Sentenze recenti inammissibilità appello

Ricerca semantica

Risultati di ricerca:

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9178 del 2023, proposto da Ma. Or. ed altri, rappresentati e difesi dall'avvocato Al. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Ba., Si. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Condominio Vi. Bo., rappresentato e difeso dagli avvocati Ri. Mo., An. In., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ro. De Mu. ed altri, rappresentati e difesi dall'avvocato Gi. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Torino, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. 703/2023, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di (omissis), del Condominio Vi. Bo. e di Ro. De Mu. e altri come sopra individuati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024 il Cons. Marco Morgantini e uditi per le parti gli avvocati Ma. Al.; Ma. Si.; Ga. Gi.; In. An.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue; FATTO e DIRITTO 1. Con la sentenza appellata è stato dichiarato inammissibile il ricorso proposto per l'annullamento dell'ordinanza n. 77 in data 1 giugno 2022, assunta dal Segretario del Comune di (omissis), avente ad oggetto la sospensione dei lavori di ricostruzione di un muro di sostegno di area retrostante comprendente la linea ferroviaria (omissis) - (omissis) nonché un edificio residenziale. La motivazione della sentenza appellata fa riferimento alle seguenti circostanze. I ricorrenti sono proprietari di un compendio immobiliare nel Comune di (omissis), frazione (omissis), costituito da un antico edificio residenziale ("villa del Ve.") e un'area pertinenziale che si estende fino al litorale. Con provvedimento del 27 novembre 2019, il Comandante della Capitaneria di porto di Imperia autorizzava uno dei ricorrenti, ai sensi dell'art. 55 cod. nav. e fatto salvo il necessario titolo edilizio, ad effettuare i lavori di ricostruzione di un muro di protezione dal mare; secondo le risultanze catastali, il manufatto da erigere rientrava nel perimetro della proprietà privata. Previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, gli interessati presentavano al Comune di (omissis), in data 18 febbraio 2020, una s.c.i.a. per la ricostruzione del muro in cemento armato, qualificando l'intervento come manutenzione straordinaria. Con nota del 11 maggio 2022, considerato che i lavori non erano stati ancora realizzati e che lo stato dei luoghi poteva aver subito mutamenti nel periodo trascorso dal rilascio dell'autorizzazione, il Comandante della Capitaneria di porto sospendeva l'efficacia del titolo medesimo, diffidando gli interessati a non realizzare l'intervento. Con successiva nota del 16 maggio 2022, la stessa Autorità comunicava che, alla luce delle risultanze emerse in apposita riunione cui avevano partecipato i rappresentanti del Provveditorato alle opere pubbliche e dell'Agenzia del demanio, la diffida era stata revocata. I lavori sono stati avviati nello stesso mese di maggio del 2022. Tuttavia, essendo emersi elementi di incertezza in ordine alla titolarità dell'area di intervento (che, secondo alcuni esposti pervenuti all'Ente locale, sarebbe appartenuta al demanio marittimo), il Comune di (omissis) disponeva l'immediata sospensione dei lavori con ordinanza del 1 giugno 2022. In pari data, il Comune presentava alla Capitaneria di porto un'istanza urgente per la rideterminazione della dividente demaniale ex art. 32 cod. nav. Il Comandante della Capitaneria di porto riscontrava l'istanza con nota del 14 giugno 2022, significando che la questione inerente alla persistente attualità dell'autorizzazione ex art. 55 cod. nav. rilasciata ai ricorrenti era già stata affrontata e positivamente definita nella menzionata riunione cui il Comune non aveva ritenuto di partecipare. A questo punto, preso atto che i solleciti volti all'esercizio del potere di autotutela erano rimasti privi di riscontro, gli interessati hanno impugnato l'ordine di sospensione dei lavori con ricorso notificato e depositato in data 8 luglio 2022. In via preliminare il Tar ha fatto riferimento all'affermazione di parte ricorrente secondo cui, essendo decorso il termine di 45 giorni stabilito dall'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, l'impugnata ordinanza di sospensione dei lavori sarebbe divenuta inefficace nel corso del giudizio e, in conseguenza, dovrebbe essere dichiarata l'improcedibilità del ricorso. È evidente che, in questa prospettiva, l'invocata declaratoria di improcedibilità risulterebbe sostanzialmente satisfattiva della pretesa azionata in giudizio, poiché implica l'accertamento della sopravvenuta inefficacia del provvedimento che impedisce la ripresa dei lavori avviati dai ricorrenti. Il Tar ha condiviso, a tale riguardo, la stigmatizzazione operata dai primi intervenienti, non essendo plausibile che il ricorso, cui accedeva la domanda di tutela cautelare anche monocratica, fosse stato proposto avverso un provvedimento la cui efficacia, in tesi, sarebbe venuta meno appena otto giorni dopo: l'atto introduttivo del presente giudizio, infatti, è stato notificato e depositato in data 8 luglio 2022, laddove il preteso termine di efficacia del provvedimento impugnato sarebbe scaduto il successivo 16 luglio. In ogni caso, anche volendo ammettere che i pochi giorni residui di "paralisi del cantiere" fossero forieri di gravi pregiudizi per i ricorrenti, la tardiva segnalazione di una circostanza potenzialmente idonea a consentire la sollecita definizione del giudizio già in sede cautelare configura un abuso dello strumento processuale. Il Tar ha poi evidenziato l'infondatezza della tesi inerente alla sopravvenuta inefficacia dell'impugnata ordinanza. Nel caso in esame, infatti, l'Amministrazione ha disposto la sospensione dei lavori "fino al provvedimento di delimitazione ex articolo 32 cod. nav. richiesto, in via di urgenza, con nota prot. n. 23171 del 1 giugno 2022". La scadenza dell'efficacia dell'atto dipendeva, quindi, da un evento futuro e incerto nel quando, ma non nell'an, poiché il Comune di (omissis) non aveva ragioni per dubitare, anche in un'ottica di leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni, che la propria istanza di rideterminazione della dividente demaniale avrebbe dato impulso ad un procedimento destinato a concludersi con un provvedimento espresso. Non risulta, d'altronde, che l'istanza predetta sia stata formalmente rigettata, atteso che la nota del 14 giugno 2022 della Capitaneria di porto si pronunciava in merito alla diversa questione concernente l'invarianza dei presupposti sottesi all'autorizzazione ex art. 55 cod. nav. già rilasciata ai ricorrenti. Alla luce di tali precisazioni, può farsi questione della legittimità di un termine diverso da quello previsto dalla fonte primaria, ma non dubitare della sua esistenza e, dunque, della perdurante efficacia del provvedimento impugnato, con conseguente insussistenza delle condizioni necessarie per dichiarare l'improcedibilità del ricorso. Il Tar ha fatto riferimento all'indagine relativa all'effettivo stato dei luoghi interessati dall'attività edificatoria, in funzione dell'accertamento incidentale della demanialità dell'area di intervento. Trattasi di accertamento sicuramente non eccedente l'ambito della competenza del giudice amministrativo, poiché l'ipotizzato carattere demaniale del bene costituisce presupposto del provvedimento impugnato. Il Tar ha ricordato che ai sensi dell'art. 822, primo comma, cod. civ., il lido del mare e la spiaggia "appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico". I beni che assumono i connotati naturali di "lido del mare" o di "spiaggia" sono acquisiti al demanio marittimo necessario, indipendentemente da un atto costitutivo della pubblica amministrazione. Per univoco orientamento giurisprudenziale, il lido del mare è la porzione di riva a contatto diretto con le acque del mare da cui resta normalmente coperta per le ordinarie mareggiate, mentre la spiaggia comprende i tratti di terra prossimi al mare che siano sottoposti alle mareggiate straordinarie (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 22 ottobre 2019, n. 26877). Rientra nel demanio marittimo necessario anche l'arenile, vale a dire quel tratto di terraferma relitto dal naturale ritirarsi delle acque che resti idoneo ai pubblici usi del mare (Cass. civ., sez. II, 16 ottobre 2020, n. 22567). Il verificatore pur non avendo risposto espressamente al quesito che chiedeva di accertare se il muro da erigere insista, in tutto o in parte, sul lido del mare o sulla spiaggia, ha fornito informazioni che consentono di ravvisare gli elementi costitutivi della demanialità con riguardo al terreno interessato dall'intervento edilizio, rimanendo irrilevante la sua iscrizione in catasto come proprietà privata. Riferisce innanzitutto il verificatore che il muro dovrebbe sorgere sull'appezzamento di terreno identificato a catasto al foglio (omissis), mappali (omissis), "posto fronte mare al di sotto della linea ferroviaria" (pag. 6). Le fotografie interfogliate nella relazione rivelano che il terreno in questione è privo di scogli e coperto da ciottoli fino al terrapieno posto a monte; si nota "la presenza sulla linea di battigia di blocchi di cemento e numerosi tondini di ferro installati lungo una linea che rappresenterebbe il tracciato dove far sorgere il muro" (pag. 8). Tale tratto di litorale "è caratterizzato da fenomeni di mareggiate particolarmente intense e saltuarie" (pag. 15), come dimostrato anche dall'erosione del terrapieno predetto cagionata dal "frangersi del moto ondoso durante le mareggiate" (pag. 28). Infine, per quanto concerne l'esatta ubicazione del muro, il verificatore precisa che esso si collocherebbe a circa 11 metri dalla linea di battigia nella parte più distante e ad un paio di metri in quella più prossima al mare (pag. 28). Tali elementi dimostrano che la porzione di riva sulla quale dovrebbe sorgere il muro, restando coperta nella sua interezza da mareggiate non eccezionali, non consente altro uso che non sia quello marittimo e, in conseguenza, ha qualità intrinseca di "lido del mare" o di "spiaggia", comunque riconducibile alle categorie indicate dall'art. 822, primo comma, cod. civ. Anzi, considerando che le operazioni peritali sono state effettuate in condizioni di mare calmo, vento assente e bassa marea (pag. 28), è verosimile che la parte di muro più vicina al mare sorga direttamente sulla battigia, ossia sulla fascia costiera interessata dal movimento ordinario di flusso e riflusso delle onde, come dimostra chiaramente anche la fotografia inserita alla pag. 8 della relazione peritale. La sicura qualificazione dell'area come bene appartenente al demanio marittimo necessario rende irrilevanti le ulteriori questioni afferenti la sua potenziale attitudine a realizzare i pubblici usi del mare. Discende da tali considerazioni la diagnosi di fondatezza dell'eccezione di inammissibilità del ricorso espressamente sollevata dai primi intervenienti (ma insita anche nelle argomentazioni difensive delle altre parti resistenti). In assenza di concessione, infatti, i ricorrenti non avevano alcun titolo di legittimazione per realizzare l'opera su un bene del demanio marittimo, sicché la s.c.i.a. edilizia, di per sé inidonea ad esplicare effetti sul piano del governo dei diritti demaniali, deve considerarsi tamquam non esset. Ne consegue che, non disponendo del bene della vita, i ricorrenti non possono vantare un interesse astrattamente meritevole di tutela o, più precisamente, un interesse legittimo oppositivo nei confronti del provvedimento adottato dal Comune di (omissis) che, inibendo la prosecuzione dei lavori (a prescindere dalla natura del potere concretamente esercitato), non determina alcun effetto restrittivo della sfera giuridica dei soggetti privi dello ius aedificandi. 2. Si sono costituiti in giudizio per resistere all'appello il Comune di (omissis), Ro. De Mu. ed altri e il Condominio "Vi. Bo.". 3. Parte appellante fa presente che nel corso del giudizio di primo grado i ricorrenti odierni appellanti hanno chiesto che il ricorso venisse dichiarato improcedibile per sopravvenuta inefficacia dell'ordine di sospensione lavori, essendo decorso il termine di 45 giorni stabilito dall'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001. Contesta la tesi del Tar secondo cui, stante la perdurante efficacia del provvedimento impugnato di sospensione lavori, difetterebbero le condizioni necessarie per dichiarare l'improcedibilità del ricorso. Ritiene che: - la dichiarazione di improcedibilità del ricorso avverso l'ordine di sospensione non sia in alcun modo satisfattiva delle ragioni dei ricorrenti in quanto se è vero che ciò avrebbe consentito di riprendere i lavori è altrettanto vero che gli stessi sarebbero rimasti pur sempre esposti alla vigilanza del Comune e alla emissione di atti repressivi di eventuali illeciti; - la proposizione del ricorso in questione non sarebbe abuso del processo, ma invece normale esercizio del diritto di difesa al fine di ottenere l'annullamento nel merito dell'ordinanza di sospensione lavori o quantomeno la dichiarazione di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta inefficacia dell'atto per decorso del termine stabilito dalla legge anche in funzione della proponenda azione risarcitoria dei danni causati dall'arbitraria sospensione lavori. Ritiene che il giudice di prime cure abbia ignorato che la stessa ordinanza ha esplicitamente riconosciuto la propria natura cautelare e ha richiamato le disposizioni del D.P.R. n. 380/2001. Sulla base di ciò non potrebbero sussistere dubbi sull'applicabilità nel caso di specie dell'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 (il cui contenuto è trasfuso anche nella Legge Regionale sull'edilizia n. 16 del 2008 all'art. 40) ed in particolare del termine di efficacia di 45 giorni per la sospensione lavori. Il provvedimento del Comune di (omissis) non sarebbe semplicemente illegittimo per violazione delle norme che stabiliscono il termine di efficacia dell'ordinanza di sospensione, ma diverrebbe addirittura nullo per difetto assoluto di attribuzione. Parte appellante ribadisce pertanto l'improcedibilità del ricorso originario per sopravvenuta inefficacia del provvedimento di sospensione lavori atteso che nel termine perentorio di 45 giorni - ma neppure successivamente - non è stato adottato alcun provvedimento definitivo comunale. 3 - bis. L'appello è infondato e pertanto il collegio può prescindere dall'esame delle eccezioni preliminari. Le censure sono infondate. Infatti, l'Amministrazione ha disposto la sospensione dei lavori "fino al provvedimento di delimitazione ex articolo 32 cod. nav. richiesto, in via di urgenza, con nota prot. n. 23171 del 1 giugno 2022". La scadenza dell'efficacia dell'atto dipendeva, quindi, da un evento futuro e incerto nel quando, ma non nell'an, poiché il Comune di (omissis) non aveva ragioni per dubitare, anche in un'ottica di leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni, che la propria istanza di rideterminazione della dividente demaniale avrebbe dato impulso ad un procedimento destinato a concludersi con un provvedimento espresso. Non risulta, d'altronde, che l'istanza predetta sia stata formalmente rigettata, atteso che la nota del 14 giugno 2022 della Capitaneria di porto si pronunciava in merito alla diversa questione concernente l'invarianza dei presupposti sottesi all'autorizzazione ex art. 55 cod. nav. già rilasciata ai ricorrenti. Alla luce di tali precisazioni, come affermato dal Tar, può farsi questione della legittimità di un termine diverso (ossia fino alla data di adozione del provvedimento di delimitazione) da quello previsto dalla fonte primaria, ma non dubitare della sua esistenza e, dunque, della perdurante efficacia del provvedimento impugnato, con conseguente insussistenza delle condizioni necessarie per dichiarare l'improcedibilità del ricorso o la cessata materia del contendere. 4. Parte appellante lamenta poi l'illegittimità dell'accertamento incidentale sulla proprietà contenuto nella sentenza appellata. Infatti la natura stessa dell'ordinanza di sospensione lavori non presuppone alcun accertamento definitivo sulla titolarità dell'area oggetto di intervento edilizio impedendo che si possa instaurare un rapporto di pregiudizialità tra esame del ricorso giurisdizionale attinente la legittimità del provvedimento e l'accertamento in via incidentale del diritto di proprietà sul terreno in questione. L'impossibilità di un accertamento incidentale sarebbe reso ancor più evidente dal fatto che parte ricorrente all'udienza del 24 maggio 2023 ha concentrato la subordinata azione di annullamento insistendo solo sulla violazione del termine finale della sospensione lavori legato nel suo termine finale ad un evento incertus an et quando. 4 - bis. Le censure sono infondate. Il Tar ha fatto riferimento all'indagine relativa all'effettivo stato dei luoghi interessati dall'attività edificatoria, in funzione dell'accertamento incidentale della demanialità dell'area di intervento. Trattasi di accertamento sicuramente non eccedente l'ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, poiché l'ipotizzato carattere demaniale del bene costituisce presupposto del provvedimento impugnato e non questione principale. Infatti sul punto l'ordinanza impugnata in primo grado fa specifico riferimento alla descrizione dei luoghi e alla conseguente possibilità che le opere sono state previste ed eseguite sul demanio marittimo. Nel caso di specie oggetto principale della contestazione è proprio l'ordine di sospensione dei lavori e la connessa sopra richiamata motivazione. L'accertamento della proprietà demaniale costituisce questione incidentale scrutinabile dal giudice amministrativo ai sensi del primo comma dell'art. 8 del cod. del proc. amm. secondo cui il giudice amministrativo nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva conosce, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale (così Cons. di Stato, Sez. VII, 23 settembre 2022, n. 8225). 5. Parte appellante ritiene che la sentenza appellata sia illegittima perché il giudice di prime cure si sarebbe discostato dalle determinazioni in materia di confine demaniale delle Amministrazioni competenti. Fa riferimento alla circostanza che: - la Capitaneria di Porto, dopo aver esaminato la questione con nota del 16 maggio 2022 prot. n. 9424 aveva esplicitamente consentito la prosecuzione dei lavori; - l'Agenzia del Demanio ha avuto modo di chiarire che il muro in corso di realizzazione, una volta completato, avrebbe rappresentato "il confine demaniale aggiornato". Il giudice di prime cure, pur in presenza di queste valutazioni delle competenti Amministrazioni sul profilo della demanialità, se ne sarebbe inopinatamente discostato e avrebbe provveduto in autonomia ad individuare di fatto un nuovo confine tra proprietà privata e demanio marittimo, quando la legge assegna tale compito all'Amministrazione nella figura del Capitaneria di Porto competente o al giudice ordinario. Secondo parte appellante la controversia in esame riguarderebbe un'ordinanza di sospensione lavori che non comporta alcun accertamento sulla regolarità o meno dell'opera edilizia con conseguente impossibilità da parte del giudice di prime cure di esaminare la legittimità ovvero l'esistenza della SCIA edilizia che ha assentito il muro di protezione dagli eventi meteo-marini. 5 - bis. Le censure sono infondate. La sentenza appellata è congruamente motivata sul punto anche con riferimento agli esiti della verificazione espletata nel giudizio di primo grado. Infatti il Tar ha premesso che ai sensi dell'art. 822, primo comma, cod. civ., il lido del mare e la spiaggia "appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico". I beni che assumono i connotati naturali di "lido del mare" o di "spiaggia" sono acquisiti al demanio marittimo necessario, indipendentemente da un atto costitutivo della pubblica amministrazione. Per univoco orientamento giurisprudenziale, il lido del mare è la porzione di riva a contatto diretto con le acque del mare da cui resta normalmente coperta per le ordinarie mareggiate, mentre la spiaggia comprende i tratti di terra prossimi al mare che siano sottoposti alle mareggiate straordinarie (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 22 ottobre 2019, n. 26877). Rientra nel demanio marittimo necessario anche l'arenile, vale a dire quel tratto di terraferma relitto dal naturale ritirarsi delle acque che resti idoneo ai pubblici usi del mare (Cass. civ., sez. II, 16 ottobre 2020, n. 22567). Il verificatore pur non avendo risposto espressamente al quesito che chiedeva di accertare se il muro da erigere insista, in tutto o in parte, sul lido del mare o sulla spiaggia, ha fornito informazioni che consentono di ravvisare gli elementi costitutivi della demanialità con riguardo al terreno interessato dall'intervento edilizio, rimanendo irrilevante la sua iscrizione in catasto come proprietà privata. Riferisce innanzitutto il verificatore che il muro dovrebbe sorgere sull'appezzamento di terreno identificato a catasto al foglio (omissis), mappali (omissis), "posto fronte mare al di sotto della linea ferroviaria" (pag. 6). Le fotografie interfogliate nella relazione rivelano che il terreno in questione è privo di scogli e coperto da ciottoli fino al terrapieno posto a monte; si nota "la presenza sulla linea di battigia di blocchi di cemento e numerosi tondini di ferro installati lungo una linea che rappresenterebbe il tracciato dove far sorgere il muro" (pag. 8). Tale tratto di litorale "è caratterizzato da fenomeni di mareggiate particolarmente intense e saltuarie" (pag. 15), come dimostrato anche dall'erosione del terrapieno predetto cagionata dal "frangersi del moto ondoso durante le mareggiate" (pag. 28). Infine, per quanto concerne l'esatta ubicazione del muro, il verificatore precisa che esso si collocherebbe a circa 11 metri dalla linea di battigia nella parte più distante e ad un paio di metri in quella più prossima al mare (pag. 28). Tali elementi dimostrano che la porzione di riva sulla quale dovrebbe sorgere il muro, restando coperta nella sua interezza da mareggiate non eccezionali, non consente altro uso che non sia quello marittimo e, in conseguenza, ha qualità intrinseca di "lido del mare" o di "spiaggia", comunque riconducibile alle categorie indicate dall'art. 822, primo comma, cod. civ. Anzi, considerando che le operazioni peritali sono state effettuate in condizioni di mare calmo, vento assente e bassa marea (pag. 28), è verosimile che la parte di muro più vicina al mare sorga direttamente sulla battigia, ossia sulla fascia costiera interessata dal movimento ordinario di flusso e riflusso delle onde, come dimostra chiaramente anche la fotografia inserita alla pag. 8 della relazione peritale. La sicura qualificazione dell'area come bene appartenente al demanio marittimo necessario rende irrilevanti le ulteriori questioni afferenti la sua potenziale attitudine a realizzare i pubblici usi del mare. Discende da tali considerazioni la diagnosi di fondatezza dell'eccezione di inammissibilità del ricorso espressamente sollevata dai primi intervenienti (ma insita anche nelle argomentazioni difensive delle altre parti resistenti). In assenza di concessione, infatti, i ricorrenti non avevano alcun titolo di legittimazione per realizzare l'opera su un bene del demanio marittimo, sicché la s.c.i.a. edilizia, di per sé inidonea ad esplicare effetti sul piano del governo dei diritti demaniali, deve considerarsi tamquam non esset. Ne consegue che, non disponendo del bene della vita, i ricorrenti non possono vantare un interesse astrattamente meritevole di tutela o, più precisamente, un interesse legittimo oppositivo nei confronti del provvedimento adottato dal Comune di (omissis) che, inibendo la prosecuzione dei lavori (a prescindere dalla natura del potere concretamente esercitato), non determina alcun effetto restrittivo della sfera giuridica dei soggetti privi dello ius aedificandi. Contrariamente a quanto sostenuto da parte appellante, l'accertato difetto di legittimazione ad eseguire le opere comporta necessariamente la non regolarità delle opere edilizie di cui alla Scia. In conclusione l'appello deve essere respinto. La condanna alle spese dell'appello segue la soccombenza con liquidazione nella misura di: - Euro 2.000 a favore del Comune di (omissis); - Euro 2.000 per i seguenti intervenienti costituitisi in appello con unico atto: Ro. De Mu.ed altri; - Euro 2.000 a favore del Condominio "Vi. Bo.". P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna parte appellante al pagamento delle spese dell'appello nella misura di: Euro 2.000/00 (Duemila/00) a favore del Comune di (omissis); Euro 2.000/00 (Duemila/00) a favore dei seguenti intervenienti costituitisi in appello con unico atto: Ro. De Mu. ed altri; Euro 2.000/00 (Duemila/00) a favore del Condominio "Vi. Bo.". Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere, Estensore Laura Marzano - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2357 del 2024, proposto da: Co. Consorzio Ge. In., in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ce., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di Caserta, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ma., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; nei confronti Sa. - Se. per l'a. S.r.l., in liquidazione, non costituita in giudizio; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione sesta, n. 1272/2024. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Caserta; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 105, comma 2 e 87, comma 3, cod. proc. amm.; Relatore il Cons. Laura Marzano; Uditi, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, l'avvocato Pa. Ce. e l'avvocato Ma. Me. in sostituzione dell'avvocato Pa. Ma.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Co., Consorzio Ge. In. in liquidazione (per brevità "Consorzio"), ha impugnato la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 con cui il Tar Campania, sezione VIII, ha dichiarato il difetto di giurisdizione sul ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto per l'annullamento dell'ordinanza del comune di Caserta n. 54542 del 3 maggio 2023 di sgombero e rilascio del compendio immobiliare denominato "parcheggio interrato di Piazza (omissis)" ubicato in Caserta, al Viale (omissis) e della nota n. 61752 del 19 maggio 2023 a firma del dirigente ing. Lu. Vi.. Il Comune appellato si è costituito nel presente grado di giudizio eccependo l'inammissibilità dell'appello. Alla camera di consiglio del 28 maggio 2024, sentiti i difensori presenti, la causa è stata trattenuta in decisione. Devono essere tratteggiati i fatti di causa. 2. Il Consorzio, costituito nel 1990, a seguito di procedura ad evidenza pubblica si è aggiudicato il servizio di progettazione, costruzione e successiva gestione - in regime di concessione - dell'infrastruttura di parcheggio sotterraneo attualmente ubicata sotto il piazzale del museo Reggia di Caserta. Il comune di Caserta, nella qualità di ente procedente, avendo adottato i provvedimenti volti a regolare i rapporti e le obbligazioni tra le parti, affermava di avere disponibilità dei luoghi e di essere titolare del potere di definirne la destinazione e l'utilizzo. L'amministrazione comunale, infatti, promuoveva e ratificava ogni iniziativa relativa all'utilizzo e alla destinazione ad uso pubblico del bene. In virtù di tanto, la società realizzava l'infrastruttura e ne avviava la gestione, proseguita negli anni fino ad oggi. Nello specifico, la vicenda ha avuto il seguente svolgimento. Con delibere CIPE del 3 agosto 1988 e 29 marzo 1990 venivano stanziati i fondi relativi alla realizzazione dei progetti per due parcheggi sotterranei da ubicare in via (omissis) ed in piazza (omissis) a Caserta. Con successiva delibera del Consiglio comunale n. 106 del 18 ottobre 1990, integrata con delibera di Giunta n. 807 del 21 giugno 1991, l'amministrazione decideva di unificare i due parcheggi e deliberava di affidare la realizzazione del Piano parcheggi e viabilità connessa all'Associazione te. d'I. costituita dalla società It. spa (subentrata all'I. spa, entrambi soggetti interamente pubblici) e dal Consorzio CO.: in esecuzione delle menzionate delibere il comune di Caserta, con atto notarile n. 76636 del 10 ottobre 1991, stipulava apposita convenzione con la suddetta ATI. Con convenzione n. 197/90, stipulata il 13 marzo 1992 tra il comune di Caserta e l'Agenzia per la promozione dello sviluppo del mezzogiorno, veniva finanziato il progetto per la realizzazione del parcheggio sotterraneo sito in Caserta, alla piazza (omissis). In particolare, in tale atto il comune di Caserta assicurava, sotto la propria responsabilità, che "per l'esecuzione dell'opera come risultante dal progetto esecutivo non sussistevano impedimenti di sorta per l'espletamento di tutti gli adempimenti di legge e regolamentari per consensi, autorizzazioni, permessi, pareri di qualunque Autorità, di Enti o di terzi comunque in causa per le opere di che trattasi". Nella stessa convenzione era previsto, all'art. 2, che "il Concessionario provvederà in primo luogo alla realizzazione ed alla successiva gestione del parcheggio ubicato in Piazza (omissis), quale risulta dall'unificazione dei precedenti progetti di due distinti parcheggi in Piazza (omissis) e Via (omissis) ai sensi della predetta delibera consiliare del 18 ottobre 1990, n. 106". Ancora prima del completamento delle opere il comune aveva richiesto al Consorzio di avviare le attività di gestione del parcheggio ed aveva riconosciuto in favore di quest'ultimo il diritto al rimborso di alcuni oneri conseguenti alla gestione in perdita dello stesso. Nell'attesa della sottoscrizione degli atti aggiuntivi alla convenzione di concessione, su espressa richiesta del comune, nel 2001, veniva avviata la gestione provvisoria del parcheggio. L'amministrazione comunale, tuttavia, non provvedeva a stipulare gli atti aggiuntivi previsti dall'atto di concessione, né si adoperava per costituire il diritto di superficie previsto in convenzione, talché il Consorzio - viste le difficoltà finanziarie causate dai ritardati pagamenti da parte del comune - era costretto a sospendere la gestione del parcheggio. Il comune di Caserta richiedeva però immediatamente la riattivazione del servizio, ritenendo "assolutamente necessario che tutte le attività connesse alla gestione del parcheggio non vengano interrotte". In particolare, con nota del 28 aprile 2008, il comune rappresentava al consorzio appellante che "data la complessità del rapporto e le notevoli implicazioni che la gestione del parcheggio comporta nel sistema della mobilità cittadina appare non opportuno prevedere la sua chiusura". A seguito di numerosi solleciti volti a compulsare la costituzione del diritto di superficie, con Protocollo di intesa del 21 luglio 2009, il comune di Caserta e il Demanio si impegnavano ad effettuare una permuta di edifici ed aree delle loro rispettive proprietà : tra i beni oggetto dell'accordo figuravano anche cui l'area denominata "campetti antistanti la Reggia" e il "sottostante parcheggio interrato a due piani", che venivano inclusi tra i beni demaniali da trasferire all'ente locale. Solo in quel momento emergeva, dunque, che il comune di Caserta, fin dagli anni '90, aveva compiuto atti di disposizione di un suolo di proprietà del demanio statale e che, in assenza di un trasferimento da parte dello Stato, il comune mai avrebbe potuto legittimamente costituire il diritto di superficie in favore del concessionario, né adottare una serie di provvedimenti relativi alla definizione dei rapporti con il concessionario. In data 5 giugno 2012, il comune di Caserta trasmetteva al concessionario una nota con cui l'Agenzia del demanio aveva richiesto al comune "la riconsegna del menzionato complesso demaniale libero di persone e cose". Con successivo provvedimento prot. n. 61463 del 31 luglio 2012, il comune di Caserta disponeva "di annullare l'atto di concessione della gestione del parcheggio; di dichiarare che tale atto è comunque nullo per le ragioni sopra indicate; di dichiarare risolta e comunque priva di validità e di effetti, per le ragioni di cui in premessa, la convenzione del 1991; in ogni caso, per le ragioni indicate nel paragrafo sugli inadempimenti e sulle violazioni del Consorzio Co., di dichiarare la decadenza della concessione di gestione e della convenzione accessiva; di ordinare al Consorzio Co. di liberare il parcheggio sotterraneo di piazza (omissis) e di restituirlo al Comune di Caserta entro 60 giorni dalla notifica e comunicazione del presente provvedimento; di riservarsi ogni determinazione in ordine ai rapporti patrimoniali con il Consorzio Co. all'esito di una più approfondita verifica anche in ordine allo stato del parcheggio al momento della sua restituzione". In sintesi, l'Agenzia del demanio, in qualità di proprietaria dei suoli, chiedeva la riconsegna dell'immobile; viceversa, il comune ne chiedeva la restituzione in proprio favore. Di fatto, nella vigenza del rapporto concessorio con il comune di Caserta e stante la confusione circa la proprietà del bene alla luce del Protocollo di intesa del 2009, il concessionario non avrebbe potuto retrocedere l'infrastruttura ad un ente terzo, pena la violazione degli obblighi contrattualmente assunti con la convenzione stipulata nel 1991. La situazione restava invariata sino al 2017, allorquando - nella pendenza di alcuni giudizi - l'Agenzia del demanio dava parere favorevole al trasferimento della proprietà in favore del comune di Caserta, che dava atto dell'acquisizione del bene al proprio patrimonio con delibera consiliare del 12 luglio 2017, n. 71. Poco dopo, con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, il comune di Caserta approvava il "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", inserendo tra gli immobili suscettibili di alienazione l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa. La pendenza del contezioso in ordine alla legittimità dell'annullamento in autotutela dell'atto di concessione - conclusosi solo nell'anno 2021 - e l'incertezza sulla validità o meno degli impegni contrattuali assunti, hanno impedito al concessionario (ma anche al comune) di assumere determinazioni in ordine al rilascio dell'infrastruttura, perdurando la vigenza degli impegni contrattuali - la cui nullità è stata accertata in via definitiva solo nel 2021 - che imponevano la prosecuzione nella gestione per ragioni di interesse pubblico. Il comune, peraltro, dall'avvenuta adozione del menzionato provvedimento di annullamento in autotutela del 2012 fino alla notifica dell'ordinanza di sgombero oggetto del presente giudizio - dunque per oltre 10 anni - ha consentito la prosecuzione della gestione dell'infrastruttura, pur avendo annullato l'atto concessorio. Il provvedimento di annullamento in autotutela veniva impugnato innanzi al Tar Campania il quale accertava che l'amministrazione comunale di Caserta non aveva titolo per disporre delle aree in questione e che pertanto tali beni erano insuscettibili di formare oggetto di atti di disposizione materiale e giuridica da parte del comune stesso: pertanto con sentenza n. 2661 del 14 maggio 2014, il Tar respingeva il ricorso e affermava, tra l'altro che "le obbligazioni assunte dal Comune concedente in ordine alla costituzione di un diritto di superficie, indispensabile per la costruzione e la successiva gestione del parcheggio, hanno geneticamente un oggetto giuridicamente impossibile, attesa la natura demaniale dell'immobile, non rientrante nella disponibilità dell'ente comunale. Pertanto, la relativa convenzione risulta affetta da nullità per impossibilità dell'oggetto, in base agli artt. 1418 e 1346 c.c." e osservava che "il comportamento delle amministrazioni dello Stato nel corso degli anni, pur manifestando la conoscenza dell'iniziativa fin dalla sua origine, palesa una tollerante inerzia per le iniziative del Comune e, tutt'al più, la disponibilità ad esplorare possibili soluzioni, senza tuttavia mai pervenire all'adozione di atti definitivi dai quali sia possibile evincere una manifestazione espressa di volontà equipollente ad una cessione o concessione dell'area in questione". In sintesi, il Tar Campania affermava la legittimità del provvedimento di annullamento in autotutela stante la indisponibilità del bene oggetto di convenzione e accertava che tale circostanza era ben nota a tutte le amministrazioni resistenti fin dal momento della stipula della convenzione con il concessionario. La sentenza veniva sostanzialmente confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 5231 del 24 luglio 2019, ancorché con motivazione parzialmente diversa da quella del primo giudice. Ulteriore conferma della statuizione avveniva a seguito di ricorso per cassazione, concluso con ordinanza di rigetto n. 36595/2021. In definitiva, all'esito dell'intero contenzioso, veniva accertato che il comune non aveva disponibilità delle aree oggetto di affidamento in concessione e che pertanto la progettazione, costruzione e gestione del parcheggio era avvenuta, ab origine, sine titulo. A seguito della cessazione del rapporto concessorio e fino all'adozione dell'ordinanza impugnata nel primo grado di giudizio, il comune di Caserta non ha assunto determinazioni chiare in ordine alla natura e all'uso cui intende destinare il bene. Il parcheggio, infatti, è stato inserito tra gli immobili suscettibili di alienazione e facenti parte del patrimonio disponibile non strumentale all'esercizio di funzioni istituzionali. Il nuovo Piano delle alienazioni e valorizzazioni adottato nel mese di gennaio 2022 e relativo al triennio 2022-2024 ha poi qualificato il bene come suscettibile di valorizzazione. L'infrastruttura, in seguito, è stata sottoposta a procedura esecutiva da parte della società Sa. in liquidazione, che vantava crediti nei confronti del comune per un ammontare complessivo di circa 43 milioni di euro ed aveva pertanto individuato nell'area in questione il bene da sottoporre ad esecuzione forzata. Il relativo pignoramento immobiliare veniva regolarmente trascritto nel mese di gennaio 2023, per poi cessare i propri effetti in conseguenza dell'adempimento parziale da parte Comune. Tali essendo gli antefatti, con ordinanza dirigenziale n. 5454 del 3 maggio 2023 il comune di Caserta premesso che "è interesse dell'ente comunale rientrare nel possesso e nella disponibilità del parcheggio interrato nell'area sottostante Piazza (omissis), bene immobile che il Comune intende valorizzare mantenendone in ogni caso l'uso pubblico" ed osservato che "l'articolo 283 comma 2 del codice civile, nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del patrimonio dello stesso, e che essa alla facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso" ed ancora che "l'autotutela patrimoniale delle amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti dei beni appartenenti anche al demanio e al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli articoli 826 comma 3 e 828 (...) la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene", ha ordinato al Consorzio il rilascio dell'area denominata "Parcheggio interrato di piazza Carlo 12 III", ubicato in Caserta, viale (omissis) intimando "di lasciare entro 15 giorni il compendio immobiliare libero da cose e/o persone al fine di consentirne il pieno e libero utilizzo da parte del Comune di Caserta per le proprie finalità pubbliche". Infine avvertiva che, decorso inutilmente il termine di 15 giorni dalla data della notifica del provvedimento, l'amministrazione avrebbe proceduto all'esecuzione forzata con l'ausilio della forza pubblica. Ancora, in data 8 maggio 2023, la società Sa., stante il perdurante inadempimento del comune di Caserta, provvedeva a notificare un nuovo pignoramento per la parte residua del credito: la procedura esecutiva veniva poi rinnovata con notifica del precetto e pignoramento del 29 febbraio 2024. 3. Con il ricorso introduttivo del giudizio incardinato innanzi al Tar Campania l'appellante, nella qualità di gestore di fatto del parcheggio interrato sito in Caserta, alla piazza (omissis) di Borbone, ha impugnato l'ordinanza dirigenziale di sgombero adottata dal comune di Caserta in data 3 maggio 2023, n. 5454, chiedendone l'annullamento. Tra i motivi di ricorso deduceva l'illegittimità del provvedimento in quanto, a suo dire, il potere di polizia demaniale sarebbe stato esercitato su un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile dell'amministrazione: sarebbe mancato pertanto il presupposto per l'esercizio del potere autoritativo. Osservava che la natura disponibile del bene si evincerebbe dagli atti di pianificazione delle risorse, adottati dall'amministrazione comunale, che ha inserito il cespite nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare, sicché sarebbe provato che l'immobile in questione ha natura di bene disponibile e non strumentale all'esercizio delle funzioni. Con ordinanza n. 902 del 25 maggio 2023, il Tar accoglieva la domanda cautelare rilevando che, "ad un primo sommario esame, sembra sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo, non essendo in contestazione il difetto di attribuzione in capo al Comune quanto, piuttosto, il non corretto esercizio, in relazione ai presupposti di fatto, del potere in concreto esercitato"; e che "sembra fondata la censura con la quale parte ricorrente lamenta che, a fronte di un bene appartenente al patrimonio disponibile del Comune (come sembrerebbe evincersi dall'inclusione dello stesso nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile di cui alla delibera di G.C. n. 14 del 28 gennaio 2022 e, prima ancora, alla delibera di C.C. n. 24/2018 - cfr. art. 58, comma 2 del d.l. n. 112/2008), l'attivazione del potere di autotutela esecutiva ex art. 823, comma 2 c.c. non era consentita". Il comune di Caserta, nel costituirsi in giudizio in primo grado, ha depositato l'atto, adottato il 19 maggio 2023 dal dirigente dell'ente locale ing. Vi., in cui si afferma che "da verifiche effettuate è emerso che l'impianto denominato Piazza (omissis) è inserito nell'inventario come beni immobili di uso pubblico per natura o destinazione e pertanto lo stesso non ricade nei beni immobili patrimoniali disponibili". L'atto richiama, sul punto, la delibera di Giunta comunale n. 183/2019, successivamente impugnata con ricorso per motivi aggiunti. Con la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 il Tar ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, individuando quale giudice munito di giurisdizione quello ordinario: la motivazione si fonda sul richiamo dell'ordinanza regolatoria delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 255 del 4 gennaio 2024. 4. L'appello è affidato a due motivi. Con il primo motivo si deduce error in iudicando in relazione alla declinatoria di giurisdizione. In sintesi l'appellante fa presente che uno dei motivi di ricorso investiva l'illegittimità del provvedimento impugnato per carenza dei presupposti per l'esercizio del potere: si trattava, infatti, di un provvedimento emanato dall'amministrazione comunale nell'esercizio del potere autoritativo di polizia demaniale su un bene facente parte del patrimonio disponibile e che a fronte di un siffatto provvedimento, il destinatario dell'atto non può che assumere una posizione giuridica di interesse legittimo. Quindi lamenta che, nella sentenza, il Tar avrebbe declinato la giurisdizione richiamando un precedente delle sezioni unite della Corte di Cassazione, che avrebbe deciso una fattispecie del tutto diversa da quella in esame. Nel caso di specie infatti non sarebbe possibile affermare che il provvedimento impugnato sia stato adottato dall'amministrazione nella gestione di un rapporto iure privatorum, né potrebbe esservi ricondotto in via esegetica qualificandolo, a posteriori, come mera "diffida". In definitiva ritiene che il provvedimento impugnato in primo grado si configuri come atto autoritativo illegittimo, in quanto viziato per carenza di potere in concreto, con conseguente radicamento della giurisdizione amministrativa. Con il secondo motivo sono riproposti i motivi formulati in primo grado. 5. L'appello è fondato. La narrazione dei fatti di causa si è resa necessaria per perimetrare l'oggetto del presente giudizio e per chiarire quale sia l'origine del provvedimento impugnato in primo grado. L'ordinanza dell'11 maggio 2023, adottata dal dirigente del comune di Caserta, rappresenta l'atto conclusivo di un rapporto concessorio che, essendo stato dichiarato nullo dal giudice amministrativo, impone al comune di rientrare nella disponibilità del bene concesso. Osserva il Collegio che, nel caso di specie, il comune non ha agito in posizione paritetica con il concessionario bensì esercitando poteri chiaramente autoritativi: la differenza tra la vicenda esaminata dalle sezioni unite e la fattispecie in esame è, peraltro, agevolmente ricavabile proprio dall'ordinanza richiamata dal Tar, di cui si dirà nel prosieguo. Dal provvedimento impugnato in primo grado risulta testualmente che lo stesso è stato adottato ai sensi dell'art. 823, comma 2, del codice civile, il quale nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che "spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che ne fanno parte del demanio pubblico. Essa ha la facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso, regolati dal presente codice". Richiamata e trascritta la suddetta norma il dirigente prosegue ricordando: "che l'autotutela patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti di beni appartenenti anche al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli artt. 826, comma 3, e 828 c.c."; che "nella fattispecie, ricorre la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene sopra citato"; che "l'art. 21ter, comma 1, della legge n. 241/90, prevede che "nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge"". Dunque il dirigente ha inteso spendere il potere di autotutela esecutiva sul presupposto, affermato nel provvedimento, che il bene di cui è ordinato lo sgombero appartenga al patrimonio indisponibile del comune. La ricorrente, invece, già in primo grado sosteneva che il bene in questione apparterrebbe al patrimonio disponibile del comune, ricavando tale qualificazione dal "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", approvato con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, in cui l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa risulta inserita tra gli immobili suscettibili di alienazione (detta circostanza è, peraltro, contestata dal comune nelle sue difese, richiamando la delibera di Giunta comunale n. 183 dell'11 novembre 2019 che riporterebbe una diversa collocazione del bene in questione nell'elenco dei beni comunali appartenenti al patrimonio disponibile ed indisponibile dell'Ente), con la necessaria conseguenza dell'impossibilità per il comune di avvalersi dell'autotutela esecutiva, dovendo viceversa, a suo dire, procedere con gli ordinari rimedi civilistici a tutela della proprietà e del possesso. Dunque l'oggetto del giudizio postula un duplice accertamento: quello riguardante la legittimità del potere esercitato in concreto e quello riguardante la natura del bene di che trattasi: se appartenente al patrimonio disponibile, l'autotutela non poteva essere esercitata, se appartenente al patrimonio indisponibile, come affermato nel provvedimento dal dirigente, l'autotutela era ammissibile. Osserva il Collegio che il principio affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nell'ordinanza n. 255/2024, richiamata dal Tar, è pienamente condiviso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. tra le tante, sez. VII, 16 aprile 2024, n. 3449; id., 30 aprile 2024, n. 2980), tanto che l'incipit del principio affermato dalle sezioni unite, non riportato dal Tar nel virgolettato, è il seguente: "Costituisce principio acquisito, tanto nella giurisprudenza della Suprema Corte, quanto nella giurisprudenza amministrativa, che il potere di autotutela....". É infatti pacifico, come afferma la citata ordinanza, che il potere di autotutela, attribuito all'amministrazione in relazione ai beni demaniali, è esteso, in virtù del combinato disposto degli artt. 823 e 825 c.c., ai beni del patrimonio indisponibile, mentre resta escluso per la tutela dei beni del patrimonio disponibile, rispetto ai quali l'amministrazione potrà avvalersi solo delle ordinarie azioni a tutela della proprietà e del possesso. Pertanto, in presenza di beni del patrimonio disponibile di proprietà del comune, occupati sine titulo, gli atti posti in essere dall'amministrazione comunale non possono ritenersi riconducibili all'esercizio di un potere autoritativo a tutela di un bene pubblico, quale è quello attribuito dall'art. 823 con riferimento ai beni demaniali e ai beni patrimoniali indisponibili, quanto piuttosto all'esercizio di un potere di autotutela del patrimonio immobiliare, posto in essere iure privatorum. L'affermazione consequenziale contenuta nell'ordinanza in rassegna, secondo cui "Si tratta, in altre parole, di atti di diffida di natura paritetica volti alla tutela della proprietà comunale, a fronte dei quali sussistono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario sulle relative controversie", sulla quale il Tar ha fatto acriticamente leva per declinare la giurisdizione, è tuttavia correlata alla fattispecie concreta ivi dedotta in giudizio che, come risulta dalla parte in fatto della stessa ordinanza, riguardava una "azione di manutenzione nel possesso di un fabbricato e di terreni", in relazione ai quali il comune proprietario aveva ordinato "di rimuovere dalle dette particelle... qualsiasi oggetto e bene di proprietà entro 10 giorni dal ricevimento; con avvertenza che decaduto tale termine il Comune di... provvederà a rimuovere la recinzione della particella sopra citata nonché il manufatto esistente" aggiungendo che, in riferimento a tale missiva, il ricorrente aveva dedotto "che l'ordine con essa rivolto non trovava giustificazione nell'esercizio di un potere autoritativo dell'ente, costituendo, pertanto, una molestia al proprio possesso, nel quale chiese di essere mantenuto". Nel caso di specie, invece, è del tutto evidente che non si tratti di azione possessoria bensì di ordinanza di sgombero di un immobile di proprietà pubblica, adottato nell'esercizio di poteri autoritativi. Ciò posto, premesso che l'autorità amministrativa è titolare, in astratto, dei poteri di autotutela esecutiva, come ricordato anche dalle sezioni unite, ciò che discrimina la legittimità dell'uso di tale potere in concreto, è la natura del bene a tutela del quale esso viene esercitato. Nel declinare la giurisdizione il Tar ha compiuto un salto logico, omettendo di accertare proprio la natura del bene di cui è stato ordinato lo sgombero, al fine di verificare "se" quel potere concretamente esercitato, potesse essere esercitato oppure no. In altri termini il primo giudice, che sembrerebbe essersi orientato nel senso di ritenere l'ordinanza impugnata come riferibile ad un bene del patrimonio disponibile, quindi emessa in carenza di potere in concreto, anziché rispondere alla domanda di giustizia formulata dalla parte ricorrente, che sosteneva appunto tale tesi, erroneamente si è spogliato della giurisdizione. Osserva il Collegio che la risposta che, in questo caso, il giudice amministrativo deve dare è se il comune, nel caso di specie, possa esercitare i poteri autoritativi. Se la risposta dovesse essere positiva perché il bene viene fatto rientrare nel patrimonio indisponibile dell'ente, il ricorso (salvo l'esame delle ulteriori censure non scrutinate) andrebbe respinto in quanto, una volta verificato che l'area continua ad essere abusivamente adibita ad uso privato, legittimamente e doverosamente il comune deve attivare il proprio potere di autotutela esecutiva di cui all'art. 823 del codice civile, esercitabile anche a tutela dei beni del patrimonio indisponibile (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30 settembre 2015, n. 4554). Siffatto provvedimento avrebbe natura doverosa e vincolata e non necessiterebbe né della preventiva comparazione con gli interessi del privato occupante, non potendosi giammai ingenerare un affidamento "legittimo" in presenza di una situazione connotata da evidente abusività, né di specifica motivazione, se non quella necessaria a dare atto dell'accertamento dell'abusiva occupazione e nei confronti del quale non è configurabile il vizio di eccesso di potere, perché l'esercizio del potere di autotutela esecutiva si giustifica unicamente in ragione della perdurante occupazione sine titulo del bene pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 gennaio 2024, n. 862). Né, in tal caso, rileverebbe una eventuale iniziale tolleranza in merito all'occupazione del bene (tolleranza tutt'altro che sussistente nel caso di specie) non radicando un simile contegno dell'amministrazione alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all'occupante sine titulo (cfr., per il principio, Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4775). Se, viceversa, la risposta dovesse essere negativa, l'atto impugnato non potrebbe che essere annullato. Soltanto sulla successiva attività che il comune dovesse porre in essere affidandosi (questa volta correttamente) agli ordinari rimedi civilistici, mediante azioni petitorie o possessorie, si radicherebbe correttamente la giurisdizione del giudice ordinario: si tratta, tuttavia, di attività che, nel caso di specie, non risulta ancora posta in essere e che, esula, quindi dal thema decidendum. A maggior chiarimento di quale sia l'accertamento che il giudice deve compiere, valga richiamare una recente pronuncia (Cons. Stato, sez. V, 9 febbraio 2024, n. 1337), che ha affrontato il tema della corretta qualificazione del potere esercitato dal comune, in una fattispecie in cui era stato ingiunto lo sgombero di un immobile acquisito al patrimonio pubblico. Nella fattispecie ivi esaminata il Tar aveva accolto il ricorso sull'assorbente rilevo dell'illegittimo ricorso all'autotutela esecutiva con riferimento a un bene del patrimonio disponibile, sicché il comune non avrebbe potuto esercitare poteri autoritativi, ma avrebbe dovuto agire innanzi al giudice ordinario, ricorrendo agli strumenti previsti dalla legge per la tutela della proprietà e del possesso. Il Consiglio di Stato ha innanzitutto sciolto il dubbio sulla giurisdizione con le seguenti argomentazioni: - il provvedimento con il quale l'amministrazione comunale ordina lo sgombero di un immobile abusivamente realizzato, acquisito al patrimonio pubblico a seguito di inottemperanza all'ordine di demolizione, "costituisce esercizio di poteri pubblicistici di repressione dell'abusivismo e conseguentemente la giurisdizione appartiene al Giudice amministrativo" (C.g.a., sez. giur., 20 marzo 2020 n. 194); - l'atto di sgombero dell'immobile abusivo che sia stato acquisito al patrimonio comunale per inottemperanza all'ordine di demolizione notificato al privato - che si inserisce nell'ambito dei provvedimenti repressivi dell'abusivismo ordinariamente di competenza dirigenziale - ha dunque natura provvedimentale e autoritativa, essendo riconducibile all'esercizio di poteri pubblicistici dell'ente locale, il che dà luogo alla potestas iudicandi del giudice amministrativo sulle relative controversie; - a tal riguardo le sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 19889 del 22 settembre 2014, hanno chiarito che: "la giurisdizione in relazione al provvedimento di demolizione (e, per quel che concerne la fattispecie in esame, in relazione a quello "propedeutico" di sgombero) adottato dalla P.A. spetta al giudice amministrativo, e ciò a prescindere dalle ragioni addotte in tale provvedimento - che saranno eventualmente sindacate dinanzi a quel giudice - onde ogni eventuale contestazione circa la spettanza del relativo potere in capo alla Amministrazione che ha adottato il provvedimento ovvero circa le modalità con cui esso è stato esercitato (...) configura questione devoluta al giudice amministrativo"; - la giurisprudenza (cfr. C.g.a., sez. giur. 3 aprile 2018, n. 178), muovendo dalla considerazione per cui l'art. 823 c.c. ammette il ricorso dell'amministrazione all'esercizio dei poteri amministrativi al solo fine di tutelare i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile, ha affermato che il potere di autotutela esecutiva presuppone il previo accertamento della natura del compendio immobiliare oggetto di tutela recuperatoria, sicchè "l'Amministrazione può, ove richiesto, adottare solo i rimedi di carattere ordinario. Ipotesi che ricorre nella controversia oggetto dell'appello, non avendo l'immobile di cui si discute i requisiti che ne consentirebbero la qualificazione come bene appartenente al patrimonio indisponibile. Con la conseguenza che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia in ordine all'ordinanza di sgombero di un immobile che si colloca nell'alveo del patrimonio disponibile del comune, essendo stata tale ordinanza emessa in carenza assoluta di potere e, pertanto nulla, con conseguente lesione di diritti soggettivi tutelabili innanzi al giudice ordinario" (C.g.a., 3 aprile 2018, n. 178; anche Cons. Stato, sez. VII, 19 maggio 2023, n. 4987; Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934); - non sembra dubitabile che ogni qualvolta in cui l'atto di sgombero costituisca "nient'altro che il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, ossia della possibilità di essere portati ad esecuzione coattivamente ad opera della stessa amministrazione e senza l'intermediazione dell'autorità giudiziaria" (Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2015 n. 316), esso viene a configurarsi a guisa di vero e proprio provvedimento amministrativo, esecutivo di precedenti misure repressive di opere abusive, attratto, come tale, al sistema tipizzato delle sanzioni in materia edilizia, vertendosi in un'ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti in materia urbanistica ed edilizia ai sensi dell'art. 133, lett. f), c.p.a. (cfr. C.g.a., n. 194 del 2020 cit.). Ciò posto, la sentenza ha confermato la decisione del Tar attraverso i seguenti snodi argomentativi: - sebbene, come detto, l'amministrazione possa legittimamente agire seguendo le regole proprie dell'esercizio dei poteri autoritativi di sgombero nell'ambito del procedimento repressivo-ripristinatorio degli abusi edilizi così come tratteggiato dalla disciplina del d.P.R. n. 380 del 2001 al fine di ottenere il rilascio dell'immobile occupato da soggetti privati (il più delle volte gli ex proprietari), onde eseguire concretamente l'immissione in possesso finalizzata alla successiva demolizione dello stesso oppure, a determinate condizioni, al suo utilizzo per fini pubblici, di tanto, però, non vi è alcuna evidenza nell'ordinanza di sgombero impugnata; - se è vero che l'atto di sgombero è certamente strumento idoneo a perseguire il mancato rilascio dei beni, spesso occupati, anche dopo l'acquisizione, dagli stessi soggetti che hanno perpetrato l'illecito edilizio, deve, tuttavia, rilevarsi come il provvedimento impugnato non contenga alcun riferimento all'esercizio dei poteri repressivi in materia edilizia ai sensi dell'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001, né cenno alcuno all'abusività dei manufatti o a eventuali ordinanze di demolizione che non risultano nel frattempo neanche adottate (né la difesa dell'amministrazione ha dato prova contraria), avendo il comune soltanto disposto che l'ufficio tecnico avesse cura di provvedere alla loro adozione; - l'ordinanza di sgombero si limita, infatti, a enunciare che sui lotti occupati senza titolo dei ricorrenti in cui è suddiviso il terreno "vi sono dei manufatti edili diversi tra loro per tipologia, forma e utilizzo di materiali costruttivi con annessa strada interpoderale delimitata da due cancelli metallici, uno posizionato in corrispondenza della complanare, l'altra a delimitazione della spiaggia" e a richiamare succintamente alcune risalenti ordinanze con le quali, rispettivamente, si vietò di disporre con atto tra vivi dell'immobile, se ne dispose l'acquisizione di diritto al patrimonio del comune e si ordinò, a suo tempo, lo sgombero dell'area già occupata; ma non contiene il benché minimo riferimento alla commissione di abusi edilizi o indicazione sulla loro concreta consistenza; - solo in sede di giudizio, con le deduzioni processuali contenute negli atti di causa, il comune ha sostenuto che l'impugnata ordinanza di sgombero sia riconducibile ad attività esecutiva del procedimento repressivo e sanzionatorio di illeciti edilizi avviato nel 1992 con l'acquisizione del bene al patrimonio disponibile a seguito del contestato frazionamento per finalità edificatorie, viceversa il provvedimento non contiene alcun riferimento che consenta di ricondurlo all'esercizio dei poteri pubblicistici afferenti alle funzioni di controllo e sanzione in materia edilizia, avendo soltanto ordinato il rilascio del bene disponibile di sua proprietà occupato sine titulo, dichiarando espressamente di agire con lo strumento in parola per far fronte alla "occupazione di immobile di proprietà comunale"; - in assenza di elementi che consentano di configurare l'ordinanza in questione come il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, "non resta che ricondurre l'azione intrapresa dal comune, per come concretamente esercitata, ai poteri di autotutela disciplinati dall'art. 823 comma 2 del codice civile"; - "in tal caso, tuttavia, al cospetto di un bene al patrimonio disponibile del comune - quale pacificamente è il terreno oggetto della presente controversia acquisito gratuitamente al patrimonio dell'ente a seguito dell'illegittimo frazionamento per pretese finalità edificatorie contestato ai ricorrenti - il comune non avrebbe potuto esercitare l'autotutela amministrativa per le ragioni correttamente indicate dal primo giudice ma il recupero del bene avrebbe dovuto seguire, invece, le vie contrassegnate dagli strumenti giurisdizionali ordinari, a mezzo delle azioni possessorie o della rei vindicatio civilistica (Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934)"; - "i poteri di tutela esecutoria dell'amministrazione in presenza di occupazioni da terzi sono da ritenersi sine titulo quando la pubblica amministrazione agisca in area appartenente al patrimonio disponibile, dove l'esercizio di tale potere autoritativo non trova fondamento: l'autotutela demaniale si collega, infatti, al regime dominicale del bene pubblico, in coerenza con le funzioni amministrative di disciplina, ordinata gestione e uso del bene medesimo e con l'esigenza di "reagire" rispetto a condotte appropriative o usurpative di carattere privato". Quindi la sentenza ha concluso che sussiste una effettiva e comprovata divergenza, nei sensi sopra indicati, fra l'atto di sgombero e la sua funzione tipica, essendo stato il potere esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dalla norma di cui all'art. 823 c.c., attributiva dello stesso. Come si evince (anche) dalla decisione innanzi riportata, l'accertamento del giudice, ove si controverta di esercizio dei poteri di autotutela esecutiva, va svolto "in concreto", avendo riguardo alla fattispecie dedotta in giudizio e alle caratteristiche degli atti adottati. In conclusione l'appello è fondato e va accolto. Come noto, laddove sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, declinata in primo grado dal Tar, il giudice di secondo grado non può che annullare la sentenza impugnata, senza ulteriore trattazione della causa (cfr. tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2010, n. 7510), poiché, nel caso di erronea declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella sentenza di primo grado, la causa deve essere rimessa al Tar e da questi decisa, ai sensi dell'art. 105 c.p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6492). Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio al giudice di primo grado, secondo le modalità di cui all'art. 105, comma 3, del codice del processo amministrativo, non potendo il Consiglio di Stato pronunciarsi nel merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 847). 5. In ragione della particolarità della questione di giurisdizione esaminata, si può disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo e annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tar della Campania, dinanzi al quale il giudizio dovrà essere riassunto entro il termine di novanta giorni dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la pubblica amministrazione dia esecuzione alla presente decisione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1198 del 2024, proposto dal Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Mi. Gr. e Vl. Pe., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Mi. Gr. in Padova, Piazzale (...); contro El. Sa., rappresentata e difesa dall'avvocato An. Re. D'A., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); nei confronti della Regione Veneto e dell'Ente Parco Regionale dei Colli Euganei, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza n. 1564 del 2023 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione Seconda. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di El. Sa.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Eugenio Tagliasacchi e uditi per le parti gli avvocati presenti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in epigrafe il Comune di (omissis) ha impugnato la sentenza del T.a.r. Veneto n. 1564 del 2023 che ha accolto il ricorso proposto dalla signora El. Sa. avverso il silenzio serbato dall'anzidetto Comune in relazione all'istanza dalla medesima presentata in data 29 dicembre 2022 intesa a ottenere l'avvio del procedimento diretto all'approvazione della variante al Piano Ambientale del Parco dei Colli Euganei, necessaria per la prosecuzione dell'iter di approvazione dell'accordo di programma relativo al "progetto strategico turistico" ai sensi dell'art. 26 della l.r. Veneto n. 11 del 2004, proposto dalla ricorrente in primo grado e odierna appellata. 2. Più precisamente, l'originaria istanza della signora Sa. - presentata in data 28 dicembre 2015 prot. n. 19701 e poi successivamente integrata e specificata nel maggio 2016 - riguardava un "progetto strategico turistico" per la realizzazione di un'area adibita a servizi nell'ambito dell'anello ciclo-turistico dei Colli Euganei, con completamento della pista ciclabile lungo la S.P. n. 89 e lungo via (omissis). In estrema sintesi, tale istanza dapprima fu positivamente valutata dall'amministrazione comunale e il Sindaco del Comune di (omissis), nel maggio 2016, promosse un incontro con le associazioni di categoria al cui esito venne redatto un apposito verbale per la valutazione del progetto strategico turistico, come previsto dalla D.G.R.V. n. 450 del 2015. Successivamente, il Comune dispose la trasmissione degli atti alla Regione e, con Deliberazione n. 1770 del 2 novembre 2016, la Giunta Regionale riconobbe le caratteristiche di progetto strategico ai sensi dell'art. 15 della l.r. n. 32 del 2013, al fine avviare il procedimento relativo alla stipula di un Accordo di Programma. Poi, con decreto n. 11770/2016/1109 dell'1 febbraio 2017, l'Ente Parco dei Colli Euganei ha rilevato l'incompatibilità del progetto turistico rispetto alle previsioni del Piano ambientale, dichiarata anche nel successivo parere reso nella seduta del 3 marzo 2021 e con la successiva nota prot. 24141 del 14 dicembre 2021 l'Ente Parco dei Colli Euganei ha precisato che la procedura di variante del Piano ambientale avrebbe dovuto essere preceduta dall'adozione di una variante allo strumento urbanistico comunale. Infine con la nota prot. n. 21361 del 4 novembre 2022, il Sindaco del Comune di (omissis) ha segnalato alla signora Sa. la difformità del progetto rispetto alle previsioni del Piano di Assetto del Territorito (P.A.T.) e del Piano degli Interventi (P.I.) sostenendo di non poter "approvare una variante" al P.I. in difformità rispetto al P.A.T., che non prevede il Progetto Strategico Turistico in quanto in contrasto con il Piano ambientale; sotto diverso profilo ha rilevato che una eventuale variante al P.A.T. non solo sarebbe di competenza della Provincia, ma non sarebbe neppure attuabile poiché sarebbe, per l'appunto, in contrasto con il Piano Ambientale. 3. Dalle considerazioni che precedono risulta quindi che il procedimento relativo al progetto, in sostanza, non è stato proseguito a causa della divergenza emersa tra le amministrazioni con riferimento all'individuazione dell'iter da seguire per pervenire all'adozione delle modifiche al Piano Ambientale. 4. La signora Sa. - pertanto - ha presentato l'ulteriore e già menzionata diffida del 29 dicembre 2022 attraverso la quale ha chiesto che il Comune di (omissis) e l'Ente Parco dei Colli Euganei avviassero entro il termine di trenta giorni il procedimento volto all'adozione della variante al Piano Ambientale, necessaria per proseguire l'iter dell'accordo strategico turistico e, a fronte del silenzio del Comune, ha introdotto il presente giudizio avverso il silenzio. 5. Il T.a.r. Veneto, con la sentenza impugnata, ha accolto il ricorso rilevando che, nel caso di specie, l'obbligo di concludere il procedimento dipendeva dall'affidamento ingenerato in capo alla ricorrente. Ad avviso del giudice di prime cure, infatti, per la particolarità del caso di specie e per la specificità della posizione della ricorrente, sarebbe consentito discostarsi dal principio generale, secondo cui non è configurabile alcun obbligo di provvedere rispetto agli atti di pianificazione urbanistica, che risultano connotati da ampia discrezionalità nell'an e nel quomodo, con la conseguenza che sarebbe ravvisabile in capo all'amministrazione comunale uno specifico obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, eventualmente anche attraverso un rigetto nel merito della richiesta di avvio dell'iter di adozione delle varianti agli strumenti urbanistici comunali prodromiche alla variante generale al Piano Ambientale del Parco, dal momento che l'amministrazione comunale fino a quel momento non si era espressa nel merito limitandosi ad osservazioni definite "procedurali" (come quella di cui alla nota sindacale del 4 novembre 2022). 6. Avverso tale sentenza ha proposto appello il Comune di (omissis), prospettando anzitutto - nella parte in fatto - una diversa ricostruzione della vicenda procedimentale volta a porre in evidenza il difetto di competenza del Comune rispetto all'adozione degli atti propedeutici alla prosecuzione dell'iter, osservando, in proposito, che il Comune non sarebbe "l'Ente capofila" nel procedimento volto all'adozione dell'Accordo di Programma, né sarebbe titolare di un "autonomo onere di variante dello strumento urbanistico", né, ancora, sarebbe competente a variare il Piano Ambientale. In altri termini, il Comune appellante ritiene che l'arresto del procedimento debba essere imputato agli altri enti coinvolti e, sul punto, osserva, infatti, che: "gli Enti che avrebbero potuto/dovuto portare avanti il procedimento, in realtà, si arrestavano, sembrando pretendere che il Comune, seppur incompetente, facesse le loro veci". In questa prospettiva, pertanto, ad avviso dell'Ente locale, l'adozione della variante comunale integrava un adempimento non previsto dal procedimento di Accordo di Programma, che, al contrario, assorbirebbe di per sé la variante stessa rendendone così superflua l'adozione da parte del Comune e, inoltre, non si tratterebbe neppure di un adempimento richiesto per la Variante Generale al Piano Ambientale, che, secondo il Comune, l'Ente Parco avrebbe potuto avviare autonomamente. L'appellante sostiene, inoltre, di aver puntualmente rappresentato i predetti profili critici mediante la nota del 4 novembre 2022 nella quale il Sindaco di (omissis) ha indicato alla signora Sa. le ragioni per le quali il Comune non avrebbe potuto adottare la variante allo strumento urbanistico e, a fronte dell'ulteriore diffida del 29 dicembre 2022, l'amministrazione ha ritenuto di non dover dare ulteriori riscontri avendo, a suo dire, già indicato puntualmente le ragioni per le quali non sarebbe stato possibile dar seguito al procedimento, spettando la prosecuzione dell'iter alla Regione e all'Ente Parco. 6.1. Con il primo motivo di gravame, il Comune appellante sostiene che il ricorso di primo grado sia irricevibile o inammissibile in quanto proposto oltre il termine annuale previsto dall'art. 31, comma 2, c.p.a. dal momento che il procedimento ha avuto avvio nel dicembre 2015 con la presentazione dell'originaria istanza, mentre il ricorso è stato depositato solo nel 2023. Nella prospettazione del Comune, pertanto, la diffida del 29 dicembre 2022 non sarebbe una nuova istanza ma un mero sollecito per la prosecuzione del procedimento. Il Comune osserva inoltre che considerando l'anzidetta diffida alla stregua di un'istanza presentata ex novo nel 2022 non avrebbe potuto trovare applicazione l'art. 26, comma 2-ter, della l.r. Veneto n. 11 del 2004, che era stato medio tempore abrogato; mentre qualificandola come mera richiesta di variante urbanistica non sarebbe stato possibile configurare alcun obbligo di provvedere in capo al Comune. 6.2. Con il secondo motivo di gravame, il Comune contesta la sentenza sostenendo che il primo giudice abbia omesso di rilevare un ulteriore profilo di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio, in quanto l'istanza del 29 dicembre 2022 era da ritenersi la mera reiterazione di una precedente richiesta formulata dalla stessa ricorrente alla quale il Comune - con il già richiamato provvedimento del Sindaco del 4 novembre 2022 - aveva dato riscontro, indicando le ragioni ostative alla prosecuzione del procedimento attraverso l'adozione, da parte del Comune medesimo, di una variante urbanistica. Tale provvedimento - che non è stato impugnato - aveva indicato le ragioni poste a fondamento dell'incompetenza del Comune di (omissis) e della conseguente impossibilità di adottare una variante. Conseguentemente, il giudice avrebbe errato a qualificare la nota sindacale del 4 novembre 2022 quale atto "meramente interlocutorio" nonché "proveniente da Organo non competente alla pianificazione". 6.3. Con il terzo motivo di gravame, insiste nel sostenere che in capo al Comune non sussista alcun obbligo di adottare la variante urbanistica in considerazione di quanto previsto dall'art. 26, comma 2-ter, della l.r. Veneto n. 11 del 2004 e dalla D.G.R.V. n. 450/2015. 7. Si è costituita in giudizio El. Sa. eccependo l'inammissibilità dell'appello per difetto di interesse poiché a seguito della sentenza del T.a.r., con la deliberazione del Consiglio Comunale n. 68 del 27 dicembre 2023, comunicata con nota del 28 febbraio 2024, il Comune ha rigettato l'istanza della Sa. ritenendo di non poter accogliere la proposta di accordo di programma. La delibera dispone testualmente di rigettare "l'istanza presentata in data 29.12.22 dalla ditta Sa. Elisa volta all'introduzione di una Variante al Piano di Assetto del Territorio (P.A.T.) e di una Variante al Piano degli Interventi e per l'effetto di rigettare anche l'istanza volta all'adozione delle determinazioni necessarie a dare impulso all'approvazione di una Variante al Piano Ambientale del Parco Colli Euganei". Ad avviso della signora Sa. si tratta, dunque, di un provvedimento espresso adottato successivamente alla pubblicazione della sentenza appellata e già impugnato, a sua volta, davanti al T.a.r., con la conseguenza che l'appello dovrebbe a suo dire essere dichiarato inammissibile. Ferma restando l'eccezione che precede, la parte appellata ha replicato nel merito alle censure del Comune. 8. Con la memoria di replica del 3 maggio 2024, il Comune di (omissis) insiste nel sostenere che la variante dello strumento urbanistico non è riconducibile alla sfera decisionale del Comune, trattandosi di una conseguenza diretta e immediata della procedura di approvazione dell'accordo di programma avente ad oggetto un intervento di interesse regionale. Con riferimento all'eccezione di inammissibilità dell'appello a seguito della delibera n. 68 del 27 dicembre 2023, il Comune di (omissis) eccepisce la tardività del deposito della delibera medesima e sostiene che l'eccezione sia comunque infondata dal momento che l'anzidetta delibera è stata adottata solo per ottemperare alla sentenza immediatamente esecutiva, sicché "l'Amministrazione comunale ha un interesse attuale e concreto ad ottenere una pronuncia della presente impugnazione, posto che l'accertamento dell'insussistenza, in capo alla medesima, di un obbligo di provvedere renderebbe inutiliter data la stessa Delibera consiliare n. 68/2023". 9. Tanto premesso, il Collegio - trattenuta la causa in decisione alla camera di consiglio del 16 maggio 2024 - reputa che l'appello non sia fondato. 10. Preliminarmente, va esaminate l'eccezione di inammissibilità dell'appello per difetto di interesse, in considerazione dell'adozione del provvedimento espresso mediante la delibera n. 68 del 27 dicembre 2023. Si deve, infatti, escludere che con l'anzidetta delibera il Comune abbia inteso fare acquiescenza alla sentenza, dal momento che nella delibera stessa si legge espressamente quanto segue: "il presente provvedimento viene assunto in forza di quanto disposto dalla sentenza T.A.R. Veneto n. 1564 del 6.11.2023, esecutiva, al fine di ottemperare a un obbligo giudiziale, senza che, però, il Comune intenda fare acquiescenza alla predetta pronuncia e, quindi, con riserva di proporre avverso la stessa impugnazione". Sul punto, il Collegio intende dare continuità al consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato, secondo cui dall'esecuzione della sentenza di primo grado non si può desumere l'acquiescenza alla sentenza stessa, dal momento che l'esecuzione della pronuncia, in assenza di misure cautelari del giudice d'appello, è un dovere dell'amministrazione soccombente, salvo il caso in cui l'amministrazione abbia dichiarato espressamente di accettare la decisione o che comunque tale accettazione sia evincibile dal complessivo comportamento tenuto; in questo senso, ex multis, cfr. Cons. Stato, Sez. II, 20 novembre 2023, n. 9909; Cons. Stato, Sez. II, 2 ottobre 2023, n. 8614; Cons. Stato, Sez. V, 1 dicembre 2022, n. 10565. L'infondatezza dell'eccezione di inammissibilità dell'appello consente di prescindere dall'esame dell'ulteriore eccezione, sollevata dal Comune, concernente la tardività del deposito della delibera n. 68 del 27 dicembre 2023, fermo restando comunque che il contenuto della delibera non è stato contestato dal Comune. 11. Passando all'esame dei motivi di gravame, il Collegio rileva che la prima censura, concernente l'inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio per decorso del termine annuale previsto dall'art. 117 c.p.a., è infondato poiché occorre avere riguardo non già, come sostenuto dal Comune appellante, al procedimento avviato con l'istanza presentata in data 28 dicembre 2015 prot. n. 19701, bensì al diverso procedimento di cui all'istanza del 29 dicembre 2022, concernente la variante urbanistica che, come già affermato dal T.a.r., di regola non fa sorgere alcun obbligo di provvedere in capo al Comune. Tuttavia, nel caso di specie, sussistono una pluralità di elementi che impongono all'amministrazione, per fondamentali esigenze di tutela dell'affidamento del privato, di riscontrare espressamente la predetta istanza. In primo luogo, assume rilievo la circostanza che, nella prospettiva della signora Sa. si trattasse di un adempimento da considerare non già in sé e per sé, bensì da inserire nel contesto della prosecuzione dell'iter procedimentale per la realizzazione del progetto strategico turistico dalla medesima proposto. In secondo luogo, assume rilievo anche la circostanza che la signora Sa. si sia trovata di fronte a una situazione del tutto peculiare connotata da una disciplina regionale senza dubbio di per sé caratterizzata da profili di una certa complessità e ulteriormente complicata dall'evidente contrapposizione venutasi a creare tra le amministrazioni coinvolte nel procedimento con riferimento ai successivi passaggi necessari per la prosecuzione dell'iter, come chiaramente si desume dai documenti versati in atti e, in particolare, dalla già menzionata nota del 4 novembre 2022 del Sindaco di (omissis) nonché dalla nota dell'Ente Parco dei Colli Euganei del 14 dicembre 2021 che aveva fatto presente la necessità della preventiva adozione della variante urbanistica da parte del Consiglio Comunale. Oltre a ciò, come già osservato dal T.a.r., non può essere ritenuta priva di rilevanza neppure la circostanza che il Comune medesimo aveva assunto un ruolo non secondario nell'ambito dell'iter per l'approvazione dell'accordo di programma, come dimostrato dal fatto che aveva dapprima promosso un incontro con le associazioni di categoria per la valutazione del progetto e aveva poi trasmesso alla Regione, in data 1 giugno 2016, l'istanza di attivazione del progetto stesso, chiedendo la prosecuzione dell'iter. Inoltre, già con la D.G.R. n. 1770 del 2015, la Regione aveva deliberato "di confermare che il progetto per la realizzazione di un'area adibita a servizio dell'anello ciclo - turistico dei Colli Euganei, con completamento della pista ciclabile lungo la SP n. 89 e via (omissis), e l'urbanizzazione e realizzazione di una nuova zona residenziale denominata "Al frutteto" in Comune di (omissis) (PD), riveste le caratteristiche di progetto strategico". Conseguentemente, il primo motivo di appello è infondato, non potendosi condividere la prospettazione di parte appellante né con riferimento all'eccezione di tardività del ricorso introduttivo, né avuto riguardo all'assenza di un obbligo di provvedere in capo al Comune, che, al contrario, è desumibile dalle caratteristiche del tutto peculiari del procedimento e dalla necessità di tutelare l'affidamento del privato a fronte di divergenti indicazioni delle amministrazioni coinvolte. 12. Anche il secondo motivo di appello, con cui il Comune ha sostenuto che il T.a.r. dovesse rilevare l'inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio, avendo l'amministrazione già risposto con la nota del 4 novembre 2022, è infondato. Sul punto è dirimente la circostanza che l'anzidetta nota risulta essere meramente interlocutoria come è agevole desumere dalla precisazione con cui il Sindaco di (omissis) comunica letteralmente quanto segue: "sperando di aver contribuito ad un approfondimento dello stato dell'arte sul Progetto Strategico Turistico". Si tratta, infatti, di un contenuto di carattere non già provvedimentale, bensì solo interlocutorio, che per l'appunto offre un mero contributo di approfondimento con l'essenziale finalità di pervenire alla corretta interpretazione delle disposizioni, in conformità con il dovere di leale collaborazione. 13. Con riferimento, infine, al terzo motivo di gravame per il cui tramite il Comune sostiene che non sussista alcun suo obbligo di adottare la variante urbanistica in considerazione di quanto previsto dall'art. 26, comma 2-ter, della l.r. Veneto n. 11 del 2004, si deve rilevare come tale osservazione sia sostanzialmente inconferente rispetto alla ratio decidendi della sentenza del T.a.r., la quale, per le ragioni già illustrate, ha correttamente affermato la sussistenza dell'obbligo di provvedere in capo al Comune, precisando espressamente che l'amministrazione comunale ben avrebbe potuto respingere l'istanza (eventualmente anche alla luce delle ragioni indicate nell'ambito del terzo motivo di gravame). 14. Dalle considerazioni che precedono discende, dunque, il rigetto dell'appello. 15. Le spese processuali del presente grado sono integralmente compensate in ragione della complessità e della peculiarità della fattispecie. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Neri - Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere Paolo Marotta - Consigliere Eugenio Tagliasacchi - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: FEDERICO SORRENTINOPresidente ORONZO DE MASIConsigliere LIBERATO PAOLITTOConsigliere MILENA BALSAMOConsigliere FRANCESCA PICARDIConsigliere-Rel. Oggetto: TRIBUTI ALTRI Ud.17/05/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 18475/2020 R.G. proposto da: INOX VILLA SRL, elettivamente domiciliata in ROMA CIRCONVALLAZIONE CLODIA 36, presso lo studio dell’avvocato VAVALA' RAFFAELE MARIO (VVLRFL55D26I639J), rappresentato e difeso dall'avvocato COPPOLA DANIELA (CPPDNL69D55F205Z) -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587), che la rappresenta e difende -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. LOMBARDIA n. 4185/2019 depositata il 24/10/2019, udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17/05/2024 dal Consigliere FRANCESCA PICARDI. FATTI DI CAUSA 1. Inox Villa s.r.l. ha impugnato l'avviso di liquidazione emesso dall’Agenzia delle Entrate con riferimento al decreto ingiuntivo del Tribunale di Monza, n. 5316 del 2014, deducendo l’illegittimità della doppia imposizione, in quanto le fatture poste a fondamento del decreto ingiuntivo erano già state assoggettate ad i.v.a., e la carenza di motivazione dell’atto impugnato. 2.Il ricorso è stato accolto in primo grado. Nella sentenza di primo grado si legge che «le fatture .. rappresentano l’unica documentazione commerciale necessaria ai fini processuali, senza che vi sia enunciazione di alcun rapporto» e «che l’atto impugnato si appalesa illegittimo anche sotto il profilo del vizio di motivazione». 3. All’esito dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, la sentenza di primo grado è stata riformata. Nella sentenza di appello, previo rigetto dell’eccezione di inammissibilità, si conclude «quando sia enunciato che le fatture derivano da operazioni di fornitura di merci soggette ad i.v.a., operazioni negoziali da registrare in caso di uso ai sensi degli artt. 22 e 40 del d.P.R. n. 131 del 1986, anche tale enunciazione deve essere tassata». 4. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, la contribuente. 5. Si è costituita con controricorso l’Agenzia delle Entrate, che ha eccepito la tardività del ricorso e ne ha chiesto, comunque, il rigetto del ricorso. 6. La contribuente ha depositato istanza di rimessione in termini, allegando di aver avviato il procedimento di notificazione del ricorso per cassazione prima della scadenza del termine, ma di non essere riuscita a completarlo per le modalità organizzative dell’ente destinatario, che, a causa dell’emergenza sanitaria, ha disposto la chiusura dell’ufficio e lo svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti da casa. 5. Risultano depositate la memoria della contribuente e le conclusioni scritte della Procura Generale, che ha chiesto rigettarsi il ricorso. 8.La causa è stata trattata e decisa all’udienza pubblica del 17 maggio 2024. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.La contribuente ha dedotto: 1) la violazione e falsa applicazione, ai sensi all'art. 360, primo comma 1, n. 3, cod.proc.civ., degli artt. 22 e 40 del d.P.R. n. 131 del 1986, atteso che il concetto di enunciazione non si esaurisce nella allegazione, quale antefatto, della generica esistenza di un rapporto giuridico, sotteso alle fatture commerciali poste a fondamento del decreto ingiuntivo e che una diversa conclusione non può basarsi sulla circolare n. 34/E del 2001 dell’Agenzia, che non è un atto normativo; 2) l’omesso esame, ai sensi all'art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., di un fatto decisivo per il giudizio e, cioè, della carenza di motivazione dell’atto impositivo, che non consente di comprendere la quantificazione della somma pretesa – fatto dedotto in primo grado ed oggetto di un motivo del ricorso introduttivo accolto, ma di cui il giudice di appello non ha tenuto conto, nonostante la censura di appello sul punto. 2. In primo luogo la ricorrente va rimessa in termini, ai sensi dell’art. 155 cod.proc.civ. Difatti, le circostanze di fatto allegate e non contestate dalla controricorrente, oltre che confermate dalla documentazione relativa al procedimento di notificazione, hanno determinato la sua decadenza dall’impugnazione per causa ad essa non imputabile. Più precisamente il primo procedimento di notificazione (tempestivamente avviato ed immediatamente rinnovato) non si è positivamente concluso in conseguenza della chiusura al pubblico degli uffici dell’Agenzia delle Entrate, destinataria dell’atto, in considerazione dell’emergenza sanitaria del 2020. Non è, tuttavia, necessaria la concessione di un termine per rinnovare la notifica, essendosi concluso positivamente il secondo procedimento di notificazione immediatamente avviato dalla ricorrente ed essendosi, difatti, costituita la controricorrente. 3. In ordine al primo motivo, avente ad oggetto l’imposta di registro sul rapporto sottostante al decreto ingiuntivo, occorre premettere che la mera enunciazione di un atto soggetto a registrazione in caso d'uso in altro atto registrato, pur non configurandosi, di per sé, come ipotesi di uso ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. n. 131 del 1986, ne comporta l'assoggettamento ad imposta a prescindere dall'uso, ai sensi del successivo art. 22 (così Cass., Sez. 5, 29 gennaio 2024, n. 2684, che ha confermato la decisione impugnata, secondo cui andava assoggettato ad imposta il contratto di prestazione d'opera richiamato in un decreto ingiuntivo, pur non costituendo ipotesi di uso del predetto). Va, però, precisato che, per potersi configurare l’enunciazione, è necessario che nell'atto sottoposto a registrazione vi sia espresso richiamo al negozio posto in essere, sia che si tratti di atto scritto o di contratto verbale, con specifica menzione di tutti gli elementi costitutivi di esso che servono ad identificarne la natura ed il contenuto in modo tale che lo stesso potrebbe essere registrato come atto a sé stante. Pertanto, la tassazione per enunciazione non può operare se nell'atto soggetto a registrazione siano menzionate circostanze dalle quali possa solo dedursi che esiste tra le parti il rapporto giuridico non denunciato, essendo sempre necessario che le circostanze enunciate siano idonee di per sé stesse, e, cioè, senza necessità di ricorrere ad elementi non contenuti nell'atto, a dare certezza di quel rapporto giuridico. Nel caso di specie, il giudice di merito ha accertato l’avvenuta enunciazione, precisando che dal decreto ingiuntivo risulta che le fatture derivano da un rapporto di fornitura di merci, i cui elementi sono specificati, sicché il motivo non merita accoglimento e deve essere rigettato. Solo per completezza deve sottolinearsi che l’accertamento di fatto effettuato dal giudice di merito non può essere rimesso in discussione in sede di legittimità e che sul punto non è stata formulata alcuna doglianza riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. 4. Il secondo motivo di ricorso, formulato ai sensi all’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ., deve essere riqualificato e ricondotto nell’ambito applicativo dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., visto che denuncia l’omessa motivazione della sentenza impugnata in ordine all’accoglimento (implicito) del motivo di appello formulato dall’Agenzia relativamente alla motivazione dell’atto impositivo. In proposito occorre ribadire che il ricorso, che denunci l’apparente o omessa motivazione, in violazione dell'art. 132 cod.proc.civ., non può essere accolto qualora la questione giuridica sottesa sia comunque da disattendere, non essendovi motivo per cui un tale principio, formulato rispetto al caso di omesso esame di un motivo di appello, e fondato sui principi di economia e ragionevole durata del processo, non debba trovare applicazione anche rispetto al caso, del tutto assimilabile, in cui la motivazione resa dal giudice dell'appello sia, rispetto ad un dato motivo, sostanzialmente apparente, ma suscettibile di essere corretta ai sensi dell'art. 384 cod.proc.civ. (Cass., Sez. L., 1° marzo 2019, n. 6145). La censura deve essere, pertanto, rigettata in applicazione dell’orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema di imposta di registro su atti giudiziari, l'obbligo di motivazione dell'avviso di liquidazione, gravante sull'Amministrazione, è assolto con l'indicazione della data e del numero della sentenza civile o del decreto ingiuntivo, senza necessità di allegazione dell'atto, purché i riferimenti forniti lo rendano agevolmente individuabile, e conseguentemente conoscibile senza la necessità di un'attività di ricerca complessa, realizzandosi in tal caso un adeguato bilanciamento tra le esigenze di economia dell'azione amministrativa ed il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente (Cass., Sez. 5, 7 aprile 2022, n. 11283). 5.In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio devono essere integralmente compensate, in considerazione delle specifiche circostanze del caso concreto e del rigetto dell’eccezione pregiudiziale di rito di tardività del ricorso. P.Q.M. La Corte: rigetta il ricorso; dichiara integralmente compensate le spese di questo giudizio; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, il 17/05/2024. Il Consigliere estensore Il Presidente FRANCESCA PICARDI FEDERICO SORRENTINO

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7690 del 2023, proposto da An. Al. ed altri, tutti rappresentati e difesi dall'Avvocato Se. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Treviso, via (...); contro Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministero pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Consap - Concessionaria Servizi Assicurativi Pubblici s.p.a., non costituita in giudizio; Commissione Tecnica del Fondo Indennizzo Risparmiatori, non costituita in giudizio; nei confronti Ve. Ba. s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, non costituita in giudizio; Ba. Po. di Vi. s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, non costituita in giudizio; Ca. Gi., non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza n. 2489 del 13 febbraio 2023 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. II, resa tra le parti, che ha respinto il ricorso contro il silenzio proposto in primo grado dagli odierni appellanti e volto, previo riconoscimento dell'errore scusabile e conseguente rimessione in termini ex art. 37 c.p.a. dei ricorrenti, a fare comunque annullare in via subordinata i provvedimenti emessi nei confronti dei ricorrenti, prodotti dal n. 1 al n. 163) con cui è stato negato l'accesso al Fondo Indennizzo Risparmiatori (FIR) e, in particolare, nella parte in cui, dopo aver ritenuto insussistenti i requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario, hanno concluso che "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145, ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024 il Consigliere Massimiliano Noccelli e viste le conclusioni delle parti come da verbale; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. I ricorrenti indicati in epigrafe sono risparmiatori danneggiati dalle vicende che hanno riguardato la Ve. Ba. e la Ba. Po. di Vi., poste entrambe in liquidazione coatta amministrativa. 1.1. Nel mese di febbraio 2020 hanno presentato domanda per ottenere l'erogazione di un indennizzo forfettario da parte del Fondo indennizzo risparmiatori (FIR) previsto dall'art. 1, comma 493, della legge del 30 dicembre 2018, n. 145, in favore dei risparmiatori danneggiati dalle banche poste in liquidazione coatta amministrativa, "dopo il 16 novembre 2015 e prima del 1° gennaio 2018", al ricorrere dei presupposti ivi stabiliti. 1.2. Nel periodo compreso tra il 7 dicembre 2021 e il 28 dicembre 2021 hanno ricevuto, tramite la piattaforma predisposta da parte di Cosap che gestisce le richieste di indennizzo, prima la comunicazione sul "cambio di stato" della loro domanda di indennizzo e dopo il rigetto della domanda. 1.3. In particolare, Consap faceva pervenire all'interessato la comunicazione secondo cui, testualmente, "in relazione alla Sua posizione, come certificato dall'AdE, non sono stati soddisfatti i requisiti reddito-patrimoniali ai fini dell'accesso alla procedura di indennizzo forfettario di cui all'art, 1, co. 502 bis, L. 30.12.2018, n. 145" e "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145, ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". 1.4. Benché la domanda di indennizzo forfettario fosse stata respinta da Consap, i ricorrenti hanno ritenuto che il procedimento per il riconoscimento dell'indennizzo non si fosse in realtà concluso in quanto l'amministrazione avrebbe dovuto comunque convertire la domanda di indennizzo forfettario (art. 1, comma 502-bis) in domanda di indennizzo ordinario (art. 1, comma 501) in virtù dell'auto-vincolo espresso con la Comunicazione della Segreteria Tecnica di Consap del 6 agosto 2020. 1.5. Quest'ultimo atto prevede infatti che in caso di controllo negativo sui requisiti reddituali posti a fondamento della domanda di indennizzo ordinario "sarà inviata all'utente apposita richiesta di integrazione istruttoria al fine di raccogliere, in primo luogo, l'eventuale dichiarazione sul possesso del requisito patrimoniale (< 100.000 euro), e, in secondo luogo ed in via alternativa - dunque in mancanza dei requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario - la documentazione relativa alle violazioni massive del T.U.F.". 1.6. Dopo aver diffidato in data 20 ottobre 2022 il Ministero dell'Economia e delle Finanze e Consap s.p.a. a concludere il procedimento mediante "passaggio alla procedura di indennizzo ordinaria di cui all'art. 1, co. 493, L. 30.12.2018, n. 145" previa acquisizione della "documentazione volta a comprovare il possesso dei relativi requisiti", gli istanti hanno impugnato avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma (di qui in avanti, per brevità, il Tribunale), il silenzio formatosi sulla predetta diffida chiedendo di accertare "il silenzio-inadempimento delle Amministrazioni resistenti per quanto di rispettiva competenza, alla determinazione dalla Commissione Tecnica assunta nella seduta del 06.08.2021 e all'atto di diffida di cui sopra" ai sensi e per gli effetti degli artt. 31 e 117 c.p.a. 1.7. In via subordinata, i ricorrenti in prime cure hanno altresì proposto domanda di annullamento, previa rimessione in termini ex art. 37 c.p.a., dei provvedimenti emessi nei lori confronti con cui è stato negato l'accesso all'indennizzo forfettario di cui all'art. 1, comma 501, della l. n. 145 del 2018. 1.8. Le pubbliche amministrazioni intimate si sono costituite nel primo grado del giudizio soltanto formalmente. 1.9. All'udienza dell'8 febbraio 2023, dopo la discussione di rito, la causa è stata trattenuta in decisione dal primo giudice. 2. Il Tribunale, con la sentenza n. 2489 del 13 febbraio 2023, ha respinto il ricorso contro il silenzio. 2.1. In particolare, il primo giudice, richiamando la sentenza n. 664 del 29 gennaio 2023 di questa Sezione, ha statuito che non sussiste l'obbligo di provvedere sull'istanza di parte ricorrente in quanto l'amministrazione non è obbligata a convertire la domanda di indennizzo forfettario che è stata rigettata in domanda di indennizzo massivo, attesa l'autonomia dei due distinti procedimenti, né in base alla legge (all'art. 1, commi da 493/501-bis, della l. n. 145 del 2018), né in base ad atti di auto-vincolo (deliberazione della Segreteria Tecnica di Consap del 6 agosto 2020). 2.2. Di conseguenza, non sussistono gli estremi per concedere la rimessione in termini ai sensi dell'art. 37 c.p.a. al fine di poter ritenere tempestivamente impugnati i provvedimenti di rigetto delle domande di indennizzo forfettario conosciute nel mese di dicembre 2021. 2.3. Sempre secondo il primo giudice, infatti, i ricorrenti avrebbero con le loro censure posto una questione sostanziale, nell'assumere che l'art. 1, comma 501, della l. n. 148 del 2018 non preclude la possibilità di applicare il procedimento ordinario anche alle domande attivate tramite il canale dell'indennizzo forfettario (art. 1, comma 502-bis). 2.4. Si tratterebbe tuttavia di una questione che attiene al merito della controversia che non incide, in quanto tanto, sull'esercizio del potere processuale di reagire contro la comunicazione del rigetto della domanda di indennizzo forfettario ricevuto da Cosap che i ricorrenti avrebbero potuto senza altro impugnare anziché attendere la conversione del procedimento, conversione che, peraltro, non era stata neppure comunicata in via diretta. 3. Avverso questa sentenza hanno proposto appello gli interessati, meglio in epigrafe indicati, lamentandone l'erroneità, e ne hanno chiesto la riforma, al fine di far riconoscere, in via preliminare, l'errore scusabile e conseguentemente, previa rimessione in termini ex art. 37 c.p.a. dei ricorrenti, accogliere il ricorso di primo grado - se ritenuto necessario, anche previa sottoposizione della questione di costituzionalità formulata - e per l'effetto annullare i provvedimenti emessi nei confronti dei ricorrenti, prodotti dal n. 1 al n. 163, che hanno negato l'accesso all'indennizzo e, in particolare, nella parte in cui, dopo aver ritenuto insussistenti i requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario, hanno concluso che "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145., ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". 3.1. Si è costituito il Ministero appellato per eccepire l'inammissibilità e, nel merito, l'infondatezza dell'appello. 3.2. Nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024 il Collegio, non essendo presenti i difensori delle parti, ha comunque rilevato d'ufficio, facendola constare a verbale, ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a., la questione inerente all'eventuale irricevibilità dell'appello per violazione del termine dimidiato di cui all'art. 87, commi 2 e 3, c.p.a. e, all'esito, ha trattenuto la causa in decisione. 4. L'appello è irricevibile. 5. Invero, come il Collegio ha rilevato d'ufficio nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024, ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a., nell'assenza dei difensori delle parti (che non può precludere al Collegio, solo per la scelta di non presenziare all'udienza da parte di questi, la possibilità di indicare questioni rilevabili d'ufficio in udienza e di farle constare a verbale), l'appello presenta evidenti profili di irricevibilità (art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a.) perché esso è stato notificato il 25 settembre 2023, ben oltre il termine di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza impugnata. 6. Al riguardo si deve rammentare che il ricorso di primo grado era rivolto ai sensi dell'art. 117 c.p.a. contro il silenzio del Ministero sulla domanda di indennizzo proposta dagli appellanti e, dunque, essi avevano l'onere di impugnare la sentenza, che ha respinto la loro domanda, nel termine dimidiato previsto dall'art. 87, commi 2 e 3, c.p.a. (v., ex plurimis, C.G.A.R.S., sez. giurisd., 8 maggio 2013, n. 455). 6.1. Il rito sul silenzio è assoggettato a termini processuali dimezzati rispetto a quelli ordinari, salvo quelli concernenti la notificazione del ricorso introduttivo in primo grado (art. 87, commi 2 e 3, c.p.a.). 6.2. È noto che, secondo la previsione dell'art. 87, comma 3, c.p.a. (nel testo conseguente alle modifiche apportate dal primo correttivo del 2011), nei giudizi che si svolgono in camera di consiglio di cui al comma 2 - tra cui il giudizio in materia di silenzio - l'eccezione alla regola generale del dimezzamento dei termini processuali è circoscritta al solo giudizio di primo grado e, pertanto, tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne, nel giudizio di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 27 giugno 2022, n. 5233). 6.3. Né in senso contrario nel caso qui in esame, a giustificare la tardiva proposizione dell'appello e rendere scusabile il relativo errore, può rilevare che la trattazione del ricorso in appello - a differenza di quanto accaduto, invece, ritualmente in primo grado - sia avvenuta in udienza pubblica anziché con il rito camerale, in quanto è pure noto - anzitutto agli stessi appellanti, che non potevano incolpevolmente ignorare tale dato normativo - che ai sensi dell'art. 87, comma 4, c.p.a. la trattazione in udienza pubblica non è causa di nullità della decisione, ma costituisce anzi una maggiore garanzia di contraddittorio per le parti. 7. Da tanto discende che l'appello, notificato oltre il termine lungo dimidiato di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza, è irricevibile per tardività . 8. Le spese del presente grado del giudizio, considerato il rilievo officioso della questione nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024 nell'assenza dei difensori, possono essere interamente compensate tra le parti. 8.1. Rimane definitivamente a carico degli appellanti il contributo unificato corrisposto per la proposizione dell'irricevibile gravame. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, proposto dai ricorrenti in epigrafe indicati, lo dichiara irricevibile per tardività . Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado del giudizio. Pone definitivamente e solidalmente a carico degli appellanti il contributo unificato richiesto per la proposizione del gravame. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere, Estensore Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere

  • 1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Responsabilità civile per danno da animale selvatico GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. CHIARA GRAZIOSI Consigliere ENZO VINCENTI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 PAOLO PORRECAConsigliere Ud.22/4/2024 PU Cron. R.G.N24493/2021 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 24493/2021 R.G. proposto da: ATC AMBITO TERRITORIALE DI CACCIA RAVENNA 3, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II 308, presso lo studio dell’avvocato RUFFOLO UGO (RFFGUO42D02I872U) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato LOCCISANO VALTER (LCCVTR76B01I725W) -ricorrente- contro PAGLIAI ARMANDO E GIORGIO SS SOC. AGRICOLA AZIENDA AGRICOLA PAGLIAI, elettivamente domiciliato in Roma via delle Milizie 2 22, presso lo studio dell’avvocato ARONICA WALTER (RNCWTR80P23H501A) rappresentato e difeso dall'avvocato DOLCINI SILVIA (DLCSLV59H58D458J) -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO BOLOGNA n. 1136/2021 depositata il 11/05/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 22/04/2024 dal Consigliere ENRICO SCODITTI; sentite le parti ed il Pubblico Ministero GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA. Fatti di causa 1. Con atto di citazione notificato in data 11 luglio 2012 l’Azienda Agricola Pagliai Armando e Giorgio s.s. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Ravenna l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 chiedendo il risarcimento del danno causato dall’azione di cinghiali e caprioli sui propri fondi coltivati siti nel Comune di Brisighella. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando il convenuto al risarcimento del danno nella misura di Euro 20.965,00, oltre accessori. 3. Avverso detta sentenza propose appello l’Ambito Territoriale. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 11 maggio 2021 la Corte d’appello di Bologna rigettò l’appello. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, che, diversamente da quanto affermato da Cass. n. 2374 del 2016 in relazione ad un fatto accaduto nel 1997, in relazione al fatto in questione, verificatosi nel 2011, doveva aversi riguardo, ai fini del riconoscimento della sussistenza della legittimazione passiva del convenuto, alle modifiche intervenute prima con la legge regionale n. 3 6 del 2000, e poi con la legge regionale n. 16 del 2007, alla legge regionale n. 8 del 1994. In particolare, osservò quanto segue. «L’art. 17 della L.R. 8/1994 prevedeva nella formulazione originaria che gli oneri per il contributo al risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate su terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica sono a carico delle Provincie, qualora siano provocati nelle zone di protezione, anche se in gestione convenzionata ovvero, per quanto di rilievo in questa sede, degli ambiti territoriali di caccia qualora si siano verificati nei fondi ivi compresi. Con la L.R. 6/2000 si è disposto che la legittimazione è degli ambiti territoriali di caccia, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi, oppure delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all'art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. Con L.R. 16/2007 si è provveduto a modificare ulteriormente la disciplina di cui trattasi confermando la legittimazione degli ambiti territoriale di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi». 5. Ha proposto ricorso per cassazione l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 sulla base di un motivo. Resiste con controricorso la parte intimata. Il Pubblico Ministero ha presentato le conclusioni scritte, concludendo per l’accoglimento del ricorso. E’ stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 26 legge n. 157 del 1992, 16, 17 e 18 legge regionale n. 8 del 1994, 111 Cost., 132 n. 4 e 118 att. cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha ravvisato la sussistenza della legittimazione passiva in capo al ricorrente nonostante le modifiche richiamate alla 4 legge regionale non modificassero, per la parte rilevante, la legge regionale n. 8 del 1994, così come interpretata da Cass. n. 2375 del 2016, la quale aveva individuato nella Provincia il soggetto passivamente legittimato, posto che la lieve modifica intervenuta aveva toccato solo l’art. 17, il quale prevede, come affermato da Cass. n. 2375 del 2016, la ripartizione interna fra la Provincia e gli altri soggetti (fra cui l’Ambito Territoriale) degli oneri relativi ai contributi per il fondo regionale, previsto dall’art. 26 legge n. 157 del 1992 per i danni arrecati alle produzioni agricole dalle specie di fauna selvatica cacciabile. Aggiunge che la motivazione, alla luce di quanto osservato, risulta anche apparente. 1.1 Deve premettersi all’esame del motivo che il ricorrente ha depositato copia della sentenza impugnata, con asseverazione di autenticità, priva però dell’indicazione della data di pubblicazione (c.d. glifo). La questione, per come ha già trovato modo di declinarsi nella giurisprudenza di questa Corte, è riassumibile nei seguenti termini: se il deposito di sentenza digitale priva della stampigliatura (quest’ultima indicata, in taluni precedenti, atecnicamente come “glifo”), apposta in via automatica dal sistema informatico di gestione dei servizi di cancelleria, indicante la data di deposito ed il numero del provvedimento, valga o meno a soddisfare l’onere di deposito del provvedimento impugnato previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., ovvero, in assenza dei predetti dati, debba addivenirsi, altrimenti, ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per tardività, ove non si ritenga superata la c.d. prova di resistenza. 1.2. – Occorre, anzitutto, dare evidenza, in estrema sintesi, alle soluzioni (con gli argomenti che le sorreggono) sinora adottate dalla giurisprudenza di questa Corte, alla luce di una ricognizione di cui si fa carico, in modo ampio, la memoria del pubblico ministero e alla quale, dunque, giova richiamarsi. 5 1.2.1. – L’improcedibilità del ricorso per cassazione è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 29803/2020, Cass. n. 5771/2023, Cass. n. 8535/2023, Cass. n. 10180/2023, Cass. n. 23694/2023, Cass. n. 25472/2023, Cass. n. 28035/2023, Cass. n. 36379/2023) nel caso in cui la sentenza impugnata, redatta in formato digitale, risulti priva dell’attestazione di cancelleria circa l’avvenuta pubblicazione, la relativa data e il conseguente numero di pubblicazione, sia perché i suddetti adempimenti sono gli unici che permettono alla Corte di controllare se e quando il provvedimento impugnato sia effettivamente venuto ad esistenza, sia perché la produzione di una copia della sentenza incerta nella data e priva del numero identificativo non consente di verificare la tempestività dell’impugnazione, né, in caso di accoglimento del ricorso, di formulare un corretto dispositivo che, coordinato con la motivazione, individui con esattezza il provvedimento cassato. In particolare, gli argomenti a sostegno dell’improcedibilità (Cass. n. 5771/2023) muovono dal rilievo che «la disposizione dell’art. 16- bis, comma 9-bis, del d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 221/2012) - introdotta dall’art. 52, comma 1, lett. a), del d.l. n. 90/2014 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 114/2014) - che stabilisce la equivalenza all’originale delle copie informatiche, anche per immagine, dei provvedimenti del Giudice “anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale”» attribuisce «al difensore il potere di certificazione pubblica delle “copie analogiche ed anche informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico” ma non anche la competenza amministrativa riservata al funzionario di Cancelleria relativa alla “pubblicazione” della sentenza». Si è, quindi, ritenuto che, “per quanto in linea generale sia possibile produrre in giudizio copie o duplicati del provvedimento impugnato estratti dal fascicolo telematico, attestando la conformità del relativo contenuto all’originale 6 contenuto nel predetto fascicolo, ai fini della procedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c. deve comunque trattarsi di copie o duplicati recanti l’attestazione di Cancelleria della pubblicazione del provvedimento, con la relativa data e il numero attribuito dal sistema”, altrimenti resterebbe preclusa alla Corte la verifica circa l’effettiva venuta ad esistenza del provvedimento impugnato e del suo numero identificativo. 1.2.2. – L’inammissibilità del ricorso è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 18510/2023, Cass. n. 29263/2023, Cass. n. 36189/2023, Cass. n. 817/2024, Cass. n. 841/2024) nel caso in cui il ricorrente depositi un duplicato della sentenza telematica dal quale non si evince la data di pubblicazione e la notificazione del ricorso è avvenuta in una data che non risulta tempestiva - se calcolata in relazione al giorno della decisione indicato nel testo del provvedimento - rispetto al termine dell’art. 327, comma primo, c.p.c. Va, peraltro, posto in evidenza che, nel superare la soluzione dell’improcedibilità del ricorso, questa Corte, in base a questo orientamento, ha affermato (in un caso in cui ha avuto esito positivo la c.d. “prova di resistenza” sulla tempestività dell’impugnazione: Cass. n. 865/2024) che la «copia analogica prodotta, pur con le dette omissioni, non si può considerare come copia non autentica, in quanto risulta ─ e vi è in tal senso anche espressa asseverazione del Procuratore dello Stato resa ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-bis, 16- decies e 16-undecies d.l. n. 179 del 2012 ─ “tratta con modalità telematiche” e “conforme” allo “esemplare presente nel fascicolo informatico” come “reso disponibile dai servizi informatici e telematici del competente plesso giurisdizionale”, e, dunque, deve considerarsi conforme al documento informatico effettivamente presente nel fascicolo del giudizio di merito e, pertanto, autentica». 1.2.3. – Giova, altresì, dare conto che, sebbene in un caso di rigetto del ricorso in presenza di ragione più liquida di infondatezza dello 7 stesso (e superando in tal modo la depositata proposta di definizione accelerata nel senso della improcedibilità del ricorso), Cass. n. 5204/2024 - premesse le nozioni di “copia informatica di documento informatico” e di “duplicato informatico”, secondo le definizioni contenute nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e richiamate le disposizioni speciali per il processo civile in tema di attestazione di conformità - ha prospettato i seguenti interrogativi: a) «può il deposito di una tale copia ritenersi soddisfare l’onere, previsto all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c. … di depositare “copia autentica della sentenza”?»; b) “se sì, può la mancanza, nella copia informatica estratta dal fascicolo informatico e attestata conforme, delle indicazioni relative al numero e alla data di pubblicazione dal fascicolo informatico considerarsi causa di inammissibilità del ricorso per mancata prova della sua tempestività (salva la c.d. prova di resistenza …)?”; c) “accedendo a tale ultimo orientamento, può infine ritenersi utilmente e tempestivamente prodotta, a riprova dell’ammissibilità del ricorso, altra copia informatica, questa volta recante il c.d. glifo, successivamente al deposito ed alla comunicazione della proposta di definizione? Se sì, può essa ritenersi utilmente prodotta, come nella specie, al di là del termine di quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza, fissato dall’art. 372, secondo comma, c.p.c.?”. 1.3. – Il Collegio ritiene che gli interrogativi posti da Cass. n. 5204/2024 trovino complessiva risposta nelle considerazioni che seguono. 1.3.1. - Le nozioni di “copia informatica” e di “duplicato informatico”. In base alle definizioni contenute nell’art. 1 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale: C.A.D.), applicabili anche al processo civile, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo 8 telematico (art. 2, comma 6): a) la copia informatica di documento informatico: è il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento da cui è tratto su supporto informatico con diversa sequenza di valori binari (lett. i-quater); b) il duplicato informatico: è il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario (lett. 1- quinquies). Ai sensi dell’art. 23-bis del C.A.D.: «1. I duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle Linee guida [i.e. le linee guida adottate dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) ai sensi dell’art. 71 C.A.D.]. Le copie e gli estratti informatici del documento informatico, se prodotti in conformità alle vigenti Linee guida, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale, in tutti le sue componenti, è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato o se la conformità non è espressamente disconosciuta. […]». Nozioni, queste, che sono riprese dalla citata Cass. n. 5204/2024 e che erano tenute ben presenti già da Cass. n. 27379/2022 (la quale ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile per tardività l’impugnazione svolta nei confronti della sentenza di primo grado, sul presupposto che la notifica telematica della stessa, mediante duplicato informatico, era idonea a far decorrere il ‘termine breve’, pur non presentando segni grafici relativi all’apposizione della sottoscrizione del giudice), da cui è stato tratto il principio di diritto così massimato: “in tema di notificazione della sentenza con modalità telematica, occorre distinguere la copia informatica di un documento nativo digitale, la quale presenta segni grafici (generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari) che 9 rappresentano una mera attestazione della presenza della firma digitale apposta sull’originale di quel documento, dal duplicato informatico che, come si evince dagli artt. 1, lett. i) quinquies e 16-bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, consiste in un documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario e la cui corrispondenza con quest’ultimo non emerge dall’uso di segni grafici - la firma digitale è infatti una sottoscrizione in bit la cui apposizione, presente nel file, è invisibile sull’atto analogico cartaceo - ma dall’uso di programmi che consentono di verificare e confrontare l’impronta del file originario con il duplicato”. 1.3.2. - Le attestazioni di conformità nel processo civile. La materia delle attestazioni di conformità trova espressa disciplina per il processo civile nelle disposizioni sul processo telematico, dapprima ai sensi degli artt. 16-bis, comma 9-bis, decies ed undecies, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, ora (sostanzialmente) riproposti negli artt. 196-octies, 196 novies, 196 decies e 196 undecies disp. att. c.p.c. In sintesi, e per quel che qui rileva, è conferito al difensore il potere di estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche di atti e provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico e attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti originali, mentre per il duplicato informatico (la cui equivalenza all’originale esclude la necessità di attestazione) si richiede che lo stesso venga prodotto mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione o su un sistema diverso contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine. 1.3.3. – La nozione di “contrassegno elettronico”, “timbro digitale”, “codice bidimensionale”, “glifo”. 10 Ai sensi dell’art. 23, comma 2-bis, C.A.D.: «Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale è possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico. I soggetti che procedono all’apposizione del contrassegno rendono disponibili gratuitamente sul proprio sito Internet istituzionale idonee soluzioni per la verifica del contrassegno medesimo». Nelle linee guida emanate dall’AgID con circolare n. 62 del 30 aprile 2013 si chiarisce che «Nei vari contesti il contrassegno generato elettronicamente può essere indicato, anche in relazione alle specificità dello scenario implementato, con termini differenti, quali “Contrassegno elettronico”, “Timbro digitale”, “Codice bidimensionale”, “Glifo”, termini che sono da intendersi come sinonimi». Nell’ambito delle predette linee guida, si precisa che «per contrassegno generato elettronicamente si intende una sequenza di bit, codificata mediante una tecnica grafica e idonea a rappresentare un documento amministrativo informatico o un suo estratto o una sua copia o un suo duplicato o i suoi dati identificativi. A tutti gli effetti di legge sostituisce la sottoscrizione autografa della copia analogica. Il contrassegno generato elettronicamente è rappresentato graficamente con tecnologie differenti, per leggere le quali può essere richiesto apposito software rilasciato dallo sviluppatore della soluzione». 1.4. – Ciò premesso, si osserva quanto segue. L’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., richiede il deposito di “copia autentica della decisione impugnata”. 11 Il provvedimento emesso come documento informatico e sottoscritto con firma digitale è depositato nel fascicolo tramite l’applicativo l’informatico, ai sensi dell’art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44. La pubblicazione avviene, dunque, non più attraverso la materiale apposizione del deposito e della relativa certificazione da parte del cancelliere, bensì attraverso l’accettazione del deposito telematico del provvedimento e l’attribuzione mediante il sistema informatico del numero identificativo e della data dell’adempimento, con inserimento nel fascicolo informatico e conseguente ostensibilità agli interessati (si veda anche Cass. n. 2829/2023). Ne consegue che, per effetto dell’attuazione del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull’unico originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico effettuata dal sistema informatico. Con l’accettazione del deposito telematico e l’attribuzione del numero cronologico, il provvedimento digitale è inserito nel fascicolo informatico e solo in esito alla pubblicazione informatizzata diventa consultabile da parte dei difensori, attraverso il portale dei servizi telematici di cui all’art. 6 del d.m. n. 44/2011, nella versione originale, rappresentata dal duplicato (che reca la firma digitale del magistrato), ovvero nella copia informatica, che reca la stampigliatura dei dati esterni della pubblicazione (vale a dire il numero di cronologico e la data di pubblicazione) come segno grafico apposto dal sistema per evidenziare l’avvenuto processamento informatico. Pertanto, nella differente realtà digitale il concetto di unico originale risulta sostanzialmente superato dalla possibilità di accedere al duplicato (che equivale all’originale), dovendosi, altresì, evidenziare che è l’accettazione dell’atto da parte del cancelliere a determinare l’inserimento del provvedimento nel fascicolo informatico, sicché resta 12 escluso che il difensore possa accedere al duplicato ovvero alla copia informatica se non è intervenuta la pubblicazione. E tanto emerge chiaramente anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che collega la pubblicazione dei provvedimenti digitali al necessario presupposto che l’atto divenga visibile e consultabile dalle parti, cosicché non è sufficiente il mero deposito, ma occorre l’accettazione da parte della cancelleria - almeno fino a che i sistemi richiederanno l’intervento manuale – e, comunque, l’inserimento nei registri e l’assegnazione del numero cronologico (Cass. n. 24891/2018, Cass. n. 2362/2020, Cass. n. 2829/2023). Infatti, solo a seguito dell’avvenuta pubblicazione informatica, i difensori, accedendo al fascicolo informatico tramite il portale dei servizi telematici, possono scegliere se estrarre copia informatica del provvedimento, recante le indicazioni sulla data di pubblicazione e sul numero di cronologico, come stampigliatura apposta dal sistema informatico in esito all’accettazione dell’atto digitale da parte della cancelleria, ovvero se scaricare direttamente il duplicato informatico che, in quanto tale, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione che determinerebbe ipso facto l’alterazione dell’originale informatico (e la conseguente alterazione della sequenza di valori binari del documento originario). Non è, pertanto, sanzionabile con l’improcedibilità la scelta del difensore che, potendo optare tra il deposito del duplicato e la copia informatica(la cui apposta stampigliatura rappresenta soltanto un’evidenza grafica della registrazione informatizzata), si determini per il deposito del primo in quanto equivalente all’originale e, come tale, non necessitante di alcuna attestazione di conformità. Sicché, il concetto stesso di duplicato risulta assorbente rispetto al requisito di “copia autentica della sentenza o della decisione impugnata”, postulato dall’art. 369 c.p.c. 13 I dati relativi alla pubblicazione, se in contestazione ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione (e, dunque, là dove non evincibili tramite gli stessi sistemi informatici in uso a questa Corte), possono essere verificati attraverso la consultazione del fascicolo informatico del giudizio di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis disp. att. c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere a decorrere dal 1° gennaio 2023 (art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 149/2022). Quanto ai giudizi introdotti precedentemente, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato (quale documento nativo digitale), se necessario, possono essere verificati tramite richiesta di attestazione degli stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso quel provvedimento, in presenza di istanza del ricorrente formulata ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nel testo antecedente alla abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149/2022. Dati che sono presenti nel fascicolo informatico che la cancelleria deve tenere e conservare ai sensi art. 36, ultimo comma, disp. att. c.p.c. e dell’art. 9 del d.m. n. 44/2011. Quest’ultima disposizione precisa, infatti, che il predetto fascicolo contiene “i dati del procedimento medesimo da chiunque formati” (comma 1) e in modo tale da “garantire la facile reperibilità ed il collegamento degli atti ivi contenuti [anche] in relazione alla data di deposito” (comma 5). E una tale verifica officiosa si rende necessaria in quanto il ricorrente, con il deposito del duplicato informatico del provvedimento impugnato, ha pienamente assolto l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c.; onere funzionale, in primo luogo, proprio a “consentire la verifica della tempestività dell’atto di impugnazione” (Cass., S.U., n. 8312/2019), la quale (è opportuno ribadire), in ambiente di processo telematico, è possibile solo attraverso i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario. 14 Occorre, dunque, collocarsi nel cono d’ombra del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU), il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (tra le tante: Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024; Cass., S.U., n. 6477/2024). Pertanto, va fatta applicazione del principio - già affermato da Cass., S.U., 25513/2016 in riferimento alla proposizione del ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma terzo, c.p.c. (e ribadito da Cass., S.U., n. 11850/2018, Cass., S.U., n. 8312/2019 e Cass., S.U., n. 21349/2022) - secondo il quale la Corte esercita il proprio potere officioso di controllo sulla tempestività dell’impugnazione ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo tramite l’istanza di cui all’ultimo comma dell’art. 369 c.p.c. 1.4.1. – Nel caso, invece, di deposito ex art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., di copia analogica di duplicato informatico della decisione impugnata (ossia, tramite la stampa del file), rimane necessaria l’attestazione di conformità del difensore ai sensi del citato art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179/2012 (nei termini affermati da Cass., S.U., n. 8312/2019), non potendosi, in siffatta evenienza, apprezzare altrimenti la qualità di duplicato informatico che dal difensore medesimo sia stata predicata (atteso che la stampa di un documento informatico sottoscritto digitalmente non consente la verifica dell’apposizione della firma, ciò che, come detto, è possibile con i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario). Tuttavia, all’interrogativo posto da Cass. n. 5204/2024 in ordine alla ritualità della copia autenticata così depositata, in quanto priva 15 delle indicazioni relative alla pubblicazione, si deve dare risposta positiva. Infatti, in quanto estratta dal fascicolo informatico ed attestata come conforme dal difensore, anche il deposito di una tale copia autenticata vale ad integrare il requisito richiesto dall’art. 369 c.p.c., così aprendosi la possibilità, pure in tale ipotesi, dell’accertamento officioso in ordine alla tempestività dell’impugnazione (ove in contestazione), tramite la richiesta alla cancelleria del giudice a quo di attestazione dei dati di pubblicazione del provvedimento. 1.5. – Devono, quindi, enunciarsi i seguenti principi di diritto: «a) in regime di deposito telematico degli atti, l’onere del deposito di copia autentica del provvedimento impugnato imposto, a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto non solo dal deposito della relativa copia informatica, recante la stampigliatura solo rappresentativa dei dati esterni (numero cronologico e data) concernenti la sua pubblicazione, ma anche dal deposito del duplicato informatico di detto provvedimento, il quale ha il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, dell’originale informatico e che, per sue caratteristiche intrinseche, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione (e, dunque, la stampigliatura presente nella copia informatica) che ne determinerebbe, di per sé, l’alterazione. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione, ove non evincibili tramite i sistemi informatici in uso alla Corte di cassazione e in contestazione, vanno attinti attraverso la consultazione del fascicolo di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023, ovvero, per i giudizi precedentemente introdotti, tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi 16 dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022; b) nel regime in cui è consentito il deposito di copia analogica del provvedimento impugnato redatto come documento informatico nativo digitale e così depositato in via telematica, ove detta copia analogica sia tratta dal duplicato informatico depositato nel fascicolo informatico, l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto tramite l’attestazione di conformità della copia al duplicato apposta dal difensore. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato, ove in contestazione, vanno attinti tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022». 1.6. Nel caso di specie, a seguito del dato acquisito tramite cancelleria, la data di pubblicazione del provvedimento impugnato è 11 maggio 2021. Essendo stato il ricorso notificato in data 30 settembre 2021, risulta rispettato il termine semestrale per proporre l’impugnazione. 1.7. Ciò premesso, il motivo è fondato. Conformemente alle conclusioni del Pubblico Ministero, deve essere mantenuto l’indirizzo di questa Corte, espresso dalle pronunce n. 2374 del 2016 e n. 2375 del 2016, il cui principio di diritto è che, in relazione alla legge della Regione Emilia Romagna,l'amministrazione provinciale è l'unico soggetto legittimato passivamente a fronte di azioni proposte da terzi per ottenere la riparazione dei danni eventualmente provocati dalla fauna selvatica, a nulla rilevando la ripartizione di compiti interna alla Provincia stessa riguardo al peso economico derivante dall'obbligo 17 risarcitorio. La modifica legislativa, considerata dalla corte territoriale, è relativa solo alla ripartizione degli oneri relativi al fondo regionale. L’art. 17 legge regionale n. 8 del 1994, applicabile ratione temporis (in relazione al fatto verificatosi nel 2011) sulla base delle modifiche intervenute, prima con l’art. 14 della legge regionale n. 6 del 2000, e poi con l’art. 10 della legge regionale n. 16 del 2007, è il seguente: «Danni alle attività agricole 1. Gli oneri relativi ai contributi per i danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate sui terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica cacciabile o da sconosciuti nel corso dell'attività venatoria sono a carico: a) degli ambiti territoriali di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora si siano verificati nei fondi ivi ricompresi; b) dei titolari dei centri privati della fauna allo stato naturale di cui all'articolo 41 qualora si siano prodotti ad opera delle specie ammesse nei rispettivi piani produttivi o di gestione e delle aziende venatorie di cui all'articolo 43 per le specie di cui si autorizza il prelievo venatorio, nei fondi inclusi nelle rispettive strutture; c) dei proprietari o conduttori dei fondi rustici di cui ai commi 3 e 8 dell'art. 15 della legge statale, nonché dei titolari delle altre strutture territoriali private di cui al capo V, qualora si siano verificati nei rispettivi fondi; d) delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all’art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. 2. Le Province concedono contributi per gli interventi di prevenzione e per l'indennizzo dei danni: a) provocati da specie cacciabili ai sensi del comma 1 lettera d); b) provocati nell'intero territorio agro-silvo-pastorale da specie protette, dal piccione di città (Columba livia, forma domestica) o da 18 specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse. 3. I contributi sono concessi entro i limiti di disponibilità delle risorse previste dall’art. 18, comma 1». La rilevanza della modifica legislativa al livello della ripartizione interna del peso economico derivante dall’obbligo di risarcire i danni da fauna selvatica, come risulta dal primo comma della disposizione citata, non incide sul principio di diritto enunciato dai richiamati precedenti di questa Corte, cui il Collegio presta continuità e rinvia, anche sul piano della motivazione, per quanto concerne l’individuazione del soggetto tenuto al risarcimento del danno, salva la modifica legislativa evidenziata sul piano del riparto interno. 1.8. Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito con il rigetto della domanda. L’intervento della giurisprudenza determinante nel corso del processo costituisce ragione di compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie il motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta la domanda; dispone la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 22 aprile 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino 19

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5839 del 2023, proposto da St. Ou. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ca. Di Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Bari, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ro. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Fa. Ca. in Roma, via (...); nei confronti Er. It. S.r.l. e Cl. Ch. It. S.p.A., non costituite in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Sezione Terza n. 1776/2022 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Bari; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 marzo 2024 il Cons. Daniela Di Carlo e uditi per le parti gli avvocati Ca. Di Gi. e Ro. Ci.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società ricorrente ha appellato la sentenza di cui in epigrafe con la quale il Tar per la Puglia, Bari, ha respinto il suo ricorso per l'annullamento dell'ordinanza datata 25 ottobre 2021, n. 2021/03412, con cui le è stata ingiunta la rimozione degli impianti pubblicitari installati sul suolo comunale. In particolare, il provvedimento comunale è stato motivato con il riferimento al fatto che "è spirato alla data del 22 settembre 2021 il termine per la presentazione delle offerte nell'ambito della procedura selettiva cod. S21010 bandita con avviso pubblico del 14.05.2021 relativa a "affidamento in concessione degli spazi comunali per l'installazione dei gruppi omogenei di mezzi pubblicitari sul suolo pubblico di cui all'art. 9 del regolamento sulla Pubblicità, suddiviso in venti lotti" e che, per l'effetto e ai sensi della D.G.C. n. 40/2021, è consentita la permanenza sul territorio ai soli operatori, titolari di impianti e proponenti offerta, limitatamente agli impianti oggetto della relativa dichiarazione di permanenza; la permanenza sul territorio comunale oltre il termine di cui alla D.G.C. n. 40 del 22.01.2021 è consentita ai soli operatori economici che hanno presentato dichiarazione di permanenza e risultano aver formulato l'offerta di gara, in linea con le risultanze della prima fase di controllo di regolarità formale della documentazione amministrativa dichiarate da ultimo con la determina n. 1442 del 01.10.2021 da parte della Ripartizione Stazione Unica Appaltante, Contratti e Gestione LL.PP; l'amministrazione comunale può agire in autotutela ai sensi dell'art. 823, co. 2 del codice civile al fine della tutela dei beni sottoposti al regime del demanio pubblico di cui all'art. 822, co. 2 c.c.; l'art. 1, co. 822, della legge n. 160/2019 attinente al Bilancio di previsione dello Stato per l'anno 2020 prevede la "rimozione delle occupazioni e dei mezzi pubblicitari privi della prescritta concessione o autorizzazione o effettuati in difformità dalle stesse". In merito alla situazione specifica della società ricorrente, veniva infatti rilevato che l'operatore economico "è presente sul territorio comunale con impianti su suolo pubblico, ha presentato dichiarazione di permanenza ai sensi della D.G.C. 40/2021, ricevuta dalla scrivente ripartizione con nota prot. 027868 del 03.02.2021, ha presentato offerta nei termini indicati dagli atti della procedura ad evidenza pubblica S21010 ma è stata esclusa per mancata regolarizzazione della documentazione amministrativa ai sensi dell'art. 83, co. 9 del d.lgs. 50/2016". Senonché, è poi accaduto che la società abbia impugnato la suddetta esclusione dalla procedura con ricorso n. 1148/2021, riportando vittoria nel giudizio. Riammessa quindi alla procedura, ne ha conseguito anche la definitiva aggiudicazione. Reclama pertanto ora, con il ricorso in oggetto, la illegittimità dell'ordine di rimuovere gli impianti pubblicitari, essendo stato definitivamente acclarato in via giudiziale, seppure in via postuma rispetto all'adozione dell'atto impugnato, il suo diritto a partecipare alla procedura di aggiudicazione, finanche poi vinta. 2. Il Tar adito ha prescisso dall'esame delle preliminari eccezioni di inammissibilità sollevate dal Comune intimato e ha respinto il ricorso, tuttavia compensando le spese del giudizio. 3. La società ricorrente ha riproposto le originarie censure, articolate quali ragioni di critica specifica avverso la sentenza impugnata, così nella sostanza devolvendo alla odierna cognizione tutta l'originaria materia del contendere. In particolare, la stessa ha dedotto: 1) la violazione e falsa applicazione della delibera di Giunta comunale n. 40 del 22 gennaio 2021 e degli atti deliberativi presupposti, pregressi, successivi o comunque collegati, ivi compreso il regolamento comunale, delibera di c.c. n. 114/2017 - violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3, legge n. 241/1990, art. 97 Cost. - eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità manifesta, contraddittorietà ; 2) sotto diverso profilo, la violazione e falsa applicazione della succitata delibera n. 40/2021 e di quella, a essa presupposta, n. 963 del 4 dicembre 2020, unitamente agli ulteriori atti, a essa pure connessi e presupposti - violazione e falsa applicazione dell'art. 41 Cost., dell'art. 10, d.lgs. n. 59/2010, nonché dell'art. 48, commi 1 e 2, del regolamento sulla pubblicità, approvato con delibera di c.c. n. 114/2017 - violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3, legge n. 241/1990 - violazione del principio di proporzionalità e contrasto con i principi di cui all'art. 97 Cost. - eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità manifesta, contraddittorietà, sviamento di potere - violazione e falsa applicazione dell'art. 42 del T.u.e.l. - violazione dei principii di libera concorrenza. 4. Il Comune di Bari ha resistito al gravame e ne ha chiesto la reiezione. 5. Le parti hanno ulteriormente insistito sulle rispettive tesi difensive. 6. Alla udienza pubblica del 12 marzo 2024, la causa è passata in decisione. 7. Anzitutto va respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado riproposta dal Comune appellato in quanto la rimozione degli impianti, contrariamente a quanto si afferma nel corpo dell'ordinanza di rimozione impugnata, non rappresenta una misura applicativa della delibera giuntale n. 40/2021, di talché non può condividersi l'eccezione di tardività della sua impugnazione e di quella della presupposta delibera giuntale n. 963/2020. L'applicazione dei precetti promananti dalla delibera in parola, infatti, inerenti all'obbligo di rimozione degli impianti esistenti, deve ritenersi riferibile solo agli operatori che non avevano partecipato alla procedura per l'assegnazione dei lotti, e non anche a quelli che, come la società ricorrente, vi avevano preso parte, indipendentemente dalle vicende che poi ne sono seguite (esclusione, impugnativa dell'esclusione, riammissione alla gara per effetto dell'accoglimento del ricorso, finanche l'aggiudicazione definitiva). 8. Nel merito, l'appello è fondato. La questione giuridica sottesa alla materia del contendere può così sintetizzarsi. Se, come motivato dal Comune di Bari e ritenuto dal Tar, la permanenza degli impianti di affissione deve essere fatta dipendere dalla ammissione della società alla gara, allora l'atto di rimozione impugnato va ritenuto legittimo, in quanto il vaglio di legittimità va necessariamente ancorato alla situazione di fatto e di diritto esistente al tempo della sua emanazione, quando cioè la società era stata dichiarata esclusa dalla procedura. Secondo questa ricostruzione esegetica, in particolare, il fatto che poi la società abbia impugnato la propria esclusione, abbia riportato vittoria nel giudizio e sia stata di conseguenza riammessa alla gara, addirittura aggiudicandosela, rappresenterebbero, tutti, nella sostanza, dei postfatti irrilevanti ai fini dell'adozione dell'atto, che resterebbe così insensibile alle sopravvenienze di fatto e giuridiche poi effettivamente verificatesi. Se invece, come propugnato dalla società ricorrente, la permanenza degli impianti di affissione va fatta dipendere dalla propria effettiva partecipazione alla gara, allora l'atto impugnato deve di conseguenza reputarsi illegittimo in quanto lo stesso non ha considerato che l'esclusione dalla gara era sub iudice e quindi, nelle more, l'Amministrazione non avrebbe potuto provvedere o, se già lo avesse fatto, l'atto avrebbe poi dovuto essere rimosso, rappresentando il sopravvenuto accertamento giurisdizionale del diritto a partecipare alla gara, in conseguenza della avvenuta caducazione dell'atto di illegittima esclusione, il necessario antefatto logico-giuridico rispetto all'ordine di rimozione degli impianti pubblicitari. 9. Ad avviso del Collegio, la ricostruzione esegetica corretta è la seconda. Deve anzitutto precisarsi che non è qui in discussione, e va anzi condivisa, la parte della sentenza in cui il primo giudice con articolata motivazione ricostruisce il quadro giuridico di riferimento alla base della riorganizzazione del sistema pubblicitario nel Comune di Bari, quale atto generale di programmazione e indirizzo nel trapasso dal sistema autorizzatorio a quello concessorio ai fini di programmazione e controllo, di attuazione dei principi costituzionali in materia di concorrenza e libertà economica di impresa e di quelli dell'evidenza pubblica, europea e nazionale. In particolare, è corretto affermare che il riordino di questo specifico settore di mercato è stato graduale ed è stato posto in essere attraverso la proroga del mantenimento degli impianti pubblicitari esistenti alla condizione che l'operatore economico interessato a continuare ad esercitare la propria attività imprenditoriale abbia manifestato in tal senso il proprio perdurante interesse attraverso l'apposita presentazione di domanda di partecipazione alla gara per le nuove assegnazioni degli spazi. In linea, infatti, con l'esigenza di ripensare il previgente regime basato su autorizzazione ad un sistema competitivo incentrato su rilascio di titolo concessorio, l'Amministrazione comunale ha programmato l'indizione di procedure di evidenza pubblica per l'assegnazione dei suoli pubblici sui quali consentire ai privati imprenditori di installare o mantenere i propri cartelloni pubblicitari. Senonché, rispetto a tale condivisibile premessa generale, ciò che però non può essere condiviso è l'esito decisionale al quale è giunto il primo giudice, sulla base del ragionamento logico-giuridico incentrato sul concetto di ammissione alla gara, piuttosto che di effettiva partecipazione alla stessa, che lo ha portato a valutare la legittimità dell'atto impugnato considerando unicamente l'avvenuta esclusione della società ricorrente dalla gara, ma non anche le conseguenze giuridiche che ne sono poi derivate. In particolare, non è condivisibile la parte della sentenza in cui si motiva "(c)he poi la fine del regime transitorio sia stata individuata nella scadenza del termine per la presentazione delle offerte di partecipazione alla gara e sia coincisa, per la società ricorrente, nel momento in cui ne è stata decretata l'esclusione per mancata produzione di documentazione ritenuta necessaria, riflette coerentemente l'impostazione generale del Comune, ed è conseguenza ragionevole di un programma attraverso il quale, lo si ripete, il regime concessorio soppianta definitivamente le autorizzazioni ad installare i cartelloni pubblicitari" e che "(l)a decisione di rimuovere gli impianti della ricorrente, contrariamente a quanto sottolineato dalla difesa della stessa, è del tutto adeguata e proporzionata al fine pubblico perseguito, che è quello di ampliare il mercato degli operatori del settore attraverso una procedura selettiva in linea con la libertà di impresa tutelata in sede sovranazionale, e assolutamente non in contrasto con l'art. 41 della Costituzione". Ritiene infatti il Collegio che non possano imputarsi alla ricorrente, peraltro risultata illegittimamente esclusa dalla gara, gli effetti pregiudizievoli conseguenti all'adozione dell'ordine di rimozione qui impugnato, dal momento che se per un verso è corretto affermare che la legittimità dell'atto va valutata sulla base delle circostanze di fatto e di diritto esistenti al momento della sua emanazione, per un altro verso è anche corretto affermare che nelle suddette circostanze rientrano pure le vicende successive che ne sono seguite. Di conseguenza, il Comune di Bari non avrebbe potuto obliterare le conseguenze derivanti dall'avere adottato l'atto di esclusione della società ricorrente dalla gara, ma anzi avrebbe dovuto considerare, nella pienezza dello svolgimento del rapporto tra le parti, l'impugnativa proposta dalla società esclusa e gli esiti giudiziari che ne sarebbero seguiti, essendo l'ordine di rimozione basato su un atto, ossia l'esclusione della gara, ancora sub iudice. Nemmeno possono poi essere condivise le motivazioni della sentenza nella parte in cui fa riferimento alla ritenuta corretta applicazione dei principi costituzionali in materia di libertà economica di impresa "in un quadro di bilanciamento doveroso con altri interessi ritenuti parimenti meritevoli di protezione al più alto livello normativo" e al fatto che "nel caso in esame, a fronte della pretesa della società ricorrente di beneficiare di una ulteriore proroga del mantenimento dei propri impianti pubblicitari, nonostante la scadenza abbondantemente consumata del regime transitorio fissato con il regolamento, è decisamente prevalente il pubblico interesse dell'amministrazione comunale a porre in essere una procedura selettiva per l'assegnazione dei suoli pubblici di localizzazione degli impianti, in modo tale da aprire al mercato e favorire la concorrenza, che della libertà di iniziativa economica costituisce un precipitato tecnico irrinunciabile". Tale lettura si appalesa infatti sproporzionata ed eccessiva rispetto alla legittima finalità perseguita dagli atti di programmazione generale del Comune, in quanto ha l'effetto di traslare la responsabilità gravante sul Comune per la corretta conduzione della gara in capo alla società ricorrente per la subita illegittima esclusione dalla gara. Di conseguenza, proprio nell'ottica di una lettura costituzionalmente orientata ad attuare un regime effettivamente paritario e concorrenziale fra gli operatori economici, non può ritenersi legittimo l'operato dell'Amministrazione comunale, in quanto lo stesso condurrebbe a discriminare la società ricorrente rispetto alle altre imprese concorrenti, pur avendo anch'essa, come queste ultime, legittimamente manifestato il proprio perdurante interesse alla prosecuzione dell'attività economica attraverso la partecipazione alla gara. 10. In definitiva, l'appello va accolto. 11. Le spese del doppio grado di giudizio possono compensarsi attesa la novità delle questioni esaminate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado e di conseguenza annulla l'atto impugnato. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere, Estensore Sergio Zeuli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA Presidente ENRICO MANZON Consigliere GIOVANNI LA ROCCA Consigliere-Rel. LUNELLA CARADONNA Consigliere MARIA GIULIA PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Consigliere Oggetto: TRIBUTI ACCERTAMENTO Ud.06/12/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 19424/2015 R.G. proposto da: FORNO ETTORE, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati TAMBASCO FRANCESCA (TMBFNC84C41C351V), DI PAOLA NUNZIO SANTI GIUSEPPE (DPLNZS67B25C351B); -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (ADS80224030587) che la rappresenta e difende; -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. CALTANISSETTA n. 350/2015 depositata il 29/01/2015. Udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni La Rocca nella pubblica udienza del 6 dicembre 2023; Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alberto Cardino, che ha concluso per l’accoglimento del quinto e del settimo motivo, non essendo comparso nessuno per le altre parti. FATTI DI CAUSA 1. A seguito di PVC di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza di Enna, l’Agenzia delle Entrate notificava al sig. Ettore Forno, in qualità di titolare dell’omonima ditta individuale, in data 01.08.2012, l’avviso di accertamento n.TYU01T200460/2012, con il quale veniva recuperato imponibile per l’anno d’imposta 2010, con conseguenti maggiori imposte IRPEF, IRAP e IVA, oltre interessi e sanzioni correlate. 2. L’Ufficio accertava l’omessa contabilizzazione di incassi, una plusvalenza derivante da cessione d’azienda e ricavi non dichiarati desunti da accertamenti bancari. 3. Il contribuente impugnava, quindi, l’avviso di accertamento e la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Enna emetteva la sentenza n. 432/01/13, depositata il 20.12.2013, con la quale rigettava il ricorso e condannava il ricorrente alle spese di giudizio. 4. Il contribuente proponeva appello e la Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Sicilia, con la sentenza in epigrafe, rigettava il gravame, confermando la decisione di primo grado. 5. La CTR osservava che con l’atto impugnato, correttamente motivato per relationem con riferimento al PVC, regolarmente notificato al Forno, l’Ufficio aveva «adeguatamente motivato, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste a base dell’accertamento»; nel merito confermava tutti i rilievi, osservando, in particolare, quanto agli accertamenti bancari che questi pongono una presunzione legale in base alla quale sia i versamenti sia i prelevamenti costituiscono ricavi, mentre è onere del contribuente fornire la prova contraria e, in questo caso, «i prelevamenti contestati dall’Ufficio sono quelli per i quali non è stata fornita alcuna giustificazione e quelli per i quali il contribuente, pur fornendo qualche forma di giustificazione non è stato in grado di produrre idonea documentazione probatoria a supporto, così come precisato a pag. 104 del processo verbale di giustificazione». 6. Il contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza fondato su quindici motivi. 7. Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo il ricorrente deducel’«inesistenza giuridica dell’avviso impugnato per carenza del potere dirigenziale del Direttore firmatario» alla luce della sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale, in quanto «pare» che la nomina del Direttore provinciale che aveva sottoscritto l’atto impugnato «rientrerebbe» tra quelle interessate dalla predetta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 8 comma 24 del d.l. n. 16/2012. 1.1. L'eccezione di inammissibilità sollevata dall’Agenzia, la quale rileva che la questione non era stata proposta con il ricorso iniziale in primo grado, può essere superata trattandosi di ius superveniens per effetto della pronuncia della Corte costituzionale invocata. Il motivo è inammissibile, piuttosto, perché si esprime in maniera ipotetica e dubitativa sul fatto che la nomina del sottoscrittore rientrasse tra quelle interessate dalla pronunzia di incostituzionalità. 1.2. Il motivo, in ogni caso, è infondato alla luce dell’orientamento di questa Corte secondo cui «In tema di accertamento tributario, ai sensi dell'art. 42, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d'ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell'ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva e, cioè, da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, convertito nella l. n. 44 del 2012» (Cass. n. 22810 del 2015; conf. Cass. n. 5177 del 2020). 2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art.7 dello Statuto del contribuente e dell’art.42 d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., nella parte in cui non è stato annullato l’avviso per mancata indicazione della metodologia di accertamento, essendo insufficiente il riferimento all’art. 39 comma 1 d.P.R. n. 600/1973 che contempla diverse metodologie – l’accertamento analitico e l’accertamento analitico – induttivo - , con conseguente violazione del diritto di difesa del contribuente. 2.1. La censura è infondata, posto che è irrilevante la formale qualificazione della metodologia a fondamento dell’atto da parte dell’Amministrazione finanziaria, essendo essenziale invece che siano chiari i suoi presupposti di fatto e di diritto. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, non è necessaria l'indicazione delle «norme di riferimento», bastando che l'avviso indichi i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che permettano al contribuente di esercitare il proprio diritto difensivo (Cass. n. 9499 del 2017; Cass. n. 28968 del 2008; Cass. n. 3257 del 2002); d’altro canto, all’Amministrazione finanziaria è consentito impiegare sia il metodo di accertamento induttivo che quello analitico- induttivo contemporaneamente, ove consti una complessiva inattendibilità delle scritture contabili la quale, peraltro, non esclude che l’accertamento possa essere fondato anche su elementi contabili (Cass. n.7626 del 2008; Cass. n. 27068 del 2006). 3. Con il terzo motivo il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art.7 Statuto del contribuente e dell’art.42 d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., nella parte in cui la CTR non ha annullato, per omessa motivazione, l’avviso impugnato che aveva malamente sintetizzato il PVC che non conteneva specifici accertamenti di irregolarità contabili. 3.1. Il motivo è, per un verso, inammissibile e, per altro verso, infondato. 3.2. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità e autosufficienza, denunciando genericamente carenze del PVC e acritico recepimento di questo da parte dell’Agenzia ma senza riportare puntualmente il contenuto dell’atto né offrire comunque elementi specifici in grado di circostanziare queste doglianze. 3.4. In ogni caso il motivo è infondato. Come osservato dalla stessa CTR, la motivazione per relationem con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell'esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell'Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l'Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (Cass. n. 32957 del 2018; Cass. n. 30560 del 2017; Cass. n. 21119 del 2011; Cass. n. 8183 del 2011); inoltre, non sussisteva alcun obbligo di allegazione del processo verbale di constatazione all’avviso di accertamento, trattandosi di atto già a conoscenza del contribuente (tra le tante, Cass. n. 28060 del 2017; Cass. n. 16976 del 2012). 4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.2697 c.c. sul mancato assolvimento dell’onere della prova da parte dell’Agenzia dalle entrate, laddove la CTR ha ritenuto provata l’omessa contabilizzazione di incassi «atteso che il contribuente non è riuscito a provare l’omesso pagamento della somma in questione», invertendo di fatto l’onere della prova e addossando sul contribuente un fatto negativo, quando deve essere l’Amministrazione a dimostrare che il pagamento vi era stato. 4.1. Il motivo è inammissibile, perché non coglie la ratio decidendi, ed è comunque infondato. 4.2. La decisione non si fonda sulla mancata prova di un fatto negativo ma poggia sull’assenza degli adempimenti che fiscalmente fanno ritenere che non vi è materiale imponibile tassabile. Infatti, l’emissione di fattura per operazioni imponibili fa sorgere l’obbligazione tributaria di versamento della relativa IVA, ex art. 6, comma 5, d.P.R. 26.10.1972, n. 633 e l’eventuale mancato pagamento della fattura emessa, per portare all’annullamento dell’obbligazione tributaria di versamento dell’IVA, deve essere contabilizzato mediante nota di credito, ex art. 26, d.P.R. n. 633/1972, la cui emissione non è stata dedotta né tantomeno provata. Ai fini delle imposte dirette, invece, il venir meno dell’imponibile fatturato deve essere registrato come sopravvenienza passiva, ex art. 101 (ex art. 66), d.P.R. 22.12.1986, n. 917 (Cass. n. 7313 del 2003) ma non è stato indicato neppure questo adempimento. 5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.86 comma 2 TUIR e dell’art.2 d.P.R. n.460/1996 nella parte in cui non si è annullato il rilievo sulla plusvalenza da cessione di azienda nonché deduce, in relazione all’art.360 comma 1 n. 5 c.p.c., omesso esame circa un fatto decisivo con riferimento alla plusvalenza per cessione di azienda, erroneamente calcolata sulla base di quanto definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro, anziché sulla base del corrispettivo conseguito. 5.1. Il motivo è fondato con riguardo alla violazione di legge, mentre è inammissibile la censura sotto il paradigma del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non trattandosi di un fatto storico e ricorrendo una c.d. “doppia conforme” (v. § 9.2. e § 9.3.). 5.2. Va rammentato che la norma di interpretazione autentica di cui all'art. 5, comma 3, d.lgs. 14.9.2015, n. 147, avente efficacia retroattiva, esclude che l'Amministrazione finanziaria possa determinare, in via induttiva, la plusvalenza realizzata dalla cessione di immobili e di aziende solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro, ipotecaria o catastale, dovendo l'Ufficio individuare ulteriori indizi, gravi, precisi e concordanti, che supportino l'accertamento del maggior corrispettivo rispetto a quanto dichiarato dal contribuente, su cui grava la prova contraria (Cass. n. 12131 del 2019; Cass. n. 9513 del 2018; Cass. n. 19227 del 2017); in questo caso, invece, come riportato in sentenza, la plusvalenza accertata deriva dalla rettifica dall’atto ai fini dell’imposta di registro. 6. Con il sesto motivo il ricorrente denunzia, in relazione all’art.360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.32 d.P.R. n. 600/73 e dell’art.2967 c.c., perché la CTR non ha annullato la ripresa a tassazione dei prelevamenti di cui è stato indicato il beneficiario. 6.1. Il motivo è inammissibile, perché in realtà tenta di rimettere in discussione l’accertamento in fatto svolto dal giudice di merito che è incensurabile come tale nel giudizio di legittimità, ed è comunque infondato. 6.2. Il citato art. 32, n. 2), d.P.R. n. 600/1973, prevede che vengano posti come ricavi o compensi a base delle rettifiche ed accertamenti i prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei rapporti bancari, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili. Si pone così una presunzione relativa, di fonte legale, circa la corrispondenza fra versamenti e prelevamenti bancari, non risultanti dalle scritture contabili, e ricavi occultati, che determina in capo al contribuente un preciso ed analitico onere di prova contraria; quest’onere non può essere assolto solo attraverso il ricorso a dichiarazioni di terzi, non potendo queste ultime assurgere né a rango di prove esclusive della provenienza del reddito accertato, né essere idonee, di per sé, a fondare il convincimento del Giudice (Cass. n. 6405 del 2021; Cass. n. 22302 del 2022). Va altresì osservato che l’indicazione del beneficiario non può risolversi nella mera menzione di un nominativo, in quanto ciò permetterebbe facili elusioni della presunzione, ma deve essere accompagnata da una qualche documentazione che giustifichi la causa del prelevamento a favore del terzo o, comunque, da elementi che rendano credibili che tale prelevamento sia stato effettuato al di fuori dell’attività di impresa, in modo che sia fornita prova che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili (tra le altre, v. Cass. n. 15161 del 2020; n. 16896 del 2014). 6.3. Incombeva, quindi, sul ricorrente allegare di aver superato la presunzione attraverso la dimostrazione in modo analitico dell'estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili (Cass. n. 35258 del 2021); solo in questa evenienza il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all'efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso contribuente, avuto riguardo ad ogni singola movimentazione e dandone conto in motivazione. Nel caso in esame, però, il motivo si sostanzia nella elencazione dei prelevamenti recuperati con indicazione di causali in gran parte generiche, mentre, come riferito in sentenza, il recupero ha riguardato solo i prelevamenti per i quali il ricorrente non è stato in grado di produrre idonea documentazione probatoria a supporto. 7. Con il settimo motivo il ricorrente deducenullità della sentenza per violazione dell’art.32 D.P.R. 600/1973 e art. 53 Cost. nella parte in cui non tiene conto degli eventuali costi per produrre il reddito. 7.1. Il motivo è fondato. 7.2. A seguito della sentenza della Corte cost. n. 10/2023, che ha operato un'interpretazione adeguatrice dell'art. 32, comma 1, n. 2), d.P.R. n. 600/1973, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi occulti, scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore può sempre opporre la prova presuntiva contraria, eccependo una incidenza percentuale forfettaria di costi di produzione, che vanno quindi detratti dall'ammontare dei maggiori ricavi presunti (Cass. n. 18653 del 2023; n. 6874 del 2023; v. anche n. 7122 del 2022). 8. Con l’ottavo motivo rileva nullità della sentenza, in relazione all’art.360 comma 1 n. 3 c.p.c., per violazione dell’art.36 d.lgs. n. 546/1992 e 115 c.p.c. avendo la CTR erroneamente ritenuti assorbiti una serie di motivi d’appello, riguardanti singole riprese. e mancato di esaminare i documenti prodotti e mai contestati dall’Ufficio, cosicché risulta un vizio di omessa motivazione che rende nulla la sentenza. 8.1. Il motivo è inammissibile in quanto l'assorbimento erroneamente dichiarato si traduce in una omessa pronunzia (Cass. n. 26520 del 2023; Cass n. 12193 del 2020), che deve essere censurata in sede di legittimità ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (Cass. n. 11459 del 2019). In questo caso il motivo si discosta dalle regole in materia secondo cui, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell'art.112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l'una o l'altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d'ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del "fatto processuale", intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all'onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un'autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi (Cass. n. 28072 del 2021). 9. Con i motivi dal nono al quindicesimo il ricorrente denunzia la sentenza impugnata, in relazione all’art.360 comma 1 n.5 c.p.c., per l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia e segnatamente: «non avere annullato la ripresa a tassazione dei versamenti relativi all’acquisto di vendita e di carburante Eni» (motivo 9); «non avere annullato la ripresa a tassazione dei versamenti relativi agli incassi del negozio di telefonia Tim» (motivo 10); «non avere annullato la ripresa a tassazione delle operazioni effettuate quale “anticipo socio”, “finanziamento a favore di Ipsale” (Rosa, Salvatore, Luca, Fortunato), “restituzione finanziamento Ipsale”» (motivo 11); «non avere annullato la ripresa a tassazione delle operazioni neutre» (motivo 12); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 90.000,00 relativo all’acquisto dell’appartamento in via Canfora 55 Catania» (motivo 13); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 515.000,00 relativo all’acquisto delle quote di Villa Parlapiano» (motivo 14); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 300,000,00 relativo all’acquisto di un immobile a Milano alla via Teuliè n.13» (motivo 15). 9.1. Questi motivi sono inammissibili. 9.2. La censura prevista dal novellato art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ossia di un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico- naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali, che ha costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) (Cass. n. 13024 del 2022; Cass. n. 14802 del 2017); non possono considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio (Cass. n. 10525 del 2022). 9.3. Va considerato, inoltre, che, secondo quanto previsto dall’art. 348 ter, comma 5, c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), è escluso che possa essere impugnata ex art. 360, n. 5, c.p.c. la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (c.d. “doppia conforme”), salvo che il ricorrente non dimostri che le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello sono tra loro diverse (Cass. n.5947 del 2023); la “doppia conforme”, peraltro, ricorre non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni sono fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo Giudice (Cass. n. 7724 del 2022). 9.4. In questo caso, da un lato, manca la precisa indicazione dei fatti storici decisivi che la CTR avrebbe omesso di esaminare, poiché le doglianze riguardano la valutazione di mezzi istruttori ovvero istanze difensive, e, dall’altro, il ricorrente non si è fatto carico di superare la preclusione derivante dalla c.d. “doppia conforme”. 10. Conclusivamente, accolti il quinto motivo nei limiti in motivazione e il settimo motivo, rigettati gli altri, la causa deve essere cassata di conseguenza con rinvio alla Corte di merito in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. accoglie il quinto motivo nei limiti in motivazione e il settimo motivo, rigettati gli altri, cassa di conseguenza la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 06/12/2023. Il Consigliere estensore Il Presidente GIOVANNI LA ROCCA ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. APRILE Ercole - Presidente Dott. CAPOZZI Angelo - Relatore Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. IANNICIELLO Mariella - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Sa.Gi., nato a R il (Omissis) avverso la sentenza del 16/04/2024 della Corte di appello di Catania visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Angelo Capozzi; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberto Aniello, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; udito il difensore, avv. Em.Ci., che ha chiesto l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Catania, giudicando in sede di rinvio a seguito di sentenza emessa in data 9 maggio 2023 dalla Seconda sezione di questa Corte di cassazione, ha disposto la consegna di Sa.Gi. alla Autorità Giudiziaria di Malta a seguito di mandato di arresto europeo emesso in data 26 gennaio 2021 dalla Corte di giustizia di Malta per fini processuali in quanto imputato per i reati di cui agli artt. 308, 309, 293, 294, 310 del codice penale maltese (truffa e appropriazione indebita) commessi in M dal (Omissis), ordinandone la riconsegna alla Autorità italiana affinché lo stesso espiasse la pena eventualmente inflitta nelle carceri italiane. 2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore del consegnando deducendo i seguenti motivi: 2.1. Con il primo motivo erronea applicazione degli artt. 2 e 18 della legge n. 69/2005 in relazione all'omesso riconoscimento di una condizione ostativa all'accoglimento della richiesta di consegna per la sussistenza di un pericolo grave ed attuale di violazione dei diritti inalienabili della persona in conseguenza delle condizioni di detenzione in Malta; violazione dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen. anche in relazione agli artt. 17 e 22 della legge n. 69/2005. La Corte di appello ha omesso di verificare - come disposto dalla sentenza rescindente - la sussistenza "in concreto del pericolo di trattamenti inumani e degradanti conseguenti alla carcerazione del consegnando in M". Le informazioni integrative richieste dalla Corte sono del tutto insufficienti e inidonee alla richiesta verifica non essendosi potuto affermare che al singolo detenuto, ristretto presso il penitenziario maltese, sia assicurato, all'interno della cella di detenzione, uno spazio minimo vitale di almeno tre metri quadrati netti. Alla specifica richiesta della Corte, l'Autorità maltese - con nota del 6.03.2024 - ha risposto fornendo unicamente le dimensioni delle celle al netto dei mobili e dei letti, senza computare i servizi igienici allocati nella cella, comunicando che la cella più piccola del carcere di C è più grande di tre metri quadrati e che esistono celle di diverse dimensioni, senza fornire alcun dato sul numero di detenuti allocabili in dette celle. Inoltre, in relazione alla disponibilità o meno di acqua potabile, vi è la mera constatazione che il detenuto "ha accesso all'acqua in ogni momento" a fronte della annotazione da parte della stessa Corte della genericità della risposta "sul profilo se l'acqua disponibile ai detenuti sia potabile o no". Infine, quanto alla salubrità delle celle ed alla possibilità di accesso agli spazi esterni è parziale il richiamo operato dalla sentenza, facendo la relativa nota maltese del 19.12.2023, da cui esso è estratto, espresso riferimento anche alle notevoli variazioni della temperatura media all'interno e all'esterno della cella. 2.2. Con il secondo motivo violazione dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen. anche in relazione agli artt. 17 e 22 della legge n. 69/2005 essendosi disattesa la specifica questione di diritto posta nella prima sentenza di annullamento in data 11.01.2022, quando si afferma la mera ipoteticità ed eventualità della sottoposizione del consegnando a misura cautelare restrittiva in M, invece posta dalla predetta decisione di legittimità come ulteriore elemento di valutazione rispetto al dedotto rischio di violazione dell'art. 3 C.E.D.U. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Il primo motivo è manifestamente infondato. 2.1. La sentenza rescindente emessa in data 9 maggio 2023 disponeva che il giudice del rinvio acquisisse "informazioni individualizzate presso l'autorità maltese atte ad escludere, in concreto, il pericolo di trattamenti inumani e degradanti conseguenti alla carcerazione del consegnando", rilevando che la sentenza rescissa si era limitata a recepire la astratta indicazione della superficie disponibile all'interno delle celle dell'istituto di detenzione individuato, "mentre nulla è stato specificato quanto alla presenza di altri arredi tendenzialmente fissi idonei ad ulteriormente ridurre lo spazio calpestabile interno alla cella per ciascuno dei detenuti ivi ristretti, o quanto alla disponibilità di acqua potabile all'interno della cella, alla allocazione dei servizi igienici, ad altri "fattori" eventualmente compensativi, quali lo spazio esterno comune riservato al passeggio, il grado di affollamento medio delle celle, le ore dedicate quotidianamente alla fruizione di spazi comuni, l'accesso ai servizi igienici comuni e l'assicurazione di servizi sanitari interni alla struttura detentiva". 2.2. La sentenza impugnata ha, innanzitutto, considerato le informazioni fornite in data 16.10.2023 dalla Agenzia per i Servizi Penitenziari Triq II-Blet Valletta, Paola, PLA 1518 in risposta ai precedenti quesiti posti dalla Corte di appello e, a seguito di deduzioni difensive a riguardo, ha richiesto con ordinanza interlocutoria del 23-20/11/2023 informazioni integrative pervenute con nota del 19.12.2023 ritenute generiche - oltre al profilo dell'acqua potabile a disposizione dei detenuti in stanza - in ordine allo spazio netto calpestabile interno alla cella per ciascun detenuto ivi ristretto. Cosicché con ordinanza del 01.02.2024 si richiedevano ulteriori informazioni che pervenivano con nota del 06.03.2024 secondo la quale "la cella più piccola del penitenziario C è più grande di tre metri quadrati specificati dal Comitato per la prevenzione della tortura. La prigione menzionata contiene celle di varie dimensioni... nessuna cella è inferiore a sei metri quadrati... Lo spazio rimanente dopo aver dedotto (quindi escluso) lo spazio utilizzato per tutti i mobili ed anche per il letto, è superiore a tre metri quadrati". Pertanto, in base alle informazioni acquisite la Corte ha ritenuto di escludere il pericolo che il consegnando fosse sottoposto a trattamenti inumani e degradanti in relazione alla restrizione carceraria sul rilievo che già con la nota integrativa del 19.12.2023 il competente ufficio maltese aveva rappresentato "che lo spazio abitativo personale garantito per detenuto è di sei metri quadrati per detenuto, che, al netto di "un letto fisso, servizi igienici e mobili" si indica nella nota del 6.3.2024 "più grande di tra metri quadri"". Nella nota del 19.12.23 si precisa inoltre che "Gli standard stabiliti dal Cominato per la Prevenzione della Tortura (CPT) per lo spazio abitativo personale, che garantiscono un minimo di sei metri quadri per detenuto, sono destinati ad essere mantenuti anche in caso di sovraffollamento delle carceri. Ogni detenuto ha accesso all'acqua in ogni momento, anche nei casi in cui il detenuto cambia cella". Inoltre, "i detenuti sono liberi di lasciare le celle dalle 08,00 alle 12,00 e dalle 14,00 alle 19,30" informazione che ove necessitasse, rappresenta la sussistenza di quei "fattori compensativi" ritenuti necessari. Peraltro, "la ventilazione è assicurata attraverso l'installazione di ventilatori oscillanti e finestre all'interno delle celle"". Ha, poi, rilevato che i disposti accertamenti non risultavano acquisiti e certificati nell'ambito della diversa procedura allegata dalla difesa conclusasi con il rifiuto della consegna per mancato accertamento della garanzia al detenuto di uno spazio minimo vitale. 2.3. Ritiene questa Corte che gli approfonditi accertamenti svolti dalla Corte di appello si sottraggono alle censure del ricorrente essendosi puntualmente verificate - in conformità al devoluto della sentenza rescindente - le specifiche condizioni di detenzione presso l'istituto penitenziario maltese che rispettano i requisiti richiesti per escludere il pericolo di trattamenti inumani e degradanti, essendo superato il minimo di tre metri quadri di spazio individuale calpestabile - al di sotto del quale vi è la presunzione della violazione dell'art. 3 C.E.D.U. indicata nella nota sentenza della Corte E.D.U. Grande Camera del 20/10/2016 Muric c. Croazia - ed essendo considerate le condizioni di contesto della detenzione in conformità al principio secondo il quale, in tema di mandato di arresto europeo, non sussiste il "serio pericolo" che la persona ricercata venga sottoposta a trattamenti inumani o degradanti qualora dal paese richiedente venga garantito al detenuto uno spazio non inferiore a tre metri quadrati in regime chiuso, ovvero uno spazio inferiore in presenza di circostanze che consentano di beneficiare di maggiore libertà di movimento durante il giorno, rendendo possibile il libero accesso alla luce naturale ed all'aria, in modo da compensare l'insufficiente assegnazione di spazio (Sez. 6, n. 5472 del 01/02/2017, Mihai, Rv. 269008). 3. Il secondo motivo, peraltro riguardante una pretesa difformità da una prima sentenza rescindente e su una questione non devoluta dalla seconda sentenza rescindente del 9 maggio 2023, è assorbito dalla inammissibilità del precedente motivo. 4. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma che si stima equo determinare in euro tremila in favore della Cassa delle ammende. 5. Devono essere disposti gli adempimenti di cui all'art. 22, comma 5, L. n. 69/2005. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 22, comma 5, L. n. 69/2005. Così deciso il 29 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE composta da Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina A.R. - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da De.Si. nato a C il (Omissis) avverso la sentenza del 01/03/2023 della Corte di appello di Trento Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Maria Sabina Vigna; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Mariella De Masellis, che ha chiesto il rigetto del ricorso; letta la memoria della difesa di De.Si., che ha insistito per l'annullamento della sentenza; lette le conclusioni scritte della parte civile, che ha insistito per l'inammissibilità o il rigetto del ricorso e ha depositando nota spese. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Trento, all'esito di rito abbreviato, ha confermato la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Trento del 25 gennaio 2022, che dichiarava De.Si. responsabile del reato di maltrattamenti nei confronti della ex compagna Ve.Ma. (erroneamente indicata come ex moglie nel capo di imputazione} e lo condannava la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione. La sentenza, pur precisando l'assenza di un vincolo familiare e/o di convivenza tra imputato e persona offesa, sottolineava che le condotte vessatorie erano state attuate dall'imputato nell'ambito di un rapporto di convivenza, di non trascurabile durata, connotato da non irrilevante stabilità e da aspettative di mutua solidarietà. In particolare, l'imputato, quando già era cessata la relazione more uxorio con la Ve.Ma., veniva ospitato per alcuni mesi dalla stessa, perché non riusciva a trovare altra sistemazione; nel febbraio 2020 la donna lo allontanava da casa e, a partire da quel momento, veniva percossa, minacciata e ingiuriata fino ad ottobre 2020. 2. Avverso la sentenza ricorre per cassazione l'imputato, deducendo seguenti motivi: 2.1. Vizio di motivazione nella parte in cui il giudice di secondo grado, pur accertando e dichiarando che i fatti erano tutti stati commessi in periodo in cui l'imputato non abitava con la persona offesa, desumeva da tali fatti il raggiungimento della prova circa la sussistenza del rapporto familiare. È manifestamente illogica la motivazione dell'impugnata sentenza nella parte in cui, pur dando atto che il rapporto more uxorio era cessato nel 2011, ritiene che la ospitalità offerta all'imputato dalla persona offesa dal dicembre 2019 al gennaio 2020 - fosse caratterizzata da non irrilevante stabilità e da aspettative di mutua solidarietà. Sin dall'avvio della ospitalità, infatti, la Ve.Ma. aveva precisato che si trattava di disponibilità provvisoria e aveva intimato all'imputato di cercare immediatamente un proprio alloggio. I fatti per i quali De.Si. è imputato si sono tutti verificati mesi dopo il febbraio 2020: uno nel marzo 2020, altri nel settembre 2020 e altri ancora nell'ottobre 2020. 2.2. Violazione di legge con riferimento agli artt. 572 e 612-bis cod. pen., 25 Cost. e 14 delle disposizioni preliminari, con riferimento alla asserita sussistenza, allorché si sono consumate le condotte, di un rapporto di natura familiare o di convivenza tra la persona offesa e l'imputato. La difesa richiama sul punto la sentenza della Corte costituzionale che ha espressamente ammonito contro l'applicazione analogica dell'art. 572 cod. pen. e la più recente giurisprudenza di questa sezione circa i confini tra il reato di maltrattamenti e quello di stalking. Nel caso in esame, al più, possono ritenersi sussistenti gli estremi del reato di cui all'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati. 2. Occorre premettere che, richiamando un consistente indirizzo ermeneutico manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità, i giudici di merito hanno ritenuto che, per la configurabilità del delitto di maltrattamenti, il dato essenziale e qualificante risieda nell'instaurazione, tra autore e vittima, di un rapporto connotato da reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza; con il corollario per cui, se un siffatto rapporto esiste, e se, dunque, sussistano tra costoro strette relazioni dalle quali dovrebbero derivare rispetto e solidarietà, non è nemmeno necessaria una stabile o prolungata convivenza, potendo il reato configurarsi anche qualora la coabitazione sia di breve durata, instabile od anomala (fra molte altre, Sez. 6, n. 17888 del 11/02/2021, O., Rv. 281092; Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C, Rv. 261472; Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, I., Rv. 255628). Il suindicato indirizzo è frutto dello sforzo dell'interprete di ampliare lo spettro di tutela per soggetti tipicamente vulnerabili, poiché vittime di condotte prevaricatrici che maturano nell'ambito di rapporti affettivi dai quali hanno naturale difficoltà a sottrarsi. 2.1. Ritiene, tuttavia, il Collegio che tale lettura normativa debba essere superata, anche in considerazione dei numerosi passi avanti in tal direzione compiuti dalla legislazione più recente, a cominciare dal D.L. n. 11 del 2009, conv. dalla legge n.38 del 2009, che ha introdotto il delitto di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), e dalla stessa I. 172/2012, che ha esteso la platea dei soggetti passivi del delitto di maltrattamenti alla persona "comunque convivente", senza altro aggiungere. In tal senso, non può non osservarsi l'espresso monito di recente rivolto dalla Corte costituzionale al giudice penale, affinché rimanga aderente al testo normativo, correndo altrimenti il rischio di violare il divieto di analogia in malam partem, che caratterizza le norme incriminatrici. Chiamato a pronunciarsi su una questione di rito, sorta all'interno di un processo per tal specie di condotte, il Giudice delle leggi ha affidato all'interprete il compito di stabilire se relazioni affettive - per così dire - non tradizionali (in quel caso si trattava di un rapporto sentimentale protrattosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro) possano farsi rientrare nelle nozioni di famiglia" o di "convivenza", alla stregua dell'ordinario significato di queste espressioni. Ma immediatamente dopo ha ammonito che, "in difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572, cod. pen., in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico (...), ma comunque preclusa dall'art. 25, secondo comma, Cast." (Corte cost., sentenza n. 98 del 2021). 2.2. Tale sollecitazione è stata raccolta dalla più recente giurisprudenza di legittimità, alla quale il Collegio intende dar seguito. In ipotesi analoghe a quella in esame - poiché caratterizzate dal comune denominatore dell'assenza di un rapporto familiare o di convivenza tra autore e vittima al momento dei fatti - questa Sezione ha infatti ritenuto che non sia configurabile il reato di maltrattamenti, bensì, eventualmente, l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell'altro dopo la cessazione della convivenza (Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., Rv. 282254, ribadita da Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398, con la precisazione per cui, terminata la convivenza, vengono meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento; in termini, da ultimo, Sez. 6, n. 38336 del 28/09/2022, D. 11/10/2022, Rv. 283939-01). Invero, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici (art. 14, preleggi), immediato precipitato del principio di legalità (art. 25, Cost.), nonché la presenza di un apparato normativa che amplia lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell'ambito di relazioni interpersonali non qualificate, impongono, nell'applicazione dell'art. 572, cod. pen., di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" nell'accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d'affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché, ovviamente, non necessariamente continua (si pensi, ad esempio, al frequente caso di coloro che, per ragioni di lavoro, dimorino in luogo diverso dall'abitazione comune, per periodi più o meno lunghi ma comunque circoscritti). 2.3. In applicazione di tale principio, emerge, con sufficiente nitidezza, dal provvedimento impugnato, che le condotte poste in essere dall'imputato successivamente alla cessazione della convivenza non sono riconducibili nell'alveo del reato di cui all'art. 572 cod. pen. Risulta, infatti, dalla sentenza della Corte di appello che: - la stabile convivenza tra imputato e persona offesa era cessata nel febbraio 2011; - nel 2018 i figli della ex coppia venivano allontanati dalla madre e affidati al servizio sociale e veniva altresì sospesa la responsabilità genitoriale di entrambi, affetti da alcolismo e disturbi mentali; - a distanza di anni, tra il dicembre 2019 e il febbraio 2020, la persona offesa aveva dato ospitalità saltuaria all'imputato, il quale era rimasto senza casa; detta ospitalità era, per espressa dichiarazione resa dalla persona offesa, provvisoria ed esclusivamente volta a far fronte alla indisponibilità di un alloggio da parte dell'imputato; - nel febbraio 2020 la Ve.Ma. revocava la disponibilità ad ospitare l'imputato; - i fatti per cui De.Si. è imputato si sono tutti verificati mesi dopo il febbraio 2020: uno nel marzo 2020, altri nel settembre 2020 e altri ancora nell'ottobre 2020. È, quindi, di tutta evidenza che, essendo venuta meno la convivenza, il reato di maltrattamenti non è configurabile. 3. La sentenza impugnata deve, dunque, essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, che, in sede di rinvio, adeguandosi al principio di diritto sopra dettato, dovrà valutare la sussistenza dei presupposti del reato di cui all'art. 612-bis cod. pen. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Trento Sezione distaccata di Bolzano. Così deciso il 28 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9542 del 2023, proposto da: Er. Pa., rappresentata e difesa dall'avvocato Cr. Pe. Qu., con domicilio digitale pec in registri di giustizia contro Università degli studi di Siena, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Il. D'A. e Br. Pi., con domicilio digitale pec in registri di giustizia per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, sezione prima, n. 945/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Università degli studi di Siena; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il Cons. Laura Marzano; Udito, nell'udienza pubblica del giorno 21 maggio 2024, l'avvocato Cr. Pe. Qu.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con atto notificato in data 4 dicembre 2023 la dott.ssa Er. Pa. ha impugnato la sentenza del Tar Toscana, sezione IV, n. 945 del 18 ottobre 2023 con cui è stato respinto il ricorso proposto per l'annullamento: - del provvedimento di mancata iscrizione, in favore di parte appellante, ad anno successivo al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia a.a. 2022/2023, in relazione ai posti resi disponibili giusto decreto-bando dell'Università degli Studi di Siena denominato "Corso di laurea in Medicina e chirurgia Avviso pubblico per l'accesso agli anni successivi al primo - anno accademico 2022/2023"; - del decreto di approvazione atti e della graduatoria definitiva degli ammessi ad anni successivi al primo al corso di laurea magistrale a ciclo unico in medicina e chirurgia, emanate con Decreto Rettorale prot. 38971 del 21 febbraio 2023, per il III anno di corso, per il IV anno di corso, per il V anno di corso, nella parte in cui non collocano parte appellante in posizione utile alla iscrizione, nonché, ove occorra, di tutti i provvedimenti in essa richiamati e/o menzionati, nonché dei successivi scorrimenti delle graduatorie predette; - della omessa e/o errata valutazione della domanda di partecipazione della appellante alla procedura concorsuale riferita all'ammissione al IV anno del corso di laurea in medicina e chirurgia, e/o, comunque, a quella del III o V anno; - del decreto-bando, emanato dal Rettore dell'Università indicata in epigrafe, relativo alle procedure di ammissione ad anni successivi al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia a.a. 2022/2023, nonché, ove occorra, di tutti i provvedimenti in esso richiamati e/o menzionati ovvero delle pregresse relative delibere, ancorché non conosciute, adottate dagli organi accademici competenti; - dei criteri di valutazione delle candidature e dei curricula adottati dall'Ateneo ai fini della predisposizione della graduatoria finale per l'accoglimento o meno delle istanze di iscrizione in questione, nonché di tutti i relativi atti ed i verbali; - della valutazione delle istanze da parte della Commissione all'uopo nominata, nonché di tutti i relativi atti ed i verbali, ivi compresi quelli oggetto di ostensione da parte dell'Università di Siena, giusta nota 2023-UNSISIE-0069989 dell'11 aprile 2023 e, segnatamente, dei verbali della Commissione per l'esame delle domande pervenute per l'accesso agli anni successivi al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia (a.a. 2022-2023) nominata dal Comitato per la didattica nella seduta del 17 novembre 2022: 1. Verbale del 19 dicembre 2022 e relativi allegati; 2. Verbale del 24 gennaio 2023 e relativi allegati; 3. Verbale del 10 febbraio 2023 e relativi allegati; 4. Verbale del 21 marzo 2023 e relativi allegati; - della determinazione dell'Università in epigrafe del numero dei posti per trasferimento e passaggio di sede ad anno successivo al primo, a valere sul corso di laurea in medicina e chirurgia per l'a.a. 2022/2023, degli atti ed i verbali a tale determinazione relativi e dell'istruttoria compiuta a tale riguardo. La domanda di misure cautelari monocratiche è stata respinta con decreto n. 4887 del 5 dicembre 2023. L'Università appellata si è costituita nel presente grado di giudizio con memoria del 27 dicembre 2023, con cui ha chiesto la reiezione dell'appello. Con ordinanza n. 27 del 10 gennaio 2024 la sezione, in considerazione del contenuto della decisione impugnata e del necessario bilanciamento dei diversi interessi, ha fissato l'udienza per la trattazione dell'appello avendo ritenuto che le ragioni fatte valere dall'appellante possano essere efficacemente tutelate attraverso la sollecita definizione del giudizio. In vista della trattazione le parti hanno depositato memorie conclusive. Con atto depositato il 15 maggio 2024 l'amministrazione ha chiesto la decisione della causa sugli scritti. All'udienza pubblica del 21 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 2. Oggetto del giudizio è il mancato inserimento dell'appellante, in qualità di candidata già laureata in odontoiatria, nella graduatoria per l'iscrizione al quarto anno del corso di medicina e chirurgia presso l'Università degli studi di Siena per l'anno accademico 2022/2023, in posizione utile per potersi immatricolare, avendo conseguito un punteggio che non la colloca nei primi sei classificati, corrispondenti ai posti disponibili per il quarto anno. Unitamente alla graduatoria, la ricorrente in primo grado ha impugnato anche una serie di atti che, a suo dire, per ragioni di metodo e di merito, avrebbero condizionato negativamente la compilazione della graduatoria. La premessa che precede e l'elencazione degli atti impugnati è essenziale per perimetrare l'oggetto del presente giudizio e per sgombrare il campo da possibili equivoci indotti da alcuni atti depositati e da varie argomentazioni difensive. Rileva il Collegio, infatti, che l'appellante ha depositato nel presente grado di giudizio un documento (doc. B), che indica essere il ricorso di primo grado: tale atto, tuttavia, firmato digitalmente in data 23 ottobre 2024, non corrisponde né per contenuto né per data, al ricorso introduttivo del presente giudizio essendo un ricorso che la parte (verosimilmente) ha proposto o aveva intenzione di proporre al Tar Toscana incardinando un ulteriore giudizio, avente il diverso oggetto concernente il riconoscimento della carriera di provenienza della ricorrente, di cui al provvedimento adottato dal Comitato per la didattica del corso di laurea specialistica/magistrale in medicina e chirurgia dell'Università degli studi di Siena, al relativo verbale recante prot. n. 0155921 del 2 agosto 2023 ed atti successivi. Il contenuto di tale impugnazione non risulta trasfuso nel presente giudizio mediante la proposizione di motivi aggiunti, sicché la tematica del riconoscimento della carriera di provenienza della appellante e della convalida degli esami sostenuti nel corso di laurea in odontoiatria è estranea al thema decidendum. Tali atti successivi, peraltro, in quanto non impugnati nel presente giudizio, assumono comunque rilevanza ai fini della decisione del presente contenzioso. 3. Chiarito e definito l'ambito del giudizio, devono essere riportate le vicende fattuali della presente controversia. L'appellante ha presentato istanza per l'iscrizione ad anno successivo al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia per l'anno accademico 2022/2023, indetta con decreto-bando dell'Università degli studi di Siena denominato "Corso di laurea in Medicina e chirurgia Avviso pubblico per l'accesso agli anni successivi al primo - anno accademico 2022/2023", chiedendo l'iscrizione al IV anno del corso di laurea in medicina e chirurgia, in quanto studentessa già laureata in odontoiatria e protesi dentaria (conseguita presso l'Università degli studi di Perugia nel 2006) e, pertanto, in ragione del possesso di CFU sufficienti ad ottenere l'immatricolazione richiesta. Nella procedura di iscrizione al IV anno ella ha ottenuto il riconoscimento di 75 punti (a suo dire errati in difetto), calcolati sulla base del criterio e del coefficiente stabilito dall'art. 4, lett. B, del bando, posizionandosi in graduatoria in posizione non utile ai fini della ammissione al relativo corso di laurea. Quindi, avendo rilevato incongruenze nelle graduatorie (incluse quelle del terzo e del quinto anno) e nella propria valutazione, anche in merito all'applicazione dei criteri dettati dal bando, ha presentato all'Università istanza di accesso agli atti, volta a conoscere tutti gli atti e i verbali della commissione di ateneo all'uopo preposta. L'Università ha fornito riscontro, con nota dell'11 aprile 2023, ostendendo i seguenti verbali: 19 dicembre 2022 e relativi allegati; 24 gennaio 2023 e relativi allegati; 10 febbraio 2023 e relativi allegati; 21 marzo 2023 e relativi allegati. Tali atti, unitamente alle tre graduatorie e agli atti di indizione della procedura (in epigrafe elencati), sono stati impugnati dinanzi al Tar Toscana per i seguenti motivi: I. Illegittimità delle graduatorie del III, IV e V anno di cui all'"Avviso pubblico per l'accesso agli anni successivi al primo - anno accademico 2022/2023" dell'Università di Siena. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 33, 34 e 97 della costituzione - Violazione e falsa applicazione del Bando dell'Università . Eccesso di potere. Illogicità . Violazione del giusto procedimento; II. Illegittimità della valutazione della carriera universitaria di provenienza della ricorrente, con particolare riguardo al punteggio attribuitole nella graduatoria del IV anno. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 33, 34 e 97 della costituzione. Violazione e falsa applicazione del decreto interministeriale del 9 luglio 2009 del Ministro dell'istruzione dell'università e della ricerca di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e l'Innovazione. Violazione e falsa applicazione del bando dell'Università . Eccesso di potere. Illogicità . Violazione del giusto procedimento; III. Illegittimità delle graduatorie del III, IV e V anno di cui all'"Avviso pubblico per l'accesso agli anni successivi al primo - anno accademico 2022/2023" dell'Università di Siena. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 33, 34 e 97 della costituzione. Violazione e falsa applicazione del bando dell'Università . Violazione e falsa applicazione del verbale della commissione del 24 gennaio 2023 prot. n. 24497 dell'8 febbraio 2023. Eccesso di potere. Illogicità . Violazione del giusto procedimento; IV. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 33, 34 e 97 della costituzione. Eccesso di potere. Illogicità . Violazione del giusto procedimento; V. Illegittima determinazione del contingente di posti per l'ammissione e/o trasferimento e/o passaggio ad anno successivo al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia presso l'Università degli Studi di Siena a.a. 2022/2023. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 33, 34 e 97 della costituzione. Violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della legge n. 264/1999. Violazione e falsa applicazione dell'art. 6 ter del decreto legislativo n. 502/1992. Eccesso di potere. Illogicità . Sviamento per carente od insufficiente motivazione. Violazione del giusto procedimento per carenza di adeguata attività istruttoria. Eccesso di potere. Illogicità e contraddittorietà . Il Tar Toscana con ordinanza n. 179 del 25 maggio 2023 ha accolto l'istanza cautelare, disponendo l'ammissione con riserva della ricorrente al quarto anno del corso di medicina e chirurgia, anche in sovrannumero, con la seguente motivazione: "Considerato che ad un primo esame della fase cautelare appare fondato il primo motivo del ricorso nella parte in cui si deduce la violazione del bando laddove si è previsto che dovevano essere "ammessi alla graduatoria dell IV° anno coloro il cui punteggio calcolato secondo quanto previsto al precedente punto b) sia compreso tra 71 e 105 CFU"; Ritenuto che la previsione del possesso dell'ulteriore requisito delle iscrizioni agli anni precedenti, appare alla base del mancato rispetto delle soglie e degli scaglioni di CFU ai fini dell'inserimento della graduatoria di ciascun anno; Rilevato che, nel contemperamento dei diversi interessi coinvolti, appare prevalente l'interesse a consentire l'immatricolazione, con riserva e in caso anche in sovrannumero della ricorrente, al IV anno del corso di laurea in medicina e chirurgia presso l'Università in epigrafe". L'Università di Siena, quindi, in esecuzione dell'ordinanza, ha disposto l'iscrizione dell'appellante al IV anno del corso di laurea in medicina e chirurgia, con conseguente inserimento della stessa nel percorso formativo di Ateneo. Tuttavia, con sentenza n. 945 del 18 ottobre 2023, il Tar ha respinto il ricorso e, di conseguenza, l'Università di Siena, con decreto rettorale prot. 206848 del 3 novembre 2023, ha disposto l'annullamento dell'iscrizione al corso di laurea in medicina e chirurgia della appellante. 4. Le motivazioni poste alla base della suindicata sentenza possono così schematizzarsi: - sono infondati i primi due motivi con i quali si sostiene che la graduatoria sarebbe illegittima, in quanto contrastante con le prescrizioni del bando e, ciò, in conseguenza dell'introduzione da parte della commissione di un nuovo sottocriterio, non previsto dallo stesso bando, che avrebbe impedito alla ricorrente di essere in posizione utile per essere iscritta al quarto anno del corso di laurea in medicina, in quanto, sebbene "È la stessa Università di Siena ad ammettere che la Commissione ha integrato i criteri del bando prevedendo che, oltre ad essere in possesso dei CFU sopra citati, i candidati dovevano essere iscritti agli anni precedenti a quello nel quale intendevano concorrere", "Ad un più attento esame questo Tribunale ritiene che, malgrado una non chiarissima previsione del bando, la Commissione non avrebbe potuto che applicare il criterio sopra descritto" atteso che il decreto ministeriale del 16 marzo 2007 "prevede che il corso di Laurea in medicina ha una durata pari a sei anni e, in quanto tale, non è suscettibile di essere ridotto ad un numero di anni inferiore", quindi quello contestato "non è suscettibile di essere qualificato quale un "nuovo" criterio, in quanto la Commissione si è limitata ad applicare la disciplina vigente, meglio precisando quanto già contenuto (in modo forse non del tutto intellegibile) nel bando di concorso nella normativa vigente e, ciò, nell'intento di evitare l'abbreviazione della durata del corso di laurea a ciclo unico di Medicina e Chirurgia, avente necessariamente una durata legale di almeno 6 anni"; - "Analoghe considerazioni possono essere estese con riferimento alla conversione dei voti dei candidati provenienti dalle Università straniere che non adottano il sistema in 30esimi, laddove la Commissione ha previsto che, per il calcolo della relativa media, venissero utilizzate le apposite tabelle di conversione allegate al Decreto Direttoriale n. 909 del 2002"; - non è condivisibile l'argomentazione diretta ad affermare che la commissione avrebbe dovuto attribuire alla ricorrente 360 CFU in luogo dei 300 riconosciuti nella valutazione del corso di laurea in odontoiatria (secondo motivo di ricorso), atteso che la valutazione della commissione è stata posta in essere in applicazione del DM n. 583 del 24 giugno 2022 laddove prevede che il giudizio sia strettamente attinente al percorso formativo compiuto dallo studente e che, in ogni caso, non risulta superata la prova di resistenza in quanto, anche laddove alla ricorrente fossero stati riconosciuti i 360 CFU richiesti, ella avrebbe raggiunto un punteggio di 90 (calcolato sempre con il criterio e il coefficiente di cui all'art. 4, lett. B, del bando, comunque non sufficiente a collocarsi nei primi 6 posti; - è infondato il terzo motivo, con il quale si sostiene che sarebbe illegittimo il criterio previsto dalla commissione secondo il quale non potevano essere conteggiati due volte i CFU in caso di presentazione di più carriere da parte di uno studente avendo invece la commissione precisato che in caso di "candidati che abbiano presentato più carriere non sono conteggiati i CFU che risultano chiaramente convalidati dalla carriera pregressa presentata a favore di quella più recente", così evitando di conteggiare due volte gli stessi CFU; - attengono all'esercizio di un potere discrezionale le censure contenute nel quarto e nel quinto motivo con le quali si è contestata l'attribuzione di un coefficiente di 0,25 per la laurea in odontoiatria e, ancora, il numero dei posti messi a concorso dall'amministrazione, essendo congruo il coefficiente "in quanto la commissione ha valutato un percorso di laurea secondo il vecchio ordinamento (quale è quello conseguito dalla ricorrente), corso che non appartiene alla classe di laurea di Medicina e Chirurgia, ma ad una classe di laurea diversa" ed avendo il decreto ministeriale n. 583 del 24 giugno 2022, nel chiarire le modalità concrete con le quali gli atenei devono calcolare i posti disponibili per ciascun anno di corso, escluso la possibilità di iscrivere gli studenti oltre i posti disponibili vietando, altresì, le iscrizioni in sovrannumero. 5. L'appello è affidato ai motivi di seguito sintetizzati. 1) Con il primo motivo la sentenza impugnata è censurata per contraddittorietà fra la motivata soluzione adottata in cautelare e la poco motivata soluzione adottata nella decisione di merito, sia con riferimento alla violazione delle regole del bando per quanto riguarda il range di punteggio previsto per l'inserimento in ciascuna graduatoria, sia per l'illegittima introduzione del criterio aggiuntivo da parte della commissione, consistente nel richiedere che i candidati "abbiano almeno 2 anni di iscrizioni pregresse in altro o altri corsi di laurea", per l'iscrizione al terzo anno, ovvero 3 anni per l'iscrizione al quarto anno e 4 anni per l'iscrizione al quinto anno. Lamenta che l'introduzione di tale ulteriore criterio, non indicato nel bando, avrebbe completamente falsato le graduatorie, in quanto avrebbe svilito e disapplicato le soglie e gli scaglioni di CFU per l'ingresso nella graduatoria di un anno piuttosto che in quella di un altro anno. 2) Con il secondo motivo lamenta che la valutazione della sua carriera pregressa e il punteggio attribuitole dalla commissione sarebbe errato, poiché in contrasto con il decreto interministeriale del 9 luglio 2009 del Ministro dell'istruzione dell'università e della ricerca di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e l'Innovazione, il quale all'allegato 1, recante la tabella di equiparazione, stabilisce che la laurea in odontoiatria e protesi dentaria di cui al vecchio ordinamento (52/S Odontoiatria e protesi dentaria) è equiparata a quella del nuovo (LM-46 Odontoiatria e protesi dentaria), la quale ultima prevede un numero di crediti formativi universitari (CFU) pari a 360, come peraltro risulta dalla attestazione del sito dell'Università di Perugia, depositata in atti. Quindi ritiene che quale base di calcolo per il coefficiente moltiplicatore, si sarebbe dovuto assumere il numero di CFU pari a 360 e non 300, come erroneamente avrebbe fatto la commissione. Censura pertanto quanto deliberato dalla commissione nel verbale del 24 gennaio 2023 in cui si legge: "La Commissione, seguendo le indicazioni del detto avviso pubblico e i criteri per l'esame delle domande valide declinati nella seduta del 19 dicembre 2022, precisa inoltre quanto segue: - i candidati laureati nei corsi di laurea appartenenti a ordinamenti nei quali non erano previsti CFU ma solo annualità sono valutate per 60 CFU per ciascun anno della durata legale del corso al momento del conseguimento del titolo". Tale criterio di valutazione (che ha determinato la riduttiva valutazione dei CFU) sarebbe illegittimo sia perché introduce un criterio di valutazione non previsto dal bando, sia perché contrasta con il richiamato decreto interministeriale. 3) Con il terzo motivo l'appellante censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto infondato il terzo motivo facendo rilevare che, diversamente da quanto erroneamente interpretato dal Tar, la censura formulata in primo grado riguardava non il criterio (secondo cui chi avesse più lauree non poteva far valere CFU già conteggiati in ragione della prima laurea) in sé, bensì la violazione del suddetto criterio evidenziando che, quanto meno per i concorrenti individuati specificamente nel ricorso, la commissione avrebbe conteggiato per due volte gli stessi CFU. Sostiene che tali candidati, in virtù del sistema di calcolo (moltiplicatore) del punteggio dei CFU previsto dal bando, sarebbero stati avvantaggiati avendo visto considerata una duplicazione delle proprie carriere. 4) Con il quarto motivo l'appellante censura la sentenza nella parte in cui avrebbe, a suo dire, liquidato sbrigativamente il quarto motivo di ricorso, sulla scorta della discrezionalità di cui gode la commissione (rectius l'amministrazione). Osserva che la censura, in questo caso, riguardava l'illogicità del coefficiente moltiplicatore indicato dal bando per la laurea in odontoiatria e protesi dentaria. Sostiene che il coefficiente di 0, 25 sarebbe: - riduttivo perché non terrebbe conto che il corso di odontoiatria ha il primo biennio, praticamente, in comune con il percorso di medicina; - illogico perché ha posto sullo stesso piano (indicando lo stesso coefficiente) percorsi di laurea che, invece, sono molto differenti (biotecnologie, scienze biologiche, magistrali in biotecnologie mediche, veterinarie e farmaceutiche, magistrali in psicologia) senza tener conto del fatto che tali ultimi percorsi di laurea hanno una evidente inferiore affinità (in termini di compatibilità di esami) rispetto a quello di odontoiatria; - sproporzionato rispetto allo stesso corso di medicina, ai cui candidati richiedenti trasferimento è stato assegnato un coefficiente moltiplicatore pari a 1,00 (ciò anche in considerazione del fatto che la maggior parte dei candidati istanti risultava essere proveniente da università straniere, il cui percorso formativo non è propriamente sovrapponibile a quello italiano). Infine osserva che tale criterio di valutazione delle domande è stato introdotto, per la prima volta, nel corrente anno accademico e nella selezione per cui è causa mentre in precedenza, come si evince anche dal bando dell'anno precedente presso il medesimo ateneo (depositato in atti), era stato utilizzato il più equo criterio di conteggio dei CFU corrispondenti agli esami sostenuti nel piano degli studi di ciascun candidato, senza prevedere l'applicazione di alcun coefficiente moltiplicatore. 5) Con il quinto motivo l'appellante censura la sentenza nella parte in cui ha respinto il motivo concernente l'illegittima determinazione dei posti disponibili che sarebbe stata effettuata in carenza di istruttoria. 6. Le difese dell'amministrazione poggiano essenzialmente sulla tesi, accolta dal Tar, che la commissione non avrebbe introdotto alcun nuovo criterio ma si sarebbe limitata a specificare il portato di una disciplina sovraordinata che, in mancanza di intervento della commissione, avrebbe comunque comportato l'eterointegrazione del bando, osservando che il decreto del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca n. 583 del 24 giugno 2002, all'allegato 12, quanto all'iscrizione agli anni successivi al primo, dispone che: "agli atenei è consentito di procedere all'iscrizione dei candidati collocati in posizione utile in graduatoria ad anni successivi al primo esclusivamente a seguito del riconoscimento dei relativi crediti e delle necessarie propedeuticità previste dai regolamenti di corso di studio di Ateneo" e l'art. 32 del regolamento dell'ateneo di Siena prevede che il corso di laurea in medicina e chirurgia non può essere abbreviato, sicché correttamente la commissione avrebbe previsto che per l'ammissione agli anni successivi è necessario acquisire, oltre che il numero dei crediti previsti dal bando, anche i precedenti anni di iscrizione e, quindi, gli esami compiuti. Fa presente che, come dimostrato nel corso del primo grado di giudizio, la non applicazione del suddetto criterio avrebbe comportato, per tornare all'ipotesi invocata dall'appellante, che il primo candidato in posizione utile nella graduatoria del quarto anno, con un punteggio di 191,5 (derivante dai CFU conseguiti in 3 anni di iscrizione nel corso di laurea in medicina e chirurgia), sarebbe stato inserito nella graduatoria del quinto anno e iscritto a tale annualità di corso, ottenendo illegittimamente ed in spregio alla normativa vigente in materia una abbreviazione del corso di laurea in medicina e chirurgia, frequentando un anno in meno rispetto a quanto previsto a livello comunitario. In ordine all'asserita erroneità della valutazione, effettuata della commissione, della carriera di provenienza della appellante, poiché considerata contrastante rispetto a quanto prescritto dal decreto interministeriale del 9 luglio 2009, ribadisce che l'appellante non ha dimostrato in giudizio il superamento della prova di resistenza. In ogni caso ricorda che l'equiparazione di cui al citato decreto interministeriale è prevista ai soli fini dell'accesso ai pubblici concorsi, mentre in questo caso si tratta dell'ammissione di uno studente alla frequenza delle attività didattiche di un corso di laurea, per le quali si deve applicare quanto prescritto dal decreto ministeriale n. 583 del 24 giugno 2022. La correttezza dell'operazione effettuata dalla commissione sarebbe, peraltro, confermata dalle determinazioni assunte dal Comitato della didattica di ateneo del 22 giugno 2023 e del 17 agosto 2023 (atti depositati nel fascicolo di primo grado), con cui l'organo a ciò espressamente preposto, nel ricostruire la carriera della ricorrente in sede di iscrizione al quarto anno, le ha riconosciuto integralmente solo due degli esami sostenuti nel corso di laurea in odontoiatria, stanti le differenze formative e di ordinamento didattico del corso di studi di odontoiatria vecchio ordinamento rispetto a quello di medicina, così come precisate dai rispettivi decreti ministeriali di riferimento. Contesta, alla luce dei documenti prodotti, la circostanza, peraltro non provata, secondo cui la commissione avrebbe effettuato una valutazione multipla delle carriere dei candidati. In ogni caso rileva che la censura dell'appellante su questo punto sarebbe anche inammissibile non essendo stato provato in giudizio il vantaggio in graduatoria che l'appellante avrebbe potuto conseguire ove fosse stato espunto tale criterio. Osserva che il coefficiente di 0,25 attribuito al corso di laurea in odontoiatria sarebbe coerente con la normativa universitaria di riferimento, attese le indubbie ed evidenti differenze formative dei due corsi di laurea di cui si discute. 7. Nelle memorie conclusive (conclusionale e replica), l'appellante ha sostanzialmente ripetuto le stesse argomentazioni più volte formulate, fra le quali merita di essere segnalata la specificazione, relativa alla censura riguardante la duplicazione di valutazione di CFU asseritamente effettuata dalla commissione per alcuni candidati. Osserva l'appellante che, nella memoria dell'amministrazione depositata in primo grado si legge (pag. 13) che: "Invero, la Commissione espletando il suo potere/dovere di predeterminazione dei criteri da seguire nel valutare le domande ha precisato che in caso di "... candidati che abbiano presentato più carriere non sono conteggiati i CFU che risultano chiaramente convalidati dalla carriera pregressa presentata a favore di quella più recente". (vedi al proposito all.8). In pratica, la Commissione, attenendosi a tale criterio, ha correttamente proceduto a valutare ai fini del punteggio da attribuire tutti i CFU conseguiti dagli studenti nelle diverse carriere universitarie nel frattempo sostenute; essa ha ritenuto, quindi, maggiormente garantista ed equo effettuare un conteggio pieno e completo solo ove non fosse evidente e/o non dichiarato dallo stesso candidato che i CFU conseguiti nella vecchia carriera fossero stati riconosciuti anche nella carriera più recente da parte dell'Ateneo di ultima iscrizione, e ciò al fine di evitare di conteggiare doppiamente lo stesso sforzo compiuto da uno studente per l'ottenimento dei medesimi CFU. Al contrario, nei casi in cui tale evidenza non si evincesse dalla domanda di partecipazione, la Commissione ha considerato, in virtù di un principio generale di favor, che la più recente acquisizione di CFU rappresentasse uno sforzo effettivo dello studente; tale criterio era necessario a fronte della non rara evenienza di ripetizione di un esame, dal momento che ciascuno Ateneo ha piena autonomia nelle modalità di convalida degli esami, soprattutto in un contesto in cui spesso si tratta di Atenei appartenenti a sistemi universitari nazionali ed esteri, con ordinamenti didattici eterogenei e talvolta anche molto diversi fra loro". Quindi l'appellante evidenzia che l'Università avrebbe ammesso che è stata considerata la doppia carriera, a meno che non fosse espressamente dichiarato dal candidato una duplicazione dello stesso esame nei due o più percorsi: ipotesi che ritiene inverosimile. Ciò posto denuncia, ancora una volta, il travisamento del motivo da parte del Tar, l'erroneità della sentenza e l'illegittimità, in via ulteriore, delle graduatorie. 8. Seguendo l'ordine logico, in luogo dell'ordine impresso dall'appellante alle censure, il Collegio ritiene di dover esaminare per primo il quarto motivo con cui è dedotta l'illogicità del coefficiente moltiplicatore di 0,25 indicato dal bando per la laurea in odontoiatria e protesi dentaria. Innanzitutto va osservato che non è dirimente la circostanza che nei bandi degli anni precedenti tale criterio non fosse previsto: non appare illegittima (né peraltro ne è dedotta l'irragionevolezza) l'introduzione nel bando di tale coefficiente moltiplicatore, dal momento che l'amministrazione può discrezionalmente introdurre criteri di calcolo o di valutazione, purché non manifestamente errati o irragionevoli. Nel caso di specie da una parte tale scelta non appare irragionevole e, dall'altra, l'appellante non ha evidenziato come tale coefficiente, peraltro applicato uniformemente a tutti i candidati della medesima provenienza, l'avrebbe penalizzata, essendosi limitata ad argomentazioni generiche e di principio. Quanto alla scelta del coefficiente deve rilevarsi che si tratta di quello più alto, dopo quello di 1, attribuito soltanto ai candidati provenienti dal corso di medicina, ed è attribuito in modo uniforme a discipline che, evidentemente, sulla base dei rispettivi piani di studio, sono state non irragionevolmente ritenute di pari attinenza (biotecnologie, scienze biologiche, magistrali in biotecnologie mediche, veterinarie e farmaceutiche, magistrali in odontoiatria e protesi dentaria, magistrali in psicologia) ma comunque di maggiore vicinanza al corso di medicina rispetto ad altre discipline sanitarie, cui però è stato attribuito il minore coefficiente 0,10 (scienze delle attività motorie, scienze e tecniche psicologiche, scienze e tecnologie farmaceutiche, professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica, professioni sanitarie della riabilitazione, professioni sanitarie tecniche, professioni sanitarie della prevenzione, magistrali biologia, magistrali in farmacia e farmacia industriale, magistrali in ingegneria biomedica, magistrali in medicina veterinaria, magistrali in scienze della nutrizione umana, lauree magistrali nelle scienze infermieristiche e ostetriche, magistrali nelle scienze delle professioni sanitarie della riabilitazione, magistrali nelle scienze delle professioni sanitarie tecniche, magistrali nelle scienze delle professioni sanitarie della prevenzione). Anche la circostanza che il coefficiente 1 sia stato previsto soltanto per i candidati provenienti dal corso di medicina non appare illegittimo, non essendo irragionevole dare precedenza, verosimilmente anche per ragioni di continuità didattica, a chi provenga da altri atenei e stia già seguendo tale corso di laurea. 9. Sempre in ordine logico va esaminato il secondo motivo, con cui l'appellante lamenta l'errata attribuzione in suo favore di 300 CFU e non di 360, come previsto nel decreto interministeriale del 9 luglio 2009. Il motivo è infondato atteso che, come rilevato dalla difesa dell'amministrazione, tale decreto ha ad oggetto le "Equiparazioni tra diplomi di lauree di vecchio ordinamento, lauree specialistiche (LS) ex decreto n. 509/1999 e lauree magistrali (LM) ex decreto n. 270/2004, ai fini della partecipazione ai pubblici concorsi". Il suddetto decreto, pertanto, sarebbe potuto essere assunto come base di riferimento ma non può considerarsi obbligatorio nei confronti dell'ateneo senese, con riferimento ad una procedura che non riguarda la partecipazione ad un concorso pubblico ma che disciplina l'accesso ad un corso di laurea: nel predisporre tale disciplina l'ateneo, nell'ambito della propria autonomia, può fissare e, nel caso di specie, ha fissato un diverso criterio, valido per tutti i candidati già laureati, attribuendo 60 CFU a ciascun anno del corso di laurea concluso dal candidato. Sotto tale profilo gli atti impugnati si presentano immuni da vizi. D'altra parte non può sottacersi la circostanza, posta in luce anche nella sentenza impugnata, che l'appellante, anche se le fossero stati riconosciuti 360 CFU, avrebbe conseguito un punteggio di 90, comunque insufficiente per collocarsi utilmente in graduatoria. 10. A seguire va esaminato il terzo motivo con cui l'appellante, censurando la sentenza, lamenta la violazione da parte della commissione del criterio autoimpostosi di non conteggiare per due volte gli stessi CFU. L'appellante ha indicato, nel dettaglio, i codici di alcuni candidati che sarebbero stati avvantaggiati da tale doppio conteggio. Il motivo è infondato. Nella documentazione in atti è presente una scheda che elenca le domande in cui la commissione ha semplicemente riportato quanto dichiarato dai candidati; invece, esaminando le graduatorie, è possibile rilevare che, dei codici indicati dall'appellante, soltanto 4 risultano inseriti in una graduatoria e, segnatamente, nella graduatoria del quarto anno, quella di interesse della dottoressa Pa. (ossia il candidato n. protoc. 2022-UNISISIE-0223325, il candidato n. protoc. 2022-UNISISIE-0223989, il candidato n. protoc. 2022-UNISISIE-0223322 e il candidato n. protoc. 2022-UNISISIE-0226222, i quali tuttavia, al pari dell'appellante, sono tutti collocati in posizione non utile). Ne discende che è palese l'inammissibilità della censura dal momento che, anche escludendo i suddetti candidati, l'appellante comunque non si collocherebbe in posizione utile per immatricolarsi, ossia fra i primi sei. Quanto precede, priva di rilevanza il richiamo fatto dall'appellante alle difese dell'amministrazione, con le quali, a suo dire, la stessa avrebbe ammesso che in alcuni casi vi sia stata duplicazione nella valutazione dei CFU. A prescindere dal rilevo che le affermazioni del difensore dell'ateneo sono espresse in forma meramente ipotetica, è dirimente la circostanza che non risulta provato in concreto quale delle valutazioni della commissione possa aver vulnerato la posizione della ricorrente. 10. Quanto al primo motivo, il Collegio ne rileva innanzitutto l'inammissibilità per carenza di interesse. Va osservato che la dottoressa Pa. non è stata esclusa dalla graduatoria perché, in ipotesi, priva del requisito dell'iscrizione ad anni precedenti; al contrario è stata collocata in graduatoria ma in posizione non utile per insufficienza del punteggio per collocarsi bei primi sei posti. Il suddetto criterio, che l'appellante qualifica illegittimo perché non previsto nel bando, non l'ha in concreto danneggiata, quindi ella non ha interesse a censurarlo. Ciò posto deve anche rilevarsi che la commissione ha specificato espressamente un criterio che, comunque, avrebbe eterointegrato il bando, dal momento che l'art. 32 del regolamento dell'ateneo di Siena prevede che il corso di laurea in medicina e chirurgia non può essere abbreviato. Detta previsione si pone in linea con l'allegato 1 al decreto del Ministero dell'università e della ricerca del 16 marzo 2007, recante "Determinazione delle classi di laurea magistrale", il quale prevede che per la facoltà di medicina e chirurgia sono necessari 6 anni e 360 CFU (60 x anno) di cui 60 acquisiti in attività formative volte alla maturazione di specifiche capacità professionali (cfr. pag. 115 della Gazzetta ufficiale della Repubblica del 9 luglio 2007, n. 157). La regola, va osservato, non è assoluta in quanto in altri atenei è possibile ottenere l'abbreviazione del corso di laurea: per esempio nel "Regolamento per la frequenza dei corsi di laurea e laurea magistrale e contribuzione studentesca" dell'università di Roma "La Sapienza" è previsto all'art. 49, al comma 1 che "1. E' possibile ottenere una abbreviazione di corso a seguito di passaggio ad altro Corso di studio della Sapienza (art. 10), a seguito di trasferimento da altra Università (art. 44), a seguito di riconoscimento esame dopo rinuncia agli studi (art. 48), a seguito di riconoscimento esami dopo la decadenza (art. 34), a seguito di un cambio di ordinamento (art. 38), all'atto di una nuova iscrizione al primo anno di corso, per chi risulta già in possesso di un titolo di studio italiano o estero o, come previsto dal Regolamento Didattico di Ateneo, per chi ha terminato un Master o un Corso di perfezionamento. Per questi ultimi due casi sono riconoscibili massimo 12 Cfu" e al comma 5: "Valutazione del percorso formativo e variazione dell'anno di corso. La valutazione della carriera ai fini del riconoscimento dei crediti è effettuata sull'intero percorso formativo pregresso, fatte salve eventuali disposizioni delle strutture didattiche. La struttura didattica del corso, dopo la valutazione della carriera pregressa, definirà l'anno di corso a cui ci si potrà iscrivere, in base al numero di esami riconoscibili e la Segreteria amministrativa effettuerà la variazione". Tanto chiarito in ordine alla carenza di interesse dell'appellante a dolersi del criterio in questione, che non l'ha affatto danneggiata, per completezza deve comunque osservarsi che, così come risultante dalla integrazione operata dalla commissione, il bando risulta piuttosto oscuro e intrinsecamente contraddittorio. Invero, se si ammette, come previsto nel bando, che possa accedere direttamente al terzo, al quarto o al quinto anno di corso, un candidato in possesso di un'altra laurea, implicitamente si esclude (e non potrebbe essere diversamente) che costui sia già iscritto ad un corso di medicina: chiedendo dunque, in aggiunta, anche la pregressa iscrizione a medicina per due, tre o quattro anni, si finirebbe per consentire l'accesso soltanto a candidati già iscritti a medicina, provenienti da altri atenei, italiani o stranieri. Ma, nel bando, così non è . D'altra parte, ammettere, come è previsto nel bando, che un candidato possa accedere al terzo, al quarto o al quinto anno di medicina, perché in possesso di un diploma di laurea i cui CFU siano sufficienti per l'immatricolazione, significa implicitamente consentire (e non potrebbe essere diversamente) che il corso di studi di 6 anni possa essere abbreviato. Dunque è evidente l'aporia rilevabile nel bando, come predisposto dall'Università di Siena e integrato dalla commissione. Pertanto, se lo scopo che l'Università si prefigge di raggiungere, è quello di evitare che lo studente che si iscriva ad anni successivi abbia una preparazione non conforme al percorso di studi che tutti gli studenti di medicina hanno seguito negli anni precedenti, il vincolo da imporre, a parere di questo Collegio, non è quello del numero di anni, bensì quello del numero e del tipo di esami già proficuamente sostenuti nel corso di laurea di provenienza. Non a caso, nella valutazione successiva (la cui tematica è estranea al perimetro di questo giudizio) la commissione ha riconosciuto all'appellante soltanto due degli esami sostenuti nel corso di odontoiatria, vecchio ordinamento: a parere del Collegio questo è il dato da esigere e valorizzare ai fini dell'ammissione ad anni successivi. Il dato numerico è di per sé insignificante, dal momento che chi ha concluso un altro corso di laurea ha certamente svolto, all'interno della struttura universitaria, un numero di anni che, sommato a quelli che andrà a svolgere immatricolandosi al terzo, al quarto o al quinto anno di medicina, coprirà comunque e senza ombra di dubbio i sei anni di corso fissati per la facoltà di medicina. Chiusa questa digressione in punto di metodo, quanto alla doglianza che investe la contraddittorietà nella decisione del Tar laddove, nella sentenza appellata, ha manifestato un orientamento opposto a quello manifestato in sede cautelare, il Collegio deve ricordare che la fase cautelare per sua natura comporta provvedimenti giurisdizionali non definitivi, emanati con riserva di accertamento della fondatezza nel merito, con l'evidente finalità di evitare che la pendenza del giudizio pregiudichi la parte vittoriosa all'esito del processo. Questi provvedimenti dunque sono interinalmente subordinati alla verifica definitiva della fondatezza della tesi del ricorrente e i definitivi effetti di carattere sostanziale conseguono solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito favorevole, che è la sola idonea a conformare con effetti permanenti la realtà giuridica interinalmente cristallizzata dal provvedimento cautelare del giudice (cfr. Cons. Stato, sez. III, 8 giugno 2016, n. 2448). Da ciò discende che il provvedimento interinale per definizione non può che essere provvisorio e prodromico alla pronuncia che chiude il giudizio (cfr., in argomento, Cons. Stato, sez. II, 13 agosto 2019, n. 5711). Non a caso le ordinanze cautelari, in quanto prive di contenuto definitivamente decisorio, sono insuscettibili di passare in giudicato, analogamente ai provvedimenti istruttori, interlocutori o di rinvio al ruolo ordinario (cfr. Cons. Stato, sez. III, 29 agosto 2018, n. 5084 e sez. V, 10 giugno 2015, n. 2847). Un provvedimento di sospensione dell'esecuzione dell'atto amministrativo si limita ad impedire temporaneamente e con efficacia ex nunc, la possibilità di portare l'atto ad ulteriore esecuzione e, per questo, è inevitabilmente connesso alla conclusione del giudizio. Quindi gli effetti di carattere sostanziale possono conseguire solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito, che è la sola idonea a rimuovere dalla realtà giuridica l'atto con effetti permanenti ovvero a confermarla (cfr. Cons. Stato, sez. III, 28 giugno 2019 n. 4461). Sotto il profilo sistematico, poi, la inconfigurabilità di un giudicato cautelare è direttamente dimostrata anche dall'art. 21 septies della legge 241/1990, il quale sanziona con la nullità solo ed esclusivamente l'atto che viola o elude il giudicato sulla sentenza e non anche della pronuncia del giudice che non abbia ancora il carattere della definitività come la pronuncia cautelare (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 marzo 2021, n. 2004). Dai principi fin qui declinati emerge con chiarezza come la decisione definitiva non sia in alcun modo condizionata da quella assunta in sede cautelare la quale, infatti, non produce effetti sostanziali, stante la sua naturale interinalità . La possibile divergenza fra decisione cautelare e decisione di merito, lungi dall'essere sintomo di contraddittorietà, è semmai la conferma, ove mai ve ne fosse necessità, di come l'esame approfondito del merito della vicenda dedotta in giudizio possa dar luogo ad un esito diverso da quello conseguente ad una cognizione meramente sommaria (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 10 maggio 2024, n. 4222). 11. Infine, solo per completezza, trattandosi di censura che l'appellante ha sostanzialmente abbandonato, non avendola ribadita nelle memorie conclusive, è inammissibile per genericità il quinto motivo, con cui si lamenta il presunto difetto di istruttoria nella determinazione, da parte dell'ateneo, dei posti disponibili. Osserva il Collegio che l'appellante non ha indicato in alcun modo in cosa consista il lamentato difetto di istruttoria né quali verifiche ulteriori l'ateneo avrebbe in ipotesi dovuto effettuare, onde pervenire ad un numero di posti superiore; fermo restando il rilievo che l'appellante è collocata in graduatoria in posizione piuttosto deteriore, sicché è difficile perfino ipotizzare che, con una istruttoria più approfondita, i posti potessero essere portati da 6 sei a circa 150, fino a raggiungere i candidati con punteggio pari a quello dell'appellante. Conclusivamente, per quanto precede, l'appello deve essere respinto. 12. Le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate tenuto conto della novità delle questioni trattate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Daniela Di Carlo - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Relatore Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. RECCHIONE Sandra - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto nell'interesse di: Pa.Em., nato a N il (omissis), contro la sentenza della Corte d'appello di Roma del 4.12.2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Pierluigi Cianfrocca; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Pasquale Luigi Orsi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; udito l'Avv. Ni.Pe., in difesa del ricorrente, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte d'appello di Roma ha confermato la sentenza con cui, il 17.3.2023, il Tribunale di Tivoli aveva riconosciuto Pa.Em. responsabile dei delitti di rapina pluriaggravata e lesioni personali aggravate e, esclusa la pur contestata recidiva, con le ritenute circostanze attenuanti generiche, l'aumento per la continuazione e la finale riduzione per la scelta del rito, lo aveva condannato alla pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione ed euro 1.600 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere; aveva applicato le pene accessorie conseguenti alla entità di quella principale e condannato l'imputato al risarcimento dei danni patiti dalle costituite parti civili; aveva da ultimo revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena concessa all'imputato con la sentenza del 4.10.2019 del Tribunale di Salerno, irrevocabile il 22.10.2019; 2. ricorre per cassazione Pa.Em. a mezzo del difensore che deduce: 2.1 inosservanza dell'art. 628, comma secondo, cod. pen., con riguardo al requisito della violenza e contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine al narrato offerto dai dichiaranti, omessa risposta alle censure articolate con l'atto di appello anche sotto il profilo del travisamento: rileva che la Corte d'appello, disattendendo le censure articolate dalla difesa, ha confermato la responsabilità del ricorrente ritenendo credibili ed attendibili le dichiarazioni dei testi in ordine alla violenza che sarebbe stata esercitata dal ricorrente dopo l'impossessamento dei preziosi; osserva che la Corte territoriale ha superato in termini semplicistici la doglianza relativa alla distanza temporale tra la data del fatto, e della prima denuncia, e quello in cui la persona offesa, per la prima volta, aveva riferito del gesto violento dell'autore del fatto, senza essersi sottoposta ad alcun controllo medico nemmeno successivamente al superamento dello stato di agitazione e shock emotivo che, secondo la Corte, aveva giustificato la tardiva dichiarazione; denunzia, inoltre, il travisamento delle parole dell'odierno ricorrente avendo costui riferito che l'intervento del Ta.Ro. era avvenuto quando la De.Ma. era ormai alle sue spalle sicché, una volta vistosi scoperto, si era allontanato senza entrare in contatto con la donna e che le parole del teste erano coerenti con la versione fornita dal ricorrente mentre del tutto confuse quanto alla presunta colluttazione che sarebbe scaturita dal tentativo del predetto di trattenerlo impedendogli di allontanarsi; aggiunge che la versione del Ta.Ro. era in ogni caso difforme sia rispetto a quanto riferito dalla anziana donna sul come egli si fosse procurato le lesioni che con quelle propinata dal di lei fratello; 2.2 inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 61 n. 5 cod. pen., 125, comma terzo e 546, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., in ordine alla aggravante della minorata difesa correlata erroneamente con il diverso reato di truffa; rileva che la Corte d'appello ha riferito la aggravante della minorata difesa alla condotta di truffa e non ha motivato in ordine alle circostanze di tempo, luogo o persona di cui il ricorrente avrebbe profittato per commettere la rapina; richiama il motivo di appello articolato sul punto dove, anche alla luce del recente chiarimento offerto dalle SS. UU. in ordine alle condizioni per ritenere l'aggravante della minorata difesa, si era evidenziato che l'azione si era svolta alla presenza del genero della persona offesa, sovrintendente della Polizia di Stato in quiescenza e segnala che la Corte d'appello ha fornito, sul punto, una risposta incongrua concentrando la propria attenzione sulla condotta inizialmente programmata dal ricorrente e non su quella in cui l'episodio era infine sfociato successivamente all'impossessamento del denaro e dei preziosi; rileva, a tal proposito, che l'azione si era svolta in pieno giorno ed all'interno di un immobile situato in zona non periferica dove, peraltro, il fratello della donna era riuscito prontamente ad accorrere sul posto in aiuto della sorella utilizzando lo spray urticante ed immobilizzando il ricorrente insieme al genero; segnala che, oltre al dato dell'età, non vi erano altre situazioni di decadimento fisico e psichico della donna di cui il ricorrente avrebbe profittato; 3. la Procura Generale ha trasmesso la requisitoria scritta ai sensi dell'art. 23, comma 8, del D.L. 137 del 2020 concludendo per l'inammissibilità del ricorso: rileva, quanto al primo motivo, che la decisione, conforme nei due gradi di merito, si basa sul minuzioso e diffuso scrutinio di attendibilità della narrativa offerta dalle persone offese e dal teste De.Mi.; quanto al secondo motivo, rileva che il giudice di merito ha chiarito come l'imputato abbia operato una scelta mirata della vittima che per la sua condizione ha effettivamente dato credito alla storia inventata dal Pa.Em. per farsi consegnare i valori, precisando che la condizione della donna è poi confermata siccome critica dagli sviluppi dell'azione criminosa, quando l'imputato si è valso di un falso interlocutore telefonico. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile perché articolato con censure manifestamente infondate ovvero non consentite in questa sede. L'odierno ricorrente era stato tratto a giudizio e riconosciuto responsabile, nei due gradi di merito, ed all'esito di un conforme apprezzamento delle medesime emergenze istruttorie, del delitto di rapina impropria aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 5 cod. pen. ed ai sensi del comma terzo dell'art. 628 cod. pen. e di quello di lesioni personali in quanto "... per assicurarsi il possesso della cosa sottratta e per procurarsi l'impunità, usava violenza immediatamente dopo aver sottratto fraudolentemente denaro in contanti per circa 9.000 euro ed oggetti in oro per un valore di circa 10.000 euro a De.Ma., di anni 76; in particolare, dopo aver indotto l'anziana donna, con artifizi e raggiri, a consegnargli la somma di denaro e gli oggetti in oro sopra indicati, paventando un pericolo imminente ma inesistente per il figlio, scoperto dal genero della donna Ta.Ro., sopraggiunto in casa, al fine di garantirsi il bottino e la fuga colpiva dapprima la De.Ma. con una forte spinta dandosi alla fuga e, successivamente, inseguito e raggiunto dal Ta.Ro., impegnava quest'ultimo in una violenta colluttazione in conseguenza della quale il Ta.Ro. riportava le lesioni descritte nel capo 2)". 2. Il Tribunale aveva ricostruito l'episodio alla luce delle dichiarazioni dei testi escussi nel corso del dibattimento: era emerso che De.Ma., il giorno 20.9.2022, aveva ricevuto una telefonata da un tale che si era qualificato come suo figlio Ro. il quale le aveva fatto presente di avere mal di gola e di dover fare un tampone per il COVID; contemporaneamente, la donna aveva ricevuto una chiamata sul telefono fisso da una persona che le aveva preavvertita che sarebbe passato da lei a prelevare una somma di denaro da portare all'ufficio postale onde scongiurare la denuncia che altrimenti sarebbe stata inoltrata nei confronti del figlio; nel contempo, il predetto aveva invitato la donna ad inviare il marito presso l'ufficio postale per ritirare la ricevuta che sarebbe stata consegnata non appena recapitato il denaro. Una volta uscito di casa il marito, lo sconosciuto - pacificamente identificato nel Pa.Em. - si era presentava in casa dell'anziana dove si era fatto consegnare denaro contante per 9.000 euro e monili in oro per 10.000 euro che la persona offesa conservava nello sgabuzzino situato sul terrazzo. In quel frangente, tuttavia, era giunto sul posto il genero della donna, Ta.Ro., ex poliziotto, al quale il Pa.Em. si era qualificato come carabiniere passandogli il telefono per parlare con il "maresciallo"; il Ta.Ro. tuttavia non gli aveva creduto sicché il ricorrente aveva cercato di fuggire spintonando la donna ed allontanarsi venendo tuttavia sgambettato dal Ta.Ro. e cadendo a terra con la scatola dei gioielli che aveva tuttavia prontamente raccolto per riprendere la fuga; il giovane era stato tuttavia nuovamente raggiunto dal Ta.Ro. che, dopo aver ingaggiato una breve colluttazione, questa volta era riuscito a bloccarlo anche con l'aiuto del fratello della De.Ma. giunto sul posto e munito di una bomboletta di spray urticante. 3. Con l'atto di appello la difesa aveva chiesto la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale della De.Ma. e del Ta.Ro. che avrebbero fornito una versione dei fatti confusa e non lineare avendo in particolare la donna riferito della spinta subita dall'imputato solo dopo due giorni e senza mai essersi recata in ospedale; quanto al Ta.Ro., per aver reso dichiarazioni non in linea con quelle del fratello della persona offesa. Aveva poi insistito nella riqualificazione del fatto nella ipotesi delittuosa delineata dall'art. 640, comma 2, n. 2-bis cod. pen. ovvero, in subordine, nel delitto di rapina impropria (solo) tentata; da ultimo, nell'esclusione dell'aggravante della "minorata difesa" come di quella di cui al comma 3-quinques del comma terzo dell'art. 628 cod. pen. 4. Rileva il collegio che la Corte territoriale è pervenuta alla conferma della sentenza di primo grado disattendendo le doglianze difensive con argomentazioni puntuali in fatto e corrette in diritto, non giustificandosi, perciò, le censure articolate in questa sede. 4.1 Quanto alla ricostruzione dell'episodio ed alla sua corretta qualificazione in termini di rapina impropria consumata, la Corte d'appello ha fatto presente che l'imputato aveva ammesso di essersi fraudolentemente introdotto nella abitazione della donna per farsi consegnare denaro e beni preziosi: ha inoltre puntualmente "risolto" la presunta incertezza nella deposizione della donna circa la spinta che costei avrebbe ricevuto nel tentativo del giovane di darsi alla fuga e che, indipendentemente dai "tempi" in cui la persona offesa l'avrebbe fatta presente agli investigatori, era stata comunque riferita dal genero, circostanza su cui il ricorso è del tutto silente. Quanto, poi, al tentativo di darsi alla fuga, la Corte d'appello ha sottolineato la convergenza delle dichiarazioni del Ta.Ro. rispetto a quelle di De.Mi. ma anche della stessa persona offesa, giudicata assolutamente attendibile sull'intera dinamica dell'episodio. 4.2 Ed è proprio sulla scorta della ricostruzione in tal modo operata che i giudici di merito hanno potuto correttamente ribadire la qualificazione della condotta del ricorrente in termini di rapina impropria consumata che, come è noto, si articola nella sottrazione della "res" (nel caso di specie acquisita dal ricorrente in maniera truffaldina) seguita dalla violenza e/o dalla minaccia poste in essere per mantenerne la disponibilità e realizzare il definitivo impossessamento della refurtiva o darsi alla fuga. (cfr., in tal senso, tra le tante, Sez. 2 - , n. 15584 del 12/02/2021, Bevilacqua, Rv. 281117 - 01; conf., Sez. 2, n. 11135 del 22/02/2017, Tagaswill, Rv. 269858 - 01, in cui la Corte ha spiegato che, ai fini della configurazione della rapina impropria consumata, è sufficiente che l'agente, dopo aver compiuto la sottrazione della cosa mobile altrui, adoperi violenza o minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso della "res", mentre non è necessario che ne consegua l'impossessamento, non costituendo quest'ultimo l'evento del reato ma un elemento che riguarda, invece, 91 dolo specifico). È pacifico, poi, che nella rapina impropria, la violenza o la minaccia possono realizzarsi anche nei confronti di persona diversa dal derubato e che, per la configurazione del reato, non è richiesta la contestualità temporale tra sottrazione e uso della violenza o minaccia, essendo sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale tale da non interrompere l'unitarietà dell'azione volta ad impedire al derubato di tornare in possesso delle cose sottratte o di assicurare al colpevole l'impunità (cfr., così, ad esempio, Sez. 2, n. 43764 del 04/10/2013, Mitrovic, Rv. 257310 - 01; conf., Sez. 7, Ord. n. 34056 del 29/05/201, Belergouh, Rv. 273617 - 01). 4.3 Quanto all'aggravante di cui all'art. 61 n. 5, cod. pen., la Corte ha puntualmente motivato sottolineando che, nel caso di specie, essa non era stata ritenuta esclusivamente in considerazione dell'età della vittima ma del rilievo secondo cui l'imputato aveva attentamente mirato ad una persona anziana, di settantasette anni, che avrebbe potuto dar credito alla storia da lui inventata per farsi consegnare denaro e gioielli come, infatti, era accaduto avendo la donna consegnato una somma di gran lunga superiore alla richiesta iniziale accompagnata, inoltre, da quella di gioielli la cui destinazione a saldare un debito era quantomeno discutibile e, tuttavia, non era stata colta dalla vittima, turbata anche dalla previa telefonata del "figlio". Per altro verso, i giudici di secondo grado hanno spiegato che il ricorrente aveva anche avuto la "accortezza" di far in modo che l'anziana donna fosse sola in casa, invitando il di lei marito a recarsi preso l'ufficio postale per ritirare la fantomatica ricevuta. In tal modo, quindi, la Corte ha fatto corretta applicazione del principio ormai autorevolmente ribadito in questa sede di legittimità, secondo cui, ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante della minorata difesa, prevista dall'art. 61, primo comma, n. 5, cod. pen., le circostanze di tempo, di luogo o di persona, di cui l'agente abbia profittato, devono tradursi, in concreto, in una particolare situazione di vulnerabilità del soggetto passivo del reato, non essendo sufficiente l'idoneità astratta delle predette condizioni a favorire la commissione dello stesso (cfr., così, infatti, Sez. U., n. 40275 del 15/07/2021, Cardellini, Rv. 282095 - 02). Ed è proprio la struttura del delitto di rapina impropria, come in precedenza ribadita, che consente di ritenere la aggravante anche laddove le condizioni previste dall'art. 61 n. 5 cod. pen. abbiano agevolato la sottrazione della "res" alla vittima indipendentemente dal fatto che, nella fase successiva, la violenza e/o la minaccia siano state esercitate nei confronti di soggetti o in contesti che non avevano comportato alcuna concreta "agevolazione". Si è anche chiarito che la circostanza aggravante speciale, prevista, per il delitto di rapina, dall'art. 628, comma terzo, n. 3-quinquies, cod. pen., è correlata al dato del superamento dell'età di sessantacinque anni da parte della persona offesa, e non alla presunzione relativa di maggior vulnerabilità della vittima in ragione dell'età, cui fa, invece, riferimento la circostanza aggravante comune prevista dall'art. 61, n. 5, cod. pen. (cfr., in tal senso, Sez. 2 - , n. 17320 del 09/12/2022, dep. 26/04/2023, Cantimir, Rv. 284527 - 01, in cui la Corte ha precisato che ricorre l'aggravante dell'età della vittima di cui all'art. 628, terzo comma, n. 3-quinquies, cod. pen. nel caso di rapina commessa in danno di persona ultrasessantacinquenne, senza che sia necessaria una specifica indagine sull'effettiva incidenza dell'età della parte lesa sulla consumazione della condotta criminosa, ovvero senza possibilità di dimostrare l'irrilevanza, nel caso specifico, del dato anagrafico). È vero che l'aggravante speciale dell'età della vittima eccedente i sessantacinque anni, prevista dall'art. 628, comma terzo, n. 3-quinquies cod. pen., esclude l'applicazione concorrente dell'aggravante comune, determinativa di un minore incremento sanzionatorio, di cui all'art. 61 n. 5, cod. pen., ove contestata in riferimento all'età senile della persona offesa e alla sua ritenuta minore capacità di resistenza, vietando l'art. 68 cod. pen., in tema di componenti accessorie del reato, l'addebito plurimo di un medesimo elemento fattuale (cfr., in tal senso, Sez. 2 -, n. 3496 del 02/11/2022, dep. 27/01/2023, Pannone, Rv. 284193 - 01; Sez. 2 - , n. 14489 del 06/12/2022, dep. 05/04/2023, Borrelli, Rv. 284479 - 01). E, tuttavia, se per un verso non è questo il profilo su cui è incentrato il motivo di ricorso, va pur detto che nel caso di specie l'aggravante di cui all'art. 61 n. 5 cod. pen. non ha avuto alcun riflesso sul piano del trattamento sanzionatorio che è stato determinato partendo dal minimo edittale stabilito dal comma quinti dell'art. 628 cod. pen. per il caso di più aggravanti concorrenti (nel caso di specie, quelle di cui al n. 3-bis - non bilanciabile - ed al n. 3-quinquies su cui, invero, non c'è ricorso), su cui è stata operata la riduzione massima per le riconosciute circostanze attenuanti generiche, l'aumento per la continuazione con il capo B) e la finale riduzione per il rito. 5. L'inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle somma - che si stima equa - di euro tremila, in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 19 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 855 del 2024, proposto da Ap. s.p.a. (incorporante di Li. Ge. s.r.l.) e So. Consorzio di Co. So. s.c.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, in relazione alla procedura CIG 9651063522, rappresentate e difese dagli avvocati Gi. Pe., Cl. Vi. ed El. So., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ec. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Fi. e Sa. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Do. Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Se. Co. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Al. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Comune di (omissis), Comune di (omissis), Centrale unica di committenza - C.U.C. tra i Comuni di (omissis), (omissis) e (omissis), So. Pr. cooperativa sociale onlus, Ve. l'A. - società cooperativa sociale onlus, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, Sezione prima n. 918 del 18 dicembre 2023 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ec. s.r.l., del Comune di (omissis) e di Se. Co. s.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2024 il consigliere Ofelia Fratamico; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue FATTO e DIRITTO 1. L'oggetto del presente giudizio è costituito: - dalla determinazione n. 492 del 6 giugno 2023, successivamente pubblicata in data 7 giugno 2023, con cui, al termine della procedura indetta dalla centrale unica di committenza CUC costituita fra i Comuni di (omissis), (omissis) e (omissis), il Comune di (omissis) ha aggiudicato in via definitiva il servizio di igiene urbana, con durata quinquennale, in favore del costituendo RTI tra Li. Ge. s.r.l. (capogruppo e mandataria) e So. società consortile cooperativa a r.l. (mandante, che ha indicato quali consorziate esecutrici So. Pr. coop. sociale ONLUS e Ve. l'A. cooperativa sociale); - dalla proposta di aggiudicazione formulata dalla Commissione giudicatrice in seno al verbale del 10 maggio 2023 - registrato al prot. n. 18123 dell''11 maggio 2023; - dal paragrafo 7.4 del disciplinare di gara; - da tutti i verbali di gara e da tutti gli atti presupposti, conseguenziali, o comunque connessi della procedura. 2. La Ec. s.r.l., terza classificata nella graduatoria finale della gara, ha impugnato tali atti dinanzi al T.a.r. per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, chiedendo l'esclusione del RTI aggiudicatario, la declaratoria di inefficacia del contratto di appalto eventualmente medio tempore stipulato, nonché la condanna dell'Amministrazione a disporre la riedizione del segmento di gara relativo alla valutazione delle offerte tecniche secondo i differenti criteri di giudizio previsti dal paragrafo 18.2 della lex specialis per il caso di soli due partecipanti alla gara (non più confronto a coppie, ma confronto cd. "scolastico"). 3. Affermando di avere un concreto interesse alla "riedizione della gara" nei termini suddetti, la ricorrente ha articolato i seguenti motivi di ricorso: a) violazione artt. 45 e 47 del d.lgs. 50/2016, violazione artt. 7- 7.1- 7.3 - 7.4 - 7.5 del disciplinare, carenza dei requisiti speciali e mezzi di prova; b) violazione del paragrafo 7.2, mancata dimostrazione dei requisiti di capacità economica e finanziaria, violazione e falsa applicazione dell'art. 86, co. 4, del d.lgs 50/2016; c) violazione del paragrafo 7.3 lett. a) del disciplinare di gara, mancata dimostrazione e comprova dei requisiti di capacità tecnica e professionale in ordine all'esecuzione dei servizi analoghi dell'ultimo triennio, grave incompletezza del DGUE dell'aggiudicataria; d) violazione art. 95 d.lgs. n. 50/2016, violazione punto 18. 2 del disciplinare, eccesso di potere per cattivo esercizio della discrezionalità tecnica; e) apertura in seduta riservata della documentazione amministrativa, violazione degli artt. 29 e 30 del d.lgs 50/2016, violazione dei principi di trasparenza e pubblicità, violazione e falsa applicazione del paragrafo 19 del disciplinare di gara. 4. Con la sentenza n. 918 del 18 dicembre 2023 il T.a.r. per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, ha accolto il ricorso, rigettando, in particolare, l'eccezione di inammissibilità del gravame formulata dalla aggiudicataria per mancanza della prova di resistenza e ritenendo fondata la prima censura proposta da Ec. s.r.l. in rapporto al mancato possesso dell'iscrizione ANGA (Albo nazionale gestori ambientali) in capo alla mandante del RTI controinteressato, Consorzio So.. 5. Ap. s.p.a., società incorporante di Li. Ge. s.r.l., mandataria del RTI aggiudicatario, e il Consorzio So. (mandante) hanno chiesto al Consiglio di Stato di riformare, previa sospensione dell'esecutività, la pronuncia del T.a.r., affidando il proprio appello a tre motivi così rubricati: I - error in iudicando: violazione degli artt. 39 c.p.a. e 100 c.p.c. e dei principi in materia di interesse ad agire e prova di resistenza, errata valutazione dei presupposti di fatto e di diritto, contraddittorietà, inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza di interesse; II - error in iudicando: violazione degli artt. 45, 47, 48 e 83 d.lgs. n. 50/2016, errata interpretazione e applicazione del disciplinare di gara, violazione dell'art. 212 d.lgs. n. 152/2016, infondatezza del primo motivo di ricorso avversario in primo grado; III - riproposizione delle eccezioni formulate in primo grado ai sensi dell'art. 101 c.p.a. 6. Si sono costituiti in giudizio il Comune di (omissis), che ha aderito integralmente agli argomenti e ai motivi di appello, la Se. Co. s.p.a., seconda classificata nella gara, e la originaria ricorrente Ec. s.r.l. che hanno, invece, eccepito l'inammissibilità e, in ogni caso, l'infondatezza nel merito dell'appello. 7. Con ordinanza n. 586 del 19 febbraio 2024 l'istanza cautelare è stata accolta. 8. Con memorie del 2 aprile 2024 e repliche del 5 e 6 aprile 2024 le parti hanno ulteriormente articolato le loro difese, insistendo nelle rispettive conclusioni. 9. All'udienza pubblica del 18 aprile 2024 la causa è stata, infine, trattenuta in decisione. 10. Con il loro appello Ap. s.r.l. ed il Consorzio So. hanno riproposto, in primo luogo, l'eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado, sostenendo che l'originaria ricorrente Ec. s.r.l., terza in graduatoria, avrebbe dovuto preliminarmente fornire in giudizio la c.d. prova di resistenza, dimostrando specificamente la possibilità di trarre un qualche vantaggio dall'annullamento dell'aggiudicazione. Secondo gli appellanti, infatti, anche nell'ipotesi di loro esclusione dalla gara, l'Amministrazione non avrebbe dovuto o potuto effettuare una nuova valutazione delle offerte, come erroneamente ritenuto dal T.a.r. per giustificare l'ammissibilità del ricorso, ma un mero ricalcolo matematico dei punteggi già ottenuti dai concorrenti, che avrebbero dovuto essere semplicemente "depurati" degli effetti del confronto. Tale operazione di mera conversione non avrebbe rappresentato, dunque, una rinnovazione della procedura, ma un semplice riconteggio automatico, rendendo indispensabile per l'ammissibilità del gravame la prova di resistenza, tanto più necessaria visto il notevole divario tra il punteggio ottenuto dalla seconda classificata Se. Co. s.p.a. sotto numerosi profili dell'offerta tecnica e quello della Ec. s.r.l. 11. Con il secondo motivo di appello Ap. s.r.l. e il Consorzio So. hanno denunciato un'altra profonda criticità che avrebbe caratterizzato, a loro dire, l'iter motivazionale seguito dal T.a.r. nell'accogliere il ricorso di primo grado, costituita dalla applicazione solo parziale del disciplinare di gara, con completa pretermissione dell'art. 7.5 e attribuzione di esclusivo rilievo all'art. 7.4 nella valutazione del possesso del requisito di iscrizione all'ANGA da parte del RTI aggiudicatario. 12. Nell'affermare la carenza in capo alla mandante So. del requisito in parola il giudice di prime cure non avrebbe considerato adeguatamente la specifica natura di tale soggetto che, essendo un consorzio di cooperative, avrebbe potuto, appunto, a norma dell'art. 7.5 del disciplinare, ben soddisfare le richieste della lex specialis attraverso le imprese consorziate indicate come esecutrici, So. Pr. e Ve. l'A., entrambe in possesso del requisito stesso, senza che su tale facoltà potesse influire la scelta del Consorzio di partecipare alla gara non da solo, ma in RTI. Le medesime argomentazioni sarebbero, poi, dovute valere anche per le certificazioni di qualità regolarmente possedute, nella loro versione aggiornata, dalle imprese consorziate indicate come esecutrici. 13. Con l'ultimo motivo gli appellanti hanno, infine, riproposto in appello le eccezioni di inammissibilità per difetto di interesse di alcune censure formulate dall'originaria ricorrente in rapporto alla pretesa illegittimità dell'esame da parte della Commissione della documentazione dei concorrenti, che sarebbe avvenuto in seduta riservata anziché pubblica, ma secondo Ap. s.r.l. e il Consorzio non avrebbe comunque impedito ad Ec. s.r.l. di visionare con completezza tutti gli atti di gara e la loro domanda e di far valere efficacemente in giudizio i propri interessi attraverso la proposizione del ricorso. 14. Tali doglianze sono state fatte proprie, come detto, dal Comune di (omissis), che ha sottolineato come l'originaria ricorrente non avesse specificamente impugnato l'art. 7.5 del disciplinare, che costituiva la norma speciale applicabile alla fattispecie. 15. Ec. s.r.l. ha, da parte sua, chiesto la conferma della sentenza del T.a.r., ribadendo in appello le doglianze di mancata dimostrazione dell'iscrizione per tutte le categorie richieste anche da parte della Cooperativa Ve. l'A. e di difetto di validità delle certificazioni di qualità del Consorzio So., non specificamente esaminate in primo grado, mentre Se. Co. s.p.a. ha eccepito l'inammissibilità dell'appello, nella parte volta a contestare la carenza di interesse di Ec. s.r.l. e la correttezza dell'interpretazione data dal T.a.r. alla lex specialis, in considerazione del carattere "personalissimo" e "non trasferibile" del requisito dell'iscrizione all'ANGA e della obbligatorietà, a norma dell'art. 7.1 del disciplinare, per ciascun "concorrente" alla gara, qual era il Consorzio So., dell'iscrizione stessa. 16. Se l'eccezione di inammissibilità dell'originario ricorso di Ec., riproposta da Ap. e dal Consorzio con il primo motivo di appello, deve essere rigettata alla luce della oggettiva complessità della "conversione" dei valori assegnati alle offerte dei concorrenti con il confronto a coppie nei punteggi "autonomi" del c.d. confronto scolastico, dimostrata anche dalla grande diversità dei risultati ottenuti nelle varie simulazioni effettuate dalle parti, il secondo motivo articolato dagli appellanti risulta, invece, fondato e meritevole di accoglimento nei termini di seguito illustrati. 17. A differenza di quanto ritenuto dal T.a.r., le disposizioni dettate dal disciplinare di gara all'art. 7.1 circa i requisiti di idoneità - tra i quali l'"iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali alle seguenti categorie e classi: categoria 1 classe D o superiori, categoria 4 classe F o superiori, categoria 5 classe F o superiori" e all'art. 7.4. per la partecipazione alla procedura di un RTI, per cui il requisito stesso "deve essere posseduto da ciascuna delle imprese raggruppate", devono essere, infatti, essere lette in combinato disposto con la disciplina dell'art. 7.5, specificamente dedicata ai consorzi di cooperative, nei quali "il requisito di cui al punto 7.1 lett. b) deve essere posseduto dalla/e impresa/e consorziata/e indicata/e come esecutrice/i", essendo l'ipotesi in questione contraddistinta proprio dalla coesistenza di entrambe le fattispecie che, combinate insieme, danno, appunto, origine al caso particolare del consorzio di cooperative componente di un RTI. 18. La suddetta interpretazione sistematica della lex specialis di gara non può che condurre a ritenere integrato il requisito dell'iscrizione ANGA da parte del Consorzio So. attraverso le cooperative indicate come esecutrici (in possesso dell'iscrizione, l'una, So. Pr. coop onlus, per tutte le categorie e classi richieste, e l'altra, Ve. l'A. soc. coop., per la parte di servizio che era destinata a svolgere in concreto (consistente nella gestione del centro per la raccolta dei rifiuti, attività ad essa attribuita anche nel precedente affidamento). 19. Pur avendo partecipato Li. Ge. e il Consorzio So. in RTI orizzontale alla gara, la mandante So. non risulta, infatti, aver dichiarato di concorrere "in proprio" per lo svolgimento del servizio, non potendo tra l'altro i consorzi di cooperative, a causa dello scopo mutualistico che li contraddistingue, indicare se stessi come esecutori. 20. La diversa opzione ermeneutica proposta da Ec. s.r.l. e accolta dal T.a.r., oltre che confliggere con il significato letterale delle parole del disciplinare, nella loro successione, contrasta, poi, come dedotto dagli appellanti, anche con la ratio stessa della previsione della facoltà per le imprese di partecipare alle gare in raggruppamento temporaneo, nonché con il diritto comunitario in materia. 21. L'utilizzo in una procedura di gara del RTI, che non costituisce, in verità, un nuovo ente dotato di personalità giuridica distinto dalle imprese che lo compongono, ma rappresenta un semplice modulo organizzativo basato sul mandato tra operatori, non può, dunque, incidere sulla natura del soggetto partecipante, cosicché anche al suo interno un consorzio di cooperative non perde le sue caratteristiche specifiche, né le sue peculiari modalità di funzionamento, potendo dimostrare il possesso dei requisiti, ove consentito appunto dalla lex specialis, come in questo caso, attraverso le consorziate indicate come esecutrici. 22. Ciò è confermato anche dal diritto unionale (cfr. direttiva 2014/24/UE), secondo cui i raggruppamenti di operatori economici partecipano di regola alle procedure di aggiudicazione senza dover assumere una forma giuridica specifica e possono subire l'imposizione di particolari condizioni solo ove proporzionate, non discriminatorie e giustificate da ragioni obiettive. Da qui la necessità di un'interpretazione che sia in linea con i principi comunitari e non penalizzi la scelta di partecipare ad una gara in RTI. Non pertinenti appaiono, poi, sia il riferimento al cd. cumulo alla rinfusa, riguardante tipologie di requisiti diverse da quelle in questione, sia il rinvio ad una recente sentenza di questo Consiglio di Stato, concernente profili anch'essi del tutto distinti ed estranei alla controversia in esame. 23. Non meritevoli di accoglimento sono, inoltre, le censure riproposte da Ec. di mancata integrazione del requisito di iscrizione ANGA neppure da parte delle cooperative esecutrici e, in particolare, da parte della cooperativa Ve. l'A. e di insufficienza delle certificazioni di qualità . 24. Da un lato, come detto, la suddivisione delle prestazioni è stata definita tra Li. Ge. e So. nell'ambito dell'impegno a costituire il RTI con assunzione da parte del Consorzio, in particolare, della gestione del CDR, dall'altro, l'art. 7.5 non imponeva che ciascuna consorziata possedesse l'iscrizione in tutte le categorie e classifiche richieste, ma solo che queste dovessero essere soddisfatte integralmente dalle esecutrici nel loro complesso, come verificatosi nell'ipotesi de qua. Dagli atti di causa risulta, poi, che tutte le componenti del RTI e le consorziate fossero in possesso di una certificazione regolare e in corso di validità che, in caso di dubbio da parte dell'Amministrazione, avrebbe ben potuto essere oggetto di approfondimento o verifica presso gli enti competenti. 25. In conclusione, l'appello deve, perciò, essere accolto, con conseguente rigetto, in riforma della sentenza appellata, del ricorso proposto in primo grado da Ec. s.r.l. 26. Per la particolarità e la complessità delle questioni trattate sussistono, tuttavia, giusti motivi per compensare tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza appellata, rigetta il ricorso proposto in primo grado da Ec. s.r.l. Compensa tra le parti le spese del doppio grado. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Gerardo Mastrandrea - Presidente Giuseppe Rotondo - Consigliere Michele Conforti - Consigliere Emanuela Loria - Consigliere Ofelia Fratamico - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. SIANI Vincenzo - Consigliere Dott. APRILE Stefano - Consigliere Dott. MAGI Raffaello - Consigliere Dott. LANNA Angelo Valerio - Relatore ha pronunciato la seguente sentenza sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI BARI nel procedimento a carico di: Kh.Ta., nato a A il (omissis); avverso l'ordinanza del 06/02/2024 del TRIB. LIBERTÀ MINORI di BARI; udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO VALERIO LANNA; letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale MARIA FRANCESCA LOY, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale per i minorenni di Bari - in funzione di giudice del riesame - ha accolto il ricorso della difesa e ha annullato l'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del 17/01/2024, che aveva applicato nei confronti di Kh.Ta. la misura cautelare del collocamento in comunità, in relazione al reato di cui all'art. 412-bis cod. pen., ascritto sub b) della provvisoria rubrica, per avere - in concorso con altri soggetti anche maggiorenni, al fine di suscitare pubblico disordine o attentare alla sicurezza pubblica - fatto esplodere molteplici ordigni esplosivi, anche compiendo le condotte di danneggiamento contestate al capo a) del medesimo editto accusatorio, in tal modo ingenerando timore nella cittadinanza, tanto da indurre i proprietari delle vetture danneggiate a non sporgere denuncia, in relazione ai danni da queste ultime riportate. 1.1. Il provvedimento reiettivo, in primo luogo, ha ricostruito gli accadimenti verificatisi in M nella notte fra il 31/12/2023 e il 01/01/2024, allorquando un gruppo di giovani fece ripetutamente esplodere "molteplici e potenti esplosivi collocandoli e facendoli deflagrare anche all'interno della vettura Renault Clio targata (omissis) di proprietà di Fa.Gi. ribaltandola ed esplodendovi anche all'interno diversi ordigni di natura artigianale". La linea difensiva si è interamente dipanata sostenendo trattarsi, esclusivamente, di festeggiamenti in occasione del nuovo anno; il Tribunale per i minorenni, invece, ha condiviso la qualificazione giuridica dei fatti ex art. 421-bis cod. pen., contenuta nell'ordinanza genetica. 1.2. Il Tribunale ha però ritenuto inconsistenti, dunque inadatti a fondare un provvedimento restrittivo della libertà personale, gli elementi di valutazione e conoscenza che sorreggono il profilo della riferiibilità soggettiva, anche all'indagato Kh.Ta., della condotta accertata sotto il profilo storico e oggettivo. Quest'ultimo, a differenza di altri indagati, infatti, compare in un video caricato su internet alle ore 00.24 della suddetta notte, ossia dopo che la maggior parte degli ordigni era stata già fatta esplodere, all'interno della autovettura di cui sopra. Kh.Ta. partecipa all'azione di ribaltamento della vettura, per cui è da ritenersi gravemente indiziato del reato di danneggiamento contestato sub a); non altrettanto è a dirsi, invece, per quanto attiene al delitto ex art. 421-bis cod. pen. contestato al capo b). Anche la mera presenza del soggetto nei medesimi luoghi sin dalle ore 23.58, del resto, non può assumere una reale valenza evocativa in punto di concorsualità morale, rispetto alle esplosioni, non essendo emerso un qualsivoglia comportamento esteriormente percepibile, dotato di univoca significazione partecipativa. 2. Ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Bari, deducendo due motivi, che vengono di seguito riassunti entro i limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo, viene denunciata inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 309, comma 9 cod. proc. pen. Durante l'udienza del 06/02/2024, il Tribunale ha impedito al Pubblico ministero di depositare l'annotazione dei Carabinieri di M redatta in pari data, da cui emergeva con chiarezza la partecipazione del Kh.Ta. alla perpetrazione del fatto sub b). Tale scelta contrasta con il dettato della disposizione codicistica riportata in enunciazione. 2.2. Con il secondo motivo ci si duole della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in ordine a rilevanti elementi indiziari gravanti sull'indagato. Non risultano chiare le ragioni per le quali non sono stati ritenuti validi gli elementi indizianti, che erano stati addotti dal Pubblico ministero. Nell'annotazione sopra indicata, inoltre, venivano evidenziati alcuni fotogrammi, temporalmente collocabili a quando erano da poco trascorse le ore 23.58, nei quali si nota Kh.Ta. avvicinarsi alla vettura del coindagato maggiorenne Gi.An., per poi prelevarne una cassetta di fuochi pirotecnici, che poi viene posizionata al centro della piazza per la successiva accensione; tale ricostruzione sconfessa, del resto, quanto dichiarato dall'indagato in sede di interrogatorio di garanzia. 3. Il Procuratore generale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, in quanto volto a prospettare una diversa valutazione dei fatti. Il fotogramma che ritrarrebbe l'indagato, inoltre, viene solo menzionato nell'atto di impugnazione, ma non è allegato allo stesso, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso. La motivazione del provvedimento impugnato, contrariamente alle deduzioni contenute nell'atto di impugnazione, è invece congrua e priva di illogicità manifeste. 4. L'avv. Mi.Sa., nella qualità di difensore di Kh.Ta., ha presentato memoria difensiva, a mezzo della quale ha rappresentato. 4.1. Erronea interpretazione della legge penale. Già sulla base dell'imputazione, è possibile riqualificare il fatto, focalizzando meglio il bene giuridico tutelato dall'ipotizzato modello legale. Le condotte riguardavano i festeggiamenti per il nuovo anno e aggredivano un unico bene privato, così limitando l'offensività dell'azione alla sfera strettamente privatistica. 4.2. Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inammissibilità (art. 606 lett. c), in relazione all'art. 581, comma 1, lett. d) cod, proc. peri.). L'ordinanza cautelare è stata annullata per carenza della necessaria gravità indiziaria, senza pronunciarsi sulle esigenze cautelari; il Pubblico ministero ricorrente, quindi, si sarebbe dovuto soffermare sul profilo delle persistenti esigenze giustificative della cautela che mira a ripristinare. 4.3. Inammissibilità per genericità del primo motivo di gravame. La prima doglianza è inammissibile. La produzione documentale negata, anzitutto, era stata chiesta dopo la discussione dell'indagato. Il ricorrente, inoltre, avrebbe dovuto precisare quali fossero gli elementi desumibili a carico dell'indagato specificamente dall'atto, per poi compararle con la motivazione dell'ordinanza avversata, ai fini della ed. prova di resistenza. 4.4. Inammissibilità per genericità del secondo motivo. Il ricorrente non chiarisce a quali fotogrammi faccia riferimento, né spiega quale sia l'atto che li contenga e, infine, non indica gli elementi decisivi che essi siano in grado di fornire. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Con il primo motivo (enumerato in parte narrativa sub 2.1. e oggetto delle considerazioni difensive contenute in memoria, sopra riassunte sub 4.3.) si lamenta la errata applicazione del disposto dell'art. 309, comma 9, cod. proc. pen., per non avere il Tribunale del riesame inteso acquisire una annotazione, che il Pubblico ministero aveva chiesto di produrre in udienza. 2.1. Giova precisare, in diritto, come il principio di diritto che governa la materia sia stato ripetutamente enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, trovandosi quindi cristallizzato in numerose pronunce. Può richiamarsi, dunque, il dictum di Sez. 1, n. 11091 del 18/10/2022, dep. 2023, Di Gesù, Rv. 284410 - 01, a mente della quale: "In tema di riesame di misure cautelari personali, il tribunale può utilizzare, ai fini della decisione, documenti formati successivamente all'emissione dell'ordinanza applicativa, purché prodotti dalle parti nel corso dell'udienza, quando è ancora possibile l'instaurazione del contraddittorio sul loro contenuto"; nello stesso senso si erano già espresse Sez. 3, n. 4647 del 09/12/2015, dep. 2016, Mangano, Rv 266269 - 01 ("In tema di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari coercitive, ai sensi dell'art. 309, comma nono, cod. proc. pen., il Tribunale può tenere conto, ai fini della decisione, delle nuove acquisizioni probatorie effettuate dal PM, anche se sfavorevoli all'indagato e successive non solo a quelle poste a base della richiesta della misura cautelare, ma anche al provvedimento che l'ha disposta ed alla stessa istanza di riesame") e Sez. 1, n. 45246 del 22/10/2003, Carucci, Rv. 226818. Tali regole ermeneutiche, in sostanza, sono imperniate sull'esistenza non di un obbligo di acquisizione del materiale valutativo formatosi in epoca successiva, rispetto all'emissione del provvedimento cautelare, bensì di una mera facoltà in tal senso, esercitabile entro il perimetro rappresentato dalla possibilità che sia sempre assicurato il necessario contraddittorio sullo stesso. 2.2. È poi noto l'insegnamento della Corte di cassazione, che ha più volte chiarito come - allorquando venga posta al vaglio del giudice di legittimità la correttezza di una decisione in rito, in tal modo deducendosi un "error in procedendo" - la Corte stessa diviene ipso facto giudice dei presupposti della decisione contestata; su quest'ultima, quindi, esso esplica il proprio controllo, quale che sia il ragionamento seguito dal giudice di merito per giustificarla e, inoltre, quale che sia l'apparato motivazione esibito. Corollario logico e sistematico di tale impostazione concettuale è il fatto che la Corte - in presenza di una doglianza strettamente attinente al rito, ossia di carattere prettamente processuale - può e deve prescindere dalla motivazione addotta dal giudice a quo e così, ove necessario anche accedendo agli atti, è tenuta a valutare la correttezza in diritto della decisione adottata, pure laddove essa non appaia correttamente giustificata, ovvero sorretta da argomentazioni addotte solo "a posteriori (Sez. U., n. 42792 del 31/10/2001, Polìcastro, Rv. 220092; Sez. 5, n. 19970 del 15/03/2019, Girardi, Rv. 275636 - 01; Sez. 5, n. 19388 del 26/02/2018, Monagheddu, Rv. 273311; Sez. 1, n. 8521 del 09/01/2013, Chahid, Rv. 255304). 2.3. Nel caso di specie, l'esame del fascicolo processuale mostra come, allorquando si è tenuta udienza dinanzi al Tribunale per i minorenni, i fotogrammi fossero stati già versati nell'incarto processuale. Può leggersi nel verbale riassuntivo della sopra indicata udienza, infatti, come il Pubblico ministero abbia in prima battuta dichiarato di voler produrre determinati fotogrammi, chiedendone quindi l'acquisizione al fascicolo, per poi affermare, immediatamente dopo, di non voler procedere a tale acquisizione, ma di volersi limitare esclusivamente ad effettuare un semplice richiamo a tale materiale. Non essendo stata invocata la produzione di documentazione fino a quel momento assente in atti, alcun provvedimento ammissivo in tal senso avrebbe mai potuto essere adottato. 2.4. Quanto poi alla pretesa valenza dimostrativa, a carico dell'indagato, di tali elementi indiziari, è utile precisare come non vi sia stata alcuna allegazione degli stessi al presente atto di impugnazione, ad opera del ricorrente. Sotto questo profilo, pertanto, il ricorso non può che essere ritenuto inammissibile, appunto a causa della violazione del generale principio di autosufficienza. Invero, è regola sempre affermata da questa Corte, il fatto che tale principio si traduca nell'onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l'allegazione. La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha più volte affermato come sia inammissibile il ricorso per cassazione che, pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione, così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze specifiche (Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, Cossu, Rv. 280419 - 01; Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Talamanca, Rv. 276432 - 01). 3. Il secondo motivo di ricorso (enumerato in parte narrativa sub 2.2. e oggetto delle considerazioni difensive contenute in memoria, sopra riportate sub 4.1. e 4.4.), attiene alla attitudine evocativa dei fotogrammi uniti al fascicolo e deduce un vizio di carenza di motivazione, quanto al tema della ritenuta impossibilità di giungere alla riferibilità soggettiva della condotta - pur ricostruita, sotto il profilo oggettivo, in termini di conformità al contestato paradigma normativo - anche al Kh.Ta. 3.1. Va evidenziato, allora, come tali censure si sviluppino interamente sul piano del fatto e siano tese, sostanzialmente, a sovrapporre una nuova interpretazione delle risultanze probatorie, diversa da quella recepita nell'impugnato provvedimento, più che a rilevare un vizio rientrante nella rosa di quelli delineati dall'art. 606 cod. proc. pen. Tale operazione, con tutta evidenza, fuoriesce dal perimetro del sindacato rimesso al giudice di legittimità. Secondo la linea interpretativa da tempo tracciata da questa Corte regolatrice, infatti, l'epilogo decisorio non può essere invalidato sulla base di prospettazioni alternative, che sostanzialmente si risolvano in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e differenti canoni ricostruttivi e valutativi dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati d una più efficace potenzialità esplicativa, nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, Rv. 235507). 3.2. D'altronde, nessun vizio logico argomentativo è ravvisabile, nella motivazione posta a fondamento della avversata decisione, che è - contrariamente alle deduzioni del ricorrente - esaustiva e lineare, oltre che priva di spunti di contraddittorietà. 4. La difesa introduce, infine, il tema della pretesa inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inammissibilità (l'argomento è oggetto delle considerazioni difensive contenute in memoria, sopra riportate sub 4.2.). Essendo stato il provvedimento restrittivo della libertà personale annullato, in ragione della ritenuta carenza della necessaria gravità indiziaria, senza quindi che sia stato affrontato il versante inerente alle esigenze cautelari, il Pubblico ministero ricorrente avrebbe avuto l'onere - in ipotesi difensiva - di soffermarsi specificamente sul profilo delle persistenti esigenze giustificative della cautela. 4.1. Occorre quindi rifarsi, prioritariamente, alle regole ermeneutiche più volte fissate in sede di legittimità, con riferimento anzitutto al tema del necessario interesse a proporre impugnazione. Sotto tale profilo, non può esser ritenuta bastevole la semplice pretesa, volta ad affermare la astratta conformità del provvedimento alle norme, oppure alla correttezza giuridica dello stesso, occorrendo invece la effettiva deduzione di un pregiudizio concretamente valutabile, oltre che suscettibile di essere eliminato, attraverso la riforma della decisione avversata (così Sez. 3, n. 30547 del 06/03/2019, Chiocchio, Rv. 276274 - 01; più specificamente, sul tema introdotto dalla difesa, si veda Sez. 6, n. 43948 del 21/09/2023, Manna, Rv. 285400 - 01, a mente della quale: "Il pubblico ministero che impugni l'ordinanza che, in sede di appello ex art. 310 cod. proc. pen., abbia annullato la misura cautelare per difetto di gravità indiziaria, deve indicare, a pena di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, le ragioni a sostegno dell'attualità e concretezza delle esigenze cautelari, laddove la misura riguardi reati per i quali non opera la presunzione di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen."; in questo senso anche Sez. 3, n. 13284 del 25/2/2021, Acanfora, Rv 281010; Sez. 6, n. 46129 del 25/11/2021, Marcus Steven, Rv. 282355 - 01; Sez. 6, n. 12228 del 30/10/2018, De Gasperis, Rv. 276375). La disciplina di carattere generale che si trae, quindi, è nel senso che -laddove il provvedimento impugnato abbia ritenuto assente solo uno dei presupposti atti a fondare un titolo cautelare, reputando così assorbito l'esame dell'altro profilo - l'impugnazione del Pubblico ministero dovrà esporre specifiche doglianze in ordine al profilo esaminato e ritenuto carente, dovendo poi anche soffermarsi sugli aspetti in grado di supportare la tesi della persistenza dell'interesse alla decisione (nel caso di annullamento per carenza di gravi indizi, dunque, sarà in ogni caso soffermarsi anche sul punto relativo alla persistente attualità delle esigenze cautelari). Il compito argomentativo gravante sul Pubblico ministero ricorrente, in pratica, può essere modulato secondo parametri differenti, in relazione al fatto che i requisiti per l'applicazione della misura siano stati espressamente esclusi ab origine, ovvero soltanto in sede di impugnazione di merito, essendo sicuramente consentito - in tale ultimo caso - allorquando il provvedimento impugnato non attinga direttamente il versante delle esigenze cautelari, riportarsi al già delineato quadro cautelare, effettuando un mero "aggiornamento" del medesimo, così da suffragare l'interesse a impugnare. In conclusione, incombe sul Pubblico ministero l'onere di apportare elementi atti a delineare l'attualità del suo interesse, in relazione ai presupposti per l'adozione della misura, anche nel caso in cui il provvedimento impugnato abbia tralasciato l'esame di taluno di quei presupposti. Allorquando sia stato escluso solo uno dei presupposti su cui deve fondarsi il provvedimento cautelare, è consentito il mero richiamo alle precedenti deduzioni e la semplice attualizzazione argomentativa, circa il profilo pretermesso. Laddove il provvedimento demolitorio, invece, abbia specificamente escluso la sussistenza tanto della gravità indiziaria, quanto delle esigenze cautelari, l'impugnazione dovrà incentrarsi - con articolate e specifiche censure - su entrambi i profili esclusi (si veda anche Sez. 6, n. 2386 del 24/6/1998, Machetti, Rv. 212898). 4.2. Nella concreta fattispecie ora al vaglio del Collegio, il Tribunale del riesame non si è minimamente soffermato sul tema delle esigenze cautelari, avendo ritenuto - come già detto - assorbente il profilo della ritenuta carenza indiziaria a carico di Kh.Ta. Il Pubblico ministero ricorrente, quindi, aveva l'onere di addurre argomentate censure solo in ordine a tale profilo, potendosi invece limitare - quanto al versante della cautela - ad effettuare un richiamo alle pregresse argomentazioni, attualizzate in punto di persistente interesse. E infatti, nel ricorso è specificamente affrontato il tema cautelare, sebbene in maniera estremamente concisa. 5. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Deve essere disposta, infine, l'annotazione di cui all'art. 52, comma 1, del decreto legislativo 20 giugno 2003, n. 196, recante il "codice in materia di protezione dei dati personali". P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 28 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2346 del 2024, proposto dai sigg.ri -OMISSIS-, -OMISSIS- -OMISSIS- e -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avv.ti Fr. Ca. e Vi. Al. Ci. e con domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, viale (...); contro Comune di (omissis) (AQ), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Ad. Ca. e con domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Ch. Del Bu., in Roma, via (...); nei confronti Regione Abruzzo, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata presso gli Uffici della stessa, in Roma, via (...); sigg.ri -OMISSIS- -OMISSIS-, -OMISSIS- -OMISSIS-, -OMISSIS- -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall'avv. Ubaldo Lopardi e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso, in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, L'Aquila, Sezione Prima, n. -OMISSIS-, resa tra le parti, con cui è stato respinto il ricorso R.G. n. -OMISSIS-. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) (AQ), nonché della Regione Abruzzo; Vista la memoria di costituzione e difensiva dei sigg.ri -OMISSIS- -OMISSIS-, -OMISSIS- -OMISSIS- e -OMISSIS- -OMISSIS-; Viste le memorie e le repliche delle parti; Visto l'ulteriore documento depositato dagli appellanti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024 il Cons. Pietro De Berardinis e uditi per le parti l'avv. Fr. Ca., l'avv. Ma. Me. in sostituzione dell'avv. Ad. Ca. e l'Avvocato dello Stato Gi. Gr.; Considerato: - che con il ricorso in epigrafe i sigg.ri -OMISSIS- ed -OMISSIS- -OMISSIS- e la sigg.ra -OMISSIS- hanno proposto appello avverso la sentenza del T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, n. -OMISSIS-, chiedendone la riforma; - che la sentenza di prime cure ha respinto il ricorso proposto dagli odierni appellanti per ottenere la declaratoria dell'illegittimità dell'inerzia serbata dal Comune di (omissis) (AQ) sull'istanza da essi presentata a mezzo P.E.C. il -OMISSIS-, a mezzo della quale: a) avevano chiesto di sapere se fosse stata ultimata la verifica affidata dal Comune al -OMISSIS-per la ricognizione dei terreni aventi natura demaniale e in particolare a quale esito definitivo avesse condotto detta verifica per il terreno con sovrastante fabbricato (del quale i ricorrenti rivendicano la titolarità, in contrasto con alcuni congiunti) censito in Catasto al fg. -OMISSIS-; b) avevano chiesto altresì di conoscere le ragioni per le quali il Comune, dopo aver deciso di vendere la succitata -OMISSIS- agli odierni appellanti e agli altri sigg.ri -OMISSIS- (con i quali vi è contesa per l'eredità del sig. -OMISSIS- -OMISSIS-), non si è presentato alla stipula; c) avevano da ultimo diffidato il Comune a procedere senza indugi alla vendita di detto compendio o altrimenti a concederlo in uso temporaneo al sig. -OMISSIS- e alla sig.ra -OMISSIS- (la quale intenderebbe esercitarvi l'attività agrituristica, avendo la relativa abilitazione); - che il T.A.R., nel dichiarare il ricorso infondato, ha evidenziato: - quanto alla richiesta di cui alla lett. a), che il silenzio del Comune di (omissis) è legittimo, poiché l'Amministrazione comunale aveva già comunicato ai sigg.ri -OMISSIS-, nell'incontro svoltosi il 2 marzo 2018, che il terreno censito al fg. -OMISSIS- era da considerare demanio civico e che la Regione Abruzzo aveva autorizzato la reintegra del terreno a favore del predetto Comune ai fini della sua successiva alienazione. La sentenza ha poi disconosciuto l'esistenza di un interesse dei ricorrenti a conoscere lo stato della ricognizione dei beni del demanio civico insistenti nel territorio del Comune diversi dall'immobile in questione e ha evidenziato come l'accertamento contenuto nel primo stralcio della perizia del -OMISSIS-dovesse ritenersi definitivo per i terreni in esso compresi, in quanto poi recepito da provvedimenti comunali e regionali; - in merito alla richiesta sub b), che questa era stata già soddisfatta dal Comune di (omissis), essendo stati i ricorrenti presenti alla riunione del 2 marzo 2018 in cui il Comune aveva manifestato l'intenzione di vendere il terreno in comunione pro indiviso a tutti i privati ivi presenti (i ricorrenti e i loro familiari con cui sono in contesa). Senonché - aggiunge la sentenza - in tale riunione furono proprio i ricorrenti (l'uno direttamente, l'altro tramite il suo legale) a esprimere dubbi sulla giuridica attuabilità dell'alienazione, se non preceduta dalla ripartizione delle quote tra i privati, con il ché si deve ritenere che i ricorrenti fossero ben consapevoli del fatto che la mancata alienazione del terreno è dipesa dal mancato accordo tra i privati sul riparto delle quote dell'immobile; - in ordine, infine, alla richiesta sub c), che il terreno per cui è causa non può essere alienato ai soli ricorrenti, o concesso in uso temporaneo a due di loro, essendovi contrasto su di esso tra i privati interessati, tanto che quella parte dei loro familiari che sono intervenuti ad opponendum nel giudizio (sigg.ri -OMISSIS-, -OMISSIS- e -OMISSIS- -OMISSIS-), hanno negato la legittimazione del sig. -OMISSIS- e della sig.ra -OMISSIS- a esercitare alcun diritto sugli immobili in discorso; - che nel gravame gli appellanti hanno contestato per più profili la sentenza gravata, senza rubricare le censure da essi proposte in formali motivi di appello; - che in sintesi gli appellanti lamentano che il T.A.R. avrebbe esorbitato dall'alveo dei poteri decisori assegnati dalla legge al G.A. nelle controversie in materia di c.d. silenzio inadempimento, poiché si sarebbe sostituito al Comune e alla Regione con il far proprie, in sede decisoria, le ragioni difensive esternate dal primo tramite il proprio difensore in memoria, e dalla seconda nel rapporto informativo depositato dall'Avvocatura dello Stato; - che in questo modo, però, il T.A.R., secondo gli appellanti, avrebbe respinto il ricorso nel merito, pronunciandosi quindi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio al di fuori dei limiti in cui tale pronuncia è ammessa dall'art. 31, comma 3, c.p.a.: nel caso di specie, infatti, non si verserebbe in un'ipotesi di attività vincolata, a cui ha riguardo l'art. 31, comma 3, cit.; il T.A.R., in altre parole, avrebbe sostituito ai provvedimenti amministrativi mancanti la propria decisione, la quale, perciò, avrebbe sostanza di provvedimento amministrativo; - che di seguito gli appellanti hanno comunque contestato le motivazioni addotte dal T.A.R. su ogni singolo punto oggetto della loro istanza rimasta inevasa; Considerato, inoltre: - che si è costituito in giudizio il Comune di (omissis) (AQ), depositando di seguito una memoria con cui ha eccepito l'inammissibilità, l'irricevibilità e comunque l'infondatezza nel merito dell'appello; - che si è altresì costituita in giudizio la Regione Abruzzo, con atto formale; - che si sono costituiti in giudizio i sigg.ri -OMISSIS-, -OMISSIS- e -OMISSIS- -OMISSIS-, reiterando le conclusioni già formulate nell'atto di intervento ad opponendum spiegato in primo grado; - che gli appellanti hanno depositato memoria e replica e che del pari una replica hanno depositato i sigg.ri -OMISSIS-, -OMISSIS- e -OMISSIS- -OMISSIS-; - che da ultimo gli appellanti hanno depositato la sentenza del T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, -OMISSIS- la quale, in accoglimento di distinto ricorso dei sigg.ri -OMISSIS- ed -OMISSIS- -OMISSIS-, ha annullato la delibera del Consiglio Comunale di (omissis) -OMISSIS-, con cui il Comune ha espresso parere favorevole all'accoglimento dell'istanza di mutamento di destinazione d'uso del terreno di cui al fg. -OMISSIS- (avente natura demaniale civica) ai fini della sua successiva alienazione, e la determinazione della Regione Abruzzo del -OMISSIS- che, sulla scorta di tale delibera, ha disposto la reintegra del predetto terreno a favore della collettività di (omissis), la sua classificazione nella categoria A) dell'art. 11 della l. n. 1766/1927, nonché ha autorizzato il Comune ad alienare la particella in questione ai sigg.ri -OMISSIS- (-OMISSIS-, -OMISSIS-, Os., An. Ma., -OMISSIS-, -OMISSIS- ed -OMISSIS-); - che alla camera di consiglio del 28 maggio 2024, fissata per la discussione del ricorso, sono comparsi i difensori degli appellanti, del Comune e della Regione; - che il Presidente del Collegio ha sottoposto alle parti la questione, rilevata d'ufficio ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a., della possibile incidenza della sentenza del T.A.R. Abruzzo -OMISSIS-, sopra citata, sulla procedibilità dell'appello e, più in generale, dell'intero giudizio; - che il difensore degli appellanti ha replicato a tale questione, insistendo per la permanenza in capo ai propri assistiti dell'interesse alla decisione del ricorso; - che di seguito il Collegio ha trattenuto la causa in decisione; Ritenuto di poter prescindere dalle eccezioni preliminari sollevate avverso l'appello dalle controparti (in specie: dal Comune), nonché dalla questione, rilevata d'ufficio, della procedibilità dell'appello e dell'intero giudizio in virtù del sopravvenire della sentenza del T.A.R. Abruzzo -OMISSIS-, cit.: ciò, in ossequio al criterio della "ragione più liquida", espressione dei principi di economia processuale che governano il processo amministrativo e che rappresentano a propria volta espressione del canone costituzionale del giusto processo (C.d.S., A.P., 27 aprile 2015, n. 5; Sez. VII, 18 settembre 2023, n. 8398; id., 3 novembre 2022, n. 9596; Sez. III, 6 maggio 2021, n. 3534; Sez. IV, 27 agosto 2019, n. 5891), attesa la complessiva infondatezza del ricorso; Considerato, infatti: - che devono respingersi le censure degli appellanti secondo cui il T.A.R. avrebbe esorbitato dai poteri decisori ad esso assegnati nel giudizio ex artt. 31 e 117 c.p.a., poiché le motivazioni della sentenza gravata - in uno con il tenore stesso delle doglianze degli appellanti - fanno emergere l'inesistenza di un obbligo di provvedere in capo al Comune di (omissis) (AQ), compulsato con l'istanza del -OMISSIS-, in relazione a ciascuno dei punti di detta istanza; - che, infatti, il c.d. silenzio inadempimento, giustiziabile con il rimedio del giudizio ex artt. 31 e 117 c.p.a., presuppone che il richiedente abbia sollecitato l'esercizio da parte della P.A. di un'attività provvedimentale, comportante esercizio di pubblici poteri (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 12 ottobre 2023, n. 8897; id., 26 maggio 2023, n. 5206; id. 10 febbraio 2022, n. 967; id., 2 settembre 2019, n. 6048; Sez. V, 22 agosto 2023, n. 7912; id., 29 luglio 2019, n. 5310; Sez. VI, 5 settembre 2022, n. 7703; Sez. III, 1° luglio 2020, n. 4204). "Il rimedio processuale, oggi regolato dagli art. 31 e 117 c.p.a., non è esperibile contro qualsiasi tipologia di omissione amministrativa, restando esclusi dalla sua sfera applicativa non solo i casi di silenzio significativo o tipizzato, ma anche gli obblighi di eseguire che richiedono, per il loro assolvimento, un'attività materiale e non provvedimentale" (così C.d.S., Sez. IV, 23 gennaio 2019, n. 577); - che, tuttavia, per quanto riguarda le prime due richieste, sopra riportate ai punti a) e b), va escluso che attraverso esse i richiedenti abbiano inteso sollecitare l'esercizio da parte del Comune di (omissis) di un'attività provvedimentale, poiché le suddette richieste miravano a ottenere dal Comune interpellato non l'adozione di provvedimenti puntuali, ma la fornitura di mere informazioni, peraltro altrimenti acquisibili (ad es. tramite la procedura ex art. 22 e ss. della l. n. 241/1990); - che, dunque, per le richieste di cui ai punti a) e b) non era attivabile il rimedio del rito speciale ex artt. 31 e 117 c.p.a.; - che in ogni caso le informazioni richieste erano già in possesso dei richiedenti, dal ché la sentenza appellata ha sostanzialmente desunto l'inesistenza di un obbligo di riscontro da parte della P.A. (per evitare un'inutile e defatigante reiterazione di attività ); - che, infatti, la sentenza di primo grado ha fornito, con dovizia di argomenti, la prova del fatto che i ricorrenti erano perfettamente a conoscenza: I) dell'esito della verifica di demanialità di cui alla perizia del -OMISSIS-per quanto riguarda il terreno censito al al fg. -OMISSIS- e della definitività, per il Comune e per la Regione, del primo stralcio di tale perizia recante, per la -OMISSIS-, l'accertamento della sua appartenenza al demanio civico comunale. La definitività di tale accertamento costituisce, del resto, un presupposto ineludibile della decisione del Comune di procedere all'alienazione del terreno in esame, in disparte il successivo annullamento della relativa delibera operato dalla sentenza -OMISSIS- cit.; II) dei motivi per i quali il Comune non aveva successivamente dato corso all'alienazione del bene, trattandosi di motivi attinenti alle controversie insorte tra i privati sulle rispettive quote di proprietà, alla luce dei dubbi sollevati proprio dai sigg.ri -OMISSIS- -OMISSIS- ed -OMISSIS- (di cui è inverosimile pensare che la sig.ra -OMISSIS- non fosse al corrente); - che tali risultanze non sono state efficacemente confutate dagli appellanti nel gravame; - che anche per quanto riguarda la richiesta c), si deve escludere che tramite essa, nella parte in cui ha avuto a oggetto la diffida del Comune a stipulare il contratto, i richiedenti abbiano inteso sollecitare l'esercizio da parte dello stesso Comune di un'attività provvedimentale: deve perciò escludersi che l'inerzia serbata dal Comune su tale parte della citata diffida configurasse un'ipotesi di c.d. silenzio inadempimento, giustiziabile con il rito speciale ex art. 31 e 117 c.p.a.; - che, infatti, per questo aspetto ciò di cui i ricorrenti si lamentano è la mancata presentazione dei rappresentanti del Comune alla stipula del contratto e dunque la fattispecie dedotta in giudizio resta esclusa dalla sfera applicativa del rimedio di cui all'art. 117 c.p.a., esperibile solo quando la P.A. sia tenuto all'esercizio di una potestà autoritativa, mentre nel caso di specie l'attività richiesta al Comune impegna la sua capacità di diritto privato e ha natura negoziale (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 3 febbraio 2017, n. 713); - che, invero, "la condizione di proponibilità di un'azione avverso il silenzio amministrativo (...) è che vi sia un obbligo giuridico di provvedere in capo alla P.A. (art. 2, comma 1, l. n. 241 del 1990), ossia il dovere di emettere un provvedimento in esplicazione di una pubblica funzione, sicché il rito speciale avverso il silenzio non ha lo scopo di tutelare, come rimedio di carattere generale, la posizione del privato di fronte a qualsiasi tipo di inerzia comportamentale della P.A., bensì quello di apprestare una garanzia avverso il mancato esercizio di potestà pubbliche (C.d.S., sez. V, 19 luglio 2022, n. 6238); né la giurisdizione del giudice amministrativo in tema di silenzio deriva dall'art. 117 c.p.a., che è norma sul rito, bensì dai consueti criteri di riparto (ibidem). In definitiva, la consistenza della posizione soggettiva tutelata col rito speciale di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a. non è compatibile con le controversie che non implicano l'esercizio di poteri autoritativi, bensì una attività riconducibile all'ambito dei rapporti di natura paritetica, nelle quali, al di là della qualificazione attribuitagli dall'istante, l'azione si risolve in un'azione di accertamento di pretese patrimoniali e non di sindacato sulla funzione amministrativa (cfr. C.d.S., sez. IV, 1° luglio 2021, n. 5037)" (così C.d.S., Sez. II, 24 ottobre 2022, n. 9049); - che, pertanto, nel caso di specie avendo l'attività della P.A. sollecitata dai privati natura meramente negoziale e paritetica, il rimedio esperibile per questa parte è semmai, ove ne sussistano i presupposti, quello previsto dall'art. 2932 c.c.; - che sempre con l'istanza del -OMISSIS- i privati hanno, per altro verso, diffidato il Comune a rilasciare a favore dei sigg.ri -OMISSIS- -OMISSIS- e -OMISSIS- una concessione in uso temporaneo degli immobili di cui si discute: tuttavia, neppure sotto questo aspetto è configurabile, nel caso concreto in esame, un obbligo del Comune di provvedere, visti i contrasti esistenti tra i privati in merito alle quote di rispettiva appartenenza di detti immobili. Tali contrasti sono vieppiù confermati dalle conclusioni formulate dagli interventori ad opponendum (peraltro inammissibili, in quanto volte ad ampliare il thema decidendi: C.d.S., Sez. V, 30 agosto 2023, n. 8075; id. 25 settembre 2006, n. 5625; Sez. III, 12 giugno 2020, n. 3760; Sez. IV, 14 aprile 2014, n. 1810): questi ultimi, infatti, in subordine hanno chiesto, nel caso in cui il Comune di (omissis) avesse deciso di concedere l'uso temporaneo degli immobili (terreno e sovrastante fabbricato) al sig. -OMISSIS- -OMISSIS- (negandosi qualsiasi legittimazione agli altri appellanti), la condanna del Comune stesso a concedere l'uso temporaneo di detti immobili anche ai medesimi interventori; - che allo stato l'impossibilità per il Comune di procedere all'alienazione, ovvero alla concessione in uso temporaneo, degli immobili per cui è causa discende anche dal dictum della sentenza del T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, -OMISSIS-; - che infatti da detta sentenza, non sospesa, si ricava l'obbligo per la Regione Abruzzo di procedere previamente, ai sensi della l.r, n 25/1988, alla redazione di un piano di massima, al fine di poter stabilire se il terreno demaniale civico di cui alla -OMISSIS- rientri nella categoria A) (bosco o pascolo permanente, con possibilità di mutamento di destinazione d'uso o alienazione) o in quella B) (coltura agraria, con possibilità di quotizzazione, o legittimazione/affrancazione) previste dall'art. 11 della l. n. 1766/1927; - che pertanto l'annullamento sia della delibera del Consiglio Comunale di (omissis) -OMISSIS-, sia della determinazione regionale del -OMISSIS-, con la quale la Regione Abruzzo aveva classificato il terreno demaniale per cui è causa nella categoria A) sopra citata e aveva autorizzato il Comune ad alienarlo ai privati, non solo non consente ad oggi di procedere alla suddetta alienazione, ma preclude, altresì, il suo affidamento in concessione temporanea, essendo prioritario, sul piano logico-giuridico, stabilire la natura esatta di tale terreno; - che ad avviso del Collegio il principio sancito dall'art. 1, comma 2-bis, della l. 7 agosto 1990, n. 241, ai sensi del quale "i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princì pi della collaborazione e della buona fede", di carattere generale rispetto all'agire pubblicistico e che trova fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento ex art. 97 Cost. (C.d.S., Sez. V, 27 ottobre 2023, n. 9298; Sez. III, 25 novembre 2021, n. 7891; Sez. VI, 1° luglio 2021, n. 5008), da un lato impone ai privati di non pretendere dalla P.A. l'esercizio di poteri che gli stessi privati hanno consapevolezza essere allo stato impedito in diritto e in fatto; dall'altro, induce a escludere, in presenza di impedimenti di tal natura e finché gli stessi perdurino, la configurabilità in capo alla P.A. di un obbligo di provvedere; - che a tale considerazione non osta l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui il canone di buona fede rileva sul piano delle regole di responsabilità, e non anche su quello delle regole di validità (C.d.S., A.P., 29 novembre 2021, n. 21; Sez. III, 1° febbraio 2024, n. 1050; id., 4 agosto 2021, n. 5758). Se, infatti, è vero che il fondamento dell'obbligo per la P.A. di provvedere va rinvenuto nell'art. 2 della l. n. 241/1990, "la norma sulla buona fede ha un evidente significato rafforzativo di tale obbligo, specie nella parte in cui impone una condotta collaborativa fra amministrazione e privato" (C.d.S., Sez. III, n. 1050/2024, cit.), ma ciò non può non valere anche nella direzione opposta e cioè quando l'impedimento materiale e/o giuridico a provvedere è frapposto dagli stessi privati, portando così ad escludere la sussistenza di un simile obbligo in capo alla P.A.; il che è quanto si è verificato nel caso di specie, in cui: I) sono stati proprio i sigg.ri -OMISSIS- ed -OMISSIS- -OMISSIS- a esprimere dubbi e riserve sull'alienazione in comunione pro indiviso degli immobili proposta dal Comune; II) è pacifica allo stato la mancanza di un accordo tra le parti private sulla previa ripartizione delle quote in ordine agli immobili stessi; III) sempre i sigg.ri -OMISSIS- hanno esperito vittoriosamente il giudizio sfociato nell'annullamento degli atti comunali e regionali preordinati all'alienazione della -OMISSIS-; Ritenuto in conclusione, per tutto quanto esposto, di dover respingere l'appello, con le precisazioni in punto di motivazione sopra riportate, rispetto alla sentenza appellata; Ritenuto, da ultimo, di liquidare le spese del presente giudizio di appello secondo soccombenza, nella misura di cui al dispositivo; P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sezione Settima (VII), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna gli appellanti in solido tra loro a rifondere alle controparti le spese del presente giudizio di appello, che liquida in Euro 1.000 (mille/00) per ciascuna delle controparti stesse (Comune, Regione e interventori ad opponendum, questi ultimi in solido tra loro), per complessivi Euro 3.000,00 (tremila/00), oltre a spese generali e accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1 e 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (ed agli artt. 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti e della dignità degli interessati, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità, nonché di qualsiasi altro dato idoneo a consentire l'identificazione delle persone fisiche menzionate in sentenza. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere, Estensore Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere

Ricerca rapida tra migliaia di sentenze
Trova facilmente ciò che stai cercando in pochi istanti. La nostra vasta banca dati è costantemente aggiornata e ti consente di effettuare ricerche veloci e precise.
Trova il riferimento esatto della sentenza
Addio a filtri di ricerca complicati e interfacce difficili da navigare. Utilizza una singola barra di ricerca per trovare precisamente ciò che ti serve all'interno delle sentenze.
Prova il potente motore semantico
La ricerca semantica tiene conto del significato implicito delle parole, del contesto e delle relazioni tra i concetti per fornire risultati più accurati e pertinenti.
Tribunale Milano Tribunale Roma Tribunale Napoli Tribunale Torino Tribunale Palermo Tribunale Bari Tribunale Bergamo Tribunale Brescia Tribunale Cagliari Tribunale Catania Tribunale Chieti Tribunale Cremona Tribunale Firenze Tribunale Forlì Tribunale Benevento Tribunale Verbania Tribunale Cassino Tribunale Ferrara Tribunale Pistoia Tribunale Matera Tribunale Spoleto Tribunale Genova Tribunale La Spezia Tribunale Ivrea Tribunale Siracusa Tribunale Sassari Tribunale Savona Tribunale Lanciano Tribunale Lecce Tribunale Modena Tribunale Potenza Tribunale Avellino Tribunale Velletri Tribunale Monza Tribunale Piacenza Tribunale Pordenone Tribunale Prato Tribunale Reggio Calabria Tribunale Treviso Tribunale Lecco Tribunale Como Tribunale Reggio Emilia Tribunale Foggia Tribunale Messina Tribunale Rieti Tribunale Macerata Tribunale Civitavecchia Tribunale Pavia Tribunale Parma Tribunale Agrigento Tribunale Massa Carrara Tribunale Novara Tribunale Nocera Inferiore Tribunale Busto Arsizio Tribunale Ragusa Tribunale Pisa Tribunale Udine Tribunale Salerno Tribunale Verona Tribunale Venezia Tribunale Rovereto Tribunale Latina Tribunale Vicenza Tribunale Perugia Tribunale Brindisi Tribunale Mantova Tribunale Taranto Tribunale Biella Tribunale Gela Tribunale Caltanissetta Tribunale Teramo Tribunale Nola Tribunale Oristano Tribunale Rovigo Tribunale Tivoli Tribunale Viterbo Tribunale Castrovillari Tribunale Enna Tribunale Cosenza Tribunale Santa Maria Capua Vetere Tribunale Bologna Tribunale Imperia Tribunale Barcellona Pozzo di Gotto Tribunale Trento Tribunale Ravenna Tribunale Siena Tribunale Alessandria Tribunale Belluno Tribunale Frosinone Tribunale Avezzano Tribunale Padova Tribunale L'Aquila Tribunale Terni Tribunale Crotone Tribunale Trani Tribunale Vibo Valentia Tribunale Sulmona Tribunale Grosseto Tribunale Sondrio Tribunale Catanzaro Tribunale Ancona Tribunale Rimini Tribunale Pesaro Tribunale Locri Tribunale Vasto Tribunale Gorizia Tribunale Patti Tribunale Lucca Tribunale Urbino Tribunale Varese Tribunale Pescara Tribunale Aosta Tribunale Trapani Tribunale Marsala Tribunale Ascoli Piceno Tribunale Termini Imerese Tribunale Ortona Tribunale Lodi Tribunale Trieste Tribunale Campobasso

Un nuovo modo di esercitare la professione

Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.