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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. SERRAO Eugenia - Presidente Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere Dott. CENCI Daniele - Relatore Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Fa.Al. nato a F il (Omissis) avverso la sentenza del 21/12/2023 della CORTE APPELLO di FIRENZE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ANNA LUISA ANGELA RICCI; udito il PG LUCIA ODELLO che ha chiesto annullamento della sentenza per essere il reato estinto udito il difensore avv. AL.MA., del foro di Firenze, in sostituzione, per delega orale, dell'avvocato NI.MA., in difesa di Fa.Al. che ha chiesto l'annullamento della sentenza per essere il reato estinto RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO 1. La Corte d'appello di Firenze, con sentenza del 21 dicembre 2023, ha confermato la sentenza del Tribunale di Firenze di condanna di Fa.Al. in ordine al reato di cui all'art. 590-bis cod. pen., commesso in Firenze il 12 dicembre 2016. 2. Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso l'imputato, a mezzo di difensore, formulando quattro motivi. 2.1 Con il primo motivo ha chiesto la declaratoria di estinzione del reato per condotte riparatorie, da ritenersi applicabile in virtù della sopravvenuta modifica normativa circa la procedibilità del reato di cui all'art. 590-bis cod. pen. Il difensore osserva che tale reato, in virtù del D.Lgs. 150/2022, è divenuto procedibile a querela e, dunque, ad esso è oggi applicabile la causa di estinzione del reato ex art. 162- ter cod. pen. conseguente a condotte riparatorie. A tale riguardo, precisa che al momento della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, entro il quale la condotta riparatoria deve intervenire per espressa disposizione normativa, il reato era ancora procedibile di ufficio e che la stessa Corte di Appello nella sentenza impugnata aveva dato atto che il danneggiato aveva ricevuto Euro 10.600 dall'assicurazione, Euro 10.222,76 dall'Inail, e Euro 1000,00 a titolo di provvisionale. L'istanza di estinzione del reato ex art. 162-ter cod. pen. può, dunque, secondo il difensore, essere avanzata per la prima volta in sede di legittimità. 2.2. Con il secondo motivo ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione per avere la Corte rigettato la richiesta di intervento del responsabile civile, ovvero della società che aveva stipulato il contratto di assicurazione per la responsabilità civile, avanzata dall'imputato quale conducente del motoveicolo. Il difensore osserva che la polizza nel caso di specie non prevedeva che la copertura assicurativa si attivasse solo in caso di guida esclusiva del soggetto contraente, sicché vi era motivo per discostarsi dall'orientamento, cui anche la Corte di Appello aveva aderito, secondo cui la citazione del responsabile civile è facoltà del solo imputato che sia contraente della polizza e non anche del soggetto che sia terzo rispetto alla polizza. La Compagnia Assicurativa, comunque, è sempre tenuta a risarcire il soggetto danneggiato da un sinistro anche quando il contraente della polizza sia diverso dal soggetto che guida il mezzo al momento del fatto, di talché il conducente di un veicolo coperto da polizza assicurativa deve essere necessariamente ritenuto legittimato a chiedere la citazione in giudizio della Compagnia Assicurativa. 2.3. Con il terzo motivo, ha dedotto la violazione di legge e il vizio di di motivazione in relazione alla affermazione della responsabilità penale. Il difensore osserva che non sarebbe certa la dinamica del sinistro, con particolare rifer1mcr1to alla posizione dei due veicoli al momento dell'impatto. 2.4. Con il quarto motivo ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. La Corte aveva ritenuto ostativa alla pronuncia assolutoria la gravità delle lesioni cagionate alla vittima, ma in tal modo non aveva considerato che la valutazione cui è chiamato il giudice in sede di applicazione della causa di non punibilità in esame deve essere globale e ancorata alla fattispecie concreta. La Corte, fra l'altro, avrebbe dovuto tenere conto, a seguito della nuova formulazione dell'art. 131 bis cod. pen., anche della condotta successiva al reato, ovvero della corresponsione da parte di Fa.Al. della provvisionale. 3. In data 16 aprile 2024 è pervenuto il verbale di dichiarazione di remissione di querela da parte della persona offesa con contestuale accettazione da parte del querelato. 4. Non rinvenendosi elementi per un proscioglimento nel merito ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen., va disposto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per essere il reato estinto per intervenuta remissione della querela. Le spese del procedimento sono a carico del querelato, non essendo stato diversamente convenuto dalle parti nell'atto di remissione. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per remissione di querela. Condanna il querelato al pagamento delle spese. Deciso in Roma il 17 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere-Rel. Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere Dott. ANTEZZA Fabio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ra.Gi. nato a P il (Omissis) avverso la sentenza del 11 maggio 2023 della Corte Appello di Venezia visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Serrao Eugenia; letta la requisitoria del Procuratore generale, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. letta la memoria di replica del difensore, che ha concluso per l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Venezia, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la pronuncia con la quale il 20 aprile 2021 il Tribunale di Belluno aveva dichiarato Ra.Gi. responsabile del reato previsto dagli artt. 40, comma 2, e 590, commi 1, 2 e 3, cod. pen. per avere cagionato, nella sua qualità di procuratore speciale con delega per la sicurezza della ditta Ra. Wood Technology Srl, per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia nonché nella violazione della normativa antinfortunistica, lesioni personali al dipendente Ro.Pi. giudicate guaribili in 93 giorni. 1.1. In dettaglio, il dipendente della Ra. Wood si stava occupando, in A, Rifugio (Omissis), il 22 ottobre 2015 dell'operazione di taglio a misura di un pezzo di trave avente una sezione 16 x 16 e una lunghezza di circa 40 centimetri che, dopo aver posizionato a terra, teneva fermo col piede sinistro mentre con entrambe le mani impugnava la motosega STIHL MS 260 con la quale ne intaccava un'estremità quando improvvisamente la lama della motosega era rimbalzata verso di lui (cosiddetto kick back) colpendolo al viso e provocandogli le lesioni. 1.2. All'imputato si è contestato di aver omesso di assicurare che il lavoratore ricevesse una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza in merito alle condizioni di impiego della motosega e alle situazioni anomale prevedibili, non risultando adottata alcuna precauzione per fissare il pezzo stabilmente e per evitare il rimbalzo, e nel non aver messo a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi alla legislazione vigente e idonee ai fini della salute e della sicurezza, posto che il lavoratore non aveva a disposizione alcuna attrezzatura, ad esempio una morsa, per fissare il pezzo stabilmente nè attrezzature più adatte di una motosega, ad esempio una sega circolare o una sega a nastro, per effettuare l'operazione di taglio. 2. Ra.Gi. propone ricorso censurando la sentenza, con il primo motivo, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato assolvimento degli obblighi specifici formativi nonché in ordine alla sussistenza del nesso causale e inosservanza o errata applicazione degli artt. 40 e 590, commi 1, 2 e 3, cod. peno nonché 37, comma 1, e 73, comma 1, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81. Secondo la difesa, il generico richiamo contenuto nella sentenza al "mancato assolvimento dell'obbligo formativo del lavoratore" rende la motivazione apparente. La Corte, si assume, ha omesso di valutare alcune peculiari circostanze, ossia il fatto che il lavoratore fosse stato assunto dalla ditta il 18 maggio 2015, poco prima dell'infortunio; che la parte offesa aveva affermato di aver lavorato per quindici anni in proprio costruendo baite e utilizzando la motosega otto ore al giorno per trecento giorni l'anno; che aveva precisato di aver sempre fatto il carpentiere e il falegname da circa trent'anni; che lo stesso lavoratore aveva dichiarato di usare la motosega da vent'anni in su e di non aver mai subito infortuni; che aveva affermato di conoscere il tipo di motosega in questione, utilizzando sempre la stessa tipologia e al 90% quel modello; che l'ispettore dello Spisal di B Ca.Gi. aveva accertato che il lavoratore, prima di essere assunto, aveva svolto corsi di formazione come responsabile del servizio di prevenzione, per l'antincendio e primo soccorso e per il montaggio dei ponteggi, mentre per l'uso della motosega non è previsto un corso specifico come per altri tipi di attrezzature, rientrando nella formazione generale; che il medesimo teste aveva precisato come nel piano operativo di sicurezza presente in cantiere vi fosse un paragrafo che trattava proprio della motosega tra le varie attrezzature, elencando i dispositivi di protezione individuale a disposizione, come il casco con visiera oppure occhiali, braghe anti taglio, scarpe antinfortunistiche, e che prendeva in considerazione anche il rischio di kick back o rimbalzo trattandosi di rischio molto conosciuto che viene trattato anche dalle linee guida dell'Inail, della Regione e così via. La difesa sostiene, pertanto, che nel caso concreto non vi fossero i presupposti per affermare la condotta omissiva del datore di lavoro, posto che l'ispettore del lavoro aveva dichiarato che Ro.Pi. avesse ricevuto un'adeguata formazione in materia di sicurezza prima della sua assunzione cosicché, visto anche il brevissimo lasso di tempo trascorso tra l'assunzione e l'infortunio, si sarebbe dovuto ritenere che non vi fosse alcun obbligo formativo ulteriore da parte di un'impresa di cui è stata dimostrata l'assoluta diligenza nell'organizzazione dei corsi di sicurezza dei propri dipendenti (deposizione Ga.Re.). Nel piano operativo di sicurezza vi era un paragrafo che trattava della motosega, per la quale non è previsto un corso specifico, così che non sarebbe stato possibile comprendere quale altra formazione dovesse essere impartita al lavoratore e quale colpa specifica potesse essere addebitata all'imputato. In ogni caso, si assume, mancherebbe il nesso causale tra la pretesa "generica formazione" e l'evento lesivo in quanto la sentenza non contiene alcuna motivazione in merito alle ragioni per le quali la cosiddetta generica formazione avrebbe evitato l'evento, essendo al contrario del tutto plausibile la conclusione opposta. Con il secondo motivo deduce inosservanza o errata applicazione degli artt. 71, comma 1, D.Lgs. n. 81/2018 e 530, comma 2, cod. proc. pen. nonché i mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e . travisamento della prova relativa all'assenza di una circolare e di attrezzature. Idonee alla lavorazione dei piccoli pezzi. La valutazione della Corte, secondo la quale la mancanza di un attrezzo idoneo o di un ulteriore attrezzo e di attrezzature atte a bloccare in sicurezza il pezzo da tagliare avrebbe costretto il lavoratore alla manovra pericolosa, è fondata su una incompleta valutazione del materiale probatorio, posto che il teste Ro.Pi. aveva confermato la presenza in cantiere di una sega circolare, così sussistendo il vizio di travisamento della prova relativa alla presenza di attrezzature idonee alla lavorazione di piccoli pezzi; la motivazione è altresì errata quanto alla contestata assenza di altri dispositivi più adatti rispetto alla motosega utilizza bili per il taglio della trave poiché l'ispettore del lavoro non ha confermato l'assenza di attrezzature idonee in loco, conseguendone anche sotto tale profilo il travisamento della prova. 3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. 4. Il difensore del ricorrente ha depositato conclusioni scritte, insistendo per l'accoglimento dei motivi di ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. La consistenza dei motivi di censura non può essere apprezzata se non confrontando le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito che, in quanto conformi, si integrano tra loro. 2. Con riguardo al primo motivo di ricorso, la motivazione espressa dai giudici di merito non può considerarsi apparente ed è conforme all'interpretazione sposata dalla giurisprudenza di legittimità in merito ai presupposti sui quali si fonda l'obbligo di formazione dei lavoratori quale regola antinfortunistica. Si tratta di censura manifestamente infondata. 2.1. Il giudice di primo grado, in merito alla formazione del lavoratore, ha sottolineato come, per quanto i testi introdotti dalla difesa dell'imputato avessero riferito di corsi di formazione organizzati dalla società, a tali corsi il Ro.Pi. non avesse partecipato, ritenendo provato che il lavoratore non avesse ricevuto dal datore di lavoro alcuna formazione e che l'esperienza e la formazione già maturate e acquisite non fossero idonee a sostituire gli adempimenti formativi gravanti sul datore di lavoro. 2.2. In replica a censura identica a quella formulata con il primo motivo di ricorso, la Corte territoriale ha condiviso la valutazione delle emergenze probatorie formulata dal giudice di primo grado anche perché conforme alla giurisprudenza di legittimità secondo la quale l'adempimento degli obblighi formativi non è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, spiegando in concreto, con motivazione esente da vizi, in punto di nesso di causa che una formazione ulteriore, anche generica, avrebbe acuito e favorito l'attenzione e la maggiore consapevolezza in capo al lavoratore dei rischi propri dell'utilizzo di quello specifico strumento, evitando l'eccesso di confidenza con l'attrezzo e la conseguente imprudenza. 2.3. L'assunto secondo il quale, avendo il lavoratore seguito altrove corsi di formazione poco tempo prima dell'assunzione non fosse necessario formarlo ulteriormente, sostiene il giudizio espresso dalla Corte territoriale circa la condotta colposa del datore, piuttosto che confutarlo. L'attività di formazione del lavoratore, alla quale è tenuto il datore di lavoro, deve necessariamente precedere l'adibizione del lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto, non può essere esclusa dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, né dal travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro. L'apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e della prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione previste dalla legge (Sez. 4, n. 8163 del 13/02/2020, Lena, Rv. 278603 - 01; Sez. A, n.21242 del 12/02/2014, Nogherot, Rv. 25921901). 3. Per quanto riguarda l'assenza in cantiere di altra attrezzatura idonea e adeguata per l'operazione di taglio ovvero di attrezzo idoneo a fissare il pezzo, come ad esempio una morsa, il ricorrente si duole del travisamento della deposizione dell'ispettore del lavoro, che non costituirebbe pertanto prova di tale addebito. 3.1. Il Tribunale ha, in primo luogo, sottolineato come tale circostanza non fosse stata smentita dalla difesa e come il fatto che la decisione di utilizzare la motosega fosse stata assunta in totale autonomia dal lavoratore non fosse sufficiente a escludere il nesso di causalità con le omissioni contestate al datore, trattandosi di adempimenti diretti ad arginare e superare l'imprudenza del dipendente; imprudenza più frequente nei lavoratori con esperienza. 3.2. Tale punto della decisione di primo grado, pur risultando specificamente attinto dall'atto di appello mediante richiamo a quanto dichiarato dall'ispettore del lavoro Ca.Gi. in merito al dubbio se esistessero o meno in loco morsetti o altro strumento per fermare la trave, ha formato oggetto di disamina da parte della Corte territoriale, che si è soffermata sull'inidoneità della motosega a disposizione del lavoratore per la lavorazione di piccoli pezzi quale elemento dirimente in rapporto al fenomeno di rimbalzo che si rischia di attivare utilizzando l'attrezzo "di punta". 3.3. La Corte di appello, che ha fatto riferimento a quanto dichiarato dal lavoratore infortunato all'udienza del 24 settembre 2019, ha ritenuto sufficiente a sostenere il giudizio di responsabilità la circostanza che il Ro.Pi. non avesse avuto in uso una sega circolare. 3.4. Va precisato ulteriormente che, qualora l'addebito di responsabilità si fondi su plurimi elementi di prova, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti e ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Sez. 2, n.7986 del 18/11/2016, dep.2017, La Gumina, Rv. 269218 - 01). 4. Alla declaratoria d'inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", il ricorrente va condannato al pagamento di una somma che si stima equo determinare in Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 13 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. TRIA Lucia - Presidente Dott. MAROTTA Caterina - Consigliere Dott. TRICOMI Irene - Consigliere Dott. BELLÈ Roberto - Consigliere Dott. CASCIARO Salvatore - Rel. - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 30758-2018 proposto da: Mo.Do., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (...), presso lo studio dell'avvocato TO.PR., rappresentato e difeso dall'avvocato FA.SE.; - ricorrente principale - contro Azienda Sanitaria Locale di S, in persona del Commissario Straordinario legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso i rispettivi indirizzi PEC degli avvocati EM.TO., GE.SA., che la rappresentano e difendono; - controricorrente - ricorrente incidentale - nonché contro Mo.Do.; - ricorrente principale - controricorrente incidentale - avverso la sentenza n. 196/2018 della CORTE D'APPELLO di SALERNO, depositata il 18/04/2018 R.G.N. 72/2016; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/05/2024 dal Consigliere Dott. SALVATORE CASCIARO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso principale, rigetto dell'incidentale. FATTI DI CAUSA 1. Con sentenza n. 196/18 la Corte d'appello di Salerno ha accolto parzialmente il gravame proposto dall'ASL S e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, ha condannato l'appellante al pagamento in favore di Mo.Do., medico specialista ambulatoriale, della somma complessiva in Euro 392,17, a titolo di (ulteriore) danno per l'infortunio in itinere occorsogli, in data 27.1.2012, allorché, quale trasportato su auto aziendale, era di ritorno da una visita domiciliare. 2. La Corte salernitana riteneva non fosse in discussione che l'accordo nazionale collettivo prevedesse un obbligo dell'ASL di stipulare una polizza assicurativa a tutela dell'integrità psico-fisica dei medici in attività esterna e che l'ASL fosse stata inadempiente nello stipularla, sicché restava direttamente obbligata a risarcire il complessivo danno patito dal Mo.Do. a seguito dell'incidente stradale. 3. Osservava che i medici specialisti ambulatoriali non avevano alcuna copertura INAIL e, quindi, il Mo.Do. aveva percepito dall'assicurazione dell'auto aziendale solo l'importo di Euro 2.400,00 (indennizzo questo che andava, comunque, detratto da quello complessivo a lui dovuto). 4. La Corte di merito riteneva, nondimeno, fondate le censure sollevate dall'ASL in relazione ai criteri di determinazione del danno adottati in primo grado, posto che, ai fini della liquidazione del danno biologico, bisognava tener conto di criteri obiettivi e a carattere generale, come quelli - obbligatori - previsti nelle Tabelle del Tribunale di Milano. 5. Tenuto conto di un danno permanente del 2%, per come documentato in atti e dell'età del danneggiato al momento dell'incidente, con le Tabelle di Milano dell'anno 2014 si perveniva a quantificare l'intero risarcimento in Euro 2.250,00, cui andava aggiunto l'importo di Euro 542,29 per i sette giorni di invalidità totale accertata e ridotta al 50%, per un totale complessivo di Euro 2.792,17, ben inferiore a quello (Euro. 21.200,56) liquidato dal primo giudice la cui sentenza andava, dunque, riformata. 6. Avverso la detta sentenza Mo.Do., con atto notificato l'08/10/18, ha proposto ricorso per Cassazione affidato ad un unico motivo assistito da memoria, cui si è opposta la ASL con controricorso contenente altresì ricorso incidentale condizionato basato su un solo motivo. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con l'unico motivo il ricorrente principale denuncia (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) violazione e falsa applicazione dell'art. 41 dell'accordo collettivo nazionale (ACN del 9.3.2000) per i medici specialisti ambulatoriali, stipulato ai sensi dell'art. 48 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, e del comma 8 dell'art. 8 del D.Lgs. n. 502/1992, così come modificato dal D.Lgs. n. 617/93 e dal D.Lgs. n. 229/99, nonché del D.P.R. n. 271/2000 (art. 29). Si sostiene che erroneamente la sentenza, non qualificando la domanda risarcitoria come da inadempimento di obbligo contrattuale, aveva liquidato il danno al 2% di IP sulla base delle tabelle del danno biologico del Tribunale di Milano anziché dei massimali di polizza dell'art. 41 ACN, non avvedendosi in tal guisa che il massimale stabilito dall'ACN per l'invalidità permanente totale costituiva, altresì, la base per liquidare il danno per invalidità permanente parziale derivante da infortunio, (beninteso) in misura proporzionale alla percentuale dell'invalidità. 2. Il motivo è fondato. 2.1 Gli accordi nazionali per la disciplina dei rapporti con i medici convenzionati (ai sensi 48 della legge 23 dicembre 1973, n. 833, istitutiva del Servizio sanitario nazionale) non costituiscono fonte negoziale diretta di disciplina dei rapporti convenzionali considerati, in quanto di per sé inidonei ad inserirsi nell'ordinamento con propria forza cogente, ma rappresentano - secondo la giurisprudenza (ora) consolidata di questa Corte (vedi, per tutte, le sentenze n. 12595/1993, n. 159/1998 delle Sezioni Unite; Cass. n. 10980/2002, nn. 8066, 1918/1998, n. 5952/1997, n. 6371/1996, n. 2066/1996, nn. 8742, 6824, 4746, 3628/1995, n. 6800/1994) - soltanto la fase consensuale di un complesso procedimento di produzione normativa, che si conclude con l'intervento pubblico, nella forma del decreto presidenziale, che ha contenuto ed efficacia giuridica di fonte di normazione secondaria. Coerentemente, ne può essere denunciata, in sede di legittimità, la violazione e falsa applicazione (ai sensi dall'art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) - secondo la stessa giurisprudenza - e questa Corte può sottoporle ad interpretazione diretta (in base ai criteri previsti dall'art. 12 delle preleggi). 2.2 Tanto premesso sulla deducibilità del vizio ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., giova sottolineare che l'assicurazione contro gli infortuni non mortali rientra nel genus dell'assicurazione contro i danni e, più precisamente, costituisce una polizza stimata, ai sensi dell'art. 1908, comma 2, cod. civ., per la copertura dei danni non patrimoniali alla persona. L'importo del "massimale" previsto da siffatta polizza costituisce dunque, più propriamente, il "valore della cosa assicurata", liberamente concordato tra le parti ai sensi dell'art. 1908, comma 2, cod. civ. (cfr. in tal senso: Cass., Sez. U, Sentenza n. 5119 del 10/04/2002, Rv. 553633-01; conf.: Sez. 3, Sentenza n. 13233 del 11/06/2014, Rv. 631753-01). La determinazione dell'indennizzo dovuto dall'assicuratore in caso di infortunio non mortale, di conseguenza, richiede solo l'individuazione della percentuale dell'invalidità, ma non una stima economica del danno, in quanto tale ultima stima è già operata contrattualmente nella polizza. 2.3 Il criterio di determinazione dell'indennizzo fissato dalle parti impone a tal fine di fare riferimento, adeguandoli in proporzione, agli importi previsti per il caso di invalidità permanente e temporanea totali. Esistendo uno specifico criterio negoziale di liquidazione dell'indennizzo, non può ritenersi pertanto consentita l'applicazione, a tal fine, del criterio di liquidazione equitativo del danno non patrimoniale di cui all'art. 1226 cod. civ. 2.4 È quindi fondata la pretesa del ricorrente, secondo il quale il quantum risarcitorio collegato all'inadempimento da parte della ASL dell'obbligo di stipula della polizza deve essere pari all'indennizzo per l'invalidità permanente e temporanea, il quale a sua volta deve essere in concreto calcolato sulla base degli importi dei massimali di polizza, e non mediante l'applicazione delle cd. Tabelle milanesi per la liquidazione del danno non patrimoniale, considerate invece dal giudice d'appello. 2.5 Va in questo modo data continuità al principio già affermato da questa Corte secondo cui "Gli importi dei massimali delle polizze per la copertura assicurativa dei medici specialisti ambulatoriali stipulate dalle aziende sanitarie locali in adempimento degli obblighi previsti nei decreti presidenziali che recepiscono gli accordi collettivi nazionali - copertura comprensiva anche del rischio da infortunio "in itinere" per i servizi prestati in un comune diverso da quello di residenza - costituiscono anche la base per liquidare il danno da invalidità, permanente e temporanea, parziale e totale, liquidazione che deve avvenire sulla base di detti massimali in misura proporzionale alla percentuale dell'invalidità, e non in applicazione degli ordinari criteri di liquidazione del danno non patrimoniale" (Cass., Sez. 3, n. 9961 del 20/04/2017; si tratta, peraltro, di orientamento consolidato a partire da Cass., Sez. L, sentenza n. 11736 del 24/11/1997 secondo cui "a seguito dell'omessa stipulazione della copertura assicurativa e della verificazione di un infortunio ricadente nella prevista copertura assicurativa, la U.S.L. non è obbligata a tenere indenne il medico infortunato da ogni pregiudizio subito, ma la sua responsabilità ha ad oggetto il danno subito dal medico a causa dell'inadempimento al suddetto obbligo. La liquidazione di tale danno rientra nei poteri del giudice di merito e una sua quantificazione rapportata ai massimali (nella specie, di duecento milioni per l'ipotesi in invalidità totale e in proporzione in caso di invalidità permanente parziale) previsti nella polizza successivamente stipulata d'intesa col sindacato deve ritenersi, data la sua ragionevolezza, immune da vizi logici denunciabili in sede di legittimità"). 2.6 Ne consegue che il risarcimento del danno spettante al medico ambulatoriale per l'inadempimento della USL all'obbligazione di stipulare la polizza assicurativa deve essere commisurato ai criteri sopra esposti, ossia all'indennizzo che al medico sarebbe spettato nel caso di adempimento della USL all'obbligo di assicurarlo (Cass., n. 9961/2017, cit.; Cass., Sez. L, Sentenza n. 9034 del 12/05/2004, Rv. 572819-01; Cass., Sez. L, n. 11736 del 24/11/1997, Rv. 510306-01, nonché, nel medesimo senso, anche se con riguardo a questioni in parte differenti: Sez. L, n. 8066 del 17/08/1998, Rv. 518084-01; Sez. L, n. 14898 del 23/11/2001, Rv. 550574-01). 3. Nell'unico motivo del ricorso incidentale condizionato si deduce (art. 360 n. 4 cod. proc. civ.) la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. per "l'omessa pronuncia sui motivi di appello": l'ASL aveva contestato la statuizione di primo grado laddove aveva ritenuto che sulla percentuale di IP al 2% non vi fosse contestazione, quest'ultima invece essendo stata formulata dall'Azienda alla quale, ai sensi dell'art. 1304 cod. civ., non potevano estendersi gli effetti della transazione intervenuta tra il terzo trasportato e la compagnia assicuratrice del veicolo; la Corte d'appello aveva erroneamente "omesso di pronunciarsi sulla mancata prova dell'appellato del suo preteso diritto ad un ulteriore risarcimento rispetto a quello percepito dall'assicurazione r.c. auto". 4. Il motivo, non esente da profili di inammissibilità, è infondato. Invero, la doglianza non si confronta col decisum, da cui si desume che il giudice d'appello ha ritenuto risultasse comprovata in atti l'esistenza di postumi permanenti al 2%. La Corte d'appello, lungi dal fare richiamo al principio di non contestazione, ritiene, infatti, che "un residuo danno permanente al 2% (...) è documentato in atti", sicché si pronuncia, implicitamente, sulla prova da parte dell'appellato del suo preteso diritto, ritenendo che la misura dell'IP al 2% emerga "documentalmente"; trattasi di argomentazione che, per quanto concisa, rispetta il minimum costituzionale, e non viene peraltro specificamente censurata dall'ASL ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. 5. Conclusivamente, alla stregua delle considerazioni esposte, si deve accogliere il ricorso principale, mentre va rigettato quello incidentale condizionato; la sentenza impugnata dev'essere, pertanto, cassata, in relazione al ricorso accolto, con rinvio per nuovo esame alla Corte d'appello di Salerno che provvederà, in diversa composizione, anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso principale, rigetta quello incidentale condizionato, cassa la sentenza impugnata, in relazione al ricorso accolto, e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d'appello di Salerno, in diversa composizione. Dichiara che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso incidentale, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile, l'8 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7409 del 2020, proposto da La. Az. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ra. Iz., Al. Vi. Or. e Li. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Ra. Iz. in Ro., via (…); contro Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Istituto Superiore di Sanità, Ispra - Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; Regione Toscana, Sindaco del Comune di (Omissis) nella Qualità di Commissario Delegato al Risanamento Ambientale Laguna di (Omissis), Comune di (Omissis), Arpat Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Toscana, Azienda Usl Toscana Sud Est (Ex Azienda Usl 9 di Grosseto), Enea - Agenzia Nazionale per Le Nuove Tecnologie L'Energia e Lo Sviluppo Economico Sostenibile, Provincia di Grosseto, Commissario Delegato al Risanamento Ambientale della Laguna di (Omissis), non costituiti in giudizio; Inail - Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Am., Vi. Za. e Re. To., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Ro. Va., in qualità liquidatore della Si.To.Co - Società Interconsorziale To. Co. S.r.l. in Liquidazione, rappresentato e difeso dall'avvocato Da. Gr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Ro., (…); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda-Bis) n. 1426/2020, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dello Sviluppo Economico, del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, dell’Istituto Superiore di Sanità, di Ispra - Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale, di Inail - Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro e di Ro. Va.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2024 il Cons. Thomas Mathà e uditi per le parti l’avvocato Ra. Iz., l’Avvocato dello Stato Luigi Simeoli e l’avvocato Da. Gr.; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La La. Az. S.r.l. adiva il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio per ottenere l’annullamento del decreto dell’11.8.2008 del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, n. 4877, che approvava il verbale della conferenza di servizi decisoria del 25.6.2008 recante prescrizioni per interventi di messa in sicurezza del sito di interesse nazionale di (Omissis) - area “ex Si.”, e, con ricorso con motivi aggiunti, della nota ministeriale del 30.1.2009 riguardante la diffida a provvedere. 2. Il decreto aveva intimato alla società, nella qualità di proprietaria di un grande complesso industriale presso il sito inquinato di interesse nazionale “(Omissis) area ex SI.” e soggetto ad interventi di bonifica, “1. La realizzazione degli interventi di messa in sicurezza delle acque di falda mediante marginamento fisico immorsato fino alla base dello strato impermeabile sottostante la falda profonda contaminata, da estendersi sul lato terra di proprietà, a partire dall’argine del Canale Navigabile prospiciente l’area industriale ex Si. fino all’area dello St., tale da intercettare tutti gli apporti inquinanti derivanti dalla medesima falda contaminata e dal ruscellamento delle acque superficiali provenienti dall’area di proprietà della Società La. Az. S.r.l.; 2. la rimozione e lo smaltimento, ai sensi della vigente normativa in materia, dei rifiuti che erano presenti in precedenza sul piazzale oggetto dell’intervento di impermeabilizzazione, che durante i sopralluoghi del 6.06.2007 e del 24.10.2007 risultavano abbancati nell’area libera compresa fra le due ali degli edifici nonché di quelli presenti all’interno degli edifici medesimi; 3. la realizzazione delle opere di protezione provvisoria intorno al “Bacino 1”, di proprietà della Società La. Az. S.r.l., dotate di caratteristiche idonee a trattenere gli inquinanti nel corso degli interventi di messa in sicurezza, nonché la successiva rimozione dei rifiuti medesimi”. 3. Successivamente, con nota del 30.1.2009 prot. 2033 il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare diffidava la Società ad adempiere entro 10 giorni: “1) alla realizzazione degli interventi di messa in sicurezza delle acque di falda; 2) alla realizzazione delle opere di protezione provvisoria intorno al Bacino 1; 3) al completamento degli interventi di rimozione e smaltimento dei rifiuti presenti all’interno del fabbricato.” 4. I fatti storici che sono alla base della suddetta decisione sono sostanzialmente pacifici e risultano dal suo contenuto. Nell’area “ex Si.” si svolgeva l’attività di produzione di colla e concimi di ossa della Società Si. (Società Interconsorziale To. Co.) della Federazione Italiana dei Consorzi Agrari, che nel 1990 fu posta in liquidazione e nell’anno successivo lo stabilimento cessò completamente la produzione. La La. Az. S.r.l. si era aggiudicata il lotto all’asta giudiziaria in seguito alla procedura di fallimento della Si. ed è diventata proprietaria in base al decreto giudiziario del 22.4.2004. L’area era risultata contaminata dalla presenza di rifiuti e materiale inquinante e, rilevata la necessita di bonifica, tale attività veniva affidata dal 2002 al 2012 in via straordinaria al Commissario delegato al risanamento ambientale della laguna di (Omissis). 5. L’odierna società appellante ha censurato i provvedimenti per l’erroneità dei presupposti di fatto e di diritto, deducendo: i) il semplice acquisto della proprietà dell’area “ex Si.” non giustificherebbe l’emissione, a carico della Società, di provvedimenti impositivi di interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale, stabilendo la normativa in materia che la realizzazione di tali interventi è posta a carico del “responsabile dell'inquinamento” e non del proprietario dell’area stessa, a meno che non sia positivamente accertato il dolo o la colpa di quest’ultimo in ordine ai fatti occorsi, ma tale circostanza non si sarebbe mai verificata nel caso oggetto del giudizio. Il principio di derivazione eurounitaria “chi inquina paga” non consentirebbe alla P.A. di imporre ai soggetti che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali detentori dell’area, lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento del danno causato da colui che ha in precedenza utilizzato e gestito il sito; ii) ci sarebbero da rilevare gravi carenze istruttorie del procedimento che avrebbe portato l’Amministrazione ad imporre alla società gravosi interventi, frutto di indagini incomplete e basate su campionamenti non sistemici né organici. Inoltre l’avvio e la conclusione degli interventi di messa in sicurezza e di bonifica sarebbero stati richiesti entro termini non ragionevoli, in quanto non avrebbero mai potuto essere rispettati (in quanto sarebbe stato necessario per la società e le amministrazioni interessate procedere di concerto atteso che gli interventi avrebbero inciso anche sulle aree di proprietà demaniale). 6. Il TAR, con la sentenza impugnata di cui all’epigrafe, ha dichiarato il ricorso ed i motivi aggiunti improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse, argomentando che “va invero evidenziato al riguardo che, come del resto riferito dalla stessa La. Az. srl, agli atti impugnati, ovvero al decreto n.4877 dell’11 agosto 2008 del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, di approvazione del verbale della conferenza di servizi decisoria del 25 giugno 2008, recante prescrizioni per interventi di messa in sicurezza del sito di interesse nazionale di (Omissis) - area ex Si., e alla nota ministeriale di diffida ad adempiere del 30 gennaio 2009, facevano seguito vari interventi, rilevamenti, analisi e monitoraggi, anche della Società ricorrente, i quali conducevano, in ragione del superamento dell’originaria situazione di fatto, all’assunzione di nuovi atti, quali, tra gli altri, le determinazioni conclusive della conferenza di servizi decisoria del 20 giugno 2011 e l’Accordo di programma tra Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Regione Toscana e Comune di (Omissis), per la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza e di bonifica, di cui alla delibera g.r. n.155 del 19 febbraio 2018, che si sostituivano ai provvedimenti impugnati.” 7. La società La. Az. S.r.l. ha impugnato la pronuncia, deducendo i seguenti motivi. 7.1 Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.). Violazione dell’art. 35, comma 1, lett. b), c.p.a. Difetto di motivazione della sentenza. Violazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a. Secondo l’appellante l’interesse all’accertamento dell’illegittimità degli atti originariamente impugnati sarebbe invece attuale e non superato da successivi atti, attesa l’assenza dei presupposti fattuali e giuridici necessari per la loro adozione. Il TAR si sarebbe invece limitato a dichiarare la sopravvenuta carenza di interesse senza accertare nulla in merito alle ragioni per le quali ciò solo avrebbe determinato il venir meno dell’interesse della ricorrente all’esame dei vizi dedotti. Proprio per il parziale mutamento delle circostanze di fatto non ci sarebbe da registrare una sopravvenuta carenza di interesse alla decisione di merito. Ci sarebbe da rilevare una omessa pronuncia sull’illegittimità dei provvedimenti impugnati anche ai soli fini dell’art. 34, comma 3 c.p.a. In ragione degli obblighi a suo tempo posti a carico della società essa avrebbe investito le proprie risorse per lo svolgimento di analisi ed indagini non dovute e non necessarie se l’Amministrazione le avesse autonomamente svolte prima di limitarsi ad imporle, con atti carenti di una pur minima istruttoria, alla La. Az.. Le indagini svolte – continua la società – avrebbero dimostrato che gli interventi a suo tempo richiesti sarebbero stati del tutto inefficaci. 7.2 L’appellante ha quindi riproposto ai sensi dell’art. 101, comma 2 c.p.a., i motivi non esaminati dal TAR. 7.2.1 Violazione e falsa applicazione degli artt. 14 e 17 del D.Lgs. n. 22/1997. Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 152/2006. Violazione e falsa applicazione del D.M. N. 471/1999. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. Violazione e falsa applicazione della legge 241/1990. Eccesso di potere per difetto dei presupposti, difetto di istruttoria, illogicità. Sviamento. 7.2.2 Violazione del principio del contraddittorio e della partecipazione nel procedimento; insufficienza di istruttoria. 8. Il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare ha resistito al gravame, chiedendone la reiezione. 9. Il liquidatore della Società Interconsorziale To. Co. (SI.) S.r.l. ha anch’esso domandato la reiezione dell’appello e la conferma della sentenza impugnata. 10. Infine si è costituita anche l’Istituto Nazionale per l’assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL), dichiarando di essere subentrato ex lege al soppresso ISPESL in data 31 maggio 2010 (ai sensi dell’art.7 D.L. 31 maggio 2010, n. 78), nelle funzioni e nei ruoli facenti capo al soppresso Istituto, rilevando l’estraneità dello stesso al giudizio instaurato avanti il Consiglio di Stato e chiedendo l’estromissione dell’Istituto dal giudizio, ed in subordine, nel merito, di confermare l’impugnata sentenza. 11. Le parti hanno ulteriormente insistito sulle rispettive tesi difensive, mediante il deposito di documenti, memorie integrative e di replica e note di udienza. 12. All’udienza pubblica del 18 aprile 2024, la causa è stata trattenuta in decisione. 13. Va preliminarmente vagliata la richiesta di estromissione da parte di INAIL, successore di diritto di ISPESEL. Ad avviso del Collegio, avendo l’Istituto fatto comunque parte della Conferenza di servizi decisoria e quindi avendo partecipato alla formazione del provvedimento gravato, la richiesta di estromissione è infondata e va respinta. 14. La società appellante si duole dunque dell’error in iudicando avendo il TAR adito tralasciato di accertare – anche se le prescrizioni della Conferenza di servizi erano medio tempore superate da nuove decisioni in merito – l’illegittimità dell’operato della P.A. per un’eventuale risarcimento del danno cagionato all’impresa. 15. L’appello è fondato sotto il dirimente motivo della carenza di istruttoria dimostrata dai successivi provvedimenti adottati. 16. Preliminarmente è però necessario scrutinare l’asserita insussistenza dell’obbligo della società a partecipare alla bonifica dell’area da lei acquistata. 17. Occorre partire dal principio generale di diritto europeo che regola la materia della responsabilità per danno ambientale. Si tratta del principio “chi inquina paga”, espresso dal primo considerando della direttiva n. 2008/98/CE. Il principio è stato applicato, da ultimo, anche alla materia fallimentare (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 26 gennaio 2021, n. 3). Le coordinate esegetiche disegnate dal legislatore europeo e recepite dal legislatore interno si basano su criteri estremamente precisi, chiari e rigorosi nell’attribuzione della responsabilità per danno ambientale, e segnatamente: a) il quadro giuridico europeo risultante dai principi generali del Trattato e dal diritto derivato non esige lo stretto accertamento dell’elemento psicologico e del nesso di causalità fra la condotta di detenzione del rifiuto in ragione della disponibilità dell’area e il rischio ambientale dell’inquinamento; b) la normativa nazionale deve essere interpretata in chiave europea e in maniera compatibile con canoni di assoluto rigore a tutela dell’ambiente. Nella sostanza, la sentenza della Adunanza Plenaria n. 3 del 2021 ha incentrato la tutela dell’ambiente intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione. La responsabilità del proprietario del sito, in tal caso, non rinviene necessariamente la propria causa nel cd. fattore della produzione, bensì anche, eventualmente, in quello della detenzione o del possesso (corrispondenti, rispettivamente, al contenuto di un diritto personale o reale di godimento) dell’area sulla quale è oggettivamente presente il rifiuto, dal momento che grava su colui che è in relazione con la cosa l’obbligo di attivarsi per fare in modo che la cosa medesima non rappresenti più un danno o un pericolo di danno (o anche di aggravamento di un danno già prodotto). La responsabilità in questione è pur sempre ascrivibile secondo i canoni classici, comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole, dal momento che la personalità e la rimproverabilità dell’illecito risiedono nel comportamento del soggetto che volontariamente sceglie di sottrarsi o, il che è lo stesso, di non attivarsi anche per mera negligenza, per ripristinare l’ambiente; c) la responsabilità dell’autore materiale del fatto originario generatore del danno ambientale non costituisce un’esimente, né elide, tantomeno in via successiva, la responsabilità di coloro che divengono proprietari del bene o che vantano diritti o relazioni di fatto col bene medesimo; d) l’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario. 18. Il Collegio osserva che, contrariamente a quanto affermato dalla società appellante, i principi affermati dalla sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 26 gennaio 2021 con riferimento alla procedura fallimentare e ai suoi organi sono estensibili anche alla fattispecie del trasferimento giudiziario in seguito all’espletamento di un’asta giudiziaria nell’ambito di una procedura fallimentare. 19. In primo luogo, la sentenza indicata n. 3/2021 ha chiarito che la presenza di rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi assunta dal curatore fallimentare comportino la sua legittimazione passiva all’ordine di rimozione. Conseguentemente, afferma il supremo consesso, “ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare”. (…) Nella predetta situazione, infatti, la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti (che sotto il profilo economico a seconda dei casi talvolta si possono considerare “beni negativi”) ma in virtù della detenzione del bene immobile inquinato (normalmente un fondo già di proprietà dell’imprenditore) su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria, devono essere smaltiti. Conseguentemente, ad avviso dell’Adunanza, l’unica lettura del decreto legislativo n. 152 del 2006 compatibile con il diritto europeo, ispirato entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, è quella che consente all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei curatori che gestiscono i beni immobili su cui i rifiuti prodotti dall’impresa cessata sono collocati e necessitano di smaltimento. (…) Nell’ottica del diritto europeo (che non pone alcuna norma esimente per i curatori), i rifiuti devono comunque essere rimossi, pur quando cessa l’attività, o dallo stesso imprenditore che non sia fallito, o in alternativa da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo la dichiarazione del fallimento. (…) Per le finalità perseguite dal diritto comunitario, quindi, è sufficiente distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia materialmente acquisito la detenzione o la disponibilità giuridica, senza necessità di indagare sulla natura del titolo giuridico sottostante. (…), per la disciplina comunitaria (art. 14, par. 1, della direttiva n. 2008/98/CE), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti. (…) La curatela fallimentare, che ha la custodia dei beni del fallito, tuttavia, anche quando non prosegue l’attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell’esimente di cui all’art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall’attività imprenditoriale dell’impresa cessata. Nella qualità di detentore dei rifiuti, sia secondo il diritto interno, ma anche secondo il diritto comunitario (quale gestore dei beni immobili inquinati), il curatore fallimentare è perciò senz’altro obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero. Il rilievo centrale che, nel diritto comunitario, assume la detenzione di rifiuti risultanti dall’attività produttiva pregressa, a garanzia del principio “chi inquina paga”, è, inoltre, coerente con la sopportazione del peso economico della messa in sicurezza e dello smaltimento da parte dell’attivo fallimentare dell’impresa che li ha prodotti. In altre parole, poiché l’abbandono dei rifiuti e, più ingenerale, l’inquinamento costituiscono “diseconomie esterne” generate dall’attività d’impresa (c.d. “esternalità negative di produzione”), appare giustificato e coerente con tale impostazione ritenere che i costi derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell’imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell’ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento. Seguendo invece la tesi contraria, i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con il principio comunitario “chi inquina paga”, ma anche in contrasto con la realtà economica sottesa alla relazione che intercorre tra il patrimonio dell’imprenditore e la massa fallimentare di cui il curatore ha la responsabilità che, sotto il profilo economico, si pone in continuità con detto patrimonio. Né in senso contrario assumono rilievo le considerazioni, pur espresse dalla difesa, concernenti l’eventualità che il fallimento sia, in tutto o in parte, incapiente rispetto ai costi della bonifica. Si tratta invero di evenienze di mero fatto, peraltro configurabili anche in ipotesi riferibili a un imprenditore non fallito, o al proprietario del bene o alla stessa amministrazione comunale che, in dissesto o meno, non abbia disponibilità finanziarie adeguate. Ciò che rileva nella presente sede è l’affermazione dell’imputabilità al fallimento dell’obbligo di porre in essere le attività strumentali alla bonifica. In caso di mancanza di risorse, si attiveranno gli strumenti ordinari azionabili qualora il soggetto obbligato (fallito o meno, imprenditore o meno) non provveda per mancanza di idonee risorse. E il Comune, qualora intervenga direttamente esercitando le funzioni inerenti all’eliminazione del pericolo ambientale, potrà poi insinuare le spese sostenute per gli interventi nel fallimento, spese che godranno del privilegio speciale sull’area bonificata a termini dell’art. 253 comma 2 d.lgs. n. 152-2006”. 20. Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, la Sezione rileva che le procedure giudiziarie di liquidazione con cessione totale dei beni, pur differenziandosi sotto il profilo civilistico dalle modalità liquidatorie e degli organi impegnati al riguardo, possiedono analoghi effetti finali: infatti, anche in questo caso, così come nel fallimento, l’impresa cessa la propria attività e pone tutto il suo patrimonio residuo a disposizione dei futuri acquirenti. In ragione di ciò, i principi sopra riportati della sentenza dell’Adunanza plenaria si attagliano anche alla procedura di liquidazione con cessione dei beni, per cui i costi da sostenere per porre rimedio alle “esternalità negative” di produzione (sanitarie, ambientali, di pubblica incolumità, etc.) devono ricadere su chi acquista con piena coscienza dell’inquinamento e con preciso comando giudiziale; diversamente opinando, quei costi ricadrebbero sulla collettività incolpevole. 21. Ciò trova conferma nella precisa disposizione del decreto di trasferimento: l’acquirente ne assume la detenzione e nella sua posizione di “detentore” ha l’obbligo di porre in essere ogni attività necessaria a garantire nel perimetro della ex industria il rispetto della tutela della salute pubblica e dell’ambiente. Il decreto del giudice delegato del Tribunale Fallimentare di Roma del 22.4.2004 ha infatti “preso atto delle precisazioni contenute nell’istanza del curatore sulla situazione dell’immobile in relazione all’inquinamento, agli obblighi di bonifica e di messa in sicurezza, obblighi tutti che in virtù del presente decreto di trasferimento verranno anch’essi integralmente trasferiti all’aggiudicataria Società La. Az.”. Emerge inoltre dal medesimo decreto che “il bene deve essere trasferito libero da tutte le iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli, ma con i gravami derivanti dal suo inserimento dei siti inquinati di interesse nazionale e soggetto ad interventi di bonifica in virtù della legge 31.7.2002 n. 179, art. 14, comma 1, lett. P, pubblicata della Gazzetta Ufficiale n. 189 del 3.8.2002”. Tale trasferimento è stato accettato da La. Az., che, partecipando all’asta giudiziaria, era a conoscenza di tutte le circostanze in ordine all’inquinamento del sito e dei rispettivi obblighi di bonifica, che sicuramente sono stati considerati anche nella stima del prezzo del bene. Ove l’acquirente fosse ritenuto esente da tali obblighi, la collettività sarebbe esposta a rischi ambientali e sanitari cagionati dall’attività imprenditoriale stessa, il che non è ammissibile. 22. Ma la società appellante ha ragione quando afferma che il TAR aveva omesso di valutare il permanente interesse al ricorso, anche soli ai fini dell’eventuale risarcimento del danno derivante dall’avvenuta esecuzione dei provvedimenti gravati. 23. Innanzitutto emerge dalla cronistoria delle attività di bonifica del SIN di (Omissis) – che sostanzialmente viene confermata anche dal Ministero appellato – che l’eventuale attività di bonifica ritenuta in origine necessaria dall’Amministrazione potrebbe aver arrecato un danno alla società. Gli esiti delle conferenze di servizi succedutesi nel tempo, in particolare quella del 12 giugno 2014 sembrano infatti confermare presupposti diversi da quanto originariamente posto a base delle decisioni del 2008 e quindi permaneva l’interesse della ricorrente, se non all’annullamento di atti ormai superati, quanto meno all’accertamento dell’illegittimità dei medesimi atti originariamente impugnati, in particolare quanto all’accertamento dell’assenza dei presupposti fattuali e giuridici necessari per la loro adozione. 24. Il mutamento delle circostanze di fatto deponevano infatti per la necessità di scrutinare le domande attoree, anche ai soli fini dell’art. 34, comma 3 c.p.a. L’obbligo di pronunciare sui motivi di ricorso ovvero di accertare l'illegittimità dell'atto impugnato sussiste in caso di istanza, o, comunque, espressa dichiarazione di interesse della parte ricorrente ai fini risarcitori (Cons. Stato, A.P., n. 8/2022). Nonostante l’espressa richiesta della ricorrente in tal senso (v. memoria ex art. 73 c.p.a. nel giudizio di primo grado nonché verbale di udienza pubblica 13.11.2019), il TAR non si è pronunciato su tale domanda (subordinata), incorrendo quindi nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), nonché degli artt. 35, co. 1, lett. b), e 34, co. 3, c.p.a. 25. Il lamentato deficit istruttorio può essere accertato alla luce delle seguenti considerazioni: - nel caso di specie, le decisioni della conferenza di servizi sono state emesse prevalentemente in relazione a studi che avevano ad oggetto prime analisi di approccio, con valore di studio preliminare, senza che si sia provveduto in quel momento ad una completa ed approfondita caratterizzazione dei sedimenti delle aree inquinate; - il d.lgs. n. 152/2006 disciplina i presupposti istruttori di ciascun intervento, essendo necessario accertare con precisione sia il livello che la qualità dell’inquinamento, allo scopo sia di determinare le cause e quindi individuare i responsabili, sia di selezionare le appropriate tecniche di disinquinamento da adottarsi (art. 240 e 242 d.lgs. 152/2006); - dalla nota della La. Az. del settembre 2008 emerge il rilievo sulla complessità della problematica che investe l’intero comparto perimetrato come S.I.N. ed anche l’approfondimento di indagine finalizzato alla raccolta di un numero sufficiente di informazioni circa lo stato di contaminazione delle acque di falda al fine di definire in maniera incontrovertibile le responsabilità e gli eventuali interventi di protezione e messa in sicurezza da porre in essere, oltre alla mancanza di accertamento del superamento della CSR (concentrazione soglia di rischio), previsto dall’art. 240 lett. c) del d.lgs. n. 152/2006 (elementi che giustificano la necessità di eseguire interventi di messa in sicurezza dell’area); - orbene, risulta dalla memoria del Ministero appellato del 26.2.2024 (p. 4) che “invero, come risulta da quanto detto in precedenza, all’epoca in cui è stato emanato il provvedimento impugnato (2008) la falda profonda mostrava una diffusa contaminazione, tale da necessitare interventi di messa in sicurezza e rimozione dei rifiuti. Solo i monitoraggi successivi al 2010 hanno evidenziato la non contaminazione della falda profonda.”; - la carenza di istruttoria emerge anche dall’Atto Integrativo all’Accordo di Programma per la bonifica del SIN “ex Si.” stipulato nel 2018, dove risulta, nell’intervento 1, che “Le indagini propedeutiche che si propone di effettuare sono parte sostanziale del “Progetto definitivo di bonifica dell’acquicludo superficiale mediante marginamento fisico” che il soggetto privato, La. Az., deve realizzare in attuazione del decreto n. 330 del 27/08/2015 del MATTM (ora MiTE). Il progetto, autorizzato dal Ministero in via provvisoria per motivi di urgenza con decreto n. 536 del 4/08/2010, ha visto avviati i lavori nel febbraio 2011; lavori che però sono stati realizzati solo parzialmente e in maniera difforme a quanto autorizzato. Il marginamento fisico, oltre che essere stato realizzato difformemente, non è stato completato dal sistema tergale di captazione (drenaggio e emungimento), né connesso a un impianto di trattamento delle acque sotterranee provenienti dalla Cittadella; sistema di captazione che, come riportato nel verbale della Conferenza dei servizi del 24/03/2005, “data la bassa soggiacenza della falda potrà essere sostituito da un sistema a trincea drenante”. Ad esito dei tavoli tecnici svolti su mandato del ministero al fine di definire in maniera sinergica gli interventi sia per la parte PRIVATA che per la parte PUBBLICA del SIN, è stato concordato che il completamento dell’intervento di marginamento al fine di essere realmente efficace e impedire l’ingresso delle acque potenzialmente contaminate dell’acquifero superficiale circolante sotto la Cittadella, dovrà essere realizzato da La. Az. secondo una soluzione alternativa della parte meridionale del tracciato della palancolata.”; - la lettera della società del 6.4.2021 indirizzata al Ministero – depositata dalla stessa parte appellata (doc. 13 in appello) e non confutata dalla P.A. –, riassumendo i rilievi sul Masterplan degli interventi pubblici e privati, confermava inoltre che “la falda profonda non necessita di essere bonificata”; - ciò conferma che il livello di istruttoria a base delle prescrizioni dettate alla società nel 2008 risultava prematuro ed insufficiente, mancando in primis il necessario coinvolgimento della parte privata, indispensabile per un efficiente svolgimento dei lavori di bonifica. 26. Si può quindi giungere alla conclusione che le prescrizioni impartite dalla Conferenza di servizi, oltre ad essere incomplete in quanto non avevano preso sufficientemente in considerazione i contributi del privato, contrariamente a quanto è avvenuto successivamente agli atti del 2007-2008, erano premature e non potevano (non avrebbero potuto) quindi disporre tali azioni di indagine e di bonifica a carico del privato. 27. Il Collegio non reputa necessario in questa sede approfondire se ad essere errate fossero le metodologie adottate – come asserisce la società appellante – o cosa abbia abbia condizionato l’esito in maniera determinante. 28. Dall’esame complessivo della vicenda il Collegio ravvisa comunque la notevole complessità del progetto di bonifica, con molte parti coinvolte (sia pubbliche che privati), diversità di gradi, volumi ed intensità di inquinamento (anche nel tempo). 29. In base a queste considerazioni l’appello va accolto, con il conseguente accertamento dell’illegittimità degli atti gravati con il ricorso di primo grado ai sensi dell’art. 34 cod. proc. amm. 30. La particolarità della vicenda è sufficiente per poter compensare le spese di lite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., accerta l’illegittimità degli atti gravati con il ricorso di primo grado ed i motivi aggiunti. Compensa le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti, Presidente Roberto Caponigro, Consigliere Giovanni Gallone, Consigliere Thomas Mathà, Consigliere, Estensore Roberta Ravasio, Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte di Appello di Bari - (...) per le controversie in materia di lavoro, previdenza e assistenza - composta dai (...) 1) dott.ssa (...) 2) dott. (...) 3) dott.ssa (...) relatore ha emesso la seguente SENTENZA nella controversia iscritta nel R.G. al numero sopra indicato; T R A (...) rappresentato e difeso dagli avv.ti (...) e (...) E INAIL rappresentato e difeso dagli avv.ti (...) e (...) Con sentenza definitiva in data (...), il Tribunale del lavoro di (...) a) rigettava la domanda di (...) intesa ad accertare che la ipoacusia percettiva bilaterale - già riconosciuta quale malattia professionale con postumi permanenti nella misura del 12% a decorrere dal febbraio 1996 - abbia determinato un grado complessivo di danno biologico in misura superiore al 12% con condanna dell'(...) al pagamento della rendita o dell'indennizzo parametrati al grado di invalidità riscontrato; b) condannava il ricorrente al pagamento in favore dell'(...) delle spese di lite, liquidandole in E 2.300,00, e a quelle di (...) Con ricorso depositato il (...) proponeva gravame, chiedendo, in riforma dell'impugnata sentenza, per i motivi che di seguito si riepilogano e si valutano, l'accoglimento Sentenza n. (...)/2024 pubbl. il (...) RG n. (...)/2022 della domanda originariamente azionata in primo grado. L'(...) resisteva e concludeva per il rigetto del gravame. Acquisiti il fascicolo d'ufficio relativo al primo grado di giudizio e i documenti prodotti dalle parti, ammessa ed espletata ctu, in data odierna la causa veniva decisa mediante pubblicazione del dispositivo in calce trascritto. MOTIVI DELLA DECISIONE Con ricorso depositato il (...) dinanzi al Tribunale di (...) dipendente dell'(...) di (...) sin dal 23.02.1987 con qualifica di operaio metalmeccanico, deduceva: di essere addetto al montaggio di parti meccaniche di aereomobili, e di aver utilizzato perciò strumentazione ad aria compressa, quali martelli, avvitatori e trapani, nonché al montaggio di scatolato di alluminio con relativa rivettatura a schiacciamento per il tramite di meccaniche pneumatiche; di lavorare otto ore al giorno per sei giorni a settimana; di aver accusato durante lo svolgimento dell'attività lavorativa diverse patologie ad eziologia professionale (paraplegia e ipoacusia percettiva bilaterale); che, in particolare, gli era stata riconosciuta quale malattia professionale la 'ipoacusia percettiva bilaterale' nella misura del 12% e a decorrere dal 23.2.1996; che, a causa di un sopravvenuto aggravamento del quadro morbigeno, inerente l'apparato uditivo, il (...) egli aveva formulato all'(...) istanza di revisione passiva; che con provvedimento del 18.12.2018 l'(...) aveva respinto l'istanza. Tanto detto, chiedeva accertarsi che la patologia dell'ipoacusia aveva determinato un grado di invalidità in misura superiore al 12%, con relativa condanna dell'(...) alla corresponsione della rendita o dell'indennizzo, ed assumeva che, trattandosi di una patologia di natura professionale già riconosciuta prima dell'emanazione del D.Lgs. 38/2000, il parametro di valutazione fosse quello di cui al T.U. n.1124 del 1965 e relative tabelle di cui alla circolare n 22 del 1994, poiché, per effetto del comma 2 dell'art. 13 del D.Lgs. 38/2000, la nuova disciplina si applica esclusivamente agli infortuni sul lavoro verificatisi e alle malattie professionali denunciate a decorrere dalla data di pubblicazione del suddetto decreto ministeriale, e cioè dal 25/07/2000. Solo in via gradata chiedeva l'applicazione delle tabelle di cui al D.Lgs. n. 38/2000. L'(...) contestava la fondatezza della domanda attorea, escludendo che il peggioramento del deficit uditivo fosse ascrivibile a causa lavorativa, in quanto dal 2015 l'istante svolgeva mansioni diverse, essendo stato adibito ad attività di ufficio. Ammessa ed espletata consulenza tecnica di ufficio, il Tribunale del lavoro di (...) rigettava la domanda di (...) Il primo giudice dava conto delle considerazioni svolte nell'elaborato peritale dal ctu, dott. (...) D'(...) specialista in otorinolaringoiatria, il quale, nel rilevare che il (...) è effettivamente affetto dalle patologie denunciate, e non senza evidenziare che l'ipoacusia neurosensoriale è patologia a genesi multifattoriale, di cui una quota attribuibile a causa lavorativa e l'altra a cause e(...)tra lavorative (socio-presbiacusia), aveva precisato di aver utilizzato dapprima 'la classificazione sec. G. Rossi e successivamente la tabella di (...) per le ipoacusie intermedie (allegato 1 della "(...) di indennizzo del danno biologico", D.M. 12/07/2000, (...) ordinario n.119 alla G.U. 25/07/2000 n.172)'; quindi, poiché 'detta tabella prende in considerazione cinque frequenze (500-1000-2000-3000-(...)z) ed assegna ad ognuno un valore', concludeva che ' sottraendo all'ipoacusia complessivamente riscontrata, la quota prevista per la socio/presbiacusia, il danno uditivo accertato è pari al 12%". Aggiungeva che il (...) a seguito di osservazioni del ctp di parte resistente, aveva specificato di aver utilizzato, per la valutazione del danno, le tabelle (...) (DM 12.7.2000), spiegando che 'l'ipoacusia professionale avvenuta nel 1996 dovesse essere valutata con la tabella allegata alla circolare (...) n. 22 del 07 luglio 1994. Qui però stiamo considerando una condizione clinica non del 1996 ma del 2018 e quindi insorta progressivamente negli ultimi 20 anni circa, condizione uditiva non presente nel 1996 o meglio presente con un grado di gravità totalmente diverso. La richiesta di aggravamento e la relativa domanda, è stata inoltrata diversi anni dopo (novembre 2018) la prima valutazione ed il danno da me preso in considerazione è insorto progressivamente dal 1996 fino al 2018 (data dell'ultimo esame audiometrico preso in considerazione). Detto questo, ritengo corretto l'uso delle tabelle da me utilizzate per l'attuale valutazione del danno, danno successivo all'entrata in vigore delle nuove tabelle cioè (...) (D.M. 12/07/2000, (...) ordinario n. 119 alla G.U. 25/07/2000 n. 172)'. Il giudice registrava anche ulteriori osservazioni del ctu; in particolare, il dott. D'(...) aveva precisato che il danno uditivo del (...) con una ipoacusia che interessa tutte le frequenze, anche quelle non coinvolte in un danno da rumore, non poteva essere considerato solo a genesi lavorativa, e, quindi, aveva scorporato il quantum di danno attribuibile a causa e(...)tralavorativa, e di aver utilizzato, allo scopo, per lo scorporo della socio-presbioacusia (la presbiacusia è espressione di un fisiologico invecchiamento dell'apparato acustico, e la socio-acusia è dovuta all'inquinamento acustico ambientale), la tabella (...) relativa all'innalzamento della soglia acustica attribuibile alla socioacusia, e, tanto in sintonia con quanto stabilito anche dalla Cassazione nella sentenza n. 6846/92. In condivisione dei rilievi del consulente, frutto di accurati accertamenti diagnostici e privi di vizi logico-giuridici, il Tribunale di (...) escludeva la sussistenza di un aggravamento della malattia professionale e rigettava la domanda. Con un unico articolato motivo l'appellante censura la sentenza per aver acriticamente recepito le conclusioni del ctu, e per aver perciò ritenuto corretta l'applicazione al caso di specie delle tabelle sec. (...) di indennizzo del danno biologico di cui al D.M. 12.07.2000 laddove, invece, poiché la patologia della ipoacusia neurosensoriale bilaterale gli era già stata riconosciuta sin dal 23.2.1996 (e, quindi, da epoca precedente all'entrata in vigore del D.Lgs. 38/2000), e venendo perciò in rilievo solo la revisione della percentuale di inabilità derivatane, la normativa applicabile era quella prevista dall'art. 74 T.U. 1124/1965. (...) mette in risalto che, non a caso, il giudice, nel conferire l'incarico al ctu, aveva indicato i confini entro cui procedere alla valutazione del danno acustico, ed aveva fatto espresso riferimento alla normativa del 1965. Rimarca altresì - in merito alla operata decurtazione dei postumi permanenti in considerazione degli effetti di cui alla "socio/presbioacusia" (tab. sec. Rossi) - che lo stesso (...) non aveva mai fatto riferimento ad una valutazione secondo il metodo (...) né in fase di primo riconoscimento (9%), né in fase di prima revisione passiva (del 2008), di modo che anche per l'istanza di revisione passiva del 2018 doveva seguirsi la medesima metodologia prevista dalla circolare n. 22/1994. (...) è fondato. Con il gravame il (...) sollecita la questione di quale sia la disciplina applicabile nelle ipotesi in cui da una malattia professionale denunciata (e accertata) anteriormente alla data di entrata in vigore del sistema indennitario regolato dall'art. 13 D.Lgs. n. 38 del 2000 derivino postumi che si evidenzino successivamente a tale data. Invero, l'art.13 al comma 2 prevede che in ipotesi di danni conseguenti ad infortuni sul lavoro verificatisi nonché a malattie professionali denunciate, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al comma 3, l'(...) in luogo della prestazione di cui al testo unico n. 1124 del 1965, art. 66 comma 1 n. 2), eroga l'indennizzo previsto e regolato dalle disposizioni dettate in seguito dallo stesso articolo ed includenti, come è noto, anche il danno biologico nell'ipotesi in cui la percentuale di menomazione superi il 16 per cento nonché il solo danno biologico, in capitale, tra il 6 e il 15 per cento di menomazione. Dette menomazioni, conseguenti alle lesioni dell'integrità psicofisica di cui all'art. 13 comma 1 sono valutate in base a specifica 'tabella delle menomazioni', comprensiva degli aspetti dinamico relazionali ed ai sensi del comma 3, i relativi criteri applicativi e i successivi adeguamenti sono approvati con decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale su delibera del consiglio di amministrazione dell'(...) Orbene, in continuità con il pensiero della Suprema Corte, deve dirsi che la disciplina applicabile sia quella anteriore all'entrata in vigore del D.Lgs. 38/2000. Giova riportare il passaggio qui di interesse riportato nella sentenza n 23892 del 2012. "Questa Corte di cassazione (Cassazione 4 febbraio 2015, n. 1998, Cass n 9956 del 2011) ha affermato che il nuovo regime introdotto dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 si applica unicamente ai danni conseguenti ad infortuni sul lavoro e a malattie professionali verificatisi o denunciati successivamente all'entrata in vigore del D.M. 12 luglio 2000, recante le tabelle valutative del danno biologico. Ne consegue che, in caso di malattia (od infortunio) denunciata dall'interessato prima del 9 agosto 2000, la stessa deve essere valutata in termini d'incidenza sull'attitudine al lavoro del richiedente, ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 74, e può dar luogo ad una rendita per inabilità permanente solo in caso di riduzione di tale attitudine in misura superiore al 10 per cento. Il D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13 ha introdotto un nuovo sistema di liquidazione del danno conseguente agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali, prevedendo, per la prima volta, la liquidazione del danno biologico (pertanto indipendentemente da una riduzione della capacità di produzione di un reddito da parte del lavoratore colpito), in capitale, in caso di menomazioni di grado pari a 6% e inferiore a 16% e mediante una rendita, per le menomazioni di grado superiore ed aggiungendo in quest'ultimo caso una ulteriore quota di rendita per le conseguenze patrimoniali, commisurata al grado di menomazione, alla retribuzione dell'assicurato e sulla base di una apposita nuova tabella dei coefficienti. In precedenza, la disciplina relativa alla materia degli infortuni sul lavoro e sulle malattie professionali, stabilita dal D.P.R. n. 1124 del 1965, prevedeva viceversa un indennizzo dei postumi permanenti rappresentati da una riduzione della capacità lavorativa del dipendente oltre la soglia del 10%, secondo quanto stabilito dall'art. 74 D.P.R. citato, superata anche in caso di aggravamento successivo dipendente dal medesimo infortunio o malattia professionale (D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 83, comma 8). Tale diversità di disciplina giustifica la disposizione della L. n. 38 del 2000, art. 13 secondo la quale il nuovo sistema è applicabile unicamente per "i danni conseguenti ad infortuni sul lavoro e a malattie professionali verificatisi o denunciati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al comma 5", (poi emanato il 12 luglio 2000, laddove la locuzione "verificatisi o denunciati" si riferisce chiaramente agli infortuni e alle malattie professionali, che sono oggetto della denuncia di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 52 e 53 e non ai danni che superino la soglia indicata dalla legge, accertabili unicamente a posteriori anche quanto alla decorrenza degli stessi (diversamente, del resto, ne deriverebbe l'impossibilità di stabilire a priori i criteri con cui operare la valutazione in un caso, come quello in esame, di manifestazione successiva dei danni da infortunio occorso e denunciata prima della nuova disciplina), (cfr. ord. sez. lav. n. 9956/2011)." Stando così le cose, poiché nel caso in esame la malattia della ipoacusia di cui si rivendica in questa sede l'aggravamento è stata denunciata ed accertata sin dal 1996, vi è che i relativi postumi permanenti vanno valutati in termini di incidenza sulla attitudine al lavoro, e, quindi, ai fini dell'individuazione della disciplina applicabile, non può farsi riferimento, come invece ha fatto il ctu, e con lui il primo giudice, alla disciplina vigente al momento di manifestazione dell'asserito aggravamento, verificatosi molti anni dopo. La sentenza impugnata ha quindi errato perchè, nel far proprie le conclusioni del ctu, ha aderito alla tesi sostenuta dal ctu nel corpo dell'elaborato peritale della applicabilità della disciplina di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000, in luogo del previgente regime di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, regime secondo cui l'indennizzo a carico dell'(...) si riferisce esclusivamente alla riduzione della capacità lavorativa. Non a caso il giudice aveva espressamente indicato al ctu nel TU 1124/1965 la disciplina da tenere a mente nel compiere gli accertamenti peritali; invero, nel quesito il giudice aveva assegnato al ctu dott (...) (...) di accertare, in relazione alla malattia professionale 'ipoacusia percettiva bilaterale', "se siano risultati postumi superiori rispetto a quelli già riconosciuti dall'(...) pari al 12%, ai sensi della disciplina prevista T.U. n 1124/65 (ratione temporis applicabile); in caso di risposta affermativa, ne quantifichi la relativa percentuale e la relativa data di decorrenza". In ragione della fondatezza delle censure espresse nel gravame, la Corte ha ritenuto necessario disporre consulenza medico legale. Al ctu, dott. (...) ha posto il seguente quesito: " accerti il ctu, in relazione alla malattia professionale già riconosciuta dall'(...) con postumi nella misura del 12% a decorrere dal 23.2.1996, se in capo all'appellante vi siano postumi superiori rispetto a quelli già riconosciuti dall'(...) facendo applicazione della disciplina prevista dal T.U n 1124/65, in quanto ratione temporis applicabile (dovendo i postumi essere valutati in termini di incidenza sulla attitudine al, e, in caso di esito positivo, ne quantifichi la percentuale relativa e la decorrenza; compia il c.t.u. ogni altro accertamento utile a fini di causa"". Con elaborato coerente con i quesiti posti, congruamente motivato e sulla base di adeguati procedimenti di esame e verifica, il dott. (...) ha riconosciuto in capo al (...) affetto da 'ipoacusia neurosensoriale bilaterale', una inabilità definitiva del 16% (sedici per cento) con decorrenza da data di revisione (01-11-2018). Preliminarmente, si è soffermato sulle peculiarità delle malattie connesse alla menomazione dell'udito, ed ha spiegato che questa si può manifestare in due forme: A) la menomazione è la conseguenza di un'esposizione al rumore insufficiente per provocare una distruzione permanente delle cellule sensoriali; perciò, il ricupero da questa menomazione avviene nel giro di alcune ore. Questa condizione viene comunemente chiamata "spostamento temporaneo di soglia dovuto a rumore" o "deficit uditivo transitorio" (TTS ? temporary threshold shift). B) l'esposizione breve a rumori di elevata intensità o l'esposizione prolungata a rumori di intensità inferiore (comunque almeno sopra gli 80 dB) provoca (può provocare) una lesione e quindi un danno permanente alle strutture neurosensoriali dell'apparato uditivo; questa condizione è chiamata "spostamento di soglia permanente provocata da rumore" o "deficit uditivo permanente" (PTS ? permanent threshold shift). In relazione alla tipologia temporale di esposizione al rumore è possibile distinguere: 1) Trauma acustico acuto 2) (...) acustico cronico Il trauma acustico cronico si manifesta in seguito a prolungate esposizioni ad un rumore di livello anche meno elevato. Il rischio di una lesione permanente aumenta se il soggetto che sia stato esposto ad una sovra stimolazione acustica viene esposto al rumore prima che abbia recuperato completamente la funzione uditiva. In altre parole sussiste un rapporto diretto tra entità del rumore e durata dell'esposizione. Stante la diversa suscettibilità individuale al rumore non è facile fissare un limite matematicamente certo al 100% tra rumore lesivo e rumore non lesivo. Tuttavia facendo riferimento alla tabella ISO 1999-1990 si conviene sul fatto che circa l'85% della popolazione possa subire un trauma acustico se esposto per 40 ore settimanali a un rumore di 90 dB. Infine va sottolineato che il rischio di contrarre una ipoacusia maggiore di 25 dB per esposizioni a 85 dB (...) per 35 anni, interessa solo il 6.5% dei soggetti. In base a ciò intensità inferiori producono entità ed epidemiologia di danno ancora ulteriormente inferiori, se non impercettibili e probabilistici. Il danno uditivo da rumore è irreversibile ma non evolutivo, una volta cessata l'esposizione ed è proporzionale alla quantità di energia che raggiunge la coclea nel tempo; dipende quindi da diversi fattori quali il livello sonoro e la durata dell'esposizione, che devono essere tali da provocare alterazioni a carico della coclea. Audiometricamente si può affermare che l'andamento del deficit può così essere riassunto: il danno uditivo, bilaterale e simmetrico (se da trauma acustico cronico da ambiente lavorativo), si evidenzia già nel primo anno espositivo, raggiunge il 90% dell'ampiezza attorno al 5° anno, crescendo infine con andamento asintotico tendente ai 60 dB, in media, fino ai 10 anni circa, sempre in funzione dell'intensità. ... Dal punto di vista squisitamente medico va affermato, quindi, che il danno cessa con l'interruzione della esposizione al rumore potenzialmente lesivo. Questo dato è ulteriormente avvalorato, come sottolineato, dalla evidenza dell'andamento sostanzialmente asintotico a 4k Hz del danno uditivo a partire dal 10° anno circa di esposizione, pur permanendo il trauma sonoro, come è facilmente desumibile dal grafico. Dal punto di vista clinico per poter fare diagnosi di ipoacusia da rumore professionale (che è una diagnosi medica ben definita e definibile) vi deve essere l'incontro e, soprattutto, la contemporaneità, di tre dati essenziali: anamnesi e valutazione positiva per esposizione ad un rumore potenzialmente dannoso, entità e tempo di esposizione del rumore tale da poter essere potenzialmente lesivi, riscontro clinico-strumentale di un deficit uditivo riconducibile a tale patogenesi." La disamina del ctu è proseguita su un ulteriore aspetto, afferente l'aggravamento della malattia. Al riguardo, il ctu ha affermato: "(...) alla definizione di aggravamento vanno esposti alcuni concetti. Già (...) e (...) nel 1961 avevano osservato che il danno da rumore ha evoluzione temporale specifica: o massima all'inizio dell'esposizione,o va poi riducendosi nel tempo, o si completa, sostanzialmente, nei primi 10 anni espositivi e ciò almeno per esposizioni costanti. Per poter parlare di aggravamento dell'indebolimento permanente del senso dell'udito di origine professionale, bisogna ricordare che secondo la norma ISO 1999-1990, l'evoluzione di un danno uditivo da rumore è massima nei primi 5-10 anni di esposizione, come già accennato, per poi tendere a rallentare quantitativamente successivamente. Ne deriva che un'evoluzione della soglia audiometrica, valutata sulla base del confronto tra due esami audiometrici, superiore alla variabilità test-retest (10 dB medi a 2-3-4 kHz secondo la norma (...) and (...) è riconducibile ad un danno da rumore solamente se accertata nei primi anni di esposizione, fatti salvi gli altri punti (bilateralità evoluzione di tipo neurosensoriale, sussistenza del nesso causale, morfologia compatibile della curva audiometrica) e fa scattare l'obbligo di redigere un nuovo referto. Nel periodo espositivo successivo, sempre in presenza di esposizione costante, le variazioni attese di soglia riconducibili al rumore sono per lo più inferiori al potere di risoluzione dell'audiometro (in genere 5 dB) ed alla variabilità del test (10 dB in condizioni controllate, di più nelle altre situazioni) ed è pertanto molto difficile poter ricondurre, con sufficiente certezza, un eventuale aggravamento ad un'origine professionale. In questi casi solamente un'attenta valutazione della morfologia dei tracciati, della storia clinica e lavorativa (meglio se eseguita da persone particolarmente esperte), e soprattutto di una conferma diagnostica (eventuale assenza di altre patologie dell'orecchio coesistenti, primitive precedenti e/o sopravvenute e/o coesistenti, seppur molte volte "sine causa"), può consentire di formulare un giudizio sulla riconducibilità dell'evoluzione peggiorativa ad un'origine professionale. In particolare non si ritiene possibile formulare limiti assoluti oltre i quali ritenere verificato l'aggravamento anche se vi è un consenso generale sul fatto che, nel caso del danno uditivo da rumore, debba essere valutato, sostanzialmente, solo sulle frequenze 2-3-4 kHz, fermi restando tutti i requisiti citati." Quindi, il ctu è passato ad esaminare nello specifico la vicenda del (...) e, dopo aver considerando che: "Il dato acclarato è che al sig. (...) da parte dell'(...) è stata prima riconosciuta una ipoacusia a genesi professionale e poi è stato anche riconosciuto un aggravamento della patologia. Attualmente è dibattuto il riconoscimento di una ulteriore quota di aggravamento della ipoacusia.". Il dott. (...) si è così espresso: " (...) gli esami audiometrici in atti in funzione dell'attività e della storia lavorativa, in sintesi si possono estrapolare alcune osservazioni fondamentali, poco considerate sino ad ora. Il sig. (...) ha iniziato a lavorare nel 1987. Pertanto, nel 1997 aveva 10 anni di esposizione; nel 2008 aveva accumulato 21 anni di esposizione; nel 2018 ben 31anni di esposizione. Successivamente, nel 2019, vi fu lo spostamento definitivo (come da anmnesi) in ambiente lavorativo del tutto diverso, con mansione amministrativa e risoluzione definitiva dell'eventuale esposizione. (...) ora gli esami audiometrici depositati in atti, ovviamente con la metodologia in vigore all'atto della prima domanda (1996) e cioè con la metodologia (...) del 1994, in vigore dal primo agosto 1994, si evince, in maniera trasparente, quanto segue. Esame della (...) del (...) presso l'(...) del 26-01-1989: nella norma. Esame della (...) del (...) presso l'(...) del 16-07-1993: inabilità del 7,46%. Esame della (...) del (...) presso l'(...) del 18-09-1997: inabilità 15,30%. (...) del 14-11-2008: inabilità del 15,90%. Appare macroscopicamente evidente che i valori di inabilità (e quindi le sottostanti soglie audiometriche e le relative variazioni nel tempo dell'ipoacusia) ricalcano per grandi linee quanto sopra esposto sulla evoluzione naturale nel tempo della ipoacusia da rumore professionale in costanza di esposizione. E questo dato è importante poiché è ampiamente noto che deficit audiometrici che insorgono ulteriormente e in particolare sulle frequenze gravi derivano da altre situazioni patogene che si inseriscono e ben oltre le banali socio-presbiacusie. Infatti le curve audiometriche del 03-12-2018 ((...), del 29-06-2015 del 26-11-2018 e del 06-12- 2021 ((...) di (...) assumono e mostrano una morfologia sostanzialmente denominata "(...) che, mostrando un deficit importante anche sulle basse frequenze, denota una fisiopatologia e patogenesi che nulla ha a che fare con la patologia iniziale in questione. (...) da rumore, come è noto, non mostra deficit degni di nota sulle frequenze gravi". Quindi, il dott. (...) - premesso di aver fatto ricorso alla "...metodologia in vigore all'atto della prima domanda (1996) e cioè con la metodologia (...) del 1994, in vigore dal primo agosto 1994" - ha rassegnato le seguenti conclusioni: "valutati tutti i dati ed i motivi anamnestici, lavorativi, tecnico-dottrinali e, soprattutto, audiologici in atti per poter considerare e valutare con ponderatezza l'aggravamento della ipoacusia, lamentato dal sig (...) aggravamento sempre eziopatogeneticamente riconducibile in maniera specifica ad una esposizione a rumore lavorativo, si può affermare, sostanzialmente in funzione degli esami audiometrici in atti, quanto segue: può essere riconosciuta una inabilità definitiva del 16% con decorrenza dalla data di revisione (1.11.2018)", ed ha espressamente ha dato conto che le parti non hanno pervenire osservazioni o contestazioni. Ebbene, le richiamate conclusioni vanno condivise. Né risultano inficiate nella loro validità dalle osservazioni rese in udienza dal difensore dell'(...) non solo perché tardivamente espresse (non avendo, si è detto, l'(...) inviato osservazioni alla bozza di perizia del ctu), ma anche perché l'ente assicuratore invoca ancora una volta una circostanza - l'essere stato adibito il (...) a mansioni di ufficio diverse da quelle di operaio inizialmente espletate - che il ctu (al quale peraltro è stato affidato l'incarico in ragione delle doglianze dell'appellante sulla disciplina applicabile ratione temporis ed in assenza di altre e diverse prospettazioni da parte dell'(...), ha tenuto nel debito conto e appositamente considerato, avendo espressamente richiamato 'lo spostamento definitivo (come da anamnesi) in ambiente lavorativo del tutto diverso, con mansione amministrativa'. (...) è fondato e, conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere riformata. Accolto l'appello, in riforma dell'impugnata sentenza, l'(...) va condannato ad erogare all'appellante la rendita nella misura del 16% con decorrenza dalla data di revisione (01-11-2018), oltre accessori come per legge. Le spese del doppio grado di giudizio e quelle di CTU vanno, pertanto, poste a carico dell'(...) soccombente. P. Q. M. definitivamente pronunziando sull'appello, proposto con ricorso del 21.12.2022, da (...) avverso la sentenza resa il (...) dal Tribunale di (...) nei confronti dell'(...) così provvede: accoglie l'appello, e, per l'effetto, in riforma della sentenza, condanna l'(...) a liquidare in favore di (...) la rendita per inabilità nella percentuale del 16% con decorrenza dal 1.11.2018, oltre accessori di legge; condanna l'(...) al pagamento in favore di (...) delle spese di entrambi i gradi del giudizio, che liquida, quelle di primo grado, in Euro 1.600,00 e, quelle di secondo grado, in Euro. 2.000,00, oltre rimborso forfettario delle spese, iva e cap come per legge; pone definitivamente a carico dell'(...) le spese di entrambe le ctu (...) deciso in (...) il (...) dott.ssa (...) estensore dott.ssa (...)
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. GARRI Fabrizia - Consigliere Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. BUFFA Francesco - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 26645-2018 proposto da: I.N.A.I.L. - ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, (...), presso lo studio degli avvocati An.Ro., Le.Cr., che lo rappresentano e difendono; - ricorrente - contro Un. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato Ra.Co.; - controricorrente - nonchè contro Al. Spa in persona dei legali rappresentanti pro tempore, Mu.Mi. in proprio e quale legale rappresentante del Bi.Al. Srl, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, (...), presso lo studio dell'avvocato Mi.Cl., che li rappresenta e difende; - controricorrenti - nonchè contro Ag.Sa. in proprio e quale legale rappresentante di Co. Srl, elettivamente domiciliati in ROMA (...), presso lo studio dell'Avvocato Pi.An., rappresentati e difesi dall'Avvocato Cl.Si.; - controricorrenti - avverso la sentenza n. 38/2018 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, depositata il 22/03/2018 R.G.N. 790/2016; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/02/2024 dal Consigliere Dott. FRANCESCO BUFFA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO VISONÀ che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avvocato Le.Cr.. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con sentenza del 22.3.18 la corte d'appello di Bologna ha confermato la sentenza del tribunale di Reggio Emilia che aveva dichiarato inammissibile il regresso esercitato dall'Inail (che aveva erogato l'indennizzo per infortunio ad artigiano edile e aveva quindi convenuto il committente e l'impresa appaltatrice ed i relativi legali rappresentanti). 2. In particolare, la corte territoriale ha escluso l'esperibilità dell'azione di regresso, essendo esperibile la sola surroga in relazione ad un infortunio occorso al lavoratore autonomo, essendo questi titolare degli obblighi assicurativi. 3. Avverso tale sentenza ricorre l'INAIL per un motivo; le compagnie di assicurazione, nonché l'appaltatrice ed il suo legale rappresentante in proprio resistono, ciascuno con proprio controricorso, illustrato per UnipolSai con memoria; il committente e il suo legale rappresentante sono rimasti intimati. MOTIVI DELLA DECISIONE 4. Il motivo di ricorso deduce violazione degli articoli 10 e 11 del testo unico infortuni, per avere escluso l'esperibilità dell'azione di regresso per infortunio a lavoratore autonomo. 5. Il motivo è infondato. 6. Questa Corte è consapevole (cfr. Sez. L, Sentenza n. 36051 del 2023 e 4482 del 2012) che l'azione di regresso non riguarda solo il rapporto assicurativo, ma anche l'obbligo di sicurezza, per cui l'Istituto può esercitare tale azione anche nei confronti di soggetti che non rivestono la qualità di datore di lavoro (laddove, in teoria, sarebbe esercitabile l'azione di surroga), proprio perché su questi soggetti incombe l'obbligo di tutelare l'incolumità dei lavoratori che inseriscono nella propria organizzazione produttiva, e che (cfr. Cass. 28 marzo 2008, n. 8136; Sez. L, Sentenza n. 10967 del 27/05/2015) l'azione esercitata dall'I.N.A.I.L. nei confronti delle "persone civilmente responsabili", per la rivalsa delle prestazioni erogate all'infortunato, configura una azione esperibile anche verso i soggetti responsabili o corresponsabili dell'infortunio a causa della condotta da essi tenuta in attuazione dei loro compiti di preposizione o di meri addetti all'attività lavorativa, giacché essi, pur essendo estranei al rapporto assicurativo, rappresentano organi o strumenti mediante i quali il datore di lavoro ha violato l'obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro, senza che a ciò sia di ostacolo la possibile affermazione della loro responsabilità solidale, atteso che l'art. 2055 cod. civ. consente la diversità dei rispettivi titoli di responsabilità (cfr. in tali sensi Cass. 18 agosto 2004 n. 16141 cui adde, ex plurimis, Cass. 7 marzo 2008 n. 6212). 7. Tuttavia, presupposto essenziale per l'esercizio del regresso è la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato (o di un rapporto allo stesso equiparabile secondo la giurisprudenza), nella specie pacificamente non ricorrente. 8. Vi sono infatti diverse ragioni che militano nel senso dell'esclusione dell'azione di regresso in relazione ad infortunio occorso a lavoratore subordinato. 9. In primo luogo, va richiamato il dato letterale delle norme degli articoli 10 ed 11 t.u.i.l.m.p., inseriti nel capo intitolato "datori di lavoro", che disciplinano l'azione in questione come azione contro un "datore di lavoro" e come azione contro "responsabili civili" in quanto "incaricati della direzione o sorveglianza sul lavoro" e dunque operanti in relazione a lavoratori subordinati. 10. Il riferimento al rapporto di lavoro subordinato (o a rapporti per vari profili assimilabili) è rimasto anche seguito dell'estensione operata in giurisprudenza dell'azione di regresso, all'esito di Corte costituzionale n. 22 del 1967 (azione verso altri dipendenti), Cass. S.U. n. Sez. U, Sentenza n. 3288 del 16/04/1997, Rv. 503735 - 01 e Sez. 3, Sentenza n. 3102 del 01/04/1999, Rv. 524807 - 01 (azione nei confronti dei compagni di lavoro e dei preposti), Cass. Sez. Lav. n. 11426 del 2006 (azioni verso soci o amministratori), Cass. Sez. Lav. n. Sez. L, Sentenza n. 6212 del 07/03/2008, Rv. 602495 - 01 e Sez. L, Sentenza n. 12561 del 18/05/2017, Rv. 644498 01) (azione verso i soggetti chiamati a collaborare con il datore di lavoro nell'assolvimento dell'obbligo di sicurezza). 11. In secondo luogo, occorre evidenziare l'incongruità dell'estensione del regresso in relazione a situazione che non riguarda la sfera organizzativa (e la correlativa responsabilità) di un datore di lavoro rispetto alla quale il lavoratore sia tenuto ad operare, laddove nella fattispecie l'attività del lavoratore è autonoma: un conto è invero tutelare il lavoratore autonomo sul piano previdenziale, altra cosa è estendere la responsabilità in regresso a soggetto appaltatore o, addirittura, al committente del lavoro nel cui ambito il lavoratore autonomo è chiamato ad operare (un lavoratore dunque con immanente facoltà di rifiutare di operare in condizioni prive di adeguata sicurezza e, all'opposto, di operare comunque secondo scelte autonome). 12. In altri termini, l'estensione del regresso nei confronti di soggetti tenuti ad un "debito di scurezza" (ossia dei soggetti che, in ragione dell'attività svolta, sono gravati da specifici obblighi di prevenzione nei confronti dei lavoratori a rischio) postula sempre un rapporto di lavoro subordinato, nell'ambito del quale il lavoratore sia tenuto al rispetto delle disposizioni altrui e dell'etero-organizzazione della sua prestazione lavorativa. Un argomento in favore di questa lettura deriva altresì dall'art. 7 co. 2 punto 3 della legge n. 626/1994, secondo il quale l'obbligo del committente non si estende ai rischi specifici propri delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. 13. In terzo luogo, rileva il carattere di specialità dell'azione di regresso rispetto alla generale azione di surroga possibile in relazione all'infortunio, atteso che l'invocata estensione giurisprudenziale del regresso al lavoro autonomo non lascerebbe rilevante spazio di operatività residuo alla surroga (al di fuori della materia dell'infortunistica stradale). 14. L'esclusione del regresso, per converso, lascia aperta la strada della surroga, al ricorrere dei requisiti relativi (cfr. Sez. L -, Sentenza n. 21961 del 10/09/2018, Rv. 650495 - 01), sicché non esclude la tutela dell'ente previdenziale. 15. La giurisprudenza ha del resto chiarito la differenza tra i due istituti evidenziando la operatività generale della surroga ex art. 2916 c.c. dell'ente assicuratore nei diritti dell'assicurato verso i terzi responsabili e la specialità dell'azione di regresso quale azione con la quale l'ente fa valere un proprio diritto che origina dal rapporto assicurativo (cfr. Sez. 6 - L, Ordinanza n. 29219 del 12/11/2019, Rv. 655759 - 01), con le correlative conseguenze - evidenziate da copiosa giurisprudenza - sul piano sia processuale (competenza, onere della prova) che sostanziale (diversità dei fatti costitutivi del diritto, determinazione del quantum secondo apposite tariffe, regime della prescrizione). 16. Il ricorso, pertanto, va rigettato. La novità della questione dà ragione della compensazione integrale delle spese di lite tra le parti. 17. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Spese compensate. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n.115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso oggi in Roma, nella camera di consiglio del 14 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. GARRI Fabrizia - Consigliere Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. BUFFA Francesco - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 22266-2019 proposto da: Mi.Mi. nella qualità di erede di Tu.Le., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato St.Ma. unitamente all'avvocato Gi.Sc.; - ricorrente - contro I.N.A.I.L. - ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (...), presso lo studio degli avvocati An.Ro., Le.Cr. che lo rappresentano e difendono; - controricorrente - avverso la sentenza n. 431/2019 della CORTE D'APPELLO d nu PALERMO, depositata il 03/05/2019 R.G.N. 956/2017; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/02/2024 dal Consigliere Dott. FRANCESCO BUFFA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO VISONA' che ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi gli avvocati St.Ma., Gi.Sc.; udito l'Avvocato Le.Cr. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con sentenza del 3.5.19 la corte d'appello di Palermo, in parziale riforma di sentenza del 22.5.17, ha condannato il sig. Tu.Le. al pagamento di Euro 251.640 in favore dell'Inail per regresso in relazione ad infortunio letale sul lavoro occorso a dipendente. 2. In particolare, sulla scorta di prove documentali e testimoniali, la corte territoriale ha qualificato il rapporto di lavoro quale subordinato ed ha rideterminato le somme dovute all'INAIL, accogliendo la domanda di adeguamento proposta dall'INAIL (già nelle note autorizzate in primo grado - seppure poi disattese dal giudice di prime cure - e poi nella memoria di costituzione in appello) in considerazione delle rivalutazioni delle rendite INAIL intervenute nel tempo con decreti ministeriali. 3. Avverso tale sentenza ricorre l'erede del Tu.Le. per due motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso INAIL. RAGIONI DELLA DECISIONE 4. Il primo motivo deduce violazione degli articoli 2909 c.c nu e 324 c.p.c., per avere la corte territoriale trascurato il giudicato interno sull'ammontare delle somme (perché i presupposti di legge per chiedere maggiori somme erano maturati in primo grado, il credito era stato precisato già in quella sede dalla parte e la sentenza non aveva accolto la relativa richiesta, né l'INAIL aveva proposto appello incidentale). 5. Il secondo motivo deduce ex art. 360 co. 1 numero 4 c.p.c., nullità della sentenza ex art. 132 e 118 attuazione c.p.c., per mancanza di motivazione sull'importo delle somme. 6. Il primo motivo difetta di autosufficienza in quanto non riporta gli atti del primo grado (ed in particolare delle note richiamate dalla parte) e della sentenza relativa. 7. Il motivo è in ogni caso infondato, alla luce di Sez. L, Sentenza n. 4193 del 21/03/2003, Rv. 561309 - 01 e Sez. L, Sentenza n. 15002 del 21/11/2000, Rv. 541934 -01, secondo cui il credito dell'Inail verso il terzo autore del danno per il rimborso delle prestazioni eseguite a favore dell'infortunato costituisce credito di valore, perciò da quantificarsi con riferimento al momento della liquidazione definitiva, con la conseguenza che, se per effetto di rivalutazione della rendita imposta da un provvedimento sopravvenuto, l'ammontare del credito sia superiore a quello dedotto dall'Inail in primo grado, la maggior somma risultante può essere domandata dall'istituto senza necessità di proporre appello incidentale, anche in sede di discussione del gravame proposto da controparte, costituendo tale richiesta semplice precisazione del "petitum" relativo alla domanda già posta. 8. Il secondo motivo e infondato; la sentenza ha invero richiamato la documentazione allegata dall'Inail, così facendola propria, ed indicando compiutamente le ragioni a sostegno della decisione. 9. Pertanto, il ricorso va rigettato. 10. Spese secondo soccombenza. 11. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto. P.Q.M. Rigetta il ricorso. condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in Euro 8.500 per compensi professionali ed Euro 200 per esborsi, oltre a spese generali al 15% ed accessori come per legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n.115/02 dà atto ella sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso oggi in Roma, nella camera di consiglio del 14 Febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2024.
AULA 'A' 2024 1021 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ADRIANA DORONZO - Presidente - Dott. MARGHERITA MARIA LEONE - Consigliere - Dott. FRANCESCOPAOLO PANARIELLO - Consigliere - Dott. FABRIZIO AMENDOLA - Consigliere - Dott. GUALTIERO MICHELINI - Rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 19958-2019 proposto da: TESTA GUERINO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SAN TOMMASO D'AQUINO 80, presso lo studio dell'avvocato SEVERINO GRASSI, rappresentato e difeso dagli avvocati OSVALDO GALIZIA, FRANCESCA BUCCIARELLI; - ricorrente - contro MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, in persona del Ministro pro tempore, ISPETTORATO NAZIONALE DEL LAVORO (già DIREZIONE TERRITORIALE DEL LAVORO), ISPETTORATO TERRITORIALE DEL LAVORO DI CHIETI/PESCARA (già DIREZIONE TERRITORIALE DEL LAVORO DI CHIETI/PESCARA), in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12; - controricorrenti - Oggetto SANZIONI AMMINISTRATIVE IN MATERIA DI LAVORO E PREVIDENZA R.G.N. 19958/2019 Cron. Rep. Ud. 05/03/2024 PU avverso la sentenza n. 140/2019 della CORTE D'APPELLO di L'AQUILA, depositata il 07/03/2019 R.G.N. 69/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2024 dal Consigliere Dott. GUALTIERO MICHELINI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi gli avvocati OSVALDO GALIZIA, FRANCESCA BUCCIARELLI. FATTI DI CAUSA 1.La Corte d’Appello di L’Aquila rigettava l’appello proposto da Guerino Testa avverso la sentenza del Tribunale di Pescara con la quale era stata rigettata l’opposizione del medesimo avverso l’ordinanza-ingiunzione n. 334/2013 con cui gli erano state irrogate sanzioni amministrative (per € 272.191), in relazione alla violazione di diverse disposizioni della normativa in materia di assunzione e regolarizzazione dei lavoratori, a seguito di accertamento ispettivo riguardante oltre 40 docenti dell'Istituto scolastico Il Nazareno (di cui l’opponente era legale rappresentante) e l’appalto di servizi, giudicato illegittimo, con la coop. San Leone Magno; 2. La Corte di merito, in particolare, osservava che: a)non era fondata l'eccezione di violazione del principio del ne bis in idem in relazione a sentenza del Tribunale penale di Pescara del 7.11.2016 dichiarativa di non doversi procedere nei confronti dell'opponente-appellante per estinzione dei reati a lui ascritti per prescrizione, stante la mancanza di statuizioni nel merito sulla sussistenza dei fatti, sui quali non si era, perciò, formato alcun giudicato che potesse precludere la successiva sanzionabilità degli stessi in via amministrativa, anche tenuto conto della diversità ontologica tra sanzione amministrativa e penale; b)non era fondata la censura di insussistenza dell'elemento soggettivo in capo all'autore dell'illecito, in quanto la responsabilità per le sanzioni amministrative è personale per azioni od omissioni coscienti e volontarie, siano esse dolose o colpose; c)non era fondata l'eccezione di carenza di motivazione dell'ordinanza-ingiunzione opposta, in quanto l'obbligo motivazionale era stato assolto mediante richiamo per relationemal verbale di accertamento presupposto, consentendo al soggetto sanzionato l'agevole verifica delle contestazioni effettuate, degli elementi fattuali posti a loro fondamento e delle sanzioni amministrative irrogate per le violazioni riscontrate, anche considerando nel caso concreto l'analiticità delle motivazioni su cui si fondava la pretesa sanzionatoria e i plurimi riscontri documentali; d)riesaminato criticamente il materiale istruttorio documentale e testimoniale conseguente al verbale di accertamento n. 38661 del 21.12.2009 con il quale i servizi ispettivi del Ministero del Lavoro avevano accertato l'irregolare occupazione di 43 docenti e disconosciuto la sussistenza di un genuino rapporto di appalto di servizi tra la cooperativa San Leone Magno s.c. a r.l. incaricata per la gestione e lo svolgimento di corsi didattici e la U.C.I.S. (Unione Cristiana Istituti Scolastici) Il Nazareno s.r.l. in relazione all'attività di docenza, assistenza e tutoraggio svolta da lavoratori legati alla cooperativa da contratti di lavoro qualificati dagli ispettori come rapporti di lavoro subordinato alle dirette dipendenze della U.C.I.S. il Nazareno di cui l'appellante era amministratore unico, era confermata la presenza di un appalto endo-aziendale; l'appaltatore esterno non aveva dimostrato di essere dotato di un'effettiva organizzazione aziendale; si doveva qualificare la posizione dell'intermediario quale mero datore di lavoro formale; nella realtà U.C.I.S. Il Nazareno utilizzava manodopera fornita dalle cooperative, sicché i docenti eseguivano mere prestazioni lavorative presso la struttura della committente osservandone le direttive, a fronte del fatto che la cooperativa aveva fatto convergere su di sé gli obblighi fiscali e contributivi senza assumere alcun rischio d'impresa e limitandosi alla fornitura di manodopera; era corretto il convincimento già raggiunto dal Tribunale circa l'insussistenza delle condizioni di legge per qualificare come genuino l'appalto in questione; e)erano ontologicamente inconciliabili con il dedotto fondamento volontaristico le prestazioni lavorative rese, a partire da quelle del dirigente scolastico. 3.L’originario opponente ha proposto ricorso per cassazione, con tre motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito con controricorso l’amministrazione; in sede di adunanza camerale in data 12.7.2023, la causa è stata rimessa alla pubblica udienza con particolare riferimento ai profili evidenziati da Corte cost. n. 63/2019; parte ricorrente ha depositato ulteriore memoria; 4.il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso; RAGIONI DELLA DECISIONE 1.Dato atto che l’Avvocatura Generale dello Stato si è costituita in sanatoria nonostante invalida notifica del ricorso per cassazione all’Avvocatura distrettuale di L’Aquila, si osserva preliminarmente che l’ordinanza-ingiunzione in contestazione ha irrogato sanzioni amministrative per le seguenti violazioni: a) art. 3, comma 3, legge 23.4.2002, n. 73 (legge di conversione del D.L. 22.2.2002, n. 12), così come modificato dall’art. 36-bis, comma 7, lett. A), legge 4.8.2006, n. 24 (legge di conversione del D.L. 4.7.2006, n. 223), “poiché il datore di lavoro ha occupato lavoratori in nero, non risultanti dalle scritture o da altra documentazione di lavoro obbligatoria, come da prospetto “allegato C-bis” parte integrante del suindicato verbale conclusivo, per i periodi e il numero delle giornate in esso indicate (n. 43 lavoratori per n. 1988 giornate lavorative); b) art. 4-bis, comma 2, d. lgs. 21.4.2000, n.181, così come introdotto dall’art. 6, comma 1, d. lgs. 19.12.2002, n. 297 “poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella Società Ucis Srl, non ha consegnato ai lavoratori, di cui agli allegati C-bis e F1-bis, all’atto dell’instaurazione del rapporto di lavoro, le dichiarazioni di assunzione (n. 80 dichiarazioni di assunzione) allegati C-bis (lavoro nero) e F1-bis (lavoro somministrato)”; c) art. 14, comma 2, d. lgs. 23.2.2000 n. 38, “poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella Società Ucis il Nazareno Srl, non ha provveduto ad effettuare la comunicazione di inizio rischio lavorativo all’Inail territorialmente competente”; d) art. 20, comma 1, d.P.R. 30.6.1965, n. 1124, “poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella società Ucis il Nazareno Srl, non ha provveduto ad istituire il libro matricola aziendale, all’atto dell’occupazione del primo lavoratore dipendente”; e) art. 20, comma 1, d.P.R. 30.6.1965 n. 1124, “poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella società Ucis il Nazareno srl, non ha provveduto ad istituire il libro paga/presenze aziendale, all’atto dell’occupazione del primo lavoratore dipendente”. 2.Con il primo motivo, parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 9 legge n. 689/1981, violazione del principio del ne bis in idem, violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 111 Cost., 7 CEDU, 49 CDFUE, 4 prot. 7 CEDU, 50 CDFUE, sotto due aspetti: a) i fatti oggetto dell’impugnata ordinanza-ingiunzione, relativi ad un presunto appalto illecito di manodopera tra la U.C.I.S. Il Nazareno (di cui il ricorrente è stato amministratore) e la Cooperativa San Leone Magno, con conseguente riconoscimento in capo alla prima dei rapporti di lavoro anche “in nero” come presunto datore di lavoro effettivo, sono stati già oggetto di accertamento nel processo penale conclusosi con sentenza del Tribunale di Pescara-sez. penale- n. 3103/2016 del 7.11.2016, che ha disposto di non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati di cui agli artt. 18 e 28 d.lgs. n. 276/2003 e 37 legge n. 689/1981; b) al ricorrente sono state comminate sanzioni per “lavoro nero” sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto, più sfavorevole rispetto alla legge vigente al momento dell’emanazione dell’ordinanza ingiunzione, avvenuta in data 11.12.2013. 3.Con il secondo motivo, parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.), assumendo la natura volontaristica, non riconducibile a rapporto di lavoro subordinato, delle attività accertate. 4.Con il terzo motivo, parte ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, integrante vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., sostenendo l’inesistenza processuale di 30 posizioni oggetto del contestato “lavoro nero”, mai sentiti in sede di accesso ispettivo e mai escussi come testimoni, e inesistenza processuale dei registri di classe. 5.Inoltre, parte ricorrente chiede di rinviare la controversia in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi degli artt. 19 TUE e 267 TFUE, al fine di esaminare le questioni: a) se l’art. 49 CDFUE osta ad una normativa nazionale che applica, ad una sanzione amministrativa avente i requisisti di una sanzione penale alla stregua dei criteri Engel della CEDU, il principio del tempus regit actum e non il principio del favor rei; b) se l’art. 50 CDFUE osta ad una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa di natura penale nei confronti di una persona avverso la quale, per la medesima condotta, - consistente nell’interposizione illecita di manodopera e “lavoro nero” - sia stata pronunciata sentenza penale di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. 6.Per ragioni di ordine logico ed espositivo, è opportuno esaminare in primo luogo il secondo e terzo motivo del ricorso per cassazione. 7.Detti motivi sono inammissibili. 8.Quanto al secondo motivo, la sentenza gravata ha specificato (cfr. p. 9) che, dalle risultanze istruttorie, era emerso chiaramente che i docenti, formalmente dipendenti della cooperativa San Leone Magno, erano in realtà stabilmente occupati presso la committente U.C.I.S. il Nazareno in esecuzione di mere prestazioni di manodopera, lavorando alle dirette dipendenze di quest’ultima, svolgendo le relative mansioni all'interno del ciclo produttivo aziendale, avvalendosi dei mezzi e delle strutture della stessa, senza che la cooperativa avesse alcuna autonomia operativa o alcuna organizzazione di mezzi propri; che i docenti eseguivano mere prestazioni lavorative presso la struttura della committente, osservandone le direttive, mentre la cooperativa aveva fatto convergere su di sé gli obblighi fiscali e contributivi della manodopera impegnata, senza assumere alcun rischio d'impresa e limitandosi alla semplice fornitura di manodopera, con la conseguenza dell'insussistenza delle condizioni di legge per qualificare come genuino l'appalto tra U.C.I.S. Il Nazareno e cooperativa San Leone Magno, che aveva formalmente assunto i dipendenti citati nel verbale ispettivo, in realtà stabilmente occupati presso la committente; che, in tal modo, era stata realizzata una fattispecie interpositoria vietata dalla legge. 9.La valutazione circa la sussistenza degli elementi dai quali inferire l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato costituisce un accertamento di fatto, rispetto al quale il sindacato della Corte di cassazione è equiparabile al più generale sindacato sul ricorso al ragionamento presuntivo da parte del giudice di merito; pertanto, il giudizio relativo alla qualificazione di uno specifico rapporto come subordinato o autonomo è censurabile ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. solo per ciò che riguarda l'individuazione dei caratteri identificativi del lavoro subordinato, per come tipizzati dall'art. 2094 c.c., mentre è sindacabile nei limiti ammessi dall'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. allorché si proponga di criticare il ragionamento (necessariamente presuntivo) concernente la scelta e la ponderazione degli elementi di fatto, altrimenti denominati indici o criteri sussidiari di subordinazione, che hanno indotto il giudice del merito ad includere il rapporto controverso nell'uno o nell'altro schema contrattuale (Cass. n. 22846/2022); la sussistenza dell'elemento della subordinazione nell'ambito di un contratto di lavoro va correttamente individuata sulla base di una serie di indici sintomatici, comprovati dalle risultanze istruttorie, quali la collaborazione, la continuità della prestazione lavorativa e l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale, da valutarsi criticamente e complessivamente, con un accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 14434/2015). 10.Si tratta, quindi, di questioni interamente di fatto già esaminate dalla Corte d'Appello ed esterne al perimetro del giudizio di legittimità, nel quale non è normativamente consentita la rivisitazione del merito della controversia, posto che il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale valutare elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi. 11.Circa il contenuto degli ordini o direttive ai lavoratori da parte del committente, nonché il contenuto dei contratti di appalto in relazione alle mansioni svolte, la Corte di merito ha valorizzato specifici elementi di fatto per giungere, sulla base dell’apprezzamento di tali elementi come desunti dall’istruttoria e valutati con motivazione congrua e logica, ad affermare in diritto l’avvenuta interposizione fittizia; censurando il suddetto apprezzamento di elementi fattuali, pertanto, parte ricorrente non prospetta un vizio di sussunzione, ma di valutazione del merito, dunque, come detto, al di fuori del perimetro del giudizio di legittimità (cfr. Cass. n. 20814/2018, S.U. n. 34476/2019, n.11959/2023, n. 32412/2023). 12.Per consolidata giurisprudenza di legittimità, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che, sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. S.U. n. 34476/2019); la proposta di ri-valutazione di questioni di fatto è in contrasto con il principio secondo cui la denuncia di violazione di legge non può surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi (v. Cass. n. 15568/2020, e giurisprudenza ivi richiamata); infatti, il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale valutare elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass. n. 20814/2018, n. 6519/2019). 13.Quanto al terzo motivo, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare i fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che il giudice di merito non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni, ed involgendo la valutazione delle emergenze probatorie, così come la scelta, tra le varie risultanze, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale deve indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (cfr. Cass. n. 11933/2003, n. 12362/2006, n. 17097/2010, n. 13485/2014, n. 16056/2016, n. 19011/2017, n. 29404/2017, S.U. n. 34476/2019 cit., n. 20553/2021). 14.Del resto, nel caso concreto, in fatto, la Corte d’Appello ha confermato integralmente la sentenza di primo grado, così realizzandosi ipotesi di cd. doppia conforme rilevante ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. (ora 360, comma 4, c.p.c.) e dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. 15.Il primo motivo prospetta due differenti questioni circa il rapporto tra sanzioni penali e sanzioni amministrative conseguenti ad accertamento ispettivo di determinati fatti, connesse violazioni di legge, conseguenti sanzioni, ossia l’applicazione del principio del ne bis in idem e l’applicazione della lex mitior successiva. 16.Esso è infondato con riferimento alla prima questione, e fondato con riferimento alla seconda questione. 17.In via generale, nella giurisprudenza di questa Corte, si è posto il problema se sanzioni formalmente amministrative vadano considerate sostanzialmente penali, sia alla stregua della Convenzione EDU, secondo i criteri tracciati nella sentenza della Corte EDU 8 giugno 1976, Engel, sia alla stregua del diritto UE (CGUE 5 giugno 2012, in causa C-489/10, Bonda, 37). 18.A tale riguardo sono pertinenti tre criteri, consistenti il primo nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, il secondo nella natura dell’illecito, e il terzo nella natura e nel grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere (v., in particolare, CEDU, sentenze Engel e altri c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976, §§ 80-82, nonché Zolotoukhine c. Russia del 10 febbraio 2009, §§ 52 e 53). 19.Infatti, si pone il problema di verificare se, e in quali limiti, il concorso, per i medesimi fatti storici, del procedimento amministrativo e del procedimento penale sia compatibile con il diritto fondamentale a non essere perseguiti o condannati penalmente per un reato per il quale si sia stati già assolti o condannati a seguito di una sentenza definitiva; diritto riconosciuto tanto dall' articolo 4 del VII Protocollo allegato alla CEDU (sulla cui base la Corte EDU ha elaborato il principio del ne bis in idem di diritto convenzionale, cfr.sent. 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia, nonché, in parziale discontinuità con la giurisprudenza precedente, sent. 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia), quanto dall'articolo 50 CFDUE (sulla cui base la Corte di giustizia ha elaborato il principio del ne bis in idem di diritto UE, cfr. sent. 26 febbraio 2016, C-617/10, Fransson, nonché le tre sentenze del 20 marzo 2018, C-524/15, Menci, C- 537/16, Garlsson Real Estate e C-596/16 e C-597/16, Di Puma e Zecca). 20.Tanto nel diritto convenzionale, quanto in quello UE, ai fini del divieto di bis in idem deve aversi riguardo ai fatti nella loro materialità, indipendentemente dalla qualificazione giuridica operata dalle singole legislazioni nazionali; per quanto riguarda il diritto convenzionale, per "same offence" deve intendersi un reato che ha ad oggetto i medesimi fatti, o fatti che siano "sostanzialmente" gli stessi, rispetto a quelli per i quali si è già stati giudicati; ciò che rileva, in altri termini, non è stabilire se gli elementi costitutivi delle due fattispecie tipiche siano o meno coincidenti, quanto, piuttosto, chiarire se gli illeciti oggetto dei due procedimenti siano riconducibili alla stessa condotta; per quanto riguarda il diritto dell’Unione europea, il criterio si rinviene nella giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia sull'articolo 50 CDFUE e sull'articolo 54 della Convenzione di applicazione dell'accordo Schengen (alla cui stregua una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può, a determinate condizioni, essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un'altra Parte contraente - cfr. sent. 20 marzo 2018, C- 537/16, Garlsson Real, cit., § 37, ove si parla di «insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro, che hanno condotto all'assoluzione o alla condanna definitiva dell'interessato», e per un’ampia ricostruzione in diritto, anche con richiami alla giurisprudenza della CGUE, Cass. n. 31632/2018). 21.Dunque, la garanzia del ne bis in idem, quale diritto fondamentale della persona, trova la sua ratio primaria nella garanzia di evitare l'ulteriore sofferenza ed i costi economici, determinati da un nuovo processo in relazione a fatti per i quali quella persona sia già stata giudicata (Corte Cost., sentenza n. 149/2022, § 5.1.1); ove l’idem è equiparato a quello di idem factum (Corte EDU, Grande Camera, Zolotukhin c. Russia, cit.) e il giudizio circa la coincidenza del fatto deve svolgersi avuto riguardo all'accadimento naturalisticamente inteso, ossia al fatto storico, senza che a nulla rilevi la sua qualificazione giuridica nell'ordinamento interno; quanto al bis, la valutazione circa la duplicazione delle procedure e delle sanzioni, prescindendo dall'etichetta (penale) formalmente assegnata alle stesse nell'ambito dell'ordinamento interno, viene a dipendere esclusivamente dalla loro natura «sostanzialmente punitiva», da apprezzarsi secondo i citati cd. criteri Engel elaborati dalla Corte EDU e recepiti dalla Corte di Giustizia Europea nel caso Bonda. 22.Peraltro, a partire dalla sentenza della Corte Europea A & B c. Norvegia del 2016 (Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, ric. nn. 24130/11 e 29758/11), è stato escluso che la mera previsione di doppi binari sanzionatori dia origine, sempre e necessariamente, alla violazione della garanzia convenzionale; e, stabilito che il sistema del doppio binario non è di per sé illegittimo, ai fini del riconoscimento della garanzia del ne bis in idem non è sufficiente fermarsi all'accertamento di un cumulo tra due procedimenti sanzionatori aventi entrambi carattere punitivo (bis in idem), ma occorrerà verificare che gli stessi non siano tra loro connessi al punto da potersi considerare come aspetti di un unico procedimento. 23.Pertanto, alla luce dello stato dell’arte consegnatoci dalla giurisprudenza europea, il riconoscimento della garanzia del ne bis in idem nel diritto europeo non pregiudica di per sé l'adozione, negli ordinamenti giuridici nazionali, di meccanismi sanzionatori strutturati secondo lo schema del doppio binario in cui, in una logica di efficienza, lo stesso fatto risulta sottoposto contemporaneamente sia a sanzione penale, sia a sanzione amministrativa (cfr., per un’ampia ricostruzione in diritto, anche con richiami alla giurisprudenza della CGUE, Cass. n. 34699/2023); ciò anche tenendo conto dell’invito al legislatore per un’auspicabile rimeditazione dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio contenuto in Corte Cost. n. 149/2022. 24.Nel caso in esame, anche valutando la natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative applicate, alla luce dei cd. criteri Engel, non è ravvisabile violazione del principio del ne bis in idem, in quanto non è intervenuta sentenza penale di condanna o di assoluzione, ma non di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. 25.Deve osservarsi che la prescrizione è rinunciabile (art. 157 c.p.) ove vi sia un interesse dell’imputato all’assoluzione nel merito; poiché non è la sola esistenza del cd. doppio binario sanzionatorio ad integrare l’incompatibilità della normativa interna con quella europea, non è sufficiente la mera pendenza di procedimento penale per considerare violato il disposto di cui all’art. 50 CDFUE (che fa riferimento ad assoluzione o condanna). 26.Osserva il Collegio che la Corte di Giustizia UE, in materia di applicazione del principio del ne bis in idem, sancito all’articolo 50 CDFUE, in caso di cumulo di procedimenti o di sanzioni per gli stessi fatti, ha chiarito che “una siffatta possibilità di cumulare i procedimenti e le sanzioni rispetta il contenuto essenziale dell’articolo 50 della Carta, a condizione che le normative nazionali in questione non consentano di perseguire e sanzionare i medesimi fatti a titolo dello stesso reato o al fine di perseguire lo stesso obiettivo, ma prevedano unicamente la possibilità di un cumulo dei procedimenti e delle sanzioni ai sensi di normative diverse”; per quanto riguarda la questione “se la limitazione dell’applicazione del principio del ne bis in idem risponda ad un obiettivo di interesse generale, occorre constatare che le due normative nazionali di cui trattasi nel procedimento principale perseguono obiettivi legittimi e distinti”; (…) “le autorità pubbliche possono legittimamente optare per risposte giuridiche complementari a fronte di determinati comportamenti nocivi per la società mediante diversi procedimenti, che formino un insieme coerente, in modo da trattare sotto i suoi diversi aspetti il problema sociale in questione, purché tali risposte giuridiche combinate non rappresentino un onere eccessivo per la persona di cui trattasi. Pertanto, il fatto che due procedimenti perseguano obiettivi di interesse generale distinti, che è legittimo tutelare cumulativamente, può essere preso in considerazione, nell’ambito dell’analisi della proporzionalità di un cumulo di procedimenti e sanzioni, quale fattore diretto a giustificare tale cumulo, a condizione che tali procedimenti siano complementari e che l’onere supplementare rappresentato da detto cumulo possa così essere giustificato dai due obiettivi perseguiti (sent. 14.9.2023, C- 27/22, Volkswagen c/Italia, §§ 90, 91, 94 e la ivi richiamata sentenza della stessa CGUE 22.3.2022, C-117/20, bpost, §§ 43 e 49). 27.Nel caso in esame, i reati contestati (anche tenuto conto di quanto risultante dalle allegazioni di parte ricorrente, in conformità al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) sanzionano omissioni di registrazioni o denunce obbligatorie dalle quali derivi l’omesso versamento di contributi previdenziali e assistenziali ovvero somministrazione di manodopera non autorizzata o fraudolenta. Le violazioni amministrative contestate (v. supra, § 1) riguardano, in senso lato, la repressione del lavoro non regolarizzato dal punto di vista fiscale e contributivo (cd. lavoro nero) in una prospettiva generale e integrata, complementare e più ampia rispetto alla specifica area di tutela presidiata dagli illeciti penali. 28.Se ne deve ricavare, pertanto, che sono diverse le finalità sottese all'irrogazione della sanzione penale e di quella amministrativa, per cui non sussiste violazione del principio del divieto del ne bis in idem, perché l'illecito penale e quello amministrativo sanzionano condotte lesive di beni giuridici differenti (cfr., in fattispecie diversa ma affine, Cass. n. 12936/2018). 29.In questo senso, per essersi il giudice dell’Unione già pronunciato su questo specifico aspetto di interpretazione del diritto dell’Unione, deve essere respinta l’istanza di rinvio pregiudiziale proposta dalla difesa ricorrente in relazione all’art. 50 CFDUE (cfr. CGUE 25.5.2018, C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, in linea con la sentenza 6.10.1982, 283/81, CILFIT). 30.Il secondo profilo del primo motivo di ricorso deve, invece, essere accolto. 31.La natura sostanzialmente penale, alla luce dei cd. criteri Engel, tenuto conto della qualificazione giuridica e della natura degli illeciti contestati, e del grado di severità delle sanzioni applicate nel caso concreto, impone di valutare la fattispecie alla luce di principi enunciati da Corte Cost. 63/2019. 32.Con questa pronuncia (successiva alla sentenza impugnata) la Corte delle leggi ha dichiarato costituzionalmente illegittimo - per violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. - l'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l'applicazione retroattiva delle modifiche in mitius apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l'illecito di abuso di informazioni privilegiate, di cui all'art. 187- bis del d.lgs. n. 58 del 1998. 33.Per quanto qui rileva (trattandosi di normativa afferente a violazioni diverse da quelle qui in esame), è stata ravvisata una deroga irragionevole al principio della retroattività della lex mitior in materia penale, avendo la sanzione amministrativa in questione in tale giudizio elevatissima carica afflittiva in funzione di deterrenza, o prevenzione generale negativa, comune anche alle pene in senso stretto e con natura punitiva; se ne è ricavata la necessità di applicazione delle garanzie che la Costituzione e il diritto internazionale dei diritti umani assicurano alla materia penale. 34.La Corte Costituzionale ha osservato che il principio della retroattività della lex mitior in materia penale possiede un duplice, e concorrente, fondamento: l'uno (di matrice domestica) riconducibile allo spettro di tutela del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost.; l'altro (di origine internazionale, avente ingresso nel nostro ordinamento attraverso l'art. 117, primo comma, Cost.) riconducibile all'art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo; la regola della retroattività della lex mitior in materia penale è riconducibile anzitutto al principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., e tale riconduzione segna anche il limite della garanzia costituzionale, nel senso che, mentre l'irretroattività in peius della legge penale costituisce un valore assoluto e inderogabile, la regola della retroattività in mitius della medesima legge penale è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli. 35.Nel caso di specie, parte ricorrente lamenta la comminazione a suo carico di sanzioni per “lavoro nero” sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto (art. 3, comma 3, D.L. n. 12/2002, conv. in legge n. 73/2002, come modificato dall’art. 36-bis, comma 7, D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006) che prevede(va) una sanzione amministrativa da € 1.500 a € 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di € 150 per ciascun giorno di lavoro effettivo, sanzione più sfavorevole rispetto a quella prevista dalla legge vigente al momento dell’emanazione dell’ordinanza- ingiunzione in data 11.12.2013, stante la riduzione, in forza della legge n. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) della sanzione alla misura da € 1.000 a € 8.000 per ciascun lavoratore irregolare, maggiorata di € 30 per ciascuna giornata di lavoro irregolare, nel caso in cui il lavoratore risulti regolarmente occupato per un periodo successivo (circostanza allegata nel caso in esame). 36.In tale contesto, rilevato che l’intervento della Corte Costituzionale ha censurato una specifica disposizione di diritto transitorio, ritiene il Collegio di valorizzare nella fattispecie concreta la portata generale del principio in relazione alle sanzioni amministrative applicate nel caso concreto, ritenutane la natura sostanzialmente penale, e comunque elevatamente afflittiva, nei termini definiti dalla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia (che richiama la giurisprudenza della Corte EDU) e da questa Corte (in particolare con le pronunce richiamate nei paragrafi precedenti). 37.Infatti, nella normativa in esame non è espressa una disposizione di carattere transitorio, e occorre fare riferimento al principio generale espresso dall’art. 1 della legge n. 689/1981, che esprime il principio di legalità in materia di sanzioni amministrative, vietando l’applicazione retroattiva delle stesse, e fissando altresì il principio tempus regit actum. 38.Reputa il Collegio che, in assenza di disposizioni di diritto transitorio che dispongano diversamente, non vi siano ostacoli (e che, segnatamente, tali ostacoli non siano rinvenibili nel principio tempus regit actum) all’applicazione del principio generale dell’applicazione retroattiva della lex mitior, ovvero della legge più favorevole dal punto di vita sanzionatorio. 39.Con la sentenza n. 63/2019, invero, la Corte Costituzionale ha ritenuto estensibile il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “materia penale” – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior - a “singole” sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità “punitiva”. 40.Nella sentenza appena citata (§ 6.2) si è rilevato che “l’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione “punitiva” è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare (…) tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di contro-interessi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale”. 41.Sulla scorta delle univoche affermazioni di principio della Corte costituzionale, applicati i cd. criteri Engel alla normativa sanzionatoria in esame, deve percorrersi l’interpretazione dell’art. 1 della legge n. 689/1981 nel senso della sua applicabilità tanto alle modifiche in peius delle sanzioni amministrative, in base al principio di legalità, quanto della diretta applicabilità del correlato principio generale, di matrice chiaramente costituzionale e convenzionale, della retroattività delle modifiche in mitius delle sanzioni punitive, pianamente ricavabile in forza dell’accertata natura elevatamente afflittiva delle sanzioni applicate e del doppio binario sanzionatorio seguito in materia dal legislatore, compatibile con l’architettura normativa europea in misura e in funzione della necessaria interferenza ed espansione dei principi garantisti generali, espressi dalla Carta dei diritti fondamentali. 42.In questo senso, trattandosi di interpretazione conforme allo spirito, alla lettera e allo scopo dell’art. 49 CDFUE, la richiesta di rinvio pregiudiziale ad esso riferita rimane assorbita. 43. I n conclusione, deve essere accolto per quanto di ragione il primo motivo di ricorso; la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, e rinviata al giudice indicato in dispositivo, al fine di procedere alla rideterminazione della sanzione amministrativa da applicare per le violazioni accertate tenendo conto delle intervenute modiche sanzionatorie più favorevoli, ricorrendone le condizioni, in base al principio di diritto secondo cui, qualora in un procedimento amministrativo sanzionatorio, concernente i medesimi fatti oggetto di un procedimento penale, in circostanze quali quelle del procedimento in esame, siano intervenute modifiche sanzionatorie più favorevoli, trova applicazione il principio di retroattività della legge più favorevole. 44.Rimangono assorbiti o non sono fondati alla stregua delle argomentazioni sopra espresse gli ulteriori profili di censura della sentenza impugnata di cui al primo motivo, e vanno dichiarati inammissibili il secondo e terzo motivo del ricorso per cassazione. 45.Al giudice del rinvio è rimesso altresì di provvedere sulle spese del presente giudizio di cassazione; P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo per quanto di ragione, rigettato il ricorso nel resto. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di L’Aquila in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5 marzo 2024. La Presidente dott.ssa Adriana Doronzo
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. GARRI Fabrizia - Consigliere Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. BUFFA Francesco - Rel. - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 8881-2018 proposto da: I.N.A.I.L. - ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (...), presso lo studio degli avvocati AN.RO., LE.CR., che lo rappresentano e difendono; - ricorrente - contro Sa.Sa., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato NI.PI.; - controricorrente - nonché contro Sp.Al.; - intimato - avverso la sentenza n. 93/2017 della CORTE D'APPELLO di CATANZARO, depositata il 24/03/2017 R.G.N. 1153/23014; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/02/2024 dal Consigliere Dott. FRANCESCO BUFFA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO VISONÀ che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avvocato LE.CR.; udito L'Avvocato NI.PI. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con sentenza 24.3.17 la Corte d'appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del 24.9.14 del tribunale di Cosenza, ha dichiarato prescritta la domanda di regresso promossa dall'Inail in relazione ad infortunio letale occorso al lavoratore Sa.Bi., dipendente della ditta Sp., il cui capocantiere era Sa.Sa. 2. In particolare, la corte territoriale ha ritenuto che il termine triennale per l'esercizio del regresso decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale, ma solo se l'azione penale è iniziata nel triennio dalla costituzione della rendita e che nel caso era stato richiesto il rinvio a giudizio il 2 maggio 2003, mentre la rendita era stata costituita il 6.11.98. 3. Avverso la detta sentenza ricorre l'INAIL per un motivo, cui resiste con controricorso, illustrato da memoria, il Sa.Sa. MOTIVI DELLA DECISIONE 4. Il motivo deduce violazione degli articoli 10, 11 e 112 del testo unico infortuni, per avere la corte territoriale trascurato che l'inizio del procedimento penale era ancorato all'iscrizione della notizia di reato nel 1998 e che il termine decorre dal passaggio in giudicato della sentenza. 5. Il motivo è infondato. 6. L'art. 112 del t.u.i.l.m.p. prevede che l'azione di regresso di cui all'art. 11 si prescrive in ogni caso nel termine di tre anni dal giorno nel quale la sentenza penale è divenuta irrevocabile. 7. Nell'interpretare la norma, le Sezioni Unite di questa Corte, Sentenza n. 5160 del 16/03/2015 (Rv. 634460-01), hanno affermato che il termine triennale previsto dall'art. 112 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, stante il principio di stretta interpretazione delle norme in tema di decadenza, ha natura di prescrizione e, ove non sia stato iniziato alcun procedimento penale, decorre dal momento di liquidazione dell'indennizzo al danneggiato (ovvero, in caso di rendita, dalla data di costituzione della stessa), il quale costituisce il fatto certo e costitutivo del diritto sorto dal rapporto assicurativo, dovendosi ritenere che detta azione, con la quale l'Istituto fa valere in giudizio un proprio credito in rivalsa, sia assimilabile a quella di risarcimento danni promossa dall'infortunato, atteso che il diritto viene esercitato nei limiti del complessivo danno civilistico ed è funzionale a sanzionare il datore di lavoro, consentendo, al contempo, di recuperare quanto corrisposto al danneggiato. 8. Sez. L, Sentenza n. 20853 del 15/10/2015 (Rv. 637421-01) ha ulteriormente precisato che, nel caso in cui il procedimento penale sia iniziato entro tre anni dal pagamento dell'indennizzo o dalla costituzione della rendita, l'azione di regresso dell'INAIL nei confronti del datore di lavoro può essere esercitata nel termine triennale di prescrizione previsto dall'art. 112 del D.P.R. n. 1124 del 1965, decorrente dal giorno in cui la sentenza penale di condanna è divenuta irrevocabile. 9. Nel sistema delineato dai su richiamati arresti, dunque, l'azione di regresso può essere esperita nel termine triennale dal giudicato penale solo nel caso in cui il processo penale sia attivato nel triennio dalla data di costituzione della rendita, in quanto solo in tal caso il termine può poi decorrere dalla fine del processo penale. 10. Va qui aggiunto che il processo penale cui la norma fa riferimento è quello introdotto nei confronti della persona verso la quale l'Inail intende esercitare il regresso, non essendo rilevante un processo penale purchessia in relazione ai fatti dell'infortunio. Dunque, l'attivazione del processo penale nei confronti del datore di lavoro non preclude il decorso del termine in discorso nei confronti di altri soggetti legittimati passivi all'azione di regresso, in relazione ai quali occorrerà far riferimento ai tempi del relativo eventuale processo penale. 11. Nel caso, ove la liquidazione delle prestazioni è avvenuta nel 1998 ed il procedimento penale contro il datore di lavoro Sp. r.g. n. 4166/1998 era iniziato con rinvio a giudizio del 2003, il procedimento penale contro Sa.Sa., iscritto al n. r.g. 463/2006, lo aveva visto rinviato a giudizio solo con atto del GUP Cosenza del 13.2.2007, quando ormai il termine triennale dalla liquidazione delle prestazioni previdenziali all'infortunato era ampiamente decorso (mentre il Sa.Sa. era stato successivamente prosciolto). 12. Può dunque affermarsi che, in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, il termine triennale previsto dall'art. 112 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, per l'esercizio della speciale azione di regresso dell'INAIL, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, decorre in relazione al processo penale instaurato nei confronti della specifica persona verso la quale l'Inail intende esercitare il regresso, non essendo rilevante un processo penale purchessia in relazione ai fatti dell'infortunio; ne consegue che, l'attivazione del processo penale nei confronti del datore di lavoro non preclude il decorso del termine in discorso nei confronti di altri soggetti legittimati passivi all'azione di regresso, in relazione ai quali occorrerà far riferimento ai tempi del relativo eventuale processo penale. 13. Spese secondo soccombenza. 14. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in Euro 6.000 per compensi professionali ed Euro 200 per esborsi, oltre a spese generali al 15% ed accessori come per legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n.115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso oggi in Roma, nella camera di consiglio del 14 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2024.
1 AULA 'B' 2024 705 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. UMBERTO BERRINO - Presidente - Dott. FABRIZIA GARRI - Consigliere - Dott. ROSSANA MANCINO - Consigliere - Dott. GABRIELLA MARCHESE - Consigliere - Dott. FRANCESCO BUFFA - Rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 29780-2017 proposto da: I.N.A.I.L. - ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144, presso lo studio degli avvocati ANDREA ROSSI, LETIZIA CRIPPA, che lo rappresentano e difendono; - ricorrente - contro G.S.A. GESTIONE SUPERMERCATI ALIMENTARI S.R.L., FIORINDO SANTE, DE BERARDINIS NINO; - intimati - avverso la sentenza n. 669/2017 della CORTE D'APPELLO di L'AQUILA, depositata il 29/06/2017 R.G.N. 523/2016; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del Oggetto R.G.N. 29780/2017 Cron. Rep. Ud. 14/02/2024 PU 2 14/02/2024 dal Consigliere Dott. FRANCESCO BUFFA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA' STEFANO che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avvocato LETIZIA CRIPPA. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1.Con sentenza del 29.6.17 la corte d’appello di L’Aquila, in parziale riforma di sentenza del tribunale della stessa sede, ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva di GSA Srl e dichiarato la responsabilità civile di De Berardinis e Fiorindo per infortunio sul lavoro occorso a lavoratore Dechellis il 2.3.01 e condannato i predetti in solido a pagare all’Inail 751.262 euro, oltre interessi. 2.In particolare, la corte ha ritenuto tempestiva l’azione di regresso proposta con ricorso 6.9.12 entro il termine triennale del passaggio in giudicato della sentenza penale di proscioglimento per prescrizione; ha ritenuto il difetto di legittimazione della società che aveva concesso in uso macchinario non a norma perché la speciale azione di regresso è esperibile solo verso soggetti preposti ad attività lavorative e non per qualunque responsabilità civile; ha affermato la responsabilità del Fiorindo per inadempimento agli obblighi prevenzionali quale RSPP. 3.Avverso tale sentenza ricorre l’INAIL per un motivo, illustrato da memoria; le controparti sono rimaste intimate. MOTIVI DELLA DECISIONE 4.Con l’unico motivo si deduce violazione dell’articolo 10 e 11 del testo unico infortuni sul lavoro e 6 decreto 3 legislativo 626 del 1994, per avere la corte territoriale ritenuto il difetto di legittimazione passiva della GSA nonostante fosse soggetto gravato di specifici obblighi prevenzionali ed avesse concesso in uso macchina insicura priva del certificato di idoneità e difforme dalla normativa di sicurezza. 5.Il motivo è fondato. 6.Questa Corte ha già precisato (Sez. L, Sentenza n. 36051 del 2023 e 4482 del 2012) che l'azione di regresso non riguarda solo il rapporto assicurativo, ma anche l'obbligo di sicurezza, per cui l'Istituto può esercitare tale azione anche nei confronti di soggetti che non rivestono la qualità di datore di lavoro (laddove, in teoria, sarebbe esercitabile l'azione di surroga), proprio perché su questi soggetti incombe l'obbligo di tutelare l'incolumità dei lavoratori che inseriscono nella propria organizzazione produttiva. Nel medesimo senso, Cass. 28 marzo 2008, n. 8136, ha affermato il principio richiamato, evidenziando che la responsabilità si estende ai detti soggetti diversi dal datore di lavoro "a prescindere dal titolo contrattuale e dalla tipologia lavorativa che li lega" allo stesso. Si è altresì detto (Sez. L, Sentenza n. 10967 del 27/05/2015) che l'azione esercitata dall'I.N.A.I.L. nei confronti delle «persone civilmente responsabili», per la rivalsa delle prestazioni erogate all'infortunato, configura una azione esperibile non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche verso i soggetti responsabili o corresponsabili dell'infortunio a causa della condotta da essi tenuta in attuazione dei loro compiti di preposizione o di meri addetti all'attività lavorativa, giacché essi, pur essendo estranei al rapporto assicurativo, rappresentano 4 organi o strumenti mediante i quali il datore di lavoro ha violato l'obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro, senza che a ciò sia di ostacolo la possibile affermazione della loro responsabilità solidale, atteso che l'art. 2055 cod. civ. consente la diversità dei rispettivi titoli di responsabilità (cfr. in tali sensi Cass. 18 agosto 2004 n. 16141 cui adde, ex plurimis, Cass. 7 marzo 2008 n. 6212). 7.La sentenza impugnata, che non si è attenuta al principio su esteso, va cassata e la causa va rimessa alla medesima corte d’appello in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla medesima Corte d'appello, in diversa composizione. Così deciso oggi in Roma, nella camera di consiglio del 14 febbraio 2024. Il Presidente Umberto Berrino Il Consigliere estensore Francesco Buffa
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. GARRI Umberto - Consigliere Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. GNANI Alessandro - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 25108-2019 proposto da: Gr.En., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato Ma.Bi.; - ricorrente - contro I.N.A.I.L. - ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, (...), presso lo studio degli avvocati Em.Fa., Lu.Ro., che lo rappresentano e difendono; - controricorrente - avverso la sentenza n. 136/2019 della CORTE Dat, D'APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il 20/06/2019 R.G.N. 326/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/02/2024 dal Consigliere Dott. ALESSANDRO GNANI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO VISONA', che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'Avvocato Em.Fa.. FATTI DI CAUSA La Corte d'appello di Campobasso confermava la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda di rendita proposta dall'odierna ricorrente nei confronti dell'Inail. Riteneva la Corte, sulla scorta della consulenza tecnica d'ufficio, che la malattia di cui ella soffriva - ernia discale - non avesse origine professionale. Avverso la sentenza ricorre la lavoratrice per un motivo illustrato da memoria. L'Inail resiste con controricorso. L'ufficio della Procura Generale ha concluso in udienza per il rigetto del ricorso. In sede di camera di consiglio il collegio riservava termine di 90 giorni per il deposito del presente provvedimento. CONSIDERATO IN DIRITTO Con l'unico motivo di ricorso, si deduce nullità della sentenza per motivazione apparente, ai sensi dell'art.360, co.1 nn.4 e 5 c.p.c., in quanto la Corte si sarebbe limitata a prestare adesione alla consulenza d'ufficio senza alcuna reale motivazione, e senza considerare le critiche mosse alla stessa dal proprio consulente di parte. Va innanzitutto respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza dell'esposizione dei fatti di causa; questi vengono riferiti in modo sufficiente chiaro, nonostante il richiamo a vari atti dei gradi di merito. Nel merito il ricorso è infondato. La sentenza non è nulla per motivazione apparente, avendo dato conto la Corte della ratio decidendi su cui s'impernia il rigetto della domanda, ovvero l'origine non professionale della malattia contratta, come accertato dal consulente d'ufficio, con elaborato ritenuto pienamente condivisibile. Esclusa la nullità della sentenza ai sensi dell'art.360, co.1, n.4 c.p.c., nemmeno è fondato il richiamo al n.5 della stessa norma. L'orientamento di questa Corte è nel senso che il giudice di merito può aderire alle conclusioni del consulente tecnico, e la parte non può limitarsi a far valere l'omessa considerazione della consulenza di parte, la quale costituisce allegazione difensiva (Cass.26305/18). La censura di cui all'art.360, co.1, n.5 c.p.c. presuppone l'omesso esame di un fatto storico decisivo, che deve essere semmai riportato nella consulenza di parte (Cass.18886/23). Nel caso di specie, il ricorso non deduce alcun fatto storico decisivo e omesso dalla sentenza. L'argomento su cui poggia il motivo d'impugnazione è che non sarebbero state considerate le reali mansioni della ricorrente, la quale era per la maggior parte del tempo impiegata nella movimentazione della merce, e non nella vendita al dettaglio dei prodotti esposti nell'esercizio commerciale. Emerge però dagli atti e dal ricorso stesso, che il fatto non fu omesso, bensì tenuto in considerazione dal consulente tecnico d'ufficio, e quindi dalla sentenza: il consulente ha infatti escluso che la movimentazione di merce fosse attività prevalente. Va aggiunto che in caso di adesione del giudice alla consulenza tecnica d'ufficio, il ricorso ex art.360 c.p.c. non può limitarsi a denunciare un dissenso sulla diagnosi formulata dal consulente, ma deve argomentare una palese devianza dell'elaborato dalle nozioni correnti della scienza medica, oppure un'omissione degli accertamenti strumentali (Cass.34395/23, Cass.1652/12). Nulla di tutto ciò contiene il ricorso, che si limita a contestare la consulenza tecnica in quanto non avrebbe tenuto conto delle reali mansioni svolte dalla ricorrente. Nella sostanza, si giunge a criticare un accertamento di fatto delle mansioni svolte, al di fuori dei limiti dell'art.360, co.1, n.5 c.p.c. In conclusione, il ricorso va respinto con condanna alle spese secondo soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente a rifondere le spese liquidate per il presente giudizio di cassazione in Euro 2500 per compensi, Euro 200 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge; dà atto che, atteso il rigetto del ricorso, sussiste il presupposto processuale di applicabilità dell'art.13, co.1 quater, D.P.R. n.115/02, con conseguente obbligo in capo a parte ricorrente, di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso. Ai sensi dell'art.52 D.Lgs. n.196/03, in caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi della ricorrente in cassazione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 14 Febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2024
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. GARRI Fabrizia - Consigliere Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. GNANI Alessandro - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 6630-2019 proposto da: Se.Va., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati Mi.To., Li.Ca. - ricorrente - contro I.N.A.I.L. - ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (...), presso lo studio degli avvocati Em.Fa., Lu.Ro., che lo rappresentano e difendono; - controricorrente - avverso la sentenza n. 135/2018 della CORTE D'APPELLO DI CAGLIARI SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI, depositata il 03/01/2019 R.G.N. 292/2017; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/02/2024 dal Consigliere Dott. ALESSANDRO GNANI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vi.St., che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'Avvocato Em.Fa. FATTI DI CAUSA La Corte d'appello di Sassari confermava la pronuncia di primo grado che aveva respinto la domanda dell'odierno ricorrente volta al riconoscimento della malattia professionale definita quale "patologia tendinosica e tenosinovitica dei tendini di entrambe le spalle, con aspetti lesionali a livello del sovraspinato, del sottoscapolare e del capo lungo del bicipite brachiale di destra" e alla condanna dell'Inail al pagamento di rendita o indennizzo. Riteneva la Corte che i certificati medici non potevano costituire sufficiente prova, contenendo diagnosi basate sulle dichiarazioni del ricorrente. Inoltre, non era dimostrato che l'attività lavorativa fosse stata prestata con le caratteristiche previste dalla voce n. 78 del D.M. 9.4.2008, ovvero lavori svolti non occasionalmente che comportano a carico della spalla movimenti ripetuti, mantenimento prolungato di posture incongrue. La certificazione camerale attestava l'attività svolta - installazione di impianti idraulici - ma non gli attrezzi e i materiali utilizzati, i tempi di lavoro, i movimenti e le posture assunte. Avverso la sentenza ricorre la parte privata per tre motivi, illustrati da memoria. L'Inail resiste con controricorso. L'ufficio della Procura Generale ha concluso in udienza per il rigetto del ricorso. In sede di camera di consiglio il collegio riservava termine di 90 giorni per il deposito del presente provvedimento. CONSIDERATO IN DIRITTO Con il primo motivo di ricorso, si deduce omesso esame di fatti decisivi. La Corte non avrebbe considerato che la visura camerale aveva valore di certificazione legale; non avrebbe poi considerato un certificato Inps attestante le attività professionali svolte dal ricorrente. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce violazione degli artt. 2697, 2700, 2729 c.c. e del D.M. 9.4.2008. La Corte non avrebbe considerato che le certificazioni mediche prodotte avevano la valenza probatoria qualificata degli atti pubblici e dimostravano l'insorgenza della malattia tabellata. Inoltre, la prova dell'attività lavorativa svolta secondo le modalità di cui alla voce 78 del D.M. 9.4.2008 non abbisognava di elementi istruttori ulteriori rispetto a quelli prodotti in causa. Con il terzo motivo di ricorso, si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 46 D.Lgs. n. 626/94. Argomenta che l'attività di installazione di impianti idrici per sua natura determina una sovraesposizione della regione dorso-lombare. Il primo motivo di ricorso è inammissibile. Va premesso che le certificazioni rilasciate da enti pubblici - Inps e Camera di Commercio - hanno valore di prova legale limitatamente ai fatti compiuti dal funzionario e ai fatti che egli attesta essere avvenuti in sua presenza (art. 2700 c.c.). Le certificazioni non hanno invece valore di prova legale per quanto attiene alla veridicità delle valutazioni mediche compiute (Cass. 8536/23 secondo cui, per quanto riguarda la diagnosi, i certificati costituiscono elementi di convincimento liberamente apprezzabili dal giudice del merito) o dei fatti che la parte dichiari al pubblico ufficiale (v. Cass. 13291/99 rispetto ai dati formali riportati nelle visure camerali che provengano dall'iniziativa dell'interessato). Correttamente, quindi, la Corte ha effettuato una valutazione dei documenti prodotti applicando il principio del libero apprezzamento della prova, secondo il dettato dell'art.116 c.p.c. . Tanto premesso, laddove il motivo deduce l'omesso esame di un documento proveniente dall'Inps, esso si presenta inammissibile per mancata allegazione dei requisiti di cui all'art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c. In particolare, il motivo non specifica la ragione per cui tale documento dell'Inps abbia il carattere della decisività, nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un diverso esito della controversia, siccome idoneo a superare le valutazioni in fatto compiute dalla Corte. Il secondo e terzo motivo possono essere trattati congiuntamente data la loro intima connessione, e sono infondati. Secondo l'orientamento di questa Corte, (Cass. 1906/88), ai fini del riconoscimento del diritto alla rendita da malattia professionale, il lavoratore è tenuto a dimostrare l'esistenza di una sua infermità compresa nell'elenco della tabella e l'avvenuto esercizio da parte sua della correlativa lavorazione morbigena. La sentenza impugnata si è attenuta a tali principi, laddove ha richiesto la prova di un'attività lavorativa svolta secondo le modalità dalla voce n. 78 del D.M. 9.4.2008, ovvero non occasionalmente e che comporti a carico della spalla movimenti ripetuti, mantenimento prolungato di posture incongrue. Dai documenti prodotti non emergevano i tempi di lavoro svolti dal ricorrente, i movimenti e le posture assunte, ovvero gli elementi necessari a verificare se il ricorrente fosse stato addetto alla lavorazione nociva con le modalità indicate dalla tabella. I motivi di ricorso tendono a criticare tale accertamento, e sostengono la tesi per cui già la sola professione di installatore di impianti idraulici basterebbe a fondare una sovraesposizione delle spalle. L'argomentazione va disattesa. La voce n. 78 D.M. 9.4.2008 richiede che la lavorazione implichi, in modo non occasionale, movimenti ripetuti della spalla, mantenimento prolungato di posture incongrue. La semplice deduzione di un'attività consistente nell'installazione di impianti idraulici ed elettrici, non accompagnata dalla allegazione e prova di quali movimenti tale attività richiede alla spalla e di quali posture - necessariamente incongrue i fini della tabella - implica, risulta insufficiente ad assolvere all'onere probatorio richiesto in punto di attività nociva. Né i motivi argomentano alcunché di specifico sulla sussistenza dei presupposti di cui all'art.2729 c.c. necessari a sorreggere una prova fondata sulle presunzioni. Per il resto, può solo aggiungersi che la valutazione del quadro probatorio compiuta dalla Corte - ovvero l'insufficienza a dimostrare la nocività dell'attività - non può essere contestata se non nei limiti dell'art.360, co. 1, n. 5 c.p.c. Laddove i motivi censurano la conclusione cui è giunta la sentenza e ritengono invece che i documenti prodotti fossero sufficienti a fornire la prova della attività nociva, non fanno altro che censurare la valutazione probatoria compiuta dalla Corte secondo il principio del libero apprezzamento di cui all'art. 116 c.p.c. Ma tale asserita erronea valutazione è censurabile nei soli limiti dell'art.360, co. 1, n. 5 c.p.c. (Cass. S.U. 20867/20, Cass.6774/22), su cui nulla argomentano i motivi. Conclusivamente, il ricorso va respinto con condanna alle spese secondo soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente a rifondere le spese liquidate per il presente giudizio di cassazione in Euro 2.500,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge; dà atto che, atteso il rigetto del ricorso, sussiste il presupposto processuale di applicabilità dell'art. 13, co.1 quater, D.P.R. n. 115/02, con conseguente obbligo in capo a parte ricorrente, di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso. Ai sensi dell'art. 52 D.Lgs. n. 196/03, in caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità del ricorrente in cassazione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 14 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. CAVALLARO Luigi - Consigliere Dott. BUFFA Francesco - Consigliere Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 20912-2021 proposto da: Ta.Ni., elettivamente domiciliato in ROMA, (...), presso lo studio dell'avvocato AN.TA., che lo rappresenta e difende; - ricorrente - contro MINISTERO DELLA DIFESA, MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI n. 12; - controricorrenti - avverso la sentenza n. 27-2021 della CORTE D'APPELLO DI TRENTO SEZ. DIST. DI BOLZANO, depositata il 28-05-2021 R.G.N. 8-2019; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17-01-2024 dal Consigliere Dott. FRANCESCO BUFFA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO VISONA' che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avvocato AN.TA.; udito l'Avvocato EM.FE. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con sentenza del 28.5.21 la corte d'appello di Bolzano ha confermato la sentenza del tribunale della stessa sede del 28.3.19, che aveva negato al lavoratore in epigrafe il riconoscimento dei benefici delle vittime del dovere, richiesto ex articolo 1 comma 563 e 564 della legge n. 266 del 2005, nonché delle provvidenze assistenziali ex lege 206 del 2004, sebbene lo stesso - quale conduttore di automezzi e meccanico in missioni internazionali in Macedonia, Kosovo e Libano - era stato esposto ad esalazioni e residui tossici derivanti da esplosioni delle munizioni, tra le quali quelle con uranio impoverito per i bersagli corazzati, e costretto ad alimentarsi con acqua e viveri anche contaminati, che gli avevano causato neoplasia mesorenale sinistra e nefrectomia sinistra per oncocitoma, nonché carcinoma con cellule chiare al rene destro. 2. In particolare, la corte territoriale - limitato l'esame alla patologia al rene sinistro (la sola per la quale si era svolto il procedimento amministrativo, essendo stata prodotta solo in appello la diagnosi relativamente alla patologia al rene destro) ha escluso sulla base della c.t.u. la ricorrenza di nesso causale tra le condizioni operative e le infermità. 3. Avverso tale sentenza ricorre l'assistito per due motivi, cui resiste con controricorso il ministero della Difesa. MOTIVI DELLA DECISIONE 4. Il primo motivo deduce violazione dell'articolo 132 comma 1 e 4 e 118 attuazione c.p.c., per motivazione insufficiente e contraddittoria. 5. Il motivo, proposto ex art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., è inammissibile allorché non richiama il n. 4 dell'art. 360 c.p.c. e sostiene che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limita ad argomentare sulla violazione di legge (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24-07-2013, Rv. 627268 - 01). Del resto, deve escludersi la nullità della sentenza atteso che la corte territoriale ha chiaramente indicato i motivi posti alla base della sua decisione. 6. Il secondo motivo deduce violazione degli articoli 2697 c.c., 1 co. 154 citato, 111 D.P.R. 243-06, 603 e 1907 D.Lgs. 66-10, 1078 D.P.R. 90-10, per avere la corte territoriale trascurato che era stata fornita la prova del rischio tipizzato (data in particolare dalla presenza di nanoparticelle metalliche pesanti nel tessuto ammalato del ricorrente). 7. Il motivo è fondato. 8. Questa Corte di legittimità (fra le tante, Cassazione 8824 del 2023; Cass., sez.un., n. 6214 del 2022; Cass. n. 16569 del 2020, Cass. n. 24592 e 9322 del 2018 e numerosi conformi) ha più volte esaminato la norma in applicazione, precisandone i criteri applicativi; in particolare, ad effettuare una puntuale esegesi della disposizione contenuta nell'art. 1, comma 564, cit. è stata la sentenza delle sezioni unite n. 759 del 2017; le sezioni unite hanno affermato, per quanto qui di maggiore interesse, con specifico riferimento alle "particolari condizioni ambientali od operative", che la condizione ambientale ed operativa "particolare" è quella che si colloca al di fuori del modo di svolgimento dell'attività "generale" (id est: "normale", cioè corrispondente a come l'attività era previsto si svolgesse); più di recente, la Corte, confrontandosi nuovamente con la disposizione in oggetto (Cass. nr. 29819 del 2022) ha ribadito che le "particolari condizioni ambientali o operative" implicano l'esistenza, od anche il sopravvenire, di circostanze straordinarie e fatti di servizio che hanno esposto il dipendente a maggiori rischi o fatiche, in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto, precisando che è necessario identificare, caso per caso, l'elemento che comporti l'esistenza od il sopravvenire di un fattore di rischio maggiore rispetto alla normalità di quel particolare compito. 9. L'attribuzione della tutela per le vittime del dovere è, dunque, il risultato della valutazione operata dal giudice di merito di questo quid pluris rispetto alle condizioni ordinarie di lavoro. 10. Ciò posto, vanno considerate da un lato le conclusioni della relazione finale n - XXII-bis n. 7 della IV Commissione parlamentare di indagine sull'uranio impoverito, richiamate dalla stessa sentenza impugnata, oltre alle osservazioni alla base del parere medico legale richiamate dal ricorrente ed a quelle descrittive delle condizioni lavorative concrete, non contestate dal ministero. 11. Dall'altro lato, va considerato il rischio tipizzato dal legislatore con i D.P.R. 37-09, 90-10 e 40-12, in relazione alla presenza di nanoparticelle di metalli pesanti causate da esplosioni belliche, rinvenute pacificamente nelle cellule del ricorrente. 12. In tale contesto, in presenza di elementi statistici rilevanti (come accade ove, come nella specie, il militare abbia prestato servizio in ambienti bellici) e, per altro verso, di rischio tipizzato, la dipendenza da causa di servizio deve considerarsi accertata, salvo che la p.a. non riesca a dimostrare la sussistenza di fattori esogeni, dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l'insorgere dell'infermità. 13. Questa Corte ha del resto già affermato (tra le tante, Sez. L - , Ordinanza n. 13024 del 24-05-2017, Rv. 644514 - 01) in tema di assicurazione contro le malattie professionali, che, quando la malattia è inclusa nella tabella, al lavoratore è sufficiente dimostrare di esserne affetto e di essere stato addetto alla lavorazione nociva, affinché il nesso eziologico sia presunto per legge ove la malattia stessa si sia manifestata entro il periodo anch'esso indicato in tabella. Ne consegue che l'INAIL può fornire la prova contraria, dimostrando l'intervento causale di fattori patogeni extralavorativi, dotati di efficacia esclusiva, idonei a superare la predetta presunzione legale di eziologia professionale. 14. Il Collegio ritiene che analogo principio debba essere applicato nella fattispecie per cui è causa, ove, in presenza di rischio tipizzato e di correlazione quanto meno concausale tra l'esposizione all'uranio impoverito e la patologia (pur benigna) sofferta dal ricorrente (cfr. Sez. U, Sentenza n. 23300 del 2016; Sez. L. n. 8824-2023), era onere dell'amministrazione preposta dimostrare l'intervento causale di fattori patogeni extralavorativi, dotati di efficacia esclusiva, idonei a superare la predetta presunzione legale di eziologia professionale nell'ambito delle peculiari condizioni lavorative che davano luogo alla specifica tutela richiesta. 15. La sentenza impugnata, che non si è attenuta al principio su esteso, va cassata e la causa va rimessa alla medesima corte d'appello in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo; cassa l'impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla medesima Corte d'appello, in diversa composizione. Così deciso oggi in Roma, nella camera di consiglio del 17 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria l'8 maggio 2024
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4627 del 2019, proposto dalla Società Po. di Ve. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Lu. Bu., Fe. Pe. e Al. Ki., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia, contro -- Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Ministero dello sviluppo economico, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Ministero della salute, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ispra - Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, Enea - Agenzia nazionale nuove tecnologie energia e sviluppo economico sostenibile, Istituto Superiore di Sanità, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); -- Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare - Direzione generale per la salvaguardia del territorio, Ufficio di Gabinetto del Ministero dello sviluppo economico, Ufficio di Gabinetto del Ministero della salute, Regione Veneto, Presidenza della Regione Veneto, Regione Veneto - Dipartimento Coordinamento Operativo Recupero Ambientale - Territoriale - Sezione Progetto Venezia, Regione Veneto - Direzione Valutazione Progetti Investimenti, Città Metropolitana di Venezia, Sindaco Metropolitano di Venezia, Città Metropolitana di Venezia - Servizio Difesa del Suolo e Tutela del Territorio - Ufficio Bonifiche, Comune di Venezia, Comune di Venezia - Direzione Ambiente e Politiche Giovanili, A.r.p.a. Veneto, Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale, Provveditorato interregionale per le opere pubbliche per il Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, Inail - Istituto nazionale assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, Ulss 3 Serenissima, Ulss 3 Serenissima - Dipartimento di Prevenzione, non costituiti in giudizio; nei confronti di Im. Ti. S.r.l. ed altri, non costituiti in giudizio, sul ricorso numero di registro generale 5011 del 2019, proposto dalla Società Im. Ti. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ga. Gu. e Ga. Pa., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Ga. Pa. in Roma, via (...), contro il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministero dello sviluppo economico e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare - Direzione Generale per la tutela del territorio e delle risorse idriche, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare - Direzione per la qualità della vita, il Ministero dello sviluppo economico - Ufficio di Gabinetto, Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Ufficio di Gabinetto, non costituiti in giudizio; nei confronti Po. di Ve. S.p.a., Città Metropolitana di Venezia, Inail - Istituto nazionale assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, Ministero della salute - Ufficio di Gabinetto, Regione Veneto, Comune di Venezia, Ispesl - Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro, Istituto superiore di sanità, Agenzia regionale per la protezione ambientale Veneto, Arpav Veneto - Dipartimento provinciale di Venezia, Regione Veneto - Direzione valutazione progetti investimenti, Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico Settentrionale di Venezia, Apv Investimenti S.p.A. (già Autorità Portuale Holding), Provveditorato interregionale alle OO.PP. Veneto Taa e Fvg, Azienda Ulss 3 Serenissima, Confindustria (già Unindustria) di Venezia, Consorzio per la bonifica e riconversione produttiva - Fu. ed altri, non costituiti in giudizio; il Ministero della salute, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ispra - Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, Enea - Agenzia nazionale nuove tecnologie energia e sviluppo economico sostenibile, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma, in relazione ad entrambi i ricorsi n. 4627 del 2019 e n. 5011 del 2019, della sentenza del T.a.r. per il Veneto, Sezione Terza, n. 1125 del 6 dicembre 2018, resa tra le parti, concernente l'ordine di presentazione di un piano di caratterizzazione del sito di interesse nazionale Venezia-Porto Ma. area (omissis). Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, del Ministero dello sviluppo economico, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero della salute, del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di Ispra - Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, di Enea - Agenzia nazionale nuove tecnologie energia e sviluppo economico sostenibile, dell'Istituto superiore di sanità ; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, c.p.a.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 7 febbraio 2024 il consigliere Giovanni Sabbato e viste note di trattazione scritta da parte degli avvocati Fe. Pi., Al. Ki. e dell'avvocato dello Stato Da. Gi. nel ricorso n. 4627/2019 e delle note di trattazione scritta da parte degli avvocati Ga. Gu., Ga. Pa. e dell'avvocato dello Stato Da. Gi. nel ricorso n. 5011/2019; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. E' necessario ripercorrere, preliminarmente, i passaggi essenziali della complessa vicenda di causa. 1.1. La Conferenza dei Servizi del 29.11.2010 impartì a Po. di Ve. S.p.a. (di seguito anche la Società ) l'ordine di eseguire la caratterizzazione, la messa in sicurezza dei suoli e della falda mediante confinamento fisico nonché di presentare un progetto di bonifica per entrambe le matrici. Queste prescrizioni vennero impugnate innanzi al T.a.r. per il Veneto con il ricorso R.G. n. 567/2011. 1.2. Successivamente, in data 11.10.2016, il Ministero dell'Ambiente notificò alla Società un nuovo provvedimento con cui ribadiva le richieste della Conferenza di Servizi del 2010 e richiamava un Accordo di Programma. Anche questo provvedimento venne impugnato innanzi al T.a.r. per il Veneto con ricorso R.G. n. 1554/2016. 1.3. Furono poi presentati motivi aggiunti nel ricorso R.G. n. 1554/2016 avverso una nota ministeriale del 2017, con la quale, riconoscendogli la qualifica di mero proprietario non responsabile, si chiedeva all'appellante di adottare le sole misure di prevenzione consistenti - lo specificava la nota - in un'analisi di rischio esclusivamente sanitario c.d. "in modalità diretta". 1.4. Nei ricorsi suddetti la ricorrente precisava, in sintesi, che: (i) la normativa, come interpretata dalla giurisprudenza consolidata, escludeva obblighi a carico del proprietario non responsabile, fatta eccezione per le misure di prevenzione; (ii) il tema del risarcimento del danno all'ambiente si chiuse con la transazione MONTEDISON, individuato dagli enti come responsabile; (iii) infine le misure di prevenzione (che effettivamente gravano anche sul proprietario non responsabile) non potevano essere richieste in caso di contaminazione storica (ciò nondimeno la società le realizzava). 2. In vista dell'udienza di discussione l'Avvocatura dello Stato depositava due memorie dando atto del superamento di tutte le vecchie prescrizioni, fatta eccezione per quella che chiedeva la presentazione di un piano di caratterizzazione. 3. Il T.a.r. adì to, con la sentenza n. 1125, pubblicata il 6 dicembre 2018, dopo aver disposto la riunione dei ricorsi NRG 567/2011 e NRG 1554/2016, accoglieva parzialmente quello relativo alla causa NRG 567/2011 mentre dichiarava inammissibili il ricorso introduttivo ed il ricorso per motivi aggiunti nella causa NRG 1554/2016, oltre ad aver dichiarato il difetto di legittimazione passiva di INAIL. Condannava la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 1.000,00 oltre accessori di legge in favore di INAIL, mentre compensava integralmente le restanti spese tra le parti. 4. Avverso tale pronuncia è insorta sia Po. di Ve. S.p.a., con atto di appello notificato in data 29 maggio 2019 e depositato il 31 maggio 2019, articolando quattro motivi (pagine 8-21), sia Im. Ti. S.r.l. formulando un unico complesso motivo (pagine 9-13), deduzioni che saranno di seguito esaminate. 5. In data 12/14 giugno 2019 si sono costituiti in entrambi i giudizi il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero della salute, l'ISPRA - Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, l'ENEA - Agenzia nazionale nuove tecnologie energia e sviluppo economico sostenibile e il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. 6. In prosieguo di entrambi i giudizi parte appellata ha depositato memorie concludendo per la reiezione del gravame n. 4627/2019 e per la declaratoria di inammissibilità di quello n. 5011/2019. Tutte le parti, nelle more della discussione, hanno depositato ulteriori memorie anche in replica. 7. All'udienza del 7 febbraio 2024 entrambe le cause, sulle conclusioni delle parti, sono state trattenute in decisione. 7.1. In via preliminare poichè entrambi i gravami attengono alla medesima controversia e hanno quale bersaglio la stessa sentenza deve disporsi la riunione degli stessi. Va a tal proposito rammentato, in via generale e per completezza espositiva, che nel processo amministrativo, con riferimento al grado di appello, sussiste l'obbligo per il giudice di disporre la riunione degli appelli allorquando questi siano proposti avverso la stessa sentenza (art. 96, comma 1, c.p.a.), mentre in tutte le altre ipotesi la riunione dei ricorsi connessi attiene ad una scelta facoltativa e discrezionale del giudice, come si desume dalla formulazione testuale dell'art. 70 c.p.a., con la conseguenza che i provvedimenti adottati al riguardo hanno carattere meramente ordinatorio, sono privi di valenza decisoria e restano conseguentemente insindacabili in sede di gravame con l'unica eccezione del caso in cui la medesima domanda sia proposta con due distinti ricorsi dinanzi al medesimo giudice (cfr., tra le ultime, Cons. Stato, sez. V, 24 maggio 2018, n. 3109). Deriva da quanto sopra che va disposta la riunione del ricorso in grado di appello n. R.g. 5011 del 2019 al ricorso in grado di appello n. R.g. 4627 del 2019, in quanto quest'ultimo ricorso (in appello) è stato proposto in epoca antecedente rispetto al precedente, perché siano decisi in un unico contesto processuale e ciò sia per evidenti ragioni di economicità e speditezza dei giudizi sia al fine di prevenire la possibilità (eventuale) di un contrasto tra giudicati (cfr., ancora, Cons. Stato, sez. IV, 7 gennaio 2013, n. 22, e 23 luglio 2012, n. 4201). 8. L'appello n. 4627/2019 è infondato. Giova precisare che tale gravame è indirizzato (unicamente) nei riguardi delle statuizioni reiettive recate dall'impugnata sentenza, ed in particolare quelle con le quali il T.a.r. ha ritenuto che può essere chiesta anche al proprietario non responsabile dell'inquinamento la "messa in sicurezza d'emergenza" ed ha considerato irrilevante una transazione precedentemente raggiunta tra il Ministero e la Montedison, ritenuta responsabile dell'inquinamento 8.1. Con il primo motivo, l'appellante censura l'impugnata sentenza, nella parte in cui ha confermato la sussistenza, in capo alla ricorrente, dell'obbligo di eseguire la messa in sicurezza, avendo accertato, in punto di fatto, la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per l'effettuazione di tale operazione. La società deduce, al riguardo, la violazione dell'art. 112 c.p.c. dalla seguente formulazione: "Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti". Evidenzia, infatti, che, poiché le relative prescrizioni dovevano ritenersi superate dalla successiva nota del Ministero del 24.2.2017 prot. 4287/STA, aveva chiesto la declaratoria di improcedibilità del primo ricorso. Ai fini della disamina del motivo è opportuno riportare il seguente testuale passaggio del gravame d'appello: "La richiesta di dichiarare la carenza di interesse alla decisione (non contestata dalla ricorrente) avrebbe dovuto condurre il T.A.R. a non decidere sulle prescrizioni impugnate con il primo ricorso, fatta eccezione per la caratterizzazione (e le misure di prevenzione chieste con la nota del 2017). Come detto, il Giudice di primo grado si è pronunciato sulla caratterizzazione (e sull'analisi di rischio e sulla bonifica) correttamente escludendo obblighi in tal senso a carico del proprietario, ma ha erroneamente ritenuto legittima la richiesta di messa in sicurezza d'emergenza. La decisione del T.A.R. ha violato l'art. 112 c.p.c. non avendo esercitato "il potere giurisdizionale nell'ambito dell'esatta corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato" (Cons. Stato n. 4907/2017), è incorsa nel vizio di ultrapetizione (per avere pronunciato oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni come definite nel contraddittorio processuale) ed ha violato anche il principio dispositivo. Vista la dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse, il T.A.R. avrebbe, dunque, dovuto dichiarare l'improcedibilità del ricorso. 8.1.1. La censura non convince per due ragioni: i. in primo luogo va rilevato che la nota del 2017 ribadisce le precedenti prescrizioni per cui l'interesse sarebbe venuto meno soltanto se la parte avesse impugnato la nuova nota anche in relazione a queste invece che soltanto rispetto alle misure di prevenzione; ii. dagli atti di causa del giudizio di prime cure non si riscontra alcuna esatta richiesta di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse da parte ricorrente. 8.2. Con il secondo motivo, l'appellante lamenta l'erroneità della sentenza gravata nella parte in cui ritiene legittima l'imposizione della messa in sicurezza d'emergenza al proprietario non responsabile. Parte appellante argomenta in tal senso valorizzando talune norme di riferimento (in particolare, l'art. 242 d.lgs. n. 152/2006) e ripercorrendo l'evoluzione della giurisprudenza in materia, anche di questo Consiglio, secondo cui va escluso il coinvolgimento coattivo del proprietario incolpevole del sito inquinato nelle attività di messa in sicurezza di emergenza. Su quest'ultimo può gravare soltanto l'obbligo di effettuare la comunicazione e di realizzare le misure di prevenzione 8.2.1. Anche tale motivo risulta infondato. Occorre dare atto sul punto dell'ormai consolidato orientamento di questo Consiglio, sfavorevole alla tesi di parte appellante, che è compendiato nel passaggio testuale di una recente pronuncia e che di seguito si riporta: "A tal riguardo, il Collegio ricorda che l'impossibilità di imporre le opere di bonifica al proprietario di un terreno inquinato non responsabile del relativo inquinamento è stata affermata a partire dalla nota sentenza Corte di giustizia UE, sez. III, 4 marzo 2015 C 534-13 (su ordinanza di rinvio pregiudiziale dell'Adunanza plenaria 13 novembre 2013 n. 25). La sentenza della Corte di giustizia, in particolare, ha chiarito che "La direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell'ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione". La successiva giurisprudenza nazionale, nel tentativo di ulteriormente sviluppare l'assunto della Corte di giustizia, è giunta ad affermare l'impossibilità di imporre le misure di bonifica al proprietario non responsabile della contaminazione, traendo principale argomento dalla natura sanzionatoria di questa misura. In tale ottica ricostruttiva, si è tuttavia osservato che ana ragionamento non può valere anche con riferimento alle misure di messa in sicurezza di emergenza, le quali, così come le misure di prevenzione, non hanno analoga natura sanzionatoria, ma preventiva e cautelare, trovando fondamento nel principio di precauzione e nel correlato principio dell'azione preventiva, e, in quanto tali, possono gravare sul proprietario (o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente) solo perché egli è tale senza necessità di accertarne il dolo o la colpa (in questi termini, la costante giurisprudenza, per tutte Cons. Stato, sez. IV, 26 febbraio 2021, n. 1658; sez. VI, 3 gennaio 2019, n. 81; sez. V, 8 marzo 2017, n. 1089; 14 aprile 2016, n. 1509. In base a tale consolidato orientamento, il proprietario del terreno sul quale sono depositate sostanze inquinanti, che non sia responsabile dell'inquinamento (c.d. proprietario incolpevole) e che non sia stato negligente nell'attivarsi con le segnalazioni e le denunce imposte dalla legge, è, pertanto, tenuto solo ad adottare le misure di prevenzione, mentre gli interventi di riparazione, messa in sicurezza definitiva, bonifica e ripristino gravano sul responsabile della contaminazione, ossia su colui al quale - per una sua condotta commissiva od omissiva - sia imputabile l'inquinamento; la P.A. competente, qualora il responsabile non sia individuabile o non provveda agli adempimenti dovuti, può adottare d'ufficio gli accorgimenti necessari e, se del caso, recuperare le spese sostenute attraverso un'azione di rivalsa verso il proprietario, il quale risponde nei soli limiti del valore di mercato del sito dopo l'esecuzione degli interventi medesimi (cfr., tra le altre, Consiglio di Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 502, e id., Sez. V, 10 ottobre 2018, n. 5604). Ne discende che il proprietario non responsabile dell'inquinamento - nell'accezione prima chiarita - è tenuto, ai sensi dell'art. 245, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006 ad adottare le misure di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 152 del 2006 (ovvero "le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia") e le misure di messa in sicurezza d'emergenza, non anche la messa in sicurezza definitiva né gli interventi di bonifica e di ripristino ambientale" (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 2 febbraio 2024, n. 1110). Tale pronunciamento affonda le sue radici in un orientamento giurisprudenziale già precedentemente consolidatosi e dal quale quindi non vi è ragione di decampare in questa sede, secondo cui "il proprietario 'non responsabilè dell'inquinamento è tenuto, ai sensi dell'art. 245, comma 2, d.lgs. n. 152/2006, ad adottare le misure di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), (ovvero "le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia") e le misure di messa in sicurezza d'emergenza, non anche la messa in sicurezza definitiva, né gli interventi di bonifica e di ripristino ambientale. Ad ogni modo, nel caso di bonifica spontanea di sito inquinato, il proprietario avrà diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell'inquinamento per le spese sostenute (pur se si tratta del dante causa), a condizione che sia stata rispettata la procedura amministrativa prevista dalla legge ed indipendentemente dall'identificazione del responsabile dell'inquinamento da parte della competente autorità amministrativa, senza che, in presenza di altri responsabili, trovi applicazione il principio della solidarietà " (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 1° giugno 2022, n. 4445). Inoltre, come affermato da costante giurisprudenza, per tutte da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 1547/2023, la responsabilità per la M.I.S.E. si ricollega alla mera qualità di gestore del sito e prescinde da una prova della responsabilità di questi nel causare l'inquinamento, dato che si tratta non di una misura sanzionatoria, ma di una misura di prevenzione dei danni, imposta dal principio di precauzione e dal correlato principio dell'azione preventiva; essa quindi grava sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente solo perché egli è tale, senza necessità di accertarne il dolo o la colpa. Il motivo in esame è quindi infondato. 8.3. Con il terzo mezzo, l'appellante contesta la sussistenza dei presupposti oggettivi per l'attivazione della M.I.S.E., così come definiti dall'art. 240, lett. m) del D.lgs. 152/2006. Più in particolare, si deduce che la M.I.S.E. può essere imposta dalla P.A. solo: i) qualora si verifichino eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura; ii) qualora ricorrano le condizioni di emergenza (ai sensi dell'art. 240, comma 1, lett. t), si hanno condizioni di emergenza in caso di concentrazioni attuali o potenziali dei vapori in spazi confinanti prossime a livelli di esplosività o idonee a causare effetti nocivi alla salute, presenza di quantità significativa di prodotto in fase separata sul suolo o in corsi d'acqua superficiali o nella falda, contaminazione di pozzi ad uso idropotabile o per scopi agricoli, pericolo di incendi od esplosioni). Tali condizioni nel caso di specie non sussisterebbero trattandosi di un fenomeno di inquinamento non recente (invero si tratterebbe di una "compromissione antica"). 8.3.1. Anche tale motivo non coglie nel segno dovendosi così confermare quanto sul punto osservato dal T.a.r. nel senso che si deve "interpretare la locuzione legislativa "eventi di contaminazione repentini" di cui all'art. 240, lett. m) d.lgs. n. 152/2006, non nel senso di eventi di contaminazioni imprevedibili o sopravvenuti, ma nel senso di eventi di contaminazione che richiedono, proprio in ragione della loro gravità e del loro pericolo intrinseco, di essere fronteggiati con immediatezza e con assoluta celerità ". Nel medesimo senso si è infatti espresso questo Consiglio, anche di recente, rilevando quanto segue: "Ebbene, in tali situazioni le misure di prevenzione, al pari della messa in sicurezza d'emergenza, possono essere imposte, ai sensi delle predette norme, anche al proprietario incolpevole (Cons. Stato Sez. IV, 12/07/2022, n. 5864). 8.1. Si tratta, infatti, di disporre (come avvenuto nella fattispecie) interventi tempestivi volti ad impedire e arginare la diffusione delle predette sostanze per gli evidenti impatti negativi ad effetti tendenzialmente irreversibili che le stesse sono in grado di produrre per l'ambiente e, più in particolare, a scapito della salute umana, in matrici di ecosistemi dai quali è poi difficile, in termini operativi, sanitari ed economici, la loro rimozione. 8.2. La giurisprudenza amministrativa, formatasi successivamente alla sentenza Corte di giustizia UE, sez. III, 4 marzo 2015 C 534-13 (su ordinanza di rinvio pregiudiziale dell'Adunanza plenaria 13 novembre 2013 n. 25), ha chiarito che, in materia di inquinamento, l'impossibilità di imporre le misure di bonifica al proprietario non responsabile della contaminazione si giustifica, in sintesi estrema, per la natura sanzionatoria di questa misura. 8.3. Diverso discorso si deve, invece, fare per le misure di prevenzione le quali, al pari della messa in sicurezza di emergenza, non hanno questa natura, ma costituiscono prevenzione dei danni, sono imposte dal principio di precauzione e dal correlato principio dell'azione preventiva, e quindi gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente solo perché egli è tale senza necessità di accertarne il dolo o la colpa (Cons. Stato Sez. IV, 02/05/2022, n. 3426; 12/07/2022, n. 5863). 8.4. Le misure emergenziali possono essere, dunque, disposte a carico del proprietario anche laddove venga ordinata una misura di prevenzione, e non solo di messa in sicurezza di emergenza; e anche soltanto per evitare un incremento repentino e potenzialmente immediato e incontrollabile dell'inquinamento. 8.5. Sotto quest'ultimo profilo, l'accertamento del nesso fra una determinata presunta causa di inquinamento ed i relativi effetti (in termini di incremento anche potenziale) si basa sul criterio del "più probabile che non", ovvero richiede semplicemente che il nesso eziologico ipotizzato dall'autorità competente sia più probabile della sua negazione (Cons. Stato Sez. IV, 02/05/2022, n. 3426). 9. La circostanza, posta in evidenza dall'appellante, secondo cui la contaminazione sarebbe risalente nel tempo non assume, pertanto, alcuna rilevanza. 9.1. In primo luogo, perché l'art. 242, comma 1, del D.Lgs. n. 152 del 2006, nel fare riferimento specifico anche alle "contaminazioni storiche", ha inteso affermare il principio per cui la condotta inquinante, anche se risalente nel tempo e verificatasi in momenti storici passati, non esclude il sorgere di obblighi di bonifica, messa in sicurezza di emergenza o di prevenzione ove il pericolo di aggravamento della situazione sia ancora attuale (Cons. Stato Sez. IV, 14/06/2022, n. 4826). 9.2. In secondo luogo, alla luce di quanto ritenuto dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con l'ordinanza n. 21 del 25 settembre 2013 che ha riconosciuto che "il proprietario non responsabile è gravato di una specifica obbligazione di facere che riguarda, però, soltanto l'adozione delle misure di prevenzione di cui all'art. 242, (che, all'ultimo periodo del comma 1, ne specifica l'applicabilità anche alle contaminazioni storiche [quale quella per cui oggi si controverte NdR] che possono ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione)" (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 2 febbraio 2023, n. 1147). 8.4. Con il quarto motivo, l'appellante contesta la statuizione con la quale è stata ritenuta irrilevante la transazione, intervenuta nel 2001 con Montedison, per un ammontare di 500 miliardi di lire a titolo di risarcimento del danno ambientale arrecato a laguna, canali e aree prospicienti, compresa quella che qui interessa. L'appellante a tal proposito deduce che: l'area (omissis) (all'epoca ancora di proprietà dello Stato) era ricompresa tra quelle oggetto di transazione che il Ministero doveva risanare con la somma incassata da Montedison; l'oggetto della transazione non era il risarcimento del danno da reato, ma il risarcimento del danno ambientale ex art. 18 l. n. 349/1986; il Ministero, transando con il soggetto identificato come responsabile dell'inquinamento, decise di farsi carico degli interventi necessari per il completo risanamento di tutte le aree considerate dalla transazione stessa, ponendone l'onere economico sul trasgressore e definendo con lui il quantum in via transattiva; in ogni caso, non rileva la circostanza che le risorse finanziarie della transazione sarebbero state destinate alla bonifica (in senso stretto) dell'area, non alle diverse misure di prevenzione e di messa in sicurezza d'emergenza che resterebbero invece a carico del proprietario. 8.4.1. Anche tale motivo è privo di fondamento. Deve infatti rilevarsi l'infondatezza di quanto dedotto a proposito della statuizione con la quale il T.a.r. ha ritenuto irrilevante la transazione raggiunta in precedenza tra il Ministero e Montedison in forza della quale il Ministero ha percepito somme rilevanti destinate specificamente al risanamento dell'area (omissis). Come risulta dalla semplice lettura dell'Atto Transattivo (cfr. art. 6), ai sensi dell'art. 1304 c.c. è stata espressamente esclusa, da parte di soggetti terzi, la facoltà di avvalersi del predetto accordo, restando impregiudicata la facoltà dello Stato di richiedere, a loro carico, misure riparatorie o ripristinatorie. Tale espressa previsione dell'accordo transattivo induce a reputare infondati tutti i passaggi argomentativi posti a sostegno del motivo in esame ostando alla sua efficacia espansiva sul piano soggettivo quanto espressamente previsto dalla disposizione su citata. 9. Occorre quindi provvedere alla disamina dell'appello n. 5011/2019. 9.1. Con un unico motivo, la società appellante deduce la violazione dell'art. 111 c.p.c, rilevando, nella sostanza, che la conferenza di servizi del 2006 era il primo atto lesivo che estendeva i suoi effetti anche alla società Ti., la quale, quindi, era legittimamente intervenuta ad adiuvandum nei due giudizi promossi dalla società Po. di Ve.. In particolare, l'appellante censura la sentenza laddove afferma che "Il primo motivo di ricorso risulta parzialmente inammissibile per difetto di interesse laddove la ricorrente impugna le prescrizioni contenute nel verbale della conferenza di servizi del 29 novembre 2010 rivolte unicamente nei confronti della società Ti. s.r.l. (non estensibili alla società Po. di Ve.)". Evidenzia infatti che la ricorrente Po. di Ve. - ancorché abbia impugnato le prescrizioni del verbale 29.11.10 rivolte a Ti. - ha anche e validamente impugnato l'atto del 2010 ricognitivo della conferenza di servizi 2006 (costituente atto generale perché interessante la complessiva area (omissis) all'epoca ancora non ripartita fra Ti. e Po. di Ve.) che confermava alla proprietà la complessiva sottoposizione dell'area a caratterizzazione in violazione del principio chi inquina paga. Il T.a.r. Veneto, accogliendo la sua domanda nella parte in cui la ricorrente, pacificamente non responsabile dell'inquinamento dell'area (omissis), è stata destinataria, nel verbale della conferenza di servizi decisoria del 29 dicembre 2006 ha sancito in modo inequivocabile che tale conferenza di servizi era in parte qua illegittima. Senza però tener conto del fatto che nel 2006 Po. di Ve. era proprietaria dell'intero compendio, venduto a Im. Ti. solo nel 2009. 9.2. L'appello, come eccepito da parte appellata, risulta inammissibile in quanto non si comprende il preciso tenore delle deduzioni di parte appellante, la quale non avversa una precisa statuizione della sentenza di prime cure; la società si limita infatti a rilevare che aveva interesse a contestare l'atto del 2006 sebbene avesse acquistato il bene soltanto nel 2009 stante il carattere meramente confermativo dell'atto del 2010 rispetto a quello del 2006. In punto di interesse a ricorrere condivisibile giurisprudenza è nel senso che "Nel processo amministrativo l'intervento "ad adiuvandum o "ad opponendum" può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale e non anche da un soggetto che sia portatore di un interesse che lo abilita a proporre ricorso in via principale; di conseguenza la mancanza nell'interveniente di una posizione sostanziale di interesse legittimo, invece di costituire momento di ostacolo al suo ingresso in giudizio, ne rappresenta al contrario un presupposto di ammissibilità ." (cfr. Cons. Stato, sez. V, 2 agosto 2011, n. 4557). Nel medesimo senso: "La mancanza nell'interveniente di una posizione sostanziale di interesse legittimo, lungi dal costituire momento di ostacolo al suo ingresso in giudizio, ne rappresenta al contrario un presupposto di ammissibilità, in adesione ai consolidati orientamenti giurisprudenziali che subordinano l'intervento del terzo alla difesa di un suo interesse derivato o non ancora attuale, in caso contrario si eluderebbe la perentorietà del termine per la proposizione di autonomo ricorso (nel caso di specie, veniva riconosciuta in capo agli intervenienti ad adiuvandum una posizione qualificata in quanto collocatisi in posizione utile nella graduatoria di un concorso e aventi un interesse alla conservazione degli atti impugnati)." (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 6 settembre 2010, n. 6483). 10. In conclusione l'appello n. 4627/2019 deve essere respinto mentre l'appello n. 5011/19 deve essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse a ricorrere. 11. Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di grado in ordine al giudizio n. 4627/2019 sussistendo i presupposti di cui all'art. 92 c.p.c., per come espressamente richiamato dall'art. 26, comma 1, c.p.a., stante la peculiarità e la complessità, sia in punto di fatto che di diritto, delle questioni oggetto di contenzioso; invece, secondo il principio della soccombenza ed in assenza delle peculiarità evidenziate al precedente gravame, le spese relative al giudizio n. 5011/19 vanno poste a carico della Società Im. Ti. S.r.l. in favore della parte appellata. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti (n. 4627/2019 e n. 5011/2019), previamente riuniti, così decide: - respinge il ricorso n. 4627/2019 proposto da Po. di Ve. S.p.a.; - dichiara inammissibile il ricorso n. 5011/2019 proposto dalla Società Im. Ti. S.r.l. Spese di grado compensate in relazione all'appello n. 4627/2019 mentre poste a carico della Società Im. Ti. S.r.l. in favore delle Amministrazioni appellate, in solido tra loro, nella misura di Euro 4.000,00 (quattromila/00) oltre IVA, CPA ed accessori di legge se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 7 febbraio 2024 svoltasi in videoconferenza ai sensi del combinato disposto degli artt. 87, comma 4 bis, c.p.a. e 13 quater disp. att. c.p.a., aggiunti dall'art. 17, comma 7, d.l. 9 giugno 2021, n. 80, recante "Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l'efficienza della giustizia", convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giovanni Sabbato - Consigliere, Estensore Carmelina Addesso - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere Ofelia Fratamico - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10334 del 2021, proposto dalla società En. Se. - S.a.s. di Co. Gi., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Lu. An., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro l'Inail, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Ro. e Le. Cr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sede di Lecce, n. 678 del 2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Inail del 15/12/2021; Vista la memoria dell'Inail, depositata in data 14/03/2024; Vista la memoria di replica della società appellante, depositata in data 14/03/2024; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2024 il Cons. Antonio Massimo Marra e uditi per le parti gli avvocati presenti, come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il 27 ottobre 2016 l'INAIL, sede di Lecce, ha adottato nei confronti dell'odierna società appellante, En. Se. -S.a.s. una nota, portante il mancato superamento della fase di verifica prevista dall'art. 17 dell'Avviso pubblico-2015 relativo agli incentivi alle imprese per la realizzazione d'interventi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in attuazione dell'art. 11, comma 5, D. Lgs. n. 81/2008; oltre alla successiva nota di conferma della non ammissione del progetto d'investimento, in data 11 gennaio 2017. Nello specifico, la società ricorrente ha presentato un progetto volto alla riduzione del rischio legato alla movimentazione manuale di carichi che comportano rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico dei lavoratori mediante l'acquisto di escavatori. Nel preavviso di rigetto si evidenzia che: "Il progetto non risulta coerente poiché nel modulo A - Domanda - si chiede di acquistare una sola macchina mentre in Perizia Giurata sono elencate cinque macchine". L'INAIL non ha dunque ritenuto persuasiva la prospettazione del ricorrente circa la corretta valutazione del rischio ampliata dalla metodologia HRN (Hazard Rating Number) ed ha disposto la sua esclusione in applicazione dell'art. 17 dell'avviso pubblico. 1.1. La società ricorrente - operante nel settore delle costruzioni edili - ha presentato in data 2 maggio 2015 un progetto di investimento per il finanziamento di interventi in materia di salute e sicurezza sul lavoro e, nel censurarne l'illegittimità della comunicazione di non ammissione agli incentivi per la affermata violazione delle garanzie partecipative, oltre all'eccesso di potere per illogicità ed irragionevolezza manifeste, ha impugnato l'atto di non ammissione avanti al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Lecce, ribadendo quanto già dedotto in sede procedimentale. La ricorrente ha -tra l'altro- lamentato nel primo grado di giudizio che la motivazione del diniego sarebbe stata diversa da quella del preavviso di rigetto atteso che, con la prima nota, l'azienda è stata ritenuta troppo piccola per essere destinataria di tali risorse e, successivamente, di dimensioni allegatamente eccessive per svolgere l'attività senza mezzi; inoltre il procedimento sarebbe stato affetto da carenza di istruttoria a causa della mancata concessione di un termine per la presentazione di controdeduzioni in ragione di altro elemento ostativo richiamato nella comunicazione dell'11 gennaio 2017. 1.2. Nel primo grado del giudizio si è costituito l'Istituto Nazionale I.N.A.I.L., per chiedere la reiezione del ricorso. 1.3. Con la sentenza n. 678 del 9 marzo 2021 il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Lecce, ha respinto il ricorso. 2. Avverso tale sentenza ha proposto appello En. Se. -S.a.s., deducendo un unico articolato motivo, e ne ha chiesto la riforma, insistendo sul difetto delle garanzie partecipative. 2.1. Si è costituito anche in questo grado di giudizio l'Istituto appellato per chiedere la reiezione del gravame. 2.3. Nella pubblica udienza del 18 aprile 2024 il Collegio, sentiti i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in decisione. 3. Preliminarmente il Collegio dà atto che, come comunicato ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a., è stata depositata dalla appellante memoria di replica in data 18 marzo 2024, che ha fatto seguito ad una memoria depositata dall'appellata in data 14 marzo 2024, ore 11.52 e ad una memoria dell'appellante dello stesso 14 marzo 2024, ore 18.11. Ne consegue che, essendo l'ultima memoria "ordinaria"quella depositata dalla appellante, non poteva dalla stessa essere depositata una memoria di replica, che presupporrebbe, invece, che l'ultimo scritto difensivo al quale replicare fosse dell'appellato. 4. L'appello, proposto dalla En. Se. - S.a.s. è fondato, con riguardo al dedotto difetto delle garanzie partecipative. Secondo la giurisprudenza costante della Sezione (sent. n. 1871 dell'11 maggio 2016) "al fine di non frustrare la funzione garantistica e, soprattutto perché l'istituto del c.d. preavviso di diniego possa assolvere alla finalità di assicurare la partecipazione sul piano della effettività e non si risolva in un mero formalismo fine a se stesso prestandosi ad abusi o elusioni, necessita che i motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, come comunicati nel c.d. preavviso si ritrovino o, comunque, si presentino in linea di coerenza logica con la parte motiva del provvedimento negativo, che magari potrà anche risultarne arricchito con l'aggiunta di ulteriori rilievi conseguenti alle osservazioni presentate dall'interessato, ma non potrà contenere una motivazione del tutto estranea ai motivi in precedenza comunicati ex art. 10 bis della L. 241/1990". Nella specie non può dirsi pienamente rispettato detto principio posto che, nel preavviso di rigetto, si afferma espressamente che "il progetto non risulta coerente poiché nel modulo A - Domanda - si chiede di acquistare una sola macchina mentre in Perizia Giurata sono elencate cinque macchine. Si evidenzia, altresì, che i preventivi della ditta Inchingolo Domenico S.r.l. e Romana Diesel S.p.a. non sono datati e che il fatturato indicato in fase di domanda online non concorda con quello riportato nel Modulo C. La dimensione dell'impresa, in quanto a fatturato annuo, ad attrezzature attualmente possedute (martello pneumatico, badile, carriola e zappa) e a numero di dipendenti, indica che la stessa esercita una attività lavorativa limitata ad interventi di modesta entità che non giustifica l'acquisto del parco macchine richiesto. L'acquisto delle macchine comporterebbe una variazione della attività e questa fattispecie non è oggetto di finanziamento". Diversamente, nell'atto di reiezione dell'incentivo, assunto a seguito delle controdeduzioni, l'INAIL ha affermato che "l'art. 5 dell'Avviso Pubblico ISI 2015 prevede l'ammissione a contributo dei progetti di investimento il cui fattore di rischio relativo alla tipologia di investimento deve essere coerente con la lavorazione di tariffa selezionata nella domanda e deve essere riscontrabile nel documento di valutazione dei rischi". Di qui il dedotto vizio del difetto di garanzie partecipative. 5. Né a conclusione distinte ed opposte conduce poi il rilievo dell'Istituto appellato secondo cui a prescindere dalla coerenza o meno dei visti atti, l'esito non sarebbe stato in ogni caso diverso e quindi il preavviso non sarebbe stato necessario. E' agevole, infatti, opporre che è lo stesso INAIL che ha ritenuto necessaria la fase partecipativa, con la conseguenza che una volta comunicato il preavviso di rigetto, questo deve avere un contenuto speculare al provvedimento ostativo all'erogazione dell'incentivo. 6. L'appello è dunque fondato, con la conseguenza che, in riforma della sentenza impugnata del Tar Lecce, n. 678 del 2021, è accolto il ricorso di primo grado. 7. Le spese del doppio grado del giudizio possono restare integralmente compensate tra le parti costituite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata del Tar Lecce, n. 678 del 2021, accoglie il ricorso di primo grado. Compensa le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Giulia Ferrari - Presidente FF Ezio Fedullo - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Antonio Massimo Marra - Consigliere, Estensore Raffaello Scarpato - Consigliere
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