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Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Oggetto: Elusione fiscale Ud. 9/5/2024 – P.U. R.G. 12026/2016 Composta da Dott. Lucio Napolitano Presidente Dott. Luciano Ciafardini Consigliere Dott. Riccardo Rosetti Consigliere Dott. Federico Lume Consigliere Dott. Angelo Napolitano Consigliere rel. est. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 12026/2016 R.G. proposto da Cofely Progetti s.r.l. in liquidazione, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. Paolo Petrosillo, elettivamente domiciliata in Roma alla via delle Quattro Fontane n. 20, presso lo studio Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners; – ricorrente – contro Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma è domiciliata alla via dei Portoghesi n. 12; - intimata - avverso la sentenza n. 5801/35/2015 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio - Roma, depositata in data 6/11/2015, non notificata; udita la relazione della causa svolta dal dott. Angelo Napolitano nella pubblica udienza del 9 maggio 2024; udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, dott. Fulvio Troncone, che ha chiesto dichiararsi inammissibile o, in subordine, rigettarsi il ricorso; udito l’Avvocato Luciano Bonito Oliva per delega dell’Avv. Paolo Petrosillo per la società ricorrente e l’Avvocato dello Stato Eva Ferretti per l’Agenzia delle Entrate; Fatto Con avviso di accertamento n. TK034M04635/2010, emesso nei confronti della società Cofely Progetti s.r.l. in liquidazione (d’ora in poi, anche “la società” o “la contribuente” o “Progetti”), l’Agenzia delle Entrate riconsiderò, ai fini delle imposte dirette, una serie di vicende poste in essere nell’ambito della riorganizzazione del gruppo Cofely. In particolare, Cofely Italia s.p.a. (già Cofathec Servizi s.p.a., d’ora in poi “Servizi”) deteneva l’intero capitale sociale di Progetti; Progetti, a sua volta, deteneva l’intero capitale sociale di Cofathec Prasi s.p.a. (d’ora in avanti, anche “Prasi”). Come risulta dall’avviso di accertamento, nel 2000, in forza della convenzione conclusa con il Ministero dei Beni e delle Attività culturali (d’ora in avanti, anche il “Mibac”), è stata affidata alla associazione temporanea di imprese (“ATI”), composta da Progetti quale mandataria, Prasi e Ales s.p.a. (quest’ultima società Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. partecipata dal Ministero), la realizzazione del “Progetto per la Sicurezza e tutela del Patrimonio culturale”, della durata di 60 mesi. Successivamente, la Progetti firmò con il Ministero dei nuovi contratti per la prosecuzione della sua attività nell’ambito della tutela dei beni culturali. Il 28 gennaio 2005 Prasi trasferì a titolo oneroso a Progetti il ramo d’azienda avente ad oggetto lo svolgimento, a livello nazionale, delle attività di lavori e servizi nel ramo dei beni culturali, oggetto della convenzione con il MIBAC. Successivamente, Prasi fu posta in liquidazione volontaria (iniziata il 9 settembre 2005 e conclusasi il 30 dicembre 2005) e cancellata dal registro delle imprese. In data 22 dicembre 2005 fu trasferito da Progetti a Servizi il ramo d’azienda avente ad oggetto lo svolgimento dell’attività di “Ingegneria ed Impianti”, relativo alla realizzazione e manutenzione di impianti tecnologici e di cogenerazione all’interno di edifici civili, del terziario e dei siti industriali (d’ora in poi, anche “Ramo Ingegneria e Impianti”). In relazione alla cessione del ramo d’azienda MIBAC da Prasi a Progetti, l’Ufficio rilevò che la liquidazione della Prasi aveva consentito a Progetti di dedurre fiscalmente la minusvalenza realizzata attraverso l’annullamento della partecipazione in Prasi pari ad euro 1.420.256. Rispetto alla cessione del Ramo Ingegneria e Impianti, l’Ufficio rilevò che la Servizi aveva iscritto tra le immobilizzazioni immateriali l’avviamento del suddetto ramo per un importo pari ad euro 10.942.654 e aveva dedotto, per il periodo d’imposta 2007, una quota di ammortamento pari ad euro 607.925 (1/18 del valore complessivo dell’avviamento). Con l’avviso di accertamento impugnato, l’Ufficio riprese a tassazione in capo a Progetti la minusvalenza risultante dalla cessione del ramo d’azienda MIBAC da Prasi a Progetti, accertando una maggiore imposta pari ad euro 668.148. Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. In particolare, secondo l’Ufficio gli atti di riorganizzazione del gruppo societario sarebbero stati privi di ragioni economiche, finalizzati solo a conseguire in capo a Servizi la doppia deduzione delle perdite in capo a Progetti, con aggiramento del divieto del riporto delle perdite fiscali pregresse dell’incorporante, in violazione dell’art. 172, comma 7, Tuir. Progetti impugnò l’avviso di accertamento dinanzi alla C.T.P. di Roma, che accolse il ricorso. Su appello dell’Ufficio, la C.T.R. riformò integralmente la sentenza di primo grado, ritenendo legittima la ripresa a tassazione della minusvalenza in capo a Progetti. Avverso la sentenza di appello, la contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. L’Agenzia delle Entrate ha depositato un atto di costituzione. Il sostituto Procuratore Generale, dott. Fulvio Troncone, ha depositato una requisitoria scritta. La contribuente ha depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c. Diritto 1.Con il primo motivo di ricorso, rubricato “Nullità della sentenza per carenza assoluta di motivazione, in violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992, dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.) – Omessa individuazione degli elementi probatori dimostrativi del disegno elusivo ipotizzato dall’Ufficio”, la società censura la carenza motivazionale che affliggerebbe l’impugnata sentenza, deducendo che il giudice d’appello, a conferma dell’elusività della cessione del ramo di azienda da Prasi a Progetti, si sarebbe soffermato esclusivamente sull’asserito aggiramento “delle regole della cd. partecipation exemption (cfr. artt. 87 e 101 Tuir)”, sulla base delle quali la società non avrebbe potuto procedere alla svalutazione del valore della partecipazione in Prasi, senza una disamina della sussistenza nel caso di specie degli elementi sulla base dei quali Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. sarebbe stato possibile applicare l’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973. 2. Con il secondo motivo di ricorso, rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, commi 1 e 2, 2727 e 2729, comma 1 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.) – Errato governo dei princìpi generali in tema di onere della prova in relazione alla valutazione della sussistenza del “disegno elusivo” ipotizzato dall’Ufficio”, la sentenza impugnata avrebbe violato i princìpi relativi al riparto dell’onere della prova, in base ai quali la dimostrazione dell’esistenza del disegno elusivo e della manipolazione e alterazione degli schemi negoziali a fini elusivi incombe sull’amministrazione finanziaria. Spetterebbe, invece, al contribuente l’onere di provare che le operazioni effettivamente poste in essere corrispondono ad un interesse economico non marginale. 3. Con il terzo motivo di ricorso, rubricato “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 1, l. n. 241 del 1990, dell’art. 7, comma 1, l. n. 212 del 2000, dell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 37 bis comma 5 del d.P.R. n. 600 del 1973, per avere i giudici di seconde cure ritenuto “chiaramente e compiutamente motivato” l’avviso di accertamento nonostante l’omessa individuazione di una operazione “fisiologica” effettivamente alternativa a quella posta in essere dalle parti (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.)”, la società si lamenta che il giudice di appello non avrebbe dato risposta alle sue osservazioni secondo le quali il comportamento preteso dall’Ufficio (la fusione per incorporazione di Prasi in Progetti e di Progetti in Servizi) avrebbe avuto come conseguenza la concentrazione in un unico soggetto imprenditoriale (Servizi) di attività tra loro eterogenee (quelle del ramo MIBAC e quelle relative al ramo “Ingegneria e Impianti”), contrariamente ai criteri di ottimizzazione delle risorse e della diversificazione seguiti dalla società nella riorganizzazione del gruppo. 4. Con il quarto motivo di ricorso, rubricato “Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. le parti, sulla base dei quali avrebbe dovuto essere rilevata la sussistenza di valide ragioni economiche sottese all’operazione di riorganizzazione”, la società censura la sentenza impugnata perché questa non avrebbe esaminato i fatti da essa addotti per dimostrare la razionalità dal punto di vista imprenditoriale del passaggio del ramo di azienda MIBAC da Prasi a Progetti. 5. I quattro motivi di ricorso, attesa la loro connessione, posso essere esaminati e decisi congiuntamente. Essi sono infondati. 5.1. Seppure con una motivazione sintetica, concentrata nella parte finale, la sentenza impugnata ha, innanzitutto, ristretto l’ambito oggettivo del giudizio alla ripresa dell’imposta che la società Progetti avrebbe eluso adottando, in luogo della fusione (per incorporazione di Prasi in Progetti), lo schema negoziale della cessione del ramo di azienda MIBAC da Prasi a Progetti. Ponendo in essere la cessione del ramo d’azienda MIBAC da Prasi a Progetti in luogo della fusione per incorporazione della prima nella seconda, il giudice di appello ha affermato che la società ha ottenuto la svalutazione delle quote detenute in Prasi, abbattendo in questo modo la base imponibile determinata dalla successiva cessione del ramo d’azienda “Ingegneria e Impianti” da Progetti a Servizi. La sentenza ha anche spiegato con un percorso motivazionale congruo e lineare che non vi era ragione che Prasi cedesse a Progetti il ramo d’azienda MIBAC anziché fondersi per incorporazione in quest’ultima società, atteso che dopo la cessione Prasi divenne sostanzialmente una scatola vuota e fu messa in liquidazione. A tal proposito, la sentenza impugnata ha anche accertato, in esito ad una valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità, che Prasi non svolgeva altre attività che non fossero quelle relative al ramo d’azienda MIBAC, sicché lo schema “naturale” per la riorganizzazione delle attività di Prasi e Progetti non era la cessione d’azienda dalla prima alla seconda, ma la fusione della prima nella seconda. Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. Dopo l’individuazione, congruamente motivata, della fusione di Prasi in Progetti come lo schema “naturale” per la riorganizzazione delle attività delle due società, la sentenza impugnata ha ragionevolmente ed insindacabilmente ritenuto che le due operazioni (la cessione del ramo d’azienda da Prasi a Progetti e la successiva messa in liquidazione di Prasi, ormai svuotata) erano state pensate e poste in essere solo per garantire a Progetti un sostanzioso risparmio fiscale sulla riorganizzazione delle attività proprie e della controllata Prasi. 6. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato. All’Agenzia delle Entrate devono essere liquidati, in base al principio di soccombenza, solo gli onorari spettanti per lo studio e la discussione orale della controversia. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna Cofely Progetti s.r.l. in liquidazione al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, della somma di euro seimila a titolo di onorari per lo studio della controversia e la discussione orale. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso, in Roma, il 9 maggio 2024. Il Consigliere estensore Il Presidente dott. Angelo Napolitano Dott. Lucio Napolitano
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA Presidente ENRICO MANZON Consigliere GIOVANNI LA ROCCA Consigliere-Rel. LUNELLA CARADONNA Consigliere MARIA GIULIA PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Consigliere Oggetto: TRIBUTI ACCERTAMENTO Ud.06/12/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 19424/2015 R.G. proposto da: FORNO ETTORE, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati TAMBASCO FRANCESCA (TMBFNC84C41C351V), DI PAOLA NUNZIO SANTI GIUSEPPE (DPLNZS67B25C351B); -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (ADS80224030587) che la rappresenta e difende; -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. CALTANISSETTA n. 350/2015 depositata il 29/01/2015. Udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni La Rocca nella pubblica udienza del 6 dicembre 2023; Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alberto Cardino, che ha concluso per l’accoglimento del quinto e del settimo motivo, non essendo comparso nessuno per le altre parti. FATTI DI CAUSA 1. A seguito di PVC di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza di Enna, l’Agenzia delle Entrate notificava al sig. Ettore Forno, in qualità di titolare dell’omonima ditta individuale, in data 01.08.2012, l’avviso di accertamento n.TYU01T200460/2012, con il quale veniva recuperato imponibile per l’anno d’imposta 2010, con conseguenti maggiori imposte IRPEF, IRAP e IVA, oltre interessi e sanzioni correlate. 2. L’Ufficio accertava l’omessa contabilizzazione di incassi, una plusvalenza derivante da cessione d’azienda e ricavi non dichiarati desunti da accertamenti bancari. 3. Il contribuente impugnava, quindi, l’avviso di accertamento e la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Enna emetteva la sentenza n. 432/01/13, depositata il 20.12.2013, con la quale rigettava il ricorso e condannava il ricorrente alle spese di giudizio. 4. Il contribuente proponeva appello e la Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Sicilia, con la sentenza in epigrafe, rigettava il gravame, confermando la decisione di primo grado. 5. La CTR osservava che con l’atto impugnato, correttamente motivato per relationem con riferimento al PVC, regolarmente notificato al Forno, l’Ufficio aveva «adeguatamente motivato, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste a base dell’accertamento»; nel merito confermava tutti i rilievi, osservando, in particolare, quanto agli accertamenti bancari che questi pongono una presunzione legale in base alla quale sia i versamenti sia i prelevamenti costituiscono ricavi, mentre è onere del contribuente fornire la prova contraria e, in questo caso, «i prelevamenti contestati dall’Ufficio sono quelli per i quali non è stata fornita alcuna giustificazione e quelli per i quali il contribuente, pur fornendo qualche forma di giustificazione non è stato in grado di produrre idonea documentazione probatoria a supporto, così come precisato a pag. 104 del processo verbale di giustificazione». 6. Il contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza fondato su quindici motivi. 7. Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo il ricorrente deducel’«inesistenza giuridica dell’avviso impugnato per carenza del potere dirigenziale del Direttore firmatario» alla luce della sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale, in quanto «pare» che la nomina del Direttore provinciale che aveva sottoscritto l’atto impugnato «rientrerebbe» tra quelle interessate dalla predetta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 8 comma 24 del d.l. n. 16/2012. 1.1. L'eccezione di inammissibilità sollevata dall’Agenzia, la quale rileva che la questione non era stata proposta con il ricorso iniziale in primo grado, può essere superata trattandosi di ius superveniens per effetto della pronuncia della Corte costituzionale invocata. Il motivo è inammissibile, piuttosto, perché si esprime in maniera ipotetica e dubitativa sul fatto che la nomina del sottoscrittore rientrasse tra quelle interessate dalla pronunzia di incostituzionalità. 1.2. Il motivo, in ogni caso, è infondato alla luce dell’orientamento di questa Corte secondo cui «In tema di accertamento tributario, ai sensi dell'art. 42, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d'ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell'ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva e, cioè, da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, convertito nella l. n. 44 del 2012» (Cass. n. 22810 del 2015; conf. Cass. n. 5177 del 2020). 2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art.7 dello Statuto del contribuente e dell’art.42 d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., nella parte in cui non è stato annullato l’avviso per mancata indicazione della metodologia di accertamento, essendo insufficiente il riferimento all’art. 39 comma 1 d.P.R. n. 600/1973 che contempla diverse metodologie – l’accertamento analitico e l’accertamento analitico – induttivo - , con conseguente violazione del diritto di difesa del contribuente. 2.1. La censura è infondata, posto che è irrilevante la formale qualificazione della metodologia a fondamento dell’atto da parte dell’Amministrazione finanziaria, essendo essenziale invece che siano chiari i suoi presupposti di fatto e di diritto. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, non è necessaria l'indicazione delle «norme di riferimento», bastando che l'avviso indichi i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che permettano al contribuente di esercitare il proprio diritto difensivo (Cass. n. 9499 del 2017; Cass. n. 28968 del 2008; Cass. n. 3257 del 2002); d’altro canto, all’Amministrazione finanziaria è consentito impiegare sia il metodo di accertamento induttivo che quello analitico- induttivo contemporaneamente, ove consti una complessiva inattendibilità delle scritture contabili la quale, peraltro, non esclude che l’accertamento possa essere fondato anche su elementi contabili (Cass. n.7626 del 2008; Cass. n. 27068 del 2006). 3. Con il terzo motivo il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art.7 Statuto del contribuente e dell’art.42 d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., nella parte in cui la CTR non ha annullato, per omessa motivazione, l’avviso impugnato che aveva malamente sintetizzato il PVC che non conteneva specifici accertamenti di irregolarità contabili. 3.1. Il motivo è, per un verso, inammissibile e, per altro verso, infondato. 3.2. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità e autosufficienza, denunciando genericamente carenze del PVC e acritico recepimento di questo da parte dell’Agenzia ma senza riportare puntualmente il contenuto dell’atto né offrire comunque elementi specifici in grado di circostanziare queste doglianze. 3.4. In ogni caso il motivo è infondato. Come osservato dalla stessa CTR, la motivazione per relationem con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell'esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell'Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l'Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (Cass. n. 32957 del 2018; Cass. n. 30560 del 2017; Cass. n. 21119 del 2011; Cass. n. 8183 del 2011); inoltre, non sussisteva alcun obbligo di allegazione del processo verbale di constatazione all’avviso di accertamento, trattandosi di atto già a conoscenza del contribuente (tra le tante, Cass. n. 28060 del 2017; Cass. n. 16976 del 2012). 4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.2697 c.c. sul mancato assolvimento dell’onere della prova da parte dell’Agenzia dalle entrate, laddove la CTR ha ritenuto provata l’omessa contabilizzazione di incassi «atteso che il contribuente non è riuscito a provare l’omesso pagamento della somma in questione», invertendo di fatto l’onere della prova e addossando sul contribuente un fatto negativo, quando deve essere l’Amministrazione a dimostrare che il pagamento vi era stato. 4.1. Il motivo è inammissibile, perché non coglie la ratio decidendi, ed è comunque infondato. 4.2. La decisione non si fonda sulla mancata prova di un fatto negativo ma poggia sull’assenza degli adempimenti che fiscalmente fanno ritenere che non vi è materiale imponibile tassabile. Infatti, l’emissione di fattura per operazioni imponibili fa sorgere l’obbligazione tributaria di versamento della relativa IVA, ex art. 6, comma 5, d.P.R. 26.10.1972, n. 633 e l’eventuale mancato pagamento della fattura emessa, per portare all’annullamento dell’obbligazione tributaria di versamento dell’IVA, deve essere contabilizzato mediante nota di credito, ex art. 26, d.P.R. n. 633/1972, la cui emissione non è stata dedotta né tantomeno provata. Ai fini delle imposte dirette, invece, il venir meno dell’imponibile fatturato deve essere registrato come sopravvenienza passiva, ex art. 101 (ex art. 66), d.P.R. 22.12.1986, n. 917 (Cass. n. 7313 del 2003) ma non è stato indicato neppure questo adempimento. 5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.86 comma 2 TUIR e dell’art.2 d.P.R. n.460/1996 nella parte in cui non si è annullato il rilievo sulla plusvalenza da cessione di azienda nonché deduce, in relazione all’art.360 comma 1 n. 5 c.p.c., omesso esame circa un fatto decisivo con riferimento alla plusvalenza per cessione di azienda, erroneamente calcolata sulla base di quanto definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro, anziché sulla base del corrispettivo conseguito. 5.1. Il motivo è fondato con riguardo alla violazione di legge, mentre è inammissibile la censura sotto il paradigma del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non trattandosi di un fatto storico e ricorrendo una c.d. “doppia conforme” (v. § 9.2. e § 9.3.). 5.2. Va rammentato che la norma di interpretazione autentica di cui all'art. 5, comma 3, d.lgs. 14.9.2015, n. 147, avente efficacia retroattiva, esclude che l'Amministrazione finanziaria possa determinare, in via induttiva, la plusvalenza realizzata dalla cessione di immobili e di aziende solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro, ipotecaria o catastale, dovendo l'Ufficio individuare ulteriori indizi, gravi, precisi e concordanti, che supportino l'accertamento del maggior corrispettivo rispetto a quanto dichiarato dal contribuente, su cui grava la prova contraria (Cass. n. 12131 del 2019; Cass. n. 9513 del 2018; Cass. n. 19227 del 2017); in questo caso, invece, come riportato in sentenza, la plusvalenza accertata deriva dalla rettifica dall’atto ai fini dell’imposta di registro. 6. Con il sesto motivo il ricorrente denunzia, in relazione all’art.360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.32 d.P.R. n. 600/73 e dell’art.2967 c.c., perché la CTR non ha annullato la ripresa a tassazione dei prelevamenti di cui è stato indicato il beneficiario. 6.1. Il motivo è inammissibile, perché in realtà tenta di rimettere in discussione l’accertamento in fatto svolto dal giudice di merito che è incensurabile come tale nel giudizio di legittimità, ed è comunque infondato. 6.2. Il citato art. 32, n. 2), d.P.R. n. 600/1973, prevede che vengano posti come ricavi o compensi a base delle rettifiche ed accertamenti i prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei rapporti bancari, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili. Si pone così una presunzione relativa, di fonte legale, circa la corrispondenza fra versamenti e prelevamenti bancari, non risultanti dalle scritture contabili, e ricavi occultati, che determina in capo al contribuente un preciso ed analitico onere di prova contraria; quest’onere non può essere assolto solo attraverso il ricorso a dichiarazioni di terzi, non potendo queste ultime assurgere né a rango di prove esclusive della provenienza del reddito accertato, né essere idonee, di per sé, a fondare il convincimento del Giudice (Cass. n. 6405 del 2021; Cass. n. 22302 del 2022). Va altresì osservato che l’indicazione del beneficiario non può risolversi nella mera menzione di un nominativo, in quanto ciò permetterebbe facili elusioni della presunzione, ma deve essere accompagnata da una qualche documentazione che giustifichi la causa del prelevamento a favore del terzo o, comunque, da elementi che rendano credibili che tale prelevamento sia stato effettuato al di fuori dell’attività di impresa, in modo che sia fornita prova che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili (tra le altre, v. Cass. n. 15161 del 2020; n. 16896 del 2014). 6.3. Incombeva, quindi, sul ricorrente allegare di aver superato la presunzione attraverso la dimostrazione in modo analitico dell'estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili (Cass. n. 35258 del 2021); solo in questa evenienza il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all'efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso contribuente, avuto riguardo ad ogni singola movimentazione e dandone conto in motivazione. Nel caso in esame, però, il motivo si sostanzia nella elencazione dei prelevamenti recuperati con indicazione di causali in gran parte generiche, mentre, come riferito in sentenza, il recupero ha riguardato solo i prelevamenti per i quali il ricorrente non è stato in grado di produrre idonea documentazione probatoria a supporto. 7. Con il settimo motivo il ricorrente deducenullità della sentenza per violazione dell’art.32 D.P.R. 600/1973 e art. 53 Cost. nella parte in cui non tiene conto degli eventuali costi per produrre il reddito. 7.1. Il motivo è fondato. 7.2. A seguito della sentenza della Corte cost. n. 10/2023, che ha operato un'interpretazione adeguatrice dell'art. 32, comma 1, n. 2), d.P.R. n. 600/1973, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi occulti, scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore può sempre opporre la prova presuntiva contraria, eccependo una incidenza percentuale forfettaria di costi di produzione, che vanno quindi detratti dall'ammontare dei maggiori ricavi presunti (Cass. n. 18653 del 2023; n. 6874 del 2023; v. anche n. 7122 del 2022). 8. Con l’ottavo motivo rileva nullità della sentenza, in relazione all’art.360 comma 1 n. 3 c.p.c., per violazione dell’art.36 d.lgs. n. 546/1992 e 115 c.p.c. avendo la CTR erroneamente ritenuti assorbiti una serie di motivi d’appello, riguardanti singole riprese. e mancato di esaminare i documenti prodotti e mai contestati dall’Ufficio, cosicché risulta un vizio di omessa motivazione che rende nulla la sentenza. 8.1. Il motivo è inammissibile in quanto l'assorbimento erroneamente dichiarato si traduce in una omessa pronunzia (Cass. n. 26520 del 2023; Cass n. 12193 del 2020), che deve essere censurata in sede di legittimità ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (Cass. n. 11459 del 2019). In questo caso il motivo si discosta dalle regole in materia secondo cui, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell'art.112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l'una o l'altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d'ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del "fatto processuale", intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all'onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un'autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi (Cass. n. 28072 del 2021). 9. Con i motivi dal nono al quindicesimo il ricorrente denunzia la sentenza impugnata, in relazione all’art.360 comma 1 n.5 c.p.c., per l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia e segnatamente: «non avere annullato la ripresa a tassazione dei versamenti relativi all’acquisto di vendita e di carburante Eni» (motivo 9); «non avere annullato la ripresa a tassazione dei versamenti relativi agli incassi del negozio di telefonia Tim» (motivo 10); «non avere annullato la ripresa a tassazione delle operazioni effettuate quale “anticipo socio”, “finanziamento a favore di Ipsale” (Rosa, Salvatore, Luca, Fortunato), “restituzione finanziamento Ipsale”» (motivo 11); «non avere annullato la ripresa a tassazione delle operazioni neutre» (motivo 12); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 90.000,00 relativo all’acquisto dell’appartamento in via Canfora 55 Catania» (motivo 13); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 515.000,00 relativo all’acquisto delle quote di Villa Parlapiano» (motivo 14); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 300,000,00 relativo all’acquisto di un immobile a Milano alla via Teuliè n.13» (motivo 15). 9.1. Questi motivi sono inammissibili. 9.2. La censura prevista dal novellato art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ossia di un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico- naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali, che ha costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) (Cass. n. 13024 del 2022; Cass. n. 14802 del 2017); non possono considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio (Cass. n. 10525 del 2022). 9.3. Va considerato, inoltre, che, secondo quanto previsto dall’art. 348 ter, comma 5, c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), è escluso che possa essere impugnata ex art. 360, n. 5, c.p.c. la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (c.d. “doppia conforme”), salvo che il ricorrente non dimostri che le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello sono tra loro diverse (Cass. n.5947 del 2023); la “doppia conforme”, peraltro, ricorre non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni sono fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo Giudice (Cass. n. 7724 del 2022). 9.4. In questo caso, da un lato, manca la precisa indicazione dei fatti storici decisivi che la CTR avrebbe omesso di esaminare, poiché le doglianze riguardano la valutazione di mezzi istruttori ovvero istanze difensive, e, dall’altro, il ricorrente non si è fatto carico di superare la preclusione derivante dalla c.d. “doppia conforme”. 10. Conclusivamente, accolti il quinto motivo nei limiti in motivazione e il settimo motivo, rigettati gli altri, la causa deve essere cassata di conseguenza con rinvio alla Corte di merito in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. accoglie il quinto motivo nei limiti in motivazione e il settimo motivo, rigettati gli altri, cassa di conseguenza la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 06/12/2023. Il Consigliere estensore Il Presidente GIOVANNI LA ROCCA ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1163 del 2022, proposto da An. Gh., titolare della ditta individuale Pu. di Gh. An., rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Puglia, in nome del presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ca. Pa. Ca., con domicilio eletto presso lo studio delegazione Regione Puglia in Roma, via (...); per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia sezione staccata di Lecce Sezione Terza n. 00913/2021, resa tra le parti, per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia: - della determina dirigenziale della Regione Puglia Dipartimento Agricoltura, Sviluppo Rurale ed Ambientale-Sezione Competitività delle Filiere Agroalimentari avente n° di protocollo r.puglia/AOO_155/PROT/09/12/2020/0015019 del 9/12/2020, notificata a mezzo p.e.c. in data 9/12/2020, con la quale la Regione Puglia non concede al ricorrente il contributo finanziario richiesto e previsto N. 00276/2021 REG.RIC. dall'Avviso pubblico per la presentazione delle domande di aiuto in favore degli operatori del settore florovivaistico DDS 156/2020; - della determinazione del Dirigente Sezione Competitività delle Filiere Agroalimentari della Regione Puglia 4.11.2020 n° 243 (SIAN CARI-19269.Codice CUP n. B34I20000670001.Aiuti in favore degli operatori del settore florovivaistico. Approvazione degli elenchi degli aventi diritto e non aventi diritto al contributo), pubblicata in data 26.11.2020 sul B.U.R. Puglia, n° 160, con la quale vengono fatte proprie le determinazioni richiamate con l'approvazione dell'elenco degli aventi diritto e non aventi diritto al contributo di che trattasi e viene escluso il ricorrente dal contributo finanziario richiesto; - nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale ancorché non conosciuto; e per la declaratoria del diritto del ricorrente ad ottenere gli aiuti finanziari previsti dall'Avviso pubblico nella misura richiesta Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Regione Puglia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Oreste Mario Caputo; udita, per parte appellata, l'avv. Ca. Pa. Ca.; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.È appellata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Lecce Sezione Terza, n. 00913/2021, di reiezione del ricorso proposto dal sig. An. Gh. avverso il diniego (del 9/12/2020) opposto dalla Regione Puglia-Dipartimento Agricoltura, Sviluppo Rurale ed Ambientale-Sezione Competitività delle Filiere all'istanza di contributo finanziario di cui dall'Avviso pubblico di aiuto in favore degli operatori del settore florovivaistico DDS 156/2020. 1.1. Cumulativamente, il ricorrente ha impugnato gli atti connessi del procedimento di sovvenzione. 2. L'appellante, proprietario d'azienda florovivaistica, rientrante nel codice ATECO A001192 (coltivazione di fiori in colture protette), ha presentato domanda di aiuti ai sensi dell'avviso pubblico per la presentazione delle domande di aiuto in favore degli operatori del settore florovivaistico ai sensi del d.l. 19.05.2020 n. 34 (c.d. Decreto Rilancio). L'art. 3 del suddetto avviso individua i soggetti beneficiari tra "gli operatori economici ovvero a PMI del settore primario, comparto florovivaistico, aventi sede legale ed operativa all'interno del territorio regionale pugliese, che hanno distrutto i materiali vegetali per effetto delle misure per il contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica nel periodo compreso tra il 9 marzo (DPCM 8.3.2020) e il 18 maggio 2020 (DPCM 15.5.2020) e la cui attività è contraddistinta dai codici ATECO: A0119 Floricoltura e coltivazione di altre colture non permanenti; A01191 Coltivazione di fiori in piena aria; A01192 Coltivazione di fiori in colture protette; A0128 Coltivazione di spezie, piante aromatiche e farmaceutiche; A0130 riproduzione di piante". Al successivo art. 4, con riferimento ai requisiti per l'accesso agli aiuti regionali veniva richiesto, tra l'altro, di "aver inviato regolare comunicazione di distruzione dei beni all'Agenzia Entrate territoriale e Comando Guardia di Finanza competente per territorio almeno 5 giorni prima della data prevista di distruzione della merce ai sensi art. 53 DPR 633/72 e s.m.i. nonché del dpr 10.11.1997 n. 441, completa di specie distrutte, quantità e costi, al netto di imposte, nel periodo compreso tra il 9/3/2020 e il 18/5/2020". 3. La Regione ha opposto il diniego impugnato poiché, dall'esame della documentazione trasmessa, ha riscontrato delle discrasie tra quanto dichiarato nel verbale della Guardia di Finanza e quanto dichiarato all'Agenzia delle Entrate, sia con riferimento alla specie vegetale distrutta che alla quantificazione del costo della distruzione. 4. Con ordinanza istruttoria il Tar ha ordinato alla Guardia di Finanza di Lecce, Compagnia di Gallipoli, "l'esibizione di una relazione di chiarimenti che precisi se l'espressione "Bulbi Lilium" riportata sub "Descrizione Merce" nei prospetti riepilogativi contenuti nel "processo verbale di operazioni compiute" del 17/04/2020 e del 05/05/2020 redatti dalla medesima Guardia di Finanza, Compagnia di Gallipoli". All'esito del deposito della relazione, previa comunicazione alle parti ex art. 73 c.p.a., richiamando quanto dedotto dalla Regione resistente sulla eventuale decurtazione "finanziaria in misura proporzionale al contributo spettante a ciascun beneficiario", il Tar ha dichiarato il ricorso inammissibile per omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati. 5. Appella la sentenza il sig. An. Gh.. Resiste la Regione Puglia. 7. Alla pubblica udienza del 9 maggio 2024 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione. 8. Con il primo motivo l'appellante censura la pronuncia gravata nel punto in cui il ha dichiarato inammissibile il ricorso. L'appellante sottolinea che il ricorso di primo grado cumula una molteplicità di domande: d'annullamento della determinazione dirigenziale espressamente riferita alla sua posizione; d'annullamento del provvedimento dirigenziale di approvazione dell'elenco degli ammessi; e, da ultimo, d'accertamento e/o declaratoria del diritto al beneficio richiesto. Sicché la declaratoria d'inammissibile il ricorso, ex art. 41 c.p.a., della domanda d'annullamento - per difetto di regolarità del contraddittorio stante l'omessa notifica ad almeno ad almeno un controinteressato per l'appellante - non s'estenderebbe alla domanda d'accertamento del diritto al contributo. Né, ad avviso del ricorrente, i beneficiari del contributo, collocati in posizione utile della graduatoria finale, possiederebbero la qualifica di controinteressati sostanziali. In aggiunta, l'appellante censura l'affermazione contenuta nella sentenza appellata che già in sede di avviso sussistevano tutti gli elementi per poter valutare la sussistenza dell'obbligo di notifica ai controinteressati. Secondo la censura in esame nella determinazione n. 243/2020 l'unico aspetto chiarito dalla Regione sarebbe consistito nel fatto che l'ammontare complessivo del contributo liquidabile corrisponde a euro 3.731.411,42 che si procederà a ripartire in misura proporzionale al contributo spettante a ciascun beneficiario ai sensi del paragrafo 9 dell'Avviso pubblico approvato con DDS 156/2020 8.1 Il motivo è infondato. Va precisato che le ditte ammesse a contributo sono tutte nominativamente indicate nel decreto dirigenziale di approvazione dell'elenco degli ammessi e, in caso d'accoglimento del gravame, ai sensi del par. 9 dell'Avviso Pubblico, si sarebbe dovuto procedere ad un'ulteriore decurtazione finanziaria di quanto ad essi spettante. Raggiunta la dotazione finanziaria prevista, l'accoglimento del ricorso in esame avrebbe comportato, quale atto dovuto, la decurtazione a discapito dei soggetti ammessi al contributo, che, di conseguenza, assumono la veste di controinteressati. Va data continuità all'indirizzo giurisprudenziale a mente del quale nel processo amministrativo la nozione di controinteressato al ricorso si fonda sulla simultanea sussistenza di due elementi: a) quello formale, rappresentato dalla contemplazione nominativa del soggetto nel provvedimento impugnato, tale da consentirne alla parte ricorrente l'agevole individuazione; b) quello sostanziale, derivante dall'esistenza in capo a tale soggetto di un interesse legittimo uguale e contrario a quello fatto valere attraverso l'azione impugnatoria, vale a dire di un interesse al mantenimento della situazione esistente (cfr., Cons. Stato, sez. V, 15 giugno 2022, n. 4891 Sicché, come ritenuto dai giudici di prime cure, il ricorso di primo grado avrebbe dovuto essere notificato ad almeno uno dei soggetti controinteressati, individuati nel provvedimento impugnato. Da cui la declaratoria, ai sensi dell'art. 41 c.p.a., d'inammissibilità del gravame, senza che residui, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, la cognizione della domanda d'accertamento del diritto al contributo cumulativamente proposta. Con gli atti impugnati è irritrattabilmente definita la schiera di coloro cui spetta il contributo nella quantificazione ivi stabilita: la tutela di mero accertamento, invocata dal ricorrente, sarebbe inutiliter data, o meglio non sarebbe corredata dal necessario presupposto processuale dell'interesse ad agire. 9. Con il secondo motivo l'appellante censura la pronuncia gravata nel punto in cui ha ritenuto insussistente l'errore scusabile e la rimessione in termini, sul rilievo che "non si verteva in materia di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto". Al contrario, secondo l'appellante, al momento della proposizione del ricorso e del successivo giudizio sussisterebbero condotte della p.a. riconducibili al concetto di ambiguità della condotta amministrativa. 9.1 Il motivo è infondato. Il rimedio dell'errore scusabile va riconosciuto e concesso con estremo rigore, entro limiti ben ristretti poiché il processo amministrativo, alla stregua dei criteri desumibili dagli artt. 3 e 24 Cost., è improntato al principio di perfetta simmetria delle posizioni delle parti in causa. In giurisprudenza è ribadito che "l'art. 37, c.p.a., va considerato norma di stretta interpretazione e la concessione del beneficio dell'errore scusabile è istituto eccezionale da applicarsi limitatamente alle ipotesi di: non intellegibilità delle norme di riferimento, orientamenti giurisprudenziali non univoci, attività macroscopicamente equivoche o contraddittore poste in essere dalla stessa amministrazione, caso fortuito e forza maggiore" (cfr., Cons. Stato, sez. III, 14 gennaio 2019, n. 345; Id., sez. II, 15 ottobre 2019, n. 7029; Id., sez. VII, 16 agosto 2023, n. 7767). Nel caso di specie non si ravvisano gli estremi per concedere il beneficio dell'errore scusabile, in quanto le ditte nei confronti delle quali il ricorso di primo grado andava notificato risultavano elencate nominativamente nel decreto d'approvazione della graduatoria, espressamente impugnato dal ricorrente. 10. Conclusivamente l'appello deve essere respinto. 11. Le spese del grado di giudizio, come liquidate in dispositivo seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna il sig. An. Gh. alla rifusione delle spese in favore della Regione Puglia liquidate complessivamente in 3000,00 (tremila) euro, oltre diritti ed accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Oreste Mario Caputo - Consigliere, Estensore Roberto Caponigro - Consigliere Thomas Mathà - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA Presidente ENRICO MANZON Consigliere GIOVANNI LA ROCCA Consigliere-Rel. LUNELLA CARADONNA Consigliere MARIA GIULIA PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Consigliere Oggetto: TRIBUTI ACCERTAMENTI BANCARI Ud.06/12/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 18120/2018 R.G. proposto da: FORNO ETTORE, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato DI PAOLA NUNZIO SANTI GIUSEPPE (DPLNZS67B25C351B); -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (ADS80224030587) che la rappresenta e difende; -controricorrente e ricorrente incidentale- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. PALERMO n. 5083/2017 depositata il 18/12/2017. Udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni La Rocca nella pubblica udienza del 6 dicembre 2023, Letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alberto Cardino, che ha concluso per l’accoglimento del primo e terzo motivo di ricorso, non essendo comparso nessuno per le altre parti. FATTI DI CAUSA 1. Secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, Ettore Forno, titolare di omonima ditta individuale esercente il commercio di prodotti di telefonia, ha impugnato l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate contenente la determinazione di maggiori ricavi e minori costi deducibili per il 2008 con conseguente recupero di imposte. 2. L'accertamento di maggiori ricavi era fondato, per la gran parte, su accertamenti bancari che il contribuente ha contestato osservando che l’Agenzia aveva acriticamente recepito le risultanze del PVC della Guardia di finanza senza svolgere alcun controllo e la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Enna ha accolto il ricorso, osservando che l’Ufficio non aveva approfondito le giustificazioni rese dal Forno in ordine alle movimentazioni bancarie contestate. 3. Il gravame erariale è stato accolto dalla Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Sicilia, la quale ha osservato che l’art. 32 d.P.R. n. 600/1973 in tema di accertamenti bancari pone una presunzione legale a favore dell’Amministrazione, cosicché incombe sul contribuente l’onere di giustificare i versamenti o dimostrare che i prelevamenti erano già stati considerati nella determinazione della base imponibile ovvero erano irrilevanti a quei fini, non essendo onere dell’Amministrazione “approfondire” le proprie indagini sulla base delle giustificazioni fornite dal contribuente. 4. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Forno fondato su cinque motivi. 5. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate che propone ricorso incidentale fondato su un motivo. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Preliminarmente deve esaminarsi l’eccezione di tardività del ricorso iniziale sollevata dall’Agenzia: notificato l’atto impugnato il 23.2.2012, il contribuente aveva proposto ricorso soltanto il 20.7.2012 confidando, secondo la controricorrente, nel termine di sospensione di gg. 90 di cui all’accertamento con adesione che era stato richiesto con chiari intenti dilatori in quanto l'istanza non conteneva alcuna proposta e il contribuente, invitato al contraddittorio, non si era presentato. 1.1. L'eccezione è infondata. 1.2. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che la mancata comparizione del contribuente alla data fissata per la definizione, in via amministrativa, della lite, sia essa giustificata o meno, non interrompe la sospensione del termine di novanta giorni per l'impugnazione dell'avviso di accertamento, in quanto detto comportamento non è equiparabile alla formale rinuncia all'istanza, né è idoneo a farne venir meno ab origine gli effetti (Cass. n. 27274 del 2019). L’effetto sospensivo del termine di impugnazione è automatico (Cass. n. 21096 del 2018) e non può dipendere da indagini sulla effettiva intenzione del contribuente di addivenire ad un accordo transattivo, pena l’intollerabile incertezza sulla operatività della sospensione e sul verificarsi della decadenza dall’impugnazione che, per loro stessa natura, debbono essere ancorate unicamente ad eventi oggettivi e immediatamente verificabili. 2. Passando al ricorso principale, con il primo motivoil contribuente deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 3 e 4, nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione in violazione degli artt. 36 e 61 d.lgs. n. 546/1992 in quanto la motivazione resa dalla CTR non dava conto della complessa articolazione delle controdeduzioni in appello. 3. Con il secondo motivodeduce, in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 3 e 4 c.p.c., nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione e omesso esame circa un fatto decisivo nella parte in cui la CTR non si è pronunciata sull’eccezione di inesistenza giuridica dell’avviso impugnato per carenza del potere dirigenziale del direttore firmatario, alla luce della sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale, e ciò in quanto «pare» che la nomina del Direttore Provinciale che aveva sottoscritto l’atto impugnato «rientrerebbe» tra quelle interessate dalla predetta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 8 comma 24 del d.l. n. 16/2012. 4. Con il terzo motivo deduce, in relazione agli artt. 360 comma 1 nn. 3 e 4, nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione, violazione e falsa applicazione dell’art. 32 d.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 51 del d.P.R. n. 633/1972, avendo la CTR accolto l’appello dell’Ufficio senza esaminare le giustificazioni che il contribuente aveva fornito in ordine alle movimentazioni bancarie contestate né precisare perché quelle giustificazioni, che il Giudice di prime cure aveva ritenuto «affidabili», erano state invece disattese in appello. 5. Con il quarto motivo deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 4 e 5 c.p.c., «nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione e omesso esame circa un fatto decisivo nella parte in cui si contesta l’acquiescenza parziale della sentenza per non aver l’Ufficio indicato la categoria di reddito cui ascrivere l’imponibile recuperato»: in sostanza, il ricorrente rileva che nel giudizio d’appello si era eccepita l’acquiescenza dell’Agenzia sul capo della sentenza di primo grado che aveva annullato l’accertamento perché non era stata indicata la categoria di reddito a cui ascrivere il rilevante imponibile recuperato, «certamente non correlabile all’attività economica esercitata», poiché l’appellante aveva contestato solo l’idoneità della documentazione prodotta a giustificare i movimenti bancari contestati; su tale eccezione, mai contestata dall’Ufficio, la CTR non si era pronunziata. 6. Con il quinto motivo deduce, in relazione agli artt. 360 comma 1 nn. 4 e 5 c.p.c., nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione e omesso esame di fatti decisivi riportati nei rilievi indicati nelle controdeduzioni (da pagg. 18 a pag. 74) e mai esaminati dalla CTR, così riassunti in ricorso: I) nullità dell’accertamento per insanabile difetto di motivazione, mancata indicazione della metodologia di accertamento (pagg. 18-21); II nullità dell’accertamento per aver omesso l’Ufficio qualsiasi controllo o confronto nei riguardi del contribuente (pagg. 21-22); III infondatezza dei rilievi relativi alla presunta inattendibilità della contabilità (pagg. 23-27); IV sulle indagini finanziarie (pagg. 27- 76). 7. Il primo motivo è infondato. 7.1. E’ noto chenon essendo più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi - che si convertono in violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale", di "motivazione apparente", di "manifesta ed irriducibile contraddittorietà" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata (Cass. n. 23940 del 2018; Cass. sez. un. 8053 del 2014), a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (v., ultimamente, anche Cass. n. 7090 del 2022). Questa Corte ha, altresì, precisato che «la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da "error in procedendo", quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Cass., sez. un., n. 22232 del 2016; conf. Cass. n. 9105 del 2017). 7.2. In questo caso la motivazione raggiunge il c.d. “minimo costituzionale” ed esprime chiaramente la sua ratio decidendi, fondata sull’inottemperanza da parte del contribuente all’onere di prova a suo carico, «per i versamenti e i prelevamenti non giustificati», al fine di superare la presunzione legale posta dall’art. 32 comma 2 cit. a favore dell’Amministrazione, la quale, prosegue la CTR, non è tenuta ad approfondire le giustificazioni rese dal contribuente in ordine alle movimentazioni contestate, come erroneamente ritenuto dai giudici di prime cure. 8. Il secondo motivo è inammissibile per difetto di specificità e autosufficienzaesprimendosi in maniera ipotetica e dubitativa sul fatto che la nomina del soggetto che aveva sottoscritto l’atto rientrasse tra quelle incise dalla pronunzia di incostituzionalità. 8.1. Il motivo, in ogni caso, è infondato nel merito alla luce di Cass. n. 22810 del 2015 secondo cui «In tema di accertamento tributario, ai sensi dell'art. 42, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d'ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell'ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva e, cioè, da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, convertito nella l. n. 44 del 2012» (conf. Cass. n. 5177 del 2020). 9. Il terzo motivo è inammissibile. 9.1. In tema di accertamenti bancari, grava sul contribuente l'onere di superare la presunzione di legge dimostrando in modo analitico l'estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili, in questo caso il Giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all'efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso contribuente, avuto riguardo ad ogni singola movimentazione e dandone conto in motivazione(Cass. n. 35258 del 2021). Tale preciso ed analitico onere della prova contraria non può essere assolto solo attraverso il ricorso a dichiarazioni di terzi, non potendo queste ultime assurgere né a rango di prove esclusive della provenienza del reddito accertato, né essere idonee, di per sé, a fondare il convincimento del Giudice (Cass. n. 6405 del 2021; Cass. n. 22302 del 2022); con riguardo ai prelevamenti, in particolare, non è sufficiente neppure la mera indicazione del nominativo dell’asserito beneficiario, in quanto ciò permetterebbe facili elusioni della presunzione, ma la deduzione deve essere accompagnata da una qualche documentazione che giustifichi la cagione del prelevamento a favore del terzo o, comunque, da elementi che rendano credibili che tale prelevamento sia stato effettuato al di fuori dell’attività di impresa, in modo da fornire la prova che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili (Cass. n. 16896 del 2014; Cass. n. 13035 del 2012; Cass. n. n. 25502 del 2011). 9.2. La denunzia dell’omessa verifica da parte del giudice di merito delle prove fornite dal contribuente, da svolgersi con riguardo ad ogni singola movimentazione e dandone conto in motivazione (Cass. n. 15161 del 2020; Cass. n. 16896 del 2014), presuppone quindi che il contribuente abbia dedotto in modo analitico l'estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili; in questo caso, in cui l’Agenzia ha chiarito che l’avviso impugnato aveva riguardato soltanto le movimentazioni bancarie su cui non si era data alcuna giustificazione o la giustificazione era sprovvista di idonea documentazione, il motivo difetta di autosufficienza; il ricorrente non ha allegato le analitiche giustificazioni e prove relative alle movimentazioni bancarie contestate, che il giudice di merito avrebbe dovuto verificare e valutare; la doglianza resta estremamente generica, manca di puntuali riferimenti alle deduzioni difensive e a tale carenza non può supplire il mero richiamo della sentenza di primo grado che aveva ritenuto «affidabili» le giustificazioni del contribuente. 10. Anche il quarto motivo è inammissibile e, in ogni caso, la questione proposta è infondata. 10.1. Da un lato, come già si è osservato, non ricorre nella sentenza impugnata un difetto assoluto di motivazione e, dall’altro, non è ravvisabile nel motivo l’omesso esame di un fatto decisivo denunciandosi una questione riguardante l’interpretazione e valutazione degli atti processuali (sul contenuto del “fatto decisivo”, v. par. 11.2); il motivo tende, piuttosto, all’esame di quella questione ma non si confronta con il principio, affermato da questa Corte, secondo cui la mancata impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza può dare luogo alla formazione del giudicato interno soltanto se le stesse siano configurabili come capi completamente autonomi, risolutivi di questioni controverse che, dotate di propria individualità ed autonomia, integrino una decisione del tutto indipendente, e non anche quando si tratti di mere argomentazioni, oppure della valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente agli altri, concorrano a formare un capo unico della decisione (Cass. n. 20951 del 2022; Cass. n. 40276 del 2021; Cass. n. 21566 del 2017; Cass. n. 4732 del 2012); in questo caso, la questione non costituisce autonoma ratio decidendi ma è uno dei profili cui deve estendersi, secondo i Giudici di primo grado, l’onere di prova in capo all’Agenzia che peraltro, denunziando «violazione degli artt. 32 del dpr 600 del 1973 e 51 del dpr 633 del 19872 in relazione alle indagini finanziarie» nonché «omessa carente ed erronea motivazione» (v. sentenza della CTR), ha aggredito in termini assai ampi la sentenza di primo grado, in modo da ricomprendere nel gravame anche quel profilo. 11. Il quinto motivo, infine, è inammissibile sotto svariati profili. 11.1. Anche in questo caso la doglianza presenta un difetto di autosufficienza in quanto non riporta i “fatti decisivi” il cui esame sarebbe stato omesso ma il contribuente si limita a rinviare alle sue corpose controdeduzioni difensive in appello (da pag. 18 a pag. 74 delle controdeduzioni), lasciando alla Corte il compito di ricercare ed individuare quegli elementi che, invece, era suo onere indicare in maniera puntuale. 11.2. Dalla riassuntiva esposizione, poi, si desume che l’omesso esame lamentato non riguarda tanto fatti storici decisivi quanto la valutazione di elementi probatori e la valutazione di singole doglianze e allegazioni difensive. La censura di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, deve riguardare un fatto storico, principale o secondario, ossia un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico- naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali, che ha costituito oggetto di discussione tra le parti e ha carattere decisivo (Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017), senza che possano considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio (ex multis, v. Cass. n. 10525 del 2022; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 5795 del 2017). 12. Con l’unico motivo di ricorso incidentale,l’Agenzia delle entrate ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. da parte della CTR che non si era pronunciata con riguardo a maggiori ricavi per euro 11.665,95, relativi a incassi documentati con scontrino fiscale su cui non era stata riportata l’annotazione “corrispettivo non pagato”. 12.1. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza mancando la puntuale indicazione della riproposizione del rilievo come motivo d’appello contro la sentenza di primo grado che aveva annullato per intero l’avviso di accertamento. La deduzione della violazione dell'art.112 c.p.c. in sede di legittimità postula che la parte abbia formulato la domanda o l'eccezione in modo autonomamente apprezzabile ed inequivoco e che la stessa sia stata puntualmente riportata nel ricorso per cassazione nei suoi esatti termini, con l'indicazione specifica dell'atto difensivo o del verbale di udienza in cui era stata proposta (Cass. n. 16899 del 2023; Cass. n. 29952 del 2022; Cass. n. 28184 del 2020); Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d'ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del "fatto processuale", intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all'onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un'autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi (Cass. n. 28072 del 2021). 13. Conclusivamente devono essere rigettati entrambi i ricorsi e la reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese. P.Q.M. rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; compensa le spese; Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, il 06/12/2023. Il Consigliere estensore Il Presidente GIOVANNI LA ROCCA ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7939 del 2023, proposto da Be. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati St. Vi., Ch. Ca., Vi. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ex Monopoli, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Be. It. S.r.l., non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 13004/2023 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ex Monopoli e di Ministero dell'Economia e delle Finanze e di Presidenza del Consiglio dei Ministri; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 febbraio 2024 il Cons. Sergio Zeuli e uditi per le parti gli avvocati St. Vi., Ch. Ca. e Vi. Ba. Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società ricorrente, in qualità di concessionaria della raccolta da scommesse relative a eventi sportivi di ogni genere, ha appellato la sentenza in epigrafe, con cui il Tar del Lazio - Sede di Roma- ha respinto il suo ricorso per l'annullamento della determinazione direttoriale prot. n. 10337/RU del 5 gennaio 2023, con cui l'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli aveva disposto l'annullamento, in autotutela, ai sensi della Legge 7 agosto 1990, n. 241, articolo 21 nonies, della Determinazione Direttoriale prot. n. 5721/RU dell'8 gennaio 2022 e delle note, trasmesse ai concessionari, di invito a effettuare i versamenti delle somme destinate ad alimentare il Fondo per il rilancio del sistema sportivo nazionale, calcolate in applicazione dei criteri esposti in detta Determinazione Direttoriale, nonché delle singole note con le quali la medesima Agenzia aveva comunicato le rinnovate quantificazioni degli importi aggiuntivi dovuti a titolo di versamento dell'importo dello 0,5 per cento della raccolta delle scommesse di cui all'art. 217, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (in Suppl. Ord. n. 21 alla Gazz. Uff., 19 maggio 2020, n. 128) convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, recante le Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19 (cd. DECRETO RILANCIO). In particolare, l'effetto lesivo per la società ricorrente derivava dal fatto di essere considerata soggetto passivo dell'imposta indiretta nella percentuale dello 0,5% sulle complessive entrate derivanti dalla raccolta delle scommesse per il periodo di riferimento, anziché fino alle sole soglie massime previste per il finanziamento del Fondo per il rilancio del sistema sportivo nazionale (40 milioni di euro per l'anno 2020 e 50 milioni di euro per l'anno 2021), come avrebbe invece potuto e dovuto evincersi dalla suddetta normativa legislativa. La controversia, quindi, è bene preliminarmente chiarirlo, non concerne il pagamento degli importi dovuti, per il periodo di riferimento, fino al raggiungimento dei suddetti limiti di stanziamento, necessari a coprire la spesa di costituzione e funzionamento del Fondo (importi tutti già interamente versati e dei quali la concessionaria non contesta la debenza), ma riguarda invece gli importi aggiuntivi richiesti in pagamento, calcolati sempre nella percentuale dello 0,5% per il periodo di riferimento, ma su tutte le complessive entrate provenienti dalla raccolta delle scommesse, a prescindere dal già avvenuto raggiungimento della soglia di finanziamento del Fondo pari ai già indicati 40 milioni di euro, massimi. 2. Il ricorso veniva affidato a plurime censure di violazione di legge e di eccesso di potere, tra cui, in particolare: a) la violazione dei limiti che la legge impone alla PA per l'esercizio del potere di autotutela ai sensi dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990); b) la lesione del principio del legittimo affidamento, avendo l'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (di seguito, l'Agenzia) aspettato più di due anni per ribaltare una prassi interpretativa che si era ormai consolidata circa l'interpretazione della normativa recata dall'art. 217, comma 2, decreto-legge n. 34/2020; c) la violazione delle garanzie procedimentali di cui agli artt. 7 e seguenti della legge n. 241 del 1990; d) il difetto di istruttoria e di motivazione; e) l'erronea interpretazione della succitata norma recata dall'art. 217, comma 2, decreto-legge n. 34/2020, il cui unico dichiarato scopo sarebbe, ad avviso della società ricorrente, quello di costituire e finanziare un fondo speciale salva-sport e non, invece, come preteso dall'Amministrazione, anche quello di introdurre un ulteriore prelievo erariale generale strumentale ad imprecisate esigenze di finanza pubblica slegate dal finanziamento del suddetto fondo; g) l'erronea individuazione della base imponibile del contributo dovuto, così come effettuata dalla impugnata determinazione direttoriale del 5 gennaio 2023, in quanto in contrasto con la base imponibile identificata dalla base legale di cui al citato art. 217. Il ricorso sollecitava, inoltre, in via subordinata, per il caso del mancato accoglimento delle doglianze così prospettate, il rinvio pregiudiziale interpretativo ai sensi dell'art. 267, TFUE, ovvero la rimessione in Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale ivi prospettata. 3. Il Tar del Lazio adito ha esaminato e respinto partitamente tutte le censure proposte, motivando anche in ordine alla insussistenza delle condizioni per adire le Corti superiori con le prospettate questioni pregiudiziali, tuttavia compensando le spese del giudizio. 4. La società ricorrente ha riproposto tutti gli originari motivi di ricorso di primo grado, articolandoli quali specifiche censure contro i capi della sentenza gravata ai sensi dell'art. 101, c.p.a., così sostanzialmente devolvendo alla odierna cognizione tutta l'originaria materia del contendere. 5. L'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e il Ministero dell'Economia e delle Finanze hanno resistito al gravame, insistendo ancora sulla legittimità del proprio operato e sulla conseguente necessità di confermare la sentenza di primo grado. 6. Con l'ordinanza cautelare n. 3515/2023, la Sezione ha ritenuto sussistenti le condizioni per sospendere l'esecutività della sentenza appellata, "anche avuto riguardo, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, sia all'interesse pubblico generale a che l'attività di riscossione sia esercitata entro un quadro di plausibile certezza, anche per evitare inutile dispendio di attività amministrativa nel caso si dovesse far poi luogo alle restituzioni, sia alla tutela dell'attività impresa, attesa l'ingente entità delle somme richieste e l'impatto che le stesse avrebbero sul bilancio delle società interessate". 7. La causa è stata discussa dalle parti ed è stata trattenuta in decisione dal Collegio alla odierna udienza. 8. Nel merito, ritiene il Collegio che debba essere esaminato con priorità logico-giuridica il motivo di appello, ripropositivo del corrispondente motivo di primo grado, che, se fondato, condurrebbe ad annullare gli atti impugnati con il massimo grado di satisfattività per la pretesa giuridica azionata dalla società ricorrente. Ad avviso del Collegio, per evidenti ragioni legate alla sussistenza stessa del presupposto legale impositivo, la questione giuridica principale è quella se, al di là della asserita mancata osservanza delle garanzie procedimentali partecipative e della lamentata insussistenza delle condizioni, soprattutto temporali, per fare luogo all'autotutela amministrativa, sussista o meno, in radice, la base legale in virtù della quale l'Amministrazione finanziaria e, per essa, lo Stato, pretendono oggi dalle società ricorrente il pagamento dei suddetti importi aggiuntivi. Le tesi interpretative che si frappongono riposano sulla distinzione tra la posizione difesa dall'Avvocatura generale dello Stato e accolta dalla sentenza impugnata, secondo cui il limite massimo allo stanziamento riguarderebbe la sola parte di prelievo destinata ad alimentare il Fondo e non anche la misura massima del prelievo al quale sarebbero assoggettabili gli operatori economici del settore, e quella propugnata dalla società ricorrente, secondo cui il limite allo stanziamento del Fondo fungerebbe anche da limite implicito al prelievo, in virtù del legame teleologico impresso dalla decretazione d'urgenza al prelievo medesimo per il perseguimento della specifica finalità solidaristica consistente nel dotare il Fondo delle sole risorse necessarie per potere operare. 9. Tale essendo la questione di fondo controversa, ritiene il Collegio che il ragionamento logico-giuridico sul quale il primo giudice ha incentrato la reiezione dei ricorsi non possa condividersi, dovendosi, anzi, al contrario, ritenere che, tra le due frapposte opzioni ermeneutiche, quella che aderisce al dettato normativo secondo il principio di legalità e che risponde alla sottesa ratio legis, è la tesi propugnata dalla società ricorrente. Sono decisive in tal senso le considerazioni giuridiche ritraibili prima di tutto dal sistema normativo nazionale, e poi anche da quello euro-unitario, sulla base dei principi dei Trattati, così come costantemente interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. 10. Anzitutto occorre partire dal dato normativo interno. Come si è poc'anzi detto, la controversia che oppone la società ricorrente all'Amministrazione finanziaria dello Stato riguarda il calcolo dell'imposta introdotta dall'art. 217, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (in Suppl. Ord. n. 21 alla Gazz. Uff., 19 maggio 2020, n. 128) convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, recante le Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19 (cd. DECRETO RILANCIO). In particolare, detto articolo ha previsto che: "1. Al fine di far fronte alla crisi economica dei soggetti operanti nel settore sportivo determinatasi in ragione delle misure in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, è istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze il "Fondo per il rilancio del sistema sportivo nazionale" le cui risorse, come definite dal comma 2, sono trasferite al bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio dei ministri, per essere assegnate all'Ufficio per lo sport per l'adozione di misure di sostegno e di ripresa del movimento sportivo. 2. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e sino al 31 dicembre 2021, una quota pari allo 0,5 per cento del totale della raccolta da scommesse relative a eventi sportivi di ogni genere, anche in formato virtuale, effettuate in qualsiasi modo e su qualsiasi mezzo, sia on-line, sia tramite canali tradizionali, come determinata con cadenza quadrimestrale dall'ente incaricato dallo Stato, al netto della quota riferita all'imposta unica di cui al decreto legislativo 23 dicembre 1998, n. 504, viene versata all'entrata del bilancio dello Stato e resta acquisita all'erario. Il finanziamento del Fondo di cui al comma 1 è determinato nel limite massimo di 40 milioni di euro per l'anno 2020 e 50 milioni di euro per l'anno 2021. Qualora, negli anni 2020 e 2021, l'ammontare delle entrate corrispondenti alla percentuale di cui al presente comma sia inferiore alle somme iscritte nel Fondo ai sensi del precedente periodo, è corrispondentemente ridotta la quota di cui all'articolo 1, comma 630 della legge 30 dicembre 2018, n. 145. 3. Con decreto dell'Autorità delegata in materia di sport, di concerto con il Ministro dell'Economia e delle Finanze, da adottare entro 10 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono individuati i criteri di gestione del Fondo di cui ai commi precedenti. La norma è entrata in vigore lo stesso giorno della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ossia in data 19 maggio 2020. 11. Occorre poi prestare attenzione alle vicende amministrative che si sono susseguite in fase di prima applicazione. Con la determinazione n. 307276/RU dell'8 settembre 2020, l'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli aveva definito le modalità di calcolo e di applicazione dell'importo dello 0,5 per cento per le singole tipologie di scommessa, nonché i termini di versamento delle somme da corrispondere a cura dei concessionari, con cadenza quadrimestrale e pari alla somma degli importi calcolati mensilmente per ciascuna tipologia di gioco. In particolare, all'art. 6, aveva previsto che "Qualora prima del 31 dicembre di ciascun anno sia raggiunto il limite massimo, rispettivamente, di 40 milioni di euro per l'anno 2020 e 50 milioni di euro per l'anno 2021, il calcolo dell'importo è limitato al mese in cui detto limite è raggiunto e l'importo mensile è ricalcolato in misura proporzionale rispetto alla somma registrata in eccesso". Successivamente, con la circolare n. 12 del 12 marzo 2021, l'Agenzia, sulla base del limite di cui al citato articolo 6, aveva esplicitato le modalità di calcolo degli importi mensili dovuti per scommessa, disciplinando gli arrotondamenti, definendo il criterio per la "Determinazione dell'importo riferito al mese in cui è raggiunto il limite annuo", nonché la procedura da seguire nel caso di "Raggiungimento del limite annuo di cui all'articolo 6, qualora sia necessario integrare o ridurre l'importo calcolato", e fornendo gli "importi totali calcolati da ADM per il secondo e terzo quadrimestre 2020" per raggiungere il citato tetto massimo (relativo al 2020) di 40 mln di euro. L'elemento che caratterizzava e accomunava tutti i detti provvedimenti era l'affermazione implicita del principio del parallelismo tra l'entità del prelievo fiscale e il limite allo stanziamento del Fondo salva sport, nel senso cioè che il tetto massimo previsto per dotare il Fondo delle risorse necessarie per operare, fissato in 40 milioni di euro per l'anno 2020 e in 50 milioni di euro per l'anno 2021, fungeva, altresì, da limite implicito al prelievo di imposta, attraverso il precipuo meccanismo della riparametrazione proporzionale dell'importo mensile dovuto. In tal modo, la pretesa fiscale non aveva ad oggetto il pagamento dell'intera quota pari allo 0,5 per cento del totale della raccolta da scommesse, bensì, nell'ambito di detta quota, attraverso il ricalcolo mensile in misura proporzionale, il pagamento necessario per dotare il Fondo dello stanziamento previsto, con conseguente possibilità di registrare anche somme in eccesso. 12. Occorre considerare, infine, ciò che è accaduto immediatamente prima l'emanazione della impugnata determinazione n. 10337/RU del 5 gennaio 2023, recante "l'annullamento, in autotutela, ai sensi della Legge 7 agosto 1990, n. 241, articolo 21 nonies, della Determinazione Direttoriale prot. n. 5721/RU dell'8 gennaio 2022 e delle note, trasmesse ai concessionari, di invito a effettuare i versamenti delle somme destinate ad alimentare il Fondo per il rilancio del sistema sportivo nazionale, calcolate in applicazione dei criteri esposti in detta Determinazione Direttoriale". Invero la determinazione direttoriale alla quale si fa riferimento, da annullare in via di autotutela, riguardava, in realtà, una diversa vicenda svoltasi in relazione ad un altro contenzioso, insorto sempre tra taluni operatori del settore e l'Agenzia, e sempre collegato alle modalità di calcolo del prelievo di cui trattasi, ma questa volta nel settore specifico del cd. Betting Exchange, che poi è stato regolato proprio con la succitata determina n. 5721/RU dell'8 gennaio 2022. E' stato proprio da tale antefatto che ha preso le mosse il revirement interpretativo dell'Agenzia, la quale, trovatasi nella situazione di dovere ridefinire la nuova disciplina di calcolo per il Betting Exchange a seguito del giudicato amministrativo nel frattempo formatosi in senso ad essa sfavorevole, ha poi in effetti deciso di riverificare in senso complessivo la conformità a legge del proprio operato concernente le modalità di calcolo del prelievo ai sensi dell'art. 217, decreto-legge n. 34/2020. A seguito di interlocuzioni con la Ragioneria Generale dello Stato e la Corte dei conti - Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, l'Agenzia ha reinterpretato la summenzionata normativa fiscale e l'ha applicata, da allora in avanti, in senso diametralmente opposto rispetto al passato, ossia nel senso che il limite massimo di 40 milioni di euro per l'anno 2020 e di 50 milioni di euro per l'anno 2021 non dovesse riferirsi "alla misura massima delle somme dovute dai soggetti passivi del prelievo, bensì alla parte di prelievo destinata ad alimentare il "Fondo per il rilancio del sistema sportivo nazionale", con la conseguenza che i concessionari sono tenuti a versare per intero l'aliquota dello 0,5 per cento della raccolta, calcolata secondo le modalità espresse all'articolo 3 della nuova determina, senza più quindi la possibilità che l'importo mensile dovuto sia ricalcolato proporzionalmente al raggiungimento dei previsti limiti di stanziamento, come era invece stabilito dall'art. 6 della originaria determina n. 307276/RU dell'8 settembre 2020, disposizione, questa, difatti, non più riprodotta con l'impugnata determinazione del 5 gennaio 2023. 13. Sulla base di ciò, sussistono ad avviso del Collegio plurimi elementi, sia testuali, sia sistematici, tali per cui non devono nutrirsi dubbi circa il fatto che l'unica interpretazione corretta della disposizione recata dall'art. 217, decreto-legge n. 34/2020 sia quella che l'Amministrazione finanziaria ha seguito in fase di prima applicazione della norma, poi tuttavia dalla stessa abbandonata e sostituita da quella, opposta e qui impugnata, da ritenersi non conforme a legge, in quanto non rinveniente nel dato normativo la necessaria 'base legalè della pretesa impositiva. 14. L'art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale (cd. Preleggi), rubricato "Interpretazione della legge", prevede che "Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato". Nell'ordine, quindi, i canoni ermeneutici di cui l'interprete deve fare applicazione sono: a) l'interpretazione letterale palesata dal significato proprio delle parole; b) l'interpretazione sistematica delle parole secondo la connessione di esse; c) l'analogia iuris e l'analogia legis, per i casi simili o le materie analoghe; d) se il caso rimane ancora dubbio, i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato. 15. Sul piano testuale, il legislatore ha chiaramente enunciato la propria intenzione di introdurre misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19, con lo scopo cioè di bilanciare il sacrificio economico imposto a taluni operatori economici assoggettati ad una nuova forma di imposizione indiretta (nella specie, i concessionari della raccolta delle scommesse), con le superiori, generali e imperative esigenze di solidarietà economica e sociale, indispensabili non tanto per sostenere in generale l'economia, ma proprio per rilanciare specifici settori dell'economia gravemente pregiudicati a seguito delle misure restrittive e delle chiusure alle attività imposte dalla normativa di contrasto al COVID-19, tra cui quelle facenti capo ad associazioni sportive e dilettantistiche. Letteralmente, difatti, il primo comma del cit. art. 217 prevede che le risorse, come definite dal comma 2, sono trasferite al bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio dei ministri, per essere assegnate all'Ufficio per lo sport per l'adozione di misure di sostegno e di ripresa del movimento sportivo. Ancora sul piano testuale, va poi considerata la rubrica dell'articolo in commento, intitolata "Costituzione del "Fondo per il rilancio del sistema sportivo nazionale"", anche in questo caso stabilendo un sicuro vincolo funzionale tra la ragione del prelievo e la finalità perseguita, ossia non il perseguimento di generali e non meglio precisate ragioni di interesse pubblico, ma proprio la finalità specifica di mostrarsi solidali con il sistema sportivo nazionale, al cui rilancio è deputata la costituzione del Fondo. Sempre sul piano testuale, è pur vero che il secondo comma del medesimo art. 217 prevede che "(d)alla data di entrata in vigore del presente decreto e sino al 31 dicembre 2021, una quota pari allo 0,5 per cento del totale della raccolta da scommesse relative a eventi sportivi di ogni genere... al netto della quota riferita all'imposta unica di cui al decreto legislativo 23 dicembre 1998, n. 504, viene versata all'entrata del bilancio dello Stato e resta acquisita all'erario", ma tale espressione va messa in correlazione e (soprattutto) va letta in connessione con le previsioni recate dal primo comma e con il senso complessivo delle misure emergenziali introdotte dalla decretazione in via d'urgenza, così come poc'anzi illustrate, con la conseguenza che non può sostenersi che il limite massimo allo stanziamento riguardi la sola parte di prelievo destinata ad alimentare il fondo e non anche la misura massima del prelievo al quale sono assoggettati gli operatori economici del settore, dal momento che le risorse alle quali si fa riferimento nel primo comma per dotare il Fondo dei mezzi necessari per potere operare sono proprie quelle e solo quelle reperite secondo le modalità descritte dal comma 2 del medesimo art. 217, e che le finalità solidaristiche espressamente previste dalla norma sono solo quelle che riguardano l'adozione delle misure di sostegno e di ripresa del movimento sportivo, e non altre esigenze che pure la Difesa erariale ha prospettato come "finalità omologhe", con formula tuttavia non meglio precisata. 16. Sul piano sistematico e complessivo, quindi, deve affermarsi il principio di diritto secondo cui, seppure il legislatore non abbia fatto uso di espressioni letterali tali da esplicitare verbalmente il concetto che il limite di stanziamento del Fondo funziona anche quale limite al prelievo, è tuttavia evidente e incontrovertibile che il suddetto principio sia ricavabile sulla base della intentio legis, per come palesata nell'epigrafe che dà il titolo al decreto-legge; della ratio iuris perseguita, per come anch'essa resa chiara dalla rubrica dell'articolato normativo; e del necessario raccordo tra le previsioni recate dal primo e dal secondo comma, che non possono essere lette e interpretate in modo isolato e atomistico l'una dall'altra, ma che anzi impongono una lettura coordinata secondo i principi della logica giuridica. 17. Vi è poi una ulteriore considerazione da svolgere. La necessità di rilanciare il settore dello sport, e in particolare il mondo delle piccole associazioni sportive e dilettantistiche che vi operano, è stata una esigenza così sentita dallo Stato da indurlo a introdurre, nell'ultima parte del secondo comma del cit. 217, la previsione che "Qualora, negli anni 2020 e 2021, l'ammontare delle entrate corrispondenti alla percentuale di cui al presente comma sia inferiore alle somme iscritte nel Fondo ai sensi del precedente periodo, è corrispondentemente ridotta la quota di cui all'articolo 1, comma 630 della legge 30 dicembre 2018, n. 145". Questo evento, come si è già ampiamente chiarito, non si è verificato nel caso all'esame, originando difatti l'odierna controversia proprio dal fatto che le soglie di stanziamento del Fondo sono state ampiamente raggiunte. La considerazione della suddetta eventualità, tuttavia, è utile per comprendere sul piano esegetico, sulla base di un ragionamento logico controfattuale, cosa per l'appunto sarebbe accaduto se ciò si fosse verificato. E' evidente infatti, che laddove detto ammontare fosse stato inferiore, lo Stato avrebbe dovuto integrare i limiti di stanziamento previsti, operando la corrispondente riduzione della quota di cui all'articolo 1, comma 630 della legge 30 dicembre 2018, n. 145. Anche alla luce della conferma che, da detta previsione, si trae sulla complessiva filosofia dell'intervento normativo, perciò non si rinviene alcuna ragione di assoggettare i concessionari dello Stato ad uno sforzo di contribuzione per esigenze solidaristiche (va ribadito, dagli stessi non contestato nei limiti necessari al raggiungimento delle soglie di stanziamento del Fondo) maggiore di quello al quale si sottoporrebbe lo Stato stesso nel caso in cui le suddette soglie non venissero raggiunte, perché in questo ultimo caso è certo, per espressa previsione di legge, che la riduzione corrispondente della quota di cui all'articolo 1, comma 630 della legge 30 dicembre 2018, n. 145 opererebbe solo fino al raggiungimento delle soglie, e non oltre. Il che dimostra, se ve ne fosse bisogno, che l'unica lettura possibile della disposizione normativa contenuta all'art. 217, decreto-legge n. 34/2020, nel raccordo fra il primo e il secondo comma, è esclusivamente quella che riposa sul principio del parallelismo tra il prelievo e la dotazione del fondo, con la conseguenza che il limite allo stanziamento del Fondo rappresenta anche il necessario tetto implicito al prelievo. 18. Discendendo dalle considerazioni appena illustrate l'integrale e satisfattivo accoglimento delle ragioni giuridiche prospettate con gli odierni appelli, non sarebbe di per sé necessario, anzi per vero diventerebbe recessivo per mancanza del presupposto della rilevanza, l'esame delle questioni pregiudiziali interpretative (costituzionale ed europea) correttamente prospettate dalla società appellante in via solo subordinata, per il caso cioè in cui il Collegio fosse pervenuto alla decisione opposta. Peraltro, sullo sfondo di tali questioni prospettate, si staglia con chiarezza il corollario del c.d. generale "principio di conservazione" che permea di sé l'ordinamento giuridico, secondo cui tra due eventuali interpretazioni plausibili, il Giudice è tenuto a privilegiare quella che conduce all'affermazione che la norma applicata è immune da mende rispetto a quella che possa presentare profili di incompatibilità con altri valori dell'ordinamento. È noto che il detto principio è stato, negli anni, evocato a più riprese dal Giudice delle leggi (celebre, in proposito, il canone enunciato nella sentenza n. 356 del 1996, e poi più volte ripetuto a partire dalla sentenza n. 147 del 2008 e reso con la fortunata espressione "in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime -o una disposizione non può essere ritenuta costituzionalmente illegittima- perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali -e qualche giudice ritenga di darne-, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali". Lo stesso principio trova pure riscontro, seppur con minore frequenza, nella giurisprudenza della CGUE (Corte giustizia UE grande sezione, 8.11.2016, n. 554, consideranda 58 e 59 "58 In base, altresì, a una consolidata giurisprudenza, anche se le decisioni quadro, ai sensi dell'articolo 34, paragrafo 2, lettera b), UE, non possono avere efficacia diretta, il loro carattere vincolante comporta tuttavia in capo alle autorità nazionali, in particolare ai giudici nazionali, un obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale (v. sentenza del 5 settembre 2012, Lopes Da Silva Jorge, C-42/11, EU:C:2012:517, punto 53 e giurisprudenza ivi citata). 59 Nell'applicare il diritto interno, il giudice nazionale chiamato ad interpretare quest'ultimo è quindi tenuto a farlo, quanto più possibile, alla luce della lettera e dello scopo della decisione quadro al fine di conseguire il risultato da essa perseguito. Tale obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale è insito nel sistema del Trattato FUE, in quanto permette ai giudici nazionali di assicurare, nell'ambito delle rispettive competenze, la piena efficacia del diritto dell'Unione quando risolvono le controversie ad essi sottoposte (v. sentenza del 5 settembre 2012, Lopes Da Silva Jorge, C-42/11, EU:C:2012:517, punto 54 e giurisprudenza ivi citata).". In tale ottica, sebbene non ai fini del rinvio pregiudiziale, è comunque opportuno svolgere qualche considerazione finale sul piano della integrazione del nostro ordinamento giuridico in quello europeo, alla luce dei principi del Trattato, così come interpretati con indirizzo esegetico consolidato dalla Corte di Giustizia, a riprova dell'ormai raggiunto grado di maturità, chiarezza e adeguatezza, nel settore dei giochi e delle scommesse, dei principi interpretativi elaborati dal giudice europeo, cosicché ogni giudice nazionale può farne immediatamente applicazione, conoscendo il punto di vista della Corte in materia. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, devono considerarsi quali restrizioni alla libertà di stabilimento o alla libera prestazione dei servizi tutte le misure che vietino, ostacolino o rendano meno attraente l'esercizio delle libertà garantite dagli articoli 49 e 56 TFUE (sentenza del 22 gennaio 2015, Stanley International Betting e Stanleybet Malta, C-463/13, punto 45 e la giurisprudenza ivi citata; sentenza del 20 dicembre 2017, n. 322, punto 35). Diversamente dal caso esaminato dalla sentenza del 22 gennaio 2015, ma similmente a quello oggetto della sentenza del 20 dicembre 2017, anche nel caso qui trattato la normativa nazionale non ha imposto ai concessionari nuove condizioni di esercizio dell'attività (es. proroghe del contratto), bensì ha introdotto una nuova disciplina fiscale, sia pure limitata, in questo specifico caso, ad un biennio (anni 2020-2021). Sebbene la materia della imposizione fiscale rientri nella competenza degli Stati membri, una costante giurisprudenza della Corte afferma che questi ultimi devono esercitare tale competenza nel rispetto del diritto dell'Unione e, in particolare, delle libertà fondamentali garantite dal Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (sentenza dell'11 giugno 2015, Berlington Hungary e a., C-98/14, punto 34). Pur in assenza di una disciplina europea specifica di fonte derivata, si applicano, difatti, le norme del Trattato che tutelano sia la libertà di stabilimento (che importa l'accesso alle attività autonome e al loro esercizio ai sensi dell'art. 49), sia la libertà di prestazione di servizi (art. 56) che implica, tra l'altro, il libero svolgimento di attività di impresa, in quanto viene in rilievo un'attività economica di impresa. Al fine di stabilire quando tali libertà europee siano violate, occorre previamente accertare se la misura nazionale abbia determinato una restrizione delle suddette libertà . In secondo luogo, ove la restrizione effettivamente sussista, occorre stabilire se la stessa possa essere giustificata alla luce sia di limiti specifici espressamente consentiti dal Trattato, sia del limite generale costituito dai "motivi imperativi di interesse generale", che sono diversamente costruiti a seconda del settore di riferimento. Infine, se i suddetti motivi imperativi sussistono, occorre valutare se la normativa nazionale derogatoria rispetto alle libertà europee rispetti i seguenti altri principi generali europei: i) principio del pari trattamento, che vieta che la deroga nazionale crei discriminazione tra situazioni giuridiche nazionali ed europee; ii) principio di proporzionalità, che impone che la misura nazionale sia adeguata, idonea e proporzionata in senso stretto rispetto alla tutela dell'interesse pubblico nazionale, al fine di stabilire se il sacrificio dell'interesse pubblico europeo sia in concreto giustificato; iii) principio di affidamento dei privati incisi da una normativa eventualmente retroattiva, ovvero che pregiudichi posizioni consolidate; iv) principio di trasparenza e principio di concorrenza per il mercato, qualora sussista l'esigenza di scelta limitata dei soggetti privati che possano svolgere quella attività (Consiglio di Stato, Sezione IV, ordinanza n. 1071 del 31 gennaio 2023). Nel caso all'esame, come si è poc'anzi chiarito, mentre non occorre approfondire il primo aspetto, in quanto gli appelli vanno accolti, sicché per definizione nessuna lesione alle libertà garantite dal Trattato si prospetta, è invece utile ripercorrere l'orientamento della Corte sulla nozione di motivo imperativo di interesse generale. La disciplina dei giochi d'azzardo e delle scommesse rientra nei settori in cui sussistono tra gli Stati membri divergenze considerevoli di ordine morale, religioso e culturale. In assenza di un'armonizzazione in materia a livello dell'Unione, gli Stati membri godono di un ampio potere discrezionale per quanto riguarda la scelta del livello di tutela dei consumatori e dell'ordine sociale che essi considerano più appropriato (sentenza del 20 dicembre 2017, Global Starnet, C-322/16, punto 39 e la giurisprudenza ivi citata). Gli Stati membri sono, di conseguenza, liberi di fissare gli obiettivi della loro politica in materia di giochi d'azzardo e, eventualmente, di definire con precisione il livello di tutela perseguito. Tuttavia, le restrizioni che essi impongono devono soddisfare le condizioni che risultano dalla giurisprudenza della Corte per quanto riguarda, segnatamente, la loro giustificazione sulla base di motivi imperativi di interesse generale e la loro proporzionalità (sentenza del 20 dicembre 2017, Global Starnet, C-322/16, punto 40 e la giurisprudenza ivi citata). Pertanto, purché esse soddisfino quest'ultimo requisito, eventuali restrizioni delle attività di gioco d'azzardo possono essere giustificate in virtù di motivi imperativi di interesse generale, quali la tutela dei consumatori e la prevenzione delle frodi e dell'incitamento dei cittadini a spese eccessive legate al gioco (sentenza del 22 gennaio 2015, Stanley International Betting e Stanleybet Malta, C-463/13, punto 48 nonché la giurisprudenza ivi citata). Le considerazioni appena illustrate chiariscono quindi ulteriormente, rafforzandola, la conclusione interpretativa della normativa recata dal decreto-legge n. 34/2020, alla quale già si era pervenuti sulla base del diritto interno, ovverossia che, siccome detta normativa è stata introdotta in via di decretazione d'urgenza per far fronte all'emergenza economica insorta a seguito della chiusura e delle restrizioni alle attività economiche, con lo scopo di reperire le risorse necessarie per finanziare le misure di sostegno e di rilancio dell'economia e, per quanto interessa l'art. 217, del settore sportivo, il vincolo di scopo al prelievo non può che essere sorretto, sul piano della tenuta del sistema, dalla sussistenza di serie e gravi esigenze imperative di interesse generale, non riducibili alla generica ragion fiscale . Laddove, infatti, si negasse il principio dell'allineamento o corrispondenza fra entità del prelievo forzoso e limite massimo allo stanziamento, da intendersi dunque (anche) come limite (implicito) al prelievo medesimo, l'effetto pratico che si produrrebbe sarebbe quello di finanziare la spesa pubblica in generale, non essendo manifestate dalla norma ulteriori o diverse specifiche ragioni imperative di interesse pubblico da perseguire. A tal fine, del resto, non potrebbero giammai sopperire le non meglio precisate "finalità omologhe" pure prospettate dalla Difesa erariale nei propri scritti difensivi, sia perché testualmente non previste dalla norma, sia perché frutto, al limite, di una destinazione spontanea e di mero fatto da parte dello Stato in favore delle associazioni sportive e dilettantistiche, tale cioè da non consentire sia nella prospettiva del diritto europeo, sia in quella nazionale, la necessaria obiettività e misurabilità delle esigenze effettivamente volute e perseguite dal legislatore (secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, l'identificazione degli obiettivi effettivamente perseguiti dalle disposizioni nazionali in esame nel procedimento principale rientra comunque nella competenza del giudice del rinvio: in tal senso, sentenza del 28 gennaio 2016, Laezza, C-375/14, punto 35). 19. In definitiva, l'appello, così come in epigrafe proposto, va accolto per le considerazioni assorbenti e integralmente satisfattorie prima declinate (il che consente di prescindere dalla disamina delle ulteriori censure articolate) e, in riforma dell'impugnata sentenza, va di conseguenza accolto il ricorso di primo grado e così annullati gli atti impugnati. 20. Le spese del doppio grado di giudizio possono compensarsi tenuto conto della parziale novità e complessità delle questioni esaminate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, di conseguenza, in riforma dell'impugnata sentenza, accoglie il ricorso di primo grado e annulla gli atti impugnati. Compensa le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Rosaria Maria Castorina - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6902 del 2023, proposto da -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Torino, via (...); contro -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante, non costituito in giudizio; Ministero dell'Istruzione e del Merito, -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti -OMISSIS-, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte Sezione Seconda n. -OMISSIS-, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni intimate; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024 il Cons. Marco Morgantini e udito per la parte appellante l'Avv. An. Ve.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue; FATTO e DIRITTO 1. L'appellante ha sostenuto l'esame di Stato nel secondo ciclo di istruzione per l'anno scolastico 2020/21, per il conseguimento del diploma di maturità classica presso -OMISSIS-, ottenendo un voto pari a 93/100 così composto: - 55 punti per il credito scolastico; - 37 punti per il colloquio finale; - 1 punto per il punteggio integrativo di cui all'art. 18, co. 5, d.lgs. 62/2017 e all'art. 16, co. 8, lett. b), dell'ordinanza del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (O.M.) n. 53/2021, in relazione al criterio - stilato dalla sottocommissione d'esame il 14 giugno 2021 - "per un'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano sia in lingua straniera". Con la sentenza appellata è stato respinto il ricorso proposto avverso la mancata attribuzione di ulteriori 3 punti integrativi e il mancato conseguimento di un voto complessivo pari a 96/100. La motivazione della sentenza appellata fa riferimento alle seguenti circostanze. La ricorrente ha impugnato l'esito dell'esame di Stato per vari profili di violazione di legge ed eccesso di potere, sostenendo che la sottocommissione d'esame si sia immotivatamente discostata dai criteri da essa stessa fissati, con il verbale della riunione del 14 giugno 2021, per l'attribuzione del punteggio integrativo. La candidata, avendo conseguito una valutazione pari a 37 punti nel colloquio finale, avrebbe dovuto ottenere - oltre al punto assegnatole per l'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano sia in lingua straniera - i seguenti punteggi premiali: - 1 punto per una valutazione alta del colloquio (pari, cioè, al range di voti tra 35 e 37); - 1 punto per un elaborato (che ciascun candidato doveva redigere e discutere all'inizio del colloquio) di elevata qualità ; - 1 punto per una conduzione globale del colloquio di elevata qualità . Il Tar ha osservato che il punteggio integrativo attribuibile ai candidati all'esame di Stato è previsto dall'art. 18, co. 5, d.lgs. 62/2017, in forza del quale "la commissione d'esame può motivatamente integrare il punteggio fino a un massimo di cinque punti ove il candidato abbia ottenuto un credito scolastico di almeno trenta punti e un risultato complessivo nelle prove d'esame pari almeno a cinquanta punti". Per l'esame di Stato relativo all'anno scolastico 2020/21, l'O.M. n. 53/2021, all'art. 16, co. 8, lett. b), chiarisce che, in sede di riunione preliminare, la sottocommissione definisce "i criteri per l'eventuale attribuzione del punteggio integrativo, fino a un massimo di cinque punti per i candidati che abbiano conseguito un credito scolastico di almeno cinquanta punti e un risultato nella prova di esame pari almeno a trenta punti". Nel caso di specie, la sottocommissione d'esame, nella riunione preliminare del 14 giugno 2021, ha fissato i seguenti criteri per l'attribuzione del punteggio integrativo: "1) 2 punti per una valutazione altissima (p. 38-40) del colloquio; 2) 1 punto per una valutazione alta (p. 35-37) del colloquio; 3) 1 punto per un'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano che in lingua straniera; 4) 1 punto per un elaborato di elevata qualità ; 5) 1 punto per una conduzione globale del colloquio di elevata qualità ". Dagli artt. 18, co. 5, d.lgs. 62/2017 e 16, co. 8, lett. b), O.M. n. 53/2021 emerge che il punteggio integrativo è una votazione premiale di natura prettamente eventuale e, dovendo essere adeguatamente motivata dalla commissione, con portata eccezionale. In altri termini, la regola è la mancata spettanza del punteggio integrativo, mentre il suo riconoscimento costituisce un'eccezionale facoltà attribuita alla commissione in relazione a speciali qualità dimostrate dal candidato durante il corso di studi o all'esame finale. Ne consegue, secondo il Tar, che la decisione di non assegnare in tutto o in parte il punteggio integrativo non deve essere motivata, la motivazione essendo richiesta solamente se la commissione decide di premiare lo studente. Legittimamente, dunque, la sottocommissione ha illustrato la ragione per cui ha assegnato alla ricorrente 1 punto per la fluidità e la correttezza espressiva sia in italiano che in lingua straniera, mentre non era tenuta a giustificare la mancata attribuzione di ulteriori punti premiali. Il Tar ha ritenuto che, avuto riguardo al carattere premiale ed eccezionale del punteggio integrativo, non può ritenersi che l'attribuzione di 37 punti per il colloquio finale imponesse altresì di assegnare alla ricorrente 1 punto "per una valutazione alta (p. 35-37) del colloquio". Non può esservi alcun automatismo tra il voto del colloquio e l'assegnazione del punteggio integrativo, perché altrimenti esso perderebbe la sua funzione premiale e si tramuterebbe in uno strumento di livellamento al rialzo dei voti dell'esame. Né può sostenersi che la sottocommissione si fosse autovincolata in tal senso, inserendo la valutazione alta del colloquio tra i criteri per l'attribuzione del punteggio integrativo. La valutazione del colloquio è, per l'appunto, solo un criterio a cui ispirarsi per il riconoscimento del punteggio integrativo, il quale rimane, però, eventuale. L'autovincolo insiste sull'elemento premiale, nel senso che la commissione non avrebbe potuto valorizzare criteri diversi da quelli precedentemente enucleati, e non anche sull'an dell'attribuzione del punteggio. Di riflesso, ha osservato il Tar, la commissione non era tenuta ad attribuire neppure gli ulteriori 2 punti "per un elaborato di elevata qualità " e "per una conduzione globale del colloquio di elevata qualità ", che la ricorrente pretende le venissero assegnati in via ulteriormente automatica, in ragione della votazione alta conseguita in sede di colloquio finale. Il Tar ha ritenuto inammissibili le impugnazioni proposte avverso: - il certificato d'esame, in quanto privo delle diciture "rilasciato ai fini dell'acquisizione d'ufficio" e "rilasciato solo per l'estero", imposte dalla normativa sulle certificazioni (primo atto di motivi aggiunti); - le relazioni predisposte dal presidente della sottocommissione e dalla coordinatrice didattica a seguito del ricorso, sia per invalidità derivata dai vizi censurati con il ricorso introduttivo, sia perché provenienti da singoli membri della commissione e dunque violativi del principio della collegialità della valutazione, sia perché contenenti indebite e, comunque, non condivisibili integrazioni postume della motivazione provvedimentale (primo atto di motivi aggiunti); - la relazione integrativa predisposta nel corso del giudizio dal presidente della sottocommissione, sia invalidità derivata, sia per difetto assoluto di attribuzioni in quanto redatta dopo lo scioglimento della commissione, sia perché contenente ulteriori integrazioni postume della motivazione provvedimentale (secondo e terzo atto di motivi aggiunti). Infatti il certificato d'esame e le relazioni istruttorie sono atti non provvedimentali, come tali non lesivi e, di conseguenza, insuscettibili di impugnazione. Il certificato si limita ad attestare l'esito dell'esame sostenuto dalla ricorrente, mentre le relazioni sono redatte dall'amministrazione all'unico fine di aiutare l'Avvocatura di Stato nella predisposizione della difesa. Né l'uno né gli altri producono effetti giuridici, tantomeno lesivi, per la ricorrente. Con il primo atto di motivi aggiunti al ricorso di primo grado, la ricorrente ha mosso all'esito dell'esame una nuova censura di eccesso di potere per disparità di trattamento, perché la sottocommissione avrebbe attribuito 2 punti premiali ad altra candidata "per una valutazione altissima (p. 38-40) del colloquio". Il Tar ha ritenuto tale doglianza è inammissibile perché priva del requisito della "distinzione", imposto dall'art. 40, co. 1, lett. d), cod. proc. amm., essendo stata formulata nel medesimo motivo incentrato sull'impugnazione delle relazioni istruttorie, che tra l'altro sono atti insuscettibili d'impugnazione, e non in apposita parte del gravame dedicata a tale elemento, di cui il motivo costituisce il nucleo essenziale e centrale. Il Tar ha anche ritenuto la medesima censura destituita di fondamento, perché l'esame di Stato non è una procedura comparativa, sicché le votazioni dei candidati non si influenzano reciprocamente. I punteggi integrativi sono assegnati in relazione alle specifiche qualità dei singoli esaminandi, senza alcuna comparazione tra gli stessi. Ne consegue che l'attribuzione di 2 punti premiali ad altra candidata, oltretutto per il diverso criterio relativo alla valutazione altissima del colloquio, non imponeva alla sottocommissione di riconoscere alla ricorrente 1 punto per la valutazione alta del colloquio. 2. Parte appellante deduce i motivi di ricorso articolati in primo grado con l'atto introduttivo del giudizio e con i motivi aggiunti, al fine della loro devoluzione al Consiglio di Stato in sede d'appello e lamenta che avrebbero dovuto essere attribuiti alla candidata i 3 punti previsti a titolo di bonus che le avrebbero consentito di raggiungere il punteggio complessivo e finale di 96/100. Parte appellante fa genericamente riferimento (pagine 11 e 12 dell'appello) alla possibilità di riproporre in appello una censura non delibata dal giudice di primo grado. Tuttavia non specifica in modo adeguato quali sarebbero le censure non delibate dal giudice di primo grado. Ne consegue l'inammissibilità dell'appello nella sola parte in cui sono riproposti i motivi di censura proposti in primo grado senza che siano formulate specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, richieste invece dal primo comma dell'art. 101 del cod. del proc. amm. Infatti il principio di specificità dei motivi di impugnazione, posto dall'art. 101, comma 1, c.p.a., impone che sia formulata una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, non essendo sufficiente la mera riproposizione dei motivi contenuti nel ricorso introduttivo (Consiglio di Stato sez. II, 20 febbraio 2020, n. 1308). Il fatto che l'appello sia un mezzo di gravame ad effetto devolutivo, non esclude l'obbligo dell'appellante di indicare nell'atto le specifiche critiche rivolte alla sentenza impugnata e, inoltre, i motivi per i quali le conclusioni del primo giudice non sono condivisibili, non potendo il ricorso in appello limitarsi ad una generica riproposizione degli argomenti originariamente dedotti (così Consiglio di Stato VII n° 659 del 22 gennaio 2024). Il collegio esamina pertanto l'appello limitatamente alle specifiche censure formulate avverso la sentenza appellata, a prescindere dal superamento dei limiti dimensionali dell'appello. 3. Ciò premesso parte appellante contesta la sentenza appellata ove afferma (p.ti 5.3 e 5.4 sentenza impugnata) "(...) che il punteggio integrativo è una votazione premiale di natura prettamente eventuale e, dovendo essere adeguatamente motivata dalla commissione, con portata eccezionale" per poi stabilire, illogicamente, poche righe dopo, "La decisione di non assegnare in tutto o in parte il punteggio integrativo non deve essere motivata". Secondo parte appellante tale affermazione sarebbe smentita dalla giurisprudenza che fa riferimento all'inapplicabilità al caso di specie della regola della sufficienza del voto numerico -come pure sostenuta dalla amministrazione resistente - in presenza del vincolo esplicito posto dal citato comma 9, art. 18, o.m. n. 65 del 2022, in ordine alla motivazione specifica che deve accompagnare ogni deliberazione. 3 - bis. Le censure sono infondate. Parte appellante, oltre al punto assegnatole per l'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano sia in lingua straniera - chiede il riconoscimento dei seguenti ulteriori punteggi premiali: - 1 punto per una valutazione alta del colloquio (pari, cioè, al range di voti tra 35 e 37); - 1 punto per un elaborato (che ciascun candidato doveva redigere e discutere all'inizio del colloquio) di elevata qualità ; - 1 punto per una conduzione globale del colloquio di elevata qualità . Il Tar ha correttamente osservato che il punteggio integrativo attribuibile ai candidati all'esame di Stato è previsto dall'art. 18, co. 5, d.lgs. 62/2017, in forza del quale la commissione d'esame può motivatamente integrare il punteggio fino a un massimo di cinque punti ove il candidato abbia ottenuto un credito scolastico di almeno trenta punti e un risultato complessivo nelle prove d'esame pari almeno a cinquanta punti. Per l'esame di Stato relativo all'anno scolastico 2020/21, l'O.M. n. 53/2021, all'art. 16, co. 8, lett. b), chiarisce che, in sede di riunione preliminare, la sottocommissione definisce i criteri per l'eventuale attribuzione del punteggio integrativo, fino a un massimo di cinque punti per i candidati che abbiano conseguito un credito scolastico di almeno cinquanta punti e un risultato nella prova di esame pari almeno a trenta punti. Nel caso di specie, la sottocommissione d'esame, nella riunione preliminare del 14 giugno 2021, ha fissato i seguenti criteri per l'attribuzione del punteggio integrativo: 1) 2 punti per una valutazione altissima (p. 38-40) del colloquio; 2) 1 punto per una valutazione alta (p. 35-37) del colloquio; 3) 1 punto per un'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano che in lingua straniera; 4) 1 punto per un elaborato di elevata qualità ; 5) 1 punto per una conduzione globale del colloquio di elevata qualità . Dagli artt. 18, co. 5, d.lgs. 62/2017 e 16, co. 8, lett. b), O.M. n. 53/2021 emerge che il punteggio integrativo è una votazione premiale di natura prettamente eventuale e, dovendo essere adeguatamente motivata dalla commissione, con portata eccezionale. In altri termini, la regola è la mancata spettanza del punteggio integrativo, mentre il suo riconoscimento costituisce un'eccezionale facoltà attribuita alla commissione in relazione a speciali qualità dimostrate dal candidato durante il corso di studi o all'esame finale. Ne consegue che la decisione di non assegnare in tutto o in parte il punteggio integrativo non deve essere motivata, la motivazione essendo richiesta solamente se la commissione decide di premiare lo studente. Legittimamente, dunque, la sottocommissione ha illustrato la ragione per cui ha assegnato alla ricorrente 1 punto per la fluidità e la correttezza espressiva sia in italiano che in lingua straniera, mentre non era tenuta a giustificare la mancata attribuzione di ulteriori punti premiali. D'altro canto la stessa parte appellante ha ottenuto un punto premiale in relazione all'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano che in lingua straniera. Anche tale circostanza induce il collegio a ritenere che l'esame sia stato nel suo complesso adeguatamente valutato, anche con riferimento al punteggio premiale. 4. Secondo parte appellante sarebbe irragionevole, contraddittoria e perplessa la condotta dell'Amministrazione, e quindi il relativo capo di sentenza, nella misura in cui dapprima, in sede di valutazione del colloquio, attribuiva alla ricorrente la votazione di n. 37 punti, salvo poi non assegnare all'appellante il punto integrativo previsto dalla Commissione stessa per le "valutazioni" della prova orale comprese tra n. 35 e n. 37 punti. Secondo parte appellante le avrebbe dovuto essere attribuito n. 1 punto integrativo, ulteriore a quello ottenuto, in ragione della "valutazione alta" del colloquio, documentalmente acclarata dalla Sottocommissione, che ha deliberatamente attribuito n. 37 punti al colloquio svolto dall'Appellante. La sentenza appellata sarebbe errata ove afferma l'assenza di un automatismo tra il voto del colloquio e l'attribuzione del punteggio integrativo. A fronte di siffatta specifica previsione contenuta nei criteri predeterminati dalla commissione, verificata l'esistenza del presupposto (voto di esame ricompreso tra i limiti di 35 e 37) deve conseguire l'effetto predeterminato in sede di formulazione dei criteri di valutazione. 4 - bis. Le censure sono infondate. Infatti, avuto riguardo al carattere premiale ed eccezionale del punteggio integrativo, non può ritenersi che l'attribuzione di 37 punti per il colloquio finale imponesse altresì di assegnare alla ricorrente 1 punto "per una valutazione alta (p. 35-37) del colloquio". Non può esservi alcun automatismo tra il voto del colloquio e l'assegnazione del punteggio integrativo, perché altrimenti esso perderebbe la sua funzione premiale e si tramuterebbe in uno strumento di livellamento al rialzo dei voti dell'esame. Né può sostenersi che la sottocommissione si fosse autovincolata in tal senso, inserendo la valutazione alta del colloquio tra i criteri per l'attribuzione del punteggio integrativo. La valutazione del colloquio è, per l'appunto, solo un criterio a cui ispirarsi per il riconoscimento del punteggio integrativo, il quale rimane, però, eventuale. Il vincolo sussiste nel senso che la commissione non avrebbe potuto valorizzare criteri diversi da quelli enucleati, e non invece nel senso che avrebbe avuto l'obbligo di attribuire il punteggio. 5. Parte appellante censura la mancata attribuzione del punto integrativo che la sottocommissione stessa aveva stabilito di riconoscere per la "conduzione globale del colloquio di elevata qualità ". Secondo parte appellante l'attribuzione alla medesima di 37 punti (su un totale di 40) per la prova orale, contiene il corrispondente giudizio di eccellenza per "l'elevata qualità della conduzione globale del colloquio" della candidata, che pertanto avrebbe dovuto trovare riconoscimento anche nella gestione del punteggio integrativo. La stessa sottocommissione, nel riconoscere alla ricorrente l'unico punto integrativo per la fluidità e correttezza espressiva, qualifica "elevata" la competenza linguistica valorizzata in sede di esame orale con una valutazione "altissima", ossia con il voto massimo a disposizione della Sottocommissione (5/5) ad avviso della quale la ricorrente "si esprime con ricchezza e piena padronanza lessicale e semantica, anche in riferimento al linguaggio tecnico e/o di settore". Se ne dovrebbe desumere che la Sottocommissione avrebbe qualificato "elevata" la competenza valorizzata in sede di esame orale con una valutazione "altissima" (sub criterio riferito alla "ricchezza e padronanza lessicale e semantica" per la quale è stato attribuito il punteggio di "5/5"). 5 - bis. La censura è inammissibile perché non contiene specifica censura nei confronti della sentenza appellata. La censura è altresì infondata. Infatti non può esservi alcun automatismo tra il voto del colloquio e l'assegnazione del punteggio integrativo, perché altrimenti il punteggio integrativo perderebbe la sua funzione premiale e si tramuterebbe in uno strumento di livellamento al rialzo dei voti dell'esame. Né può sostenersi che la sottocommissione si fosse autovincolata in tal senso, inserendo la valutazione alta del colloquio tra i criteri per l'attribuzione del punteggio integrativo. La valutazione del colloquio è, per l'appunto, solo un criterio a cui ispirarsi per il riconoscimento del punteggio integrativo, il quale rimane, però, eventuale. Il vincolo sussiste nel senso che la commissione non avrebbe potuto valorizzare criteri diversi da quelli enucleati, e non invece nel senso che avrebbe avuto l'obbligo di attribuire il punteggio. Né, come vorrebbe invece parte appellante, doveva essere riconosciuto il punteggio integrativo per la conduzione globale del colloquio di elevata qualità per avere ottenuto il diverso punteggio premiale integrativo per la fluidità e correttezza espressiva. 6. Parte appellante lamenta che la sentenza appellata non avrebbe affrontato la questione relativa alla mancata attribuzione del punto che la sottocommissione stessa aveva stabilito di riconoscere ai candidati che avessero presentato "un elaborato di elevata qualità ", come previsto dal criterio n. 5 dell'elenco di cui al verbale n. 2 delle Sottocommissioni. Fa riferimento alla circostanza che la Sottocommissione aveva elaborato il criterio per cui si deve considerare elevata" la "qualità " dell'elaborato a prescindere dalla valutazione e dal punteggio ottenuti per il colloquio. 6 - bis. La censura è inammissibile perché non contiene specifica censura nei confronti della sentenza appellata che ha motivato sul punto. La censura è inoltre infondata. La decisione di non assegnare in tutto o in parte il punteggio integrativo non deve essere motivata, la motivazione essendo richiesta solamente se la commissione decide di premiare lo studente. La commissione non era tenuta ad attribuire gli ulteriori 2 punti per un elaborato di elevata qualità . Il vincolo sussiste nel senso che la commissione non avrebbe potuto valorizzare criteri diversi da quelli enucleati, e non invece nel senso che avrebbe avuto l'obbligo di attribuire il punteggio. 7. Parte appellante ripropone i primi motivi aggiunti di ricorso con cui si è contestato nel giudizio di primo grado, oltre al certificato d'esame, la relazione a firma della -OMISSIS-e la relazione a firma del Presidente della Commissione d'esame (nonché il verbale n. 13 relativo all'attribuzione del voto finale, integrato dei punteggi riconosciuti agli altri candidati, se interpretato come vorrebbero le gravate relazioni) poiché costituirebbero un'inammissibile e illegittima integrazione postuma della motivazione. Parte appellante, con riferimento al certificato d'esame, lamenta che la sentenza gravata nell'assumere l'inammissibilità della censura, sarebbe viziata giacché il certificato lederebbe la sfera giuridica dell'appellante. 7 - bis. Le censure sono inammissibili perché non contengono specifiche censure avverso la sentenza appellata e per carenza d'interesse oltre che infondate. Il certificato d'esame e le relazioni istruttorie sono atti non provvedimentali, come tali non lesivi e, di conseguenza, insuscettibili di impugnazione. Il certificato si limita ad attestare l'esito dell'esame sostenuto dalla ricorrente, mentre le relazioni sono redatte dall'amministrazione all'unico fine di aiutare l'Avvocatura di Stato nella predisposizione della difesa. Né l'uno né gli altri producono effetti giuridici, tantomeno lesivi, per l'appellante. Il collegio osserva altresì che parte appellante non ha provato la lesione ed in particolare non ha provato che il certificato abbia un contenuto falso con riferimento alla propria sfera giuridica. Parte appellante, riproponendo i primi motivi aggiunti del ricorso di primo grado ha formulato censura di eccesso di potere per disparità di trattamento, perché la sottocommissione avrebbe attribuito 2 punti premiali ad altra candidata per una valutazione altissima (punteggio tra 38 e 40) del colloquio. La censura è anche infondata, perché l'esame di Stato non è una procedura comparativa, sicché le votazioni dei candidati non si influenzano reciprocamente. I punteggi integrativi sono assegnati in relazione alle specifiche qualità dei singoli esaminandi, senza alcuna comparazione tra gli stessi. La circostanza secondo cui l'esame di Stato non è una procedura comparativa, è del resto condivisa dalla stessa appellante a pagina 32 dell'appello. 8. Parte appellante ripropone i secondi motivi aggiunti proposti in primo grado, aventi ad oggetto la relazione istruttoria relativa al ricorso al TAR a a firma del Presidente della Commissione d'esame e relativi allegati. 8 - bis. Le censure sono inammissibili perché non contengono specifiche censure verso la sentenza appellata e perché non sussiste l'interesse, trattandosi di documenti a supporto della difesa erariale e non di provvedimenti. 9. Parte appellante formula istanza istruttoria per l'acquisizione in giudizio degli atti del procedimento gravato, nonché per l'esibizione dell'originale della griglia di valutazione della prova orale, istanza già respinta nel giudizio di primo grado. 9 - bis. Il collegio respinge l'istanza istruttoria, essendo sufficiente il quadro probatorio esistente ai fini della decisione. In conclusione l'appello deve essere respinto. Le spese dell'appello possono essere compensate, essendosi l'Amministrazione costituita in appello solo formalmente. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese dell'appello compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Vista la richiesta dell'interessato e ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, comma 1, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, incarica la Segreteria di precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, l'indicazione delle sole generalità della parte appellante. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere, Estensore Laura Marzano - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto LUCIO NAPOLITANO Presidente LUCIANO CIAFARDINI Consigliere RICCARDO ROSETTI Consigliere UP – 09/05/2024 FEDERICO LUME Consigliere ROSANNA ANGARANO Consigliere rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 28141/2016 R.G. proposto da: FARMA CARMINE PETRONE S.R.L. E FIN POSILLIPO S.P.A. rappresentate e difese dall’Avv. Michele di Fiore ed elettivamente domiciliate presso l’indirizzo pec di quest’ultimo micheledifiore@ avvocatinapoli.legalmail.it – ricorrenti – contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende, – controricorrente – IRAP IRES AVVISO ACCERTAMENTO 2 avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. CAMPANIA n. 6891/2016, depositata il 15 luglio 2016. udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 maggio 2024 dal Consigliere Rosanna Angarano; dato atto che il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto il rigetto dei primi tre motivi di ricorso e l’accoglimento del quarto. sentiti l’Avv. Michele Di Fiore per i ricorrenti e l’Avv. dello Stato Eva Ferretti per l’Agenzia delle entrate. FATTI DI CAUSA 1. La Farma Carmine Petrone s.r.l. e la Fin Posillipo s.p.a., nelle rispettive qualità di consolidata e consolidante, ricorrono nei confronti dell’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha rigettato l’appello delle contribuenti avverso la sentenza della C.t.p. di Napoli che, a propria volta, aveva rigettato il ricorso avverso l’avviso di accertamento con il quale, per l’anno di imposta 2008, l’Ufficio aveva recuperato a tassazione un maggiore imponibile. 2. L’Ufficio, con una prima ripresa, riteneva che gli importi erogati per liberalità alla associazione con personalità giuridica «Zia Agnesina», riconducibile alla famiglia Petrone, cui facevano pure capo la società erogante e la sua consolidante, non potessero essere dedotti ai sensi dell’art. 100, comma 2, lett. a) t.u.i.r., in quanto la beneficiaria, di fatto, non svolgeva, né aveva mai svolto, l’attività di assistenza sociale e sanitaria prevista nello Statuto.; con una seconda ripresa, riteneva non deducibili i costi di manutenzione sostenuti su un immobile di proprietà di terzi e detenuto in locazione dalla Farma Carmine Petrone s.r.l. RAGIONI DELLA DECISIONE 3 1. Con il primo motivo (§. 2) le società ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 101, comma 2, lett. a) t.u.i.r. Censurano la sentenza impugnata per aver negato la deducibilità delle erogazioni liberali in favore dell’Associazione «zia Agensina» sul presupposto che quest’ultima avesse utilizzato le somme ricevute per investimenti in strumenti finanziari ed in quanto la somma erogata non era stata effettivamente destinata all’attività solidale. Osservano che il reimpiego delle somme (per la parte eccedente il 12 per cento destinato all’attività solidaristica) in strumenti finanziari non può essere considerato esercizio di ulteriore attività in quanto funzionale a salvaguardarne il valore in attesa dell’utilizzo e valutabile come mera attività di gestione ed amministrazione del patrimonio, non idonea ad integrare un’attività commerciale. Aggiungono che l’utilizzo solo del 12 per cento delle liberalità per lo scopo solidaristico, pure accertato, è circostanza irrilevante in quanto la disposizione non prevede un termine, né l’impiego integrale dei contributi ricevuti. 2. Con il secondo motivo (§ 3) denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 36 d.gs. 29 dicembre 1992, n. 546 e la nullità della sentenza per motivazione apparente e, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 101, comma 2, lett. a) t.u.i.r. Criticano la sentenza impugnata per avere «implicitamente» aderito alla tesi dell’Ufficio secondo la quale le erogazioni ricevute dalla beneficiaria avrebbero dovuto essere impiegate «per intero e subito» e muovono due diverse censure. Con la prima assumono la carenza di motivazione perché resa in forma implicita. In via subordinata osservano che la norma richiamata non richiede un termine entro il quale il beneficiario deve impiegare i contributi ricevuti e non condiziona la deducibilità ad una valutazione 4 quantitativa del raggiungimento delle finalità istituzionali, occorrendo solo che il beneficiario svolga «esclusivamente» l’attività solidaristica; censurano, quindi, la sentenza impugnata per aver ritenuto non sufficiente l’impiego parziale (nella misura del 12 per cento dei contributi ricevuti) a soddisfare il requisito di cui all’art. 100 cit. 3. Con il terzo motivo (§ 4) denunciano in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. In premessa osservano che la statuizione con la quale la C.t.p. aveva affermato l’esistenza di una commistione di interessi tra erogante e beneficiaria ed aveva sostenuto che l’Associazione fosse stata utilizzata dalla famiglia Petrone, cui erano entrambe riconducibili, al fine di abusare del diritto alla deduzione degli oneri, andrebbe valutata alla stregua di obiter dictum; ciononostante, per l’ipotesi subordinata in cui, invece, si ritenesse che detta affermazione fosse espressione di una seconda ratio decidendi, censurano la sentenza impugnata per non essersi pronunciata sul vizio di ultra-petizione, già proposto con l’appello, e motivato in ragione del fatto che si trattava di argomento non speso dall’Ufficio. 4. Con il quarto motivo (§ 5) denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 109, comma 5, t.u.i.r. Censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la deducibilità delle quote di ammortamento delle spese di ristrutturazione dell’immobile tratto in locazione sul presupposto che, beneficiandone solo il locatore, mancherebbe l’inerenza, la quale ultima, invece, presupporrebbe che i miglioramenti siano eseguiti su immobili destinati all’esercizio di un’attività destinata a produrre utili. Assumono che tale distinzione non è presente nell’art. 109 t.u.i.r. per il quale rileva il solo collegamento funzionale tra spese ed attività 5 che dà luogo ai ricavi e che, diversamente opinando, la norma dovrebbe ritenersi incostituzionale. 5. Va preliminarmente esaminata la prima censura di cui al secondo motivo in quanto con la medesima si denuncia un error in procedendo, ravvisato nella parvenza della motivazione per mero rinvio alla tesi dell’Ufficio; detto vizio, infatti, ove esistente, determinerebbe la nullità della sentenza. La censura è infondata. 5.1. La C.t.r. ha ritenuto, con riferimento alla prima ripresa fiscale, che non sussistevano le condizioni per la deduzione in quanto l’ente beneficiario, costituito nel 1998 dalla famiglia Petrone, non aveva effettivamente destinato le somme erogate all’attività sociale, stante le modalità di utilizzazione di queste ultime. Ha rilevato, infatti, che dal controllo effettuato era risultato che l’Associazione aveva investito la liquidità raccolta in strumenti finanziari; che le spese istituzionali coprivano meno del 12 per cento di quanto incassato nell’anno; che, data la commistione di interessi tra erogante e beneficiario, entrambi facenti capo alla famiglia Petrone, le scelte di gestione delle somme ricevute erano sostanzialmente riconducibili al soggetto erogante. Ha aggiunto che la ratio dell’agevolazione risiedeva nel principio di sussidiarietà e che la deduzione era vincolata all’affettivo beneficio sociale di natura solidaristica. 5.2. La ratio decidendi, così come sopra sintetizzata,sottesa alla statuizione di indeducibilità, non soltanto non risulta esposta in modo implicito, ma nemmeno riproducendo pedissequamente atti dell’Amministrazione. Per altro, questa Corte, a Sezioni Unite, ha anche chiarito che nel processo tributario, così come in quello civile, non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte, eventualmente senza nulla aggiungere ad esso, qualora le ragioni della decisione 6 siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato. Si è precisato, infatti, che una volta assunta la decisione ed individuate le ragioni, giuridiche e di fatto, che la sostengono, deve riconoscersi al giudice la possibilità di esporle nel modo che egli reputi più idoneo - purché in lingua italiana, succintamente ed in maniera chiara, univoca ed esaustiva - perciò anche (se lo ritiene) attraverso le «voci» dei soggetti che hanno partecipato al processo (parti, periti). E può farlo sia richiamando i relativi atti sia direttamente riportandoli (in tutto o in parte) nella sentenza. (Cass. Sez. U. 16/01/2015, n. 642). 6. Il primo motivo e la seconda censura di cui al secondo motivo sono infondati. 6.1. La deducibilità delle erogazioni liberali, ai sensi dell'art. 100, comma 2, lett. a), t.u.i.r., è condizionata, oltre a requisito soggettivo del beneficiario, che deve essere una persona giudica, anche al requisito oggettivo dell’attività svolta da quest’ultimo il quale deve perseguire «esclusivamente» finalità comprese fra quelle indicate nel precedente comma 1, tra le quali, per quanto di rilievo, finalità di assistenza sociale e sanitaria. Tale previsione, come già chiarito da questa Corte, si giustifica in relazione al principio di sussidiarietà, c.d. orizzontale, e costituisce una deroga al principio di inerenza, rendendo deducibili dal reddito di impresa elargizioni, in via di principio, redditualmente non rilevanti. L’elenco degli oneri di utilità sociale deducibili è tassativo atteso che l’art. 100, comma 4, t.u.i.r. stabilisce che le erogazione diverse da 7 quelle di cui ai precedenti commi (e diverse da quelle di cui all’art. 95 comma 1 t.u.i.r. che non rileva nella fattispecie in esame) non sono ammesse in deduzione. Il riconoscimento statutario dell'esclusività del fine costituisce requisito formale necessario, ma non sufficiente, dovendo trovare riscontro nell'effettiva attività svolta dalla beneficiato atteso il carattere eccezionale delle disposizioni derogatorie e la natura della finalità solidaristica, a cui può essere assegnato rilievo solo se sia concreta e non si traduca in una mera enunciazione (Cass. 02/08/2017, n. 19192 e Cass. 12/05/2017 n. 11872 entrambe rese nei confronti delle società contribuenti con riferimento agli anni di imposta 2004 e 2005). Trattandosi di norma agevolativa, l’onere della prova spetta al contribuente che, ai sensi dell'art. 2697 cod. civ., ha l'onere di dimostrare, in seguito alla contestazione dell'Ufficio, i fatti che palesino il raggiungimento dello scopo sotteso all’agevolazione, ovverosia l'effettiva realizzazione dell'intento dichiarato, perché tale intento rappresenta un elemento costitutivo per il conseguimento del beneficio fiscale richiesto (Cass. 24/06/2011, n. 13954). Sebbene la norma non richieda una corrispondenza immediata e diretta tra l’elargizione liberale e l’impiego di una delle finalità di cui all’art. 100, comma 1, t.u.i.r., occorre, tuttavia, che la destinataria svolga concretamente un’attività ivi riconducibile avvalendosi delle erogazioni ricevute. In sintesi, affinché le erogazioni liberali di cui all’art. 100, comma 2, lett. a) t.u.i.r. siano deducibili, occorre, non soltanto il riconoscimento statutario dell'esclusività del fine, ma anche l’effettivo svolgimento di attività funzionale alla sua realizzazione. 6.2. La C.t.r. si è attenuta a questi principi in quanto, dopo aver rilevato che l’Associazione beneficiaria aveva destinato i capitali raccolti solo in via irrisoria alla realizzazione delle finalità sociali, 8 reinvestendone la gran parte in strumenti finanziari, ha escluso che dette modalità fossero rispettose del dettato di cui all’art. 100 t.u.i.r. in quanto incompatibili con l’effettiva destinazione all’attività sociale. 6.3. Vanno disattese, pertanto, le considerazioni dei ricorrenti secondo il quale la norma in esame non imporrebbe né un limite quantitativo di utilizzo delle elargizioni né un termine né, tanto meno, imporrebbe all’erogante di controllare l’utilizzo delle somme da parte del beneficiario. Gli argomenti non colgono la ratio della sentenza impugnata che, in una valutazione complessiva dell’attività svolta dalla beneficiaria, sin dalla sua istituzione risalente al 1998, ha escluso che quest’ultima svolgesse concretamente quella per la quale era stata costituita. Il riferimento al dato temporale, alle risorse, minime, impiegate per i fini statutari, all’impiego massiccio delle elargizioni in investimenti finanziari, non può essere inteso nel senso che la C.t.r. abbia posto dei limiti per il perseguimento del fine, non previsti dalla norma: piuttosto, si tratta di argomenti evidentemente volti a corroborare l’assunto secondo il quale l’Associazione non svolgeva, e non aveva mai svolto, l’attività di utilità sociale in ragione della quale si giustificava la deduzione del reddito. Inoltre, le censure di parte contribuente sollecitano una rivalutazione del ragionamento decisorio che ha portato il giudice del merito ad escludere che la beneficiaria avesse concretamente svolto l’attività sociale di cui allo statuto. Così facendo, parte ricorrente, pur deducendo apparentemente, una violazione di norme di legge, mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. 04/07/ 2017, n. 8758). Oggetto del giudizio che si vorrebbe demandare a questa Corte non è l’analisi e l’applicazione delle norme, bensì l’apprezzamento delle 9 prove, rimesso alla valutazione del giudice di merito (Cass. 13/05/2022, n. 17744, Cass. 05/02/ 2019, n. 3340; Cass. 14/01/2019, n. 640; Cass. 13/10/ 2017, n. 24155; Cass. 04/04/2013, n. 8315). Quanto poi, alla tesi del contribuente secondo cui la C.t.r. avrebbe posto a carico del beneficiante un onere di controllo dell’attività del beneficiato, basti osservare che è la stessa disposizione dell’art. 100 t.u.i.r. a prevedere il requisito oggettivo in capo a quest’ultimo. 7. Il terzo motivo è inammissibile. La ricorrente assume che il giudice del primo grado, nell’escludere la deduzione ravvisando la fattispecie dell’elusione fiscale, abbia reso un obiter dictum; che, tuttavia, ove l’affermazione possa essere valutata alla stregua di ratio decidendi, la sentenza della C.t.r. sarebbe viziata per non aver scrutinato il motivo di appello con il quale si era dedotto che la C.t.p. era andata ultrapetita. Il motivo, tuttavia, censura una statuizione della sentenza di primo grado che, con specifico riferimento alla ricostruzione di una fattispecie elusiva, non risulta riprodotta nella sentenza di secondo grado con la quale, invece, il ricorrente non si confronta. 8. Il quarto motivo è fondato. 8.1. Le Sezioni Unite della Corte sono intervenute sulla questione della detrazione dell’Iva con riguardo a lavori di manutenzione o ristrutturazione su immobili di terzi e condotti in locazione ed hanno affermato che deve «riconoscersi il diritto alla detrazione Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in ipotesi di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l'attività d'impresa o professionale, anche se quest'ultima [...] non abbia poi potuto concretamente esercitarsi» (Cass. Sez. U. 10/05/2018 n. 11533). Le medesime considerazioni, tuttavia, sono valide anche ai fini delle imposte dirette, dovendosi considerare unitario – per la sua derivazione 10 dalla nozione di reddito d'impresa – il principio di inerenza dei costi. Pertanto, l'esercente attività d'impresa o professionale può dedurre dai redditi d'impresa i costi occorsi per i lavori di ristrutturazione o manutenzione di un immobile condotto in locazione, anche se si tratta di un bene di proprietà di terzi, purché sussista il requisito dell'inerenza, avente valenza qualitativa, e quindi da intendersi come nesso di strumentalità, anche solo potenziale, tra il bene e l'attività svolta (Cass. 27/09/2018, n. 23278). 8.2. La C.t.r., nell’escludere l’inerenza dei costi all’attività di impresa nell’ipotesi di immobili detenuti in locazione, assumendo che in tal caso l’unico beneficiario sarebbe il locatore, non si è attenuta a questi principi. 9. In conclusione, va accolto il quarto motivo di ricorso, rigettati il primo ed il secondo e dichiarato inammissibile il terzo; la sentenza impugnata va cassata quanto al motivo accolto con rinvio alla Commissione tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, che si pronuncerà anche sulle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il quarto motivo ricorso, disattesi gli ulteriori; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, 9 maggio 2024. Il Consigliere est. Il Presidente (Rosanna Angarano) (Lucio Napolitano)
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Presidente Dott. CENTOFANTI Francesco - Giudice Dott. POSCIA Giorgio - Giudice Dott. CURAMI Micaela Serena - Relatore Dott. ALIFFI Francesco - Giudice ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: SC.AN. nato a N. (...) avverso l'ordinanza del 21/03/2023 del TRIB. SORVEGLIANZA di NAPOLI udita la relazione svolta dal Consigliere MICAELA SERENA CURAMI; lette le conclusioni del PG, M. FRANCESCA LOY, che ha chiesto declaratoria di inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Sc.An. ricorre, per il tramite il proprio difensore, avverso il provvedimento emesso dal Tribunale di sorveglianza di Napoli in data 21/03/2023 che gli aveva concesso la misura dell'affidamento in prova al servizio sociale, lamentando con un unico motivo di gravame, la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., in relazione all'art. 47 ord. pen., con riferimento alle prescrizioni imposte nel citato provvedimento. In particolare, si lamenta la illogicità della motivazione perché il Tribunale avrebbe disposto, al punto 4 delle prescrizioni, di non uscire dalla propria abitazione prima delle ore 14 e di farvi rientro entro le 20.30, con obbligo di permanenza nelle giornate di sabato e domenica, disponendo così di fatto una detenzione domiciliare. 3. Il Sostituto Procuratore generale presso questa Corte, dott.ssa M. Francesca Loy, ha fatto pervenire requisitoria scritta con la quale ha chiesto declaratoria di inammissibilità del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato, nei termini di seguito esposti. 2. Appare utile premettere che, attraverso la misura alternativa al carcere dell'affidamento in prova al servizio sociale, l'ordinamento ha inteso attuare una forma dell'esecuzione della pena esterna al carcere nei confronti di condannati per i quali, alla luce dell'osservazione della personalità e di altre acquisizioni ed elementi di conoscenza, sia possibile formulare una ragionevole prognosi di completo reinserimento sociale all'esito della misura alternativa (Corte cost., 5 dicembre 1997, n. 377). Osserva il Collegio che uno degli elementi previsti dall'art. 47 ord. pen., ai fini della concessione della misura alternativa in esame, è costituito dalla formulazione di un giudizio prognostico favorevole nei confronti dell'affidato, rilevante sia nella fase genetica, sia nella fase dell'applicazione della misura. Né potrebbe essere diversamente, dovendosi in proposito ribadire l'orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui: "Ai fini della concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale, pur non potendosi prescindere, dalla natura e dalla gravità dei reati per cui è stata irrogata la pena in espiazione, quale punto di partenza dell'analisi della personalità del soggetto, è tuttavia necessaria la valutazione della condotta successivamente serbata dal condannato, essendo indispensabile l'esame anche dei comportamenti attuali del medesimo, attesa l'esigenza di accertare non solo l'assenza di indicazioni negative, ma anche la presenza di elementi positivi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva" (Sez. 1, n. 31420 del 05/05/2015, Incarbone, Rv. 264602; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 1, n. 773 del 03/12/2013, Naretto, Rv. 258042). È principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che nessuna limitazione sia prevista dall'art. 47, comma 5 e 6, ord. pen. in ordine al contenuto delle prescrizioni, che, quindi, purché non contrarie alla legge e non immotivatamente afflittive, debbono considerarsi legittime quali strumenti di risocializzazione, siccome rispondenti alle finalità normative e, segnatamente, di impedire al soggetto dì svolgere attività o di avere rapporti personali che possano portare al compimento di altri reati (Sez. 1, n. 29860 del 22/03/2019, Boi, Rv. 276601; Sez. 1 n. 54339 del 20/11/2018, Arnone, Rv. 274756; Sez. 1, n. 2026 del 07/04/1998, Girardo, Rv. 211030). Dette prescrizioni non hanno pertanto una loro autonomia concettuale, ma fanno parte del giudizio prognostico che deve esprimere il tribunale di sorveglianza in punto di sussistenza delle condizioni per l'ammissione del condannato alla misura alternativa, le cui finalità rieducative e di prevenzione della recidiva, possono essere perseguite anche attraverso le prescrizioni stesse. Il controllo sulla loro legalità deve pertanto consistere nella verifica che le stesse siano ricollegate alle categorie che le connotano, siccome tipizzate dallo statuto normativo cui l'interprete deve attenersi. 3. Stante la sopra delineata cornice teorica, non è controversa l'astratta possibilità del Tribunale di sorveglianza di imporre al condannato determinate prescrizioni, in quanto ritenute indispensabili per una proficua risocializzazione dell'affidato, tenuto conto del giudizio prognostico eseguito nei suoi confronti. In proposito, occorre anche ribadire che - una volta ammesso al regime dell'affidamento in prova al servizio sociale - il condannato ha l'obbligo di collaborare alla migliore riuscita del percorso trattamentale connesso alla misura, consentendo l'attuazione del programma di intervento attraverso il rispetto delle prescrizioni, funzionali alla rieducazione del reo ed a prevenire il pericolo di commissione di nuovi reati (Sez. 1, n. 31809 del 09/07/2009, Gobbo, Rv. 244322; Sez. 1, n. 371 del 15/11/2001, dep. 2002, Chifari, 220473). 4. Ciò premesso, le doglianze difensive appaiono fondate, nei limiti che si vanno ad esplicitare. Tenuto conto dei parametri ermeneutici che si sono sopra richiamati, deve allora rilevarsi come il provvedimento impugnato si connoti per una complessiva carenza motivazionale - già sotto il profilo grafico - in ordine all'effettiva necessità delle singole prescrizioni contenute nell'ordinanza, e precipuamente di quella di cui al punto n. 4 specificatamente aggredita nel ricorso, inerente il divieto uscire dalla propria abitazione prima delle ore 14 e di farvi rientro entro le 20.30, con obbligo di permanenza nelle giornate di sabato e domenica. Il Tribunale di sorveglianza napoletano, nella sua sintetica ordinanza, si è infatti limitato ad elencare le condanne subite dallo Sc.An., osservando come, attesa la confermata idoneità del domicilio, e la disponibilità di attività lavorativa (con turni lavorativi dal lunedì al venerdì dalle ore 15:00 alle 20:00), l'istanza di ammissione all'affidamento in prova fosse accoglibile. Coglie allora nel segno la censura difensiva laddove evidenzia come la prescrizione di cui al punto 4 del provvedimento (non uscire dalla propria abitazione prima delle ore 14 e di farvi rientro entro le 20.30, con obbligo di permanenza nelle giornate di sabato e domenica) introduca una consistente limitazione dei movimenti del condannato, in totale assenza di un vaglio preliminare, finalizzato a correlare tale prescrizione ai giudizio prognostico formulato nei confronti del condannato, nell'ambito del programma trattamentale. Il provvedimento impugnato risulta quindi effettivamente carente, non essendo state esplicitate le ragioni che giustificavano le prescrizioni connesse al regime dell'affidamento in prova al servizio sociale applicato al ricorrente, ed il percorso valutativo attraverso cui si perveniva alle imposizioni di cui al punto 4. 5. In presenza di tali lacune motivazionali, s'impone pertanto l'annullamento dell'ordinanza impugnata, relativamente alla prescrizione di cui al punto 4), ed il rinvio al Tribunale di sorveglianza di Napoli per nuovo esame. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata relativamente alla prescrizione di cui al n. 4), con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Napoli. Così deciso l'8 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA Presidente ENRICO MANZON Consigliere GIOVANNI LA ROCCA Consigliere-Rel. LUNELLA CARADONNA Consigliere MARIA GIULIA PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Consigliere Oggetto: TRIBUTI Ud.06/12/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 260/2019 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE E DEL TERRITORIO, domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587) che la rappresenta e difende; -ricorrente- contro FORNO ETTORE, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato DI PAOLA NUNZIO SANTI GIUSEPPE (DPLNZS67B25C351B); -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. CALTANISSETTA n. 2303/2018 depositata il 04/06/2018. Udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni La Rocca nella pubblica udienza del 6 dicembre 2023; Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alberto Cardino, che ha concluso per l’accoglimento del secondo e terzo motivo di ricorso, non essendo comparso nessuno per le altre parti. FATTI DI CAUSA 1. Ettore Forno, titolare di omonima ditta individuale esercente il commercio di prodotti di telefonia, ha impugnato l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate contenente la determinazione di maggiori ricavi e minori costi deducibili per il 2009 con conseguente recupero di imposte. 2. L'accertamento era fondato, tra l’altro, su accertamenti bancari che il contribuente ha contestato; la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Enna ha accolto il ricorso, osservando che l’ingente imponibile accertato (circa 7.000.000,00 di euro) non poteva riferirsi all’attività commerciale svolta dal Forno, titolare di una ditta individuale di telefonia in un piccolo centro in provincia di Enna, ma doveva essere ricondotto ad altre attività e a categorie di reddito non indicate dall’Ufficio che, inoltre, non aveva esaminato le giustificazioni rese dal Forno in ordine alle movimentazioni bancarie contestate. 3. Il gravame erariale è stato rigettato dalla Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Sicilia la quale ha confermato che il rilevante imponibile accertato doveva essere imputato non solo alla ditta di telefonia ma anche ad altre attività che non erano state accertate dall’Ufficio, sebbene indicate dal contribuente; quindi, secondo la CTR, l’art. 32 d.P.R. n. 600/1973 non era stato rispettato in quanto le giustificazioni documentali fornite dal contribuente avrebbero meritato una più attenta disamina e un riscontro mediante l’estensione delle indagini alle ulteriori attività commerciali svolte dal contribuente, il quale aveva indicato una serie di circostanze di fatto, riferibili alle sue movimentazioni bancarie, che non erano state verificate dall’Ufficio. 4. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate fondato su cinque motivi. 5. Ha resistito con controricorso il contribuente. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 3 e 4 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 21 d.lgs. n. 546/1992 e dell’art. 6 d.lgs. n. 218/1997 in quanto il ricorso iniziale era inammissibile per tardività: notificato l’atto impugnato il 23.2.2012, il ricorso era stato presentato soltanto il 20.7.2012 confidando nel termine di sospensione di gg. 90 di cui all’accertamento con adesione, che era stato proposto con chiari intenti dilatori in quanto l'istanza non conteneva alcuna proposta e il contribuente, invitato al contraddittorio, non si era presentato. 1.1. Il motivo non solo è inammissibile, come eccepito dal controricorrente, in quanto nuovo e non proposto nei precedenti gradi di giudizio, ma è pure infondato. 1.2. Va osservato che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la mancata comparizione del contribuente alla data fissata per la definizione, in via amministrativa, della lite, sia essa giustificata o meno, non interrompe la sospensione del termine di novanta giorni per l'impugnazione dell'avviso di accertamento, in quanto detto comportamento non è equiparabile alla formale rinuncia all'istanza né è idoneo a farne venir meno ab origine gli effetti (Cass. n. 27274 del 2019). L’effetto sospensivo del termine di impugnazione è automatico (Cass. n. 21096 del 2018) e non può dipendere da indagini sulla effettiva intenzione del contribuente di addivenire ad un accordo transattivo, pena l’intollerabile incertezza sulla operatività della sospensione e sul verificarsi della decadenza dall’impugnazione che, per loro stessa natura, debbono essere ancorate unicamente ad eventi oggettivi e immediatamente verificabili. 2. Con il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 36 d.lgs. n. 546/1992, 132 comma 2 n. 4) c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. e 112 c.p.c., in quanto la motivazione era inidonea a rivelare la ratio decidendi, essendosi la CTR limitata ad accogliere genericamente le ragioni del ricorrente in ordine alle movimentazioni bancarie, in sostanza riproducendo la sintetica motivazione del Giudice di prime cure, senza dar conto di quanto dedotto ed eccepito dall’Ufficio e rendendo così una motivazione apparente; a riprova di ciò, osserva che, oltre ai maggiori ricavi da movimentazioni bancarie, erano stati recuperati ulteriori ricavi per euro 72.299,93 e costi indeducibili per euro 35.337,00 su cui nessuna pronuncia era stata resa dalla CTR. 2.1. Il motivo è infondato. 2.2. E’ noto chenon essendo più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi - che si convertono in violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale", di "motivazione apparente", di "manifesta ed irriducibile contraddittorietà" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata (Cass. n. 23940 del 2018; Cass. sez. un. 8053 del 2014), a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (v., ultimamente, anche Cass. n. 7090 del 2022). Questa Corte ha, altresì, precisato che «la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da "error in procedendo", quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Cass., sez. un., n. 22232 del 2016; conf. Cass. n. 9105 del 2017). 2.3. In questo caso la motivazione della sentenza raggiunge il c.d. “minimo costituzionale”, presenta una ratio decidendi chiaramente intelligibile con un percorso logico – giuridico chiaramente delineato: secondo i Giudici di merito, il contribuente aveva fornito giustificazioni riguardo alle movimentazioni bancarie contestate e aveva indicato le attività diverse da quella di telefonia cui si riferivano quelle operazioni (gestione di un distributore di carburante, attività di compravendita immobiliare) ma l'Agenzia non aveva svolto alcuna verifica o accertamento in merito; il silenzio della CTR su specifici recuperi, quindi, non dimostra la mancanza di motivazione della sentenza ma rappresenta, tutt’al più, una ipotesi di omessa pronuncia da censurare ex art. art. 112 c.p.c. 3. Con il terzo motivo deduce, in relazione agli artt. 360 comma 1 nn. 3 e 4, nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione, violazione e falsa applicazione dell’art. 32 d.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 51 del d.P.R. n. 633/1972 nonché dell’art. 2697 c.c., per aver la CTR erroneamente applicato la presunzione iuris tantum che pone a carico del contribuente l’onere di giustificare prelevamenti e versamenti sui conti correnti, aggravando l’Ufficio di oneri di verifica e riscontro che non sono previsti dalle norme, in un contesto in cui l’Ufficio aveva richiesto giustificazioni su una serie di operazioni bancarie, dettagliate per autosufficienza in ricorso (v. pagg. 29 e segg.), non giustificate o giustificate senza produzione di idonea documentazione probatoria da parte del contribuente. 3.1. Il motivo è ammissibile, denunziando una falsa applicazione di legge riconducibile al n. 3 dell’art. 360 comma 1 c.p.c. e non ricade nella preclusione di cui all’art. 348 ter comma 5 c.p.c. (c.d. “doppia conforme”), eccepita dal controricorrente, che riguarda soltanto il paradigma censorio al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. Infondata, poi, è l’ulteriore questione sollevata dal contribuente circa l’acquiescenza dell’Agenzia a quella parte della sentenza d’appello in cui si è accertata la mancata indicazione della categoria di reddito a cui ascrivere l’imponibile recuperato a tassazione; tale argomento non costituisce autonoma ratio decidendi ma è uno dei profili che ha indotto il Giudice d’appello a concludere che l’Agenzia non avesse assolto il suo onere di prova con riferimento agli accertamenti bancari; la censura in esame, dolendosi dell’applicazione della presunzione legale effettuata dalla CTR, involge anche quell’aspetto. 3.2. Ciò premesso, il motivo è fondato. 3.3. Va rammentato il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui «Le presunzioni legali in favore dell'erario derivanti dagli accertamenti bancari determinano in capo al contribuente un preciso ed analitico onere della prova contraria che non può essere assolto solo attraverso il ricorso a dichiarazioni di terzi, non potendo queste ultime assurgere né a rango di prove esclusive della provenienza del reddito accertato, né essere idonee, di per sé, a fondare il convincimento del Giudice» (Cass. n. 6405 del 2021; Cass. n. 22302 del 2022). Incombeva, quindi, sul contribuente l’onere di superare la presunzione di legge attraverso la dimostrazione in modo analitico dell'estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili mentre il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all'efficacia dimostrativa delle prove fornite, avuto riguardo ad ogni singola movimentazione e dandone conto in motivazione (Cass. n. 35258 del 2021; Cass. n. 11696 del 2021; Cass. n. 4428 del 2020); in questo caso ha errato la CTR, che invece di valutare analiticamente le giustificazioni fornite dal contribuente, ha aggravato gli oneri di allegazione e prova in capo all’Amministrazione, che è soltanto tenuta a dare la prova dei movimenti in entrata e in uscita operati dal contribuente su conto corrente bancario, anche intestato a terzi, trattandosi di elemento costitutivo della pretesa creditoria (Cass. n. 34638 del 2022). 4. Con il quarto motivo deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2425 e 2425 bis c.c. in quanto non era stato istituito il conto/banca e le operazioni bancarie poste in essere dal contribuente non risultavano contabilizzate sul libro giornale con conseguente inattendibilità delle scritture contabili. 4.1. Il motivo resta assorbito nell’accoglimento del precedente. 5. Con il quinto motivo deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n,. 3 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600/1973 nonché degli artt. 18 e 24 del d.lgs. n. 546/1992 per infondatezza dell’eccezione del contribuente in ordine alla nullità dell’avviso di accertamento a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2015. 5.1. Il motivo, dedotto in subordine, è comunque inammissibile per carenza di interesse poiché la questione non è stata neppure trattata dal Giudice del merito. 6. Conclusivamente, accolto il terzo motivo, assorbito il quarto e rigettati gli altri, la causa deve essere rinviata alla Corte di merito per gli accertamenti del caso e per la decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. accoglie il terzo motivo di ricorso, assorbito il quarto e rigettati gli altri; cassa di conseguenza la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 06/12/2023. Il Consigliere estensore Il Presidente GIOVANNI LA ROCCA ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI PARMA SECONDA SEZIONE CIVILE Il Tribunale, in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Cristina Ferrari, ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. R.G. 65/2024 promossa da: (...) il Patrocinio dell'avv. Ma.No. OPPONENTE contro (...) con il Patrocinio degli Avv.ti Gi.Co. e Lu.Co. OPPOSTA OGGETTO: "Opposizione a decreto ingiuntivo n. 1378/2023 emesso dal Tribunale di Parma il 16.11.2023". Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione Con il decreto qui opposto è stato ingiunto a (...) il pagamento in favore di (...) (...) della somma di Euro 217.738,60, oltre interessi e spese di procedura, a titolo di corrispettivo dei servizi di logistica integrata oggetto del contratto stipulato tra le parti il (...) 18.05.2022 ed esposti nelle fatture prodotte e azionate da n. 522, n. 610, n. 670, n. 691, n. 744 tutte dell'anno 2023. (...) ha resistito alla pretesa creditoria, eccependo preliminarmente l'improponibilità della domanda di pagamento, poiché presente clausola di mediazione obbligatoria nel contratto suddetto; nel merito, ha dedotto la parziale inesigibilità del credito alla data del deposito del ricorso monitorio, non essendo al tempo ancora scadute le fatture n. 670, n. 691 e n. 744, e l'inadempimento di (...) per aspetti afferenti al ritardo nelle prestazioni fornite, all'insufficienza degli spazi-magazzino e sostanziale disorganizzazione. L'ingiungente, costituendosi, ha insistito nell'accoglimento della propria domanda di pagamento nei confronti di (...). Con riguardo al profilo preliminare di improcedibilità della domanda per violazione della clausola pattizia di mediazione, ha operato richiamo al vigente art. 5 sexies D.Lgs. n. 28/2010, introdotto dalla cd. Riforma Cartabia, che rimanda alla disciplina della mediazione obbligatoria nei casi previsti per legge, con correlata operatività degli artt. 5 e 5 bis stesso decreto, da cui la possibilità per il Giudice, nel caso di specie, di pronunciarsi sugli effetti del decreto ingiuntivo e differire l'udienza di trattazione per consentire l'esperimento del tentativo di mediazione avanti la Camera arbitrale di Milano, come da contratto. In sede di verifiche preliminari ex art. 171 bis c.p.c., la scrivente ha ritenuto di non assegnare i termini per il deposito delle memorie ex art. 171 ter c.p.c., assumendo che la questione preliminare di rito sollevata da (...) - sulla quale (...) ha preso posizione nella comparsa costitutiva e nell'ambito della discussione orale odierna nei termini sopra riportati - sia idonea a definire la lite. L'eccezione di improcedibilità è fondata alla luce dello specifico contenuto della clausola convenzionale di mediazione di cui all'art. 18.2 del contratto concluso tra le parti il 18.05.2022, la cui validità ed efficacia non sono oggetto di contestazione alcuna: la vincolatività delle clausole in esso presenti, per opponente e opposta, è perciò del tutto pacifica. Non viene neppure in rilievo questione di abusività o vessatorietà della clausola sub 18.2, e così una sua possibile inoperatività - una volta verificato che il contratto in questione è redatto su modulo prestampato -, poiché concluso il contratto tra imprenditori commerciali e resa oggetto di specifica approvazione da parte di (...) la pattuizione al punto 18 denominata "Legge applicabile e foro competente", in cui è compresa la previsione negoziale qui rilevante che di seguito si riporta testualmente. 18.2: "Le parti sottoporranno tutte le controversie derivanti dal presente contratto o collegate ad esso - ivi comprese quelle relative alla sua interpretazione, validità, efficacia, esecuzione e risoluzione - al tentativo di mediazione (di seguito "la Mediazione") presso il servizio di conciliazione della Camera Arbitrale di Milano e, secondo le disposizioni del suo regolamento, che le parti espressamente dichiarano di conoscere e di accettare integralmente. Le parti si impegnano a ricorrere alla mediazione prima di iniziare qualsiasi procedimento giudiziale. Qualora le parti non dovessero addivenire ad una soluzione bonaria ... il foro di Parma". Il chiaro tenore letterale della clausola evidenzia la comune volontà dei contraenti di sottoporre obbligatoriamente all'organo di mediazione individuato ogni eventuale controversia derivante dal contratto prima di adire, in qualunque forma, l'Autorità giudiziaria. Sono così manifestati da (...) e (...) il comune favore verso la modalità di soluzione stragiudiziale di ogni controversia derivante dal contratto del maggio 2022 e la solo residuale possibilità di adire il Giudice una volta percorsa infruttuosamente la via della definizione bonaria della vicenda. La violazione della volontà comune, come trasfusa nel citato art. 18.2, da parte di (...) (...) è macroscopica, per avere la stessa adito in via monitoria il Tribunale di Parma onde ottenere il decreto ingiuntivo qui opposto. Tale situazione non è pienamente sussumibile nella previsione dell'art. 5 sexies D.Lgs. n. 28/2010 introdotto dal D.Lgs. n. 149/2023, norma che non permette affatto di superare la cristallina previsione negoziale di anteporre la mediazione avanti la Camera Arbitrale di Milano a qualsiasi iniziativa giudiziale, e dunque anche a quella speciale sommaria intrapresa dal (...) creditore Va altresì notato che l'art. 5 sexies, in tema di mediazione statutaria/contrattuale non richiama la specifica norma di cui all'art. 5 bis, regolatrice del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo in caso di mediazione obbligatoria ex lege, ma unicamente i commi 2, 5, e 6 dell'art. 5 del D.LGS. n. 28/2010; di conseguenza non vi è quella possibilità - invocata dalla società opposta - di pronunciare sull'efficacia provvisoria del decreto ingiuntivo ottenuto attraverso la violazione contrattuale e di posticipare l'esame del merito al previo esperimento del tentativo di mediazione, poiché tale soluzione è inosservante degli effetti voluti dal contratto, vincolante ex art. 1372 cod. civ., attraverso cui le parti si sono imposte di esercitare il loro diritto di agire in giudizio - anche in via monitoria - solo dopo l'esperimento infruttuoso del tentativo di mediazione. La portata della clausola 18.2 non può dunque essere interamente assorbita nella nuova previsione normativa dell'art. 5 sexies citato, poiché operare in tal senso significherebbe di fatto privarla di ogni effetto utile, rappresentato in modo inequivoco dal testo della pattuizione. Pertanto l'azione introdotta da (...) con il ricorso per decreto ingiuntivo, instaurata dalla società senza prima avere ottemperato all'obbligo negoziale stabilito nella clausola 18.2 delle condizioni di contratto, non è procedibile. Ne consegue la revoca del decreto ingiuntivo n. 1378/2023 emesso dal Tribunale di Parma il 16.11.2023. Le spese del giudizio di opposizione debbono seguire la soccombenza e sono liquidate sui valori minimi di scaglione, stante le concentrazione delle fasi processuali effettivamente svolte. P.Q.M. Il Tribunale, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso da (...) nei confronti di (...) - Revoca il decreto ingiuntivo n. n. 1378/2023 emesso dal Tribunale di Parma il 16.11.2023 e (...) dichiara l'improponibilità della domanda avanzata da (...) contro (...) (...) - Condanna parte opposta a rifondere a (...) le spese processuali che liquida in Euro 4.217,00 per compensi, oltre a spese generali al 15%, IVA e CPA come per legge. Così deciso a Parma il 30 maggio 2024
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CATALDI Michele - Presidente Dott. LENOCI Valentino - Consigliere Dott. DI MARZIO Paolo - Consigliere Dott. LUME Federico - Consigliere rel. Dott. CHIECA Danilo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 12656/2022 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, elettivamente domiciliata presso gli uffici dell'Avvocatura in Roma alla via del Portoghesi n. 12; - ricorrente - contro De.An., rappresentato e difeso dall'avv. An.Ba. in forza di procura in calce al controricorso e domiciliato presso la cancelleria della Corte di cassazione, indirizzo PEC: (...) - controricorrente - avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Liguria n. 322/2022, depositata in data 15/03/2022; udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 19/04/2024 dal consigliere dott. Federico Lume; udito il PM in persona del sostituto Procuratore generale dott. Tommaso Basile che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'avv. Da.Pi. per l'Avvocatura Generale dello Stato; udito l'avv. An.Ba. per parte controricorrente. FATTI DI CAUSA 1. De.An., godendo dello status di soggetto equiparato alle vittime del dovere, ai sensi dell'art. 1, comma 564, della L. n. 266/2005 in quanto aveva contratto patologia asbestosica nel servizio svolto quale sottufficiale della Marina Militare, invocando la disposta equiparazione legislativa tra le vittime del dovere e le vittime della criminalità organizzata e del terrorismo, di cui all'art. 1, comma 211, della L. n. 232/2016, chiedeva il rimborso della maggior Irpef trattenuta sulla propria pensione a decorrere dall'1/01/2017. 2. Formatosi il silenzio rifiuto, la Commissione Tributaria Provinciale della Spezia accolse la domanda. La Commissione Tributaria Regionale della Liguria rigettò l'appello della Agenzia delle Entrate; in particolare affermò la legittimazione esclusiva dell'Agenzia delle Entrate nella controversia attinente al rapporto d'imposta e non al rapporto pensionistico; e che dagli atti emergeva che il Comitato di verifica aveva ritenuto sussistenti le condizioni previste dalla specifica normativa per l'attribuzione all'interessato della speciale elargizione unica in quanto equiparato a vittima del dovere, con liquidazione dell'indennità in euro 24.530,00; tale elargizione era prevista dall'art. 5, comma 1, della L. n. 206/2004, in materia di vittime del terrorismo, e l'art. 8 prevedeva che l'erogazione della indennità era esente da imposte dirette o indirette; identica era la ratio della norma successiva sulla stessa materia, la L. n. 232/2016, art. 1, comma 211, che ribadiva che ai trattamenti spettanti alle vittime del dovere si applicassero gli stessi benefici della L. n. 206/2004; escludeva la validità della tesi dell'ufficio secondo cui la norma era riferita ai soli trattamenti pensionistici e non alla speciale elargizione. 3. Contro tale sentenza l'Agenzia delle Entrate propone ricorso, affidato a un motivo. Il contribuente resiste con controricorso, notificato anche all'Inps, illustrato da successiva memoria. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 10/10/2023 e poi per la pubblica udienza del 19/04/2024, per le quali il controricorrente ha depositato memorie. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con l'unico motivo di ricorso l'Agenzia deduce violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1, comma 211, della L. n. 232/2016 e dell'art. 2697 cod. civ., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., con riferimento alla ritenuta spettanza dell'esenzione Irpef in relazione a qualsiasi trattamento pensionistico corrisposto a soggetto rientrante nella categoria delle vittime del dovere; evidenzia in particolare che l'esenzione Irpef estesa alle vittime del dovere dall'art. 1, comma 211, della L. n. 232/2006, vada riferita ai soli trattamenti pensionistici che trovino il loro presupposto nel particolare status di soggetto equiparato a vittima del dovere, come chiarito anche nel Messaggio INPS n. 3274 del 10/08/2017, e quindi in definitiva alle sole pensioni privilegiate correlate all'evento che aveva dato luogo al riconoscimento dello stato di soggetto equiparato; in tal senso deporrebbero sia l'interpretazione letterale, imposta dalla natura agevolativa dei benefici in parola, che l'interpretazione sistematica, dovendosi fare riferimento agli stessi trattamenti agevolativi previsti per le vittime del terrorismo; evidenzia infine che nel caso di specie la parte non aveva provato, come suo onere, di godere di trattamenti pensionistici privilegiati. 1.1. Occorre appena premettere che correttamente la CTR ha ritenuto, con statuizione non censurata, l'INPS privo di legittimazione processuale (Cass. 22/02/2023, n. 5531; Cass. 30/11/2022, n. 35254; Cass. 15/12/2020, n. 28570; Cass. 24/10/2019, n. 27377; Cass. 12/12/2018, n. 32082), in quanto si tratta di controversia che ha ad oggetto esclusivamente il rapporto fiscale tra i contribuenti e l'Amministrazione finanziaria, in relazione al quale l'INPS si è limitato alle trattenute fiscali quale sostituto d'imposta, senza con questo costituire parte di un contenzioso relativo all'entità del debito fiscale. 2. Il motivo non è fondato, anche se la motivazione deve essere integrata e corretta nei termini che seguono. La L. n. 266/2005, nel ridefinire ed ampliare la nozione di vittime del dovere, originariamente prevista dall'art. 3 della L. n. 466/1980, ha previsto le vittime del dovere (art. 1, comma 563) e i soggetti equiparati alle vittime del dovere (art. 1, comma 564). Più precisamente, come già ritenuto da questa Corte (Cass., Sez. U., 24/02/2022, n. 6214), essa ha individuato, nel comma 563, talune attività che, ritenute dalla legge pericolose, nel caso in cui abbiano comportato l'insorgenza di infermità, possono automaticamente portare ad attribuire alle vittime i benefici quali vittime del dovere; ha elencato, nel comma 564, i "soggetti equiparati", ossia coloro che non abbiano riportato le lesioni o la morte in una delle attività che il legislatore ha ritenuto per loro natura pericolose, ma in altre attività che pericolose lo fossero o lo fossero diventate per circostanze eccezionali. La legge ha altresì programmato una progressiva estensione in favore di (entrambe) tali categorie dei benefici già previsti in favore delle vittime della criminalità e del terrorismo (art. 1, comma 562), rinviando in primo luogo ad un regolamento per disciplinare le modalità di corresponsione delle "provvidenze". Il regolamento è stato emanato con D.P.R. n. 243/2006 che ha provveduto all'estensione di taluni benefici e provvidenze. In materia fiscale, (alcuni de) i benefici sui trattamenti pensionistici previsti dalle norme in tema di vittime del terrorismo sono stati estesi dall'art. 1, comma 211, della L. n. 232/2016, a decorrere dall'1/01/2017 (su tale specifico punto v. Cass. 11/07/2023, n. 1978; Cass. 25/10/2023, n. 29549; Cass. 05/10/2023, n. 28051); in particolare la disposizione ha esteso (entrambi) i benefìci fiscali di cui all'art. 2, commi 5 e 6, della L. n. 407/1998, e quelli di cui all'art. 3, comma 2, della L. n. 206/2004, in materia di esenzione dall'imposta sui redditi. 2.1. I giudici di merito hanno ritenuto che il beneficio dell'esenzione dall'Irpef valga per la pensione di cui gode la persona riconosciuta vittima del dovere o soggetto ad essa equiparato, come nel caso di specie, a prescindere dalla correlazione con l'evento che ha dato luogo a tale riconoscimento; in definitiva hanno ritenuto che si tratti di un beneficio di natura esclusivamente soggettiva. 2.2. La difesa erariale, nel censurare tale interpretazione, ritiene invece che l'agevolazione dell'esenzione dall'Irpef valga solo per le pensioni attribuite in conseguenza dell'evento che ha dato luogo al riconoscimento dello status di vittima del dovere e quindi alle sole pensioni di privilegio; a tal fine fa riferimento alla necessità di un'interpretazione letterale delle norme rilevanti e fa leva altresì su un'interpretazione di carattere sistematico, fondata sulla considerazione che il riconoscimento di tale ampia portata del beneficio determinerebbe un beneficio più ampio in favore delle vittime del dovere rispetto a quello spettante alle vittime del terrorismo, andando quindi la norma, se interpretata in tal senso, ben oltre la programmata estensione; evidenzia altresì la necessità che le norme che prevedono agevolazioni fiscali non possano essere oggetto di interpretazione estensiva o di applicazione analogica. 2.3. Il motivo non è fondato. In ordine alla lettera delle disposizioni rilevanti occorre osservare quanto segue. L'art. 1, comma 211, cit. prevede, in primo luogo, l'estensione dei benefici "ai trattamenti pensionistici spettanti alle vittime del dovere e ai loro familiari superstiti, di cui alla legge 13 agosto 1980, n. 466, alla legge 20 ottobre 1990, n, 302, all'art. 1, commi 563 e 564, della legge 23 dicembre 2005, n. 266". Poiché né la L. n. 466/1980 né la L. n. 302/1990 né, infine, l'art. 1, commi 563 e 564, della L. n. 266/2005, questi ultimi già sopra riportati, prevedono alcun trattamento pensionistico ma regolano la nozione di vittime del dovere, gli istituti della cd. speciale elargizione e dell'assegno vitalizio nonché altri benefici, come l'esenzione dai ticket sanitari o il diritto di assunzione presso le pp. aa., deve evidentemente ritenersi che i richiami normativi operati siano funzionali esclusivamente a delimitare l'ambito dei destinatari dell'estensione e non dei trattamenti pensionistici beneficiati. Ciò premesso, deve quindi evidenziarsi che la lettera dell'art. 1, comma 211, cit. estende i benefici, di cui si dirà, a tutti i "trattamenti pensionistici", senza indicare alcuna necessaria correlazione della pensione con l'evento che ha determinato il riconoscimento dello status di vittima del dovere. Né alcun argomento in tal senso si ricava dalle norme regolative dei benefici estesi, in particolare dall'art. 3, comma 2, della L. n. 206/2004. La prima estensione (operata dal richiamo all'art. 2, commi 5 e 6, della L. n. 407/1998) riguarda l'esenzione dall'Irpef: a) del trattamento speciale di reversibilità corrisposto ai superstiti dei caduti; b) delle pensioni privilegiate dirette di prima categoria erogate ai soggetti di cui all'art. 1, comma 2, della stessa legge, che siano anche titolari dell'assegno di superinvalidità di cui all'articolo 100 del D.P.R. n. 1092/1973. La seconda estensione (quella della misura dell'art. 3, comma 2, della L. n. 206/2004 e che è quella pertinente al caso di specie) riguarda "la pensione maturata ai sensi del comma 1" che "è esente dall'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF)". È pacifico che anche in tal caso non vi sia un riferimento, ai fini dell'esenzione, al fatto che si tratti di pensione correlata al fatto che ha dato luogo al riconoscimento dello status. Del resto il comma 1 dell'art. 3 della L. n. 206/2004, richiamato dal comma 2, nella formulazione dovuta alla novella operata dall'art. 1, commi 794 e 795, della L. n. 296/2006, a decorrere dal 1° gennaio 2007, prevede che "A tutti coloro che hanno subito un'invalidità permanente di qualsiasi entità e grado della capacità lavorativa, causata da atti di terrorismo e dalle stragi di tale matrice e ai loro familiari, anche superstiti, limitatamente al coniuge ed ai figli anche maggiorenni, ed in mancanza, ai genitori, siano essi dipendenti pubblici o privati o autonomi, anche sui loro trattamenti diretti, è riconosciuto un aumento figurativo di dieci anni di versamenti contributivi utili ad aumentare, per una pari durata, l'anzianità pensionistica maturata, la misura della pensione, nonché il trattamento di fine rapporto o altro trattamento equipollente". L'aumento figurativo dell'anzianità, ulteriore e diverso beneficio rispetto all'esenzione Irpef, anche in tal caso non è relativo alla pensione maturata a seguito dell'evento lesivo. La tesi dell'ufficio non appare pertanto supportata dalla lettera delle citate disposizioni; tale considerazione, del resto, esclude la validità del riferimento alla costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale le norme che prevedono agevolazioni tributarie non possano essere oggetto di interpretazione estensiva né analogica, poiché alla luce di quanto evidenziato non vengono in rilievo né l'una né l'altra. 2.4. Ne appare deporre in senso diverso l'interpretazione sistematica proposta dalla difesa erariale laddove fa riferimento al rischio che l'interpretazione accolta dalla CTR attribuisca alle vittime del dovere e ai soggetti equiparati un beneficio maggiore di quello spettante alle vittime del terrorismo, andando quindi ben oltre la programmata estensione ai primi dei benefici previsti per le seconde. In primo luogo, la piana lettura dell'art. 3, commi 1 e 2, della L. n. 204/2006 depone nel senso che l'esenzione, anche per le vittime del terrorismo, concerna il trattamento pensionistico in quanto tale e neanche quello conseguito a seguito dell'aumento figurativo di cui al comma 1. E tale conclusione è avallata anche dai documenti di prassi. Infatti l'Agenzia delle Entrate, con la risoluzione 29/07/2005, n. 108/E (richiamata anche dalla Circ. 19/10/2005, n. 113, dell'INPS), in sede di prima interpretazione della portata del beneficio, ebbe a ritenere che l'esenzione dell'art. 3, comma 2, valesse solo per la parte di pensione maturata in base all'aumento figurativo, diversamente dal beneficio previsto dall'art. 4 per le pensioni dirette in favore di chi avesse conseguito una invalidità pari o superiore all'80%, richiamando il parere reso il 10 settembre 2003 dalla Commissione Finanze della Camera dei Deputati. Però, successivamente, con la risoluzione 01/12/2008, n. 453/E la stessa Agenzia, richiamando la Direttiva P.C.M. 27/07/2007, ebbe a ritenere non solo che il beneficio spettasse sull'intero trattamento pensionistico e non sulla quota oggetto dell'aumento figurativo, ma anche che esso spettasse su tutti i trattamenti pensionistici goduti, deponendo in tal senso, in primo luogo, il dato letterale che, nel prevedere l'esenzione in esame, ne individua l'oggetto nella "pensione di cui al comma 1" e cioè nella pensione che abbia goduto dell'aumento figurativo, e non nella quota di detta pensione dovuta all'aumento figurativo. In secondo luogo, la modifica operata dal comma 794 della legge finanziaria per il 2007, dell'art, 3, comma 1, della legge n. 206 del 2004 medesima, ha sostituito, con riguardo al grado di invalidità, le parole "inferiori all'80 per cento" con quelle di "qualsiasi entità", con conseguente venir meno del trattamento fiscale di minor favore riservato alle pensioni corrisposte a fronte di una invalidità inferiore all'80 per cento. In terzo luogo, la ratio legis sottesa alla normativa di cui alla L. n. 206/2004, è individuabile nell'intento di garantire alle vittime ed ai loro familiari, anche superstiti, strumenti più adeguati di tutela e sostegno, in termini morali ed economici, che non siano meramente simbolici. 2.5. Le conclusioni raggiunte appaiono in linea non solo con la citata giurisprudenza che ha ritenuto la decorrenza dei benefici fiscali a far data dall'1/01/2017 (Cass. 11/07/2023, n. 19789; Cass. 25/10/2023, n. 29549; Cass. 05/10/2023, n. 28051 che ha in motivazione espressamente evidenziato che in tema pensionistico l'equiparazione tra le vittime del dovere e quelle della criminalità organizzata ed il terrorismo è stata effettivamente realizzata dal legislatore italiano da tale data), ma anche con la giurisprudenza di questa Corte che ha evidenziato che, ove alle vittime del dovere sia esteso uno dei benefici previsti per le vittime del terrorismo, la misura del beneficio debba essere analoga, per evitare ingiustificate disparità di trattamento (Cass., Sez. U., 27/03/2017, n. 7761, con richiami di giurisprudenza amministrativa) nonché con la considerazione espressa da Cass. 16/11/2016, n. 23300, secondo cui il diritto spettante alla vittima del dovere non rientra nell'ambito di quelli inerenti il rapporto di lavoro subordinato dei dipendenti pubblici, potendo esso riguardare anche coloro che non abbiano con l'amministrazione un siffatto rapporto, ma abbiano in qualsiasi modo svolto un servizio, in quanto il comma 564 dell'art. 1 della legge 266/2005, che estende la disciplina dettata per i dipendenti pubblici (dal comma 563 e dalla legge 466/1980) anche a "coloro" che abbiano subito infermità dipendenti da causa di servizio, delinea un'area che si estende al di là del rapporto di impiego pubblico e che ingloba, ad esempio, i militari di leva, o che potrebbe estendersi a forme regolate di volontariato, prevedendo diritti anche in favore loro o dei familiari superstiti. 3. Concludendo, il ricorso va respinto. Alla soccombenza segue condanna al pagamento delle spese di lite. Poiché risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l'art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30/05/2002, n. 115. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; condanna l'Agenzia delle entrate al pagamento delle spese di lite in favore del controricorrente, spese che liquida in euro 1.900,00 per compensi, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie al 15 per cento, e accessori se dovuti, con distrazione in favore dell'avv. An.Ba. Così deciso in Roma, il 19 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CATALDI Michele - Presidente Dott. LENOCI Valentino - Consigliere Dott. DI MARZIO Paolo - Consigliere Dott. LUME Federico - Consigliere rel. Dott. CHIECA Danilo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 11148/2017 R.G. proposto da: FRATELLI Za. Srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avv. Pa.Fr., in forza di procura in calce al ricorso ed elettivamente domiciliata in Roma alla via (...) presso l'avv. An.Ma. - ricorrente - contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore; - intimata - avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 5545/65/2016 pronunciata in data 29/09/2016 e pubblicata in data 27/10/2016, non notificata; udita la relazione della causa svolta nella udienza pubblica del 19/04/2024 dal consigliere dott. Federico Lume; udito il PM, in persona del sostituto Procuratore generale dott. Tommaso Basile, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'avv. Ga.St. per la ricorrente; udito l'avv. Da.Pi. per l'Avvocatura dello Stato. FATTI DI CAUSA 1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia (CTR), sezione staccata di Brescia, accoglieva l'appello dell'ufficio contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bergamo (CTP) che aveva parzialmente accolto le impugnazioni proposte dalla società contribuente, con distinti ricorsi poi riuniti, contro tre avvisi di accertamento per maggior Ires e Irap relativi agli anni di imposta 2008, 2009 e 2010, con cui, per quanto in questa sede rileva, era negata la detassazione prevista dall'art. 6, commi 13-19, della L. n. 388 del 2000, c.d. Tremonti ambientale. In particolare, i giudici di appello respingevano l'eccezione di nullità della notifica dell'avviso di accertamento, riproposta dalla società contribuente, e, nel merito, ritenevano che la pretesa tributaria fosse fondata, dovendosi la detassazione applicare solo agli investimenti volti a prevenire, ridurre o riparare un danno all'ambiente cagionato dalla propria attività di impresa e non agli investimenti realizzati dalle imprese che si occupano di prevenire, riparare o ridurre danni cagionati da altre imprese, altrimenti risultando detta agevolazione incompatibile con la disciplina comunitaria in tema di aiuti di Stato; considerazione confermata dal riferimento al criterio incrementale previsto dalla norma in forza del quale il costo agevolabile è solo quello della differenza tra il valore dell'investimento ambientale e quello non ambientale; disapplicavano altresì le sanzioni in ragione della presenza di obiettive condizioni di incertezza normativa. 2. Contro tale decisione propone ricorso la società contribuente sulla base di quattro motivi. Agenzia delle entrate, cui il ricorso è stato notificato in data 27/042/05/2017, è rimasta intimata. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 28/04/2023, per la quale la ricorrente ha depositato memoria, e poi rinviato alla pubblica udienza, fissata per il 19/04/2024, per la quale la ricorrente ha depositato nuova memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo d'impugnazione, proposto in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 29 d.l. n. 78 del 2010 e dell'art. 60 D.P.R. n. 600 del 1973, lamentando l'erroneità della decisione della CTR laddove ha ritenuto valida la notificazione mediante servizio postale, nonostante nel caso di specie si trattasse di un atto impoesattivo c.d. primario, per il quale la norma evidenziata prescrive, a pena di inesistenza dell'avviso, la notificazione mediante l'intermediazione di un agente della notificazione. Con il secondo motivo, proposto in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la società deduce la violazione degli artt. 6, commi da 13 a 19, della L. n. 388 del 2000, lamentando l'erroneità della decisione laddove ha riconosciuto la competenza dell'Agenzia delle entrate nella funzione di controllo sull'esistenza dei presupposti per il riconoscimento dell'agevolazione in esame. Col terzo motivo deduce la violazione dell'art. 6, comma 15, della L. n. 388 del 2000, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., censurando la sentenza: a) perché, laddove ha ritenuto che per poter godere del beneficio di cui alla Tremonti ambientale gli investimenti devono contribuire alla riduzione dei danni ambientali prodotti dalla stessa impresa, avrebbe introdotto un requisito non previsto dal tenore letterale della disposizione, violando la regola dell'interpretazione letterale imposta dalla natura eccezionale delle norme di agevolazione; b) ove avrebbe violato un giudicato interno formatosi a seguito della mancata contestazione da parte dell'Agenzia sulla natura degli investimenti; c) ove avrebbe violato il c.d. approccio incrementale, in quanto nel caso di specie i cespiti acquistati costituiscono un unicum inscindibile interamente ed esclusivamente funzionale al trattamento e al recupero dei rifiuti in cui non c'è una singola parte avente funzione ambientale. Col quarto motivo la società deduce la violazione degli artt. 3, 23, 53, 97 della Costituzione e dell'art. 10 della L. n. 212 del 2000, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., laddove la sentenza della CTR ha implicitamente rigettato la doglianza di violazione del legittimo affidamento della società, derivante dall'aver questa regolarmente adempiuto all'onere di comunicazione degli investimenti ambientali, previsto dall'art. 30 della L. n. 179 del 2002 che aveva sostituito il comma 17 dell'art. 6, al Ministero delle attività produttive, che nulla aveva osservato in merito nonostante il tempo trascorso. 1.1. Occorre premettere che l'Agenzia intimata, senza contestazione delle controparti, ha partecipato, tramite l'Avvocato dello Stato presente in udienza, alla discussione della controversia innanzi a questo Collegio, esercitando la facoltà processuale espressamente consentita, nella fattispecie de qua, dal secondo periodo del primo comma dell'art. 370, cod. proc. civ., in base al principio per cui nel giudizio di legittimità, l'Agenzia delle entrate intimata, anche quando non abbia contraddetto il ricorso mediante rituale controricorso, ha pur sempre la facoltà di partecipare alla discussione orale avvalendosi dell'Avvocatura dello Stato, senza necessità che a quest'ultima sia rilasciata una specifica procura per il singolo giudizio (Cass. 25/01/2024, n. 2465). 2. Il primo motivo, relativo alla validità della notifica a mezzo postale dell'avviso di accertamento c.d. impoesattivo, nella vigenza dell'art. 29 del d.l. n. 78 del 2010 (essendo pacifico in fatto che l'avviso di accertamento impugnato è stato notificato a mezzo posta direttamente dall'agenzia fiscale senza l'intermediazione di ufficiale giudiziario ovvero di messo notificatore), è infondato e va rigettato, secondo quanto già deciso dalla Corte in casi analoghi, con orientamento cui va dato ulteriore seguito (Cass. 03/12/2020, n. 27634; Cass. 02/12/2021, n. 38010; Cass. 27/07/2022, n. 23435; Cass. 17/04/2023, n. 10109). L'art. 29, comma 1, lett. a) del d.l. n. 78 del 2010, convertito nella L. n. 122 del 2010, così dispone: "Le attività di riscossione relative agli atti indicati nella seguente lettera a) emessi a partire dal 1 ottobre 2011 e relativi ai periodi d'imposta in corso alla data del 31 dicembre 2007 e successivi, sono potenziate mediante le seguenti disposizioni: a) l'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'imposta sul valore aggiunto ed il connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni, devono contenere anche l'intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all'obbligo di pagamento degli importi negli stessi indicati, ovvero, in caso di tempestiva proposizione del ricorso ed a titolo provvisorio, degli importi stabiliti dall'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602. L'intimazione ad adempiere al pagamento è altresì contenuta nei successivi atti da notificare al contribuente, anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento, in tutti i casi in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base agli avvisi di accertamento ai fini delle imposte sui redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'imposta sul valore aggiunto ed ai connessi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni ai sensi dell'articolo 8, comma 3-bis del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, dell'articolo 48, comma 3-bis, e dell'articolo 68 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e dell'articolo 19 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, nonché in caso di definitività dell'atto di accertamento impugnato ... ". Orbene, anche a voler definire "primario" l'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'imposta sul valore aggiunto ed il connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni contenente "anche l'intimazione ad adempiere", e "secondario" l'eventuale successivo atto da notificare al contribuente "in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base agli avvisi di accertamento", la disposizione in esame, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non introduce alcuna distinzione tra l'uno e l'altro tipo di atto quanto a modalità di notificazione e sicuramente nessuna limitazione per gli atti "primari". La disciplina della "notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente" è infatti contenuta nell'art. 14 della L. n. 890 del 1982, che prevede espressamente, nella prima parte del comma 1, che essa "sia eseguita" (di regola) "a mezzo della posta, direttamente dagli uffici finanziari" e solo "ove ciò risulti impossibile, a cura degli ufficiali giudiziari, dei messi comunali ovvero dei messi speciali autorizzati dall'Amministrazione finanziaria, secondo le modalità previste dalla presente legge". Tale disposizione non è stata abrogata e nemmeno può intendersi derogata dall'art. 29 del d.l. n. 78 del 2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 122 del 2010, sicché la tesi sostenuta dal ricorrente, che ciò lascia presumere, non ha fondamento. È ben vero che l'art. 14 della legge n. 890 del 1982 prevede che "Sono fatti salvi i disposti di cui agli artt. 26, 45 e seguenti del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché le altre modalità di notifica previste dalle norme relative alle singole leggi di imposta", ma tale disposizione non si pone affatto in conflitto con la modalità di notificazione prevista nella prima parte della medesima disposizione (direttamente a mezzo posta), limitandosi a lasciare inalterata la facoltà dell'amministrazione finanziaria di procedere comunque alla notificazione dei vari atti tributari con modalità alternative alla prima, ovvero quelle previste dalle norme espressamente elencate nel citato art. 14 o da quelle "relative alle singole leggi di imposta". Pertanto, diversamente da quanto si sostiene nel motivo di ricorso in esame, l'art. 29, comma 1, lett. a), seconda parte, del d.l. n. 78 del 2010, convertito, non fa altro che attribuire all'amministrazione finanziaria la facoltà di effettuare la notificazione degli atti "in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base agli avvisi di accertamento", emanati successivamente a questo, "anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento", senza in alcun modo incidere sulle modalità di notificazione degli avvisi di accertamento, vietandone la notificazione diretta a mezzo posta. Come precisato da Cass. n. 38010 del 2021 cit., in linea generale, la notificazione di un atto impositivo non è affatto un elemento costitutivo di esistenza giuridica/validità del medesimo, bensì esclusivamente una sua condizione di efficacia (cfr. ex multis, Cass. 24/08/2018, n. 21071) e nel caso di specie non vi è peraltro ragione per affermare che l'idoneità a trasformarsi in titolo esecutivo solo dopo 60 giorni dalla notificazione stessa, a differenza dell'iscrizione a ruolo che, ai sensi dell'art. 12, comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973, ha effetto immediato, ne rappresenti invece un elemento costitutivo. Infatti, è la stessa disposizione legislativa che chiarisce che con la novità normativa si è inteso aggiungere una nuova modalità di formazione di un titolo esecutivo legittimante la riscossione esattoriale, laddove il d.l. n. 78 del 2010, art. 29, comma 1, lett. b), prevede appunto espressamente che "la riscossione delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione a ruolo, è affidata in carico agli agenti della riscossione anche ai fini dell'esecuzione forzata". Da quanto detto consegue che deve ribadirsi il principio per cui "è legittima la notificazione degli avvisi di accertamento emessi nei confronti del contribuente, effettuata direttamente dall'Agenzia delle entrate a mezzo raccomandata postale, anche nel caso di avvisi impoesattivi, osservandosi al riguardo che in tale ipotesi non è richiesta né può essere pretesa la redazione della relata di notificazione, né altro adempimento che non sia espressamente previsto dalle norme concernenti il servizio postale ordinario" (cfr. Cass. 14/11/2019, n. 29642, secondo cui "In caso di notificazione a mezzo posta dell'atto impositivo eseguita direttamente dall'Ufficio finanziario ai sensi dell'art. 14 della L. n. 890 del 1982, si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, e non quelle di cui alla suddetta legge concernenti esclusivamente la notifica eseguita dall'ufficiale giudiziario ex art. 149 cod. proc. civ., sicché non va redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull'avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest'ultimo, senza necessità dell'invio della raccomandata al destinatario, stante la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 cod. civ., la quale opera per effetto dell'arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione ed è superabile solo se il destinatario provi di essersi trovato, senza sua colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione"). 3. Il secondo motivo è infondato. Ed infatti, questa Corte ha già scrutinato la questione riconoscendo in capo all'Agenzia delle entrate la competenza esclusiva in ordine alla verifica dei presupposti di legittimità dell'agevolazione prevista dalla c.d. Tremonti ambientale (Cass. 19/12/2022, n. 37152). In particolare l'art. 62 del D.Lgs. 30/07/1999, n. 300 stabilisce che all'Agenzia delle entrate "sono attribuite tutte le funzioni concernenti le entrate tributarie erariali che non sono assegnate alla competenza di altre agenzie, amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, enti od organi, con il compito di perseguire il massimo livello di adempimento degli obblighi fiscali sia attraverso l'assistenza ai contribuenti, sia attraverso i controlli diretti a contrastare gli inadempimenti e l'evasione fiscale (..)" (comma 1) e che la stessa Agenzia "è competente in particolare a svolgere i servizi relativi alla amministrazione, alla riscossione e al contenzioso dei tributi diretti (..)" (comma 2). Tali disposizioni conferiscono perciò all'Agenzia tutte le funzioni e i poteri in materia di imposizione fiscale, cioè tutte le funzioni e i poteri strumentali all'adempimento delle obbligazioni tributarie verso l'erario, a meno che siffatti funzioni e poteri siano assegnate ad altre amministrazioni da specifiche disposizioni "siano assegnate alla competenza di altre agenzie, amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, enti od organi". Nella specie i compiti attribuiti al Ministero delle Attività Produttive relativamente agli incentivi fiscali in argomento si limitano al censimento degli investimenti ambientali, con soli scopi statistici. Occorre solo aggiungere a tali considerazioni che è il meccanismo stesso di funzionamento della detassazione in parola, che opera attraverso una variazione dell'imponibile nella dichiarazione dei redditi, a deporre nel senso della natura tributaria dell'agevolazione. Occorre quindi dare continuità al principio di diritto per cui "che in tema di agevolazioni fiscali di cui alla L. n. 388 del 2000, in relazione ad investimenti destinati a prevenire, ridurre o riparare danni ambientali determinati dall'attività svolta dal contribuente, tutta l'attività di controllo circa la spettanza dell'agevolazione spetta, in virtù dell'art. 62 del D.Lgs. n. 300 del 1999, all'Agenzia delle Entrate, quale titolare di tutte le funzioni e dei poteri strumentali all'adempimento delle obbligazioni tributarie verso l'erario, mentre sono attribuiti al Ministero delle Attività produttive solo compiti di raccolta di dati statistici, attraverso il censimento degli investimenti stessi". 4. Il terzo motivo non è fondato, alla luce delle recenti decisioni di questa Corte sullo specifico tema, cui occorre dare continuità. Cass. 23/12/2020, n. 29365 ha già evidenziato infatti che, ai fini della spettanza di tale beneficio, occorre che l'investimento (rectius: l'immobilizzazione immateriale con esso acquistata) sia necessario per prevenire, ridurre e riparare danni causati all'ambiente dall'attività dell'impresa che lo realizza (come correttamente ritenuto dalla CTR) ma non i danni causati dall'attività di soggetti terzi (come sostenuto dalla ricorrente). Al riguardo, si è infatti osservato che la concessione dell'agevolazione de qua a favore della generalità delle imprese (piccole e medie) - e non, quindi, di altri soggetti che non esercitano attività di impresa - si fondava, in tutta evidenza, sull'implicito presupposto della dannosità per l'ambiente di tale attività, alla quale la stessa dannosità è inerente; per tale ragione, risulta chiaro che, nel definire gli investimenti cui si applicava l'agevolazione come quelli necessari per prevenire, ridurre e ripianare "danni causati all'ambiente", il legislatore intendeva fare riferimento ai danni all'ambiente inerenti all'attività dell'impresa investitrice, cioè ai danni causati da tale sua attività; l'accoglimento della tesi opposta, del resto, comporterebbe che l'agevolazione di cui ai commi da 13 a 19 dell'art. 6 della legge n. 388 del 2000 si tradurrebbe in un'agevolazione all'attività stessa delle imprese il cui oggetto sia costituito, come nel caso della società ricorrente, da un'attività di prevenzione, riduzione e riparazione di danni causati all'ambiente da terzi - e i cui investimenti sono, perciò, strutturalmente generalmente diretti a prevenire, ridurre e riparare danni all'ambiente - esito che, oltre che contrastare con l'indicata intenzione del legislatore, sarebbe suscettibile di trasformare l'agevolazione de qua in un aiuto di Stato, in contrasto con gli articoli da 87 a 89 del Trattato CEE (e, successivamente, con gli articoli da 107 a 109 TFUE), stante il vantaggio che essa potrebbe comportare a favore del detto settore di imprese rispetto ai concorrenti di altri Paesi dell'Unione europea, con la conseguente alterazione (o minaccia di alterazione) della concorrenza; la diversità tra la situazione dell'impresa che realizzi un investimento diretto a prevenire, ridurre e riparare danni causati all'ambiente da terzi e la situazione dell'impresa che realizzi un investimento diretto a prevenire, ridurre e riparare danni causati all'ambiente dalla propria attività giustifica - contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente - il fatto che, a fronte dell'acquisto di un'identica immobilizzazione materiale, il relativo costo non sia detassato nel primo caso e lo sia, invece, nel secondo. In tale arresto si è peraltro specificato che, ovviamente, l'interpretazione seguita non preclude alle imprese il cui oggetto sia costituito da un'attività di prevenzione, riduzione e riparazione di danni causati all'ambiente da terzi di beneficiare dell'agevolazione in relazione agli investimenti necessari per prevenire, ridurre e riparare danni causati all'ambiente dalla propria attività, il che però non è stato dedotto dalla società ricorrente e deponendo in senso contrario la stessa assunzione in fatto che gli investimenti realizzati fossero tutti integralmente detassabili, in quanto costituenti un unicum inscindibile funzionale al miglioramento del funzionamento dell'impresa e quindi, indirettamente, della tutela ambientale. Tali principi sono stati espressamente ribaditi di recente, all'esito di pubblica udienza, da Cass. 23/08/2023, n. 25157 e Cass. 22/12/2023, n. 35919, dandosi anche atto di alcuni precedenti parzialmente dissonanti (Cass. 14/10/2022, n. 30225 e Cass. 29/12/2022, n. 38043), evidenziandosi altresì che le norme di agevolazione fiscale hanno carattere eccezionale e derogatorio e, come tali, sono di stretta interpretazione (ex plurimis, Cass. 12/06/2020, n. 11337, Cass. 12/12/2019, n. 32635, Cass. 10/05/2019, n. 12500, Cass. 21/06/2017, n. 15407), e che la materia dell'imposizione tributaria fa parte del c.d. "nucleo duro" delle prerogative della potestà pubblica, poiché la natura autoritativa del rapporto tra il contribuente e la collettività è predominante (Corte EDU, Ferrazzini c. Italia), laddove "le scelte in questa materia implicano normalmente una ponderazione di problemi politici, economici e sociali che la Convenzione lascia alla competenza degli stati firmatari, poiché le autorità interne sono evidentemente nella posizione di valutare meglio tali aspetti che non la Corte" (Corte EDU, Belmonte c. Italia). Né è rilevante il regolamento 651/2014, invocato dalla ricorrente in memoria, in quanto norma sopravvenuta a quella in esame, e che comunque fa salvo il principio che i costi ammissibili corrispondono ai costi d'investimento supplementari necessari per realizzare un investimento che conduca ad attività di riciclaggio o riutilizzo rispetto a un processo tradizionale di attività di riutilizzo e di riciclaggio di analoga capacità che verrebbe realizzato in assenza di aiuti. Deve infine evidenziarsi che il motivo è altresì infondato laddove deduce un giudicato interno, in quanto l'oggetto dell'appello era proprio relativo alla mancanza dei presupposti per godere dell'agevolazione, in ragione della natura degli investimenti, come emerge inequivocabilmente dalla parte narrativa della sentenza impugnata. 5. Il quarto motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato. 5.1. Il motivo è inammissibile in riferimento alle norme costituzionali. Con riguardo alle questioni di costituzionalità, deve essere, in primo luogo, rilevato che non può costituire motivo di ricorso per cassazione la prospettazione di una questione di legittimità costituzionale in quanto è riservata al potere decisorio del giudice la facoltà di sollevare o meno la questione dinanzi alla Corte costituzionale (art. 23, L. 11/03/1958, n. 87), mentre alle parti non è attribuito alcun potere di iniziativa al riguardo in quanto, in riferimento alle questioni di legittimità costituzionale in via incidentale l'iniziativa spetta esclusivamente al giudice, le parti potendo presentare soltanto delle deduzioni nel processo dinanzi alla Corte costituzionale ed, eventualmente, limitarsi a sollecitare anche motivatamente il giudice a sollevare la questione di costituzionalità; peraltro, ai sensi dell'art. 24, terzo comma, L. n. 87 del 1953, la questione di costituzionalità di una norma non solo non può costituire unico e diretto oggetto del giudizio, ma soprattutto può sempre essere proposta, o riproposta, dalla parte interessata, oltre che prospettata d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, purché essa risulti rilevante, oltre che non manifestamente infondata, in connessione con la decisione di questioni sostanziali o processuali che siano state ritualmente dedotte nel processo (in senso conforme vedi, tra le altre: Cass. 16/04/2018, n. 9284; Cass. 24/02/2014, n. 4406; Cass. 29/10/2003, n. 16245; Cass. 18/02/1999, n. 1358; Cass. 22/04/1999, n. 3990). Ne deriva l'inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione formulato come diretto esclusivamente a prospettare una questione di legittimità costituzionale (come accade nella specie) oppure a censurare il concreto esercizio del potere che compete al Giudice in materia, non potendo essere configurato al riguardo un vizio del provvedimento impugnato idoneo a determinarne l'annullamento da parte di questa Corte (Cass., Sez. U., 29/03/2013, n. 7929; Cass. 16/04/2018, n. 9284). Peraltro, un simile motivo può essere esaminato come sollecitazione al giudice (anche a questa Corte) a sollevare una questione di legittimità costituzionale, attività consentita alle parti, come si è detto, ma che nel caso di specie risulta del tutto priva di alcuna specifica illustrazione. 5.2. Il motivo è altresì infondato con riferimento alla violazione dell'art. 10 della L. n. 212 del 2000. In primo luogo, il principio del legittimo affidamento opera in tema di sanzioni ma non incide sulla debenza dell'imposta (e nel caso di specie le sanzioni sono state escluse); infatti anche ove il contribuente si sia conformato ad un'interpretazione erronea fornita dall'Amministrazione finanziaria, è esclusa soltanto l'irrogazione delle relative sanzioni e degli interessi, senza alcun esonero dall'adempimento dell'obbligazione tributaria, in base al principio di tutela dell'affidamento, espressamente sancito dall'art. 10, comma 2, della L. n. 212 del 2000 (Cass. 09/01/2019, n. 370; Cass. 18/05/2016, n. 10195, secondo cui in tema di sanzioni tributarie la tutela dell'affidamento incolpevole del contribuente, sancita dall'art. 10, commi 1 e 2, della L. n. 212 del 2000, costituisce espressione di un principio generale dell'ordinamento tributario, che trova origine nei principi affermati dagli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost. e, in materia di tributi armonizzati, in quelli dell'ordinamento dell'Unione europea, sicché deve ritenersi che la situazione di incertezza interpretativa, ingenerata da risoluzioni dell'Amministrazione finanziaria, anche se non influisce sulla debenza dell'imposta, deve essere valutata ai fini dell'esclusione dell'applicazione delle sanzioni). In secondo luogo, come evidenziato nell'esame del secondo motivo, questa Corte ha già chiarito che in tema di agevolazioni fiscali di cui alla L. n. 388 del 2000 tutta l'attività di controllo circa la spettanza dell'agevolazione spetta all'Agenzia delle entrate, per cui il silenzio serbato dal Ministero delle Attività produttive non può avere alcuna rilevanza ai fini del formarsi di un legittimo affidamento. 6. Ne segue il rigetto del ricorso. Le spese (l'Agenzia delle entrate, come visto in precedenza, ha discusso la causa) seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell'Agenzia delle entrate, spese che liquida in euro 3.700,00 oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, il 19 aprile 2024. Depositata in cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. CRISCUOLO Anna - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Relatore Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Pe.Gi., nato a F l'(Omissis); avverso l'ordinanza emessa il 17 agosto 2023 dal Tribunale di Bari; visti gli atti, l'ordinanza e il ricorso; udita la relazione del consigliere Debora Tripiccione; lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giuseppe Riccardi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata il Tribunale di Bari ha confermato l'ordinanza applicativa della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di Pe.Gi. per i reati di cui all'articolo 74 D.P.R. 309/1990 (Capo 1 dell'imputazione provvisoria), avendo l'indagato rivestito la qualità di partecipe dell'associazione finalizzata al narcotraffico dal novembre del 2016 al 1 Febbraio 2018, con il ruolo di componente della catena di spaccio di quantitativi di cocaina assegnati mensilmente, nonché del reato di cui all'articolo 73 D.P.R. citato, in concorso con terzi, per avere ricevuto da Ap.Al. e Ru.Ro., componenti di vertice della batteria S/F, in epoca antecedente il 27 Marzo 2017 e fino al 1 Febbraio 2018, 50 grammi al mese cocaina al prezzo di 50/55 euro al grammo, che cedeva nelle piazze di spaccio della città di F ai clienti finali. 2. Pe.Gi. ricorre per Cassazione deducendo cinque motivi di ricorso, di seguito riassunti nei termini strettamente necessari per la motivazione. 2.1 Con il primo motivo deduce vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione alla dedotta eccezione di mancanza di autonoma valutazione in ordine alle esigenze cautelari. Deduce il ricorrente che il primo Giudice non ha distinto le singole posizioni, ma si è acriticamente riportato alla richiesta di applicazione della misura cautelare. Tale lacuna non è stata colmata dall'ordinanza impugnata, nonostante il ricorrente avesse rappresentato che i precedenti penali a suo carico risalgono al 1995 e che, allo stato, non vi sono procedimenti pendenti. 2.2 Con il secondo motivo deduce vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione al giudizio di gravità indiziaria relativo al reato di cui all'art. 74 D.P.R. n. 309 del 1990. Ciò sulla base dei seguenti elementi: 1) l'associazione era in via di formazione e non era ancora attiva ed operativa; 2) il ricorrente non è tra coloro che percepivano uno stipendio e si è limitato a contatti sporadici ed occasionali; 3) non vi è alcuna prova che il ricorrente abbia ottenuto delle forniture raddoppiate né tantomeno della sua partecipazione ai colloqui relativi a dette forniture. Oltre a censurarsi la sussistenza nel caso in esame degli elementi costitutivi dell'associazione, in particolare dell'elemento organizzativo, rileva il ricorrente che mancano sia l'accordo che l'elemento psicologico del reato atteso che, nel caso di specie, vi era una imposizione da parte del c.d. "Direttorio" a rifornirsi della sostanza stupefacente. In presenza di un consenso "estorto", manca dunque il presupposto dell'accordo necessario alla configurabilità del reato. 2.3 Con il terzo motivo deduce i vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione all'aggravante dell'agevolazione mafiosa, avuto riguardo, in particolare, alla mancata individuazione degli elementi di fatto sintomatici della consapevolezza da parte del ricorrente della finalità perseguita dal c.d. "Direttorio" e da Ap.Al., ovvero della destinazione dei proventi del narcotraffico alla consorteria mafiosa. 2.4 Con il quarto motivo deduce i vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione al reato di cui all'art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990. Rileva il ricorrente che nel caso in esame sussistono a suo carico indizi desumibili esclusivamente dalle intercettazioni (c.d. "droga parlata"); che né il Giudice per le indagini preliminari né il Tribunale del riesame hanno valutato adeguatamente il materiale indiziario; che l'ordinanza impugnata è illogica in quanto non spiega perché i quantitativi indicati e intercettati sarebbero stati ricevuti tutti i mesi e non secondo cadenze diverse né se il raddoppio della fornitura sia effettivamente avvenuto o è rimasta una mera intenzione del "Direttorio". 2.5 Con il quinto motivo deduce i vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, avendo il Tribunale omesso di considerare che il c.d. "sistema della droga" e, con esso il sodalizio che lo gestiva, è cessato nel novembre 2018, quando sono stati arrestati i componenti del "Direttorio" o, al più, nel dicembre 2019 quando sono state rinvenute le liste presso l'abitazione di Mo.. Aggiunge il ricorrente che l'affermazione del Tribunale, secondo la quale l'associazione sarebbe ancora operativa, è del tutto svincolata da elementi fattuali. Aggiunge, infine, che proprio il rinvenimento di tali liste, contenenti i nomi dei presunti "grossi spacciatori", uno dei quali è Br.An., tenuti al pagamento del pizzo all'associazione, evidenzia la cessazione dell'associazione ed il passaggio ad un diverso regime operativo non più fondato sulla fornitura in esclusiva della droga ma sulla imposizione del pizzo per l'attività di spaccio. 3. Il ricorso è stato trattato in forma cartolare. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato per le ragioni di seguito esposte. 2. Il primo motivo è inammissibile in quanto, oltre a dedurre per la prima volta, in termini particolarmente generici, la carenza di autonoma valutazione in ordine alle esigenze cautelari (in sede di riesame l'eccezione aveva, infatti, interessato il giudizio di gravità indiziaria), è privo del necessario requisito della specificità. Va, infatti, ribadito che in tema di impugnazioni avverso i provvedimenti "de libertate", il ricorrente per Cassazione che denunci la nullità dell'ordinanza cautelare per omessa autonoma valutazione delie esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza ha l'onere di indicare gli aspetti della motivazione in relazione ai quali detta omissione abbia impedito apprezzamenti di segno contrario di tale rilevanza da condurre a conclusioni diverse da quelle adottate (Sez. 1, n. 46447 del 16/10/2019, Firozpoor, Rv. 277496). 2.1 Il secondo e quarto motivo di ricorso, da esaminare congiuntamente in quanto tra loro logicamente connessi, sono inammissibili poiché meramente reiterativi delle medesime censure dedotte in sede di riesame e privi di adeguato confronto critico con le argomentazioni dell'ordinanza impugnata che, con motivazione immune da manifesta illogicità o contraddittorietà, ha adeguatamente argomentato in merito ai gravi indizi di colpevolezza relativi sia alla sussistenza del sodalizio ed alla partecipazione del ricorrente che al reato di cui all'art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990. È sufficiente, a tale riguardo, sottolineare che il giudizio di gravità indiziaria risulta saldamente ancorato al contenuto delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ed ai riscontri emersi dalle conversazioni intercettate sulla base dei quali è stato ricostruito sia l'assetto organizzativo dell'associazione (si vedano le pagine 8 e 9) che il ruolo svolto dal ricorrente, quale stabile spacciatore della sostanza stupefacente che gli veniva fornita con cadenza regolare dal medesimo sodalizio. In particolare, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono stati desunti sia la risalente operatività del sodalizio, genericamente censurata dal ricorrente, che il ruolo di quest'ultimo, il cui nome, peraltro, risulta inserito nella lista di spacciatori sequestrata l'8 giugno 2017. Le conversazioni valorizzate dal Tribunale hanno, inoltre, posto in evidenza il suo rapporto con Ap.Al., non solo in relazione alla fornitura della sostanza stupefacente, ma anche all'impegno e disponibilità del ricorrente ad assicurare l'operatività del sodalizio nel periodo in cui era sottoposto agli arresti domiciliari (si veda la conversazione a pagina 13 intercorsa tra Pe.Gi. e Ap.Al. in merito alla consegna a quest'ultimo della lista di una decina di clienti riforniti dal ricorrente). L'ordinanza impugnata ha, inoltre, adeguatamente esaminato la questione, genericamente riproposta con il ricorso, in ordine alla rilevanza della pressione esercitata dal sodalizio al fine di ottenere il monopolio nella fornitura della sostanza stupefacente. Con argomentazione immune da vizi logici, completamente ignorata dal ricorrente, il Tribunale ha escluso che tale circostanza possa incidere sul giudizio di gravità indiziaria e, in particolare, sulla sussistenza della "affectio societatis", ponendo l'accento sul fatto che il ricorrente ha liberamente scelto di proseguire a spacciare per conto del sodalizio, e, conseguentemente, ha anche liberamente accettato le condizioni di monopolio da questo imposte. 3. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile per carenza di interesse del ricorrente, stante l'inidoneità dell'eventuale esclusione dell'aggravante ad incidere sull'"an" o sul "quomodo" della misura. Va, infatti, ribadito il consolidato principio di diritto in forza dei quale, in tema di impugnazioni avverso misure cautelari personali, sussiste l'interesse concreto e attuale dell'indagato alla proposizione del riesame o del ricorso per Cassazione quando l'impugnazione sia volta ad ottenere l'esclusione di un'aggravante ovvero una diversa qualificazione giuridica del fatto, nel solo caso in cui ciò incida sull'"an" o sul "quomodo" della misura (così, da ultimo, Sez. 2, n. 17366 del 21/12/2022, Renna, Rv. 284489). Nel caso di specie già la mera partecipazione al sodalizio integra il fatto costitutivo della presunzione cautelare di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., sicché l'esclusione dell'aggravante non produrrebbe per il ricorrente alcuna conseguenza favorevole risultando, peraltro, analogo, il termine di fase (Sez. 3, n. 31633 del 15/03/2019, Irabor, Rv. 276237). 4. Il quinto motivo di ricorso è infondato. 4.1 Va, innanzitutto, premesso che, in tema di esigenze cautelari, il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie non va inteso come pericolo di reiterazione dello stesso fatto reato, atteso che l'oggetto del "periculum" è la reiterazione di astratti reati della stessa specie e non del concreto fatto reato oggetto di contestazione (Sez. 5, n. 70 del 24/09/2018, dep. 2019, Pedato, Rv. 274403-02). Inoltre, secondo l'indirizzo ermeneutico oggi dominante nella giurisprudenza di legittimità, dal Collegio pienamente condiviso e ribadito, il requisito dell'attualità del pericolo previsto dall'art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. non è equiparabile all'imminenza di specifiche opportunità di ricaduta nel delitto e richiede, invece, da parte del giudice della cautela, una valutazione prognostica sulla possibilità di condotte reiterative, alla stregua di un'analisi accurata della fattispecie concreta, che tenga conto delle modalità realizzative della condotta, della personalità del soggetto e del contesto socio-ambientale, la quale deve essere tanto più approfondita quanto maggiore sia la distanza temporale dai fatti, ma non anche la previsione di specifiche occasioni di recidivanza (Sez. 3, n. 9041 del 15/02/2022, Gizzi, Rv. 282891; Sez. 5, n. 12869 del 20/01/2022, Iordachescu, Rv. 282991; Sez. 6, n. 15978 del 27/11/2015, dep. 2016, Garrone, Rv. 266988). 4.2 Va, tuttavia, considerato che, con riferimento alle fattispecie in cui opera la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella giurisprudenza di legittimità sono emersi due indirizzi ermeneutici in ordine alla rilevanza del tempo decorso dai fatti contestati sulla concretezza ed attualità delle esigenze cautelari. Secondo un primo orientamento, il c.d. "tempo silente" (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l'emissione della misura e i fatti contestati), ove non accompagnato da altri elementi fattuali, è inidoneo a superare la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. Si afferma, infatti, che detta presunzione è prevalente, in quanto speciale, rispetto alle disposizioni generali stabilite dall'art. 274 cod. proc. pen. cosicché se il titolo cautelare riguarda i reati previsti dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., la presunzione in esame fa ritenere sussistente i caratteri di attualità e concretezza del pericolo, salvo prova contraria, non desumibile, tuttavia, dalla sola circostanza relativa al mero decorso del tempo, ove non accompagnata da altri elementi circostanziali idonei a determinare un'attenuazione del giudizio di pericolosità (cfr. Sez. 2, n. 6592 del 25/01/2022, Ferri, Rv. 282766-02; Sez. 5, n. 4950 del 07/12/2021, dep. 2022, Andreano, Rv. 282865; Sez. 1, n. 21900 del 07/05/2021, Poggiali, Rv. 282004). 4.3 Altro orientamento, cui il Collegio intende dare continuità, ritiene, invece, che, pur se per i reati di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. è prevista una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, il tempo trascorso dai fatti contestati, alla luce della riforma di cui alla legge 16 aprile 2015, n. 47, e di una esegesi costituzionalmente orientata della stessa presunzione, deve essere espressamente considerato dal giudice, ove si tratti di un rilevante arco temporale privo di ulteriori condotte dell'indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, potendo lo stesso rientrare tra gli "elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari", cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, cod. proc. pen. (in tal senso, tra le tante, Sez. 6, n. 31587 del 30/05/2023, Gargano, Rv. 285272; Sez. 3, n. 6284 del 16/01/2019, Pianta, Rv. 274861). 4.4 Osserva il Collegio che il Tribunale, pur aderendo al primo orientamento ermeneutico, qui disatteso, ha adeguatamente evidenziato le circostanze di fatto dalle quali è stata desunta, con apprezzamento immune da censure, e dunque insindacabile in sede di legittimità, l'attuale e concreto pericolo di recidiva, ponendo l'accento, oltre che sulle capacità operative del sodalizio e sul suo radicamento in seno al sodalizio mafioso operativo nel territorio foggiano, anche sulla personalità del ricorrente. Risulta, infatti, dall'ordinanza impugnata che il ricorrente è gravato da numerosi precedenti penali per spaccio e estorsione ed è privo di una occupazione lavorativa; lo stesso, inoltre, ha dimostrato la propria spiccata capacità delinquenziale anche nel corso del presente procedimento, mettendo a disposizione di Ap.Al., mentre si trovava sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, la lista dei suoi clienti, in modo da assicurare al sodalizio la prosecuzione dell'attività di spaccio; dall'ordinanza impugnata (si veda pagina 23), risulta, infine, che il ricorrente è stato tratto in arresto il 16/11/2020 in esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere nel proc. 2169/2017 R.G.N.R. per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. 5. Al rigetto del ricorso segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 14 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. CRISCUOLO Anna - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Relatore Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Sp.Mi., nato a F il (Omissis); avverso l'ordinanza emessa il 10 agosto 2023 dal Tribunale di Bari; visti gli atti, l'ordinanza e il ricorso; udita la relazione del consigliere Debora Tripiccione; lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giuseppe Riccardi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Sp.Mi. ricorre per Cassazione avverso l'ordinanza dei Tribunale di Bari che ha confermato l'ordinanza applicativa della misura della custodia cautelare in carcere per i reati di cui agli artt. 73 e 74 D.P.R. n. 309 del 1990. Deduce cinque motivi di ricorso, di seguito riassunti nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 1.1 Con il primo motivo deduce vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione alla dedotta eccezione di mancanza di autonoma valutazione in ordine alle esigenze cautelari. Deduce il ricorrente che il primo Giudice non ha distinto le singole posizioni, ma si è acriticamente riportato alla richiesta eli applicazione della misura cautelare. Tale lacuna non è stata colmata dall'ordinanza impugnata, nonostante il ricorrente avesse rappresentato che i precedenti penali a suo carico risalgono al 1995 e che, allo stato, non vi sono procedimenti pendenti. 1.2 Con il secondo motivo deduce vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione al giudizio di gravità indiziaria relativo al reato di cui all'art. 74 D.P.R. n. 309 del 1990. Ciò sulla base dei seguenti elementi: 1) l'associazione era in via di formazione e non era ancora attiva ed operativa; 2) il ricorrente non è tra coloro che percepivano uno stipendio e si è limitato a contatti sporadici ed occasionali; 3) non vi è alcuna prova che il ricorrente abbia ottenuto delle forniture raddoppiate né tantomeno della sua partecipazione ai colloqui relativi a dette forniture. Oltre a censurarsi la sussistenza nel caso in esame degli elementi costitutivi dell'associazione, in particolare dell'elemento organizzativo, rileva il ricorrente che mancano sia l'accordo che l'elemento psicologico del reato atteso che, nel caso di specie, vi era una imposizione da parte del c.d. "Direttorio" a rifornirsi della sostanza stupefacente. In presenza di un consenso "estorto", manca dunque il presupposto dell'accordo necessario alla configurabilità del reato. 1.3 Con il terzo motivo deduce i vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione all'aggravante dell'agevolazione mafiosa, avuto riguardo, in particolare, alla mancata individuazione degli elementi di fatto sintomatici della consapevolezza da parte del ricorrente della finalità perseguita dal c.d. "Direttorio" e da Aprile, ovvero della destinazione dei proventi del narcotraffico alla consorteria mafiosa. 1.4 Con il quarto motivo deduce i vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione al reato di cui all'art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990. Rileva il ricorrente che nel caso in esame sussistono a suo carico indizi desumìbili esclusivamente dalle intercettazioni (c.d. "droga parlata"); che né il Giudice per le indagini preliminari né il Tribunale del riesame hanno valutato adeguatamente il materiale indiziario; che l'ordinanza impugnata è illogica in quanto non spiega perché i quantitativi indicati e intercettati sarebbero stati ricevuti tutti i mesi e non secondo cadenze diverse né se il raddoppio della fornitura sia effettivamente avvenuto o è rimasta una mera intenzione del "Direttorio". 1.5 Con il quinto motivo deduce i vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, avendo il Tribunale omesso di considerare che il c.d. "sistema della droga" e, con esso il sodalizio che lo gestiva, è cessato nel novembre 2018, quando sono stati arrestati i componenti del "Direttorio" o, al più, nel dicembre 2019 quando sono state rinvenute le liste presso l'abitazione di Mo.. Aggiunge il ricorrente che l'affermazione del Tribunale, secondo la quale l'associazione sarebbe ancora operativa, è del tutto svincolata da elementi fattuali. Aggiunge, infine, che proprio il rinvenimento di tali liste, contenenti i nomi dei presunti "grossi spacciatori", uno dei quali è Br.An., tenuti al pagamento del pizzo all'associazione, evidenzia la cessazione dell'associazione ed il passaggio ad un diverso regime operativo non più fondato sulla fornitura in esclusiva della droga ma sulla imposizione del pizzo per l'attività di spaccio. 2. Il ricorso è stato trattato in forma cartolare. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati. 2. Il primo motivo è inammissibile in quanto, oltre a dedurre per la prima volta, in termini particolarmente generici, la carenza di autonoma valutazione in ordine alle esigenze cautelari (in sede di riesame l'eccezione aveva, infatti, interessato il giudizio di gravità indiziaria), è privo dei necessario requisito della specificità. Va, infatti, ribadito che in tema di impugnazioni avverso i provvedimenti "de libertate", il ricorrente per Cassazione che denunci la nullità dell'ordinanza cautelare per omessa autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza ha l'onere di indicare gli aspetti della motivazione in relazione ai quali detta omissione abbia impedito apprezzamenti di segno contrario di tale rilevanza da condurre a conclusioni diverse da quelle adottate (Sez. 1, n. 46447 del 16/10/2019, Firozpoor, Rv. 277496). 3. Il secondo e quarto motivo di ricorso, da esaminare congiuntamente in quanto tra loro logicamente connessi, sono inammissibili in quanto meramente reiterativi delle medesime censure dedotte in sede di riesame e privi di adeguato confronto critico con le argomentazioni dell'ordinanza impugnata che, con motivazione immune da manifesta illogicità o contraddittorietà, ha adeguatamente argomentato in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine sia alla sussistenza del sodalizio ed alla partecipazione del ricorrente che al reato di cui all'art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990. È sufficiente, a tale riguardo, sottolineare che il giudizio di gravità indiziaria risulta saldamente ancorato al contenuto delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, in particolare, quanto alla posizione del ricorrente, quella dei collaboratore Verderosa, ed ai riscontri emersi dalle conversazioni intercettate, sulla base dei quali è stato ricostruito sia l'assetto organizzativo dell'associazione (si vedano le pagine 22 e 23) che il ruolo svolto dal ricorrente (riconosciuto fotograficamente da Verderosa), quale stabile spacciatore della sostanza stupefacente fornita con cadenza regolare dal sodalizio medesimo, inserito nella lista gestita da Aprile e retribuito per la sua illecita attività (si veda pagina 46). Dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia è stata, inoltre, desunta, la risalente operatività del sodalizio, genericamente censurata dal ricorrente. L'ordinanza impugnata ha, inoltre, adeguatamente esaminato la questione, genericamente riproposta con il ricorso, in ordine alla rilevanza sulla ritenuta partecipazione della pressione esercitata dal sodalizio al fine di ottenere il monopolio nella fornitura della sostanza stupefacente. Con argomentazione immune da vizi logici, completamente ignorata dal ricorrente, il Tribunale ha escluso che tale circostanza possa incidere sul giudizio di gravità indiziaria e, in particolare sulla sussistenza della "affectio societatis", ponendo l'accento sul fatto che il ricorrente ha liberamente scelto di proseguire a spacciare per conto del sodalizio, continuando, peraltro, a interagire con un soggetto apicale del sodalizio (Aprile) e, conseguentemente, ha anche liberamente accettato le condizioni di monopolio da questo imposte. 4. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile per carenza di interesse del ricorrente, stante l'inidoneità dell'eventuale esclusione dell'aggravante ad incidere sull'"an" o sul "quomodo" della misura. Va, infatti, ribadito il consolidato principio di diritto in forza del quale, in tema di impugnazioni avverso misure cautelari personali, sussiste l'interesse concreto e attuale dell'indagato alla proposizione del riesame o del ricorso per Cassazione quando l'impugnazione sia volta ad ottenere l'esclusione di un'aggravante ovvero una diversa qualificazione giuridica del fatto, nel solo caso in cui ciò incida sull'"an" o sul "quomodo" della misura (così, da ultimo, Sez. 2, n. 17366 del 21/12/2022, Renna, Rv. 284489). Nel caso di specie già la mera partecipazione al sodalizio integra il fatto costitutivo della presunzione cautelare di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., sicché l'esclusione dell'aggravante non produrrebbe per il ricorrente alcuna conseguenza favorevole risultando, peraltro, analogo, il termine di fase (Sez. 3, n. 31633 del 15/03/2019, Irabor, Rv. 276237). 5. Deve ritenersi, invece, fondato il quinto motivo di ricorso. 5.1 Va, innanzitutto, premesso che sulla questione relativa alla rilevanza del tempo decorso dai fatti contestati sulla concretezza ed attualità delle esigenze cautelari, nei casi in cui opera la presunzione di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. sono ravvisabili nella giurisprudenza di legittimità due indirizzi ermeneutici. Secondo un primo orientamento, cui si è uniformata l'ordinanza impugnata, il c.d. "tempo silente" (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l'emissione della misura e i fatti contestati), ove non accompagnato da altri elementi fattuali, è inidoneo a superare la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. Si afferma, infatti, che detta presunzione è prevalente, in quanto speciale, rispetto alle disposizioni generali stabilite dall'art. 274 cod. proc. pen. cosicché se il titolo cautelare riguarda i reati previsti dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., la presunzione in esame fa ritenere sussistente i caratteri di attualità e concretezza del pericolo, salvo prova contraria, non desumibile, tuttavia, dalla sola circostanza relativa al mero decorso del tempo, ove non accompagnata da altri elementi circostanziali idonei a determinare un'attenuazione del giudizio di pericolosità (cfr. Sez. 2, n. 6592 del 25/01/2022, Ferri, Rv. 282766-02; Sez. 5, n. 4950 del 07/12/2021, dep. 2022, Andreano, Rv. 282865; Sez. 1, n. 21900 del 07/05/2021, Poggiali, Rv. 282004). 5.2 Altro orientamento, cui il Collegio intende dare continuità, ritiene, invece, che, pur se per i reati di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. è prevista una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, il tempo trascorso dai fatti contestati, alla luce della riforma di cui alla legge 16 aprile 2015, n. 47, e di una esegesi costituzionalmente orientata della stessa presunzione, deve essere espressamente considerato dal giudice, ove si tratti di un rilevante arco temporale privo di ulteriori condotte dell'indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, potendo lo stesso rientrare tra gli "elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari", cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, cod. proc. pen. (in tal senso, tra le tante, Sez. 6, n. 31587 del 30/05/2023, Gargano, Rv. 285272; Sez. 3, n. 6284 del 16/01/2019, Pianta, Rv. 274861). Si è, infatti, condivisibilmente affermato che la presunzione menzionata - in particolare nelle ipotesi in cui sono contestati un reato per sua natura non permanente oppure un reato permanente, come quello associativo, ma oggetto di contestazione "chiusa", perché corredata dall'indicazione del momento di cessazione della condotta partecipativa - tende ad affievolirsi, quando un considerevole arco temporale separi il momento di consumazione del reato da quello dell'intervento cautelare. Va, inoltre, considerata la specificità del reato associativo di cui all'art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in relaziona al quale la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di sottolineare come i legami tra compartecipi non presentino quella tendenziale stabilità nel tempo che, invece, contraddistingue l'appartenenza alle associazioni di stampo mafioso. Si è affermato, infatti, che in tema di misure coercitive disposte per il reato associativo di cui all'art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, la sussistenza delle esigenze cautelari, rispetto a condotte esecutive risalenti nel tempo, deve essere desunta da specifici elementi di fatto idonei a dimostrarne l'attualità, in quanto tale fattispecie associativa è qualificata unicamente dai reati fine e non postula necessariamente l'esistenza dei requisiti strutturali e delle peculiari connotazioni del vincolo associativo previste per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., di talché risulta ad essa inapplicabile la regola di esperienza, elaborata per quest'ultimo, della tendenziale stabilità del sodalizio in difetto di elementi contrari attestanti il recesso individuale o lo scioglimento del gruppo (Sez. 6, n. 3096 del 28/12/2017, dep. 2018, Busillo, Rv. 272153; Sez.3, n. 17110 del 19/1/2016, Schiariti, Rv. 267160; Sez. 6, n. 140 del 2712/2015, dep. 2016, Rubini, Rv. 265917; Sez. 6, n. 44129 del 22/10/2015, Rv. 265457; Sez. 4, n. 26570 dell'11/6/2015, Flora, Rv. 263817). 5.3 Tenendo presenti tali coordinate ermeneutiche, si ritiene che la valutazione contenuta nell'ordinanza cautelare in ordine all'attualità delle esigenze cautelari presenti aspetti di contradditorietà, meritevoli di una rivalutazione. L'ordinanza fonda la prognosi negativa essenzialmente sul fatto che la contestazione del reato associativo è "aperta" e che nel marzo 2022 veniva sequestrato un consistente quantitativo di cocaina detenuto da Ti.Fa., fratello di Ti.Fr., indicato quale uno degli associati. Entrambe le affermazioni non forniscono elementi rilevanti, dovendosi in primo luogo sottolineare come, al di là delia contestazione formale del tempus commissi delieti, la condotta contestata al ricorrente si arresta a marzo del 2018 e, quindi, a più di cinque anni prima dell'applicazione della misura (luglio 2023). A ciò deve aggiungersi che: a) il ruolo ricoperto dal ricorrente viene descritto come marginale, trattandosi di uno spacciatore al dettaglio, sostanzialmente tenuto a rifornirsi dal sodalizio che esercitava un controllo egemonico sull'attività illecita; b) la stessa perdurante attività dell'associazione, a prescindere dalla partecipazione del ricorrente, non è agevolmente riconducibile ad epoca successiva al novembre del 2018, epoca in cui venivano tratti in arresto i vertici della stessa. Né, a tal fine, può darsi rilievo al sequestro di cocaina eseguito nel 2022, posto che: a) il detentore dello stupefacente era soggetto che non risulta tra i partecipi all'associazione; b) il mero rapporto di parentela con uno degli associati (Ti.Fr.) è inidoneo a far ritenere la destinazione dello stupefacente ad alimentare i traffici del sodalizio. Va, infine, considerato che anche le argomentazioni in ordine alla personalità del ricorrente appaiono generiche e incomplete, mancando ogni riferimento all'epoca di commissione dei fatti cui si riferiscono le condanne considerate dal Tribunale. 5. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso deve essere accolto limitatamente alla ritenuta sussistenza dell'attualità delle esigenze cautelari. L'ordinanza impugnata va, dunque, annullata su tale punto con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Bari competente ai sensi dell'art. 309, comma 7, cod. proc. pen. che, nella rivalutazione delle esigenze cautelari, si atterrà ai principi sopra indicati. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Bari competente ai sensi dell'art. 309, co. 7, c.p.p. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 14 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA SEZIONE SESTA CIVILE composta dai magistrati: dott. (...) - Presidente relatore dott. (...) - (...) dott. (...) - (...) all'udienza del 29.05.2024 ha pronunciato - ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c. - la seguente SENTENZA definitiva nella causa civile in grado di appello iscritta al n. (...) registro generale degli affari contenziosi dell'anno 2019, vertente tra (...) c.f. (...), rappresentato e difeso dall'Avv.to (...) c.f. (...) con studio in (...) in virtù di mandato in atti presso cui è elett.te domiciliato, - (...) - e (...) S.p.A. (già (...) S.p.A.) (Codice Fiscale e P. IVA (...)), iscritta al n. (...)/99 del Registro delle (...) di (...) - REA n. (...), con sede (...)(...) n. (...) ((...)) che agisce a mezzo del procuratore speciale (...) in persona del legale rappresentante pro tempore (...) Dott. (...) con sede (...)(...) n.7 ((...)), (...) di iscrizione nel (...) di (...) e (...), iscritta presso la C.C.I.A.A. di (...) al n. 2015 ((...)- Racc. (...)), rappresentata e difesa unitamente e disgiuntamente dagli Avv.ti (...) ((...) - pec: (...)) e (...) ((...)# - pec: (...)) ed elettivamente domiciliat (...)(...) via (...) n. 26 ((...)), giusta procura allegata ex art. 83, comma 3, c.p.c., al ricorso per decreto ingiuntivo; - APPELLATA - MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Par. 1. - Con atto di citazione notificato in data (...), l'avvocato (...) ha proposto appello avverso la sentenza definitiva del Tribunale ordinario di (...) n. (...)/2019, pubblicata in data (...), resa all'esito del procedimento r.g. n. (...)/2016, promosso dall'odierno appellante nei confronti di E-(...) s.p.a. Par. 2. - I fatti di causa sono esposti nella sentenza impugnata come qui di seguito viene riportato. "Con atto di citazione in opposizione ritualmente notificato, l'Avv. (...) ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. (...)/2016 (R.G. n. (...)/2016) emesso dal Tribunale di (...) in data (...), avente ad oggetto la restituzione, in favore di E (...) S.p.a., della somma di Euro 228.085,92 da quest'ultima versata all'Avv. (...) ex art. 93 c.p.c. in forza di numerose sentenze di primo grado successivamente riformate in appello, oltre interessi come da domanda e spese della procedura. A fondamento dell'opposizione l'Avv. (...) ha dedotto: 1) preliminarmente l'incompetenza per territorio del Tribunale di (...) in favore del Tribunale di Napoli; 2) nel merito, l'inammissibilità della domanda di restituzione delle somme percepite a titolo di onorari in quanto non formulata nell'atto di appello; 3) l'assoluta genericità della domanda e infondatezza della stessa in ragione del diritto del difensore al compenso e della mancanza di adeguata prova del credito; 5) l'erroneità delle somme ingiunte in quanto comprensive di IVA e spese di precetto. E-(...) S.p.a. si costituiva in giudizio e, contestato tutto quanto ex adverso dedotto ed eccepito, ha concluso chiedendo il rigetto dell'opposizione e la conferma del decreto ingiuntivo o, in subordine, la condanna dell'opponente alla restituzione della somma accertata all'esito dell'istruttoria. Rigettata la richiesta di concessione della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo, la causa veniva istruita con la produzione di documenti e trattenuta in decisione all'udienza del 11.02.2019 con concessione dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica". Par. 3. - Il Tribunale adito, con l'impugnata sentenza, ha così deciso: "- In parziale accoglimento dei motivi di opposizione, revoca il decreto ingiuntivo n. (...)/2016 (R.G. n. (...)/2016) emesso dal tribunale di (...) in data (...); - Condanna l'Avv. (...) alla restituzione, in favore dell'opposta, del complessivo importo di Euro 223.842,97, oltre interessi legali dalla domanda al saldo effettivo; - (...) l'Avv. (...) alla refusione, in favore della parte opposta, delle spese del giudizio che ex D.M. n. 37/2018 liquida in Euro 13.430,00 per compensi, oltre spese generali, iva e cpa, come per legge". Par. 4. - Con l'atto di appello l'avvocato (...) ha chiesto di accogliersi le seguenti conclusioni : "(...) la Corte adita: a) Preliminarmente, sospendere l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado n. (...)/2019, RG (...)/2016, emessa dal Tribunale di (...) dott.ssa (...) pubblicata il 24 settembre 2019, non notificata, con fissazione immediata dell'udienza di sospensiva ex artt.283 c.p.c. e 351 c.p.c. b) Nel merito, in via preliminare, accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui il giudice ha rigettato l'eccezione di incompetenza territoriale in favore del Tribunale di Napoli e, per l'effetto, dichiararla, secondo quanto previsto al punto n. 1 del presente atto; c) accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado per omessa indicazione nell'atto di appello della domanda di ripetizione di somme e conseguente decadenza dalla proposizione della stessa: per l'effetto, dichiarare la domanda monitoria inammissibile per quanto esposto al punto n. 2 del presente atto; d) accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado per mancato assolvimento dell'onere della prova da parte di E- (...) in merito agli importi da restituire, secondo quanto esposto al punto n. 3 del presente atto; e) accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado per omessa pronuncia in merito al diritto ai compensi ed all'onorario, maturati in capo al professionista, per quanto esposto al punto n. 4 del presente atto; f) Per l'effetto, revocare integralmente il decreto ingiuntivo n. (...)/2016 emesso dal Tribunale di (...) g) (...) e per l'effetto, in accoglimento di tutti i motivi di appello suesposti, riformare integralmente la sentenza n. (...)/2019 RG (...)/2016 emessa dal Tribunale di (...) dott.ssa (...) il 24 settembre 2019; h) Con condanna alle spese del doppio grado di giudizio". Par. 5. - (...) E-(...) spa, costituitasi con comparsa di risposta depositata in data (...), ha resistito all'impugnazione chiedendo di accogliersi le seguenti conclusioni: "voglia l'Ecc.ma Corte di Appello di (...) ogni contraria reiectis, disattesa l'istanza ex art. 283 c.p.c. in quanto del tutto infondata in fatto e diritto sia sotto il profilo del fumus sia sotto quello del periculum, rigettare l'appello proposto dall'avv. (...) avverso la Sentenza del Tribunale di (...) n. (...)/2019, con integrale conferma della decisione di primo grado. (...) di spese, compensi di lite e rimborso forfettario spese generali" Par. 6. - All'odierna udienza i difensori delle parti hanno precisato le conclusioni, riportandosi ai rispettivi scritti, e hanno discusso oralmente la causa. Par. 7. - (...) è articolato in cinque motivi. Par. 7.1. - Con il primo motivo viene dedotta la "1. Incompetenza territoriale. Erroneità della sentenza". Si legge sul punto nella sentenza impugnata "(...) preliminare di incompetenza per territorio del Tribunale di (...) non può trovare accoglimento per i seguenti motivi. (...) E- (...) S.p.a. ha agito in giudizio per ottenere il pagamento di un'obbligazione pecuniaria (restituzione di somme versate in ottemperanza a sentenze di primo grado poi riformate in appello) liquida ed esigibile in quanto determinabile sulla base di quanto statuito nelle sentenze di primo grado riformate in appello. Quindi, per il combinato disposto degli articoli 20 c.p.c. e 1182 c.c., tale obbligazione pecuniaria deve essere eseguita al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza. (...) dovuto è, infatti, indicato nelle lettere di pagamento ed è facilmente determinabile sulla base di meri calcoli matematici (v. Cass. SS.UU. n.17989/16 nonché sentenze del Tribunale di (...) in analoghi casi di opposizione a decreto ingiuntivo proposte da avvocati antistatari ed aventi analogo oggetto, v. Tribunale di (...) n.21234/2018; 22585/2018; 17820/2018; 22241/2018; 4506/2018 etc.). Pertanto, poiché la creditrice E-(...) s.p.a. ha sede a (...) può ritenersi radicata la competenza territoriale del (...) adito". Deduce l'appellante che "Gli appelli proposti da E (...) alle sentenze di primo grado (favorevoli all'avv. (...) si sono conclusi con pronunce nelle quali è stato stabilito che nulla fosse dovuto a titolo di risarcimento o a qualsiasi altro titolo all'appellante con riserva di ripetizione delle somme eventualmente pagate in esecuzione della sentenza impugnata". La deduzione è infondata. Invero "Il credito restitutorio, relativo alle somme corrisposte, derivante dalla riforma della sentenza, trova titolo proprio in quest'ultima pronuncia ed ha per oggetto l'identica somma effettivamente incassata dalla parte tenuta alla restituzione, rivestendo quindi il debito in questione carattere liquido "ab origine", a nulla rilevando, ai fini della individuazione del giudice territorialmente competente, le eventuali contestazioni riferite all'"an" e al "quantum" (Cass., Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 7722 del 20/03/2019, Rv. 653444 - 01) Quindi l'accoglimento dell'appello determina la riforma della sentenza impugnata che non può più spiegare alcun effetto anche in ragione delle spese di lite liquidate. Ne deriva il diritto alla restituzione di quanto pagato. Dunque, la domanda di restituzione non può che avere ad oggetto delle somme determinate e liquide. Si tratta pertanto di obbligazioni pecuniarie da adempiere al domicilio del creditore a norma dell'art. 1182, comma 3, c.c. Giova rilevare che, ai fini della competenza territoriale, i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice in base allo stato degli atti, ai sensi dell'art. 38, comma 4, c.p.c. e ricorrono quando non è necessario ulteriore titolo negoziale o giudiziale, in quanto il titolo indica il criterio per determinare il compenso, a nulla rilevando le eventuali contestazioni riferite all'"an" e al "quantum". (Cfr. Cass., Sez. 2 -, Ordinanza n. (...) del 09/12/2021 - Rv. 663393 - 01, Cass., Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 7722 del 20/03/2019 - Rv. 653444 - 01). Par. 7.2. - Con il secondo motivo viene dedotta la "2.Erroneità della sentenza. Omessa indicazione della domanda di ripetizione nell'atto di appello. Decadenza". Si legge sul punto nella sentenza impugnata che "(...) domanda di restituzione formulata in sede di appello può avere fini cautelativi e anticipatori, ma, di contro, la mancata esplicitazione della richiesta, non è preclusiva di tale domanda, ben potendo essere chiesta anche in sede di ricorso monitorio (v. Cass. Sent n. 6579/2003; Cass., Ord. n. 28167/2013; Cass. 24.10.2018, n. 26926; Cass. 28 ottobre 2014 n. 22866; Cass. 15 aprile 2010 n. 9062). Ne consegue che nel caso in esame la società opposta non doveva necessariamente proporre nel giudizio di appello una specifica domanda di ripetizione delle spese corrisposte a titolo di spese del giudizio al procuratore distrattario e, pertanto, la relativa richiesta di restituzione delle spese a seguito di riforma della sentenza di primo grado ben può essere fatta valere in via monitoria; Cass. ord. n. 28167 del 17 dicembre 2013; Cass. 26 aprile 2003 n. 6579). La sentenza resa all'esito del giudizio d'appello, infatti, salvo che abbia contenuto in rito, si sostituisce in tutto e per tutto a quella di primo grado ponendosi quale nuova fonte di regolamentazione del rapporto litigioso e la nuova regolamentazione offerta dalla sentenza di appello elide ovviamente anche il capo di sentenza impugnata inerente le spese di lite, con l'ineludibile corollario dell'obbligo restitutorio a carico dell'accipiens delle spese di giudizio ove la decisione sia stata provvisoriamente eseguita". Deduce l'appellante che "la domanda di condanna alla restituzione delle somme versate in primo grado (a titolo di sorta o di onorari) non viene formulata, e viene rinviata ad un successivo ed eventuale momento, pertanto, è inammissibile in sede monitoria, perché mai proposta in appello e, per ciò inammissibile". Il motivo è infondato. Invero "Il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una decisione successivamente cassata, ovvero di sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello, sorge per il solo fatto della cassazione o della riforma della sentenza e può essere richiesto automaticamente, se del caso, anche con procedimento monitorio" (Cass., Sez. L, Sentenza n. 6579 del 26/04/2003, Rv. 562476 - 01). La giurisprudenza richiamata dall'appellato (Cassazione civile, sez. III, 08/07/2010, n.16152 e Cassazione civile, sez. III, 30/04/2009, n. 10124) appare inapplicabile alla fattispecie in esame in quanto riguarda la proponibilità della domanda nel giudizio di appello ma non esclude affatto che la domanda possa essere riproposta in un nuovo giudizio. Par. 7.3. - Con il terzo motivo viene dedotta la "3. Erroneità della sentenza. Mancato assolvimento dell'onere della prova da parte di E- (...) degli importi da restituire". Si legge sul punto nella sentenza impugnata che "Nel ricorso per decreto ingiunto la società opposta ha, infatti, precisato la sua domanda, indicando i nomi delle parti, la data di invio della lettera e di pagamenti degli importi corrisposti in esecuzione della sentenza di primo grado, le modalità di pagamento e la data e il numero della sentenza di riforma in appello di cui si allega lo schema .... Al ricorso risultano allegate le lettere raccomandate attestanti il pagamento delle spese legali e le sentenze d'appello menzionate nella tabella sopra riportata che giustificano la richiesta di restituzione delle stesse (v. lettere di pagamento dal nn.2 al n.64 e sentenze di appello dal doc. n. 65 al 478 allegati al ricorso). In particolare, si è riscontrato che nelle n.63 lettere raccomandate con ricevuta di ritorno la società opposta ha comunicato all'Avv. (...) il pagamento di compensi dovuti per le singole cause indicate nel ricorso, nonché per altri procedimenti le cui sentenze di primo grado non sono state riformate in appello e non sono oggetto del presente giudizio (v. doc. n.2-64 lettere a/r con relative ricevute di ricevimento, successivamente integrate con i documenti n.1-8 all. alle memorie ex art. 183 VI comma n.2). (...) ha, inoltre, fornito prova del pagamento delle somme indicate nelle predette lettere, allegando gran parte delle copie di assegni circolari inviati con le predette lettere o le matrici degli assegni circolari o richieste di pagamento di assegni con il sistema C.I.T. (v. doc. n.2-64 e doc. 9-26 all. memoria ex art. 183 VI comma n.2 c.p.c. di parte opposta). Quanto alle matrici degli assegni circolari, si ritiene che le stesse possano assumere valore probatorio del pagamento, in quanto recanti la data, il nominativo del beneficiario e l'importo corrisposto (v. Trib. (...) - Sezione Ottava - G.U. D.ssa (...) - (...) /2018 pubbl. il (...) secondo cui "(...) ha dimostrato la fondatezza della pretesa creditoria, tenuto conto che già in fase monitoria ha depositato le fotocopie dei cedolini degli assegni circolari n(....), recanti il nome del beneficiario, Avv(....), e soprattutto la dicitura "non trasferibile", in ragione della quale l'unico legittimato all'incasso era il suddetto beneficiario"). La società opposta ha, inoltre, precisato che molti dei predetti assegni sono stati pagati con il sistema "check truncation" che prevede che i titoli, anziché essere trasmessi materialmente dalla banca negoziatrice a quella trattaria, vengano trattenuti presso la prima e che il regolamento avvenga attraverso la trasmissione di dati in rete o su supporto magnetico. (...) è, infatti, custodito dalla banca negoziatrice e si intende pagato bene se entro un certo numero di giorni la banca negoziatrice non riceve contestazioni (D.L. 31 maggio 2011, n. 70, così come convertito dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, che ha modificato l'art. 31 del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736 (c.d. Legge Assegni). Una ulteriore conferma del pagamento delle spese di lite in favore dell'avv. (...) può, inoltre, essere desunta dalle allegate attestazioni del versamento in suo favore delle ritenute d'acconto, versamenti che ovviamente non avrebbero avuto ragion d'essere se in precedenza (...) non avesse corrisposto le spese di lite al netto di detta imposta (doc. nn. 64-67 e doc. n. 27 all. memoria ex art. 183 VI comma c.p.c.). Priva di pregio è risultata, infine, la contestazione dell'Avv. (...) relativa alla mancata indicazione di n. 30 cause nelle lettere allegate in atti e comprovanti il pagamento delle spese di lite in suo favore. Dall'attento esame delle lettere di pagamento, sono infatti risultate specificamente indicate le posizioni contestate: quanto a (...) (...) 049); (...) (...) 041); (...) (...) 043); (...) (...) 043); (...) (...) 002); (...) (...) 039); (...) (...) 041); (...) (...) 041); (...) (...) 041); (...) (...) 002); (...) (...) 011); (...) (...) 047); (...) (...) 051); (...) (...) 043); (...) (...) 049); (...) (...) 033); (...) (...) 049); (...) (...) 011); (...) (...) 043); (...) (...) 053); (...) (...) 002); (...) (...) 047); (...) (...) 039); (...) (...) 002); (...) (...) 053); (...) (...) 041); (...) (...) 002); (...) (...) 002); (...) (...) 048); (...) (...) 002); (...) (...) 041); (...) (...) 007). Con riguardo alle contestazioni mosse dall'opponente nella memoria ex art. 183, VI comma, n. 3, c.p.c., relative all'indicazione, nelle lettere di pagamento, di controversie non oggetto della richiesta di restituzione, si ribadisce che le n. 63 lettere sono state inviate all'esito di plurimi giudizi di primo grado introdotti dall'Avv. (...) per conto di differenti clienti e che soltanto alcune delle sentenze di primo grado sono state riformate e poste a base della domanda (v. ad es. all.to 057 lettera del 29.02.2007 prodotta in relazione alle domande proposte nei confronti di (...) e (...) in quanto nei confronti di (...) non è proposta alcuna domanda nel ricorso). Ne consegue che sulla base della predetta documentazione può ritenersi adeguatamente provato il pagamento dei compensi relativi alle controversie indicate nelle predette missive, atteso che alcuna prova contraria è stata fornita da controparte in merito al mancato invio o ricezione o incasso dei pagamenti indicati nelle predette missive per le cause nelle stesse elencate. In ordine alla prova fornita da parte opposta per ottenere la restituzione delle spese legali corrisposte in relazione a tutte le sentenze di primo grado indicate in ricorso e riformate in appello, si può osservare che, all'esito dell'istruttoria e sulla base dell'ulteriore documentazione allegata dalle parti, alcune delle contestazioni solevate da parte opponente sono risultate fondate. Nelle memorie ex art. 183, comma VI, nn. 1-2-3, c.p.c., l'Avv. (...) ha, infatti, dedotto che non aveva ricevuto il pagamento delle spese legali relative alla controversia di (...) in quanto patrocinata dall'Avv. (...) e che alcune delle sentenze di primo grado per le quali aveva ricevuto il pagamento delle spese legali, non erano state riformate in appello o era stata disposta la compensazione delle spese del solo grado di appello. Parte opposta ha ritenuto condivisibili alcuni dei rilievi di controparte relativi alle posizioni di (...) (importo euro 522,80), (...) (importo euro 1.319,17), (...) (importo euro 440,34), (...) (importo euro 633,26), (...) (importo euro 1.132,81), per un importo complessivo di euro 4.038,38 che viene quindi detratto dall'importo ingiunto di euro 228.085,92. Infatti, dall'esame dei documenti è emerso che non è stata allegata la sentenza relativa alla controversia di (...) e di (...) e quanto alla causa di (...) risulta patrocinata dall'Avv. (...) Infine, con riguardo alla causa relativa ai (...) e (...) nulla sarebbe dovuto dall'Avv. (...) stante il rigetto dell'appello. La contestazione sollevata dall'avv. (...) in ordine al diritto della società opposta di ottenere la restituzione dei compensi relativi alla causa (...) c/ E- (...) e (...) non può trovare accoglimento. Dall'esame della motivazione delle sentenze d'Appello emerge chiaramente che la sentenza gravata è stata riformata anche in punto di spese, (v. all. 433 sentenza (...) in cui si afferma che "in conseguenza della riforma della pronuncia di prime cure, non si è più in presenza di un'ipotesi di soccombenza dell'(...) S.p.a." nonché all. nn. 171 e 178) e, di conseguenza le spese corrisposte al procuratore antistatario non sono più dovute e devono essere restituite. Quanto invece alla contestazione relativa alla restituzione delle spese del giudizio di primo grado relative al giudizio promosso a nome del (...) si rileva che, nel dispositivo della sentenza di appello, il capo delle spese di primo grado è stato riformato con compensazione delle stesse nella misura del 50% con espressa condanna dell'opposta al pagamento in favore del procuratore antistatario della restante quota del 50% (v. all n. 259 comparsa). Pertanto, si ritiene che la società opposta possa richiedere soltanto la restituzione del 50% dell'importo indicato nel ricorso e precisamente di Euro 204,57. (...) ha inoltre contestato il mancato deposito delle sentenze di appello relative a giudizi (...)(...)(...)(...) La contestazione è infondata e difatti dette sentenze risultano prodotte in atti e precisamente: per (...) (...) 139 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 140 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 157 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 158 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 215 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 230 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 305 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 306 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 257 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 393 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 310 Fascicolo monitorio), per (...) (e non (...) (...) 361 Fasciolo Monitorio). In parziale accoglimento dell'opposizione ed accertato che non sono dovuti gli importi richiesti in relazione alle controversie promosse a nome dei (...)(...) e (...) si revoca il decreto ingiuntivo opposto e si condanna l'Avv. (...) alla restituzione, in favore dell'opposta, del complessivo importo di Euro 223.842,97, oltre interessi legali dalla domanda al saldo effettivo". (...) contesta l'esistenza della prova dei pagamenti. Il motivo è innanzitutto inammissibile. Infatti, l'appellante a fronte della ricostruzione certosina dei singoli rapporti effettuata dal (...) (elenco da pagina 5 a pagina 22) si limita a contestazione generiche senza far riferimento a singole poste. Se non fosse inammissibile il motivo sarebbe comunque infondato. (...) contesta la valorizzazione effettuata dal (...) dei versamenti delle ritenute d'acconto. La contestazione è infondata. Invero le ritenute presuppongono l'avvenuto pagamento di compensi altrimenti non avrebbero avuto senso. Aggiunge l'appellante che "In merito all'assenza di alcuna prova contraria, si rileva che non comprende come l'avv. (...) avrebbe potuto provare un fatto negativo, come il mancato pagamento di quanto sostenuto da controparte". Anche in questo caso, trattandosi di versamenti di assegni, l'appellante avrebbe potuto fornire tale prova attraverso il deposito di documentazione bancaria. Deduce ancora l'appellante che "l'avv. (...) nel medesimo periodo a cui risalgono i fatti di causa, ha incassato dalla medesima (...) anche somme relative ad altri giudizi, pertanto sarebbe stata necessaria l'imputazione dei pagamenti e delle relative ritenute di acconto ai giudizi oggetto del presente procedimento". Neppure in questo caso non sono indicate quali somme sono state ricevute e relativamente a quali rapporti. (...) contesta inoltre la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che "il pagamento di "molti" assegni sarebbe avvenuto con il sistema check truncation" in quanto "non vi è prova alcuna, fornita da E- (...) nel giudizio, di quali e quanti assegni siano stati emessi e negoziati con tale procedura, dei relativi importi e causali. In più, la mancata partecipazione al contenzioso da parte degli istituti bancari impedisce di conoscere se e quali titoli emessi con questa procedura siano stati effettivamente incassati dall'avv. (...)". La contestazione è infondata in quanto essi possono desumersi dalle comunicazioni bancarie che attestano l'incasso dei titoli con detta procedura. (...) ancora l'appellante che "la somma ingiunta, ed alla quale il giudice ha condannato la società alla restituzione, inoltre, è erroneamente inclusiva di (...) anche sul punto la sentenza dovrà essere riformata". La doglianza è infondata. Invero "Le domande di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, non costituisce domanda nuova, ed è perciò ammissibile in appello anche nel corso del giudizio, quando (come nella specie) l'esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell'impugnazione. Quanto all'entità della restituzione, essa deve includere anche gli accessori, come gli interessi e le spese, atteso che la riforma o la cassazione della sentenza provvisoriamente eseguita ha un effetto di "restitutio in integrum" e di ripristino della situazione precedente" (Cass., Sez. 1, (...) n. 11491 del 16/05/2006 - Rv. 590956 - 01). (...) le imposte erroneamente versate potranno essere oggetto di una richiesta di rimborso agli uffici finanziari. Par. 7.4. - Con il quarto motivo di appello viene dedotta la "4. Erroneità della sentenza. Omessa pronuncia. Il diritto al compenso e agli onorari". Deduce l'appellante che "spetta all'avvocato (...) il compenso per l'attività svolta nell'interesse dei clienti pur in presenza di sentenze di primo grado che siano state riformate; un'eventuale soccombenza dovrà ripercuotersi unicamente sulle parti in precedenza vittoriose". Il motivo è infondato. Infatti "(...) di distrazione delle spese processuali consiste nel sollecitare l'esercizio del potere/dovere del giudice di sostituire un soggetto (il difensore) ad altro (la parte) nella legittimazione a ricevere dal soccombente il pagamento delle spese processuali e non introduce, dunque, una nuova domanda nel giudizio, perché non ha fondamento in un rapporto di diritto sostanziale connesso a quello da cui trae origine la domanda principale; ne consegue da un lato che non sono applicabili le norme processuali sui rapporti dipendenti e che l'impugnazione della sentenza non deve essere rivolta anche contro il difensore distrattario, benché il capo della sentenza reso sull'istanza di distrazione sia destinato a cadere nello stesso modo in cui cade quello sulle spese reso nell'ambito dell'unico rapporto processuale, dall'altro che il difensore distrattario subisce legittimamente gli effetti della sentenza di appello di condanna alla restituzione delle somme già percepite in esecuzione della sentenza di primo grado, benché non evocato personalmente in giudizio" (Cass., Sez. 3, (...) n. 9062 del 15/04/2010 - Rv. 612482 - 01) Quindi, a seguito della riforma della sentenza impugnata, il difensore manterrà il proprio diritto ad ottenere il pagamento dei compensi professionali ma tale obbligo graverà sul suo assistito e non certo sulla parte vittoriosa nel giudizio di appello. Par. 8. - In conclusione, l'appello deve essere respinto. Par. 9. - Le spese processuali del grado seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo sulla base della legge 27/2012 e degli articoli 1-11 DM 55/14 - così come modificati dal DM Giustizia 147/2022 - in relazione al valore della causa (da Euro 52.000,01 ad Euro 260.000,00, tabella 12, 5° scaglione, compensi medi, escluso compenso della fase istruttoria/trattazione non espletata) e precisamente: Euro 2.977,00 per la fase di studio della controversia, Euro 1.911,00 per la fase introduttiva del giudizio ed Euro 5.103,00 per la fase decisionale per un compenso tabellare finale ex art. 4, comma 5, di Euro 9.991,00 oltre a spese generali, iva e cpa come per legge. Par. 10. - L' appellante è altresì tenuto, ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater D.P.R. 115/12, al versamento dell'ulteriore somma pari all'ammontare del contributo unificato dovuto. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello proposto da (...) nei confronti di (...) spa avverso la sentenza definitiva del (...) ordinario di (...) n. (...)/2019, così provvede: 1. rigetta l'appello; 2. condanna (...) a rifondere ad E-(...) spa le spese del grado, liquidate in complessivi Euro 9.991,00 per compensi, oltre a spese generali (15%), iva e cpa come per legge. 3. dichiara l'appellante (...) tenuto al versamento dell'ulteriore somma pari all'ammontare del contributo unificato dovuto.
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