo stesso provveduto all'apertura di un libretto di risparmio presso l'Ufficio Postale di Casandrino (NA) solo in occasione della presentazione dell'assegno per cui è causa in data 27.01.2006). La presenza congiunta delle anomalie riscontrabili ictu oculi sul titolo e degli indici di allarme sopra evidenziati, avrebbe dovuto indurre l'operatore di cassa ad effettuare maggiori controlli sul conto della persona presentatasi per l'incasso dell'assegno, sia attraverso il sistema bancario, che mediante l'interpello del presentatore stesso. Al contrario, nella specie, non vi è stato alcun innalzamento del livello di attenzione e di diligenza, essendosi (...) limitata a dedurre di aver correttamente verificato l'identità della persona presentatasi per la riscossione dell'assegno de quo, senza aver dimostrato di aver effettuato gli accertamenti richiesti al fine di verificare l'evidente contraffazione dello stesso. Segnatamente, invece, tenuto conto dei limiti oggettivi delle informazioni sulla "pagabilità" del titolo propri della procedura della c.d. check truncation (sulla quale si tornerà più avanti), l'operatore avrebbe dovuto chiedere conferma alla banca trattaria della correttezza del nome del beneficiario in favore del quale aveva emesso l'assegno presentato all'incasso ed effettuare il controllo della correttezza del codice fiscale del presentatore. Di conseguenza, qualora la convenuta avesse agito, in occasione della negoziazione del titolo, con la normale diligenza del banchiere qualificato, effettuando più specifiche e approfondite verifiche, avrebbe dovuto astenersi dal procedere al pagamento dell'assegno per cui è causa in favore di colui che lo aveva presentato per l'incasso. Ciò posto, neppure è possibile individuare una corresponsabilità in capo alla banca emittente ex art. 1227 c.c. in considerazione dell'utilizzo della procedura di check truncation ai fini della negoziazione degli assegni de qibus e del fatto che (...) abbia reso disponibili le somme portate dai titoli non immediatamente, ma solo una volta decorso senza alcun messaggio di impagato o di blocco il termine entro il quale la banca trattaria, effettuate le opportune comunicazioni, può segnalare eventuali irregolarità del titolo. Difatti, a differenza di quanto erroneamente assume parte convenuta, la materiale contraffazione del titolo nella parte relativa al nome del prenditore non poteva essere in alcun modo riscontrata dalla banca trattaria, in quanto nella procedura di check truncation le comunicazioni intercorrenti tra banca negoziatrice e banca trattaria vertono unicamente sull'esistenza e sulla capienza della provvista con cui provvedere al pagamento del titolo presentato per l'incasso. Difatti, i dati che vengono comunicati dalla banca negoziatrice ((...)) sono esclusivamente il numero, il cab ed abi identificativi e l'importo dell'assegno, e non anche il nominativo del prenditore. Il titolo, invece, resta nella materiale disponibilità della banca negoziatrice e non viene visionato dalla banca trattaria. Ne discende che il positivo esito della procedura di check truncation espletata nelle vicende in esame non esimeva in alcun modo (...) dal diligente adempimento agli obblighi di protezione sulla medesima gravanti in sede di negoziazione dei titoli di credito, nonché dalle responsabilità insorgenti in caso di inadempimento. Semmai, in presenza degli specifici elementi di allarme rilevabili nel caso di specie, sarebbe rientrato negli obblighi di diligenza e di protezione dell'odierna appellata quello di non limitarsi, nella negoziazione del titolo, all'utilizzo della procedura di check truncation, ma di effettuare più specifiche ed approfondite verifiche bancarie al fine di appurare presso la banca trattaria se il nome del beneficiario corrispondeva a quello che aveva presentato il titolo all'incasso. Va ora esaminata l'ulteriore eccezione - prospettata da parte appellata - della configurabilità di un concorso colposo ex art. 1227 c.c. di (...) per avere la stessa scelto di inviare il titolo al beneficiario tramite posta ordinaria e non tramite posta assicurata, scegliendo così un sistema di corrispondenza notoriamente non sicuro e facilmente soggetto ad episodi di sottrazione/furto dei plichi spediti. In precedenti pronunce, questo Giudicante ha escluso la configurabilità di un concorso colposo dell'Istituto trattario/emittente che avesse spedito i titoli trafugati e contraffatti con posta ordinaria anziché con posta assicurata. A tale soluzione si è pervenuti in considerazione della mancanza di un nesso di causalità giuridica tra la condotta eventualmente negligente della banca mittente e l'evento dannoso consistente nella condotta inadempiente della banca negoziatrice del titolo in mancanza della diligenza professionale richiesta. Difatti, sebbene per la prevalente giurisprudenza di legittimità il fatto colposo ex art. 1227 c.c. possa ricomprendere "qualsiasi condotta negligente od imprudente che costituisca causa concorrente dell'evento e, quindi, (?) anche un comportamento antecedente", quest'ultimo deve comunque essere "legato da nesso eziologico con l'evento medesimo" (cfr. Cass. Civ., 15 marzo 2006, n. 5677). Si è, dunque, seguito l'orientamento giurisprudenziale di legittimità che ha esplicitamente escluso che la spedizione di un assegno a mezzo del servizio postale possa rilevare ai fini del concorso colposo ex art. 1227 c.c., in quanto, "in materia di spedizione, per via postale ordinaria, di un titolo di credito pagabile all'ordine, munito della clausola di non trasferibilità, ove il pagamento a soggetto non legittimato sia attribuibile a negligenza della banca negoziatrice, ai fini della valutazione comparativa dell'incidenza o meno della colpa del creditore-emittente nella determinazione del danno, da accertare in concreto e alla luce del principio di "causalità adeguata", non rilevano né il rischio generico assunto dall'emittente nell'affidarsi al serviziopostale ordinario, né le modalità con le quali è stato spedito il plico postale" (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 17 gennaio 2019, n. 1049). Tale orientamento escludeva l'applicabilità dall'art. 1227 c.c. in quanto "l'evento dannoso prodottosi non dipende dall'inoltro dell'assegno a mezzo del plico postale - evenienza, questa, da cui può solo derivare la conseguenza dell'appropriazione del titolo da parte del non legittimato - ma dalla condotta dell'ente giratario per l'incasso, siccome responsabile del pagamento in favore di un soggetto diverso dal beneficiario" (Cass. 10 febbraio 2018, n. 2520; Cass. 4 novembre 2014, n. 23460). Si rileva, inoltre, che anche gli artt. 83 - 84 D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni, concernenti il divieto di includere nella corrispondenza ordinaria denaro o preziosi, ersno considerati irrilevanti nei casi analoghi a quello in esame, in quanto tali norme pongono un divieto che attiene esclusivamente ai rapporti fra l'ente postale e gli utenti, al fine di prevenire condotte e comportamenti fonte di responsabilità per le parti del rapporto stesso, onde ne risulterebbe l'irrilevanza al di fuori di quel rapporto, ma soprattutto in considerazione del fatto che l'assegno non trasferibile non è equiparabile né agli oggetti preziosi, né al denaro, né alle carte di valore esigibili al portatore (Cass. 7618/2010, Cass., 20911/2018). Si era ritenuto, difatti, che la spedizione con posta ordinaria, anziché con posta assicurata, del titolo successivamente contraffatto non potesse essere causalmente messa in collegamento con l'evento dannoso de quo, concretizzatosi nel successivo pagamento ad un soggetto diverso dal titolare originariamente indicato. Evento questo che, nella specie, sarebbe stato evitato qualora (...) avesse rifiutato, in osservanza dei doveri di protezione sulla stessa gravanti, di procedere al pagamento dell'assegno in assenza di ulteriori verifiche/controlli sulla genuinità del titolo presentato per l'incasso, alla luce delle evidenti anomalie che lo stesso presentava. In effetti, la maggiore garanzia della sicurezza dei sistemi di pagamento dovrebbe essere offerta proprio dalla gestione dei medesimi da parte di soggetti (banche ed istituti assimilati) dotati di specifiche competenze e professionalità e assoggettati a stringenti obblighi di diligenza proprio al fine di assicurare la correttezza dei pagamenti anche a fronte di eventuali fatti illeciti di terzi. Di poi, la notorietà e frequenza degli episodi di sottrazione di titoli di credito inviati a mezzo posta ordinaria, anziché determinare il concorso di colpa del mittente/danneggiato nell'evento dannoso, avrebbe dovuto costituire circostanza ulteriore alla luce della quale si imporrebbe alle banche negoziatrici - soprattutto in presenza di altri elementi di sospetto circa l'effettiva titolarità del titolo presentato per l'incasso - una maggiore attenzione nelle operazioni di negoziazione del titolo medesimo, con conseguente innalzamento della diligenza richiesta. Sul tema del concorso di colpa del mittente/danneggiato che ha spedito con posta ordinaria l'assegno successivamente trafugato e contraffatto, è recentemente intervenuta la pronuncia delle SS.UU. 26/05/2020, n. 9769 che, nel comporre il contrasto giurisprudenziale in materia, ha affermato il principio secondo il quale "La spedizione per posta ordinaria di un assegno, ancorché munito di clausola d'intrasferibilità, costituisce, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto non legittimato, condotta idonea a giustificare l'affermazione del concorso di colpa del mittente, comportando, in relazione alle modalità di trasmissione e consegna previste dalla disciplina del servizio postale, l'esposizione volontaria del mittente ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gl'interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, e configurandosi dunque come un antecedente necessario dell'evento dannoso, concorrente con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell'identificazione del presentatore. Tale sentenza, dopo aver riconosciuto l'inesistenza di norme giuridiche che escludono l'utilizzazione della posta ordinaria per i pagamenti a distanza - inclusi gli artt. artt. 83 - 84 D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 - richiama le modalità di prestazione del servizio postale così come disciplinate dal D.M. 26 febbraio 2004 vigente all'epoca dei fatti, per poi affermare che "la scelta di avvalersi della posta ordinaria per la trasmissione dell'assegno al beneficiario, pur in presenza di altre forme di spedizione o di strumenti di pagamento ben più moderni e sicuri, si traduce nella consapevole assunzione di un rischio da parte del mittente, che non può non costituire oggetto di valutazione ai fini della individuazione della causa dell'evento dannoso (...) Tale esposizione volontaria al rischio, o comunque la consapevolezza di porsi in una situazione di pericolo, è stata ritenuta da questa Corte sufficiente a giustificare il riconoscimento del concorso di colpa del danneggiato, ai sensi dell'art. 1227, primo comma, cod. civ. ...". Il pur autorevole arresto della SS.UU. non è condiviso da questo Giudicante, dovendosi ribadire, in conformità alla giurisprudenza di merito formatasi dopo il pronunciamento delle SS.UU. (cfr. Trib. Milano, 07.07.2020, n. 3961; Trib. Milano, 07.07.2020, n. 3965; Trib. Milano, 13.10.2020, n. 6205; Trib. Milano, 01.12.2020n. 7818; Trib. Roma, n. 13173/2020), l'insussistenza di un concorso di colpa del mittente/danneggiato che utilizza il servizio di posta ordinaria per la spedizione di un assegno bancario/circolare, in assenza di un nesso di causalità giuridica con l'evento dannoso. Infatti, in senso critico rispetto alle argomentazioni utilizzate dalle SS.UU., va osservato come l'utilizzo della posta raccomandata o assicurata non comporti il trasporto e lo smistamento del plico secondo canali diversi, separati o preferenziali e più sicuri rispetto alla posta ordinaria. Difatti, se è vero che nel momento della consegna, la lettera raccomandata o assicurata debba essere consegnata a mani del destinatario o di persona autorizzata al ritiro e non possa essere immessa nella cassetta postale, è altrettanto vero che ciò attiene alla sola fase della consegna, rimanendo il differente mezzo di spedizione privo di rilevanza per tutte le precedenti fasi di lavorazione (trasporto e smistamento), durante le quali più verosimilmente la corrispondenza viene intercettata e trafugata. D'altro canto, una volta effettuata la consegna, la lettera risulta dai registri interni presa in carico dal portalettere, rendendo in tal modo facilmente identificabile il soggetto che ne ha preso il controllo. Neppure potrebbe rilevare in concreto la circostanza che la spedizione con raccomandata o assicurata possa essere monitorata dal mittente, dal momento che il breve lasso di tempo intercorrente tra il trafugamento dell'assegno e la sua presentazione all'incasso non consentirebbe comunque di rilevare un ritardo anomalo, tale da far legittimamente insorgere sospetti nel mittente/danneggiato. Altrettanto contraddittoria è l'affermazione delle SS.UU secondo la quale la scelta di uno strumento di spedizione a loro dire inaffidabile e comportante un maggior rischio di trafugamento, finirebbe con l'aggravare ingiustamente la "posizione della banca trattaria o negoziatrice, maggiormente esposta alla possibilità di andare in contro a responsabilità, e quindi costretta a munirsi di strumenti tecnici sempre più sofisticati e costosi per l'identificazione dei presentatori e del contrasto dell'uso di documenti falsificati" Se, infatti, la responsabilità della banca negoziatrice non è di natura oggettiva ma, come si è detto, ricade nei parametri della responsabilità contrattuale fondata sull'obbligo di adempimento diligente ex articolo 1176 c.c., la stessa è "ammessa a provare che l'inadempimento non è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall'articolo 1176, 2 comma c.c." (SS.UU. 12477/2018). Sicché, là dove la contraffazione del titolo o dei documenti di identificazione del prenditore non sia riconoscibile in forza di una verifica condotta secondo i parametri della diligenza qualificata, cui la banca negoziatrice è comunque tenuta, la stessa non potrà essere considerata inadempiente e, conseguentemente, non potrà essere condannata ad alcun risarcimento del danno. Considerato, dunque, che la banca negoziatrice è chiamata in ogni caso a comportarsi secondo un parametro di diligenza professionale qualificata nel valutare la correttezza del titolo e nell'identificare il presentatore all'incasso, non si comprende in forza di quale principio essa, qualora non si fosse attenuta al proprio obbligo di condotta diligente, dovrebbe essere considerata meno responsabile (o meglio, corresponsabile con il mittente/danneggiato) per il solo fatto che l'assegno pagato non correttamente fosse stato spedito con lettera ordinaria. Tanto più in considerazione del fatto che, nella fase del pagamento, gli obblighi di adempimento gravanti sulla banca negoziatrice rimangono immutati qualsiasi fosse stata la forma di spedizione del titolo utilizzata dal mittente/danneggiato. Nel caso di specie, dunque, deve escludersi che la spedizione a mezzo posta ordinaria del titolo successivamente contraffatto si configuri come antecedente necessario dell'evento dannoso de quo concretizzatosi nel pagamento di un assegno contraffatto ad un soggetto diverso dal titolare originariamente indicato. Evento che, va ribadito ancora una volta, sarebbe stato evitabile qualora (...) avesse rifiutato, in osservanza dei doveri di protezione sulla stessa gravanti, di procedere al pagamento dell'assegno in assenza di ulteriori verifiche/controlli sulla evidente contraffazione del titolo presentato all'incasso. Alla stregua di quanto fin qui esposto, risultano integrati tutti gli estremi per configurare la responsabilità contrattuale ex art.1218 c.c. di (...), la quale non ha fornito la prova liberatoria rispetto alla negoziazione dell'assegno in contestazione. Sussiste, inoltre, il nesso causale tra l'inadempimento di (...) e il danno subito dalla (...) emerge dal fatto che, in assenza dell'errata negoziazione da parte della convenuta, il titolo non sarebbe stato pagato ad un soggetto diverso dall'effettivo ed originario beneficiario, sicché, la società attrice non avrebbe perduto la provvista messa a disposizione della banca trattaria ai fini dell'emissione dell'assegno di traenza in contestazione. In conclusione, l'appello proposto da (...) risulta fondato e va dunque dichiarata la responsabilità ex art. 1218 c.c. di (...) per violazione del precetto di cui all'art. 1176, comma 2, c.c. Sicché, in accoglimento della domanda spiegata in prime cure, (...) S.p.A. va condannata al pagamento, in favore di (...) S.p.A., della somma di Euro 1.785,21, oltre interessi legali dalla domanda al saldo. Le spese di lite di entrambi i gradi del giudizio seguono la soccombenza e vanno poste a carico di (...), nella misura liquidata in dispositivo, secondo i parametri medi previsti dal D.M. n. 55 del 2014 e smi per lo scaglione di valore di riferimento. P.Q.M. Il Tribunale di Roma - XVII Sezione Civile, definitivamente pronunciando in riforma della sentenza del Giudice di Pace di Roma n. 10538/2019, del 15.04.2019, disattesa o assorbita ogni altra domanda ed eccezione, così provvede: 1) accoglie l'appello e condanna la convenuta (...) S.p.A. al pagamento, in favore di (...) S.p.A., della somma di Euro 1.785,21, oltre interessi legali dalla domanda al saldo; 2) condanna (...) S.p.A. alla rifusione delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio in favore di parte appellante, che liquida, per il primo grado, in Euro 88,00 per spese vive e in Euro 1.205,00 per compenso professionale e, per il secondo grado, in Euro 147,00 per spese vive e in Euro 2.552,00 per compenso professionale, oltre in entrambi i casi al rimborso forfettario delle spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma il 23 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 24 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8706 del 2022, proposto dalla società Co. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Pe. e Ar. Te., con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, corso (...), contro l'Azienda Ospedaliera Universitaria - A.O.U. dell'Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Na., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, nei confronti della società Ra. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ri. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Seconda n. 6881/2022, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ra. S.r.l. e dell'A.O.U. dell'Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120, co. 10, cod. proc. amm.; Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 26 gennaio 2023, il Cons. Giovanni Pescatore e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con il ricorso di prime cure Co. ha impugnato gli atti afferenti alla procedura di gara per l'affidamento del servizio annuale, rinnovabile di un ulteriore anno, di vigilanza armata presso le strutture aziendali site nel centro storico di Napoli, conclusasi con la aggiudicazione in favore della S.r.l. Ra.. 2. Con articolata decisione il Tar periferico ha respinto le censure condensate nel ricorso e nei motivi aggiunti, confermando la legittimità del provvedimento di aggiudicazione, con condanna di Co. alla refusione delle spese di lite. 3. Quest'ultima (seconda classificata e gestore uscente del servizio) è insorta chiedendo la riforma della pronuncia qui appellata, sulla base di tre motivi di censura, di seguiti riepilogati. 4. Per resistere alle istanze della parte appellante si sono costituite in giudizio la società controinteressata S.r.l. Ra. e l'Azienda Ospedaliera Universitaria - Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. 5. A seguito della reiezione dell'istanza cautelare (ordinanza n. 5753 del 2022) la causa è passata in decisione all'udienza pubblica del 26 gennaio 2023. 6. Il primo motivo di appello reitera i rilievi veicolati nel primo motivo del ricorso introduttivo, con i quali Co. si era lamentata del fatto che Ra., producendo una relazione tecnica di ben 84 facciate, redatta in più passaggi con caratteri e interlinea inferiori a quelli richiesti, si sarebbe avvalsa di uno spazio illustrativo delle proposte tecniche ben più ampio di quello concesso agli altri concorrenti, con ciò violando il principio di par condicio e di non discriminazione fra tutti i partecipanti della gara. Osserva in questa sede la parte appellante che poiché la legge di gara nulla disponeva sul punto, legittimamente la stazione appaltante l'ha integrata a mezzo dei chiarimenti, il cui rispetto, d'altra parte, giammai può ripercuotersi in danno o a svantaggio delle imprese che ad essi si siano attenute, se non violando in radice i principi di par condicio, certezza delle regole di gara, trasparenza, correttezza e legittimo affidamento. 6.1. In linea con quanto già esaustivamente chiarito dal giudice di primo grado e ribadito da questa Sezione in fase cautelare, il Collegio ritiene che la censura sia infondata. 6.2. Merita infatti osservare che: -- la disciplina di gara non contemplava alcuna prescrizione sui limiti dimensionali e per l'ipotesi del loro mancato rispetto nella redazione dell'offerta tecnica (v. art. 16 del disciplinare di gara, secondo capoverso); -- i chiarimenti resi dalla stazione appaltante in corso di gara in risposta al quesito n. PI043151-22, pur introducendo ex novo indicazioni sui limiti dimensionali, ovvero sulla composizione e sul numero di facciate dell'offerta ("file di testo di complessive n. 40 facciate massimo, in formato A4, con numerazione progressiva delle pagine, con carattere di scrittura minimo pari ad 11, con interlinea di 1,5"), non sono stati accompagnati dalla previsione di alcuna sanzione (tantomeno quella espulsiva) applicabile per il caso della loro inosservanza autentica e, comunque, (contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante) hanno introdotto una prescrizione (il numero massimo di pagine) per nulla contenuta nell'originaria lex specialis; -- pertanto, del tutto correttamente la Commissione di gara ha disapplicato, ossia ritenuto tamquam non esset, la prescrizione in questione, e lo ha fatto per tutti i concorrenti in gara, compresa l'odierna appellante; -- i chiarimenti e le Faq, d'altra parte, non sono idonei ad integrare o modificare la legge di gara (v. Cons. Stato, sez. V, n. 3492 del 2022; sez. I, parere n. 1275 del 2021; sez. III, n. 904 del 2021 e n. 64 del 2022). Essi, avendo natura meramente illustrativa delle regole della disciplina di gara, sono ammissibili nei limiti in cui, pur svolgendo la funzione di interpretazione autentica della lex specialis, non modifichino la disciplina ivi dettata per lo svolgimento della procedura selettiva; se, viceversa, si pongono in contrasto con le regole della gara, la stazione appaltante deve dare prevalenza alle clausole della lex specialis e al significato desumibile dal tenore letterale delle stesse (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. V, nn. 7793 e 2260 del 2021; sez. III, n. 64 del 2022); -- come ben chiarito dal primo giudice, nel caso in esame i chiarimenti non hanno assunto "un'efficacia esplicativa di una prescrizione di gara, nel senso di limitarsi ad illustrane il contenuto per quanto concerne aspetti in essa già presenti, ma hanno introdotto un "quid novi" che "ha comportato una inammissibile modificazione sostanziale della lex specialis rispetto al suo originario contenuto precettivo"; -- il precedente giurisprudenziale, apparentemente difforme, citato dalla parte appellante (sentenza del Cons. Stato, sez. V, n. 6939 del 2022), fa riferimento al diverso caso in cui il disciplinare di gara prevedeva espressamente il divieto per la Commissione di gara di esaminare le facciate ulteriori a quelle previste come limite massimo. Nel caso qui al vaglio, è il caso di ribadire, il disciplinare di gara non ha previsto alcuna sanzione per il caso del mancato rispetto dei limiti dimensionali dell'offerta tecnica; -- aggiungasi che la prescrizione inerente al numero massimo di pagine, oltre a poter dar luogo a esclusione solo se espressamente previsto dalla legge di gara (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 298 del 2021; n. 6857 del 2021; n. 577 del 2020), richiede sempre la specifica prova, a carico di chi invoca la illegittimità della aggiudicazione, del vantaggio competitivo conseguito da un concorrente in danno degli altri per effetto dell'eccedenza dimensionale dell'offerta (cfr. Cons. Stato, sez. V n. 6857 del 2021 e n. 999 del 2021); -- questa ipotesi di prova risulta in radice contraddetta, nel caso di specie, dalla duplice circostanza che nessuna delle ditte partecipanti si è attenuta strettamente ai parametri indicati dalla S.A.; e che la stessa Co. ha presentato una relazione tecnica aggiuntiva (composta da n° 11 facciate) utile ai fini dell'attribuzione dei punteggi e come tale valutata dalla Commissione; -- il modus agendi di Co., oltre ad inficiare la tesi del vantaggio competitivo di cui si sarebbe giovata Ra. e delle pretesa violazione del principio di parità e non discriminazione (v. Cons. Stato, sez. III, n. 10878 del 2022), espone la censura all'eccezione di inammissibilità per violazione del principio del nemo potest venire contra factum proprium (eccezione ritualmente sollevata in primo grado dalla stazione appaltante nella memoria di costituzione e quindi certamente delibabile in questa sede); -- risulta infatti pacifico che la relazione tecnica prodotta dall'appellante superava il numero massimo di pagine stabilito dal chiarimento, mentre è vano il tentativo della stessa parte appellante di differenziare la propria posizione da quella della controinteressata poiché, anche a voler ritenere che nel caso dell'appellata le pagine in più costituissero un "mero allegato" della relazione tecnica, non è possibile escludere che detta integrazione abbia inciso - come del resto assume l'appellata Ra. S.r.l. - sull'attribuzione dei punteggi in relazione a specifici criteri di valutazione dell'offerta tecnica, così come l'istante assume essere avvenuto per la controinteressata; -- non hanno pregio, dunque, le deduzioni svolte da Co. per dimostrare la supposta diversa portata che le sue integrazioni avrebbero assunto rispetto a quelle introdotte da Ra.. Come ben chiarito dal primo giudice, con motivazione non confutata dalle allegazioni contenute nell'atto di appello, non sono "comunque predicabili differenze di tipo "qualitativo", come tali implicanti eccezioni dipendenti dallo specifico contenuto delle porzioni eccedenti: non solo, infatti, nessun riferimento in tal senso è rinvenibile nella lex specialis, così come nemmeno nella nota di chiarimenti; ma, seguendo l'impostazione di Co., si determinerebbe una situazione di opinabilità ed ambiguità in ordine al contenuto richiesto dal bando per l'offerta tecnica - tra l'altro imponendone un esame puntuale già in fase di verificazione dei requisiti di ammissione - con consequenziale oggettiva incertezza circa l'effettività di prescrizioni poste a pena di estromissione, in quanto afferenti alle modalità di compilazione dell'offerta, in palese distonia con il principio di tassatività delle cause di esclusione, da ritenersi operante anche con riferimento alla chiarezza e trasparenza di specifiche prescrizioni espulsive" (pagg. 9 - 13 della sentenza). 6.3. In conclusione, la censura sin qui esaminata non può trovare accoglimento né ai fini dell'esclusione della controinteressata dalla procedura selettiva, né ai fini di una decurtazione di punteggio, né tanto meno ai fini di una obbligatoria ripetizione della gara (profilo del quale l'appellante lamenta l'omesso esame da parte del T.A.R., ma del quale, specie alla stregua di quanto fin qui rilevato, davvero non si vede come possa predicarsi la fondatezza). 7. Con il secondo mezzo di impugnazione Co. deduce la violazione dell'art. 95 del d.lgs 50/2016, sostenendo che l'offerta economica presentata da Ra. non sarebbe conforme a quanto prescritto dal disciplinare di gara (art. 16) nella parte in cui esso imponeva ai concorrenti di formulare e presentare in gara la propria offerta economica mediante la compilazione a sistema dell'apposita scheda resa disponibile on line integrante la Busta C; e di inserire ai fini della compilazione della predetta Busta C (e quindi dell'offerta economica) anche le pertinenti spiegazioni "in merito agli elementi costitutivi dell'offerta". Ra. avrebbe mancato di allegare, appunto, le spiegazioni preventive "in merito agli elementi costitutivi" della propria offerta economica. 7.1. Il motivo è infondato. L'art. 17 del disciplinare ha previsto da parte dei concorrenti la presentazione: a) di una "dichiarazione ai sensi dell'art. 95 comma 10 del D. Lgs. n. 50/2016, nella quale la ditta dovrà indicare la stima dei costi aziendali relativi alla salute ed alla sicurezza sui luoghi di lavoro di cui all'art. 95, comma 10 del Codice. Detti costi relativi alla sicurezza connessi con l'attività d'impresa dovranno risultare congrui rispetto all'entità e le caratteristiche delle prestazioni oggetto dell'appalto"; b) di "Spiegazioni ex art. 97 commi 1 e 4 D.L.gs. n. 50/2016, ritenute pertinenti in merito agli elementi costitutivi dell'offerta. Sulla base delle suddette spiegazioni sarà valutata la congruità delle offerte che risultassero anormalmente basse, ai sensi dell'art. 97, comma 3 D. Lgs. n. 50/2016". 7.2. Ebbene, il Collegio condivide i rilievi delle parti intimate in ordine alla insussistenza di una clausola espulsiva specificamente collegata al mancato assolvimento dell'onere di produzione della documentazione di cui alla busta "C", contenente i giustificativi dell'offerta. Ritiene inoltre che detta misura espulsiva non sia ricavabile neppure in via interpretativa, ovvero da una lettura sistematica della legge di gara. 7.3. E' vero infatti che il disciplinare ha previsto che "Saranno escluse tutte le offerte redatte o inviate in modo difforme da quello prescritto nel presente disciplinare di gara" (punto 13 del disciplinare); ma è altresì vero che la lex specialis ha connotato tali spiegazioni come "eventuali", condizionandone l'allegazione al solo caso in cui le stesse fossero "ritenute pertinenti" da parte del loro proponente, così rimettendo a quest'ultimo la loro stessa individuazione. 7.4. Non solo, ma il medesimo disciplinare, al punto 21, rubricato "verifica di anomalia delle offerte", terzo capoverso, ha previsto, riportando quanto stabilito dall'art. 97, comma 5, Codice dei Contratti, che è il RUP, in sede di verifica delle offerte, a richiedere "per iscritto al concorrente la presentazione, per iscritto, delle spiegazioni, se del caso indicando le componenti specifiche dell'offerta ritenute anomale. A tal fine, assegna un termine non inferiore a quindici giorni dal ricevimento della richiesta". 7.5. Dunque, quest'ultima previsione ha correttamente ricollocato nella fase di verifica dell'anomalia dell'offerta l'adempimento dell'onere di produzione dei giustificativi, in linea con le previsioni del codice appalti, il che induce a devalutare la perentorietà dell'obbligo introdotto, in via anticipata, nella fase di presentazione dell'offerta economica, più correttamente interpretabile alla stregua di una mera facoltà rimessa alla valutazione discrezionale del concorrente. 7.6. Oltre a condividersi quanto osservato dal primo giudice in ordine all'afferenza delle spiegazioni de quibus non alla fase di valutazione delle offerte ma a quella di verifica della congruità dell'offerta effettuata nei confronti del solo aggiudicatario, nonché all'assenza nell'attuale disciplina (a differenza di quanto avvenuto in passato) di un generale obbligo di inserimento nell'offerta delle predette spiegazioni in via preventiva, si può aggiungere che, se anche una tale clausola fosse stata contenuta nel Disciplinare di gara e sanzionata con l'esclusione dalla procedura - come l'appellante insiste nel sostenere -, essa sarebbe risultata nulla per violazione della regola della tassatività delle cause di esclusione ex articolo 83, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016 (in tal senso essendo decisiva proprio la scelta del legislatore di escludere, rispetto a pregressa normativa, un obbligo di inserimento delle spiegazioni "preventive" a carico dei concorrenti), e quindi del tutto correttamente sarebbe stata non applicata dalla Commissione di gara. 7.7. Il principio di tassatività delle cause di esclusione, di cui all'art. 83, comma 8, del D. Lgs. n. 50 del 2016, importa infatti che le prescrizioni a pena di esclusione ulteriori rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti "sono comunque nulle"; e detto stigma di nullità è tale per cui la clausola in tal senso viziata è da intendersi come 'non appostà a tutti gli effetti di legge, quindi inefficace e tamquam non esset, senza alcun onere di doverla impugnare, dovendosi semmai impugnare gli atti conseguenti che ne facciano applicazione (v. Cons. Stato, ad. plen., n. 22 del 2020). 7.8. Rileva infine osservare, sotto altro punto di vista, che, specularmente a quanto già eccepito con riferimento al primo motivo di appello, anche Co. non ha allegato l'enunciazione degli elementi identificativi dell'offerta economica (la parte richiama il doc. 6 allegato il 7 ottobre 2022, dal quale nulla si desume sul punto), il che, nuovamente, espone la censura all'eccezione di inammissibilità per violazione del principio del nemo potest venire contra factum proprium e vanifica in toto la doglianza relativa alla pretesa violazione del principio di parità e non discriminazione. 8. Con il terzo motivo di appello, Co. censura la sentenza di primo grado lì dove non ha accolto i motivi aggiunti afferenti alla valutazione dell'offerta tecnica. 8.1. L'appellante evidenzia come anomalo il fatto che per ogni criterio valutativo l'offerta di Ra. abbia sempre ricevuto una preferenza premiale, pur a fronte di elementi offerti da Co. platealmente più rispondenti al relativo specifico criterio dettato dalla norma di gara. Sostiene che questa attribuzione preferenziale sarebbe avvenuta in modo "metodico" e "preconcetto", al deliberato fine di capovolgere il vantaggio acquisito da Co. attraverso l'offerta economica; e, ripercorrendo i sette parametri tecnici, segnala, analiticamente, i singoli elementi di maggior pregio tecnico che avrebbero dovuto far prevalere la sua offerta su quella di Ra.. 8.2. Il motivo non può essere accolto. 8.3. Come noto, secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale, al fine di contrastare il giudizio della commissione giudicatrice e far emergere suoi vizi di incoerenza e illogicità non è sufficiente evidenziare la mera non condivisibilità delle valutazioni da questa espresse, ma occorre fornire prova della loro macroscopica e del tutto manifesta inattendibilità, ovvero della loro evidente irragionevolezza e/o illogicità . 8.4. Nel caso di specie, il Collegio non ritiene che le allegazioni della parte appellante attingano ad un sufficiente grado di concludenza e compiutezza nella dimostrazione di questi indici di incongruenza. 8.5. Il solo confronto tra le allegazioni formulate da Co. nell'atto di appello e le controdeduzioni proposte in replica da Ra. nella comparsa di costituzione rende la chiara misura della oggettiva opinabilità della materia esaminata e della conseguente incertezza del rovesciamento dei giudizi che la parte appellante rivendica, al contrario, come esito necessitato, in quanto pienamente rispondente a criteri di logica ed evidenza. 8.6. A rendere arduo e sostanzialmente insondabile in sede giudiziale - per i limiti che connotano questa tipologia di scrutinio - l'accertamento della fattispecie di ingiustificata disparità di trattamento, concorre il fatto che la ricorrente non lamenta che gli stessi elementi delle due offerte tecniche siano stati apprezzati in modo inspiegabilmente diverso dalla commissione di gara; ma pretende di porre a confronto componenti ed aspetti di offerte tecniche differenti tra di loro dal punto di vista qualitativo. Ciò che si sollecita in questa sede giurisdizionale è dunque un'operazione di apprezzamento complessivo degli articolati contenuti delle due offerte, funzionale ad un successivo raffronto comparativo delle stesse e, in ultima analisi, ad una rideterminazione conclusiva dei punteggi. 8.7. Senonché, una simile impostazione argomentativa sconta il limite del carattere parziale dei profili tecnici censurati, ai quali Ra. ne contrappone altri che, nell'ambito del medesimo parametro, per specifica rilevanza, giustificherebbero la diversificazione dei giudizi operata dalla Commissione, motivando quel bilanciamento degli elementi qualitativi che, a giudizio della stessa, ha concorso a determinare il punteggio. Non si tratta di un sindacato, dunque, finalizzato a contestare profili circoscritti e limitati, a parità di tutte le altre circostanze - ceteris paribus - ma di un sindacato volto ad innescare un diverso bilanciamento della totalità dei profili qualitativi integrati nel singolo parametro tecnico. 8.8. Non vi è dubbio che una tale tipologia di sindacato giurisdizionale va ben oltre i limiti ammessi dal consolidato indirizzo interpretativo del giudice amministrativo e, senza trovare supporto in elementi di chiara e manifesta evidenza, trasmoda in un'inammissibile invasione o sostituzione nell'attività tecnico-discrezionale riservata all'autorità amministrativa, secondo quanto condivisibilmente sostenuto dal giudice di primo grado. 8.9. Le rassegnate considerazioni si condensano nella conclusiva valutazione espressa dal primo giudice secondo la quale nel caso di specie l'istante non ha evidenziato la sussistenza di quei macroscopici profili di travisamento, errore o irragionevolezza, evidenti ictu oculi, i quali solo possono legittimare un sindacato del giudice in subiecta materia, essendosi limitato a esternare una propria personale e soggettiva non condivisione dei giudizi formulati dalla Commissione, per di più in una logica "comparativa" tra le due offerte che è estranea al corretto funzionamento delle procedure selettive, laddove -con la sola eccezione del caso in cui la legge di gara preveda il ricorso al metodo del confronto a coppie - all'esame delle offerte tecniche e all'attribuzione dei relativi punteggi si procede in via autonoma e "assoluta", e non previo raffronto con le offerte di altri concorrenti. 8.10. Pure l'affermazione secondo cui la stazione appaltante avrebbe voluto indebitamente favorire la controinteressata, "premiandola" sull'offerta tecnica in modo da annullare gli effetti della maggior convenienza dell'offerta economica dell'odierna appellante (la quale, dunque, avrebbe dovuto essere conosciuta o presunta dall'Amministrazione) risulta sfornita di un affidabile supporto indiziario, non potendo questo desumersi dalla semplice circostanza che all'offerta di Ra. S.r.l. sia stato attribuito sempre il punteggio massimo per tutte le voci dell'offerta tecnica (come sottolinea l'appellante, quasi a voler sostenere, in apparente contraddizione con quanto poco prima dedotto, una irragionevolezza della valutazione di detta offerta in termini generali, e non con riguardo a specifiche voci oggetto di valutazione). 9. Per quanto esposto, l'appello va respinto, assorbite le eccezioni preliminari reiterate dalle parti appellate. 10. Le spese di lite seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la parte appellante a rifondere in favore delle due parti appellate le spese di lite che liquida per ciascuna di esse in Euro 4.000,00, oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 gennaio 2023 con l'intervento dei magistrati: Raffaele Greco - Presidente Pierfrancesco Ungari - Consigliere Stefania Santoleri - Consigliere Giovanni Pescatore - Consigliere, Estensore Ezio Fedullo - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CAPUTO Angelo - Presidente Dott. CANANZI Francesco - Consigliere Dott. PILLA Egle - Consigliere Dott. BRANCACCIO Matilde - rel. Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sui ricorsi proposti da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS) (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 22/10/2021 della CORTE APPELLO di CATANIA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere MATILDE BRANCACCIO; udito il Sostituto Procuratore Generale PERLA LORI che ha concluso chiedendo: l'inammissibilita' del ricorso per le posizioni (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS). Relativamente alla posizione di (OMISSIS), il PG conclude per l'annullamento senza rinvio con riferimento al Capo B; inammissibilita' nel resto. In relazione alla posizione di (OMISSIS), il PG conclude per l'accoglimento con rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio. Relativamente alla posizione di (OMISSIS), il PG conclude per il rigetto del ricorso. uditi i difensori: L'avvocato (OMISSIS), che chiede l'inammissibilita' dei ricorsi proposti da (OMISSIS) e (OMISSIS); deposita comparsa conclusionale e nota spese. L'avvocato (OMISSIS), che si riporta ai motivi di ricorso e insiste per l'accoglimento dello stesso. L'avvocato (OMISSIS), che insiste per l'accoglimento di entrambi i ricorsi. L'avvocato (OMISSIS), che si riporta ai motivi di ricorso e insiste per l'accoglimento dello stesso. L'avvocato (OMISSIS), il quale si associa alle richieste del co-difensore (OMISSIS). L'avvocato (OMISSIS) si riporta ai motivi di ricorso e insiste per l'accoglimento dello stesso. RITENUTO IN FATTO 1. Viene in esame la sentenza della Corte d'Appello di Catania che, in parziale riforma della decisione di primo grado emessa dal Tribunale di Catania in data 11.1.2019: - ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS) in ordine al reato loro ascritto al capo C della rubrica, riqualificato gia' in primo grado, dall'iniziale contestazione di estorsione, nel meno grave reato di cui all'articolo 393 c.p. (esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alle persone), per mancanza di querela; - ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS) in ordine ai reati loro ascritti ai capi F, H, 3, K, L ed N dell'imputazione, perche' estinti per intervenuta prescrizione; - ha rideterminato la pena nei confronti di (OMISSIS) in anni due di reclusione per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale ascrittogli al capo G, in relazione al quale gia' in primo grado era stata esclusa l'aggravante mafiosa, concedendogli le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante di aver commesso piu' fatti di bancarotta e sospensione condizionale della pena; - ha rideterminato in quattro anni e 4 mesi di reclusione la pena nei confronti di (OMISSIS), in ordine ai reati residui a lui ascritti ai capi G, I, e Q dell'imputazione, concesse le circostanze attenuanti generiche, prevalenti sull'aggravante di aver commesso piu' fatti di bancarotta; - ha rideterminato in anni due e mesi sei di reclusione la pena nei confronti di (OMISSIS) per il reato di cui al capo G della rubrica, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante di aver commesso piu' fatti di bancarotta; - ha rideterminato in anni otto di reclusione la pena nei confronti di (OMISSIS), condannato per i reati ascrittigli ai capi A, E, M, G, I e Q (associazione a delinquere di stampo mafioso, escluse le aggravanti di cui all'articolo 416-bis, commi 4 e 6; bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale; intestazione fittizia di beni e corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, tutti con esclusione dell'aggravante mafiosa); - ha ritenuto la continuazione criminosa nei confronti di (OMISSIS) (tra il capo E a lui ascritto e i reati giudicati con la sentenza della Corte d'Appello di Catania del 17.12.2018, irrevocabile) e modulato l'aumento relativo in un anno e sei mesi di reclusione; - ha escluso la continuazione interna al reato di cui al capo Q ed ha rideterminato la pena nei confronti di (OMISSIS) in anni nove di reclusione, ritenuta la continuazione tra i reati di cui ai capi O (rivelazione di segreti d'ufficio, nella sua qualita' di luogotenente in servizio presso il Gruppo della Guardia di Finanza di Catania, limitatamente all'episodio relativo a (OMISSIS) ed esclusa l'aggravante mafiosa, come gia' deciso dalla sentenza di primo grado) e Q (corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, quale pubblico ufficiale parte dell'accordo corruttivo, esclusa l'aggravante mafiosa, come gia' stabilito con la sentenza di primo grado), nonche' quelli giudicati con sentenza del Tribunale di Catania del 21.9.2017, irrevocabile; - ha escluso la continuazione interna al reato di cui al capo Q della contestazione ed ha rideterminato la pena inflitta per tale imputazione nei confronti di (OMISSIS) (nella sua qualita' di gestore di esercizi commerciali coinvolti nel patto corruttivo) in anni due di reclusione; - ha rideterminato in anni 15 e mesi 6 di reclusione la pena inflitta nei confronti di (OMISSIS) a titolo di continuazione, tra il reato di associazione mafiosa a lui ascritto al capo A (con esclusione delle aggravanti previste dall'articolo 416-bis c.p., commi 4 e 6) e quelli giudicati con le sentenze del 22.12.2016 della Corte d'Appello di Catania e del 16.11.2017 del Tribunale di Catania, irrevocabili; - ha rimodulato o revocato la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici e dell'interdizione legale nei confronti di alcuni imputati; - ha rideterminato la durata delle pene accessorie fallimentari nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), riducendola alla misura di 4 anni. La complessa vicenda criminale, che si dipana negli anni tra il 2010 ed il 2013 a Catania, si ricollega alle attivita' del clan mafioso denominato "(OMISSIS)", operante nella citta' etnea e facente capo a (OMISSIS), attivo soprattutto nel controllo delle attivita' economiche presenti sul territorio, ed e' emersa grazie ad attivita' di intercettazioni in atto nei confronti di alcuni dei protagonisti, portando alla luce alcuni episodi delittuosi, che hanno coinvolto imprenditori catanesi (i Cerbo, (OMISSIS)), protagonisti anche di un rapporto illecito corruttivo con un sottufficiale della Guardia di Finanza del Gruppo di Catania, (OMISSIS). In relazione al reato di associazione mafiosa (capo A), che vedeva inizialmente imputati tutti quelli che si dira' essere gli attuali ricorrenti, tranne (OMISSIS), cui era stato contestato il delitto di concorso esterno nella medesima associazione mafiosa (capo B), sono stati poi condannati, gia' all'esito del giudizio di primo grado, soltanto (OMISSIS) e (OMISSIS), poiche' colui il quale era il leader del sodalizio secondo la contestazione, vale a dire (OMISSIS), ha visto nei suoi confronti dichiararsi non doversi procedere per precedente giudicato (ne bis in idem), mentre (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) - per limitarsi alle posizioni che interessano il presente processo - sono stati assolti per non aver commesso il fatto. (OMISSIS) e' stato a sua volta assolto dal delitto di concorso esterno al sodalizio "(OMISSIS)" (capo B in relazione al capo A), perche' il fatto non sussiste (e' stato anche assolto da un'ulteriore contestazione di rivelazione di segreto d'ufficio, contenuta al capo P dell'imputazione). Molti degli imputati, e tra questi gli attuali ricorrenti, sono stati anche assolti da ulteriori imputazioni marginali loro ascritte, mentre alcuni di loro si sono visti accogliere dalla Corte d'Appello la richiesta di concordato sulla pena formulata ai sensi dell'articolo 599-bis c.p.p. e articolo 602 c.p.p., comma 1-bis, con rinuncia agli altri motivi d'appello (quanto ai ricorrenti, si tratta di (OMISSIS) ed (OMISSIS)); infine, (OMISSIS) ha rinunciato al primo motivo d'appello, tenendo ferme solo le censure relative al trattamento sanzionatorio, contenute nel secondo motivo e (OMISSIS) ha rinunciato a molti dei motivi d'appello anch'egli (tra questi, quelli relativi al merito dei delitti ascrittigli ai capi A, E, M, Q), tenendo fermi soltanto quelli di merito relativi ai capi C, F, G, H, I, 3, K, L, N, dei quali ultimi delitti contestati residuano, all'esito della sentenza di secondo grado, soltanto quelli di bancarotta fraudolenta contenuti nei capi G ed I. 2. Hanno proposto ricorso per cassazione avverso la richiamata sentenza d'appello gli imputati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), con distinti atti di impugnazione formulati dai rispettivi difensori di fiducia. 3. Il ricorso di (OMISSIS), che, come si e' anticipato, ha concordato la pena in appello in relazione ai reati per i quali era stato condannato, ascrittigli ai capi G, I e Q, si compone di un unico motivo, con cui si denuncia vizio di motivazione del provvedimento impugnato, che non darebbe conto, se non mediante formule di stile, delle ragioni in base alle quali ha confermato la condanna. L'adesione al concordato sulla pena non esimerebbe la sentenza d'appello dal dare spiegazioni sul merito della decisione. Con riguardo, in particolare ai due delitti di bancarotta fraudolenta contestati al ricorrente ai capi G (bancarotta relativa alla (OMISSIS) s.p.a., amministrata formalmente da (OMISSIS), ma di fatto gestita da e di proprieta' dei Cerbo, fallita il 21.3.2013) ed I (bancarotta relativa al fallimento della societa' (OMISSIS) s.p.a., amministrata formalmente da (OMISSIS), ma di fatto "gestita da" e di proprieta' dei (OMISSIS), fallita il (OMISSIS)), si evidenzia: - l'inutilizzabilita' assoluta delle dichiarazioni auto ed etero-accusatorie rese dal coimputato (OMISSIS) al curatore fallimentare e mai acquisite dal Tribunale; - l'inesistenza della prova dell'esercizio di poteri gestionali di fatto da parte del ricorrente, il quale e' stato condannato come concorrente, forse morale, nelle bancarotte realizzate dal figlio (OMISSIS), senza individuare i caratteri del contributo concorsuale in alcun modo, ma solo basandosi sulla loro convivenza familiare. Analoga carenza motivazionale, quanto alla constatazione del contributo fornito al reato, si riscontra in relazione alla condanna per il delitto di corruzione ascritto al ricorrente al capo Q. 4. Il ricorso di (OMISSIS) propone due motivi distinti. 4.1. La prima deduzione difensiva denuncia vizio di motivazione e violazione di legge in relazione al rigetto, da parte del Tribunale e della Corte d'Appello, della richiesta di riduzione di pena nella misura di un terzo, a seguito di istanza di giudizio abbreviato formulata dalla difesa all'udienza dibattimentale di primo grado del 22.3.2016, avuto riguardo a tutti i reati contestati, all'esito della modifica del capo C dell'imputazione da parte del pubblico ministero (avvenuta all'udienza dibattimentale del 23.2.2016). La difesa lamenta la tardiva riqualificazione giuridica della contestazione delittuosa, da estorsione aggravata in esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, che avrebbe falsato le scelte sul rito premiale del ricorrente: la Procura aveva gia' nella fase delle indagini gli elementi di fatto per rendersi conto della corretta qualificazione giuridica della vicenda (intercettazioni, dichiarazioni in interrogatorio dell'imputato, esiti delle perquisizioni e sommarie informazioni rese dalla vittima del reato), collegata a rapporti di debito-credito risalenti tra i protagonisti, ma all'udienza del 23.2.2016, pur modificando significativamente le modalita' di realizzazione della condotta, teneva ferma la contestazione estorsiva aggravata, poi smentita dal Tribunale. Da tale situazione di patologica riqualificazione dei fatti emerge, secondo la difesa, il diritto a vedere riaperti i termini per proporre richiesta di abbreviato, non soltanto rispetto al reato modificato di cui al capo C, come ritenuto, invece, dalla sentenza impugnata, bensi' rispetto a tutti i reati contestati, "trascinati" nella valutazione difensiva dall'opzione relativa al piu' grave delitto della continuazione criminosa, espresso proprio dal capo C. Richiamandosi ad una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni processuali contenute negli articoli 516 e 517 c.p.p., nel solco gia' tracciato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cassazione, il ricorrente evidenzia che, limitando il diritto ad ottenere l'ammissione successiva al rito abbreviato e la conseguente riduzione di pena, al solo reato oggetto di modifica della contestazione e non estendendola anche ai reati ad esso connessi e contenuti nello stesso processo, si impedirebbe all'imputato di elaborare una strategia difensiva che tenga conto dell'intera vicenda processuale. Si deduce, altresi', l'incoerenza tra le due ratio decidendi che emergono alla base del rigetto dell'istanza difensiva dai provvedimenti di primo e secondo grado. 4.2. Il secondo motivo propone l'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'articolo 516 c.p.p., qualora non lo si potesse che interpretare nel senso del rigetto di un'istanza volta alla riapertura dei termini per avanzare richiesta di rito abbreviato estesa a tutti i reati connessi o contestati nel medesimo processo ad imputazione relativamente alla quale si e' proceduto a modifica delle caratteristiche essenziali da parte del pubblico ministero "in ritardo" rispetto agli elementi che l'hanno determinata, e per questo in modo "patologico". La difesa rappresenta che, a ragionar diversamente rispetto alla tesi "garantista" suggerita, si determinerebbe un'ingiustificata disparita' di trattamento - rilevante ai sensi dell'articolo 3 Cost. e dell'articolo 24 Cost. per le sue ricadute sul diritto di difesa - tra l'imputato chiamato ab origine dell'imputazione "corretta" e l'imputato che, invece, subisce in ritardo una nuova e diversa contestazione. L'imputato, in ipotesi di modifica dibattimentale dell'imputazione, in ogni caso, deve poter recuperare i diritti tutti, connessi alle precedenti fasi processuali (come suggeriscono, peraltro, le sentenze nn. 265 del 1994, 530 del 1995, 333 del 2009, 273 del 2014, 206 del 2017, 14 del 2020, che si citano nel ricorso), poiche' tale modifica innova il perimetro accusatorio, sia che riguardi il reato di maggior gravita', come nel caso di specie, sia nell'ipotesi che attenga ad altro reato contestato nel processo, e, dunque, incide sulla scelta per eventuali riti alternativi, "falsandola". Infine, interpretando la disposizione processuale dell'articolo 516 c.p.p. nel senso di consentire un'apertura del termine per proporre richiesta di rito alternativo (abbreviato, per il ricorrente) unicamente in relazione alla contestazione per la quale vi e' stata modifica in dibattimento, si determinerebbero anche irragionevolezze intollerabili rispetto all'articolo 3 Cost., in relazione al principio di ragionevole durata del processo: il simultaneus processus verrebbe spezzato per l'imputazione modificata tardivamente, con conseguente separazione del procedimento attinente al relativo reato e mutamento del giudice. 5. Il ricorso di (OMISSIS) si compone di quattro diversi motivi. 5.1. Il primo di essi eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento impugnato, carente in ordine all'eccepita nullita' per difetto di contestazione dedotta ex articolo 604 c.p.p. in relazione al capo Q dell'imputazione (corruzione propria) ed ai sensi dell'articolo 522 c.p.p. (si richiama la sentenza della Sesta Sezione Penale n. 40966 del 2015): il ricorrente sarebbe stato condannato per una condotta diversa da quella oggetto dell'imputazione e precisamente il Tribunale ha riportato l'asservimento della condotta del pubblico ufficiale nei suoi confronti non gia' ad un rapporto che lo vedeva coinvolto quale titolare di una attivita' commerciale bensi' come semplice privato. Inoltre, il totale asservimento del pubblico ufficiale, cui il Tribunale ha ricondotto la contestazione, avrebbe dovuto determinare la riqualificazione del fatto nel reato di cui all'articolo 318 c.p.p. (corruzione per l'esercizio della funzione). La difesa richiama i principi declinati dalla giurisprudenza della Corte EDU in tema di legittimita' della riqualificazione giuridica del fatto, gli orientamenti della Cassazione sul mutamento del fatto in sede di verifica della correlazione tra accusa e sentenza, nonche' la totale omessa motivazione sull'eccezione di nullita' ex articolo 604 c.p.p. formulata dalla difesa in sede di discussione. 5.2. Il secondo motivo di ricorso deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza degli elementi soggettivo ed oggettivo del delitto di corruzione, contestato ai sensi degli articoli 319 e 321 c.p. al capo Q dell'imputazione. Mancherebbe la prova di un atto contrario ai doveri d'ufficio da parte del pubblico ufficiale. Infatti, vi sarebbe stato travisamento, da parte del giudice d'appello, dell'interesse di (OMISSIS) nell'esercizio commerciale gestito dalla suocera ("(OMISSIS)" di (OMISSIS)), legata da antichi rapporti di amicizia con (OMISSIS), il pubblico ufficiale imputato, che avrebbe agito solo nell'interesse esclusivo di lei, indipendentemente dal ricorrente; non e' stato provato l'intervento del pubblico ufficiale, su sollecitazione del ricorrente e degli altri coimputati, per ottenere controlli ed ispezioni sulle attivita' commerciali concorrenti rispetto a quelle "protette", anzi nessun esposto risulta mai inoltrato e nessun controllo esercitato nei confronti di detti concorrenti; non sarebbe provato che (OMISSIS) fornisse personale aggiuntivo della Guardia di Finanza per i controlli all'interno della discoteca (OMISSIS), di proprieta' del ricorrente, ne' che egli si rendesse disponibile a raggiungere il locale in qualsiasi caso fosse "opportuno" il suo intervento (le testimonianze in atti e le intercettazioni dimostrano che (OMISSIS) non ha mai svolto il ruolo di "responsabile alla sicurezza" della discoteca (OMISSIS), ma - secondo lo stesso "accusatore", il coimputato (OMISSIS) - si sarebbe limitato ad indicare colleghi eventualmente disponibili a fornire ausilio alla vigilanza). Quanto alla vicenda, anch'essa oggetto di condanna per la corruzione di cui al capo Q (ed al centro dell'autonoma condanna per il capo O del solo (OMISSIS), in ordine al reato previsto dall'articolo 326 c.p.), relativa alla rivelazione di segreti d'ufficio (anche) al ricorrente, costituiti dalle informazioni sui controlli ispettivi che la Guardia di Finanza si apprestava a svolgere nei primi giorni di giugno 2012, la difesa evidenzia che la notizia dei prossimi controlli era divenuta gia' di dominio pubblico, al momento in cui il pubblico ufficiale l'ha diffusa, sicche' non puo' da essa desumersi un indicatore dell'esistenza di quella condizione di asservimento della funzione al ricorrente, da parte di (OMISSIS), che e' stato ritenuto costituisse l'in se dell'imputazione per corruzione propria. Si contesta, altresi', nel ricorso, la prova della controprestazione data o promessa dall'extraneus nel patto corruttivo. La fruizione dell'appartamento di proprieta' di (OMISSIS) da parte della fidanzata del pubblico ufficiale e, quindi, di lui stesso - che si indica come una delle controprestazioni del patto delittuoso - non sarebbe stata ottenuta in virtu' della richiesta del ricorrente, come invece sostiene la sentenza d'appello, poiche' tale circostanza non risulta da alcun elemento processuale. Il teste di polizia giudiziaria (OMISSIS), all'udienza del 12.1.2016, ha specificato di non aver mai accertato la circostanza che il luogotenente (OMISSIS) frequentasse l'appartamento ne' se pagasse o meno il canone al proprietario. Si denuncia eguale mancanza di prova del collegamento tra la dazione di un Ipad a titolo gratuito al pubblico ufficiale da parte di (OMISSIS) ed il patto corruttivo riconducibile al ricorrente: non risulta da alcun elemento di fatto che (OMISSIS) fosse al corrente della regalia, ne' puo' desumersi la sua consapevolezza dalla generica indicazione che l'accordo corruttivo coinvolgeva, da una parte, il finanziere, e dall'altra gli imprenditori, in quanto gestori del lido e della discoteca in relazione ai quali quest'ultimo aveva messo a disposizione la propria funzione. Risulta priva di riscontri anche la dichiarazione del teste-collaboratore di giustizia in altro procedimento, (OMISSIS), in merito alla fruizione di pasti gratis, da parte del luogotenente (OMISSIS), nel locale della suocera del ricorrente (il gia' citato ristorante (OMISSIS)): il pubblico ufficiale si recava a pranzo con altri colleghi nella pausa di servizio ed avrebbe avuto diritto comunque al rimborso dei pasti; inoltre, la difesa evidenzia come, alla base della consumazione gratuita, potrebbero esservi anche i rapporti amicali di (OMISSIS) con la titolare del ristorante. Eguale mancanza di significato corruttivo (quali controprestazioni) hanno le liberalita' di consumazioni per il finanziere nel corso di serate organizzate presso la discoteca (OMISSIS) di proprieta' del ricorrente. Infine, si lamenta l'erronea interpretazione del concetto di stabile asservimento del pubblico ufficiale agli interessi personali di un privato, declinato nella sentenza d'appello ed in quella di primo grado, sotto l'egida del reato di cui all'articolo 319 c.p. piuttosto che, come richiesto dalla difesa, entro il perimetro normativo dettato dall'articolo 318 c.p. (corruzione per l'esercizio della funzione). L'orientamento dominante della Corte di legittimita' andrebbe nel senso di configurare il reato meno grave evocato dal ricorrente piuttosto che quello in relazione a cui vi e' stata condanna (Sez. 2, n. 51961 del 2017; Sez. 6, n. 4486 del 2019, Palozzi, Rv. 269347; Sez. 6, n. 45184 del 2019). In mancanza di prova dell'esistenza di un patto corruttivo vero e proprio tra il pubblico ufficiale ed il ricorrente, di atti contrari ai doveri d'ufficio posti in essere dal primo, di illecite dazioni al finanziere direttamente provenienti dal ricorrente, non vi e' spazio - a giudizio della difesa - per ritenere sussistente il delitto previsto dall'articolo 319 c.p. e, al piu', potrebbe ipotizzarsi la meno grave fattispecie di pericolo prevista dall'articolo 318 c.p.. La riqualificazione giuridica della condotta richiesta dalla difesa, valutata la pena prevista per il delitto di cui all'articolo 318 c.p. all'epoca dei fatti (contestati fino al novembre 2012), determinerebbe, poi, l'estinzione del reato per prescrizione, anche tenendo conto dei periodi di sospensione dei termini calcolati espressamente in sentenza dalla Corte d'Appello. Erroneamente, infatti, risulta che sia stato computato anche nei confronti del ricorrente il periodo di sospensione di cui al rinvio all'udienza del 10.9.2021, disposto all'udienza del 11.6.2021. 5.3. Il terzo motivo di censura eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti previste dall'articolo 323-bis c.p.. La Corte d'Appello ha ritenuto l'attenuante invocata non configurabile per la mancanza di elementi utili a sostenere che l'imputato si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato e consentire l'individuazione degli altri responsabili; ma la disposizione richiamata, secondo la difesa, impone la diminuzione di pena tutte le volte nelle quali i fatti di cui all'articolo 319 c.p. siano di particolare tenuita', come nel caso di specie (in cui la controprestazione della corruzione sarebbe consistita nella consumazione di pasti e bevande, un ipad, il godimento per pochi mesi di un appartamento). 5.4. Il quarto argomento di ricorso deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche: i giudici di merito non hanno tenuto conto del comportamento collaborativo del ricorrente, dimostrato dall'assoluta rilevanza delle dichiarazioni rilasciate al GIP ed al PM in interrogatorio dall'imputato, nonostante la stessa sentenza d'appello dia atto che solo dopo tali dichiarazioni, aventi ad oggetto la puntuale descrizione dei rapporti personali con (OMISSIS), la Procura si determinava a contestare l'ulteriore fattispecie di reato poi confluita nel capo Q dell'imputazione. Nell'interrogatorio di garanzia del 2.4.2014, poi, il ricorrente ha dichiarato spontaneamente particolari inediti delle vicende in relazione alle quali e' processo. 6. Il ricorso di (OMISSIS) si compone di due motivi di ricorso. 6.1. Il primo motivo denuncia violazione di legge e vizio di manifesta illogicita' della motivazione in relazione alla contestazione di rivelazione di segreto d'ufficio contenuta nel capo O dell'imputazione. La notizia dei controlli ispettivi da avviarsi nel giorno successivo ed in quelli seguenti ai lidi sul litorale di Catania, tra i quali quelli gestiti dai coimputati (OMISSIS) e (OMISSIS), era gia' di dominio pubblico il giorno 8 giugno 2012, quando si contesta la sua diffusione da parte del ricorrente, poiche' il 9 giugno 2012 i giornali gia' la riportavano, il che vuol dire che il comando della Guardia di Finanza l'aveva gia' diffusa ai giornalisti. Il segreto, dunque, era venuto meno gia' nel giorno della presumibile rivelazione alle testate giornalistiche da parte degli organi deputati della Guardia di Finanza, poiche' va rapportato al momento della rivelazione della notizia e non a quello della sua diffusione, magari con pubblicazione giornalistica. La rivelazione di segreto d'ufficio, essendo un reato di pericolo concreto, e' punibile non di per se' stessa, ma solo se idonea a produrre effettivo nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta. 6.2. La seconda censura difensiva muove dai vizi di violazione di legge e di motivazione carente e manifestamente illogica in relazione alla condanna per il capo Q dell'imputazione. La sentenza impugnata ha ritenuto provata la generalizzata disponibilita' dell'imputato al servizio delle piu' disparate esigenze dei coimputati (OMISSIS) e (OMISSIS) (rivelazione di informazioni riservate; controlli e sanzioni ai danni di imprenditori "concorrenti" dei partecipi del patto corruttivo; risoluzione di problemi amministrativi; attivita' di controllo della sicurezza all'interno della discoteca di (OMISSIS); segnalazione di colleghi ai quali far svolgere, illegittimamente, la seconda attivita' di "buttafuori" della discoteca), a fronte della percezione di utilita' economiche varie da parte sua (tra queste, pranzi non pagati, disponibilita' a titolo gratuito di un appartamento, elargizione di un ipad Apple, accesso e consumazioni nel lido e nella discoteca gestiti da (OMISSIS)). Tuttavia, non vi e' prova di alcun atto contrario ai doveri d'ufficio che sia stato effettivamente posto in essere dall'imputato. Ad esempio, quanto al presunto illecito intervento per controlli nei confronti di esercizi commerciali concorrenti di quelli collegati al patto corruttivo, dalle stesse intercettazioni (si richiama la conversazione n. 3903 del 13.7.2012) si evince che la proprietaria del ristorante, suocera di (OMISSIS), non chiede di far chiudere l'attivita' concorrenziale, bensi' manifesta legittimi timori sulla regolarita' delle autorizzazioni in possesso di quest'ultima e per la titolarita' del locale (gestito da un pregiudicato per droga); di contro, il ricorrente si limita a garantire di voler soltanto verificare la veridicita' di quanto lamentato dall'interlocutrice. Neppure vi sono in atti verbali di ispezioni o verifiche poi effettivamente coinvolgenti tale locale "concorrente" (o di altri locali "concorrenti" di quelli gestiti dai coimputati), come confermato dai testi di polizia giudiziaria ascoltati in dibattimento. L'essersi limitato a raccogliere la segnalazione ed a passarla ai colleghi competenti non puo' costituire prova alcuna della realizzazione di un atto contrario ai doveri d'ufficio. Allo stesso modo viene ripercorso il contenuto di altre intercettazioni telefoniche dalle quali si evince che questi non realizza alcun atto contrario ai doveri d'ufficio, ma si limita sempre a prospettare verifiche su quanto i suoi interlocutori denunciano, ovvero consiglia loro di inviare esposti presso il suo ufficio, ovvero ancora indica e contatta un commercialista suo parente per una consulenza da svolgere per conto di (OMISSIS), a seguito di una richiesta da parte di costui, radicata nel loro rapporto di amicizia, datato e solido, per quanto si e' accertato nel dibattimento. Neppure hanno rilievo penale gli sconti per fruire di pasti nel ristorante gestito dalla suocera di (OMISSIS), ovvero l'attivita' lecita di organizzatore di serate in discoteca; ne' risulta che il ricorrente abbia svolto direttamente attivita' di "doppio lavoro" di buttafuori nella discoteca di cui e' titolare ancora (OMISSIS): sono stati due suoi colleghi ad essere pagati per tale ruolo, che, in ogni caso, non configura un elemento di patto corruttivo (il doppio lavoro, per le forze dell'ordine, al piu' determina una sanzione per responsabilita' disciplinare, mentre, per i titolari dei locali, si dispone ai sensi degli articoli 134 e 140 TULPS). Le regalie ricevute da (OMISSIS), infine, sarebbero frutto di sua autonoma determinazione e non deriverebbero da alcun patto corruttivo, mentre la disponibilita' a svolgere "controlli" per danneggiare discoteche concorrenti di quella di (OMISSIS) e (OMISSIS) si evince solo da dichiarazioni de relato (apprese da (OMISSIS)) e prive di riscontri del coimputato (OMISSIS). Senza contare che la corruzione e' un reato proprio funzionale, con elemento necessario di tipicita' configurato dal fatto che l'atto o il comportamento oggetto del mercimonio della funzione rientrino nelle competenze o nella sfera di influenza dell'ufficio a cui appartiene il soggetto corrotto: occorre, cioe', che l'atto o il comportamento siano espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione esercitata, sicche' non ricorre il delitto di corruzione se l'intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell'accordo illecito non comporti l'attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio e non sia in qualche modo a questi ricollegabile. Se, invece, l'intervento e' destinato ad incidere nella sfera di attribuzioni di pubblici ufficiali terzi rispetto ai quali il corrotto e' privo di poteri funzionali, manca una parte dell'oggettivita' del reato. E nel caso di specie, non vi e' prova della sussistenza di tali condizioni di configurabilita' del reato di corruzione propria, ne' di alcun rapporto sinallagmatico, che non sia riconducibile alla semplice amicizia; anche a voler ritenere integrata la diversa fattispecie di traffico di influenze, prevista dall'articolo 346 c.p., andrebbero verificati i presupposti di legge ulteriori e diversi. 7. Anche (OMISSIS), che, come si e' anticipato, ha concordato la pena in appello in relazione ai reati per i quali era stato condannato, rinunciando agli ulteriori motivi dedotti, ha proposto ricorso per cassazione, censurando i vizi di violazione di legge e di motivazione della sentenza di secondo grado: pur in presenza di un patto processuale ai sensi dell'articolo 599-bis c.p., non viene meno l'obbligo di motivazione del giudice quanto all'affermazione di responsabilita', che non puo' essere eluso facendo ricorso a formule di stile (si e' definita la posizione del ricorrente sostenendo che le risultanze processuali non rendono manifesta l'innocenza dell'imputato). 8. Il ricorso di (OMISSIS), nei confronti del quale e' stata riconosciuta la continuazione tra il reato di cui al capo A e quelli individuati in sentenze passate in giudicato alle quali si e' gia' fatto riferimento, con rideterminazione della pena complessivamente inflittagli, deduce due motivi. 8.1. Un primo motivo denuncia l'erronea valutazione del reato piu' grave, ai fini della determinazione della continuazione criminosa. Non sarebbe reato base quello di tentata estorsione aggravata, di cui alla sentenza del Tribunale di Catania del 16.11.2017, considerato dalla Corte d'Appello, e punito con la pena di anni nove e mesi sei di reclusione, bensi' quello giudicato dalla Corte d'Appello di Catania con sentenza del 22.12.2016, per il delitto di associazione mafiosa aggravata, sanzionato con la pena in abbreviato di otto anni di reclusione, tenuto conto del criterio valutativo secondo cui, per decidere della maggior gravita' di un reato ai fini della continuazione, deve guardarsi alla pena massima in astratto prevista per ciascuna fattispecie (e per la tentata estorsione aggravata, la pena massima all'epoca dei fatti era quella di 13 anni e 4 mesi di reclusione, mentre per l'associazione mafiosa, al momento della commissione della condotta, era pari a 15 anni di reclusione). Ad analoga soluzione si perverrebbe anche volendo considerare il diverso, minoritario orientamento interpretativo che fa leva sulla pena in concreto inflitta, piuttosto che su quella astrattamente prevista: reato piu' grave sarebbe pur sempre quello di cui alla sentenza della Corte d'Appello di Catania del 22.12.2016, considerata la pena di 12 anni su cui poi e' stata operata la riduzione per il rito abbreviato, sino alla misura di anni 8 di reclusione. L'interesse del ricorrente alla deduzione sta, ovviamente, nella diversa base di partenza, piu' favorevole, che si individuerebbe per aggiungere gli aumenti per la continuazione criminosa (8 anni, per il delitto associativo aggravato, e non gia' 9 anni e sei mesi, base di partenza della sentenza di condanna per il reato di tentata estorsione aggravata). 8.2. Un secondo motivo di censura eccepisce vizio di motivazione in relazione alla mancata giustificazione dei singoli aumenti disposti per la continuazione criminosa, anche in considerazione della misura di essi. Infatti, partendo dalla pena base per il reato di estorsione aggravata dalla mafiosita', si e' operato un primo aumento di un anno di reclusione per la continuazione con la condanna per la partecipazione mafiosa di cui alla contestazione nel presente processo (il clan "(OMISSIS)", dal marzo 2012 ad aprile 2013) e di ben cinque anni di reclusione per la continuazione con la condanna relativa al delitto di partecipazione alla stessa associazione mafiosa, di cui alla sentenza della Corte d'Appello di Catania del 22.12.2016 (fino al febbraio 2012, con inizio che la difesa colloca, nonostante la contestazione aperta, al mese di novembre 2009, sicche' sarebbe ancora di piu' evidente la sperequazione tra il primo aumento ed il secondo). Il difetto di motivazione si porrebbe, peraltro, in contrasto con le indicazioni delle Sezioni Unite, derivanti dalla sentenza Sez. U, n. 6296 del 24/11/2016, dep. 2017, Nocerino, Rv. 268735, secondo cui il giudice dell'esecuzione, nel procedere alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio per effetto dell'applicazione della disciplina del reato continuato, non puo' quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna; il ricorrente non deduce specificamente le ragioni di contrasto. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi di (OMISSIS) e (OMISSIS) sono inammissibili per ragioni analoghe, sicche' l'esame delle loro impugnazioni puo' essere condotto unitariamente. 1.1. Entrambi i ricorrenti hanno definito la loro posizione processuale in appello ai sensi dell'articolo 599-bis c.p.p., attraverso il cd. concordato in appello sulla pena, rinunciando agli ulteriori motivi di ricorso. La giurisprudenza di legittimita' ha piu' volte affermato che, in tema di concordato in appello, e' ammissibile il ricorso in cassazione avverso la sentenza emessa ex articolo 599-bis c.p.p. che deduca motivi relativi alla formazione della volonta' della parte di accedere al concordato, al consenso del pubblico ministero sulla richiesta ed al contenuto difforme della pronuncia del giudice, mentre sono inammissibili le doglianze relative a motivi rinunciati, alla mancata valutazione delle condizioni di proscioglimento ex articolo 129 c.p.p. ed, altresi', a vizi attinenti alla determinazione della pena che non si siano trasfusi nella illegalita' della sanzione inflitta, in quanto non rientrante nei limiti edittali ovvero diversa dalla quella prevista dalla legge (Sez. 1, n. 944 del 23/10/2019, dep. 2020, M., Rv. 278170; Sez. 2, n. 22002 del 10/04/2019, Mariniello, Rv. 276102). Con analoga linea interpretativa, e' stato chiarito che, in tema di concordato (o "patteggiamento") in appello, reintrodotto ad opera della L. 23 giugno 2017, n. 103, articolo 1, comma 56, il giudice di secondo grado, nell'accogliere la richiesta di pena concordata, non deve motivare sul mancato proscioglimento dell'imputato per una delle cause previste dall'articolo 129 c.p.p., ne' sull'insussistenza di cause di nullita' assoluta o di inutilizzabilita' delle prove, in quanto, in ragione dell'effetto devolutivo proprio dell'impugnazione, una volta che l'imputato abbia rinunciato ai motivi di appello, la cognizione del giudice e' limitata ai motivi non oggetto di rinuncia (Sez. 4, n. 52803 del 14/09/2018, Rv. 274522; Sez. 5, n. 15505 del 19/3/2018, Bresciani, Rv. 272853). 1.2. Le ragioni difensive articolate nei ricorsi in esame, pertanto, si rivelano inammissibili sin da un'immediata analisi. L'impugnazione di (OMISSIS), che denuncia vizio di motivazione del provvedimento impugnato, poiche' l'adesione al concordato in appello non implica che il giudice abdichi ai suoi doveri argomentativi, a giustificazione della sentenza di condanna, sebbene a pena "patteggiata", nonche' lamenta l'inutilizzabilita' e l'inesistenza di prove attinenti alla sua condanna per i delitti di bancarotta fraudolenta ascrittigli ai capi G ed I, si pone esattamente nell'area di inammissibilita' disegnata dal legislatore: si tenta, infatti, di riproporre i temi al centro dei motivi di merito, ai quali si e' rinunciato. Inoltre, la denuncia di inutilizzabilita' di alcune prove non ne indica neppure con precisione la decisivita', ai fini dell'affermazione di colpevolezza, sicche' anche per questo e' inammissibile in quanto generica (cfr. Sez. U, n. 23868 del 23/4/2009, Fruci, Rv. 243416). L'impugnazione di (OMISSIS), in verita', si rivela anche generica, oltre che inammissibile, poiche' incentrata su una mera e superficiale critica della motivazione della sentenza d'appello, critica che fa riferimento solo in generale al dovere motivazionale violato dal giudice, il quale avrebbe fondato l'esclusione di cause di proscioglimento su di una frase inadeguata e una formula di stile ("le risultanze processuali non rendono manifesta l'innocenza dell'imputato"), invece del tutto in linea con le esigenze di sintesi piu' volte affermate dalla Corte di cassazione, con riguardo alle argomentazioni delle sentenze di patteggiamento. Ed infatti, in relazione alla sentenza che applichi la pena su richiesta delle parti ex articolo 444 c.p.p. (istituto con molti aspetti di analogia a quello previsto dall'articolo 599-bis c.p.p. sul piano della struttura motivazionale del provvedimento), escludendo che ricorra una delle ipotesi di proscioglimento previste dall'articolo 129 c.p.p., si e' affermato che puo' essere oggetto di controllo di legittimita', sotto il profilo del vizio di motivazione, soltanto se dal testo della sentenza impugnata appaia evidente la sussistenza di una causa di non punibilita' ex articolo 129 c.p.p. (Sez. 2, n. 39159 del 10/9/2019, Hussain Tasawar, Rv. 277102; Sez. 5, n. 31250 del 25/06/2013, Rv. 256359; Sez. 4, n. 30867 del 17/06/2011, dep. 03/08/2011, Rv. 250902; Sez. 2, n. 6455 del 17/11/2011, dep. 2012, Rv. 252085). Sotto tale profilo, il ricorso di (OMISSIS) si rivela privo di specificita', poiche' non indica elementi favorevoli all'imputato acquisiti in atti e non considerati, o mal considerati, ai fini di un proscioglimento. Anche alcune risalenti sentenze delle Sezioni Unite si sono espresse sulla legittimita' della formulazione "per esclusione" di elementi favorevoli a condurre ad una pronuncia ex articolo 129 c.p.p. nel caso di sentenze di patteggiamento (cfr. Sez. U, n. 5777 del 27/3/1992, Di Benedetto, Rv. 191135 e Sez. U, n. 10372 del 27/9/1995, Serafino, Rv. 202270), facendo leva dalla peculiare natura delle sentenze emesse sulla base di una volonta' concordata tra le parti e rilevando come, per quanto riguarda il giudizio negativo sulla ricorrenza di alcuna delle ipotesi previste dall'articolo 129 c.p.p., l'obbligo di una specifica motivazione sussiste, per la natura stessa della delibazione, soltanto nel caso in cui dagli atti o dalle dichiarazioni delle parti risultino elementi concreti in ordine alla non ricorrenza delle suindicate ipotesi; in caso contrario, e' sufficiente la semplice enunciazione (addirittura anche implicita) di aver effettuato, con esito negativo, la verifica richiesta dalla legge e cioe' che non ricorrono gli estremi per la pronuncia di sentenza di proscioglimento ex articolo 129 c.p.p.. 2. Il ricorso di (OMISSIS) e' complessivamente infondato e deve essere rigettato. 2.1. Con entrambi i motivi di ricorso la difesa si lamenta del mancato riconoscimento, in favore del ricorrente, della possibilita' di essere riammesso a richiedere il rito abbreviato non soltanto in relazione al reato per cui si e' giunti, in dibattimento, ad una riqualificazione giuridica (da estorsione ad esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona), ma con riguardo a tutti i reati avvinti dalla continuazione criminosa ed a lui contestati nel processo, "trascinati" nella valutazione difensiva dall'opzione relativa al piu' grave delitto della continuazione criminosa, espresso proprio dal capo C, al centro della riqualificazione ad opera della sentenza di primo grado; la riapertura complessiva dei termini per proporre istanza di rito abbreviato si imponeva dal momento che detta riqualificazione era frutto di una "patologia" applicativa, poiche' derivata da un errore di qualificazione giuridica degli elementi di prova in possesso del pubblico ministero sin dal primo momento utile alla contestazione. Richiamandosi ad una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni processuali contenute negli articoli 516 e 517 c.p.p., nel solco gia' tracciato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cassazione, il ricorrente evidenzia che, limitando il diritto ad ottenere l'ammissione successiva al rito abbreviato e la conseguente riduzione di pena al solo reato oggetto di modifica della contestazione e non estendendola anche ai reati ad esso connessi e contenuti nello stesso processo, si impedirebbe all'imputato di elaborare una strategia difensiva che tenga conto dell'intera vicenda processuale. La tesi limitativa del diritto a veder riaperta, a vantaggio dell'imputato, la possibilita' di optare per il rito abbreviato si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali - di qui la richiesta di sollevare questione di illegittimita' al giudice delle leggi, formulata nel secondo motivo di ricorso - poiche' determinerebbe un'ingiustificata disparita' di trattamento, rilevante ai sensi dell'articolo 3 Cost. e dell'articolo 24 Cost. per le sue ricadute sul diritto di difesa, tra l'imputato chiamato ab origine dell'imputazione "corretta" e l'imputato che, invece, subisce in ritardo una nuova e diversa contestazione; si imporrebbe la scelta piu' garantista, anche ai fini di corrispondere pienamente ad esigenze di ragionevole durata del processo. 2.2. La tesi del ricorrente non puo' essere accolta, proprio alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, per quanto si dira' di seguito. E tuttavia, non puo' non evidenziarsi, prima ancora di ogni altra osservazione in diritto, come la questione giuridica formulata si riveli, nella sua parte presupposta, anche afflitta da un forte profilo di inammissibilita', per difetto di specificita' delle ragioni in base alle quali il ricorrente deduce la tardivita' della modifica dell'imputazione: sono stati, infatti, solo enunciati gli elementi di prova dai quali si trae la tardivita' ma non e' stato indicato il loro contenuto, in modo da consentire al Collegio una valutazione effettiva sulla censura. Ritornando al nucleo essenziale dei due motivi di ricorso, non puo' sottacersi che la Corte di cassazione ha mostrato diversita' di opinioni riguardo al tema proposto, se non anche due opposte linee interpretative. Secondo un primo orientamento, in tema di nuove contestazioni, la modifica di una delle imputazioni ex articolo 516 c.p.p. non determina, per l'imputato, il recupero della facolta' di richiedere il rito abbreviato per tutti i reati originariamente contestati e rispetto ai quali egli aveva gia' consapevolmente lasciato spirare il termine per la relativa richiesta, avendo egli facolta' di richiedere il rito alternativo per la sola imputazione oggetto di modifica (Sez. 2, n. 28582 del 11/03/2015, Romeo, Rv. 264562). Parallelamente, si e' dichiarata manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e 24 Cost., la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 517 c.p.p., nella parte in cui non prevede che, a seguito di contestazioni sopravvenute, l'imputato possa chiedere l'ammissione al giudizio abbreviato per tutti i reati ascrittigli, e quindi anche per quelli gia' contestati, in quanto la situazione riguardante questi ultimi, per i quali si e' scelto di procedere con rito ordinario consapevolmente assumendo l'alea di nuove contestazioni, e' differente dai reati oggetto di nuova contestazione (Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, Rv. 264627) In un'altra, diversa pronuncia, invece, in disparte l'evidente funzionalita' dell'affermazione a risolvere la questione specifica sottoposta in quella fattispecie, si e' invece ritenuto che, in caso di contestazioni suppletive in dibattimento, la richiesta di giudizio abbreviato non puo' essere proposta solo per taluna ma, a pena di inammissibilita', deve avere riguardo a tutte le nuove, ulteriori imputazioni, poiche' la funzione riparatoria dell'accesso in tale fase al rito speciale va comunque coniugata, senza poterla sostituire, con quella deflattiva propria del rito, in difetto della quale non si giustificherebbe l'effetto premiale (Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, dep. 2016, Branchi, Rv. 266479). Il Collegio ritiene di aderire alla prima opzione, maggiormente consapevole delle implicazioni processuali di sistema coinvolte nella risoluzione della questione giuridica in esame, basandosi proprio su un'attenta lettura della giurisprudenza della Corte costituzionale richiamata anche dal ricorrente. Passando in rassegna i contenuti solo di alcune delle sentenze che possono avere rilievo sul problema in esame, conviene soffermarsi sulle pronunce n. 333 del 2009, n. 237 del 2012, n. 273 del 2014, n. 139 del 2015. Nella prima delle sentenze citate, riferita al tema della contestazione dibattimentale "patologica" o tardiva, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale degli articoli 516 e 517 c.p.p. nella parte in cui non prevedono la facolta' dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso al reato concorrente contestato in dibattimento quando la nuova contestazione concerne un fatto che gia' risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell'azione penale. Nella sentenza n. 237 del 2012, relativa alla contestazione dibattimentale "fisiologica", si e' dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'articolo 517 c.p.p., nella parte in cui non prevede la facolta' dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente emerso nel corso dell'istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione Nella sentenza n. 273 del 2014, relativa anch'essa alla contestazione dibattimentale "fisiologica", si e' dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'articolo 516 c.p.p." nella parte in cui non prevede la facolta' dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell'istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione. Nella pronuncia n. 139 del 2015, e' stata dichiarata non fondata, invece, la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 517 c.p.p., nella parte in cui, nel caso di contestazione di un reato concorrente o di circostanza aggravante che gia' risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale, non prevede la facolta' dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato anche in relazione ai reati diversi da quello che forma oggetto della nuova contestazione, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 24 Cost.. La questione e' del tutto sovrapponibile a quella che investe oggi, nell'ottica del ricorrente, la fattispecie processuale in esame e l'articolo 516 c.p.p. (per una conferma esplicita della identita' strutturale tra le ipotesi previste dagli articoli 516 e 517 c.p.p., ai fini del recupero di facolta' difensive, cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 14 del 2020, in tema di messa alla prova), sicche' e' di evidente utilita' seguire il ragionamento della Consulta. Ebbene, afferma la Corte costituzionale nella sentenza n. 139 del 2015, che, "nel caso di processo oggettivamente cumulativo, l'esigenza che emerge - sul piano del ripristino della legalita' costituzionale - e' quella di restituire all'imputato la facolta' di accedere al rito alternativo relativamente al nuovo addebito, in ordine al quale non avrebbe potuto formulare una richiesta tempestiva a causa dell'avvenuto esercizio dell'azione penale con modalita' "anomale" (nell'ipotesi della contestazione "tardiva"), o comunque derogatorie rispetto alle ordinarie cadenze procedimentali (nell'ipotesi della contestazione "fisiologica"): e cio', "senza che possa ipotizzarsi un recupero globale della facolta' stessa", esteso, cioe', anche alle imputazioni diverse da quelle oggetto della nuova contestazione, rispetto alle quali "l'imputato ha consapevolmente lasciato spirare il termine di proposizione della richiesta" (sentenza n. 333 del 2009). Sarebbe, infatti, "illogico - e, comunque, non costituzionalmente necessario - che, a fronte della contestazione suppletiva di un reato concorrente (magari di rilievo marginale rispetto al complesso dei temi d'accusa), l'imputato possa recuperare, a dibattimento inoltrato, gli effetti premiali del rito alternativo anche in rapporto all'intera platea delle imputazioni originarie", relativamente alle quali si e' scientemente astenuto dal formulare la richiesta nel termine (sentenza n. 237 del 2012). Soluzione, questa, che rischia di privare di ogni razionale giustificazione lo sconto di pena connesso all'opzione per il rito speciale.". Tali considerazioni, estese dalla Consulta all'ipotesi della contestazione dibattimentale "tardiva" di una circostanza aggravante, hanno condotto i giudici delle leggi a ritenere non configurabile il vulnus agli articoli 3 e 24 Cost. sotto entrambi i profili tacciati di incostituzionalita'. E la sentenza in esame ha aggiunto, in maniera significativa e determinante per la questione oggi sottoposta al Collegio, che "qualora all'imputato fosse attribuita, nelle ipotesi in esame - come chiede il rimettente, tramite la proposizione di due distinte questioni, tra loro cumulative - la facolta' di accedere al giudizio abbreviato tanto in rapporto (e limitatamente) al reato oggetto della nuova contestazione, quanto (e anche) alle imputazioni residue, l'imputato stesso verrebbe a trovarsi in posizione non gia' uguale, ma addirittura privilegiata rispetto a quella in cui si sarebbe trovato se la contestazione fosse avvenuta nei modi ordinari. Egli potrebbe, infatti, scegliere tra una richiesta di giudizio abbreviato "parziale" (limitata alla sola nuova imputazione) e una richiesta globale: facolta' di scelta della quale - stando all'indirizzo giurisprudenziale evocato dal giudice a quo - non fruirebbe invece nei casi ordinari, essendogli consentita solo la seconda opzione". Con evidenti conseguenze in tema di violazione del principio costituzionale di eguaglianza, previsto dall'articolo 3 Cost.. Dunque, e' proprio per essere coerenti con i piu' profondi paradigmi costituzionali che si impone la soluzione di escludere una rivitalizzazione della facolta' di optare per il rito abbreviato indiscriminata e totalizzante, piuttosto che limitata alla sola imputazione "diversa" o "nuova", patologicamente o fisiologicamente oggetto di contestazione. In una recente decisione, la n. 146 del 2022, resa in tema di recupero per l'imputato delle facolta' relative alla richiesta di messa alla prova, la Corte costituzionale, dichiarando l'illegittimita' costituzionale dell'articolo 517 c.p.p., nella parte in cui non prevede, a seguito di contestazione di reati connessi a norma dell'articolo 12 c.p.p., comma 1, lettera b), la facolta' per l'imputato di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova con riferimento a tutti i reati contestatigli, ha confermato l'impostazione della propria giurisprudenza, operando una differenza tra le modalita' attraverso le quali tale recupero deve esprimersi in un istituto quale la messa alla prova e, viceversa, nell'abbreviato. Al par. 2.4. della pronuncia, infatti, i giudici sottolineano: "La ratio dell'istituto (della messa alla prova, n.d.r.) impone, in effetti, di distinguere la situazione all'esame da quella relativa al recupero del rito abbreviato, decisa dalla sentenza n. 237 del 2012, in cui questa Corte aveva ritenuto che la richiesta del rito dovesse in tal caso riferirsi ai soli reati oggetto di nuove contestazioni dibattimentali, senza che "l'imputato possa recuperare, a dibattimento inoltrato, gli effetti premiali del rito alternativo anche in rapporto all'intera platea delle imputazioni originarie, rispetto alle quali ha consapevolmente lasciato spirare il termine utile per la richiesta", poiche' "diversamente da quanto accade nel rito abbreviato, nella messa alla prova convivono un'anima processuale e una sostanziale", con un'accentuata vocazione risocializzante che caratterizza (solo) quest'ultimo istituto e si oppone alla possibilita' di una messa alla prova solo "parziale". Nessun ostacolo, dunque, ribadisce la Corte costituzionale anche in questa recentissima pronuncia, puo' imporre un recupero "totalizzante" nel caso di abbreviato "riaperto" relativamente ad una o piu', limitate contestazioni per fatto diverso ovvero per fatto nuovo concorrente. Del resto, per una logica sanzionatoria non necessariamente unitaria tra reati avvinti dalla continuazione, alcuni soltanto dei quali giudicati con rito abbreviato, si sono espresse anche le Sezioni Unite, affermando che l'applicazione della continuazione tra reati giudicati con il rito ordinario e altri giudicati con il rito abbreviato comporta che soltanto nei confronti di questi ultimi - siano essi reati cd. satellite ovvero reati che integrino la violazione piu' grave - deve essere applicata la riduzione di un terzo della pena, a norma dell'articolo 442 c.p.p., comma 2, (Sez. U, n. 35852 del 22/2/2018, Cesarano, Rv. 273547). Deve essere precisato, infine, solo per completezza, poiche' la questione di illegittimita' costituzionale e' stata proposta in modo generico su tale aspetto, che la tesi qui accolta non mostra crepe neppure rispetto al principio di ragionevole durata del processo. La Corte costituzionale, infatti, ha piu' volte affermato, anche di recente, che la nozione di "ragionevole" durata del processo (in particolare, del processo penale) e' sempre il frutto di un bilanciamento delicato tra i molteplici - e tra loro confliggenti - interessi pubblici e privati coinvolti dal processo medesimo, in maniera da coniugare l'obiettivo di raggiungere il suo scopo naturale dell'accertamento del fatto e dell'eventuale ascrizione delle relative responsabilita', nel pieno rispetto delle garanzie della difesa, con l'esigenza pur essenziale di raggiungere tale obiettivo in un lasso di tempo non eccessivo. Sicche' una violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all'articolo 111 Cost., comma 2, puo' essere ravvisata soltanto allorche' l'effetto di dilatazione dei tempi processuali determinato da una specifica disciplina non sia sorretto da alcuna logica esigenza e si riveli quindi privo di qualsiasi legittima ratio giustificativa (ex plurimis, sentenze n. 260 del 2020, n. 124 del 2019, n. 12 del 2016 e n. 159 del 2014). Nella fattispecie all'esame del Collegio, da un lato, non si rivelano evidenti ricadute negative sul principio di celerita' processuale, strumentale ad assicurare la ragionevole durata, poiche' la separazione delle posizioni processuali per i diversi reati in contestazione, solo eventuale nel caso del ricorrente, che non ha inteso proporre istanza di abbreviato parziale (di qui, anche l'irrilevanza della questione di costituzionalita'), non implica automaticamente tempi decisori piu' lunghi; dall'altro, si configura una logica esigenza di bilanciamento tra i valori costituzionali in campo, costituita dall'esigenza di assicurare che il processo di ragionevole durata non sia "diseguale", rispetto a posizioni processuali soggettive sovrapponibili, e non crei "privilegi" ingiustificati (come sottolineato dalla sentenza n. 139 del 2015 Corte Cost.). 2.3. In conclusione dell'analisi sin qui condotta, deve affermarsi che: - la modifica di una delle imputazioni ex articolo 516 c.p.p. non determina, per l'imputato, il recupero della facolta' di richiedere H rito abbreviato per tutti i reati originariamente contestati e rispetto ai quali si era gia' consapevolmente lasciato spirare il termine per la relativa richiesta, avendo egli facolta' di richiedere il rito alternativo per la sola imputazione oggetto di modifica; - e' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 516 c.p.p., nella parte in cui, nel caso di contestazione di un reato diverso da quello che gia' risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale, non prevede la facolta' dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato anche in relazione a tutti i reati originariamente contestati, sollevata in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 Cost.. 2.4. Al rigetto dei motivi di ricorso consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, limitatamente al reato di cui al capo M, in relazione al quale sono trascorsi i termini massimi di prescrizione del reato e non vi sono evidenti ragioni di proscioglimento nel merito ai sensi dell'articolo 129 c.p.p. (secondo quanto e' chiaramente evincibile dalla motivazione), coerentemente con le indicazioni delle Sezioni Unite di questa Corte in base alle quali, in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice e' legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'articolo 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, cosi' che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga piu' al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessita' di accertamento o di approfondimento (cfr. Sez. U, n. 35490 del 28/5/2009, Tettamanti, Rv. 244274). 3. Il ricorso di (OMISSIS) e' inammissibile. 3.1. Il primo motivo, con cui si denuncia la mancata corrispondenza tra accusa e sentenza in relazione al capo Q dell'imputazione (corruzione propria), ed il secondo motivo, ad esso collegato, sono manifestamente infondati. La contestazione di corruzione in esame vede protagonisti, da un lato, (OMISSIS), luogotenente in servizio presso il Gruppo di Catania della Guardia di Finanza; dall'altro, (OMISSIS) e (OMISSIS), nonche' lo stesso (OMISSIS), quali privati beneficiari degli atti contrari ai doversi d'ufficio specificamente indicati nella contestazione (dare informazioni riservate su attivita' di controllo ad esercizi commerciali, nei quali i tre privati avevano interessi economici; sollecitare controlli e sanzioni a diretti concorrenti della discoteca "(OMISSIS)", riferibile a costoro; garantire l'intervento in loro favore, in caso di controlli amministrativi; garantire l'ordine e la sicurezza all'interno della citata discoteca), in cambio di precise dazioni di beni ed utilita' a vantaggio del pubblico ufficiale (il comodato gratuito di un appartamento nella disponibilita' di (OMISSIS), da luglio a settembre 2012, che (OMISSIS) utilizzava insieme alla compagna; un Ipad; l'accesso gratuito alla discoteca (OMISSIS) ed al lido (OMISSIS), consumazioni comprese; consumazione di pasti al ristorante "(OMISSIS)", gestito dalla suocere di (OMISSIS)). La sentenza d'appello ha condannato l'imputato ricostruendo la sua condotta in linea con la contestazione di reato, riferita all'articolo 319 c.p., sicche' non si colgono aporie foriere di vizi o nullita' ai sensi dell'articolo 522 c.p.p., anche per la genericita' di fondo del motivo di censura - dettagliato solo all'apparenza - che, forse, intendeva appuntare le proprie critiche ad echi della pronuncia di primo grado, che avrebbero fatto riferimento ad uno "stabile asservimento" del coimputato (OMISSIS), pubblico ufficiale, agli interessi dei suddetti commercianti, con conseguente rivalutazione dei fatti ai sensi dell'articolo 318 c.p.. E difatti, il secondo motivo di ricorso propone proprio la violazione degli articoli 319 e 318 c.p., che - secondo la tesi difensiva - imponevano, nella loro corretta ricostruzione ermeneutica rispetto alla fattispecie, la rimodulazione della condanna secondo il paradigma piu' favorevole del reato di corruzione per l'esercizio della funzione. In proposito, tuttavia, il Collegio evidenzia l'erronea lettura del caso concreto alla luce delle norme richiamate e della loro corretta interpretazione, ricostruita dall'intervento nomofilattico di questa Corte regolatrice. Invero, configura il delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio - e non il piu' lieve delitto di corruzione per l'esercizio della funzione, di cui all'articolo 318 c.p. lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, ma che si conformano all'obiettivo di realizzare l'interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (cosi', Sez. 5, n. 34979 del 10/09/2020, Magnoni, Rv. 280321 - 02, in una fattispecie relativa alla corresponsione di denaro ed altre utilita' al presidente della cassa nazionale di previdenza dei ragionieri a fronte della totale rinuncia all'esercizio dei poteri decisori e di controllo sugli investimenti delle risorse dell'ente in strumenti finanziari; conforme a Sez. 6, n. 51946 del 19/04/2018, Cavazzoli, Rv. 274507 - 02; vedi anche Sez. 6, n. 1594 del 10/11/2020, dep. 2021, Siclari, Rv. 280342). La linea interpretativa ha trovato una ancor piu' precisa ed approfondita definizione nella sentenza Sez. 6, 18125 del 22/10/2019, dep.2020, Bolla, Rv. 279555 (04 e 05), che ha chiarito come il delitto di corruzione per l'esercizio della funzione pubblica, di cui all'articolo 318 c.p. come novellato dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, si differenzia da quello di corruzione propria, di cui all'articolo 319 c.p., in quanto ha natura di reato di pericolo, sanzionando la presa in carico, da parte del pubblico funzionario, di un interesse privato dietro una dazione o promessa indebita, senza che sia necessaria l'individuazione del compimento di uno specifico atto d'ufficio; in altre parole, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, realizzato attraverso l'impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, e' sussumibile nella previsione dell'articolo 318 c.p., e non in quella, piu' severamente punita, dell'articolo 319 c.p., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia in concreto prodotto il compimento di atti contrari ai doveri di ufficio. Nella fattispecie che vede protagonista il ricorrente insieme al pubblico ufficiale (OMISSIS) ed agli altri coimputati, sussistono specifici atti contrari ai doveri d'ufficio che sono stati ritenuti sussistenti, unitamente a diverse, ben indicate utilita' ricevute in cambio dell'attivita' infedele, secondo la ricostruzione in fatto, scevra da illogicita', disegnata dalla sentenza impugnata (cfr. pag. 17-21, in particolare); di contro, le censure difensive riguardo alla qualificazione giuridica, prima ancora che stigmatizzare l'interpretazione riferita agli elementi di prova in atti, puntano ad una rivalutazione di tali elementi, non consentita in sede di legittimita' e, per giunta, assertiva in favore del ricorrente (ad esempio, la revisione dell'episodio dell'intervento di (OMISSIS) e della guardia di finanza sollecitato dalla suocera di (OMISSIS), legati da amicizia, che si vuole dovuto a presunti timori per la gestione del ristorante "rivale" in spregio alla normativa vigente, laddove e' evidente, invece, dalla prova costituita anche da telefonate intercettate, il reale obiettivo di ottenere la "chiusura" dell'attivita' commerciale concorrente: cfr. pag. 19, del provvedimento d'appello, che sottolinea anche, acutamente, come sia irrilevante l'eventuale concorso di moventi - amicale e corruttivo - sotteso alla condotta contraria ai doveri d'ufficio). La Corte d'Appello ha puntualizzato in modo ineccepibile come le prove in atti intercettazioni e dichiarazioni confessore di (OMISSIS), in particolare abbiano rivelato l'asservimento di (OMISSIS) e la "vendita della sua discrezionalita'", cristallizzatasi in precisi episodi di atti, manifestazione della corruzione (cfr. in tal senso anche pag. 19, in fine, della sentenza impugnata), ed in altrettanto specifiche utilita' ricevute in cambio: il ricorrente tenta di rileggere ognuno degli aspetti riferiti al primo ed al secondo "nucleo essenziale" della corruzione (richiamati al par. 5.2. del "ritenuto in fatto") secondo una propria, alternativa lettura, viziata da apoditticita' ed aspecificita', poiche' priva di reale confronto con la sentenza impugnata (peraltro, dimenticando anche che, per quanto concerne il "favore" costituito dalla rivelazione di segreto d'ufficio di cui al capo O, la condotta e' stata esclusa sin dal primo grado avuto riguardo alla quota riferita alla rivelazione a vantaggio del ricorrente e di (OMISSIS): v. infra). 3.2. Il terzo motivo di censura, volto a contestare il diniego dell'attenuante prevista dall'articolo 323-bis c.p., comma 2, e' anch'esso del tutto privo di fondamento e generico. La Corte territoriale ha spiegato alle pagine 26 e 27 della sentenza impugnata le ragioni in base alle quali ha ritenuto di non poter applicare la diminuente richiesta: non e' stato dimostrato in alcun modo - ma solo evocato in maniera assertiva - che l'imputato si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato e per l'individuazione degli altri responsabili. Il ricorrente non oppone che argomenti apodittici a tali conclusioni, non mettendo il Collegio neppure in condizioni di comprendere la natura specifica delle sue censure, ne' quale fosse effettivamente il fulcro delle sue eventuali richieste; egualmente generici i riferimenti, svolti nel motivo di ricorso, alla possibilita' di configurare, sempre ai sensi della citata disposizione speciale in materia di corruzione (comma 1), l'attenuante della particolare tenuita' del fatto, non potendo ritenersi sufficiente il mero richiamo ai particolari di contesto della condotta che, di per se', non possono certo costituire indice dello scarso rilievo offensivo di essa (non soltanto se le utilita' sono considerate cumulativamente, ma anche se valutate ciascuna singolarmente: si tratta della consumazione di pasti e bevande per consistenti periodi di tempo; dell'elargizione di un ipad e del godimento di un appartamento, sia pur per pochi mesi). 3.3. Infine, anche il motivo di censura proposto in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche e' manifestamente infondato rispetto alle indicazioni fornite dalla Corte d'Appello, che ha valorizzato in chiave negativa il grave precedente penale a carico del ricorrente e l'assenza di elementi in suo favore: le ragioni addotte sono in line con gli orientamenti di legittimita' in materia (cfr. per tutte, Sez. 5, n. 43952 del 13/4/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 23093 del 15/7/2020, Marigliano, Rv. 279549; Sez. 3, n. 24128 del 18/3/2021, De Crescenzo, Rv. 281590). 4. Il ricorso di (OMISSIS) e' anch'esso inammissibile, per le ragioni che si indicheranno di seguito. 4.1. Il primo motivo di denuncia del ricorrente e' generico. La difesa contesta la sussistenza del reato di rivelazione di segreto d'ufficio ascritto all'imputato al capo O della contestazione, ignorando, tuttavia, la circostanza che la parte di imputazione investita dalla censura con cui piu' specificamente ci si confronta - vale a dire la rivelazione in favore di (OMISSIS) e (OMISSIS), titolari effettivi dei lidi balneari catanesi che avrebbero beneficiato della comunicazione anticipata dei controlli che stavano per essere effettuati dal personale della Guardia di Finanza nell'ambito di un'operazione "stagionale" - e' stata gia' espunta dall'imputazione, in seguito alla pronuncia di primo grado, che ha limitato la condanna dell'imputato alla sola anticipata rivelazione di segreto d'ufficio effettuata a vantaggio di (OMISSIS) in data 8.6.2012 (cfr. le pagine 90 e 91 della sentenza del Tribunale e le pagg. 15-16 del provvedimento d'appello). 4.2. Il secondo motivo di ricorso e' manifestamente infondato e formulato secondo direttrici di censura in fatto, sottratte al sindacato di legittimita' (in tema, tra le piu' recenti, Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482), come si e' gia' evidenziato con riguardo al secondo motivo dell'impugnazione di (OMISSIS), alle cui osservazioni si riporta il Collegio, per le conseguenze di inammissibilita' derivate. Deve in questa sede solo aggiungersi che le osservazioni difensive riguardo al fatto che la corruzione sia un reato proprio funzionale, con elemento necessario di tipicita' configurato dal fatto che l'atto o il comportamento oggetto del mercimonio della funzione rientrino nelle competenze o nella sfera di influenza dell'ufficio a cui appartiene il soggetto corrotto, sono state gia' superate dalla sentenza impugnata, che ha evidenziato come - dalla ricostruzione della complessiva vicenda criminosa - gli atti compiuti o promessi da parte dell'imputato costituiscono espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione da lui esercitata, escludendo anche la possibilita' di configurare, invece del reato di corruzione propria, quello di cui all'articolo 346 c.p.. Le osservazioni in diritto proposte dalla difesa nei termini suddetti passano, dunque, ancora una volta, per un tentativo inammissibile di rilettura della fattispecie concreta, cosi' come accertata nei due giudizi di merito, conformi tra loro, nella speranza di allontanare il pubblico ufficiale coinvolto dalle sue dirette responsabilita' rispetto ai molteplici atti di mercimonio della funzione, compiuti anche grazie al contributo di altri colleghi (si pensi agli episodi del controllo dell'ordine nella discoteca gestita da (OMISSIS) ovvero ai controlli al ristorante "rivale" di quello condotto dalla suocera di (OMISSIS)). 5. Il ricorso di (OMISSIS) e' manifestamente infondato e generico. 5.1. Il ricorrente denuncia, con un primo motivo, la erronea individuazione della violazione piu' grave in relazione al reato continuato riconosciuto nei suoi confronti, contestando che possa essere tale la tentata estorsione gia' divenuta irrevocabile. Il motivo, come anticipato, e', da un lato, generico, poiche' la sentenza della Corte d'Appello, a pag. 15, riferisce di un'estorsione consumata e non tentata, quale reato piu' grave, tra quelli gia' coperti da giudicato, posto a base della continuazione criminosa: il ricorso non si confronta con tale dato, anzi, non e' autosufficiente perche' non ha neppure prodotto o richiamato esplicitamente le sentenze, con gli elementi specifici riferiti alle condanne riportate, ma genericamente evoca quella relativa al reato di tentata estorsione di cui alla sentenza del Tribunale di Catania del 16.11.2017; dall'altro si rivela anche manifestamente infondato, dal momento che l'esame del certificato del casellario giudiziale dell'imputato mostra che, con la sentenza posta in continuazione, questi e' stato condannato non soltanto per una tentata estorsione aggravata ma anche per un'estorsione consumata, altrettanto aggravata. Alla luce di tali emergenze processuali e' corretta l'indicazione dei giudici d'appello relativa all'individuazione del reato piu' grave ex articolo 81 cpv, tenuto conto dell'orientamento di legittimita' maggioritario secondo cui, per decidere della maggior gravita' di un reato ai fini della continuazione, deve guardarsi alla pena massima in astratto prevista per ciascuna fattispecie (cfr., per tutte, Sez. 2, n. 36107 del 21/7/2017, Ciccia, Rv. 271031; Sez. U, n. 25939 del 28/2/2013, Ciabotti, Rv. 255347) 5.2. Anche il secondo motivo di censura e' manifestamente infondato poiche' la sentenza impugnata ha dato conto, nell'ambito dell'intera motivazione e, piu' precisamente, nella parte dedicata ad esplicitare la misura degli aumenti per il reato continuato, delle ragioni in base alle quali, all'evidenza, risulta piu' grave la fattispecie associativa gia' passata in giudicato e di cui alla sentenza del 22.12.2016 della Corte d'Appello di Catania, piuttosto che quella di cui al capo A del presente processo: si tratta, nel primo caso, di un'associazione mafiosa aggravata ai sensi dell'articolo 416-bis c.p., commi 4 e 6 e, nel secondo caso, di un'associazione mafiosa che, in concreto, ha visto l'esclusione delle aggravanti contestate. 6. In conclusione, si impone l'annullamento della sentenza impugnata senza rinvio nei confronti di (OMISSIS), limitatamente al reato di cui al capo M), perche' estinto per prescrizione, con eliminazione della relativa pena di mesi due di reclusione da parte del Collegio, ai sensi dell'articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera l; deve, invece, rigettarsi nel resto il ricorso di detto ricorrente. Vanno dichiarati inammissibili i ricorsi di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), con condanna di detti ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende, ravvisandosi profili di colpa relativi alla causa di inammissibilita' (cfr. sul punto Corte Cost. n. 186 del 2000. Infine, deve essere disposta la condanna di (OMISSIS) e (OMISSIS) alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, costituita nei soli loro confronti, che liquida in complessivi Euro 2.500,00 oltre accessori di legge. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata senza rinvio nei confronti di (OMISSIS) limitatamente al reato di cui al capo M) perche' estinto per prescrizione ed elimina la relativa pena di mesi due di reclusione; rigetta nel resto il ricorso di detto ricorrente. Dichiara inammissibili i ricorsi di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) e condanna detti ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, (OMISSIS) e (OMISSIS) alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 2.500,00 oltre accessori di legge.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8067 del 2020, proposto da Autorità per Le Garanzie Nelle Comunicazioni - Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); contro Re. Te. It. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Lu. Me., Ma. Mo., Gi. Ro., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. 07340/2020, resa tra le parti, Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Re. Te. It. S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 gennaio 2023 il Cons. Davide Ponte e nessuno presente per le parti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con il provvedimento impugnato in prime cure, la delibera adottata a conclusione del procedimento n. 2222/10/FB, l'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha ravvisato a carico della ricorrente la violazione dell'articolo 4, comma 1 lett. b), d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177, con conseguente irrogazione di una sanzione pecuniaria pari a euro 51.646,00. Con la sentenza n. 7340 del 2020, oggetto del presente gravame, il Tar Lazio accoglieva il ricorso proposto dalla stessa società odierna appellata, annullando la sanzione irrogata; in particolare venivano reputate fondate le censure dedotte in termini di mancata dimostrazione della la presenza dell'elemento soggettivo. Avverso tale sentenza l'Autorità proponeva l'appello in esame, deducendo i seguenti motivi: - violazione e falsa applicazione degli artt. 4, comma 1, lett. b) e 51, comma 2, d.lgs. 177/2005 e dell'articolo 3 l. 689/1981, illogicità manifesta. La parte appellata si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell'appello. Venivano altresì riproposti i motivi assorbiti dalla sentenza impugnata, ai sensi dell'art. 101 comma 2 cod proc amm: violazione e falsa applicazione, sotto diversi profili, dell'articolo 4, comma 1, lett. b), d.lgs. 177/2005, eccesso di potere nella figura sintomatica della carenza di motivazione; in subordine, violazione e falsa applicazione degli articoli 4, comma 1, lett. b) e 51, comma 2, d.lgs. 177/2005 e dell'articolo 11 l. 689/1981, eccesso di potere nella figura sintomatica della carenza di motivazione. Avverso le censure riproposte replicava l'Autorità appellante, con specifica memoria depositata in data 11 dicembre 2022. Alla pubblica udienza del 12 gennaio 2023 la causa passava in decisione. DIRITTO L'appello è fondato sulla scorta delle argomentazioni poste a base dell'orientamento già espresso, in analoga fattispecie, da parte della sezione (cfr. sentenza n. 3729 del 2021), alla cui motivazione occorre rinviare anche ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 74 cod. proc. amm. La vicenda sanzionata dall'AGCOM accadde durante il programma televisivo "Gr. Fr. 10", trasmesso il 21 gennaio 2010 sull'emittente Ca. 5 del Gr. RT. s.p.a., quando, alle ore 22,03, uno dei concorrenti diede in escandescenze, usando un linguaggio scurrile e pronunciando una bestemmia, in violazione dell'art. 4, co. 1, lett. b) del D.lgs. 177/2005, recante le norme sui principi generali del sistema radio televisivo a garanzia degli utenti; In particolare, tal disposizione recitava ("... la disciplina del sistema radiotelevisivo, a tutela degli utenti, garantisce:... la trasmissione di programmi che rispettino i diritti fondamentali della persona, essendo, comunque, vietate le trasmissioni che contengono... incitamenti all'odio comunque motivato o che inducono ad atteggiamenti di intolleranza basati su differenze di razza, sesso, religione o nazionalità o che, anche in relazione all'orario di trasmissione, possono nuocere allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori o che presentano scene di violenza gratuita o insistita o efferata ovvero pornografiche, salve le norme speciali per le trasmissioni ad accesso condizionato che comunque impongano l'adozione di un sistema di controllo specifico e selettivo ..."). Come si vede, da un lato, non sono consentite trasmissioni (quindi, le singole emissioni televisive, a prescindere dalla loro natura, dal loro oggetto o dal loro particolare format) che non rispettino i diritti fondamentali, inducano ad atteggiamenti d'intolleranza d'ogni tipo (l'elenco era meramente esemplificativo) o che nuocciano allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori (in ogni caso, al di là anche del segmento temporale della c. d. "televisione per tutti"). Dall'altro lato e sebbene ciò sia obbligatorio in modo specifico per le trasmissioni ad accesso condizionato, s'evince dalla serena lettura della norma sulle garanzie che la necessità di un'attenta predisposizione ex ante d'un acconcio sistema di controllo, specifico e selettivo, pur facoltativo, è comunque una misura suggerita dal principio di precauzione per quelle trasmissioni il cui format, pure se non inibito nel segmento della "televisione per tutti", tende (se non mira) al compiacimento, all'induzione o alla tolleranza verso episodi estremi. In altre parole, al di là dell'indubbio effetto d'un tal format sul pubblico meno smaliziato -che spera sempre d'assistere a talune pruderie o ad un voyeurismo gladiatorio, perlopiù derivanti dalle forzate convivenze di personalità disparate nei reality show-, anzi, appunto per questo occorre, a cura dell'emittente, l'assunzione di misure cautelative ex ante, cioè sempre pronte ad attivarsi per elidere tempestivamente scene o parole inappropriate, che non è, tra i vari possibili, un gravoso ed inesigibile apparato di controllo o, comunque, non è offerta una seria prova contraria. Esso sembra (anzi, è ) piuttosto il rimedio ordinario e rapido d'intervento nei casi di trasmissioni che riprendano, dal vivo e senza intermediazioni di sorta, i comportamenti di comunità umane talvolta assortite in guisa da far prevedere conflitti, ristrette in ambiti che non permettono altri tipi d'interazioni che non quelli interni e comunque poco aduse a mediare con calma neppure le minime difficoltà scaturenti dalla convivenza o divergenze di comportamenti o idee, cose, queste, assai probabili e ben prevedibili, quindi tali da poter esser gestite in base a dati segnali d'ascolto e d'attenzione a situazioni anomale che possano montare negativamente in fretta. Già fin d'ora è facile replicare all'appellante che, se, negli illeciti per culpa in vigilando in ordine alla congruenza di trasmissioni alla normativa vigente, il contenuto dell'obbligo di vigilanza varia a seconda del tipo di programma, allora il tipo in esame, a causa delle aspettative di chi assiste e per la volontà dei protagonisti d'offrire la visione d'uno spaccato di vita al contempo artificioso e senza veli, impone per forza una catena di controlli d'attenzione crescente e ridondante, atta a prevenire le situazioni di pericolo più che probabile, se del caso smorzando luci ed audio ancor prima che la condotta dannosa si realizzi, come, p.es., avviene quando si mette in blocco una tratta ferroviaria se son segnalate anche mere anomalie di rete e non anche danni concreti; Va quindi ribadito che è integrato un'ipotesi d'illecito amministrativo di pericolo astratto per il bene giuridico tutelato (cioè il corretto sviluppo e libera formazione dei minori) sotto il regime non solo del previgente art. 15, co. 10 della l. 223/1990, ma anche dell'art. 4, co. 1, lett. b) del D.lgs. 177/2005, quindi prescindendo, stante il chiaro dato testuale della norma, dall'orario in cui l'illecito si consumò in concreto e dalla materiale circostanza che tal condotta fosse avvenuta fuori dal segmento della "televisione per tutti". Invero, il legislatore, in modo ragionevole e congruente con le esigenze di tutela di beni giuridici e diritti fondamentali dell'uomo e del cittadino, vietò tout court ed espressamente le trasmissioni "... che, anche (ma non solo-NDE) in relazione all'orario di trasmissione, possono nuocere allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori...". Fu proprio l'art. 2.5), lett. b) del Codice di autoregolamentazione media e minori (approvato il 29 novembre 2002 e richiamato dall'art. 34, co. 6 del D.lgs. 177/2005) ad impegnare tuttavia le emittenti a "... non trasmettere quegli spettacoli che per impostazione o per modelli proposti possano nuocere allo sviluppo dei minori (oggetto del provvedimento AGCOM, ma rispondente ad un principio generale sul rispetto del sentimento religioso-NDE), e in particolare ad evitare quelle trasmissioni... nelle quali si faccia ricorso gratuito al turpiloquio e alla scurrilità nonché si offendano le confessioni e i sentimenti religiosi...", donde l'obbligo dell'emittente d'approntare ex ante gli strumenti tecnici più adeguati ed opportuni, proprio desumendoli dalla scelta dei concorrenti e dall'osservazione in continuo aggiornamento delle loro personalità ed atteggiamenti. A parte che le attività pericolose sono anche quelle atipiche (ma in realtà, in base al citato art. 4, si tratta di pericolosità tipica), tal divieto connotò di pericolosità del tipo ex art. 2050 c.c. l'attività delle emittenti televisive, per quelle trasmissioni che, per oggetto o natura, potessero intercettare e, se del caso, ledere i citati beni giuridici protetti, rispondendo quindi l'emittente sia per il format in sé che per il comportamento lesivo dei soggetti da essa organizzati nelle singole trasmissioni. In tal caso la responsabilità per violazione dell'art. 4, co. 1, lett. b) del D.lgs. 177/2005 e dell'art. 2.5), lett. b) del Codice di autoregolamentazione (quest'ultimo non richiamato espressamente dal provvedimento impugnato, ma sotteso alla fonte primaria e parte integrante della fattispecie reale) è accollata all'emittente per non aver attuato misure acconce a fronte di un'attività ontologicamente pericolosa per com'è stata conformata dal legislatore, per cui la prova liberatoria si risolve non nella dimostrazione del solo caso fortuito (peraltro invocato dall'appellante, ma a torto) che interrompa il nesso causale tra l'attività pericolosa e la condotta illecita, ma nell'approntamento di misure tanto preventive, quanto in corso di trasmissione secondo la regola del "principiis obsta" (p. es., mercé l'intervento della regia quando inizino ad intravvedersi atti o comportamenti anomali), confacenti, cioè, a quel tipo di trasmissioni ove la normalità è il lasciar correre parole in libertà, non certo la misura, il riserbo, la calma e l'autocontrollo. Quindi prova troppo tanto l'assunto per cui l'idoneità delle misure cautelative non sia valutabile o non debba esser valutato ex post (giacché, a suo dire, il sol fatto dell'evento non voluto dimostrerebbe sempre e comunque l'inidoneità delle cautele adottate, dando luogo a responsabilità oggettiva), quanto quello secondo cui, nelle trasmissioni in diretta, il controllo ex ante è limitato al genere del programma ed alla scelta dei relativi partecipanti. Infatti, nell'un caso, la consumazione dell'illecito, che per forza di cose è valutato ex post, è anche la conseguenza di un'inefficacia specifica delle misure preventive messe in campo, ma non è per forza connotante d'una responsabilità oggettiva, anzi, al contrario è spia di come non basti la scelta oculata dei partecipanti, che è misura generica e buona per ogni tipo di programma, occorrendo ulteriori misure durante lo svolgimento del programma quindi ex ante e tenendo conto di come il pericolo di comportamenti degenerativi sia la cifra specifica di quel format precipuo e non di altri. Nell'altro caso, poiché non tutti ma solo taluni format televisivi s'appalesano ictu oculi ben più pericolosi di altri, a tal evidenza fattuale l'emittente non può opporre l'impossibilità di prevedere con assoluta certezza tutta la gamma delle reazioni umane, non essendo questo quanto richiestole, mentre essa sarebbe stata obbligata a fornire la prova positiva d'aver impiegato ogni cura o misura atta ad impedire l'evento dannoso come rettamente sottolinea il TAR, in qualunque orario, solo nel qual caso si sarebbe potuto apprezzare eventualmente il caso fortuito. Tutto questo non è accaduto ed appalesandosi le misure attuate tanto labili da coglier di sorpresa l'emittente stessa di fronte ad un comportamento anomalo del partecipante, più che incontrollabile, a ben vedere non controllato. Petizioni di principio appaiono allora la predicata estraneità dell'atto illecito del partecipante al contesto del programma (invece questo vuol mostrare tutti i tipi di comportamenti dei partecipanti stessi, per cui il fatto fu disdicevole in sé, non avulso dal predetto contesto), l'assenza di causazione dell'emittente nella condotta illecita (ché ciò ne avrebbe connotato la responsabilità a titolo di dolo specifico), l'assenza d'un concreto pericolo per lo sviluppo psichico dei minori (non vale l'ora tarda per escludere a priori tal pregiudizio verso i minori) e l'inconfigurabilità della natura astratta del pericolo delineato dalle norme citate, che pongono clausole generali di protezione, come quelle ex artt. 2049 e 2050 c.c. (cui pure assomigliano). Analoghe considerazioni negative seguono le doglianze, così come riproposte, sia sul merito della contestazione sia sulla misura della sanzione determinata dall'AGCOM (pari a Euro 100.00,00, cioè quattro volte il minimo edittale ex art. 35 del D.lgs. 177/2005), non ravvisandosi nel caso in esame scostamenti incongrui rispetto a tutti i parametri indicati dall'art. 11 della l. 689/1981, comprese dunque, la gravità della violazione, l'opera svolta dall'appellante per attenuare gli effetti dell'illecito (certo seria, ma non più efficace), la personalità della stessa (la RT. s.p.a. è dotata di un'organizzazione interna, anche di controllo, idonea a garantire le misure cautelative efficaci che si sarebbero attese fin dall'inizio dell'irradiazione di quel programma da un'impresa certo di norma sempre attenta ad evitare nocumenti o situazioni pregiudizievoli al pubblico minorile) e le relative condizioni economiche. La presente decisione è stata assunta tenendo altresì conto dell'ormai consolidato "principio della ragione più liquida", corollario del principio di economia processuale (cfr. Cons. Stato, Ad. pl., 5 gennaio 2015 n. 5 nonché Cass., Sez. un., 12 dicembre 2014 n. 26242), che ha consentito di derogare all'ordine logico di esame delle questioni e tenuto conto che le questioni sopra vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., Sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cass. civ., Sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663 e per il Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 settembre 2021 n. 6209, 13 settembre 2022 n. 7949 e 18 luglio 2016 n. 3176), con la conseguenza che gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. In definitiva, l'appello va accolto, ma giusti motivi suggeriscono la compensazione integrale, tra le parti, delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2023 con l'intervento dei magistrati: Andrea Pannone - Presidente FF Alessandro Maggio - Consigliere Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere, Estensore Thomas Mathà - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. CRISCUOLO Anna - Consigliere Dott. AMOROSO Riccar - rel. Consigliere Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 06/12/2021 della Corte d'appello di Catanzaro; visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Anna Criscuolo; udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Silvia Salvadori, che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio limitatamente alla confisca; udito il difensore, avv. (OMISSIS) in sostituzione dell'avv. (OMISSIS), che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Catanzaro ha riformato la sentenza emessa il 31 maggio 2021 dal Tribunale di Lamezia Terme nei confronti di (OMISSIS) limitatamente al trattamento sanzionatorio, confermando l'affermazione di responsabilita' per il reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 articolo 73. L'imputato e' stato ritenuto colpevole del reato di detenzione di kg. 3,930 di marijuana, suddivisi in 19 involucri termosaldati, rinvenuti in un terreno agricolo antistante la sua proprieta', occultati in due secchi, sotterrati a un metro e mezzo di profondita', identici a quelli rinvenuti nel garage della sua abitazione; la riconducibilita' del terreno all'imputato e' stata fondata sul rinvenimento di un escavatore e di altre attrezzature riferibili alla sua attivita' imprenditoriale. All'interno dell'abitazione era stata, inoltre, rinvenuta la somma di 24.940 Euro, suddivisa in banconote di vario taglio, sigillate in buste di plastica, occultate in vari luoghi della camera da letto nonche' nella tasca pigiama del (OMISSIS) e nella borsa della moglie; erano state, altresi', rinvenute una macchina sottovuoto, sacchetti di plastica e una bilancia digitale. 2. Il difensore del (OMISSIS) ha proposto ricorso avverso la sentenza in epigrafe. Con unico articolato motivo denuncia l'erronea applicazione dell'articolo 192 c.p.p., la mancanza e. la manifesta illogicita' della motivazione in relazione all'affermazione di responsabilita' nonche' l'illegittimita' della confisca. Deduce che la Corte di appello non ha risposto alle censure formulate con l'atto di appello, essendosi limitata a confermare la sentenza di primo grado, senza motivare in ordine alla circostanza che lo stupefacente e' stato rinvenuto in un terreno non di proprieta' del ricorrente. Dal verbale di perquisizione, trascritto nel ricorso, risulta che nell'abitazione del ricorrente non fu trovata sostanza stupefacente, ma solo una somma di denaro in contanti, per complessivi 24.940 Euro, riferibile all'attivita' imprenditoriale del ricorrente, come provato dalle fatture prodotte, sicche' e' apodittico ritenerne la provenienza illecita solo in base alla suddivisione in buste di plastica. Dallo stesso verbale di perquisizione risulta che lo stupefacente fu rinvenuto in un fondo agricolo di proprieta' di (OMISSIS), ma, a prescindere dalla illogica riconducibilita' al ricorrente del terreno solo per la presenza di un suo escavatore, la perquisizione e il sequestro sono inutilizzabili per violazione dell'articolo 114 disp. att. c.p.p., in quanto l'avviso dato al (OMISSIS) era relativo solo alla perquisizione dell'abitazione. La perquisizione e il sequestro sono invalidi e non riferibili al (OMISSIS), tant'e' che il decreto di convalida di perquisizione e' stato emesso nei confronti del (OMISSIS); non puo' attribuirsi al ricorrente lo stupefacente rinvenuto nel terreno solo per la presenza del suo escavatore poiche' chiunque poteva accedervi e riporvi i secchi ne' vi e' corrispondenza tra i secchi in cui era occultato lo stupefacente e quelli trovati nel garage del (OMISSIS), di cui non e' l'unico utilizzatore. Il giudizio di responsabilita' non puo' essere fondato sul rinvenimento della somma di denaro trovata in suo possesso perche' e' provento dell'attivita' lavorativa del ricorrente, come dimostrato dalle fatture prodotte ed e' stato anche provato che la macchina sottovuoto era stata acquistata il giorno prima dell'arresto. La confisca della somma di denaro e' illegittima. Il Tribunale del riesame aveva annullato il sequestro probatorio e, a seguito di richiesta del P.m., il Tribunale monocratico aveva convalidato il sequestro preventivo di urgenza senza emettere un autonomo decreto di sequestro preventivo; inoltre, in sentenza il Tribunale aveva disposto d'ufficio la confisca del denaro non richiesta dal P.m. senza motivare in alcun modo, nonostante le fatture prodotte dimostrassero la lecita provenienza delle somme. Analoga mancanza di motivazione sul punto si riscontra nella sentenza impugnata: il denaro non e' ricollegabile al reato ne' e' confiscabile ex articolo 240 bis c.p. per sproporzione rispetto ai redditi del condannato, mancando ogni accertamento e valutazione sul punto. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso e' fondato limitatamente alla confisca, inammissibile nel resto. 1.1 Le censure relative all'affermazione di responsabilita' sono inammissibili perche' proposte per motivi non consentiti, atteso che solo formalmente denunciano la violazione delle regole di valutazione della prova, in realta', sollecitano una rivalutazione del quadro probatorio, non consentita in questa sede, specie a fronte di una valutazione conforme dei giudici di merito e di un apprezzamento lineare, affatto illogico e, pertanto, incensurabile, degli elementi oggettivi illustrati in premessa. Il ricorrente sembra ignorare il perimetro del controllo esercitabile da questa Corte, che deve limitarsi a verificare la completezza e l'insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza possibilita' di valutare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074); trascura altresi', il principio secondo il quale in tema di ricorso per cassazione, e' inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione dell'articolo 192 c.p.p., anche se in relazione agli articoli 125 e 546, comma 1, lettera e), stesso codice, per censurare l'omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all'ammissibilita' delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall'articolo 606, comma 1, lettera e), c.p.p., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullita' (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027- 04). Il ricorso, invece, sollecita un apprezzamento su aspetti squisitamente di merito: reitera, infatti, il tentativo di negare la riconducibilita' al (OMISSIS) dello stupefacente rinvenuto nel terreno antistante la sua abitazione, facendo leva sulla circostanza che non ne era il proprietario o l'utilizzatore, ma trascurando la convergenza degli elementi indicati nella ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito: elementi che vengono esaminati in modo atomistico nel ricorso, ove si propongono alternative ricostruttive del tutto generiche e ipotetiche, sostenendo che chiunque poteva accedere al fondo e occultarvi i secchi contenenti lo stupefacente e che il ricorrente non era l'unico ad usare il garage, ove furono ritrovati secchi analoghi a quelli in cui era occultato lo stupefacente, nonche' negando che detti contenitori fossero identici. Come ritenuto dai giudici di merito, detta prospettazione non e' idonea a ingenerare dubbi ne' a depotenziare la significativita' a) della presenza sul terreno dell'escavatore del ricorrente, utilizzabile proprio per scavare buche in cui sotterrare i secchi ed occultare lo stupefacente; b) delle tracce di terreno rimosso di recente; c) del rinvenimento di secchi analoghi nel garage del ricorrente, di una macchina sottovuoto e buste di plastica di varie dimensioni ovvero di uno strumento e materiale utilizzabile per il confezionamento dei pacchi di marijuana e anche per sigillare le banconote. La valutazione coordinata ed unitaria di tali elementi risulta, pertanto, coerente, logica e la motivazione idonea a sorreggere l'affermazione di responsabilita'. 1.2 L'eccezione di nullita' della perquisizione e del sequestro per violazione dell'articolo 114 disp. att. c.p.p., oltre ad essere manifestamente infondata, non risulta formulata in appello ed e', pertanto, inammissibile, non potendo censurarsi la mancata risposta ad un tema non devoluto alla cognizione del giudice di appello. Va comunque, ribadito che la nullita' della perquisizione non implica quella del sequestro, ove lo stesso, riguardando il corpo del reato o cosa pertinente al reato, debba ritenersi di per se' atto dovuto, a prescindere dalle modalita' con cui vi sia pervenuti (Sez. U, n. 5021 del 27/3/1996, Sala, Rv. 204643; Sez. 6, n. 41986 del 10/09/2019, PMT c/Osakwe, Rv. 277203) ed e' incontestabile che il sequestro della sostanza stupefacente, costituente corpo di reato, soggetto a confisca obbligatoria, deve ritenersi legittimamente eseguito. 2. E', invece, fondato il motivo di ricorso relativo alla confisca per mancanza di motivazione. Premesso che entrambi i giudici di merito non hanno espressamente dato conto della documentazione prodotta dal ricorrente, ma l'hanno implicitamente considerata irrilevante, avendo ritenuto il denaro provento dell'attivita' illecita, va ribadita la legittimita' della confisca disposta contestualmente alla condanna, senza un preventivo provvedimento di sequestro. La confisca puo' essere, infatti, ordinata anche in assenza di un precedente provvedimento cautelare di sequestro, purche' sussistano norme che la consentano o impongano (Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Volpe e altri, Rv. 255113; Sez. 5 n. 9738 del 02/12/2014, dep. 2015, Giallombardo, Rv. 262893 che, in tema di confisca per equivalente, afferma che il giudice della cognizione, nei limiti del valore corrispondente al profitto del reato, puo' disporre il provvedimento ablatorio anche in mancanza di un precedente provvedimento cautelare di sequestro e senza necessita' di individuare i beni da apprendere, potendo il destinatario ricorrere al giudice dell'esecuzione). Nel caso di specie, la motivazione resa per giustificare la confisca del denaro e' fondata sulle anomale âEuroËœmodalita' di confezionamento e di occultamento del denaro, sull'entita' della somma rinvenuta in contanti e in banconote di vario taglio, tipica delle transazioni illecite, nonche' sulla ritenuta inverosimiglianza delle giustificazioni addotte dal ricorrente, quali la chiusura del conto bancario. Sul punto i giudici hanno osservato che la chiusura del conto risaliva al giugno 2020 ed era scarsamente credibile che l'imputato non ne avesse aperto un altro presso un diverso istituto di credito, trattandosi di strumento essenziale per un piccolo imprenditore edile, che dovrebbe prediligere strumenti di pagamento tracciabili, oltre alla mancata valutazione dei rischi connessi alla detenzione in casa di una consistente liquidita' senza alcuna cautela. Tuttavia, pur essendo dette argomentazioni logiche, i giudici non hanno affatto affrontato il tema della natura della confisca disposta e del collegamento con il reato ne' considerato che il reato contestato e' quello di detenzione e non di cessione di sostanze stupefacenti, sicche' non puo' applicarsi la confisca ex articolo 240 c.p. del profitto del reato in mancanza di derivazione diretta della somma dal reato. L'articolo 240 c.p. prevede la confisca delle cose che costituiscono il profitto del reato, che e' costituito dal lucro cioe' dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 26443), sicche' e' sicuramente consentita la confisca del danaro che costituisca provento cioe' profitto del reato di vendita di sostanze stupefacenti quando sia questo il reato per cui si procede, mentre nel caso in esame e' contestata la mera detenzione, a fini di cessione, e non la vendita di sostanze stupefacenti. Peraltro, quand'anche si dovesse ritenere che il denaro rinvenuto fosse provento dell'attivita' illecita, essa deriverebbe da pregressa attivita' di cessione e non dal reato per cui vi e' stata condanna. In caso di detenzione illecita di sostanza stupefacente, fuori dai casi di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 articolo 73, comma 5, e' applicabile solo la speciale confisca prevista dall'articolo 240 bis c.p. in forza del rinvio operato dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 articolo 85 bis, sempre che ne sussistano le condizioni (Sez. 4, n. 20130 del 19/04/2022, Donato, Rv. 283248), ma dei presupposti richiesti dalla norma per giustificare detto tipo di confisca e, in particolare, della sproporzione rispetto ai redditi dell'imputato, quale principale indicatore di accumulazione illecita, correlata alla particolare redditivita' dei reati di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 articolo 73 non vi e' alcun accertamento ne' cenno nella motivazione, atteso che, come detto in precedenza, non risulta minimamente esaminata e valutata la documentazione prodotta dal ricorrente per giustificare la provenienza della somma di denaro rinvenuta. Per le ragioni esposte la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro per nuova valutazione sul punto. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla disposta confisca e rinvia per nuovo giudizio su tale punto ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SARNO Giulio - Presidente Dott. GALTERIO Donatella - Consigliere Dott. NOVIELLO Giuseppe - rel. Consigliere Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. SESSA Gennaro - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nata a (OMISSIS); avverso la sentenza del 25/11/2021 della corte di appello di Milano; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. NOVIELLO Giuseppe; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SECCIA Domenico A.R., che ha concluso per la dichiarazione di rigetto del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza resa in data 25 novembre 2021, 13 luglio 2021 la corte di appello di Milano riformando parzialmente la sentenza del tribunale di Lodi del 28 marzo 2019 dichiarava la parziale nullita' della stessa limitatamente alle posizioni di (OMISSIS) e (OMISSIS) con trasmissione degli atti al tribunale di Lodi, e rideterminava la pena inflitta a (OMISSIS) confermando nel testo la sentenza impugnata. 2. Avverso la sentenza suindicata, (OMISSIS) e (OMISSIS), tramite il rispettivo difensore di fiducia, hanno proposto ricorso per cassazione, sollevando il primo sei motivi di impugnazione, e la seconda quattro motivi di impugnazione. 3. (OMISSIS) con il primo motivo deduce vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), in ordine alla questione preliminare, che si reitera in questa sede, relativa all'articolo 585 c.p.p., comma 1 e articolo 154 disp. att. c.p.p., comma 4 bis in relazione agli articoli 3, 24 Cost. e articolo 11 Cost., comma 3. Si sostiene l'irragionevolezza della permanenza del solo termine massimo di 45 giorni per impugnare una sentenza, ancorche' per il deposito della relativa motivazione sia stata disposta - come nel caso di specie - la proroga del termine medesimo ex articolo 154 c.p.p., comma 4 bis, alla luce della complessita' del procedimento, per fatti risalenti nel tempo, con pluralita' di imputati e articolata istruttoria. Con violazione del diritto di difesa. Sul punto si aggiunge che con la sentenza impugnata la questione sarebbe stata rigettata senza illustrazione dei motivi di condivisione di un richiamato precedente giurisprudenziale al riguardo, e senza considerare il caso concreto, e si ribadisce l'irragionevolezza di ritenere che a fronte di un caso complesso che giustifichi la proroga del termine di deposito rimanga immutata la necessita' di soli 45 giorni per l'impugnazione del difensore. Oltre ad osservarsi che proprio il corposo atto di appello comunque depositato avrebbe confermato la necessita' di un maggior termine di impugnazione. 4. Con il secondo motivo rappresenta vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) c) ed e) (a tale ultimo riguardo per carenza di motivazione), in ordine all'articolo 25 Cost., comma 1, articolo 8 c.p.p., comma 3 e articolo 16 c.p.p., Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 18 e alla competenza territoriale del tribunale di Lodi. Si contesta la sentenza impugnata, osservando come la corte di appello non avrebbe considerato gli argomenti svolti in tema di critica alla ritenuta competenza territoriale del tribunale di Lodi, e volti a dimostrare l'impossibilita' di fissare la base del "sistema" criminoso in (OMISSIS), posto che i giudici di appello, nel rigettare le predette critiche, avrebbero fondato il rinvenimento della sede operativa in (OMISSIS) in ragione solo della presenza, ivi, di due dipendenti con ruoli speculari a quelli svolti dalla (OMISSIS), del rinvenimento, nella sede di (OMISSIS), di 54 faldoni riguardanti la intera gestione contabile e amministrativa delle societa' del gruppo e della individuazione, in (OMISSIS), della residenza di (OMISSIS) e (OMISSIS). Circostanze, queste, passivamente recepite dalla sentenza di primo grado senza alcun confronto con i motivi di appello riportati in ricorso. Integrerebbe solo una motivazione aggiuntiva e apparente, l'ulteriore notazione, ai fini in esame, da parte della corte di appello, per cui la sede di (OMISSIS) avrebbe avuto solo rilievo tecnico, e sarebbe sorta dopo quella di (OMISSIS) - non spiegandosi cosi' le ragioni della individuazione della base operativa della attivita' criminale in (OMISSIS) -, come anche quella per cui la documentazione rinvenuta in (OMISSIS) comprendeva copie degli stessi documenti esistenti in (OMISSIS) - omettendosi di considerare la rilevanza della presenza in (OMISSIS) di quelle copie, in funzione proprio della operativita' del sodalizio -, e come quella per cui, comunque, le decisioni essenziali sulla gestione dei dipendenti erano prese in (OMISSIS) - trattandosi di mera petizione di principio -. Medesime osservazioni sono svolte in ordine al rilievo motivazionale della corte di appello consistente nel richiamo di e - mail, trattandosi di dato che confonderebbe l'operativita' quotidiana nella amministrazione del personale con la ipotizzata manifestazione di attivita' criminosa. Posto che l'operativita' della associazione andrebbe individuata ove si e' ideata e attuata l'operazione di trasferimento del personale, finalizzata alle compensazioni fiscali oggetto di reati fine. 5. Con il terzo motivo, deduce vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) c) ed e) (a tale ultimo riguardo per carenza di motivazione), con riguardo all'articolo 429 c.p.p., comma 1, lettera c). Con riferimento alla sollevata questione inerente la nullita' della imputazione per insufficiente determinazione dei fatti, la corte di appello, rigettando l'eccezione, avrebbe confuso concetti (confondendo la qualifica di amministratore di fatto con quella di ideatore e promotore) e avrebbe formulato una decisione non pertinente. Essa non si sarebbe misurata con i "fatti" di cui all'articolo 2639 c.c., che avrebbero dovuto essere contestati in relazione alla qualifica di amministratore di fatto imputata al (OMISSIS). 6. Con il quarto motivo, deduce vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) c) ed e) (a tale ultimo riguardo per carenza di motivazione), con riguardo all'articolo 2369 c.c. da porre in relazione con le norme contestate con i singoli reati. La corte di appello, con riguardo al tema introdotto dalla difesa con motivi di appello - riportati in ricorso con rinvio agli stessi per i profili di diritto qui ritenuti rilevanti -, circa la configurabilita'" nei confronti del ricorrente, della qualifica di amministratore di fatto, non si sarebbe confrontata con i motivi di gravame proposti e non li avrebbe superati, facendo cattivo governo dei principi relativi alla applicazione dell'articolo 2369 c.c., confondendo concetti (quali quelli di amministratore di fatto e di "artefice di tutto"), forzando le risultanze processuali, di cui si cita una in ricorso "a titolo esemplificativo". La sentenza pertanto, non presenterebbe passaggi illustrativi di operazioni di gestione delle societa' da parte dell'imputato, quale amministratore di fatto, ne' darebbe indicazioni sulla "continuita'" e significativita' della gestione, e mai avrebbe preso in considerazione, nel quadro delle sue riflessioni, la attivita' di dottore commercialista svolta dal ricorrente. 7. Con il quinto motivo, deduce vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e) (a tale ultimo riguardo per carenza di motivazione), con riferimento agli articoli 110 e 416 c.p.. Richiamati i motivi di appello in relazione alla insussistenza di una associazione per delinquere, e i profili di diritto ivi riportati, si contesta l'esistenza di elementi atti a suffragare che i tre principali soggetti della contestata associazione ( (OMISSIS) e (OMISSIS) e (OMISSIS)) abbiano operato tra loro per un programma indeterminato di reati da realizzare. 8. Con il sesto motivo, deduce vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e) (a tale ultimo riguardo per carenza di motivazione), con riferimento alla legittimita' delle operazioni di outsourcing in relazione al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articoli 2, 8 e 10 quater e al "correlato complesso quadro accusatorio". Affermato che con atto di appello si sarebbe ribadita la legittimita' delle operazioni di outsourcing alla base delle contestazioni inerenti i reati tributari, e riportati i relativi motivi di gravame richiamandosi, per il ricorso, i profili di diritto, si sostiene che la motivazione sarebbe in contrasto con le richiamate norme di diritto e integrerebbe una motivazione apparente e incongrua, siccome assertiva e priva di forza argomentativa, illogica e incoerente. 9. (OMISSIS), con il primo motivo deduce vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) e c), sostenendo l'incompetenza territoriale del tribunale di Lodi. Dopo avere riportato sul punto l'atto di appello e citato la decisione al riguardo intervenuta da parte della Corte di appello, la ricorrente richiama le identiche ragioni proposte dal (OMISSIS) a sostegno delle critiche avanzate in ordine alle decisione assunta sul punto dai secondi giudici. Alle quali quindi si rinvia per l'illustrazione del motivo qui in esame. 10. Con il secondo motivo rappresenta vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c) con riguardo all'articolo 429 c.p.p., comma 1, lettera c) e alla indeterminatezza dei capi di imputazione. Richiamati e riportati al riguardo i motivi di gravame proposti, e riportata parte della motivazione della sentenza impugnata elaborata sul punto, la ricorrente, dissentendo dalla tesi dei giudici di appello per cui l'attribuzione alla stessa della qualifica di "gestore tecnico e amministrativo" sarebbe sufficiente per indicare il contributo apportato dalla stessa al sodalizio, consentendo al riguardo una idonea difesa, rappresenta che il collegio sarebbe partito da un'erronea qualificazione del significato di gestione, che confligge con le mansioni svolte dall'imputata, riferibili ad attivita' di mera natura esecutiva. Quindi erroneo sarebbe il richiamo a profili gestori. 11. Con il terzo motivo, deduce vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) con riguardo agli articoli 110 e 416 c.p. e i vizi di contraddittorieta' e manifesta illogicita' della motivazione. Si richiama e riporta quanto sostenuto al riguardo nell'atto di appello e quindi la decisione della corte di appello al riguardo. Quindi si sostiene l'erroneita' della sentenza in ordine al riconoscimento della sussistenza tra gli imputati di un "sodalizio generale e continuativo", osservando l'esistenza di una motivazione carente al riguardo, nei confronti della ricorrente, atteso che la corte di appello recependo la decisione del tribunale avrebbe collocato l'imputata "al secondo livello dell'organizzazione", senza spiegare, piuttosto, le ragioni della esistenza di un concorso nel reato. La motivazione sarebbe altresi' carente, nonche' contraddittoria nella parte in cui, dopo avere dato per esistente un sistema associativo tra le due societa' (OMISSIS) e le tre societa' di (OMISSIS), si esclude l'esistenza della prova circa la natura di societa' cartiere delle tre ultime. Concludendo altresi' anche per la violazione di legge in assenza di elementi caratterizzanti l'associazione. 12. Con il quarto motivo deduce vizi di motivazione. Riportato l'atto di appello in ordine al tema nella insussistenza di prove a carico in ordine alla partecipazione al reato associativo della ricorrente e riportata la parte della sentenza impugnata con cui si e' ritenuto infondato il gravame, si sostiene il mancato superamento dei motivi di appello essendosi la corte limitata a elencare elementi aventi solo valenza indiziante nella fase delle indagini. Inoltre, non si illustrerebbe in sentenza il ragionamento logico da cui si fa discendere la consapevolezza di partecipare ad una attivita' illecita quale conseguenza dello svolgimento di una serie di attivita' professionali in materia di consulenza sul lavoro. La motivazione sarebbe altresi' illogica non indicando quale sia il criterio adottato per ritenere che le comunicazioni epistolari acquisite conducano alla conclusione per cui la ricorrente sarebbe stata consapevole di partecipare ad attivita' illecite. Mancherebbe poi l'analisi delle prove evidenziate con atto di appello e le ragioni della loro mancata valutazione. Sarebbe priva di motivazione la distinzione tra la (OMISSIS) e il (OMISSIS) e mancante la illustrazione delle ragioni della ritenuta non consapevolezza in capo a costui della partecipazione al sodalizio. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo proposto dal (OMISSIS), inerente vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), in ordine alla questione preliminare, che si reitera in questa sede, relativa all'articolo 585 c.p.p., comma 1 e articolo 154 disp. att. c.p.p., comma 4 bis in relazione agli articoli 3, 24 Cost. e articolo 11 Cost., comma 3 e' manifestamente infondato. A fronte di una motivazione in linea con il richiamato indirizzo di legittimita', con il quale questa Suprema Corte ha condivisibilmente sottolineato la diversita' dei profili giustificativi della proroga del termine di deposito della motivazione ex articolo 154 c.p.p., comma 4 bis rispetto a quelli che vengono in rilievo in rapporto alla determinazione, per legge, dei termini di impugnazione, diversi e distinti, cosicche' il prolungamento dei primi termini non comporta un necessario, corrispondente o proporzionale aumento dei secondi, il ricorrente si e' limitato a ribadire - con proprie valutazioni in alcun modo condivisibili e quindi inidonee a fondare i vizi attribuiti sul punto alla sentenza - le ragioni della ritenuta illegittimita' costituzionale. Quanto alla questione di legittimita' costituzionale in se', qui reiterata, oltre che priva del requisito della non manifesta infondatezza e', ancor prima, priva di rilevanza rispetto al caso in esame, posto che, come rilevato dalla corte, il ricorrente ha comunque proposto l'atto di impugnazione, e tempestivamente, ne' ha rappresentato, se non in maniera del tutto generica e quindi inammissibile, il paventato concreto vulnus difensivo in sede di redazione dell'atto di appello. 2. Il secondo motivo, inerente la ritenuta incompetenza territoriale del tribunale di Todi, deve essere esaminato congiuntamente con le medesime censure proposte sul punto dalla (OMISSIS). Esso e' inammissibile. Innanzitutto in ordine al vizio di carenza di motivazione dedotto dal (OMISSIS), posto che gli stessi ricorrenti ammettono l'elaborazione, sul punto, di una motivazione, ancorche' non condivisa. Ne' ricorrono gli estremi di una motivazione apparente, come pure sostenuto, tale essendo solo quella che "non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicita' del discorso argomentativo su cui si e' fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti", (Sez. 11, n. 4787 del 10/11/1993, Di Giorgio), come, per esempio, nel caso di utilizzo di timbri o moduli a stampa (Sez. 1, n. 1831 del 22/04/1994, Caldaras; Sez. 4, n. 520 del 18/02/1999, Reitano; Sez. 1, n. 43433 dell'8/11/2005, Costa; Sez. 3, n. 20843, del 28/04/2011, Saitta) o di ricorso a clausole di stile (Sez. 6, n. 7441 del 13/03/1992, Bonati; Sez. 6, n. 25361 del 24/05/2012, Piscopo) e, piu' in generale, quando la motivazione dissimuli la totale mancanza di un vero e proprio esame critico degli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione, o sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidonea a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U., n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov). Al contrario, la corte di appello ha illustrato, correttamente e ampiamente, le ragioni per cui ha individuato, ai sensi dell'articolo 16 c.p.p., in (OMISSIS), il luogo di manifestazione del piu' grave reato associativo, connesso con gli altri reati contestati. Luogo cosi' ricostruito quale ubicazione del "core business" della associazione, siccome sede operativa da cui si diramavano le direttive sul distacco fittizio dei dipendenti dalle societa' capogruppo a quelle satellite (considerato quale uno dei principali meccanismi funzionali all'ottenimento di indebiti risparmi). E a supporto ha citato plurimi dati, che invero appaiono ragionevolmente coerenti rispetto all'assunto conclusivo, a partire dalla stessa ammissione dell'imputato (OMISSIS), secondo il quale la parte preponderante della societa' era a (OMISSIS). Rispetto a tali dati i ricorrenti, oltre a non procedere ad una completa confutazione critica, con particolare riguardo a quest'ultimo significativo elemento citato, circa le dichiarazioni del (OMISSIS), si sono limitati a prospettare una diversa valutazione di dati raccolti, in questa sede inammissibile. Come noto, infatti, l'epilogo decisorio non puo' essere invalidato da prospettazioni alternative che si risolvano in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perche' illustrati come maggiormente plausibili o perche' assertivamente dotati di una migliore capacita' esplicativa, nel contesto in cui la condotta delittuosa si e' in concreto realizzata (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507). 3. Il terzo motivo dedotto dal (OMISSIS) risulta infondato. Tanto con riferimento, preliminarmente, al dedotto vizio di carenza di motivazione - che appare quello in concreto sollevato nel motivo in esame alla luce di quanto sostenuto nei paragrafi relativi al "motivo di impugnazione" e alle "conclusioni" -, sussistendo una precisa e puntuale argomentazione sul punto contestato. Tale e' invero il rilievo dei giudici di appello per cui, alla luce del capo di imputazione inerente il delitto associativo e degli altri capi di imputazione, emerge una precisa contestazione dei fatti sul piano spazio-temporale come anche sul piano della loro indicazione, operata anche attraverso una nozione, quale quella di "amministratore di fatto" per i reati tributari, coniugata con l'indicazione, altresi', nei vari capi, delle principali azioni svolte da ciascun imputato, tra cui evidentemente anche il ricorrente. Si tratta, in altri termini, di una motivazione che, oltre ad apparire consona con le contestazioni, effettivamente articolate ciascuna nella definizione di ruoli e illustrazione delle linee comportamentali fondanti, e quindi in linea con l'orientamento di legittimita' per cui in tema di citazione a giudizio, non vi e' incertezza sui fatti descritti nella imputazione quando questa contenga, con adeguata specificita', i tratti essenziali del fatto di reato contestato, in modo da consentire all'imputato di difendersi (Sez. 5 -, n. 16993 del 02/03/2020 Rv. 279090 - 01), risulta conseguentemente sussistente (come invece escluso dal ricorrente), nient'affatto apparente, tantomeno manifestamente illogica (sebbene tale ultimo vizio non sia dedotto). Ne' in tal modo emergono gli ulteriori vizi di legittimita' dedotti ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) e c). 4. Quanto al quarto motivo, relativo a vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) c) ed e) (a tale ultimo riguardo per carenza di motivazione), con riguardo all'articolo 2369 c.c. da porre in relazione con le norme contestate con i singoli reati, e' inammissibile. Invero, passando attraverso la discutibile tecnica del generale richiamo ai motivi di gravame sul punto e della parte della sentenza di appello elaborata sul tema cosi' proposto, senza tuttavia illustrare gli specifici passaggi motivazionali che sarebbero inficiati da vizi indicati nella rubrica del motivo in esame, il ricorrente si limita a sostenere, in maniera inevitabilmente assertiva, che la sentenza non supererebbe quanto indicato in sede di gravame (senza appunto precisare di quali specifici aspetti si tratti e in rapporto a quale vizio), giungendo, sempre genericamente, a sostenere la rilevanza, in questa sede, dei "profili di diritto" emergenti in sede di gravame. Invero, si tratta di prospettazioni che appaiono in contrasto con acclarati principi elaborati dal giudice di legittimita', con riguardo al tema della tecnica redazionale del ricorso. Con riferimento, da una parte, al principio per cui in tema di ricorso per cassazione, la censura di omessa valutazione da parte del giudice dell'appello dei motivi articolati con l'atto di gravame onera il ricorrente della necessita' di specificare il contenuto dell'impugnazione e la decisivita' del motivo negletto al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono non risolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimita', dovendo l'atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (Sez. 3 -, n. 8065 del 21/09/2018 Ud. (dep. 25/02/2019) Rv. 275853 - 02). Laddove invece, nel caso in esame, vi e' un indistinto richiamo a tutti gli argomenti spesi con atto di appello sul tema in questione, senza alcuna doverosa e ragionata illustrazione delle specifiche censure proposte, considerate in rapporto a ben individuati passaggi motivazionali di riferimento, per giungere alla coerente delineazione di uno specifico vizio di legittimita'. E del resto, il portato della necessita' di sottrarsi a tale modus procedendi, connotato dal generico rinvio a motivi di appello, con altrettanto generica affermazione di conseguenti vizi per la loro mancata valutazione o per un asserito mancato superamento, e' espresso nell'ulteriore indirizzo di legittimita' secondo il quale i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili "non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresi' quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato" (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568) e le ragioni di tale necessaria correlazione tra la decisione censurata e l'atto di impugnazione risiedono nel fatto che il ricorrente non puo' trascurare le ragioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425). Generica appare altresi' l'affermazione, non meglio spiegata, nella logica dell'illustrata tecnica di impugnazione seguita, per cui vi sarebbe stato un malgoverno dei principi inerenti l'applicazione dell'articolo 2639 c.c., e vi sarebbe confusione tra concetti nonche' forzatura di risultanze processuali. Laddove con riguardo a quest'ultima affermazione non puo' certo bastare il mero riferimento ad una singola circostanza citata "a titolo esemplificativo". Tanto si pone a fronte, d'altro canto, di una motivazione puntuale e ampia sul punto, nient'affatto lontana, anche in relazione alla prima sentenza, dall'illustrazione delle ragioni fondanti i ruoli attribuiti al ricorrente (da pag. 42 e ss.); per cui e' ben difficile comprendere le ragioni secondo le quali al riguardo vi sarebbe, invece, una mancanza di motivazione, come espressamente dedotto in rubrica. Ne' e' dato comprendere quale altro vizio motivazionale possa integrare la conclusione del ricorrente per cui non vi sarebbe "adeguata motivazione" a suffragio delle conclusioni sostenute, sebbene sia noto che il ricorrente deve specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorieta' od alla manifesta illogicita' ovvero a una pluralita' di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata. (Sez. 2, sentenza n. 31811 dell'8 maggio 2012, Rv. n. 254329). Ne' in questo quadro e' dato comprendere la asserita violazione dell'articolo 2639 c.c.. Laddove cio' che conta - e risulta invero rispettato tale indirizzo nella sentenza in questione, attraverso l'ampia illustrazione, tra l'altro, della conoscenza, da parte del ricorrente, della attivita' gestoria contabile e finanziaria delle societa' satellite, con suoi ruoli anche operativi (a pag. 43), anomale fatturazioni a favore di suoi amici o familiari da parte della (OMISSIS) s.r.l., bonifici a suo favore privi di giustificazione, mail illustrative della sua effettiva operativita' all'interno di societa' coinvolte nel sistema criminale emerso, partecipazioni a riunioni per il passaggio di lavoratori dalla capogruppo alle societa' satellite, adozione di direttive -, e' che ai fini dell'attribuzione della qualifica di amministratore "di fatto" e' necessaria la presenza di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attivita' della societa', quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attivita', sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare ed il relativo accertamento costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimita', ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5 - n. 45134 del 27/06/2019 Rv. 277540 - 01). 5. Riguardo al quinto motivo, inerente vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e) (a tale ultimo riguardo per carenza di motivazione), con riferimento agli articoli 110 e 416 c.p. e' sufficiente richiamare le considerazioni svolte con riguardo al motivo precedente, in punto di inadeguatezza della strutturazione del ricorso per la illustrazione di specifiche censure, rispetto alle argomentazioni anche in proposito svolte dalla corte di appello (da pag. 27 e ss.) e quindi tutt'altro che inesistenti come dedotto; con estrema genericita' e assertivita', pertanto delle affermazioni critiche sollevate, peraltro, nella sostanza, meramente rivalutative di dati (e quindi anche per tale motivo inammissibili in questa sede). 6. Identiche a quelle immediatamente sopra elaborate, sono le considerazioni da formulare per il sesto motivo, proposto attraverso la medesima struttura impugnativa prima criticata, e quindi mediante una finale assertiva affermazione di contrasto a norme di legge e di assertivita', incongruita' ed apparenza della motivazione - invece sussistente e articolata - senza alcuna pur necessaria puntuale specificazione. 7. Riguardo al ricorso di (OMISSIS), il primo motivo, in tema di incompetenza territoriale e' stato esaminato, siccome identico, in sede di verifica del corrispondente secondo motivo proposto dal (OMISSIS). Per cui si rinvia alle relative considerazioni in tema di inammissibilita'. 8. Quanto al secondo motivo relativo a vizi ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c) con riguardo all'articolo 429 c.p.p., comma 1, lettera c) e alla indeterminatezza dei capi di imputazione, esso appare infondato per le medesime ragioni gia' espresse in relazione all'analogo terzo motivo proposto dal (OMISSIS). In altri termini, il rilievo dei giudici di appello per cui, alla luce del capo di imputazione inerente il delitto associativo e degli altri capi di imputazione, emerge una precisa contestazione dei fatti sul piano spazio temporale come anche sul piano della loro indicazione, operata anche attraverso una nozione, quanto alla ricorrente, di "gestore tecnico e amministrativo", coniugata con l'indicazione altresi', nei vari capi, delle principali azioni svolte da ciascun imputato, tra cui evidentemente anche la ricorrente. Quanto all'ulteriore rilievo della ricorrente per cui il collegio sarebbe partito da una erronea qualificazione del significato di gestione che confliggerebbe con le mansioni svolte dall'imputata, riferibili ad attivita' di mera natura esecutiva, per cui erroneo sarebbe il richiamo a profili gestori, da una parte appare nuovo, atteso che non compare nel riepilogo - incontestato - del corrispondente motivo di gravame e tantomeno all'interno del medesimo come riportato in ricorso, dall'altra, facendosi riferimento ad una parte di contestazione che secondo la ricorrente non sarebbe conforme alla realta' delle condotte, esecutive, svolte dalla imputata, nulla ha a che vedere con il tema della insufficiente determinazione del capo di imputazione, quanto, al piu', a quello, non sollevato, della corrispondenza tra la contestazione e la decisione finale. 9. Inammissibile e' il terzo motivo, atteso che rispetto ad una corposa quanto articolata motivazione descrittiva delle ragioni di sussistenza dei requisiti fondanti il contestato sodalizio criminale, si oppone, attraverso il previo mero richiamo dei motivi di appello e la sintesi della motivazione della corte di appello sul punto, l'assertiva affermazione per cui sarebbe stato erroneamente ritenuto esistente un sodalizio tra gli imputati di carattere generale e continuativo, senza alcuna altra spiegazione. Cosi' da incorrere in un difetto di specificita' alla luce dei principi sul tema gia' in precedenza richiamati nell'analisi del ricorso del (OMISSIS) e cui si rinvia. Quanto alla assenza di motivazione per avere la corte ricondotto la ricorrente al secondo livello della associazione, senza spiegare le ragioni di esclusione di un mero concorso, si tratta anche in tal caso di una censura intrinsecamente inammissibile, posto che non contestandosi la motivazione in punto di partecipazione al sodalizio (invero presente e ampia) bensi' solo la ritenuta mancata spiegazione della esclusione del concorso in un reato continuato, si formula una critica del tutto generica siccome mancante della illustrazione specifica e puntuale delle ragioni per cui tale concorso si sarebbe dovuto ritenere sussistente. Puo' aggiungersi che con specifico riferimento ai vizi di mancanza, l'illogicita' e la contraddittorieta' della motivazione, essi devono essere di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimita' vertere su difetti di macroscopica evidenza, mentre rimangono ininfluenti le minime incongruenze e si devono considerare disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purche' siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (cfr., Sez. un., n. 24 del 24 novembre 1999, Rv. n. 214794; Sez. un., n. 12 del 31 maggio 2000, Rv. n. 216260; Sez. un., n. 47289 del 24 settembre 2003, Rv. n. 226074). Quanto alla censura di contraddittorieta', essa e' inammissibile per genericita' atteso che non si spiega la ragione per cui tale vizio conseguirebbe al fatto per cui la corte di appello, dopo avere dato per esistente un sistema associativo tra le due societa' (OMISSIS) e le tre societa' di (OMISSIS), ha escluso l'esistenza della prova circa la natura di societa' cartiere delle tre ultime societa'. 10. Manifestamente infondato e' il quarto motivo, avendo la corte fornito risposte alle censure proposte, sia ricostruendo il ruolo della imputata e le fonti probatorie al riguardo, sia spiegando la sua consapevole partecipazione al sodalizio attraverso il richiamo a dati ragionevolmente fondanti tale tesi, quali il pluriennale rapporto con il (OMISSIS), le competenze tecniche e la sua funzione di punto di riferimento in ordine anche ai problemi che emergevano in ordine ai dipendenti e alle diverse societa' del gruppo, cosi' emergendo un soggetto addentro, anche sul piano psicologico, alle dinamiche criminali contestate. Tale motivazione consente di considerare disattese le deduzioni difensive genericamente richiamate con rinvio ai motivi di appello, logicamente incompatibili con la decisione adottata, mentre del tutto inidoneo - sul piano logico e giuridico - a prospettare alcun serio motivo di ricorso e' il confronto con valutazioni formulate nei confronti di altro distinto soggetto quale il (OMISSIS), in assenza peraltro di ogni illustrazione circa le caratteristiche della sua posizione rispetto a quella dell'imputata. 11. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi debbano essere rigettati, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. P.Q.M. rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI TORINO SEZIONE LAVORO Composta da: Dott.ssa Clotilde Fierro - Presidente Dott.ssa Patrizia Visaggi - Consigliere Dott. Fabrizio Aprile - Consigliere Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa di lavoro iscritta al n. 264/2022 R.G.L. promossa da: (...) S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio del Prof. Avv. R.Pe. e dell'Avv. R.Fa. che la rappresentano e difendono per procura in atti PARTE RECLAMANTE CONTRO (...), elettivamente domiciliato in Torino presso lo studio degli Avv.ti P.Be., P.Ba., V.Ve. e F.Mu. che lo rappresentano e difendono per procura in atti PARTE RESISTENTE Oggetto: impugnazione licenziamento. MOTIVI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Con ricorso tempestivamente depositato e ritualmente notificato, la (...) S.p.A. proponeva reclamo ex art. 1, co. 58, L. n. 92 del 2012 avverso la sentenza n. 840/22 in data 23/05/2022 del Tribunale di Torino, che, in riforma dell'ordinanza "Fornero" del 24/05/2021, aveva accolto l'impugnazione del licenziamento per giusta causa intimato a (...) (dipendente dal 13/07/2020 in qualità di commesso ex art. 11 ccnl impiegati, commessi e ausiliari delle aziende di credito, con mansioni di cassiere e tesoriere presso la filiale "(...)" di (...)) con lettera del 22/10/2020 a fronte di "gravi irregolarità che violano le procedure previste per la corretta gestione di beni e valori della clientela e della società", identificate nella precedente lettera di contestazione disciplinare nel non avere il lavoratore "proceduto correttamente alle operazioni di identificazione del cliente" in relazione a due pagamenti di sopravanzi d'asta avvenuti il 17 e il 19/06/2020 dietro presentazione di polizze ingiustificatamente ristampate, l'una, 55 minuti prima e, l'altra, 2 giorni prima. Il ricorrente, in estrema sintesi, aveva eccepito la tardività e la genericità della contestazione e sostenuto l'insussistenza e il disvalore dei fatti contestatigli, frutto di una collaudata e tollerata prassi aziendale, e la carenza di proporzionalità della sanzione applicata. Il Giudice della fase sommaria aveva respinto la domanda di reintegrazione ex art. 18 st. lav. ritenendo documentalmente provati gli elementi fattuali e costitutivi dell'illecito a suffragio del provvedimento espulsivo. L'opposizione del lavoratore avverso tale ordinanza è stata invece accolta dal secondo Giudice, che, celebrata l'istruttoria orale, ha reintegrato il dipendente nel posto di lavoro sull'assunto dell'irrilevanza disciplinare di quanto contestatogli, dato che la mancata corretta identificazione del cliente (pur in sé oggettivamente sussistente) era avvenuta in incolpevole ossequio a un'inveterata prassi aziendale (c.d. "prassi del salottino", per cui all'identificazione del cliente procedeva non direttamente il cassiere ma il perito aziendale che si trovava in un apposito locale distinto dalla cassa) e che non era stato possibile per il cassiere distinguere ictu oculi l'originale delle polizze ricevute dalla sua ristampa. Avverso tale sentenza ha mosso reclamo la (...) S.p.A. lamentando, in particolare, che il Giudice dell'opposizione aveva infondatamente, contraddittoriamente ed erroneamente: - ritenuto priva di valenza disciplinare la condotta in contestazione, nonostante la sua oggettiva sussistenza (pure accertata in sentenza) e nonostante il dipendente non avesse adeguatamente provato l'effettività e la tolleranza datoriale della "prassi del salottino", che, in ogni caso (anche ove accertata), avrebbe integrato una prassi illegittima e non avrebbe fatto venire meno la responsabilità del cassiere; - trascurato che il dipendente, pur a conoscenza di una simile illegittima e non autorizzata, non aveva avvisato in tal senso la direzione aziendale. Si è costituito (...) rievocando tutti i rilievi oppositori del primo grado (compresa l'eccezione di genericità della contestazione disciplinare di cui alla lettera del 2/10/2020), evidenziando l'infondatezza del reclamo avversario e chiedendone il rigetto, con integrale conferma della sentenza impugnata. All'udienza del 14/09/2022, all'esito della discussione, la causa è stata trattenuta a riserva e quindi decisa come da dispositivo. 2. Ritiene questo Collegio, in continuità con il proprio orientamento già espresso nella sentenza n. 197/22 (in una vicenda esattamente identica alla presente e riguardante (...), collega di (...) e incaricato delle medesime mansioni di cassiere), che sia preliminarmente fondata l'eccezione di genericità dell'addebito disciplinare riproposta ex art. 246 c.p.c. da parte resistente - cosa che, comunque, consente di sostanzialmente confermare la gravata sentenza sia pure con diversa motivazione (nullità, non illegittimità, del recesso datoriale). 2.1. Al fine di esaminare puntualmente tale eccezione - atteso che il secondo Giudice l'ha rigettata "Discostandosi consapevolmente" dal citato precedente - è opportuno innanzitutto riportare testualmente la lettera di contestazione nella quale si legge: "Relativamente alle operazioni del 17/06/2020 ore 09.37 e del 19/06/2020 ore 10.12 connesse al pagamento di 2 sopravanzi d'asta relativi rispettivamente alle polizze n. (...) e n. (...) risulta che le stesse polizze da Lei ricevute per la riscossione del sopravanzo siano state ristampate nel primo caso 55 min. prima circa e nel secondo caso 2 gg. prima dell'esecuzione delle operazioni citate (circostanza quest'ultima per cui non si ravvisa alcuna giustificazione). Ci risulta che Lei non abbia proceduto correttamente alle operazioni di identificazione del cliente, esponendo la società a gravi ripercussioni patrimoniali e reputazionali". Il Giudice dell'opposizione ha respinto l'eccezione di genericità sulla base dei seguenti argomenti: a) la società opposta aveva precisamente indicato in relazione a quali operazioni (di cui erano riportate le date) fossero stati riscontrati i problemi contestati, essendo irrilevante la mancata indicazione del nome dei clienti intestatari delle polizze e degli importi pagati, che l'opponente, non essendo stato sospeso dal servizio, ben avrebbe potuto reperire utilizzando gli strumenti informatici a cui aveva accesso sul luogo di lavoro; b) solo la condotta relativa alla ricezione delle polizze per la riscossione del sopravanzo (formulata con il verbo al passivo) era espressamente riferita al lavoratore, sicché risultava chiaro come non gli fosse stato contestato anche il fatto di avere personalmente ristampato le polizze ricevute; c) l'istruttoria testimoniale aveva consentito di appurare che l'opponente, fin dal giugno-settembre 2020 (ancor prima, perciò, di ricevere la contestazione disciplinare), era stato al corrente delle anomale operazioni di pagamento del sopravanzo riscontrate dall'azienda, avendone parlato con il vicedirettore e con gli altri colleghi coinvolti nella vicenda e avendo fin da allora invocato difensivamente la "prassi del salottino" per l'identificazione dei clienti titolari delle polizze e l'esclusiva responsabilità in merito dei periti aziendali; d) il tenore della lettera di giustificazioni del 7/10/2020 redatta dal dipendente aveva dimostrato pur essa la piena ed esauriente conoscenza, da parte sua, degli illeciti contestati, sì da consentirgli una compiuta difesa. Il resistente censura sul punto la prima sentenza deducendo a propria volta che: a) la valutazione circa rispetto dei canoni di specificità della contestazione disciplinare dev'essere condotta ex ante senza tener conto delle eventuali giustificazioni rese dal lavoratore, né di eventuali informazioni acquisibili aliunde; b) l'oggetto della valutazione dev'essere unicamente il contenuto della lettera di contestazione, prescindendo dal fatto che il lavoratore abbia potuto verificare i fatti addebitati dopo l'apertura del procedimento disciplinare; c) il Tribunale invece ha ritenuto che, pur in mancanza del nominativo dei clienti, la contestazione fosse specifica perché (...) avrebbe potuto risalirvi tramite gli strumenti informatici, con ciò ricorrendo a elementi estranei alla contestazione; d) parimenti erronea è la valorizzazione delle difese rassegnate dal lavoratore, posto che queste si collocano in un momento successivo alla contestazione. 2.2. Come si è anticipato, ritiene il Collegio che tali censure siano fondate. Prescindendo per il momento dalla rilevanza dell'omissione del nominativo dei clienti titolari delle polizze in contestazione indicate con i numeri di serie, ciò che difetta nella contestazione in modo radicale è l'individuazione della condotta illecita addebitata al lavoratore. 2.2.1. Quanto alle polizze ristampate, solo in corso di giudizio l'azienda ha chiarito che l'addebito mosso al lavoratore non consisteva nell'averle ristampate (condotta, peraltro, inspiegabilmente descritta con dovizia di particolari temporali ed espressamente qualificata come ingiustificata), bensì nell'averle ricevute già ristampate. L'equivocità della contestazione - oltre a emergere dal tenore letterale della stessa, con gli inutili riferimenti ai giorni e alle ore in cui essa sarebbe avvenuta e con il rilievo dell'assenza di giustificazione della condotta (il verbo "siano state ristampate", pur esso in forma passiva, non escludeva sintatticamente che il complemento d'agente potesse essere sempre il dipendente) - è poi ulteriormente dimostrata dalle giustificazioni rese da quest'ultimo (doc. n. 6): egli, infatti, ritenendo che oggetto della contestazione fosse la ristampa delle polizze senza motivazione alcuna, aveva immediatamente protestato la sua estraneità all'addebito in quanto, essendo un cassiere, gli sarebbe stato materialmente impossibile - "neppure volendo" - stampare le polizze. Ritiene il Collegio, in ciò confortato dal consolidato orientamento della Suprema Corte (cfr. Cass. n. 23771/18, n. 18279/10 e n. 7546/06), che il requisito della specificità della contestazione, finalizzato a consentire l'esercizio del diritto di difesa del lavoratore, sia integrato solo quando siano fornite tutte le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare il fatto nella sua materialità, tenuto conto anche del principio di immutabilità della contestazione, e che, pertanto, non sia consentito ricorrere a elementi estranei alla contestazione quali l'esercizio di fatto del diritto di difesa. Cionondimeno, se si vuole percorrere la strada dell'integrazione della contestazione con elementi ad essa estranei - strada seguita dal secondo Giudice - allora non si può omettere di valutare la difesa rassegnata da (...), elemento che, nella specie, dimostra a posteriori la genericità della contestazione. Risulta documentalmente provato, infatti, che l'incertezza assoluta sul fatto addebitato aveva in concreto determinato la compressione del diritto di difesa dell'incolpato, poiché questi, a causa dell'insufficiente specificazione della condotta, si era difeso su un fatto diverso rispetto a quello pretesamente contestato (la ristampa delle polizze e non la ricezione delle polizze ristampate). La condotta di ricezione delle polizze ristampate, inoltre, non era descritta in alcun modo, poiché nella lettera di addebito non si diceva chi materialmente le avesse consegnate al cassiere, né tantomeno quando e dove ciò fosse avvenuto, né quali elementi avrebbero dovuto essere verificati all'atto della ricezione delle ristampe - con ciò precludendo in radice la possibilità di allestire un'adeguata difesa. Infine, ma non meno significativamente, la ricezione delle polizze ristampate non è descritta nella lettera di contestazione quale condotta illecita, bensì come antecedente storico strumentale alla commissione dell'illecito, rimanendo così estranea al fatto materiale contestato; perdipiù, della questione della ristampa delle polizze non risulta che l'opponente si fosse intrattenuto con il vicedirettore e con i suoi colleghi, ciò non emergendo dalle deposizioni testimoniali indicate a pag. 4 della sentenza impugnata, né essendo rilevante (anzi, risultando comprensibile e ovvio) che l'incolpato si fosse spaventato per quanto gli stava accadendo. 2.2.2. L'unico addebito soggettivamente riferito a (...), laconicamente descritto nella seconda parte della lettera di contestazione, era testualmente identificato, come si è visto, nel non avere "proceduto correttamente alle operazioni di identificazione del cliente, esponendo la società a gravi ripercussioni patrimoniali e reputazionali"; l'azienda, quindi, non imputava al dipendente l'omessa identificazione del cliente, bensì la non corretta identificazione, senza tratteggiare, neppure per sommi capi, la scorrettezza asseritamente posta in essere. Per integrare il requisito della specificità la parte datoriale, invece, avrebbe dovuto descrivere il fatto materiale costituente la scorretta operazione di identificazione del cliente, indicando le violazioni poste in essere dal dipendente in detta operazione; infatti, l'addebito di scorrettezza nell'esecuzione di una procedura, se non ancorato a elementi di fatto oggettivi, si risolve in un giudizio soggettivo e non in un fatto illecito. L'omessa indicazione di fatti specifici e la generica contestazione di una condotta aggettivata in modo negativo (la circostanza di non avere proceduto correttamente alle operazioni di identificazione) rende evidente la genericità della contestazione, impedendo al lavoratore di difendersi. 2.2.3. Ulteriori elementi di prova dimostrano la genericità della contestazione. In primo luogo, non può sostenersi che le lacune della lettera di contestazione siano sanate dalla condotta del lavoratore che, difendendosi, avrebbe dimostrato di aver perfettamente compreso di che cosa veniva accusato; invero, nessun elemento utile è rinvenibile nella difesa del lavoratore, posto che questi si è difeso - sia nella lettera di giustificazioni del 7/10/2020, sia nel precedente appunto manoscritto del 15/09/2020 (doc. n. 20 di parte reclamante), sia alla luce delle deposizioni testimoniali indicate alle pagg. 4-5 della sentenza impugnata - richiamando la prassi (quella "del salottino") di consegnare le somme relative ai sopravanzi al perito senza identificare il cliente, ritenendo che a ciò avesse provveduto il collega e negando così di aver commesso il fatto. In secondo luogo, la genericità della contestazione discende dall'omessa indicazione del nominativo del cliente cui sarebbe stato pagato il sopravanzo. Pacificamente l'azienda era a conoscenza dei nominativi dei clienti coinvolti, tant'è vero che li aveva indicati nella lettera di contestazione inviata al perito (...) (doc. n. 13 di parte resistente). Nell'ambito del bilanciamento dei contrapposti interessi (quello del datore di lavoro ad avviare il procedimento disciplinare e quello del lavoratore a difendersi) necessariamente deve prevalere il diritto di difesa del lavoratore, certamente reso più difficoltoso a causa dell'omessa indicazione del nominativo del titolare della polizza. Altri argomenti di prova a sostegno della genericità della contestazione sono infine desumibili dall'esame comparato delle contestazioni formulate agli altri lavoratori coinvolti nella vicenda in oggetto; a mo' d'esempio, nella citata lettera di contestazione elevata contro (...) vengono specificati sia l'ammontare dei sopravanzi indebitamente pagati, sia il pagamento sospetto in prossimità della scadenza del termine decorso il quale la banca avrebbe incamerato gli importi, sia la ristampa delle polizze oggetto dei sopravanzi, oltre alla carenza di documentazione. L'azienda, quindi, era a conoscenza di una serie di elementi, quali i nominativi dei clienti coinvolti nell'operazione e l'entità dei sopravanzi indebitamente incassati, che ha volutamente sottaciuto a (...), privandolo così di ogni possibilità di contestazione e difesa. È nondimeno interessante in questo senso l'"aggiustamento di tiro" cui ha dovuto fare ricorso la (...) S.p.A. nel presente reclamo nei termini evidenziati ed eccepiti dal resistente alle pagg. 27-30 della comparsa costitutiva: l'introduzione da parte dell'azienda di nuovi elementi chiarificatori della condotta addebitata al dipendente (elementi non contenuti nelle scritture difensive di primo grado e giustamente stigmatizzati ex adverso ai sensi dell'art. 345 c.p.c.) rappresenta, se mai ce ne fosse ancora bisogno, un'ulteriore riprova dell'insufficienza dell'originaria contestazione disciplinare. 2.3. Venendo ora alle conseguenze dell'accertata genericità della contestazione, il Collegio condivide l'orientamento della Suprema Corte per cui "il radicale difetto di contestazione dell'infrazione determina l'inesistenza dell'intero procedimento, e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al comma 4 dell'art. 18 della L. n. 300 del 1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito" (Cass. n. 4879/20). Pertanto, in accoglimento della preliminare eccezione di genericità dell'addebito disciplinare a fondamento del disposto provvedimento espulsivo (eccezione da intendersi quale "ragione più liquida", che assorbe ogni altra questione meritoria), il reclamo della (...) S.p.A. dev'essere rigettato e il licenziamento annullato, con condanna della società alla reintegrazione del resistente nel posto di lavoro, al pagamento in suo favore dell'indennità risarcitoria indicata nella prima sentenza (non impugnata sul punto e che dev'essere in parte qua confermata) e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal licenziamento all'effettiva reintegra. 3. Le spese della presente fase di reclamo seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo; la non esattamente commendevole condotta difensiva assunta dalla reclamante nell'avere introdotto elementi fattuali nuovi e diversi, non si ritiene comunque tale da giustificare l'incremento delle spese di lite o il ricorso all'art. 96, co. 3, c.p.c., anche per il fatto che la causa è stata risolta in accoglimento della preliminare eccezione di genericità della contestazione disciplinare. P.Q.M. Visti gli artt. 1, co. 60, L. n. 92 del 2012 e 437 c.p.c., rigetta il reclamo, annulla il licenziamento intimato a (...) e conferma nel resto l'impugnata sentenza; condanna la (...) S.p.A. a rimborsare al resistente le spese della presente fase di reclamo, liquidate in Euro 6.000,00, oltre a rimborso forfettario, IVA e CPA come per legge. Così deciso in Torino il 14 settembre 2022. Depositata in Cancelleria il 21 settembre 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. COSTANZO Angelo - Presidente Dott. RICCIARELLI Massimo - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere Dott. RICCIO Stefani - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nata a (OMISSIS); avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 11/11/2020; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Stefania Riccio; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CIMMINO Alessandro, che,ha concluso per il rigetto dei ricorsi; letta la memoria depositata dall'avv. Arturo Salerni, difensore della parte civile Comune di (OMISSIS), in persona del sindaco pro tempore, che ha chiesto rigettarsi i ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale di Viterbo in data 25 febbraio 2015, nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), disponeva non diversi procedere per essere estinti i reati loro ascritti per prescrizione, confermando le statuizioni civili ai sensi dell'articolo 178 c.p.p., e condannando i predetti alla refusione delle spese relative al grado in favore della parte civile costituita, Comune di (OMISSIS) in persona del Sindaco pro tempore. All'esito del giudizio di primo grado, i ricorrenti erano ritenuti responsabili dei seguenti reati: 1) turbata liberta' degli incanti ex articoli 110, 353, commi 1 e 2, c.p., per avere, in concorso tra loro e con (OMISSIS), Sindaco del comune di (OMISSIS), e (OMISSIS), "socia di fatto" del medesimo (separatamente giudicati), mediante condotte collusive e fraudolente, nonche' promesse di utilita', turbato il regolare svolgimento della gara indetta dall'ente locale mediante procedura aperta, ai fini della scelta del socio privato cui cedere la quota del 49% (stimata in Euro 690.000,00) del capitale sociale della (OMISSIS) s.r.l., societa' a partecipazione pubblica destinata a gestire la costituenda farmacia comunale; in particolare, facendo il Sindaco andare deserta detta gara cosi' da farla proseguire con procedura negoziata, senza previa pubblicazione del bando, nonche' nel dare consigli sulla offerta da presentare, nell'adiuvare i ricorrenti ai fini del reperimento di una polizza fideiussoria, costituente condizione imprescindibile dell'aggiudicazione, e nel garantire modifiche dello statuto della societa' nel senso dagli stessi auspicato; 2) corruzione ex articoli 319, 319-bis, 321 c.p., per avere promesso al (OMISSIS) utilita' non dovute, consistite in futuri incarichi per la figlia di lui nell'ambito della farmacia e nella cessione di quote di minoranza della (OMISSIS) s.r.l., rilevata dagli stessi ricorrenti, nell'ambito di una costituenda associazione in partecipazione, e cio' quale contropartita dell'asservimento delle funzioni di sindaco agli interessi di essi privati e del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio nelle ridette procedure di gara da individuarsi nella modifica dello statuto della predetta societa' (OMISSIS) s.r.l., cosi' da consentire la piu' ampia partecipazione ai privati. 2. Propongono ricorsi congiunti (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) con atto del difensore, avv. (OMISSIS), nel quale sono articolati i motivi di seguito sintetizzati nei limiti funzionali alla motivazione ai sensi dell'articolo 173, disp. att. c.p.p.. 2.1 Il primo motivo deduce manifesta illogicita' della motivazione in relazione al reato di cui all'articolo 353 c.p.. Non puo' ritenersi integrativa del reato - si assume - la condotta tenuta dai coimputati in relazione alla prima fase del procedimento di scelta del contraente privato per l'acquisto della quota di minoranza della societa' (OMISSIS) s.r.l., conclusa il 23 novembre 2010 con esito infruttuoso, con particolare riguardo alla presentazione di una offerta - l'unica pervenuta in quella sede - apparentemente riferibile ad una societa' risultata inesistente (Associazione professionale (OMISSIS) s.r.l.), ma ritenuta predisposta dallo stesso sindaco (OMISSIS) in combutta con i ricorrenti. In particolare, non risponde al vero che la presentazione di una offerta di tal fatta costituisse il presupposto legale per l'accesso alla trattativa privata, perche' all'aggiudicazione mediante procedura negoziata, senza gara, si sarebbe pervenuti anche all'esito dell'asta deserta, ai sensi dell'articolo 57, comma 2, lettera a), Decreto Legislativo n. 12 aprile 2006, n. 163; ne' puo' dirsi che, per effetto di tale offerta la procedura di gara abbia subito deviazioni dall'iter normativamente predeterminato. 2.2. Il secondo motivo deduce vizi di motivazione in relazione "all'articolo 110 c.p., in combinato disposto con l'articolo 353 c.p. ". Non vi e' prova del concorso dei ricorrenti nelle condotte di presentazione dell'offerta anomala della (OMISSIS) s.r.l., e di uso delle due missive con cui (OMISSIS) aveva rappresentato l'interesse a partecipare alla futura asta in caso di esito negativo della prima, che il sindaco produsse di propria iniziativa alla commissione aggiudicatrice il 23 novembre 2010, durante la seduta di verifica; e cio' perche' il primo contatto avuto dai (OMISSIS) con il comune di (OMISSIS), documentato dagli acquisiti tabulati telefonici, sarebbe successivo al 12 novembre 2011 (data di scadenza del termine di presentazione delle offerte). Incompatibili con l'ipotesi collusiva tra i (OMISSIS) e (OMISSIS) sarebbero, poi: - l'annullamento della prima stima della quota da aggiudicare e la sua sostituzione con quella, di importo pressoche' doppio (Euro 690.000,00), che costitui' il prezzo a base d'asta del bando, annullamento e sostituzione i quali avvennero sempre per iniziativa esclusiva del Sindaco; - l'accollo delle spese per l'acquisto del terreno e la costruzione della farmacia, che nell'originario bando erano previsti a carico del Comune, a carico della societa' (OMISSIS) s.r.l.. Inoltre, nel novembre 2010, (OMISSIS) non aveva alcun interesse a partecipare alla gara, in quanto divenuto aggiudicatario provvisorio, sin dal precedente 28 ottobre 2010, della farmacia comunale di Grugliasco (aggiudicazione che sarebbe stata revocata solo in data 29 novembre 2010). 2.3. Il terzo motivo deduce vizi di motivazione e travisamento della prova in relazione alle condotte poste in essere dagli imputati nell'arco temporale tra il 3 dicembre 2010 e il 4 febbraio 2011, con riguardo al reato di cui all'articolo 353 c.p.. La Corte di appello ha valutato idonee ad alterare la seconda gara, esitata nella aggiudicazione, in data 4 febbraio 2011, della quota di minoranza della municipalizzata in favore di (OMISSIS), una serie di condotte, quali: la comunicazione della (OMISSIS) al figlio di avere visionato il luogo dove sarebbe sorta la farmacia; la comunicazione di (OMISSIS) a (OMISSIS) che non erano state presentate offerte; le dichiarazioni della farmacista (OMISSIS) alla quale (OMISSIS) aveva fatto intendere che la farmacia comunale sarebbe stata aperta da suo amici medici, scoraggiandola dal proporre offerte proprie; l'interessamento di (OMISSIS) per la presentazione della polizza fideiussoria. Si tratta, al contrario, di fatti ininfluenti ai fini della alterazione della gara, non idonei a configurare mezzi collusivi e fraudolenti, ma anche in parte travisati dalla Corte di merito.. Non risponde a verita' che il 4 dicembre 2010 (OMISSIS) avesse consegnato a (OMISSIS) il bando della seconda gara, perche' questo venne materialmente redatto solo il 21 dicembre 2010, avendo nell'occasione il Sindaco reso nota la sola delibera della Regione Lazio che concedeva al comune di (OMISSIS) la facolta' di istituire una seconda farmacia; e parimenti non risponde a verita' che (OMISSIS) si fosse materialmente interessato per l'acquisizione delle garanzie (polizze fideiussorie) previste dal bando quali condizioni per l'aggiudicazione. La comunicazione della assenza di offerte - oggetto della captazione ambientale del 25 gennaio 2011 - non risulta idonea ad alterare la gara e non rende configurabile alcuna collusione; e, del resto, l'articolo 13 del Decreto Legislativo n. 163 del 2006 vieta la sola divulgazione degli elenchi dei soggetti che abbiano presentato offerte, non l'assenza di esse. Le dichiarazioni rese dalla farmacista (OMISSIS), asseritamente dissuasive alla presentazione di offerte, risalgono ad epoca pregressa alla conoscenza del medesimo Sindaco con i coimputati. 2.4. Il quarto motivo deduce vizi di motivazione in relazione al reato di cui all'articolo 319 cod pen.. Assume la difesa che, essendo insussistenti le condotte di turbata liberta' degli incanti, nemmeno e' integrata la condotta corruttiva che, secondo il costrutto accusatorio, tendeva a quella turbativa. Inoltre, alcune condotte, tra cui la richiesta da parte dei (OMISSIS) di modifica dello statuto sociale della (OMISSIS) s.r.l. per consentire l'alienazione delle quote sociali, risultano essere posteriori all'aggiudicazione e non possono costituire oggetto del sinallagma corruttivo. E' stato ignorato il contenuto delle captazioni del periodo 4 febbraio/21 febbraio 2011, da cui emerge la carenza di una qualche utilita' per gli aggiudicatari, derivante da tale complessa operazione. Il 14 febbraio 2011, i (OMISSIS) (OMISSIS), a seguito della predisposizione del progetto da parte dell'ing. (OMISSIS), avrebbero anzi maturato la decisione di recedere dall'offerta, annullando l'acquisita aggiudicazione provvisoria, essendosi resi conto dell'esorbitanza dell'importo necessario per l'acquisto del terreno e per la costruzione dell'immobile da adibire a farmaci (oneri entrambi accollati all'acquirente) siccome "lievitato" ad Euro 1.200.000,00. Inoltre, ricevuto lo statuto sociale della (OMISSIS) s.r.l., i (OMISSIS) avevano appreso che la quota acquisita dal socio privato avrebbe potuto essere alienata solo ad altro socio, e pertanto solo al Comune, mentre era interesse dei (OMISSIS) (OMISSIS) far subentrare nell'assetto societario i figli della coppia, (OMISSIS) e (OMISSIS), quest'ultima prossima ad acquisire il titolo di farmacista. In seguito a cio' i ricorrenti avevano pressato (OMISSIS) e la (OMISSIS) perche' dessero un apporto finanziario all'operazione, cio' che esclude la configurabilita' del rapporto corruttivo. 2.5. Il quinto motivo deduce contraddittorieta' motivazionale in ordine alla responsabilita' di (OMISSIS) in relazione ad entrambi i reati ascritti. Il ricorrente, farmacista ed unico legittimato a partecipare alla gara, ha avuto una posizione del tutto marginale nell'intera vicenda. Le missive a sua firma partirono dalla casella di posta elettronica del padre (OMISSIS); egli non ebbe mai alcun contatto con il comune di (OMISSIS) e con il suo Sindaco (come ben poteva evincersi dai tabulati telefonici) e nemmeno prese parte agli incontri in cui vennero definiti i pretesi accordi corruttivi. 3. 11 Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alessandro Cimmino, ha concluso per il rigetto dei ricorsi. 4. Il procedimento e' stato trattato nell'odierna udienza con il rito cartolare di cui al Decreto Legge n.137 del 8 ottobre 2020, articolo 23, commi 8 e 9, convertito dalla L. n. 176 del 18 dicembre 2020, i cui effetti sono stati prorogati, da ultimo, dal Decreto Legge 30 dicembre 2021, n. 228, convertito con modificazioni dalla L. 25 febbraio 2022, n. 15. CONSIDERATO IN DIRITTO 1.II ricorso, proposto ai fini della ritenuta responsabilita' civile degli imputati, e' fondato nei limiti che di seguito si vanno ad esporre. 2. Il primo motivo, inerente ai presupposto per la configurabilita' del reato di turbata liberta' degli incanti, e' fondato sia pure per ragioni solo in parte coincidenti con quelle dedotte dalla difesa. Le anomalie relative alla seduta di gara del 23 novembre 2010 che, stando alle sentenze di merito (le quali, nella sostanza conformi, si saldano a formare un unico corpo motivazionale), sarebbero indicative del turbamento della procedura, sono essenzialmente due: - alla commissione aggiudicatrice pervenne un'unica busta da una inesistente "associazione professionale (OMISSIS)", alla quale erano acclusi solo fogli bianchi (la cui formazione viene attribuita al Sindaco (OMISSIS) sulla base di. quanto dichiarato dalla farmacista (OMISSIS) e dal marito di lei, (OMISSIS), che cioe' nel 2010 il (OMISSIS) aveva proposto loro di vendere la farmacia di cui erano titolari, rappresentando di agire nell'interesse della medesima "societa' (OMISSIS)"); - durante la verbalizzazione dell'esito negativo della gara, il Sindaco intervenne nella riunione e consegno' due missive del farmacista (OMISSIS) di cui, una indirizzata al RUP, costituente una mera manifestazione di interesse alla gara da parte del detto, che si diceva al momento impedito; l'altra, un fax non protocollato, indirizzato ad esso Sindaco, in cui lo stesso (OMISSIS) autocertificava il possesso dei requisiti per la aggiudicazione. Tali i dati fattuali, quanto alla offerta "(OMISSIS)" appare corretto il rilievo dei giudici di merito per cui, ai sensi dell'articolo 57 del Decreto Legislativo n. 163 del 2006, la presentazione di una "offerta inappropriata" costituiva presupposto per l'accesso alla procedura negoziata in luogo di quella ad evidenza pubblica, cosi' come e' vero che l'assenza di offerte -che, a sua volta, avrebbe potuto dare impulso alla procedura - non era verosimilmente a conoscenza del Sindaco, il quale non era componente della commissione aggiudicatrice e non partecipava ai suoi lavori. Tuttavia, la sentenza impugnata non spiega come si possa assimilare ad un'offerta "inappropriata" una offerta in realta' inesistente, ed appare distonico affermare che tale offerta sia stata determinante al fine di far dichiarare deserta la gara. Anche in relazione alla offerta di (OMISSIS), che venne nell'occasione impropriamente veicolata dal Sindaco - posto che, da un lato, questi non aveva alcun titolo ad interferire nei lavori della commissione e, dall'altro, la stessa offerta era contenuta in un fax risultato essere irritualmente protocollato solo a diversi giorni di distanza dalla sua ricezione - la Corte di merito non precisa quale ne sia stata l'incidenza perturbatrice sulla gara stessa. Al proposito questa Corte di legittimita' ha gia' avuto modo di osservare che, in tema di turbata liberta' degli incanti, l'evento naturalistico del reato puo' essere integrato, oltre che dall'impedimento della gara o dall'allontanamento degli offerenti, anche dal mero turbamento e che in tale ultima evenienza - in coerenza con la natura di reato di pericolo della fattispecie di cui all'articolo 353 c.p., non e' necessario il prodursi di un danno effettivo alla regolarita' della gara, essendo sufficiente un danno anche solo mediato e potenziale, costituito dalla semplice "idoneita'" ad influenzare l'andamento di essa (Sez. 6, n. 10272 del 23/01/2019, Cesosimo, Rv. 275163), che non necessariamente si traduca in una effettiva alterazione dei suoi risultati (Sez. 2, n. 43408 del 23/06/2016, Martinico, Rv. 267967). Se dunque, ai fini della configurabilita' del reato,. puo' assumere rilevanza anche una condotta che abbia semplicemente influito sulla procedura, causandone uno sviluppo anomalo, e' tuttavia necessario, in ossequio al principio di offensivita', che tale condotta sia idonea a pregiudicare i beni giuridici protetti dalla norma, che si identificano nella libera concorrenza, ma anche nell'interesse pubblico al libero "gioco" della maggiorazione delle offerte, a garanzia degli interessi, anche economici, della pubblica amministrazione (Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adami, Rv. 254906; Sez. 6, n. 6605 del 17/11/2020, dep. 2021, Pani, Rv. 280837, con riferimento a fattispecie in cui e' stata esclusa la sussistenza del reato, anche nella forma tentata, essendovi stata unicamente un'acquisizione di notizie riservate relative alla gara in vista della possibile, ma mai realizzata, presentazione di offerte da parte di imprese potenzialmente interessate). Nel caso in esame, al contrario, della incidenza perturbatrice di detta offerta sulla procedura di gara, in particolare sul meccanismo della concorrenza e della maggiorazione delle offerte, non e' cenno in sentenza, dalla quale emerge anzi, che non vi furono altri aspiranti a quella aggiudicazione. 3. Anche in relazione alla seconda gara, che, a seguito dell'esito infruttuoso di quella del 2010 e del clamore suscitato dalle sue anomale modalita' di espletamento, venne nuovamente indetta con procedura aperta, le motivazioni delle sentenze di merito non ne evidenziano un chiaro sviamento nel senso sopra precisato. In primis, si imputa a (OMISSIS), alla stregua del contenuto delle captazioni, di essersi adoperato per procurare a (OMISSIS) della modulistica e delle fotocopie il cui contenuto, pero', non e' stato neppure precisato. Altro elemento che la Corte di merito ha valorizzato sono le conversazioni: - del 13 dicembre 2010, in cui (OMISSIS) preannuncia alla (OMISSIS) l'invio del nuovo bando, che tuttavia, nella telefonata del successivo 23 dicembre, (OMISSIS) dice di avere gia' ricevuto (senza tuttavia precisare da chi); - del 25 gennaio 2011 in cui, un giorno prima della scadenza del termine per presentare le offerte, (OMISSIS) comunica che non risultano presentate altre offerte e rassicura il (OMISSIS) che avra' in lui un amico. In relazione a tali colloqui, la Corte d'appello non chiarisce quale concreta incidenza abbiano avuto sui beni giuridici tutelati, come supra individuati, specie ovi si consideri che un obbligo di riservatezza - contrariamente a quanto si legge in contestazione - non era posto dall'articolo 13 del codice degli appalti, ai tempi vigente, il quale stabiliva il divieto di divulgazione dei nominativi dei soggetti che avessero presentato offerte - verosimilmente al fine di scongiurare possibili collusioni -. non invece il divieto di comunicare l'assenza di offerenti. Certo, la notizia dell'assenza di altre offerte avrebbe potuto indurre il (OMISSIS) a presentare una offerta piu' bassa, con alterazione del sistema delle maggiorazioni, ma la Corte di merito non fa alcun riferimento a tale possibilita'. Anche il riferimento alle dichiarazioni rese dalla farmacista (OMISSIS), che aveva appreso dal Sindaco che la farmacia sarebbe stata gestita da suoi amici medici, resisi aggiudicatari, non appare significativo posto che, per come riportato in sentenza, non si ha alcuna certezza che un tale colloquio sia avvenuto prima dell'aggiudicazione, cosi' da distogliere la dichiarante dalla partecipazione alla gara (condotta che, peraltro, esula dall'ambito oggettivo della contestazione). Infine, non e' detto in che termini abbia potuto condizionare la gara l'interessamento promesso dal Sindaco e dalla (OMISSIS) per ottenere una polizza fideiussoria che avrebbe dovuto garantire la fase esecutiva dell'operazione (implicante un accresciuto esborso di spesa da quando si erano accollati all'acquirente della quota minoritaria l'acquisto del terreno e la costruzione del relativo immobile). Sotto tali profili, il tessuto motivazionale della sentenza evidenzia irrisolte lacune e distonie logiche, cui e' necessario porre rimedio. 4. Il secondo motivo e' inammissibile perche' declinato in fatto. Pur prospettando vizi di motivazione in relazione al concorso dei ricorrenti nelle condotte poste in essere dal Sindaco, la difesa mira ad una non consentita rivalutazione del compendio dimostrativo, di cui propone alternative letture. E' ampiamente sedimentato nel sistema il principio per il quale esula dai compiti del giudice di legittimita' il sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, attraverso una diversa lettura, benche' anch'essa logica, dei dati processuali od una diversa ricostruzione storica dei fatti o, ancora, un diverso giudizio di rilevanza o di attendibilita' delle fonti di prova; mentre compete alla Corte di cassazione stabilire se quei giudici abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944 nonche' in precedenza Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, Clarke, Rv. 203428). Ne consegue che non e' censurabile in sede di legittimita', se non entro gli esposti limiti, la scelta da parte del giudice del merito tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, Rv. 271623). Nella medesima prospettiva, va. evidenziato che l'illogicita' della motivazione, censurabile a norma dell'articolo 606, comma 1, lettera e), c.p.p., e' soltanto quella manifesta, cioe' di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, senza possibilita', per la Corte di cassazione, di verificare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074). 5. Il terzo motivo - inerente alla configurabilita' del reato di corruzione - e' anch'esso fondato, sia pure per ragioni diverse da quelle indicate dal ricorrente. La sentenza ricostruisce i passaggi ritenuti rilevanti dell'accordo corruttivo tra (OMISSIS) e (OMISSIS), finalizzato - in tesi - ad acquisire quote di partecipazione nella societa' (OMISSIS) s.r.l. La vicenda si sarebbe conclusa con l'adozione, in data 29 aprile 2011, della delibera comunale con cui veniva modificato lo statuto della societa' nel senso che il Comune era facultato ad alienare la sua quota maggioritaria del 51% ed il socio privato a cedere parte della sua quota del 49% non piu' e non solo al socio di maggioranza. Il compendio probatorio acquisito dimostra la risalenza di contatti su questi temi, tra il Sindaco ed i ricorrenti, sin dal mese di novembre 2010; ed il fatto che il (OMISSIS) avesse formulato in precedenza analoga proposta, mai accolta, per l'aggiudicazione e la cogestione della quota di minoranza della (OMISSIS) s.r.l. alla farmacista (OMISSIS) e' innegabilmente significativo del suo perdurante interesse ad una tale operazione. La sentenza impugnata ha spiegato come la modifica dello statuto della (OMISSIS) s.r.l., al fine di consentire la cedibilita' delle quote, fosse oggetto di un accordo programmatico concepito ben prima. Nel dettaglio, dalla telefonata del 5 maggio 2011 e da quella del successivo 3 giugno 2011 risulta che la modifica era stata operata in linea con quanto in precedenza richiesto da (OMISSIS) ( (OMISSIS): "lo statuto e' stato fatto; e stato modificato come richiesto da (OMISSIS)") e si palesa che tale era l'obiettivo ultimo dei correi, i quali intendevano esautorare il comune dalla gestione della societa' ed acquisirne il controllo totalitario (" (OMISSIS):...il comune senz'altro a richiesta cedera' da parte vostra, nostra che sia cedera' anche la quota di maggioranza quando vorra'" v. pag. 18/24 della sentenza di primo grado; pag. 5 della sentenza di appello, anche per lo schema di ripartizione delle quote). Ancora, nella intercettazione del 12 luglio 2011 " (OMISSIS) ripete a (OMISSIS) che lo statuto era stato modificato secondo le indicazioni del suo interlocutore. Tutto quanto innanzi smentisce le deduzioni difensive secondo le quali, gia' a decorrere dal 14 febbraio 2011, i (OMISSIS)- (OMISSIS) avevano maturato la decisione di recedere dall'offerta, annullando l'acquisita aggiudicazione. provvisoria, essendosi resi conto dell'esorbitanza dell'importo necessario per l'acquisto del terreno e la costruzione dell'immobile da adibire a farmacia. Anzi, tutto converge nel ritenere che alla modifica statutaria avessero interesse proprio gli odierni ricorrenti, in quanto desiderosi di far subentrare nell'assetto societario, in luogo del socio pubblico, la loro congiunta (OMISSIS), prossima ad acquisire il titolo di farmacista. E tuttavia, essendo la condotta corruttiva finalizzata - secondo l'ipotesi accusatoria - alla turbativa di gara, le lacune relative alla ricostruzione di tale turbativa non possono che riverberarsi sulla configurabilita' anche del reato di cui al capo 2. Occorre, in altri termini, ricostruire il sinallagma contrattuale e comprendere se obiettivo dei ricorrenti fosse l'aggiudicazione della gara o, come sembra, la estromissione del Comune dalla lucrosa gestione della farmacia; risultato quest'ultimo che, con la operata modifica statutaria, venne in realta' solo prefigurato e che non si comprende se ed in che termini avrebbe potuto risolversi in effettivo pregiudizio per l'ente e per l'economicita' della sua gestione. 5. Alla luce di quanto precede va disposto l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di merito perche' provveda ad emendare gli evidenziati difetti argomentativi, secondo le direttrici sopra indicate. Tale giudice va individuato nella corte di appello in sede civile in forza del principio per il quale "in caso di annullamento con rinvio, per vizio di motivazione, della sentenza di appello che abbia dichiarato la prescrizione del reato con affermazione della responsabilita' dell'imputato ai soli effetti civili, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto, ai sensi dell'articolo 622 c.p.p., in favore del giudice civile competente per valore in grado di appello (tra le tante, Sez. 5, n. 28848 del 21/09/2020, D'Alessandro, Rv. 279599), essendo venuta meno, con la pronuncia estintiva del reato, la ragione dall'attrazione dell'azione civile nel procedimento penale. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente in grado di appello.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. RAGO Geppi - Presidente Dott. MESSINI D'AGOSTINI Piero - Consigliere Dott. PELLEGRINO Andre - Consigliere Dott. DI PISA - rel. Consigliere Dott. PERROTTI Massi - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 18/11/2020 della CORTE APPELLO di ROMA; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. DI PISA FABIO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. PERELLI SIMONE, che ha concluso chiedendo la declaratoria l'inammissibilita' del ricorso; udito l'Avvocato (OMISSIS) difensore di fiducia di (OMISSIS) il quale ha concluso per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza in data 18/10/2020 la Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza del G.U.P. del Tribunale di Roma in data 07/10/2019 in forza della quale (OMISSIS) era stata condannata alla pena ritenuta di giustizia per i reati di riciclaggio continuato e simulazione di reato. La corte di appello - in conformita' alla ricostruzione effettuata dai giudici di primo grado - riteneva configurabile il reato in riciclaggio in quanto vi era la prova che l'imputata, dipendente della (OMISSIS) s.r.l., aveva posto in essere una serie di operazioni finalizzate ad ostacolare la identificazione della provenienza illecita dei flussi finanziari rinvenienti dalle condotte illecite poste in essere da (OMISSIS) e (OMISSIS), attraverso la movimentazione del conto corrente bancario personale n. (OMISSIS) intestato all'imputata acceso presso il Credito (OMISSIS) Agenzia (OMISSIS) ed aveva consentito l'accredito di parte dei proventi delle frodi tributarie poste in essere dalla (OMISSIS) s.r.l. per complessivi Euro 656.400,00 che successivamente aveva trasferito mediante assegni a soggetti terzi ponendo in essere condotte anomale consistenti in movimentazioni plurime su diversi rapporti bancari con l'utilizzo di causali fittizie e riteneva, altresi', comprovata la condotta contestata ex articolo 367 c.p. posta in essere dalla (OMISSIS) la quale aveva denunziato che taluno, sostituitosi alla sua persona, aveva aperto a sua insaputa il menzionato conto. 2. Contro detta pronunzia propone ricorso per cassazione l'imputata, a mezzo difensore di fiducia, deducendo con un unico motivo, articolato in piu' censure, violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle condotte illecite contestate. Assume che i giudici territoriali erano pervenuti all'affermazione della penale responsabilita' dell'imputata richiamando le considerazioni del giudice di primo grado e senza esaminare adeguatamente le censure formulate. Osserva che la corte di appello, nel ritenere a riprova della effettiva conoscenza dell'imputata del conto corrente in esame - che la stessa aveva disconosciuto esserle riferibile - che la relativa documentazione bancaria era pervenuta al suo domicilio, non aveva considerato che non essendo stato rinvenuto presso la banca il fascicolo relativo al conto corrente in questione non era stato possibile accertare l'effettiva spedizione e ricezione della relativa corrispondenza, circostanza quest' ultima che avrebbe implicato ben precisi oneri motivazionali da parte della corte di appello la quale si era limitata a richiamare, per relationem, le considerazioni della pronunzia di primo grado. Assume che totalmente illogiche e contraddittorie erano le argomentazioni della sentenza di appello nella parte in cui era stata disconosciuta ogni valenza alle conclusioni di cui alla consulenza grafologica di parte a firma della Dott.ssa (OMISSIS) la quale aveva individuato una serie di elementi attestanti la non riferibilita' delle firme in questione all'imputata. Evidenzia che erroneamente ed in modo apodittico la corte di merito aveva disatteso l'istanza di rinnovazione istruttoria mediante audizione della Dott.ssa (OMISSIS), omettendo di motivare le ragioni del rigetto. Osserva, ancora, che del tutto infondatamente i giudici di appello avevano affermato che l'odierna imputata non avrebbe escluso di avere apposto le firme in esame "sia pure adducendo una asserita inconsapevolezza", laddove era emerso esattamente il contrario in quanto la stessa aveva sempre negato di avere apposto le firme sullo specimen della banca. Deduce, altresi', che la corte di merito aveva omesso di esaminare le specifiche censure riguardanti la inattendibilita' delle dichiarazioni dei testi (OMISSIS) e (OMISSIS), rispettivamente impiegato e direttore del Credito (OMISSIS) Agenzia (OMISSIS), le cui affermazioni erano risultate incongrue e inverosimili e che gli ulteriori elementi di riscontro indicati dai giudici di merito erano da ritenere privi di rilievo sulla scorta delle puntuali censure formulate in seno all'atto di appello e che, infine, la corte di appello non aveva adeguatamente vagliato le specifiche contestazioni formulate dalla ricorrente in ordine alla mancata sottoscrizione dei menzionati assegni recanti una firma che era stata disconosciuta. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso e' inammissibile in ragione della manifesta infondatezza di tutte le censure formulate. 2. Osserva la Corte che le censure in questione vanno ritenute null'altro che un modo surrettizio di introdurre, in questa sede di legittimita', una nuova valutazione di quegli elementi fattuali gia' ampiamente presi in esame dalla corte di merito la quale, con motivazione logica, e del tutto coerente con gli indicati elementi probatori, ha puntualmente disatteso la tesi difensiva ritenendo integrati tutti gli elementi oggettivi e soggettivi di cui all'articolo 648-bis c.p.. Va, in primo luogo, rilevato che al giudice di legittimita' e' preclusa - in sede di controllo della motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perche' ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacita' esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto, mentre la Corte, anche nel quadro della nuova disciplina, e' - e resta - giudice della motivazione. Secondo le Sezioni Unite "l'indagine di legittimita' sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volonta' del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilita' di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si e' avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali; l'illogicita' della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioe' di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimita' al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purche' siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Cass. Sez. Un. sent. n. 24 del 24.11.1999 dep. 16.12.1999 rv 214794). Deve, pure, essere rimarcato che ai fini del controllo di legittimita' sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello, trattandosi di c.d. doppia conforme, si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando il giudice del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordi nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass. Sez. 3, sent. n. 44418 del 16/07/2013, dep. 04/11/2013, Rv. 257595). Nel giudizio di appello e' pertanto consentita la motivazione "per relationem" alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall'appellante non contengano - come nel caso di specie - elementi di novita' rispetto a quelle gia' condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (Cass. Sez. 2, sent. n. 30838 del 19/03/2013, dep. 18/07/2013, Rv. 257056). Va, anche, osservato che l'omesso esame di un motivo di appello da parte della Corte di merito non da luogo a un difetto di motivazione rilevante a norma dell'articolo 606 c.p.p., ne' determina incompletezza della motivazione della sentenza allorche', pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso perche' incompatibile con la struttura e con l'impianto della motivazione, nonche' con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima. Secondo il disposto dell'articolo 597 c.p.p., comma 1, l'appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione nel procedimento (limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti). Pertanto il giudice d'appello deve tenere presente, dandovi risposta in motivazione, quali sono state le doglianze dell'appellante in ordine ai punti (o capi articolo 581, comma 1, lettera e) investiti dal gravame, ma non e' tenuto ad indagare su tutte le argomentazioni elencate in sostegno dell'appello quando esse siano incompatibili con le spiegazioni svolte nella motivazione, poiche' in tal modo quelle argomentazioni si intendono assorbite e respinte dalle spiegazioni fornite dal giudice di secondo grado. (Sez. 1, Sentenza n. 1778 del 21/12/1992 Ud. (dep. 23/02/1993) Rv. 194804). Occorre rilevare, altresi', che in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicita', dalla sua contraddittorieta' (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasivita', l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualita', la stessa illogicita' quando non manifesta, cosi' come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilita', della credibilita', dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento". (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 - dep. 31/03/2015, 0., Rv. 26296501). Va, precisato, inoltre, che il giudizio sulla rilevanza ed attendibilita' delle fonti di prova e' devoluto insindacabilmente ai giudici di merito e la scelta che essi compiono, per giungere al proprio libero convincimento, con riguardo alla prevalenza accordata a taluni elementi probatori, piuttosto che ad altri, ovvero alla fondatezza od attendibilita' degli assunti difensivi, quando non sia fatta con affermazioni apodittiche o illogiche, si sottrae al controllo di legittimita' della Corte Suprema. Si e' in particolare osservato che non e' sindacabile in sede di legittimita', salvo il controllo sulla congruita' e logicita' della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilita' delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti. (Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011 - dep. 25/05/2011, Tosto, Rv. 25036201). Non va, poi, dimenticato che l'imputata, qui ricorrente, ha chiesto ed ottenuto di essere giudicata con le forme del rito abbreviato (quindi allo "stato degli atti") ottenendo il corrispondente beneficio sul piano sanzionatorio. Invero sia il giudice di primo grado che la corte territoriale hanno debitamente spiegato le ragioni per le quali non era (assolutamente) necessario ai fini del decidere procedere all'integrazione probatoria richiesta dalla difesa dell'imputata mediante l'audizione delle teste Dott.ssa (OMISSIS). Al riguardo e' sufficiente rilevare che la valutazione di rilevanza (rectius: di decisivita') dell'integrazione probatoria richiesta e' una valutazione di merito che di certo non compete alla Corte di legittimita' e che in ogni caso "nel giudizio abbreviato d'appello, siccome l'unica attivita' d'integrazione probatoria consentita e' quella esercitabile officiosamente, non e' configurabile un vero e proprio diritto alla prova di una delle parti cui corrisponda uno speculare diritto della controparte alla prova contraria, con la conseguenza che il mancato esercizio da parte del giudice d'appello dei poteri officiosi di integrazione probatoria, non puo' mai integrare, il vizio di cui all'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera d)" (Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260840) e, ancora, che "il rigetto dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello si sottrae al sindacato di legittimita' quando la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fonda su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilita'" (Sez. 6, n. 30774 del 16/07/2013, Trecca, Rv. 257741). 3. Fatti tali premesse va, invero, rilevato che la corte territoriale con una motivazione che non appare ne' carente ne' illogica ne' contraddittoria ha correttamente ricostruito i profili di responsabilita' dell'imputata basandoli sulle acquisizioni documentali, sulle dichiarazioni dei testi escussi ( (OMISSIS) e (OMISSIS) dipendenti della agenzia (OMISSIS) i quali hanno confermato che l'imputata si recava presso l'agenzia per effettuare operazioni per conto della (OMISSIS) s.r.l. ed era titolare di un conto corrente presso detta banca) nonche' sulla assoluta inverosimiglianza delle spiegazioni fornite dalla (OMISSIS) durante l'interrogatorio formale reso in sede di udienza preliminare. I giudici di merito, con una ricostruzione in fatto non sindacabile in questa sede, hanno, in primo luogo, evidenziato come la tesi dell'imputata della inconsapevolezza circa conto corrente n. (OMISSIS) a lei intestato era del tutto smentita dalla circostanza che tale conto risultava dalla medesima utilizzato in quanto sullo stesso aveva ricevuto bonifici della sorella, erano stati accreditati i compensi a lei spettanti quale dipendente della (OMISSIS) s.r.l. e risultavano le movimentazioni di una carta di credito pregata dalla medesima utilizzata agganciata su detto conto, risultando quindi smentite le conclusioni del consulente di parte circa la asserito carattere apocrifo della firma apposto sullo specimen del conto (OMISSIS). Con congrue argomentazioni hanno, ancora, chiarito non sussistevano elementi per dubitare dell'attendibilita' dei testi escussi. Appare significativo osservare che la ricorrente, senza confrontarsi adeguatamente con l'articolato iter argomentativo delle sentenze di merito basate una attenta disamina del complessivo compendio istruttorio, si limita a reiterare profili gia' disattesi dai giudici di merito riguardanti la asserita falsita' delle firme apposte sugli assegni oggetto del capo di imputazione e sullo specimen del conto corrente, la inattendibilita' delle dichiarazioni dei testi escussi, la effettiva ragione dei bonifici effettuati sul detto conto corrente. A fronte di una motivazione, conforme a quella di primo grado, relativa alla ricostruzione delle condotte delittuose in esame, che appare congrua ed adeguata nella parte in cui ha ritenuto configurabile la responsabilita' dell'imputata, le contestazioni formulate non mirano, invero, a contestare la logicita' dell'impianto argomentativo delineato nella motivazione della decisione impugnata ma si risolvono prevalentemente nella contrapposizione, in contrasto con giudizio espresso dai giudici di merito - i quali hanno disatteso le questioni in questa sede riproposte di una differente ricostruzione dei fatti evidentemente sottratta alla delibazione di questa Suprema Corte in ragione dei limiti posti alla cognizione di legittimita' dall'articolo 606 c.p.p. e sopra richiamati. 4. Per le considerazioni esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria d'inammissibilita' consegue, per il disposto dell'articolo 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche' al pagamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro tremila. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LIBERATI Giovanni - Presidente Dott. GENTILI Andrea - Consigliere Dott. SEMERARO Luca - rel. Consigliere Dott. CORBO Antonio - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro Mari - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 06/07/2020 della CORTE APPELLO di PALERMO; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. LUCA SEMERARO; lette le conclusioni del PG Dr. DI NARDO MARILIA, che chiede il rigetto del ricorso; Gli avv. (OMISSIS) e (OMISSIS) chiedono di annullare la sentenza impugnata. Ricorso trattato ai sensi ex Decreto Legge n. 137 del 2020, articolo 23, comma 8. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza 6 luglio 2020 la Corte d'Appello di Palermo, in parziale riforma di quella del 2 dicembre 2016 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Marsala: - ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) perche' estinti per prescrizione i reati ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2, di cui ai capi 1, 3 e 7 in relazione alle condotte riportate alle lettere a) e b) di ciascuno di essi; Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater, di cui ai capi 2 e 4 in relazione alle condotte commesse fino all'anno di imposta 2010; Decreto Legislativo n. 445 del 2000, articolo 76 (capi 34 e 36); 640-bis c.p. (capi 35 e 37); - ha assolto (OMISSIS) per il reato ex articolo 316-bis c.p. (capo 44) perche' il fatto non sussiste; - ha rideterminato la pena in 2 anni, 6 mesi e 20 giorni di reclusione per i reati ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2, di cui ai capi 1, lettera c), d), e), f); 3), lettera c), d), e), f); 5; 7, lettera c), d), e); Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater, di cui ai capi 2 e 4 in relazione alle condotte commesse dopo l'anno di imposta 2010, e 6; articoli 56 e 640-bis c.p. (capi 40 e 42) e confermato nel resto la sentenza di primo grado. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato. 2.1. Con il primo motivo si deduce ex articolo 606 c.p.p., lettera b), l'erronea applicazione del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater, limitatamente alle condotte non dichiarate prescritte. L'imputato e' stato condannato, in relazione a tre diverse societa', per piu' reati ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2, per l'indicazione nelle dichiarazioni relative a diversi anni di imposta di elementi passivi fittizi, mediante l'uso di fatture per operazioni inesistenti; con riguardo ai crediti fiscali derivanti dall'utilizzo di dette fatture, utilizzati in compensazione, l'imputato e' stato condannato anche il delitto ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater. Secondo i giudici di merito, i crediti oggetto di compensazione ex Decreto Legislativo n. 241 del 1997, articolo 17 sono quelli derivanti dall'uso delle fatture per operazioni inesistenti su cui si fonda l'imputazione ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2. La Corte territoriale, disattendendo le censure difensive, avrebbe erroneamente ritenuto il fatto concretizzare sia il delitto ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater che il reato ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2, in virtu' di una differenza strutturale tra le due fattispecie e di un'attinenza a due diversi momenti dell'iter di adempimento delle obbligazioni tributarie. Tali conclusioni sarebbero errate: la disamina degli elementi costitutivi dei due reati renderebbe inapplicabile, al caso de quo, il Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater, la cui operativita' presuppone che i crediti adoperati per la compensazione siano non spettanti o inesistenti. I crediti portati in compensazione dall'imputato sarebbero ricollegati direttamente ed esclusivamente all'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, gia' oggetto di contestazione per la fattispecie di frode fiscale; pertanto, non si tratterebbe ne' di crediti non spettanti ne' inesistenti, atteso che le compensazioni non hanno riguardato crediti difettanti di un presupposto costitutivo o completamente avulsi dalla situazione fiscale del contribuente, bensi' crediti fondati sulle fatture passive registrate in contabilita' e i cui costi in esse incorporate sono stati conseguentemente indicati in sede dichiarativa ad abbattimento degli imponibili. Non dovrebbe essere applicata la fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater che presupporrebbe operazioni prive di qualsiasi presupposto costitutivo, bensi', trattandosi di crediti che rispondono alla nozione di fittizieta', sarebbe sufficiente la contestazione ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2. Sarebbe pacifico che non puo' esservi una coesistenza tra la responsabilita' per il delitto ex articolo 10-quater e quella per la fattispecie di frode fiscale di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2, stante il rapporto di specialita' intercorrente tra le due norme, in virtu' del quale nel caso in cui il risparmio di imposta avvenga mediante l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti nonche' mediante l'indicazione in dichiarazione dei corrispondenti elementi fittizi, non potrebbe che venire in rilievo la piu' grave fattispecie di cui all'articolo 2, non residuando piu' spazio per la fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater. Diversamente da quanto sostenuto dalla Corte territoriale, tra le figure delittuose, entrambe finalizzate a preservare i medesimi beni giuridici dell'interesse statale alla riscossione dei tributi e della trasparenza fiscale del contribuente, sussisterebbe una progressione di illiceita' idonea a legittimare un fenomeno di consunzione, con applicazione esclusiva della fattispecie piu' grave. La prevalenza del delitto di frode fiscale si legherebbe anche al fatto che una dichiarazione fiscale corredata dell'indicazione di costi fittizi ingloba gia' di per se' una lesione dell'aspettativa erariale alla corretta riscossione dei tributi, indipendentemente da quando si materializza l'incasso del vantaggio tributario illecito. La Corte territoriale, sebbene prenda in considerazione tale circostanza, non giungerebbe alle conclusioni corrette, operando un parallelismo non rilevante, poiche' verrebbero in rilievo susseguenti dichiarazioni fiscali, ciascuna avente la propria autonomia e la propria rilevanza penale. Sarebbe privo di fondamento anche l'argomento attraverso il quale la Corte territoriale ha cercato di disattendere il rilievo difensivo sulla mancata contestazione di alcuna ipotesi di compensazione indebita da parte dell'Agenzia delle Entrate. Sul punto la Corte ometterebbe di considerare che l'Agenzia, al netto dell'aspetto attinente al recupero delle imposte evase, ben avrebbe potuto irrogare le sue autonome sanzioni, laddove avesse ravvisato gli estremi di una compensazione con crediti inesistenti. La mancata irrogazione delle sanzioni non potrebbe che significare che l'Agenzia delle Entrate abbia considerato l'illecito insussistente o comunque assorbito nell'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. 2.2. Con il secondo motivo si deducono i vizi di violazione di legge e di illogicita' della motivazione sulla ritenuta responsabilita' penale, rilevante ai solo effetti civili, stante la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile (OMISSIS), per i delitti di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex articolo 640-bis c.p. di cui ai capi 35 e 37. Con l'appello si sostenne l'insussistenza della truffa ex articolo 640-bis c.p. ed in particolare dell'elemento soggettivo della fattispecie; (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l. avrebbero oggettivamente realizzato i progetti finanziati con contributi pubblici (il c.d. (OMISSIS) per la societa' (OMISSIS) s.r.l. ed il c.d. (OMISSIS) per la (OMISSIS) s.r.l.), sostenendo effettivamente i costi ad essi connessi. Tale circostanza emergerebbe dalle dichiarazioni dell'Amministratore Giudiziario dottor (OMISSIS), il cui contenuto e' riassunto nel ricorso, e dalle dichiarazioni dell'imputato. Nell'appello si evidenzio' che la sentenza di primo grado sarebbe stata errata quanto all'induzione in errore del personale della (OMISSIS) s.p.a., mentre il ricorrente avrebbe effettivamente sopportato i costi, anche in misura superiore a quanto dichiarato; non sussisterebbe l'elemento soggettivo del dolo di truffa. Sul punto la Corte territoriale non avrebbe reso una motivazione adeguata, avendo ritenuto di smentire le dichiarazioni dell'Amministratore Giudiziario, pur essendosi quest'ultimo espresso in maniera specifica per ogni intervento ed evidenziato un'integrale corrispondenza tra le immobilizzazioni materiali delle societa' ed i saldi di bilancio inglobanti i costi di cui alle fatture per operazioni inesistenti. Sarebbe, altresi', non condivisibile l'assunto della Corte territoriale per cui il danno arrecato alla P.A. sarebbe collegato all'esborso di somme non spese, atteso che l'effettiva realizzazione delle opere interessate da pubblici finanziamenti sarebbe stata accertata dai collaudatori incaricati dall'Assessorato al Turismo della Regione Sicilia e dai periti nominati dall'Amministratore Giudiziario. Il riferimento giurisprudenziale (Sez. 6 del 13/11/2003 n. 938) citato dalla Corte di appello sarebbe errato, essendo basato sull'inesistenza dei corrispondenti investimenti, che nella specie sussisterebbero. 2.3. Con il terzo motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione quanto alla ritenuta responsabilita' penale per i delitti di tentata truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex articoli 56 e 640-bis c.p. di cui ai capi 40 e 42. Le sentenze di merito avrebbero escluso qualsiasi raggiro con riferimento alle fasi volte all'ottenimento delle delibere di stanziamento dei contributi pubblici e non sarebbe stata ravvisata alcuna criticita' con riguardo all'erogazione della prima parte del contributo deliberato. Le conclusioni della Corte territoriale sarebbero errate nella parte in cui ha ravvisato gli estremi del tentativo punibile ex articolo 640-bis c.p. nella circostanza che tra le societa' ed i propri consulenti circolarono dei prospetti riepilogativi in formato excel contenenti un elenco di voci di spesa, tra cui anche l'indicazione di alcune delle fatture per operazioni inesistenti oggetto di contestazione ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2; in particolare, secondo la sentenza impugnata, l'elemento da cui deriverebbe il tentativo punibile si legherebbe al successivo inoltro di tali documenti alla C.R.I.A.S., mostrando cosi' i riferimenti relativi anche alle false fatture. Tali affermazioni sarebbero illogiche, in quando confonderebbero le comunicazioni relative al monitoraggio periodico ed i riepilogativi di spesa, quasi immedesimandoli, mentre si tratterebbe di aspetti distinti tra loro. Le societa' (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l., nell'ambito del monitoraggio periodico, non avrebbero tenuto alcun comportamento finalisticamente orientato a dare rilevanza ai riferimenti alle fatture illecite ma si sarebbero limitate a trasmettere alla C.R.I.A.S. delle comunicazioni indicative del valore complessivo dei lavori effettuati, informative di tipo compendiativo e generico. Dette comunicazioni sarebbero, altresi' veritiere, essendo stato dimostrato pacificamente che le due societa' avevano realmente svolto e pagato i lavori per un valore che non sarebbe mai stato messo in dubbio in sede di monitoraggio. La circostanza che i progetti siano stati realmente eseguiti priverebbe di consistenza l'ipotesi del tentativo punibile di truffa, non essendo stato dimostrato che l'ente regolatore sia stato tratto in inganno circa l'entita' dei costi sostenuti, ne' che l'imputato abbia mirato a conseguire un ingiusto profitto o che l'Amministrazione abbia rischiato di subire un danno, posto che le risorse erogate hanno avuto una destinazione ai progetti finanziati. Inoltre, l'effettiva realizzazione di attivita' edificatorie, impiantistiche e di ristrutturazione sarebbe stata confermata dalle sommarie informazioni rese dall'arch. (OMISSIS) e dalle interlocuzioni circa lo stato di avanzamento dei lavori intervenute tra la stessa C.R.I.A.S. e l'Amministratore giudiziario successivamente all'avvio delle indagini e alla sottoposizione a sequestro dei compendi aziendali. Alla luce di tali elementi l'asserita rilevanza penale attribuita alla condotta di predisposizione della documentazione excel non potrebbe conciliarsi logicamente con la circostanza che tale documentazione elaborata in sede di monitoraggio avesse un contenuto diverso, sostanziandosi nell'indicazione globale del valore economico dei progetti realizzati. L'evenienza contemplata dalla Corte territoriale non si armonizzerebbe neanche con le procedure di finanziamento connesse al P.O. FESR Sicilia 2007/2013, che prevedono che la cernita delle specifiche fatture di costo operi solo a valle in sede di rendiconto, essendo possibile anche che alcune fatture non vengano considerate e, quindi, non utilizzate dalle societa' beneficiarie dei progetti di finanziamento. Alla luce di cio' non sarebbe ravvisabile alcun automatismo rispetto all'utilizzo nell'ambito delle procedure di finanziamento delle fatture oggetto di contestazione ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2 mentre sarebbe ragionevole, secondo il ricorrente, che le societa' in questione non avrebbero fatto riferimento ai costi inglobati nelle fatture per operazioni inesistenti. La disponibilita' di questi fogli riepilogativi excel non sarebbe elemento idoneo a manifestare una volonta' univoca verso la consumazione di una truffa e tale conclusione sarebbe corroborata dalla circostanza che i suddetti fogli siano sempre rimasti nel circuito di relazioni tra le societa' ed i propri professionisti di fiducia, senza mai trovare un riscontro esterno. Sul punto, non sarebbero condivisibili le affermazioni della Corte territoriale secondo cui i professionisti erano comunque destinati ad interfacciarsi anche direttamente con gli enti erogatori, atteso che tali interazioni non vertevano direttamente sugli invii agli enti dei monitoraggi di spesa, che rimanevano esclusivo appannaggio delle societa'. Anche dalle sommarie informazioni rese dal Dott. (OMISSIS) emergerebbero ulteriori fattori di insussistenza di un tentativo di truffa, non essendo stati incanalati nel monitoraggio i riferimenti a tutte le specifiche fatture. Allo stesso modo non sarebbe corretto, al fine di dimostrare il tentativo punibile, opporre le vicende oggetto della diversa contestazione per truffa consumata, in quanto il riferimento a separati fatti oggetto di diverso addebito necessiterebbe di un'autonoma dimostrazione. 2.4. Con il quarto motivo si deduce l'erronea applicazione degli articolo 81 c.p. e articolo 597 c.p.p., comma 3. Il Giudice dell'udienza preliminare avrebbe errato nella determinazione dell'aumento per la continuazione, perche' complessivamente superiore al triplo; il Giudice dell'udienza preliminare sarebbe partito dalla pena base di due anni, ma avrebbe applicato la pena di sei anni e due mesi di reclusione quale aumento per la continuazione in violazione dell'articolo 81 c.p., con un'illegittima eccedenza di due mesi. La Corte territoriale, in virtu' dell'estinzione di alcuni reati, ha proceduto ad una nuova determinazione della pena complessiva ma avrebbe violato il divieto di reformatio in peius: per i reati non prescritti l'aumento per la continuazione e' di un mese superiore a quello, per ciascuno di essi, stabilito dal Giudice dell'udienza preliminare. Inoltre, la Corte di appello avrebbe reiterato l'errore del Giudice dell'udienza preliminare ed avrebbe offerto una spiegazione insufficiente, avendo ritenuto la censura difensiva assorbita sul rilievo che la pena finale fosse inferiore al triplo della pena base. 2.5. Con il quinto motivo si deduce l'illogicita' della motivazione sul diniego dell'operativita', nella massima estensione, della circostanza attenuante ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13-bis, comma 1. L'operativita' limitata della circostanza attenuante de quo sarebbe logicamente incompatibile con la circostanza che l'integrale pagamento dei debiti fiscali sarebbe stato materialmente precluso dal sequestro, nell'ambito della procedura per l'applicazione della misura di prevenzione, delle somme necessarie al pagamento; l'imputato non sarebbe stato concretamente messo in condizione di adempiere gli obblighi tributari che avrebbe voluto adempiere, al fine di beneficiare dell'attenuante. Infatti, la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto della circostanza che tutte le societa' del gruppo (OMISSIS) avevano aderito agli inviti a definire ex Decreto Legislativo n. 218 del 1997, articolo 5, comma 1-bis, ratificando un accordo che prevedeva un cospicuo pagamento e che il Pubblico ministero aveva autorizzato l'utilizzo di risorse sequestrate per effettuare un primo pagamento nei confronti dell'Agenzia delle Entrate. La Corte di appello, inoltre, non avrebbe considerato l'impedimento costituito dal successivo sequestro di tutti beni riconducibili all'imputato e alle sue societa' ne' le plurime istanze di dissequestro presentate nell'interesse dell'imputato al fine di ottenere quantomeno uno svincolo parziale delle somme sequestrate, per estinguere tutti i debiti erariali. Il diniego di una piena applicazione di tale circostanza attenuante non sarebbe corretto anche tenuto conto del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 50, che prevede, in caso di confisca, l'estinzione di ogni credito erariale per confusione ai sensi dell'articolo 1253 c.c., essendo le somme gia' acquisite dallo Stato in via preventiva e non residuando ulteriori aspettative creditorie erariali. L'applicazione del sequestro, teleologicamente orientato alla confisca, avrebbe cosi' gia' soddisfatto ogni credito fiscale, essendosi lo Stato rivalso nei confronti di tutte i beni dell'imputato; ne dovrebbe conseguire la piena applicazione della circostanza attenuante di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13-bis, comma 1. 2.6. I difensori hanno poi depositato le conclusioni scritte anche in replica alle argomentazioni del Procuratore generale. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo, con cui si deduce il vizio di violazione di legge sulla ritenuta responsabilita' del ricorrente per i reati ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater di cui ai capi 2 e 4, e' infondato; il ricorso opera una lettura del tutto parziale della giurisprudenza formatasi sul reato ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater. 1.1. Il fatto oggetto dei capi 2 e 4, incontestato, fondato sugli accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza di Trapani, e' che le societa' dell'imputato hanno maturato, riportando nelle dichiarazioni annuali Iva gli elementi passivi fittizi costituiti dalle fatture per operazioni inesistenti, crediti Iva inesistenti, perche' derivanti dalla commissione dei reati ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2, delitti non oggetto di impugnazione. Tali crediti sono stati utilizzati, in tutto o in parte, in compensazione, ex Decreto Legislativo n. 241 del 1997, articolo 17, negli anni di imposta immediatamente successivi, per il pagamento, mediante F24, dei debiti tributari per Iva gravanti sulle societa' - gia' utilizzatrici delle fatture per operazioni inesistenti - risultanti dalle liquidazioni periodiche dell'Iva. 1.2. Da tale ricostruzione del fatto, approfondita nelle pagine 67 e ss. della sentenza di primo grado, risulta chiaramente che le due condotte ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articoli 2 e 10-quater sono ontologicamente e cronologicamente distinte tra loro: sono state commesse in tempi diversi e con modalita' del tutto diverse. La condotta ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2 e' stata commessa avvalendosi delle fatture per le operazioni inesistenti, indicando nelle dichiarazioni Iva gli elementi passivi fittizi. La condotta ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater e' stata commessa, l'anno successivo, compensando il credito inesistente Iva creato nel precedente periodo di imposta con il debito Iva maturato nel periodo di imposta successivo; e' stata eseguita una compensazione cd. orizzontale. Non vi e', dunque, alcuna duplicazione dei profili di responsabilita', trattandosi di condotte diverse. 1.3. Il credito Iva che maturi dall'uso di fatture per operazioni inesistenti, adoperate nella dichiarazione Iva, e' un credito inesistente perche' e' del tutto privo di giustificazione e dell'elemento costitutivo del credito. Per l'esistenza del credito rileva non la circostanza che sia stata redatta la fattura ma solo l'effettivita' dell'operazione sottostante; il pagamento dell'Iva e' collegato all'operazione relativa alla cessione di beni o alla prestazione di servizi ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 26 ottobre 1972, n. 633. 1.4. Del tutto errato e' poi il richiamo a Sez. 3, n. 43627 del 21/06/2018, M., Rv. 274062 - 01, che ha affermato il principio per cui, in tema di reati tributari, ai fini dell'integrazione del delitto di indebita compensazione sono inesistenti i crediti Iva non risultanti dalle dichiarazioni o dalle denunce periodiche di cui al Decreto Legislativo n. 241 del 1997, articolo 17. Tale principio e' stato affermato, infatti, con riferimento al caso concreto sottoposto alla Corte. La sentenza M. afferma in motivazione che ai sensi del Decreto Legislativo n. 241 del 1997, articolo 17 del, norma esplicitamente richiamata dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater, i crediti Iva che possono essere utilizzati per la compensazione sono solo quello risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche: "... sicche' correttamente, in base alla deposizione del teste, i crediti portati in compensazione sono stati ritenuti inesistenti, perche' non si trattava di crediti iva risultanti dalle dichiarazioni o denunce presentate dal ricorrente....". Cio' non toglie che anche un credito Iva, risultante dalla dichiarazione, possa essere inesistente, se e' inesistente, oggettivamente o soggettivamente, l'operazione indicata in fattura. 1.5. Improprio e' il richiamo a Sez. 3, n. 55485 del 2018, che attiene al rapporto tra i reati ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articoli 2 e 4. 1.6. Una conferma dell'interpretazione sull'inesistenza del credito si rinviene nel Decreto Legge n. 146 del 2021, articolo 5, recante "Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili" (cd. Decreto fiscale 2021), entrato in vigore il 22 ottobre 2021, che nel dettare "disposizioni urgenti in materia fiscale", con i commi da 7 a 12, ha introdotto una speciale causa di non punibilita' per il delitto di indebita compensazione cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater. In particolare, i commi da 7 a 10 delineano una speciale procedura, in forza della quale i soggetti che, alla data di entrata in vigore del decreto, hanno utilizzato in compensazione il credito d'imposta per investimenti in attivita' di ricerca e sviluppo (di cui al Decreto Legge n. 145 del 2013, articolo 3, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 9 del 2014), maturato a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e fino al periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2019, possono effettuare il riversamento dell'importo del credito indebitamente utilizzato, senza applicazione di sanzioni e interessi. La procedura di riversamento spontaneo e' riservata ai soggetti che, nei periodi d'imposta indicati, abbiano realmente svolto, sostenendo le relative spese, attivita' in tutto o in parte non qualificabili come attivita' di ricerca e sviluppo ammissibili nell'accezione rilevante ai fini del credito d'imposta. La procedura di riversamento spontaneo puo' essere utilizzata anche dai soggetti che abbiano commesso errori nella quantificazione o nell'individuazione delle spese ammissibili in violazione dei principi di pertinenza e congruita', nonche' nella determinazione della media storica di riferimento. L'accesso alla procedura e', in ogni caso, escluso nei casi in cui il credito d'imposta utilizzato in compensazione sia il risultato di condotte fraudolente, di fattispecie oggettivamente o soggettivamente simulate, di false rappresentazioni della realta' basate sull'utilizzo di documenti falsi o di fatture che documentano operazioni inesistenti, nonche' nelle ipotesi in cui manchi la documentazione idonea a dimostrare il sostenimento delle spese ammissibili al credito d'imposta. Cio' conferma che il reato ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater puo' essere commesso quando il credito di imposta utilizzato in compensazione derivi dall'uso di fatture per operazioni inesistenti. 1.7. Anche la giurisprudenza civilistica, seppure con riferimento alla diversa fattispecie dell'emissione delle fatture per operazioni inesistenti, ha ritenuto che cio' che deriva da tale reato non possa mai essere portato in compensazione. Cfr. Sez. 5, ordinanza n. 6983 del 12/03/2021, Rv. 660776 - 01, per cui, in tema d'IVA, il Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 21, comma 7, - in base al quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l'imposta e' dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura - va interpretato nel senso che il corrispondente tributo viene ad essere considerato "fuori conto" e la relativa obbligazione, conseguentemente, "isolata" da quella risultante dalla massa di operazioni effettuate e, per cio' stesso, estraniata dal meccanismo di compensazione tra IVA a valle ed IVA a monte, che presiede alla detrazione d'imposta di cui all'articolo 19 Decreto del Presidente della Repubblica cit. (e cio' anche perche' l'emissione di fatture per operazioni inesistenti ha sempre costituito condotta penalmente sanzionata come delitto); tale regola prevale su qualsiasi regime speciale o agevolativo, quale quello ex Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 34, in tema di debito d'imposta del produttore agricolo. 1.8. Va, infine, rilevato che la sentenza richiamata dalla difesa, Sez. 3 n. 5703 del 2015, ha affermato il principio riportato nel ricorso rispetto alla richiesta del ricorrente di qualificare lo stesso fatto ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater anziche' in quello ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2, mentre nel caso in esame si tratta di condotte distinte ontologicamente e cronologicamente. 1.9. Tali distinte condotte realizzano, tra l'altro, una pluralita' d'evasione di imposta e non, come sostenuto nel ricorso, un unico danno all'Erario. L'Iva non corrisposta e', infatti, relativa sia all'anno di imposta relativo alla dichiarazione nella quale sono utilizzate le fatture per le operazioni inesistenti sia quella relativa al successivo anno di imposta, per effetto della compensazione illecita. 1.10. Proprio la sussistenza di una pluralita' di condotte impedisce ogni assorbimento o l'applicazione del principio di specialita', per altro dovendo rilevarsi che nel Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater non vi e' alcuna clausola di salvezza. 1.11. Del tutto irrilevante e' poi che l'Agenzia delle Entrate non abbia contestato il reato, posto che l'esercizio dell'azione penale spetta al Pubblico ministero e la corretta qualificazione giuridica dei fatti e' compito esclusivo dell'autorita' giudiziaria e non di quella amministrativa. 2. Con il secondo, il terzo ed il quinto motivo si deduce il vizio di illogicita' della motivazione. Per come articolati, i motivi sono inammissibili ex articolo 606 c.p.p., comma 3. Il vizio denunciabile ex articolo 606 c.p.p., lettera e), e' solo quello di manifesta illogicita' della motivazione e non di illogicita' tout court, come invece prospettato nel ricorso. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza (cfr. Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 - 01, in motivazione), in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicita', dalla sua contraddittorieta' (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicche' sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasivita', l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualita', la stessa illogicita' quando non manifesta, cosi' come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilita', della credibilita', dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, l'illogicita' della motivazione, come vizio denunciabile, per essere manifesta deve essere evidente, cioe' di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimita' al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze. Ai sensi dell'articolo 581 c.p.p., comma 1, e' onere del ricorrente indicare, a pena dell'inammissibilita' del ricorso, in quali parti la motivazione della sentenza sia affetta da manifesta illogicita'. 3. In ogni caso, il secondo motivo, relativo ai capi 35 e 37 e limitato alla condanna al risarcimento del danno, e' manifestamente infondato. 3.1. Con il motivo, piu' che contestare i vizi di violazione di legge e della motivazione, si propone esclusivamente la lettura alternativa del fatto, affermando poi che la Corte di appello non avrebbe risposto adeguatamente ai motivi di appello, in contrasto con i principi della giurisprudenza prima richiamati. Per altro, il motivo si confronta solo parzialmente con la motivazione della sentenza impugnata, non prendendo in esame il nucleo essenziale della decisione, riportato a pagina 10, ed e' inammissibile anche per il difetto del requisito della specificita' estrinseca. 4. Oltre a quanto gia' osservato sull'articolazione del vizio della motivazione, con il terzo motivo si prende in esame solo una parte della motivazione della sentenza impugnata (la 12) ma non anche quella (pag. 11), in cui la Corte territoriale ha specificato il ruolo del direttore dei lavori e della Dep Consulting. Inoltre, con il motivo si contesta il valore probatorio attribuito dalla Corte territoriale alle comunicazioni periodiche sullo stato di avanzamento dei lavori. Per altro, il ricorrente non contesta che nei riepiloghi siano stati inseriti, quali lavori effettuati, anche le fatture per operazioni inesistenti, come rilevato dalla Corte di appello. Il ricorso prospetta esclusivamente argomenti in fatto e di merito, richiamando le prove testimoniali e documentali, chiamando la Corte ad una valutazione del materiale probatorio inammissibile in sede di legittimita'. 5. Il quarto motivo e' fondato. 5.1. Se il Giudice dell'udienza preliminare aveva effettivamente superato di 2 mesi di reclusione il triplo ex articolo 81 c.p., pero' la Corte di appello non aveva alcun obbligo di ridurre proporzionalmente la pena ma solo quello di rideterminarla nel rispetto dell'articolo 81 c.p. e articolo 597 c.p.p., comma 4. 5.2. La Corte di appello ha determinato l'aumento per la continuazione in 2 anni e 2 mesi di reclusione, perche' la pena base per il piu' grave reato di cui al capo 1, lettera c, e' stata determinata in un anno ed 8 mesi di reclusione e la pena aumentata per la continuazione in 3 anni e 10 mesi di reclusione. In primo grado, l'aumento per la continuazione e' stato determinato in un mese di reclusione per i reati di cui ai capi: 1, lettera d; 1 lettera e; 2 anno d'imposta 2011; 2 anno d'imposta 2013; 3 lettera c; 3 lettera d; 3 lettera e; 4 anno d'imposta 2011; 4 anno d'imposta 2012; 4 anno d'imposta 2013; 5 lettera a; 6 anno d'imposta 2013; 7 lettera c; 7 lettera d; 7 lettera e; per complessivi 15 mesi di reclusione. Sempre in primo grado l'aumento per la continuazione e' stato determinato in 2 mesi di reclusione per i reati di cui ai capi 1 lettera f; 3 lettera f; 5 lettera b; 40; 42, per complessivi 10 mesi. 5.3. Dunque, in primo grado, l'aumento complessivo per i reati, per cui e' intervenuta la condanna in appello, ritenuti avvinti dalla continuazione, era di 2 anni ed un mese di reclusione: la Corte di appello ha effettivamente applicato una pena, quale aumento per la continuazione, superiore di un mese rispetto a quanto previsto in primo grado. 5.4. Pertanto, il motivo deve essere accolto e la pena, ai sensi dell'articolo 620 c.p.p., cosi' rideterminata: pena base, per il piu' grave reato di cui al capo 1, lettera c, un anno ed 8 mesi di reclusione; aumentata per la continuazione come prima indicato a 3 anni e 9 mesi di reclusione, ridotta per il rito a 2 anni e 6 mesi di reclusione. 6. Con il quinto motivo si deduce l'illogicita' della motivazione sul diniego dell'operativita' della circostanza attenuante ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13-bis, comma 1, anche agli anni di imposta per i quali il versamento non e' stato effettuato a causa, secondo la prospettazione difensiva, del sequestro dei beni dell'imputato e delle societa' nel procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione dinanzi al Tribunale di Trapani. Va qui ribadita l'inammissibilita' del motivo ex articolo 606 c.p.p., comma 3, per le considerazioni gia' esposte. 6.1. Va, altresi', rilevato che con il ricorso si prospetta in realta' una questione di diritto: se la circostanza attenuante ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13-bis sia applicabile anche all'imputato che non abbia potuto adempiere agli obblighi con il fisco per avere subito il sequestro di prevenzione dei suoi beni. Rispetto a tale questione di diritto il ricorrente avrebbe dovuto dedurre il vizio di violazione di legge e non quello della motivazione: non e' consentito il motivo di ricorso che deduca vizi di motivazione con riferimento a questioni di diritto. 6.2. Anche a voler superare l'inammissibilita' del motivo per le argomentazioni ora esposte, il motivo, che si fonda sulla confusione ex Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 50, e' manifestamente infondato. 6.2.1. Il Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 24 prevede che nei confronti del proposto possa essere disposta o la confisca dei beni che risultino essere frutto di attivita' illecite o ne costituiscano il reimpiego o dei beni di cui la persona proposta non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilita' a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attivita' economica. La confisca dei beni e' disposta nei confronti dei soggetti socialmente pericolosi - secondo le categorie previste dalla legge -perche' la pericolosita' si trasferisce alla res per via della sua illecita acquisizione da parte del soggetto socialmente pericoloso. La confisca di prevenzione ha la finalita' di rimuovere dal circuito economico legale i beni riconducibili, direttamente od indirettamente, a soggetti ritenuti socialmente pericolosi, relativamente ai quali e' lecito presumerne l'illecita provenienza. Come hanno affermato le Sezioni Unite, con la sentenza n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, Spinelli, Rv. 262603, tale finalita' si giustifica non solo per ragioni etiche, ma anche per motivazioni d'ordine economico in quanto l'accumulo di ricchezza, frutto di attivita' delittuosa, e' fenomeno tale da inquinare le ordinarie dinamiche concorrenziali del libero mercato, creando anomale posizioni di dominio e di potentato economico, in pregiudizio delle attivita' lecite. La confisca di prevenzione trova il suo fondamento nel compito dell'ordinamento giuridico di rimuovere i beni di provenienza illecita dal circuito dell'economia illegale. Pertanto, l'estinzione per confusione del credito erariale - perche' confiscati i beni del proposto a seguito dell'avvenuta dimostrazione della pericolosita' sociale e della provenienza illecita di tali beni - trova fondamento nell'avvenuta sottrazione al proposto dei beni frutto di attivita' illecita o del loro reimpiego e nell'acquisizione al patrimonio dello Stato. 6.2.2. Ne consegue che la confusione non determina in alcun modo l'applicabilita' della circostanza attenuante ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13-bis. Tale circostanza attenuante si fonda, al contrario, sulla condotta positiva dell'imputato che provveda al pagamento dei tributi, delle spese e degli interessi prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado; e cio' non puo' mai avvenire con beni di provenienza illecita che l'ordinamento giuridico ha rimosso dal circuito dell'economia illegale. 7. Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio, che si ridetermina in anni due e mesi sei di reclusione; nel resto, il ricorso deve essere rigettato. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, che ridetermina in anni due e mesi sei di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE PRIMA CIVILE Riunita in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati: Dott. Domenico Bonaretti - Presidente Dott. Silvia Brat - Consigliere Dott. Manuela Cortelloni - Consigliere relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. r.g. 1571/2020 promossa in grado d'appello DA (...) S.P.A. (C.F. (...) ), elettivamente domiciliata in Milano, via (...), presso lo studio dell'avv. Be.Pe., che la rappresenta e difende come da delega in atti; appellante CONTRO (...) S.P.A. (C.F. (...) ), elettivamente domiciliata in Milano, Via (...), presso lo studio dell'avv. Pa.Ci., che la rappresenta e difende come da delega in atti; appellata Avente ad oggetto: risarcimento del danno SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. (...) spa conveniva in giudizio, avanti al Tribunale di Milano, (...) spa, affinché venisse condannata al pagamento di euro 30.527,51, oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo, accertata la sua responsabilità per l'illegittima negoziazione di dieci assegni di traenza, con clausola di non trasferibilità, emessi da (...) spa e da (...) e incassati da soggetti diversi dagli effettivi beneficiari. 2. Integrato il contraddittorio con (...) spa, il Tribunale di Milano, con sentenza n. 10249 del 12 novembre 2019, accoglieva la domanda proposta da (...) spa e, per l'effetto, condannava (...) spa al pagamento della somma complessiva di euro 30.527,51, oltre interessi legali dal dovuto al soddisfo e alla rifusione delle spese processuali. 3. Il Tribunale riteneva fondata la domanda attorea, per i seguenti principali motivi: a) la natura contrattuale della responsabilità di (...) spa esclude la fondatezza dell'eccezione di prescrizione sollevata da quest'ultima, essendo documentati diversi atti interruttivi della prescrizione; b) sussiste l'inadempimento colpevole della convenuta, con particolare riferimento al fatto che i titoli venivano incassati da soggetti non conosciuti che risultavano avere aperto un libretto di risparmio, su cui versare l'assegno, pressocché contemporaneamente all'incasso del titolo, quali condotte "anomale" che avrebbero dovuto condurre la convenuta ad una migliore cautela, ex art. 1176, 2 comma, c.c., anche in osservanza della Circolare (...) del 7 maggio 2001; c) deve escludersi il concorso colposo del creditore ex art. 1227, 2 comma, c.c. in quanto l'invio dei titoli, mediante posta ordinaria, non ha rilevanza causale (o concausale) nella verificazione del danno/evento, fermo restando che la condotta del terzo - che intercetta gli assegni e si presenta all'incasso con documenti di identità contraffatti - è comunque idonea a interrompere il nesso causale. 4. (...) spa ha proposto appello, avverso la sentenza n. 10249/2019, per due motivi, così rispettivamente rubricati: I - "Errore circa l'affermata negligenza nella negoziazione dei titoli da parte di (...) spa - errata applicazione degli artt. 1218 e 1176, 2 comma, c.c. - la sentenza Cass. N. 34108/2019 sulla Circolare (...) del 2001"; II - "Errore circa l'eccezione di concorso di colpa e responsabilità dell'odierna appellata ex artt. 1227 e 1175 c.c.". 5. (...) spa si costituiva nel giudizio di appello, concludendo per la conferma della sentenza impugnata. 6. Celebrata la prima udienza di comparizione in data 10 febbraio 2021, la causa veniva avviata per la precisazione delle conclusioni all'udienza del 17 novembre 2021, che si svolgeva mediante trattazione scritta e, assegnati su richiesta delle parti i termini per il deposito delle memorie conclusive ex art. 190 c.p.c., veniva decisa nella camera di consiglio del 17 febbraio 2022. MOTIVI DELLA DECISIONE I. Con il primo motivo di appello, (...) spa censura la sentenza di primo grado nella parte in cui ha ritenuto che la medesima non abbia operato nel rispetto della diligenza professionale ex art. 1176, 2 comma, c.c., ravvisando la sussistenza di circostanze "anomale" che avrebbero imposto una maggiore cautela nell'osservanza di norme prudenziali, ivi compresa la Circolare (...) del 7 maggio 2001. I.A. L'appellante si duole in particolare della statuizione impugnata, laddove ha valorizzato il fatto che: "... i soggetti che hanno presentato gli assegni per l'incasso non erano clienti abituali della Posta e che anzi l'apertura del libretto era stata occasionata solamente dal versamento dei titoli trafugati", ritenendo che: "Tali circostanze di cui agevolmente si coglie il carattere anomalo, avrebbero dovuto indurre la parte convenuta ad una diligenza qualificata e ad una maggiore cautela nell'osservanza di norme prudenziali anche codificate nella richiamata circolare (...) del 7 maggio 2001 laddove è previsto che, ai fini l'identificazione del presentatore del titolo, qualora questi non sia conosciuto dall'istituto bancario, sia necessaria l'esibizione di due documenti di identità entrambi muniti di fotografia, ovvero l'identificazione per mezzo di persone fidefacienti conosciute. A tale riguardo, è opportuno osservare che, anche non volendo considerare la circolare in parola alla stregua di un "decalogo" di obblighi cui la prassi bancaria è tenuta ad attenersi, si tratta comunque di linee guidavolte ad orientare in modo virtuoso la condotta degli operatori di settore; di conseguenza, si ritiene che le indicazioni contenute nella circolare A., unitamente a tutte le altre circostanze del caso concreto, consentano senz'altro al Giudice di valutare la diligenza della banca. Nel caso di specie, (...) si è limitata ad operare un controllo dell'identità del soggetto attraverso l'esame di un solo documento d'identità - carta d'identità o patente di guida - non potendosi considerare tale il tesserino del codice fiscale, essendo privo di fotografia del titolare. Né si può sostenere che il controllo relativo alle carte d'identità rubate possa costituire elemento idoneo ad esonerare (...) dalla responsabilità dedotta in giudizio, in quanto risulta più semplice formare ex novo una carta d'identità falsa, che riporti le generalità del beneficiario. In tale ottica (...) ha ritenuto che tale verifica in ordine alla regolarità formale dei documenti di identità fosse sufficiente a provare la propria diligenza, evidenziando altresì come il fatto della contraffazione degli stessi non fosse in alcun modo rilevante ai fini dell'ascrizione di una responsabilità nei suoi confronti, ritenuto un adempimento esorbitante dall'alveo della concreta esigibilità". L'appellante impugna la sentenza di primo grado anche nella parte in cui ha ritenuto che la convenuta non abbia "... fornito prova di essersi trovata nell'impossibilità di effettuare controlli più pregnanti sui documenti, essendosi arrestata ad una mera verifica della regolarità formale dei predetti documenti, al fine di accertare la presenza o meno di alterazioni o contraffazioni ictu oculi evidenti, senza effettuare, ad esempio, alcun accertamento presso i competenti organi della sanità pubblica, né presso il Comune che ha emesso la carta d'identità esibita", atteso che "... l'indagine sull'autenticità dei documenti esibiti presso il comune di residenza non costituisce un controllo eccessivamente pregante e tale da non poter essere preteso dall'Istituto negoziatore tenuto conto dell'attività di impresa svolta da (...) che giustifica - ed anzi impone - l'adozione di controlli adeguati ai servizi e ai prodotti finanziari offerti, ciò ancor più se si considera la diffusione del fenomeno del trafugamento di assegni da parte di terzi per cui è causa" - (cfr. pgg. 5, 6, sentenza). I.B. L'appellante, in particolare, contesta la motivazione sopra trascritta - anzitutto - nella parte in cui ha affermato il carattere "anomalo" dell'accensione del libretto di risparmio, nello stesso giorno del versamento dell'assegno, quale condotta che invece ritiene "ordinaria" da parte di chi non disponga di un conto corrente o di un deposito bancario sul quale accreditare l'incasso. Su tali basi, (...) spa ritiene che l'interpretazione del Giudice di primo grado non sia condivisibile, disvelando "un retaggio" della "ormai superata tesi che interpretava la clausola di intrasferibilità quale fonte di responsabilità oggettiva" (cfr. pg. 9 atto di citazione in appello). Ulteriormente, l'appellante si duole della sentenza impugnata, laddove afferma la necessità di richiedere un secondo documento di identità, atteso che la richiamata Circolare (...) del 7 maggio 2011 è una disciplina non cogente e tale richiesta sarebbe inutile, poiché "un truffatore che confezioni un primo documento falso potrebbe agevolmente confezionarne un secondo ritardandosi così - forse - di mezza giornata la consumazione dell'illecito" - (cfr. pgg. 11, 12, 13 atto di citazione in appello). Per tale ragione, l'appellante esclude la sussistenza di un inadempimento contrattuale imputabile ex art. 1218 c.c., neppure per "colpa lieve", avendo proceduto, nel caso concreto, al controllo del documento di identità del presentatore del titolo, che non risultava contraffatto, così che non era esigibile una condotta diversa. I.C. Il primo motivo di appello è infondato, con le precisazioni che seguono. Si premette che, secondo l'interpretazione oggi consolidata, il pagamento di un assegno in favore di una persona non legittimata, integri una responsabilità contrattuale, ex art. 1218 c.c., in quanto la Banca (ovvero, nella specie, (...) spa) ha un "obbligo professionale di protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto), operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine dell'operazione, di fare sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso". Di conseguenza - in base alle regole generali che disciplinano l'onere di allegazione e di prova nella responsabilità per inadempimento - (...) spa, per andare esente da responsabilità, deve allegare e dimostrare di avere agito con la diligenza qualificata del bonus argentarius, prevista dall'art. 1176, 2 comma, c.c., onde non vanificare l'obbligo di protezione anzidetto. Quanto all'inadempimento "imputabile", questa Corte ritiene che - così come affermato dalla Corte di Cassazione, con la pronuncia indicata dall'appellante (cfr. Cass. Civ. n. 34108/2019) - quanto previsto dalla citata Circolare (...) del 7 maggio 2001 (in ordine alla richiesta di due documenti di identità al fine di identificare con migliore sicurezza il portatore del titolo, laddove non conosciuto) non integri una condotta - di regola - "imposta" agli operatori bancari o postali. Ciò, in quanto la Circolare non è norma cogente, né dal punto di vista normativo (in quanto non si tratta di un "regolamento"), né sul piano negoziale, atteso che si limita a consigliare, agli associati, le possibili condotte virtuose al fine di non alimentare contenziosi. In linea di principio, pertanto, questa Corte ritiene di aderire a tale interpretazione, in quanto coerente con gli standard valutativi di matrice sociale e giuridica generalmente conosciuti, che ritengono sufficiente la verifica di un solo documento di identità munito di fotografia - al fine di procedere all'identificazione di un soggetto - cui certamente non si sottrae l'attività professionale in esame. Il rispetto di tale criterio generale, peraltro, non esclude la responsabilità per inadempimento laddove - in concreto - si ravvisino condotte "anomale" rispetto alle quali (...) spa non abbia adeguatamente allegato e provato di avere adottato le necessarie cautele ex art. 1176, 2 comma, c.c.. Infatti, "l'osservanza dell'obbligo di diligenza della banca, ai fini della valutazione della sua responsabilità nell'identificazione del prenditore dell'assegno non trasferibile, non può essere accertata sulla base di parametri rigidi e predeterminati, ma va verificata in relazione alle cautele suggerite dalle circostanze del caso concreto (Cass. 5 agosto 1994, n. 7307; Cass. 14 marzo 1997, n. 2303) e di tali accertamenti deve essere dato conto in motivazione (Cass. 18 agosto 1997, n. 7658; Cass. 9 settembre 2004, n. 18173)". II.D. Nel caso in decisione, così come analiticamente indicato alle pagg. 2 e 3 della sentenza di primo grado - con l'elencazione dei titoli posti all'incasso, delle generalità di coloro che si presentavano presso le Filiali di (...) spa e dei documenti di identità esibiti - emerge, con evidenza, che i presentatori degli assegni: a. abbiano acceso in pari data, presso la stessa Filiale, un libretto di risparmio al fine di versare l'assegno; b. fossero soggetti non conosciuti presso la Filiale (circostanza non contestata); c. la maggior parte siano soggetti residenti in altre città o, in taluni casi, in altre Regioni, rispetto all'Ufficio Postale presso cui hanno presentato il titolo; d. in un caso, particolarmente emblematico, l'intestatario era un'impresa, la "(...)", avente sede a V. (...), che risulta avere incassato il titolo presso altro luogo (cfr. Grignano - BG), aprendo, in pari data, il libretto di risparmio. Su tali basi, per quanto in astratto sia possibile - così come affermato da parte appellante - che vi siano soggetti non intestatari di conti correnti o di deposito titoli ed abbiano la necessità di aprire un libretto di risparmio per accreditare un assegno, è certamente "anomalo" - nel caso concreto - che i presentatori dei titoli abbiano provveduto all'incasso in un luogo diverso dalla loro residenza o domicilio, in taluni casi addirittura recandosi in un'altra Regione, ove non erano conosciuti. Tali circostanze - c.d. extra cartolari - sono ancora più "anomale" se accompagnate dalla precisa volontà di accendere il libretto di risparmio, quello stesso giorno, al solo fine di incassare l'assegno. Rispetto a tali circostanze - così come correttamente evidenziato dal Tribunale - è risultata carente l'allegazione e la prova, da parte di (...) spa, della non imputabilità dell'inadempimento, segnatamente, di avere adottato le cautele del caso onde scongiurare l'incasso dei titoli da parte di soggetti non legittimati. II. Con il secondo motivo di appello, (...) spa si duole della sentenza di primo grado nella parte in cui ha escluso il concorso colposo di (...) spa nella verificazione dell'evento di danno. L'appellante, in particolare, ritiene che la spedizione dei titoli, mediante posta ordinaria e non mediante posta raccomandata o assicurata - quali modalità che consentono la tracciatura della spedizione - sia un "antecedente necessario" rispetto alla successiva verificazione dell'illecito da parte del terzo. In quanto evento prevedibile dal creditore, il suo comportamento negligente è contrario ai principi di buona fede ed è valutabile ai sensi dell'art. 1227 c.c.. Il secondo motivo di appello è fondato. Così come ritenuto dalla Corte di Cassazione, oltre che da questa Corte di Appello in numerosi precedenti, "La spedizione per posta ordinaria di un assegno, ancorché munito di clausola d'intrasferibilità, costituisce, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto non legittimato, condotta idonea a giustificare l'affermazione del concorso di colpa del mittente, comportando, in relazione alle modalità di trasmissione e consegna previste dalla disciplina del servizio postale, l'esposizione volontaria del mittente ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gl'interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, e configurandosi dunque come un antecedente necessario dell'evento dannoso, concorrente con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell'identificazione del presentatore". E' notorio, rientrando nel patrimonio conoscitivo comune, che l'invio, mediante posta ordinaria, di un assegno sia esposto al rischio elevato del suo trafugamento da parte di terzi, della successiva alterazione e, quindi, dell'incasso da parte di soggetti non legittimati. Ciò può essere ragionevolmente evitato mediante la spedizione del titolo con posta raccomandata o assicurata che, attraverso il sistema di c.d. tracciatura della spedizione, consente la verifica del suo arrivo a destinazione. Trattasi di condotta esigibile dal creditore, non comportando un particolare aggravio a suo carico e in quanto conforme al principio di buona fede in senso oggettivo (art. 2 Cost., art. 1175 c.c.): la scelta del mittente di avvalersi del servizio di posta ordinaria, allorquando la spedizione ha ad oggetto valori, lo espone ad un rischio che il medesimo concorre a causare. III. Conclusivamente, si accerta il concorso colposo di (...) spa nella verificazione dell'evento di danno - nella misura paritaria del 50% - tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto: in particolare, tanto dell'invio dei titoli con posta ordinaria, quanto dell'omessa verifica delle circostanze "anomale" già evidenziate. Per l'effetto, in parziale riforma della statuizione impugnata, (...) spa viene condannata al pagamento di euro 15.263,75, oltre interessi legali, da ciascun pagamento sino al soddisfo. Non si riconosce la rivalutazione monetaria, per l'assorbente considerazione che la stessa è stata espressamente esclusa dal Giudice di primo grado (cfr. pg. 8 sentenza) e avverso tale statuizione non è stato proposto appello. (...) spa è tenuta alla restituzione, in favore di (...) spa, di quanto percepito in eccedenza, in esecuzione della sentenza di primo grado, oltre a interessi legali dal pagamento al soddisfo. IV. Tenuto conto dell'esito complessivo del giudizio, le spese di lite, del primo e del secondo grado, si compensano integralmente fra le parti. P.Q.M. La Corte d'Appello di Milano, nella composizione in epigrafe, definitivamente pronunciando, sull'appello proposto da (...) spa, con atto di citazione notificato in data 7 luglio 2020, avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 10249 pubblicata in data 12 novembre 2019, così dispone: 1. Accoglie parzialmente l'appello e, in parziale riforma della sentenza impugnata, accerta il concorso di responsabilità paritario di (...) spa nella causazione del danno; 2. Per l'effetto, condanna (...) spa al pagamento, in favore di (...) spa, della somma di euro 15.263,75, oltre interessi legali da ciascun esborso al soddisfo; 3. Condanna (...) spa alla restituzione, in favore di (...) spa, delle maggiori somme ricevute, in esecuzione della sentenza di primo grado, oltre interessi legali dal pagamento al soddisfo; 4. Compensa integralmente le spese di lite fra le parti, per entrambi i gradi di giudizio. Così deciso in Milano il 17 febbraio 2022. Depositata in Cancelleria il 20 aprile 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ZAZA Carlo - Presidente Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Consigliere Dott. DI GIURO Gaetano - Consigliere Dott. ALIFFI Francesco - Consigliere Dott. CAPPUCCIO Daniele - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI CALTANISSETTA; nel procedimento a carico di: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso l'ordinanza del 29/07/2021 del TRIB. LIBERTA' di CALTANISSETTA; udita la relazione svolta dal Consigliere CAPPUCCIO DANIELE; lette le conclusioni del PG, il quale, disposta la trattazione scritta ai sensi del Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8, ha chiesto l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata; lette le conclusioni della la difesa dell'indagato, che ha chiesto dichiararsi l'inammissibilita' del ricorso ovvero, in subordine, il suo rigetto. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 29 luglio 2021 il Tribunale del riesame di Caltanissetta, procedendo ai sensi dell'articolo 309 c.p.p., ha annullato quella con cui il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Enna, il 3 luglio 2021, aveva applicato a (OMISSIS) la misura cautelare della custodia in carcere in ordine al reato di omicidio volontario aggravato. Il Tribunale del riesame, pur dando atto del quadro indiziario raccolto nei confronti dell'indagato, cui si addebita l'uccisione del fratello (OMISSIS), avvenuta in (OMISSIS), e' pervenuto alla predetta decisione sul rilievo dell'incertezza sulle cause della morte della vittima, discendente dal radicale contrasto tra quanto rispettivamente esposto, al riguardo, dal consulente tecnico del pubblico ministero e da quello dell'indagato. A fronte, invero, della netta affermazione del Dott. (OMISSIS), incaricato dall'Ufficio di Procura, secondo cui le lesioni, di portata letale, documentate dall'esame autoptico sono state sicuramente prodotte da terze persone, in quanto assolutamente incompatibili con una caduta, si pone quella del Dott. (OMISSIS), nominato da (OMISSIS), il quale ha, invece, sostenuto che il trauma ha avuto natura accidentale. I giudici nisseni hanno ritenuto che entrambi i contributi siano sostenuti da argomenti convincenti e privi di illogicita' e che il diametrale conflitto tra di loro possa essere superato solo attraverso l'esperimento di un accertamento peritale collegiale, non praticabile in sede di incidente cautelare, in carenza del quale si impone il rispetto del canone in dubio pro reo. Il Tribunale del riesame ha, nello specifico, escluso che possa assegnarsi rilievo dirimente al politraumatismo indicato dal Dott. (OMISSIS), dovendosi accreditare, in via alternativa, l'ipotesi che la vittima abbia subito un unico impatto con la fronte, cui sono conseguiti un colpo di frusta cervicale e, quindi, la frattura a scoppio della vertebra C5. Ha aggiunto che il Dott. (OMISSIS) ha debitamente illustrato, in termini che il consulente del pubblico ministero non ha validamente confutato, le ragioni che rendono verosimile che la morte sia stata dovuta ad una caduta accidentale e che, per contro, ostano alla sua riconduzione all'azione violenta di altro uomo. Ha, ulteriormente, rilevato che la patologia cardiaca da cui (OMISSIS) era stato, in passato, affetto accredita la possibilita' che egli sia caduto perche' colpito da un improvviso malore. 2. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Enna propone ricorso per cassazione affidato ad un unico, complesso motivo, del quale, ai sensi dell'articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1, si dara' atto nei limiti strettamente necessari per la motivazione. Il ricorrente ascrive, innanzitutto, al Tribunale del riesame di avere improntato la decisione impugnata ai canoni che presiedono al giudizio di merito invece che a quello cautelare, in cui - discutendosi della sussistenza, a carico dell'indagato, di gravi indizi di colpevolezza anziche' della prova, al di la' di ogni ragionevole dubbio, della responsabilita' dell'imputato - il giudice deve compiere un vaglio incidentale che deve giocoforza tener conto dello stadio del procedimento e della consistenza dei dati in quel frangente disponibili. Evidenzia, in secondo luogo, che il Tribunale del riesame ha posto a confronto gli elaborati dei consulenti tecnici senza porli in relazione alle residue evidenze istruttorie, suscettibili, per il loro elevato coefficiente di significativita', di offrire una chiave di lettura utile a superare contraddizioni che, altrimenti, finirebbero per paralizzare il positivo riscontro dell'ipotesi di accusa sino all'espletamento dell'accertamento evocato, e solo potenzialmente risolutivo, ed al completamento di ogni altro incombente istruttorio. Lamenta, quindi, che sia stata riconosciuta pari attendibilita' alle valutazioni del consulente tecnico del pubblico ministero - organo imparziale che, nella fase delle indagini, e' tenuto a raccogliere sia gli elementi a carico dell'indagato che quelli a sua discolpa - ed a quelle del professionista che, intervenendo su impulso del solo assistito, adempie all'incarico nell'interesse di quest'ultimo anziche' allo scopo di agevolare il giudice nella ricerca della verita' processuale. Il pubblico ministero ricorrente segnala, altresi', che il Dott. (OMISSIS) e' stato autore di un elaborato completo e frutto di scrupolo ed impegno, mentre il Dott. (OMISSIS), per contro, ha redatto una pluralita' di contributi, pregni di considerazioni illogiche e contraddittorie e condizionati, peraltro, dal progressivo adattamento della versione difensiva. Gli elaborati del consulente di parte, continua, sono stati irrazionalmente valutati dal Tribunale del riesame, che ha finito con l'avvalorare la tesi della caduta accidentale, provata da un malore o dall'assalto di un bovino, che e', ben vedere, priva di qualsivoglia margine di plausibilita'. Nello sforzo di dimostrare l'esistenza, nel provvedimento impugnato, di vizi tali da imporne l'annullamento, il ricorrente compie amplissimi richiami alle emergenze istruttorie (sommarie informazioni rese da persone informati sui fatti, trascrizione di conversazioni intercettate, via telefono o in ambientale, contributi di natura medico-legale), ivi comprese quelle acquisite in epoca successiva all'esecuzione del provvedimento applicativo della misura cautelare, all'instaurazione della procedura di riesame ed all'emissione del dispositivo e, poi, della motivazione dell'ordinanza qui impugnata. 3. Disposta la trattazione scritta ai sensi del Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8, il Procuratore generale ha chiesto, con requisitoria del 20 novembre 2021, l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata, mentre la difesa dell'indagato, con atto del 30 novembre 2021, ha chiesto dichiararsi l'inammissibilita' del ricorso ovvero, in subordine, il suo rigetto. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Preliminarmente, occorre rilevare che il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Enna e' confezionato in modo tutt'altro che ortodosso, giacche' indugia nell'esposizione di emergenze istruttorie successive all'adozione del provvedimento impugnato o delle quali, comunque, non e' indicata, con sufficiente precisione, la pregressa presenza all'interno dell'incartamento esaminato dal collegio nisseno. Ne', va aggiunto, il segnalato profilo di irritualita' e' in alcun modo sanato dall'allegazione al ricorso, peraltro su solo supporto informatico (sul punto, cfr. Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261552, secondo cui "E' irrituale il deposito degli atti allegati al ricorso per cassazione esclusivamente su supporto informatico, poiche' il pubblico ufficiale ricevente ha il dovere di certificare anche il numero degli stessi ed e' inoltre necessario poterne oggettivamente verificare i'l contenuto, evitando il rischio di perdite o modificazione dei dati"), di "copia di tutti gli atti del procedimento", iniziativa che, con ogni evidenza, non vale a soddisfare l'onere di specificita' nella formulazione del motivo di impugnazione. 2. Il ricorso - esaminato avendo esclusivo riguardo a quanto esposto nel provvedimento impugnato e prescindendo, dunque, dalle produzioni non consentite o tendenti, in sostanza, alla rivalutazione, nel merito, del compendio indiziario - appare, nondimeno, certamente ammissibile, poiche' inteso ad eccitare il controllo sulla conformita' della motivazione a criteri di razionalita' e coerenza, e fondato, perche' idoneo ad enucleare, nell'ordinanza impugnata, consistenti ed insanabili lacune motivazionali in ordine all'apprezzamento del prescritto quadro di gravita' indiziaria. Il Tribunale del riesame, dopo avere illustrato, in sintesi, le principali coordinate della vicenda ed esposto le conclusioni raggiunte dal Giudice per le indagini preliminari ed i rilievi critici sollevati, per iscritto ed oralmente, dalla difesa dell'indagato, ha mostrato di condividere con il primo giudice la valutazione circa la ricorrenza di un corposo quadro indiziario a carico di (OMISSIS). In tale direzione, ha ritenuto militare, in primis, i contrasti, passati e presenti, tra l'indagato ed il fratello - testimoniati dal racconto di (OMISSIS), compagna della vittima - che, giusto quella mattina, avevano trovato nuova occasione di sfogo a causa della manifestata intenzione di (OMISSIS) di allontanarsi dall'azienda agricola di famiglia per accompagnare la (OMISSIS) e la figlia, che si sarebbero dovute sottoporre a vaccinazione, e di delegare, quindi, a (OMISSIS), stanco perche' reduce da un turno di servizio quale operatore forestale, gli incombenti lavorativi. La plausibilita' dell'impostazione accusatoria, gia' attestata dalla sussistenza di un valido movente, secondo cui (OMISSIS), adirato per l'ennesimo dissidio con il congiunto, si sarebbe lasciato andare ad una scomposta e violenta reazione, e' acuita dalla contrapposizione dei tratti caratteriali dei protagonisti, mite e remissivo, l'uno ( (OMISSIS)), tendente alla prevaricazione, l'altro ( (OMISSIS), gia' protagonista, in passato, di una brutale aggressione ai danni di altra persona). Coerente con l'individuazione in (OMISSIS) dell'omicida del fratello e', a dire, ancora, del Giudice per le indagini preliminari -, le cui considerazioni vengono, per questa parte, richiamate, ed in ultimo condivise, dal Tribunale del riesame - la circostanza che, quella mattina, nell'azienda agricola di (OMISSIS) vi fossero solo i due germani ed il padre (OMISSIS) e che l'eventuale, e non autorizzata, introduzione di terzi avrebbe senz'altro richiamato l'attenzione dei cani da guardia che, invece, non segnalarono alcunche'; pacifico e', peraltro, che (OMISSIS) fu l'ultima persona a vedere in vita la vittima. D'altro canto, aggiungono i giudici della cautela, valenza indiziante deve essere riconosciuta anche all'atteggiamento serbato da (OMISSIS) davanti ai primi soccorritori ed alle dichiarazioni - che il Giudice per le indagini preliminari, non smentito dal Tribunale del riesame, reputa "cosi' contraddittorie ed illogiche da non potersi considerare affatto veridiche" - che egli ha reso nel corso del procedimento. In particolare, ha destato sospetto il fatto che (OMISSIS) - come a dare di se' l'immagine di persona interessata a salvare la vita al congiunto - si sia prodigato, in pubblico, in manovre rianimatorie palesemente inutili, stante l'evidente decesso del fratello, peraltro dopo avere attivato i soccorsi secondo modalita' anomale, desistendo, dapprima, dal massaggio cardiaco che egli sostiene di avere praticato per recarsi dal padre (allo scopo di comunicargli, ancora una volta in un climax di iniziative susseguitesi in forma estemporanea ed irrazionale, quanto era successo) ed inscenando, una volta tornato sul posto, un nuovo intervento salvavita ormai tardivo. Singolare e' parsa, poi, la freddezza mostrata dall'indagato all'atto di scattare, con il telefono cellulare, una fotografia del cadavere. 3. Ora, pur a fronte di un compendio indiziario di significativo spessore, il Tribunale del riesame ha attribuito decisivo rilievo alla ritenuta incertezza in ordine alla causa della morte di (OMISSIS) che, secondo la prospettazione difensiva, sarebbe stata conseguenza di una causa diversa dall'azione violenta di un terzo (che, nel contesto appena descritto, non potrebbe che essere individuato nell'odierno indagato). In tale ottica, ha indebitamente scisso i profili di natura medico-legale da quelli residui ed omesso di vagliare la plausibilita' delle opposte asserzioni alla luce del complesso delle informazioni disponibili. Ha, per di piu', trascurato di considerare che il carattere incidentale dell'accertamento compiuto a fini cautelari impone di parametrare la verifica alla provvisorieta' ed all'incompletezza degli esiti istruttori e preclude la possibilita' di assumere a criterio decisorio la concorrente persuasivita', sul piano astratto, di contributi di segno diametralmente opposto e di giungere, di tal fatta, ad escludere la gravita' indiziaria in ragione dell'indisponibilita', allo stato, degli esiti di una piu' completa e garantita indagine medico-legale. Il Tribunale - lungi dal riconoscere, come suggerito dal ricorrente, maggiore attendibilita', quasi per partito preso, all'apporto del professionista che ha operato su incarico della parte pubblica - avrebbe dovuto, piuttosto, testare attentamente l'attitudine di ciascuna delle due tesi in confronto ad offrire, alla luce di tutte le evidenze del caso, una credibile ricostruzione della vicenda e, solo nell'eventualita' di esito positivo, concludere, in ossequio al canone in dubio pro reo, nel senso dell'insussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico di (OMISSIS) in relazione ad un reato che, a quel punto, sarebbe rimasto non compiutamente verificato gia' nella sua obiettiva materialita'. Il Tribunale del riesame, invece, si e' limitato, in forza di un approccio non adeguatamente meditato, ad avallare - in termini che, come si dira' piu' avanti, si palesano manifestamente illogici - quanto esposto dal Dott. (OMISSIS) nel parere preliminare del 3 luglio 2021 con riferimento all'unipolarita' del trauma, per poi riportare, testualmente, le osservazioni svolte dal consulente tecnico della difesa in punto di compatibilita' tra le emergenze istruttorie e, rispettivamente, accidentalita' della caduta ed azione violenta di un uomo. A questo proposito, muovendo dalla generale premessa dell'assenza, negli elaborati del Dott. (OMISSIS), di spie di percepibile illogicita', ha tratto argomento dalla maggiore laconicita' delle considerazioni svolte, al riguardo, dal consulente tecnico del pubblico ministero, nonche' dal fatto che egli non ha in alcun modo replicato ad un'esposizione scientificamente ineccepibile ed aderente ai dati istruttori. Ha, pertanto, concluso che non appare peregrina - tanto piu' ove si tenga conto, da un canto, della pregressa patologia cardiaca di (OMISSIS) e, dall'altro, delle conclusioni raggiunte dal Dott. (OMISSIS) in ordine alla causa che ha prodotto le lesioni al capo patite dalla vittima - l'ipotesi che la morte sia susseguita ad un malfunzionamento del muscolo cardiaco ovvero "ad altro tipo di malore o altre cause". 4. L'esame del provvedimento impugnato consente di apprezzare, ictu oculi, l'insufficienza dell'impegno argomentativo profuso dal collegio nisseno a supporto della decisione impugnata, che lo ha condotto a ritenere, in contrasto con elementari canoni di logica ordinaria, la pari attendibilita' di due ricostruzioni, una delle quali, a ben vedere, sconta dei limiti dei quali il Tribunale del riesame non ha tenuto conto. Macroscopici sintomi di irrazionalita' si rinvengono, in specie, nella parte dell'ordinanza impugnata (cfr. pag. 7) in cui il Tribunale del riesame assegna credibilita' all'assunto formulato dal Dott. (OMISSIS) - stando al quale il trauma osservato sul cadavere sarebbe derivato da una caduta accidentale, che avrebbe provocato l'urto violento della parte anteriore del capo contro il muretto di cemento, nelle cui adiacenze il corpo della vittima e' stato rinvenuto - senza indicare, al contempo, come sia stato possibile che (OMISSIS) abbia perso il cuoio capelluto, sicuramente proveniente dalla parte posteriore della testa, che e' stato repertato proprio su quel muretto e, per di piu', scrive lo stesso consulente di parte, "in parte spalmato da strisciamento con andamento alto basso a "bassa velocita' di scorrimento"". Il Tribunale del riesame, al riguardo, ha sostanzialmente avallato le osservazioni del Dott. (OMISSIS), il quale, nella relazione citata nel provvedimento impugnato, ha espressamente ammesso che la lesione al cuoio capelluto costituisce "unica espressione dell'urto in caduta posteriore del (OMISSIS) (recte: (OMISSIS)) dopo urto frontale". Per quanto e' dato comprendere, quindi, (OMISSIS), vittima di un malore, probabilmente connesso a preesistente patologia cardiaca (ma, va detto, della cui recrudescenza, allo stato, non vi e' traccia), avrebbe perso equilibrio e sensi, andando a sbattere sul muretto, prima con la parte anteriore del capo e, successivamente, con quella occipitale, subendo, in questo secondo momento, una frizione con la superficie tale da determinare la perdita di capillizio. Una ricostruzione, questa, che, come correttamente eccepito dal ricorrente, appare francamente inverosimile, tanto piu' laddove si consideri che la vittima ha subito, oltre alle gravissime lesioni alla regione frontale, la frattura della vertebra cervicale che, con ogni probabilita', e' frutto di un colpo di frusta che, anche all'occhio di un profano, appare piu' compatibile con l'azione di un corpo contundente, azionato con forza dalla mano dell'uomo, che con l'impatto con un muro di cemento conseguente ad una caduta, autonoma ed involontaria, che ha prodotto uno spostamento del corpo in misura non superiore a qualche decina di centimetri. L'ordinanza ex articolo 309 c.p.p., appare, sotto questo aspetto, incentrata su un percorso motivazionale manifestamente illogico, il cui deficit razionale non e' colmato dall'addebito, obiettivamente incongruo, mosso, a piu' riprese, al consulente del pubblico ministero (cfr. pag. 7 e, poi, pag. 8), riferito al non avere egli "preso posizione" sulla ricostruzione dei fatti operata dal collega, cio' che non gli era stato chiesto e che egli non avrebbe, pertanto, potuto fare, vieppiu' ove si consideri, che il Tribunale del riesame ha fondato, per quanto emerge dall'ordinanza, la decisione sul processo verbale preliminare di autopsia sottoscritto dal Dott. (OMISSIS) il (OMISSIS) e sui pareri formulati dal Dott. (OMISSIS) il 3 e, poi, il (OMISSIS), entrambi successivi al deposito dell'unico elaborato del consulente tecnico del pubblico ministero menzionato dai giudici nisseni. Parimenti viziata e' l'ulteriore considerazione posta dal Tribunale a fondamento del negativo giudizio espresso in ordine alla gravita' indiziaria, che trae spunto da quanto esposto dal Dott. (OMISSIS) circa l'incompatibilita' tra le lesioni riscontrate sul cadavere e gli oggetti (una chiave inglese ed un bullone idraulico) indicati quali possibili armi del delitto e, in un secondo momento, l'impossibilita' che una frattura lineare della teca cranica, del tipo di quella riportata da (OMISSIS), sia cagionata dall'azione di un corpo contundente invece che da un "trauma a bassa velocita' causato da forze con larga massa o superficie". Il tema, la cui centralita' e' stata ribadita dalla difesa dell'indagato nelle conclusioni depositate nell'ambito della trattazione scritta del presente ricorso, appare, in realta', privo di decisivita', giacche' l'impostazione accusatoria postula che la vittima sia stata colpita con un corpo contundente che non si identifica, per necessita', nella chiave inglese sottoposta a sequestro, e che, in ipotesi, ben potrebbe essere individuato proprio in un oggetto a superficie o massa larga, spinto a bassa velocita' contro il viso di (OMISSIS). Il coefficiente di illogicita' della motivazione della decisione impugnata appare, d'altro canto, ulteriormente accresciuto dall'avere il Tribunale del riesame omesso di fornire una credibile spiegazione alla distanza, difficilmente compatibile con la ricostruzione che vuole (OMISSIS) vittima di un improvviso malore, tra il punto in cui e' stato rinvenuto il cadavere e quello ove giaceva il cappello della vittima. Ne', va conclusivamente rilevato, il Tribunale del riesame risulta avere inserito, se non attraverso il generico riferimento finale ad imprecisate "altre cause", la spinta di un bovino evocata dall'indagato con il piu' recente atto difensivo (cfr. pag. 16) nel novero degli accadimenti suscettibili di innescare la serie causale esitata nel decesso di (OMISSIS). 5. Le precedenti considerazioni impongono, in conclusione, l'annullamento del'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale del riesame di Caltanissetta per un nuovo giudizio che, libero nell'esito, sia emendato dai vizi riscontrati. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Caltanissetta, Sezione del riesame.

Ricerca rapida tra migliaia di sentenze
Trova facilmente ciò che stai cercando in pochi istanti. La nostra vasta banca dati è costantemente aggiornata e ti consente di effettuare ricerche veloci e precise.
Trova il riferimento esatto della sentenza
Addio a filtri di ricerca complicati e interfacce difficili da navigare. Utilizza una singola barra di ricerca per trovare precisamente ciò che ti serve all'interno delle sentenze.
Prova il potente motore semantico
La ricerca semantica tiene conto del significato implicito delle parole, del contesto e delle relazioni tra i concetti per fornire risultati più accurati e pertinenti.
Tribunale Milano Tribunale Roma Tribunale Napoli Tribunale Torino Tribunale Palermo Tribunale Bari Tribunale Bergamo Tribunale Brescia Tribunale Cagliari Tribunale Catania Tribunale Chieti Tribunale Cremona Tribunale Firenze Tribunale Forlì Tribunale Benevento Tribunale Verbania Tribunale Cassino Tribunale Ferrara Tribunale Pistoia Tribunale Matera Tribunale Spoleto Tribunale Genova Tribunale La Spezia Tribunale Ivrea Tribunale Siracusa Tribunale Sassari Tribunale Savona Tribunale Lanciano Tribunale Lecce Tribunale Modena Tribunale Potenza Tribunale Avellino Tribunale Velletri Tribunale Monza Tribunale Piacenza Tribunale Pordenone Tribunale Prato Tribunale Reggio Calabria Tribunale Treviso Tribunale Lecco Tribunale Como Tribunale Reggio Emilia Tribunale Foggia Tribunale Messina Tribunale Rieti Tribunale Macerata Tribunale Civitavecchia Tribunale Pavia Tribunale Parma Tribunale Agrigento Tribunale Massa Carrara Tribunale Novara Tribunale Nocera Inferiore Tribunale Busto Arsizio Tribunale Ragusa Tribunale Pisa Tribunale Udine Tribunale Salerno Tribunale Verona Tribunale Venezia Tribunale Rovereto Tribunale Latina Tribunale Vicenza Tribunale Perugia Tribunale Brindisi Tribunale Mantova Tribunale Taranto Tribunale Biella Tribunale Gela Tribunale Caltanissetta Tribunale Teramo Tribunale Nola Tribunale Oristano Tribunale Rovigo Tribunale Tivoli Tribunale Viterbo Tribunale Castrovillari Tribunale Enna Tribunale Cosenza Tribunale Santa Maria Capua Vetere Tribunale Bologna Tribunale Imperia Tribunale Barcellona Pozzo di Gotto Tribunale Trento Tribunale Ravenna Tribunale Siena Tribunale Alessandria Tribunale Belluno Tribunale Frosinone Tribunale Avezzano Tribunale Padova Tribunale L'Aquila Tribunale Terni Tribunale Crotone Tribunale Trani Tribunale Vibo Valentia Tribunale Sulmona Tribunale Grosseto Tribunale Sondrio Tribunale Catanzaro Tribunale Ancona Tribunale Rimini Tribunale Pesaro Tribunale Locri Tribunale Vasto Tribunale Gorizia Tribunale Patti Tribunale Lucca Tribunale Urbino Tribunale Varese Tribunale Pescara Tribunale Aosta Tribunale Trapani Tribunale Marsala Tribunale Ascoli Piceno Tribunale Termini Imerese Tribunale Ortona Tribunale Lodi Tribunale Trieste Tribunale Campobasso

Un nuovo modo di esercitare la professione

Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.