Sentenze recenti inammissibilità appello

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1163 del 2022, proposto da An. Gh., titolare della ditta individuale Pu. di Gh. An., rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Puglia, in nome del presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ca. Pa. Ca., con domicilio eletto presso lo studio delegazione Regione Puglia in Roma, via (...); per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia sezione staccata di Lecce Sezione Terza n. 00913/2021, resa tra le parti, per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia: - della determina dirigenziale della Regione Puglia Dipartimento Agricoltura, Sviluppo Rurale ed Ambientale-Sezione Competitività delle Filiere Agroalimentari avente n° di protocollo r.puglia/AOO_155/PROT/09/12/2020/0015019 del 9/12/2020, notificata a mezzo p.e.c. in data 9/12/2020, con la quale la Regione Puglia non concede al ricorrente il contributo finanziario richiesto e previsto N. 00276/2021 REG.RIC. dall'Avviso pubblico per la presentazione delle domande di aiuto in favore degli operatori del settore florovivaistico DDS 156/2020; - della determinazione del Dirigente Sezione Competitività delle Filiere Agroalimentari della Regione Puglia 4.11.2020 n° 243 (SIAN CARI-19269.Codice CUP n. B34I20000670001.Aiuti in favore degli operatori del settore florovivaistico. Approvazione degli elenchi degli aventi diritto e non aventi diritto al contributo), pubblicata in data 26.11.2020 sul B.U.R. Puglia, n° 160, con la quale vengono fatte proprie le determinazioni richiamate con l'approvazione dell'elenco degli aventi diritto e non aventi diritto al contributo di che trattasi e viene escluso il ricorrente dal contributo finanziario richiesto; - nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale ancorché non conosciuto; e per la declaratoria del diritto del ricorrente ad ottenere gli aiuti finanziari previsti dall'Avviso pubblico nella misura richiesta Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Regione Puglia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Oreste Mario Caputo; udita, per parte appellata, l'avv. Ca. Pa. Ca.; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.È appellata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Lecce Sezione Terza, n. 00913/2021, di reiezione del ricorso proposto dal sig. An. Gh. avverso il diniego (del 9/12/2020) opposto dalla Regione Puglia-Dipartimento Agricoltura, Sviluppo Rurale ed Ambientale-Sezione Competitività delle Filiere all'istanza di contributo finanziario di cui dall'Avviso pubblico di aiuto in favore degli operatori del settore florovivaistico DDS 156/2020. 1.1. Cumulativamente, il ricorrente ha impugnato gli atti connessi del procedimento di sovvenzione. 2. L'appellante, proprietario d'azienda florovivaistica, rientrante nel codice ATECO A001192 (coltivazione di fiori in colture protette), ha presentato domanda di aiuti ai sensi dell'avviso pubblico per la presentazione delle domande di aiuto in favore degli operatori del settore florovivaistico ai sensi del d.l. 19.05.2020 n. 34 (c.d. Decreto Rilancio). L'art. 3 del suddetto avviso individua i soggetti beneficiari tra "gli operatori economici ovvero a PMI del settore primario, comparto florovivaistico, aventi sede legale ed operativa all'interno del territorio regionale pugliese, che hanno distrutto i materiali vegetali per effetto delle misure per il contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica nel periodo compreso tra il 9 marzo (DPCM 8.3.2020) e il 18 maggio 2020 (DPCM 15.5.2020) e la cui attività è contraddistinta dai codici ATECO: A0119 Floricoltura e coltivazione di altre colture non permanenti; A01191 Coltivazione di fiori in piena aria; A01192 Coltivazione di fiori in colture protette; A0128 Coltivazione di spezie, piante aromatiche e farmaceutiche; A0130 riproduzione di piante". Al successivo art. 4, con riferimento ai requisiti per l'accesso agli aiuti regionali veniva richiesto, tra l'altro, di "aver inviato regolare comunicazione di distruzione dei beni all'Agenzia Entrate territoriale e Comando Guardia di Finanza competente per territorio almeno 5 giorni prima della data prevista di distruzione della merce ai sensi art. 53 DPR 633/72 e s.m.i. nonché del dpr 10.11.1997 n. 441, completa di specie distrutte, quantità e costi, al netto di imposte, nel periodo compreso tra il 9/3/2020 e il 18/5/2020". 3. La Regione ha opposto il diniego impugnato poiché, dall'esame della documentazione trasmessa, ha riscontrato delle discrasie tra quanto dichiarato nel verbale della Guardia di Finanza e quanto dichiarato all'Agenzia delle Entrate, sia con riferimento alla specie vegetale distrutta che alla quantificazione del costo della distruzione. 4. Con ordinanza istruttoria il Tar ha ordinato alla Guardia di Finanza di Lecce, Compagnia di Gallipoli, "l'esibizione di una relazione di chiarimenti che precisi se l'espressione "Bulbi Lilium" riportata sub "Descrizione Merce" nei prospetti riepilogativi contenuti nel "processo verbale di operazioni compiute" del 17/04/2020 e del 05/05/2020 redatti dalla medesima Guardia di Finanza, Compagnia di Gallipoli". All'esito del deposito della relazione, previa comunicazione alle parti ex art. 73 c.p.a., richiamando quanto dedotto dalla Regione resistente sulla eventuale decurtazione "finanziaria in misura proporzionale al contributo spettante a ciascun beneficiario", il Tar ha dichiarato il ricorso inammissibile per omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati. 5. Appella la sentenza il sig. An. Gh.. Resiste la Regione Puglia. 7. Alla pubblica udienza del 9 maggio 2024 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione. 8. Con il primo motivo l'appellante censura la pronuncia gravata nel punto in cui il ha dichiarato inammissibile il ricorso. L'appellante sottolinea che il ricorso di primo grado cumula una molteplicità di domande: d'annullamento della determinazione dirigenziale espressamente riferita alla sua posizione; d'annullamento del provvedimento dirigenziale di approvazione dell'elenco degli ammessi; e, da ultimo, d'accertamento e/o declaratoria del diritto al beneficio richiesto. Sicché la declaratoria d'inammissibile il ricorso, ex art. 41 c.p.a., della domanda d'annullamento - per difetto di regolarità del contraddittorio stante l'omessa notifica ad almeno ad almeno un controinteressato per l'appellante - non s'estenderebbe alla domanda d'accertamento del diritto al contributo. Né, ad avviso del ricorrente, i beneficiari del contributo, collocati in posizione utile della graduatoria finale, possiederebbero la qualifica di controinteressati sostanziali. In aggiunta, l'appellante censura l'affermazione contenuta nella sentenza appellata che già in sede di avviso sussistevano tutti gli elementi per poter valutare la sussistenza dell'obbligo di notifica ai controinteressati. Secondo la censura in esame nella determinazione n. 243/2020 l'unico aspetto chiarito dalla Regione sarebbe consistito nel fatto che l'ammontare complessivo del contributo liquidabile corrisponde a euro 3.731.411,42 che si procederà a ripartire in misura proporzionale al contributo spettante a ciascun beneficiario ai sensi del paragrafo 9 dell'Avviso pubblico approvato con DDS 156/2020 8.1 Il motivo è infondato. Va precisato che le ditte ammesse a contributo sono tutte nominativamente indicate nel decreto dirigenziale di approvazione dell'elenco degli ammessi e, in caso d'accoglimento del gravame, ai sensi del par. 9 dell'Avviso Pubblico, si sarebbe dovuto procedere ad un'ulteriore decurtazione finanziaria di quanto ad essi spettante. Raggiunta la dotazione finanziaria prevista, l'accoglimento del ricorso in esame avrebbe comportato, quale atto dovuto, la decurtazione a discapito dei soggetti ammessi al contributo, che, di conseguenza, assumono la veste di controinteressati. Va data continuità all'indirizzo giurisprudenziale a mente del quale nel processo amministrativo la nozione di controinteressato al ricorso si fonda sulla simultanea sussistenza di due elementi: a) quello formale, rappresentato dalla contemplazione nominativa del soggetto nel provvedimento impugnato, tale da consentirne alla parte ricorrente l'agevole individuazione; b) quello sostanziale, derivante dall'esistenza in capo a tale soggetto di un interesse legittimo uguale e contrario a quello fatto valere attraverso l'azione impugnatoria, vale a dire di un interesse al mantenimento della situazione esistente (cfr., Cons. Stato, sez. V, 15 giugno 2022, n. 4891 Sicché, come ritenuto dai giudici di prime cure, il ricorso di primo grado avrebbe dovuto essere notificato ad almeno uno dei soggetti controinteressati, individuati nel provvedimento impugnato. Da cui la declaratoria, ai sensi dell'art. 41 c.p.a., d'inammissibilità del gravame, senza che residui, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, la cognizione della domanda d'accertamento del diritto al contributo cumulativamente proposta. Con gli atti impugnati è irritrattabilmente definita la schiera di coloro cui spetta il contributo nella quantificazione ivi stabilita: la tutela di mero accertamento, invocata dal ricorrente, sarebbe inutiliter data, o meglio non sarebbe corredata dal necessario presupposto processuale dell'interesse ad agire. 9. Con il secondo motivo l'appellante censura la pronuncia gravata nel punto in cui ha ritenuto insussistente l'errore scusabile e la rimessione in termini, sul rilievo che "non si verteva in materia di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto". Al contrario, secondo l'appellante, al momento della proposizione del ricorso e del successivo giudizio sussisterebbero condotte della p.a. riconducibili al concetto di ambiguità della condotta amministrativa. 9.1 Il motivo è infondato. Il rimedio dell'errore scusabile va riconosciuto e concesso con estremo rigore, entro limiti ben ristretti poiché il processo amministrativo, alla stregua dei criteri desumibili dagli artt. 3 e 24 Cost., è improntato al principio di perfetta simmetria delle posizioni delle parti in causa. In giurisprudenza è ribadito che "l'art. 37, c.p.a., va considerato norma di stretta interpretazione e la concessione del beneficio dell'errore scusabile è istituto eccezionale da applicarsi limitatamente alle ipotesi di: non intellegibilità delle norme di riferimento, orientamenti giurisprudenziali non univoci, attività macroscopicamente equivoche o contraddittore poste in essere dalla stessa amministrazione, caso fortuito e forza maggiore" (cfr., Cons. Stato, sez. III, 14 gennaio 2019, n. 345; Id., sez. II, 15 ottobre 2019, n. 7029; Id., sez. VII, 16 agosto 2023, n. 7767). Nel caso di specie non si ravvisano gli estremi per concedere il beneficio dell'errore scusabile, in quanto le ditte nei confronti delle quali il ricorso di primo grado andava notificato risultavano elencate nominativamente nel decreto d'approvazione della graduatoria, espressamente impugnato dal ricorrente. 10. Conclusivamente l'appello deve essere respinto. 11. Le spese del grado di giudizio, come liquidate in dispositivo seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna il sig. An. Gh. alla rifusione delle spese in favore della Regione Puglia liquidate complessivamente in 3000,00 (tremila) euro, oltre diritti ed accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Oreste Mario Caputo - Consigliere, Estensore Roberto Caponigro - Consigliere Thomas Mathà - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: FEDERICO SORRENTINOPresidente ORONZO DE MASIConsigliere LIBERATO PAOLITTOConsigliere MILENA BALSAMOConsigliere FRANCESCA PICARDIConsigliere-Rel. Oggetto: TRIBUTI ALTRI Ud.17/05/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 18475/2020 R.G. proposto da: INOX VILLA SRL, elettivamente domiciliata in ROMA CIRCONVALLAZIONE CLODIA 36, presso lo studio dell’avvocato VAVALA' RAFFAELE MARIO (VVLRFL55D26I639J), rappresentato e difeso dall'avvocato COPPOLA DANIELA (CPPDNL69D55F205Z) -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587), che la rappresenta e difende -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. LOMBARDIA n. 4185/2019 depositata il 24/10/2019, udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17/05/2024 dal Consigliere FRANCESCA PICARDI. FATTI DI CAUSA 1. Inox Villa s.r.l. ha impugnato l'avviso di liquidazione emesso dall’Agenzia delle Entrate con riferimento al decreto ingiuntivo del Tribunale di Monza, n. 5316 del 2014, deducendo l’illegittimità della doppia imposizione, in quanto le fatture poste a fondamento del decreto ingiuntivo erano già state assoggettate ad i.v.a., e la carenza di motivazione dell’atto impugnato. 2.Il ricorso è stato accolto in primo grado. Nella sentenza di primo grado si legge che «le fatture .. rappresentano l’unica documentazione commerciale necessaria ai fini processuali, senza che vi sia enunciazione di alcun rapporto» e «che l’atto impugnato si appalesa illegittimo anche sotto il profilo del vizio di motivazione». 3. All’esito dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, la sentenza di primo grado è stata riformata. Nella sentenza di appello, previo rigetto dell’eccezione di inammissibilità, si conclude «quando sia enunciato che le fatture derivano da operazioni di fornitura di merci soggette ad i.v.a., operazioni negoziali da registrare in caso di uso ai sensi degli artt. 22 e 40 del d.P.R. n. 131 del 1986, anche tale enunciazione deve essere tassata». 4. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, la contribuente. 5. Si è costituita con controricorso l’Agenzia delle Entrate, che ha eccepito la tardività del ricorso e ne ha chiesto, comunque, il rigetto del ricorso. 6. La contribuente ha depositato istanza di rimessione in termini, allegando di aver avviato il procedimento di notificazione del ricorso per cassazione prima della scadenza del termine, ma di non essere riuscita a completarlo per le modalità organizzative dell’ente destinatario, che, a causa dell’emergenza sanitaria, ha disposto la chiusura dell’ufficio e lo svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti da casa. 5. Risultano depositate la memoria della contribuente e le conclusioni scritte della Procura Generale, che ha chiesto rigettarsi il ricorso. 8.La causa è stata trattata e decisa all’udienza pubblica del 17 maggio 2024. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.La contribuente ha dedotto: 1) la violazione e falsa applicazione, ai sensi all'art. 360, primo comma 1, n. 3, cod.proc.civ., degli artt. 22 e 40 del d.P.R. n. 131 del 1986, atteso che il concetto di enunciazione non si esaurisce nella allegazione, quale antefatto, della generica esistenza di un rapporto giuridico, sotteso alle fatture commerciali poste a fondamento del decreto ingiuntivo e che una diversa conclusione non può basarsi sulla circolare n. 34/E del 2001 dell’Agenzia, che non è un atto normativo; 2) l’omesso esame, ai sensi all'art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., di un fatto decisivo per il giudizio e, cioè, della carenza di motivazione dell’atto impositivo, che non consente di comprendere la quantificazione della somma pretesa – fatto dedotto in primo grado ed oggetto di un motivo del ricorso introduttivo accolto, ma di cui il giudice di appello non ha tenuto conto, nonostante la censura di appello sul punto. 2. In primo luogo la ricorrente va rimessa in termini, ai sensi dell’art. 155 cod.proc.civ. Difatti, le circostanze di fatto allegate e non contestate dalla controricorrente, oltre che confermate dalla documentazione relativa al procedimento di notificazione, hanno determinato la sua decadenza dall’impugnazione per causa ad essa non imputabile. Più precisamente il primo procedimento di notificazione (tempestivamente avviato ed immediatamente rinnovato) non si è positivamente concluso in conseguenza della chiusura al pubblico degli uffici dell’Agenzia delle Entrate, destinataria dell’atto, in considerazione dell’emergenza sanitaria del 2020. Non è, tuttavia, necessaria la concessione di un termine per rinnovare la notifica, essendosi concluso positivamente il secondo procedimento di notificazione immediatamente avviato dalla ricorrente ed essendosi, difatti, costituita la controricorrente. 3. In ordine al primo motivo, avente ad oggetto l’imposta di registro sul rapporto sottostante al decreto ingiuntivo, occorre premettere che la mera enunciazione di un atto soggetto a registrazione in caso d'uso in altro atto registrato, pur non configurandosi, di per sé, come ipotesi di uso ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. n. 131 del 1986, ne comporta l'assoggettamento ad imposta a prescindere dall'uso, ai sensi del successivo art. 22 (così Cass., Sez. 5, 29 gennaio 2024, n. 2684, che ha confermato la decisione impugnata, secondo cui andava assoggettato ad imposta il contratto di prestazione d'opera richiamato in un decreto ingiuntivo, pur non costituendo ipotesi di uso del predetto). Va, però, precisato che, per potersi configurare l’enunciazione, è necessario che nell'atto sottoposto a registrazione vi sia espresso richiamo al negozio posto in essere, sia che si tratti di atto scritto o di contratto verbale, con specifica menzione di tutti gli elementi costitutivi di esso che servono ad identificarne la natura ed il contenuto in modo tale che lo stesso potrebbe essere registrato come atto a sé stante. Pertanto, la tassazione per enunciazione non può operare se nell'atto soggetto a registrazione siano menzionate circostanze dalle quali possa solo dedursi che esiste tra le parti il rapporto giuridico non denunciato, essendo sempre necessario che le circostanze enunciate siano idonee di per sé stesse, e, cioè, senza necessità di ricorrere ad elementi non contenuti nell'atto, a dare certezza di quel rapporto giuridico. Nel caso di specie, il giudice di merito ha accertato l’avvenuta enunciazione, precisando che dal decreto ingiuntivo risulta che le fatture derivano da un rapporto di fornitura di merci, i cui elementi sono specificati, sicché il motivo non merita accoglimento e deve essere rigettato. Solo per completezza deve sottolinearsi che l’accertamento di fatto effettuato dal giudice di merito non può essere rimesso in discussione in sede di legittimità e che sul punto non è stata formulata alcuna doglianza riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. 4. Il secondo motivo di ricorso, formulato ai sensi all’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ., deve essere riqualificato e ricondotto nell’ambito applicativo dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., visto che denuncia l’omessa motivazione della sentenza impugnata in ordine all’accoglimento (implicito) del motivo di appello formulato dall’Agenzia relativamente alla motivazione dell’atto impositivo. In proposito occorre ribadire che il ricorso, che denunci l’apparente o omessa motivazione, in violazione dell'art. 132 cod.proc.civ., non può essere accolto qualora la questione giuridica sottesa sia comunque da disattendere, non essendovi motivo per cui un tale principio, formulato rispetto al caso di omesso esame di un motivo di appello, e fondato sui principi di economia e ragionevole durata del processo, non debba trovare applicazione anche rispetto al caso, del tutto assimilabile, in cui la motivazione resa dal giudice dell'appello sia, rispetto ad un dato motivo, sostanzialmente apparente, ma suscettibile di essere corretta ai sensi dell'art. 384 cod.proc.civ. (Cass., Sez. L., 1° marzo 2019, n. 6145). La censura deve essere, pertanto, rigettata in applicazione dell’orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema di imposta di registro su atti giudiziari, l'obbligo di motivazione dell'avviso di liquidazione, gravante sull'Amministrazione, è assolto con l'indicazione della data e del numero della sentenza civile o del decreto ingiuntivo, senza necessità di allegazione dell'atto, purché i riferimenti forniti lo rendano agevolmente individuabile, e conseguentemente conoscibile senza la necessità di un'attività di ricerca complessa, realizzandosi in tal caso un adeguato bilanciamento tra le esigenze di economia dell'azione amministrativa ed il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente (Cass., Sez. 5, 7 aprile 2022, n. 11283). 5.In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio devono essere integralmente compensate, in considerazione delle specifiche circostanze del caso concreto e del rigetto dell’eccezione pregiudiziale di rito di tardività del ricorso. P.Q.M. La Corte: rigetta il ricorso; dichiara integralmente compensate le spese di questo giudizio; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, il 17/05/2024. Il Consigliere estensore Il Presidente FRANCESCA PICARDI FEDERICO SORRENTINO

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1198 del 2024, proposto dal Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Mi. Gr. e Vl. Pe., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Mi. Gr. in Padova, Piazzale (...); contro El. Sa., rappresentata e difesa dall'avvocato An. Re. D'A., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); nei confronti della Regione Veneto e dell'Ente Parco Regionale dei Colli Euganei, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza n. 1564 del 2023 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione Seconda. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di El. Sa.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Eugenio Tagliasacchi e uditi per le parti gli avvocati presenti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in epigrafe il Comune di (omissis) ha impugnato la sentenza del T.a.r. Veneto n. 1564 del 2023 che ha accolto il ricorso proposto dalla signora El. Sa. avverso il silenzio serbato dall'anzidetto Comune in relazione all'istanza dalla medesima presentata in data 29 dicembre 2022 intesa a ottenere l'avvio del procedimento diretto all'approvazione della variante al Piano Ambientale del Parco dei Colli Euganei, necessaria per la prosecuzione dell'iter di approvazione dell'accordo di programma relativo al "progetto strategico turistico" ai sensi dell'art. 26 della l.r. Veneto n. 11 del 2004, proposto dalla ricorrente in primo grado e odierna appellata. 2. Più precisamente, l'originaria istanza della signora Sa. - presentata in data 28 dicembre 2015 prot. n. 19701 e poi successivamente integrata e specificata nel maggio 2016 - riguardava un "progetto strategico turistico" per la realizzazione di un'area adibita a servizi nell'ambito dell'anello ciclo-turistico dei Colli Euganei, con completamento della pista ciclabile lungo la S.P. n. 89 e lungo via (omissis). In estrema sintesi, tale istanza dapprima fu positivamente valutata dall'amministrazione comunale e il Sindaco del Comune di (omissis), nel maggio 2016, promosse un incontro con le associazioni di categoria al cui esito venne redatto un apposito verbale per la valutazione del progetto strategico turistico, come previsto dalla D.G.R.V. n. 450 del 2015. Successivamente, il Comune dispose la trasmissione degli atti alla Regione e, con Deliberazione n. 1770 del 2 novembre 2016, la Giunta Regionale riconobbe le caratteristiche di progetto strategico ai sensi dell'art. 15 della l.r. n. 32 del 2013, al fine avviare il procedimento relativo alla stipula di un Accordo di Programma. Poi, con decreto n. 11770/2016/1109 dell'1 febbraio 2017, l'Ente Parco dei Colli Euganei ha rilevato l'incompatibilità del progetto turistico rispetto alle previsioni del Piano ambientale, dichiarata anche nel successivo parere reso nella seduta del 3 marzo 2021 e con la successiva nota prot. 24141 del 14 dicembre 2021 l'Ente Parco dei Colli Euganei ha precisato che la procedura di variante del Piano ambientale avrebbe dovuto essere preceduta dall'adozione di una variante allo strumento urbanistico comunale. Infine con la nota prot. n. 21361 del 4 novembre 2022, il Sindaco del Comune di (omissis) ha segnalato alla signora Sa. la difformità del progetto rispetto alle previsioni del Piano di Assetto del Territorito (P.A.T.) e del Piano degli Interventi (P.I.) sostenendo di non poter "approvare una variante" al P.I. in difformità rispetto al P.A.T., che non prevede il Progetto Strategico Turistico in quanto in contrasto con il Piano ambientale; sotto diverso profilo ha rilevato che una eventuale variante al P.A.T. non solo sarebbe di competenza della Provincia, ma non sarebbe neppure attuabile poiché sarebbe, per l'appunto, in contrasto con il Piano Ambientale. 3. Dalle considerazioni che precedono risulta quindi che il procedimento relativo al progetto, in sostanza, non è stato proseguito a causa della divergenza emersa tra le amministrazioni con riferimento all'individuazione dell'iter da seguire per pervenire all'adozione delle modifiche al Piano Ambientale. 4. La signora Sa. - pertanto - ha presentato l'ulteriore e già menzionata diffida del 29 dicembre 2022 attraverso la quale ha chiesto che il Comune di (omissis) e l'Ente Parco dei Colli Euganei avviassero entro il termine di trenta giorni il procedimento volto all'adozione della variante al Piano Ambientale, necessaria per proseguire l'iter dell'accordo strategico turistico e, a fronte del silenzio del Comune, ha introdotto il presente giudizio avverso il silenzio. 5. Il T.a.r. Veneto, con la sentenza impugnata, ha accolto il ricorso rilevando che, nel caso di specie, l'obbligo di concludere il procedimento dipendeva dall'affidamento ingenerato in capo alla ricorrente. Ad avviso del giudice di prime cure, infatti, per la particolarità del caso di specie e per la specificità della posizione della ricorrente, sarebbe consentito discostarsi dal principio generale, secondo cui non è configurabile alcun obbligo di provvedere rispetto agli atti di pianificazione urbanistica, che risultano connotati da ampia discrezionalità nell'an e nel quomodo, con la conseguenza che sarebbe ravvisabile in capo all'amministrazione comunale uno specifico obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, eventualmente anche attraverso un rigetto nel merito della richiesta di avvio dell'iter di adozione delle varianti agli strumenti urbanistici comunali prodromiche alla variante generale al Piano Ambientale del Parco, dal momento che l'amministrazione comunale fino a quel momento non si era espressa nel merito limitandosi ad osservazioni definite "procedurali" (come quella di cui alla nota sindacale del 4 novembre 2022). 6. Avverso tale sentenza ha proposto appello il Comune di (omissis), prospettando anzitutto - nella parte in fatto - una diversa ricostruzione della vicenda procedimentale volta a porre in evidenza il difetto di competenza del Comune rispetto all'adozione degli atti propedeutici alla prosecuzione dell'iter, osservando, in proposito, che il Comune non sarebbe "l'Ente capofila" nel procedimento volto all'adozione dell'Accordo di Programma, né sarebbe titolare di un "autonomo onere di variante dello strumento urbanistico", né, ancora, sarebbe competente a variare il Piano Ambientale. In altri termini, il Comune appellante ritiene che l'arresto del procedimento debba essere imputato agli altri enti coinvolti e, sul punto, osserva, infatti, che: "gli Enti che avrebbero potuto/dovuto portare avanti il procedimento, in realtà, si arrestavano, sembrando pretendere che il Comune, seppur incompetente, facesse le loro veci". In questa prospettiva, pertanto, ad avviso dell'Ente locale, l'adozione della variante comunale integrava un adempimento non previsto dal procedimento di Accordo di Programma, che, al contrario, assorbirebbe di per sé la variante stessa rendendone così superflua l'adozione da parte del Comune e, inoltre, non si tratterebbe neppure di un adempimento richiesto per la Variante Generale al Piano Ambientale, che, secondo il Comune, l'Ente Parco avrebbe potuto avviare autonomamente. L'appellante sostiene, inoltre, di aver puntualmente rappresentato i predetti profili critici mediante la nota del 4 novembre 2022 nella quale il Sindaco di (omissis) ha indicato alla signora Sa. le ragioni per le quali il Comune non avrebbe potuto adottare la variante allo strumento urbanistico e, a fronte dell'ulteriore diffida del 29 dicembre 2022, l'amministrazione ha ritenuto di non dover dare ulteriori riscontri avendo, a suo dire, già indicato puntualmente le ragioni per le quali non sarebbe stato possibile dar seguito al procedimento, spettando la prosecuzione dell'iter alla Regione e all'Ente Parco. 6.1. Con il primo motivo di gravame, il Comune appellante sostiene che il ricorso di primo grado sia irricevibile o inammissibile in quanto proposto oltre il termine annuale previsto dall'art. 31, comma 2, c.p.a. dal momento che il procedimento ha avuto avvio nel dicembre 2015 con la presentazione dell'originaria istanza, mentre il ricorso è stato depositato solo nel 2023. Nella prospettazione del Comune, pertanto, la diffida del 29 dicembre 2022 non sarebbe una nuova istanza ma un mero sollecito per la prosecuzione del procedimento. Il Comune osserva inoltre che considerando l'anzidetta diffida alla stregua di un'istanza presentata ex novo nel 2022 non avrebbe potuto trovare applicazione l'art. 26, comma 2-ter, della l.r. Veneto n. 11 del 2004, che era stato medio tempore abrogato; mentre qualificandola come mera richiesta di variante urbanistica non sarebbe stato possibile configurare alcun obbligo di provvedere in capo al Comune. 6.2. Con il secondo motivo di gravame, il Comune contesta la sentenza sostenendo che il primo giudice abbia omesso di rilevare un ulteriore profilo di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio, in quanto l'istanza del 29 dicembre 2022 era da ritenersi la mera reiterazione di una precedente richiesta formulata dalla stessa ricorrente alla quale il Comune - con il già richiamato provvedimento del Sindaco del 4 novembre 2022 - aveva dato riscontro, indicando le ragioni ostative alla prosecuzione del procedimento attraverso l'adozione, da parte del Comune medesimo, di una variante urbanistica. Tale provvedimento - che non è stato impugnato - aveva indicato le ragioni poste a fondamento dell'incompetenza del Comune di (omissis) e della conseguente impossibilità di adottare una variante. Conseguentemente, il giudice avrebbe errato a qualificare la nota sindacale del 4 novembre 2022 quale atto "meramente interlocutorio" nonché "proveniente da Organo non competente alla pianificazione". 6.3. Con il terzo motivo di gravame, insiste nel sostenere che in capo al Comune non sussista alcun obbligo di adottare la variante urbanistica in considerazione di quanto previsto dall'art. 26, comma 2-ter, della l.r. Veneto n. 11 del 2004 e dalla D.G.R.V. n. 450/2015. 7. Si è costituita in giudizio El. Sa. eccependo l'inammissibilità dell'appello per difetto di interesse poiché a seguito della sentenza del T.a.r., con la deliberazione del Consiglio Comunale n. 68 del 27 dicembre 2023, comunicata con nota del 28 febbraio 2024, il Comune ha rigettato l'istanza della Sa. ritenendo di non poter accogliere la proposta di accordo di programma. La delibera dispone testualmente di rigettare "l'istanza presentata in data 29.12.22 dalla ditta Sa. Elisa volta all'introduzione di una Variante al Piano di Assetto del Territorio (P.A.T.) e di una Variante al Piano degli Interventi e per l'effetto di rigettare anche l'istanza volta all'adozione delle determinazioni necessarie a dare impulso all'approvazione di una Variante al Piano Ambientale del Parco Colli Euganei". Ad avviso della signora Sa. si tratta, dunque, di un provvedimento espresso adottato successivamente alla pubblicazione della sentenza appellata e già impugnato, a sua volta, davanti al T.a.r., con la conseguenza che l'appello dovrebbe a suo dire essere dichiarato inammissibile. Ferma restando l'eccezione che precede, la parte appellata ha replicato nel merito alle censure del Comune. 8. Con la memoria di replica del 3 maggio 2024, il Comune di (omissis) insiste nel sostenere che la variante dello strumento urbanistico non è riconducibile alla sfera decisionale del Comune, trattandosi di una conseguenza diretta e immediata della procedura di approvazione dell'accordo di programma avente ad oggetto un intervento di interesse regionale. Con riferimento all'eccezione di inammissibilità dell'appello a seguito della delibera n. 68 del 27 dicembre 2023, il Comune di (omissis) eccepisce la tardività del deposito della delibera medesima e sostiene che l'eccezione sia comunque infondata dal momento che l'anzidetta delibera è stata adottata solo per ottemperare alla sentenza immediatamente esecutiva, sicché "l'Amministrazione comunale ha un interesse attuale e concreto ad ottenere una pronuncia della presente impugnazione, posto che l'accertamento dell'insussistenza, in capo alla medesima, di un obbligo di provvedere renderebbe inutiliter data la stessa Delibera consiliare n. 68/2023". 9. Tanto premesso, il Collegio - trattenuta la causa in decisione alla camera di consiglio del 16 maggio 2024 - reputa che l'appello non sia fondato. 10. Preliminarmente, va esaminate l'eccezione di inammissibilità dell'appello per difetto di interesse, in considerazione dell'adozione del provvedimento espresso mediante la delibera n. 68 del 27 dicembre 2023. Si deve, infatti, escludere che con l'anzidetta delibera il Comune abbia inteso fare acquiescenza alla sentenza, dal momento che nella delibera stessa si legge espressamente quanto segue: "il presente provvedimento viene assunto in forza di quanto disposto dalla sentenza T.A.R. Veneto n. 1564 del 6.11.2023, esecutiva, al fine di ottemperare a un obbligo giudiziale, senza che, però, il Comune intenda fare acquiescenza alla predetta pronuncia e, quindi, con riserva di proporre avverso la stessa impugnazione". Sul punto, il Collegio intende dare continuità al consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato, secondo cui dall'esecuzione della sentenza di primo grado non si può desumere l'acquiescenza alla sentenza stessa, dal momento che l'esecuzione della pronuncia, in assenza di misure cautelari del giudice d'appello, è un dovere dell'amministrazione soccombente, salvo il caso in cui l'amministrazione abbia dichiarato espressamente di accettare la decisione o che comunque tale accettazione sia evincibile dal complessivo comportamento tenuto; in questo senso, ex multis, cfr. Cons. Stato, Sez. II, 20 novembre 2023, n. 9909; Cons. Stato, Sez. II, 2 ottobre 2023, n. 8614; Cons. Stato, Sez. V, 1 dicembre 2022, n. 10565. L'infondatezza dell'eccezione di inammissibilità dell'appello consente di prescindere dall'esame dell'ulteriore eccezione, sollevata dal Comune, concernente la tardività del deposito della delibera n. 68 del 27 dicembre 2023, fermo restando comunque che il contenuto della delibera non è stato contestato dal Comune. 11. Passando all'esame dei motivi di gravame, il Collegio rileva che la prima censura, concernente l'inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio per decorso del termine annuale previsto dall'art. 117 c.p.a., è infondato poiché occorre avere riguardo non già, come sostenuto dal Comune appellante, al procedimento avviato con l'istanza presentata in data 28 dicembre 2015 prot. n. 19701, bensì al diverso procedimento di cui all'istanza del 29 dicembre 2022, concernente la variante urbanistica che, come già affermato dal T.a.r., di regola non fa sorgere alcun obbligo di provvedere in capo al Comune. Tuttavia, nel caso di specie, sussistono una pluralità di elementi che impongono all'amministrazione, per fondamentali esigenze di tutela dell'affidamento del privato, di riscontrare espressamente la predetta istanza. In primo luogo, assume rilievo la circostanza che, nella prospettiva della signora Sa. si trattasse di un adempimento da considerare non già in sé e per sé, bensì da inserire nel contesto della prosecuzione dell'iter procedimentale per la realizzazione del progetto strategico turistico dalla medesima proposto. In secondo luogo, assume rilievo anche la circostanza che la signora Sa. si sia trovata di fronte a una situazione del tutto peculiare connotata da una disciplina regionale senza dubbio di per sé caratterizzata da profili di una certa complessità e ulteriormente complicata dall'evidente contrapposizione venutasi a creare tra le amministrazioni coinvolte nel procedimento con riferimento ai successivi passaggi necessari per la prosecuzione dell'iter, come chiaramente si desume dai documenti versati in atti e, in particolare, dalla già menzionata nota del 4 novembre 2022 del Sindaco di (omissis) nonché dalla nota dell'Ente Parco dei Colli Euganei del 14 dicembre 2021 che aveva fatto presente la necessità della preventiva adozione della variante urbanistica da parte del Consiglio Comunale. Oltre a ciò, come già osservato dal T.a.r., non può essere ritenuta priva di rilevanza neppure la circostanza che il Comune medesimo aveva assunto un ruolo non secondario nell'ambito dell'iter per l'approvazione dell'accordo di programma, come dimostrato dal fatto che aveva dapprima promosso un incontro con le associazioni di categoria per la valutazione del progetto e aveva poi trasmesso alla Regione, in data 1 giugno 2016, l'istanza di attivazione del progetto stesso, chiedendo la prosecuzione dell'iter. Inoltre, già con la D.G.R. n. 1770 del 2015, la Regione aveva deliberato "di confermare che il progetto per la realizzazione di un'area adibita a servizio dell'anello ciclo - turistico dei Colli Euganei, con completamento della pista ciclabile lungo la SP n. 89 e via (omissis), e l'urbanizzazione e realizzazione di una nuova zona residenziale denominata "Al frutteto" in Comune di (omissis) (PD), riveste le caratteristiche di progetto strategico". Conseguentemente, il primo motivo di appello è infondato, non potendosi condividere la prospettazione di parte appellante né con riferimento all'eccezione di tardività del ricorso introduttivo, né avuto riguardo all'assenza di un obbligo di provvedere in capo al Comune, che, al contrario, è desumibile dalle caratteristiche del tutto peculiari del procedimento e dalla necessità di tutelare l'affidamento del privato a fronte di divergenti indicazioni delle amministrazioni coinvolte. 12. Anche il secondo motivo di appello, con cui il Comune ha sostenuto che il T.a.r. dovesse rilevare l'inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio, avendo l'amministrazione già risposto con la nota del 4 novembre 2022, è infondato. Sul punto è dirimente la circostanza che l'anzidetta nota risulta essere meramente interlocutoria come è agevole desumere dalla precisazione con cui il Sindaco di (omissis) comunica letteralmente quanto segue: "sperando di aver contribuito ad un approfondimento dello stato dell'arte sul Progetto Strategico Turistico". Si tratta, infatti, di un contenuto di carattere non già provvedimentale, bensì solo interlocutorio, che per l'appunto offre un mero contributo di approfondimento con l'essenziale finalità di pervenire alla corretta interpretazione delle disposizioni, in conformità con il dovere di leale collaborazione. 13. Con riferimento, infine, al terzo motivo di gravame per il cui tramite il Comune sostiene che non sussista alcun suo obbligo di adottare la variante urbanistica in considerazione di quanto previsto dall'art. 26, comma 2-ter, della l.r. Veneto n. 11 del 2004, si deve rilevare come tale osservazione sia sostanzialmente inconferente rispetto alla ratio decidendi della sentenza del T.a.r., la quale, per le ragioni già illustrate, ha correttamente affermato la sussistenza dell'obbligo di provvedere in capo al Comune, precisando espressamente che l'amministrazione comunale ben avrebbe potuto respingere l'istanza (eventualmente anche alla luce delle ragioni indicate nell'ambito del terzo motivo di gravame). 14. Dalle considerazioni che precedono discende, dunque, il rigetto dell'appello. 15. Le spese processuali del presente grado sono integralmente compensate in ragione della complessità e della peculiarità della fattispecie. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Neri - Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere Paolo Marotta - Consigliere Eugenio Tagliasacchi - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9178 del 2023, proposto da Ma. Or. ed altri, rappresentati e difesi dall'avvocato Al. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Ba., Si. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Condominio Vi. Bo., rappresentato e difeso dagli avvocati Ri. Mo., An. In., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ro. De Mu. ed altri, rappresentati e difesi dall'avvocato Gi. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Torino, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. 703/2023, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di (omissis), del Condominio Vi. Bo. e di Ro. De Mu. e altri come sopra individuati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024 il Cons. Marco Morgantini e uditi per le parti gli avvocati Ma. Al.; Ma. Si.; Ga. Gi.; In. An.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue; FATTO e DIRITTO 1. Con la sentenza appellata è stato dichiarato inammissibile il ricorso proposto per l'annullamento dell'ordinanza n. 77 in data 1 giugno 2022, assunta dal Segretario del Comune di (omissis), avente ad oggetto la sospensione dei lavori di ricostruzione di un muro di sostegno di area retrostante comprendente la linea ferroviaria (omissis) - (omissis) nonché un edificio residenziale. La motivazione della sentenza appellata fa riferimento alle seguenti circostanze. I ricorrenti sono proprietari di un compendio immobiliare nel Comune di (omissis), frazione (omissis), costituito da un antico edificio residenziale ("villa del Ve.") e un'area pertinenziale che si estende fino al litorale. Con provvedimento del 27 novembre 2019, il Comandante della Capitaneria di porto di Imperia autorizzava uno dei ricorrenti, ai sensi dell'art. 55 cod. nav. e fatto salvo il necessario titolo edilizio, ad effettuare i lavori di ricostruzione di un muro di protezione dal mare; secondo le risultanze catastali, il manufatto da erigere rientrava nel perimetro della proprietà privata. Previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, gli interessati presentavano al Comune di (omissis), in data 18 febbraio 2020, una s.c.i.a. per la ricostruzione del muro in cemento armato, qualificando l'intervento come manutenzione straordinaria. Con nota del 11 maggio 2022, considerato che i lavori non erano stati ancora realizzati e che lo stato dei luoghi poteva aver subito mutamenti nel periodo trascorso dal rilascio dell'autorizzazione, il Comandante della Capitaneria di porto sospendeva l'efficacia del titolo medesimo, diffidando gli interessati a non realizzare l'intervento. Con successiva nota del 16 maggio 2022, la stessa Autorità comunicava che, alla luce delle risultanze emerse in apposita riunione cui avevano partecipato i rappresentanti del Provveditorato alle opere pubbliche e dell'Agenzia del demanio, la diffida era stata revocata. I lavori sono stati avviati nello stesso mese di maggio del 2022. Tuttavia, essendo emersi elementi di incertezza in ordine alla titolarità dell'area di intervento (che, secondo alcuni esposti pervenuti all'Ente locale, sarebbe appartenuta al demanio marittimo), il Comune di (omissis) disponeva l'immediata sospensione dei lavori con ordinanza del 1 giugno 2022. In pari data, il Comune presentava alla Capitaneria di porto un'istanza urgente per la rideterminazione della dividente demaniale ex art. 32 cod. nav. Il Comandante della Capitaneria di porto riscontrava l'istanza con nota del 14 giugno 2022, significando che la questione inerente alla persistente attualità dell'autorizzazione ex art. 55 cod. nav. rilasciata ai ricorrenti era già stata affrontata e positivamente definita nella menzionata riunione cui il Comune non aveva ritenuto di partecipare. A questo punto, preso atto che i solleciti volti all'esercizio del potere di autotutela erano rimasti privi di riscontro, gli interessati hanno impugnato l'ordine di sospensione dei lavori con ricorso notificato e depositato in data 8 luglio 2022. In via preliminare il Tar ha fatto riferimento all'affermazione di parte ricorrente secondo cui, essendo decorso il termine di 45 giorni stabilito dall'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, l'impugnata ordinanza di sospensione dei lavori sarebbe divenuta inefficace nel corso del giudizio e, in conseguenza, dovrebbe essere dichiarata l'improcedibilità del ricorso. È evidente che, in questa prospettiva, l'invocata declaratoria di improcedibilità risulterebbe sostanzialmente satisfattiva della pretesa azionata in giudizio, poiché implica l'accertamento della sopravvenuta inefficacia del provvedimento che impedisce la ripresa dei lavori avviati dai ricorrenti. Il Tar ha condiviso, a tale riguardo, la stigmatizzazione operata dai primi intervenienti, non essendo plausibile che il ricorso, cui accedeva la domanda di tutela cautelare anche monocratica, fosse stato proposto avverso un provvedimento la cui efficacia, in tesi, sarebbe venuta meno appena otto giorni dopo: l'atto introduttivo del presente giudizio, infatti, è stato notificato e depositato in data 8 luglio 2022, laddove il preteso termine di efficacia del provvedimento impugnato sarebbe scaduto il successivo 16 luglio. In ogni caso, anche volendo ammettere che i pochi giorni residui di "paralisi del cantiere" fossero forieri di gravi pregiudizi per i ricorrenti, la tardiva segnalazione di una circostanza potenzialmente idonea a consentire la sollecita definizione del giudizio già in sede cautelare configura un abuso dello strumento processuale. Il Tar ha poi evidenziato l'infondatezza della tesi inerente alla sopravvenuta inefficacia dell'impugnata ordinanza. Nel caso in esame, infatti, l'Amministrazione ha disposto la sospensione dei lavori "fino al provvedimento di delimitazione ex articolo 32 cod. nav. richiesto, in via di urgenza, con nota prot. n. 23171 del 1 giugno 2022". La scadenza dell'efficacia dell'atto dipendeva, quindi, da un evento futuro e incerto nel quando, ma non nell'an, poiché il Comune di (omissis) non aveva ragioni per dubitare, anche in un'ottica di leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni, che la propria istanza di rideterminazione della dividente demaniale avrebbe dato impulso ad un procedimento destinato a concludersi con un provvedimento espresso. Non risulta, d'altronde, che l'istanza predetta sia stata formalmente rigettata, atteso che la nota del 14 giugno 2022 della Capitaneria di porto si pronunciava in merito alla diversa questione concernente l'invarianza dei presupposti sottesi all'autorizzazione ex art. 55 cod. nav. già rilasciata ai ricorrenti. Alla luce di tali precisazioni, può farsi questione della legittimità di un termine diverso da quello previsto dalla fonte primaria, ma non dubitare della sua esistenza e, dunque, della perdurante efficacia del provvedimento impugnato, con conseguente insussistenza delle condizioni necessarie per dichiarare l'improcedibilità del ricorso. Il Tar ha fatto riferimento all'indagine relativa all'effettivo stato dei luoghi interessati dall'attività edificatoria, in funzione dell'accertamento incidentale della demanialità dell'area di intervento. Trattasi di accertamento sicuramente non eccedente l'ambito della competenza del giudice amministrativo, poiché l'ipotizzato carattere demaniale del bene costituisce presupposto del provvedimento impugnato. Il Tar ha ricordato che ai sensi dell'art. 822, primo comma, cod. civ., il lido del mare e la spiaggia "appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico". I beni che assumono i connotati naturali di "lido del mare" o di "spiaggia" sono acquisiti al demanio marittimo necessario, indipendentemente da un atto costitutivo della pubblica amministrazione. Per univoco orientamento giurisprudenziale, il lido del mare è la porzione di riva a contatto diretto con le acque del mare da cui resta normalmente coperta per le ordinarie mareggiate, mentre la spiaggia comprende i tratti di terra prossimi al mare che siano sottoposti alle mareggiate straordinarie (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 22 ottobre 2019, n. 26877). Rientra nel demanio marittimo necessario anche l'arenile, vale a dire quel tratto di terraferma relitto dal naturale ritirarsi delle acque che resti idoneo ai pubblici usi del mare (Cass. civ., sez. II, 16 ottobre 2020, n. 22567). Il verificatore pur non avendo risposto espressamente al quesito che chiedeva di accertare se il muro da erigere insista, in tutto o in parte, sul lido del mare o sulla spiaggia, ha fornito informazioni che consentono di ravvisare gli elementi costitutivi della demanialità con riguardo al terreno interessato dall'intervento edilizio, rimanendo irrilevante la sua iscrizione in catasto come proprietà privata. Riferisce innanzitutto il verificatore che il muro dovrebbe sorgere sull'appezzamento di terreno identificato a catasto al foglio (omissis), mappali (omissis), "posto fronte mare al di sotto della linea ferroviaria" (pag. 6). Le fotografie interfogliate nella relazione rivelano che il terreno in questione è privo di scogli e coperto da ciottoli fino al terrapieno posto a monte; si nota "la presenza sulla linea di battigia di blocchi di cemento e numerosi tondini di ferro installati lungo una linea che rappresenterebbe il tracciato dove far sorgere il muro" (pag. 8). Tale tratto di litorale "è caratterizzato da fenomeni di mareggiate particolarmente intense e saltuarie" (pag. 15), come dimostrato anche dall'erosione del terrapieno predetto cagionata dal "frangersi del moto ondoso durante le mareggiate" (pag. 28). Infine, per quanto concerne l'esatta ubicazione del muro, il verificatore precisa che esso si collocherebbe a circa 11 metri dalla linea di battigia nella parte più distante e ad un paio di metri in quella più prossima al mare (pag. 28). Tali elementi dimostrano che la porzione di riva sulla quale dovrebbe sorgere il muro, restando coperta nella sua interezza da mareggiate non eccezionali, non consente altro uso che non sia quello marittimo e, in conseguenza, ha qualità intrinseca di "lido del mare" o di "spiaggia", comunque riconducibile alle categorie indicate dall'art. 822, primo comma, cod. civ. Anzi, considerando che le operazioni peritali sono state effettuate in condizioni di mare calmo, vento assente e bassa marea (pag. 28), è verosimile che la parte di muro più vicina al mare sorga direttamente sulla battigia, ossia sulla fascia costiera interessata dal movimento ordinario di flusso e riflusso delle onde, come dimostra chiaramente anche la fotografia inserita alla pag. 8 della relazione peritale. La sicura qualificazione dell'area come bene appartenente al demanio marittimo necessario rende irrilevanti le ulteriori questioni afferenti la sua potenziale attitudine a realizzare i pubblici usi del mare. Discende da tali considerazioni la diagnosi di fondatezza dell'eccezione di inammissibilità del ricorso espressamente sollevata dai primi intervenienti (ma insita anche nelle argomentazioni difensive delle altre parti resistenti). In assenza di concessione, infatti, i ricorrenti non avevano alcun titolo di legittimazione per realizzare l'opera su un bene del demanio marittimo, sicché la s.c.i.a. edilizia, di per sé inidonea ad esplicare effetti sul piano del governo dei diritti demaniali, deve considerarsi tamquam non esset. Ne consegue che, non disponendo del bene della vita, i ricorrenti non possono vantare un interesse astrattamente meritevole di tutela o, più precisamente, un interesse legittimo oppositivo nei confronti del provvedimento adottato dal Comune di (omissis) che, inibendo la prosecuzione dei lavori (a prescindere dalla natura del potere concretamente esercitato), non determina alcun effetto restrittivo della sfera giuridica dei soggetti privi dello ius aedificandi. 2. Si sono costituiti in giudizio per resistere all'appello il Comune di (omissis), Ro. De Mu. ed altri e il Condominio "Vi. Bo.". 3. Parte appellante fa presente che nel corso del giudizio di primo grado i ricorrenti odierni appellanti hanno chiesto che il ricorso venisse dichiarato improcedibile per sopravvenuta inefficacia dell'ordine di sospensione lavori, essendo decorso il termine di 45 giorni stabilito dall'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001. Contesta la tesi del Tar secondo cui, stante la perdurante efficacia del provvedimento impugnato di sospensione lavori, difetterebbero le condizioni necessarie per dichiarare l'improcedibilità del ricorso. Ritiene che: - la dichiarazione di improcedibilità del ricorso avverso l'ordine di sospensione non sia in alcun modo satisfattiva delle ragioni dei ricorrenti in quanto se è vero che ciò avrebbe consentito di riprendere i lavori è altrettanto vero che gli stessi sarebbero rimasti pur sempre esposti alla vigilanza del Comune e alla emissione di atti repressivi di eventuali illeciti; - la proposizione del ricorso in questione non sarebbe abuso del processo, ma invece normale esercizio del diritto di difesa al fine di ottenere l'annullamento nel merito dell'ordinanza di sospensione lavori o quantomeno la dichiarazione di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta inefficacia dell'atto per decorso del termine stabilito dalla legge anche in funzione della proponenda azione risarcitoria dei danni causati dall'arbitraria sospensione lavori. Ritiene che il giudice di prime cure abbia ignorato che la stessa ordinanza ha esplicitamente riconosciuto la propria natura cautelare e ha richiamato le disposizioni del D.P.R. n. 380/2001. Sulla base di ciò non potrebbero sussistere dubbi sull'applicabilità nel caso di specie dell'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 (il cui contenuto è trasfuso anche nella Legge Regionale sull'edilizia n. 16 del 2008 all'art. 40) ed in particolare del termine di efficacia di 45 giorni per la sospensione lavori. Il provvedimento del Comune di (omissis) non sarebbe semplicemente illegittimo per violazione delle norme che stabiliscono il termine di efficacia dell'ordinanza di sospensione, ma diverrebbe addirittura nullo per difetto assoluto di attribuzione. Parte appellante ribadisce pertanto l'improcedibilità del ricorso originario per sopravvenuta inefficacia del provvedimento di sospensione lavori atteso che nel termine perentorio di 45 giorni - ma neppure successivamente - non è stato adottato alcun provvedimento definitivo comunale. 3 - bis. L'appello è infondato e pertanto il collegio può prescindere dall'esame delle eccezioni preliminari. Le censure sono infondate. Infatti, l'Amministrazione ha disposto la sospensione dei lavori "fino al provvedimento di delimitazione ex articolo 32 cod. nav. richiesto, in via di urgenza, con nota prot. n. 23171 del 1 giugno 2022". La scadenza dell'efficacia dell'atto dipendeva, quindi, da un evento futuro e incerto nel quando, ma non nell'an, poiché il Comune di (omissis) non aveva ragioni per dubitare, anche in un'ottica di leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni, che la propria istanza di rideterminazione della dividente demaniale avrebbe dato impulso ad un procedimento destinato a concludersi con un provvedimento espresso. Non risulta, d'altronde, che l'istanza predetta sia stata formalmente rigettata, atteso che la nota del 14 giugno 2022 della Capitaneria di porto si pronunciava in merito alla diversa questione concernente l'invarianza dei presupposti sottesi all'autorizzazione ex art. 55 cod. nav. già rilasciata ai ricorrenti. Alla luce di tali precisazioni, come affermato dal Tar, può farsi questione della legittimità di un termine diverso (ossia fino alla data di adozione del provvedimento di delimitazione) da quello previsto dalla fonte primaria, ma non dubitare della sua esistenza e, dunque, della perdurante efficacia del provvedimento impugnato, con conseguente insussistenza delle condizioni necessarie per dichiarare l'improcedibilità del ricorso o la cessata materia del contendere. 4. Parte appellante lamenta poi l'illegittimità dell'accertamento incidentale sulla proprietà contenuto nella sentenza appellata. Infatti la natura stessa dell'ordinanza di sospensione lavori non presuppone alcun accertamento definitivo sulla titolarità dell'area oggetto di intervento edilizio impedendo che si possa instaurare un rapporto di pregiudizialità tra esame del ricorso giurisdizionale attinente la legittimità del provvedimento e l'accertamento in via incidentale del diritto di proprietà sul terreno in questione. L'impossibilità di un accertamento incidentale sarebbe reso ancor più evidente dal fatto che parte ricorrente all'udienza del 24 maggio 2023 ha concentrato la subordinata azione di annullamento insistendo solo sulla violazione del termine finale della sospensione lavori legato nel suo termine finale ad un evento incertus an et quando. 4 - bis. Le censure sono infondate. Il Tar ha fatto riferimento all'indagine relativa all'effettivo stato dei luoghi interessati dall'attività edificatoria, in funzione dell'accertamento incidentale della demanialità dell'area di intervento. Trattasi di accertamento sicuramente non eccedente l'ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, poiché l'ipotizzato carattere demaniale del bene costituisce presupposto del provvedimento impugnato e non questione principale. Infatti sul punto l'ordinanza impugnata in primo grado fa specifico riferimento alla descrizione dei luoghi e alla conseguente possibilità che le opere sono state previste ed eseguite sul demanio marittimo. Nel caso di specie oggetto principale della contestazione è proprio l'ordine di sospensione dei lavori e la connessa sopra richiamata motivazione. L'accertamento della proprietà demaniale costituisce questione incidentale scrutinabile dal giudice amministrativo ai sensi del primo comma dell'art. 8 del cod. del proc. amm. secondo cui il giudice amministrativo nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva conosce, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale (così Cons. di Stato, Sez. VII, 23 settembre 2022, n. 8225). 5. Parte appellante ritiene che la sentenza appellata sia illegittima perché il giudice di prime cure si sarebbe discostato dalle determinazioni in materia di confine demaniale delle Amministrazioni competenti. Fa riferimento alla circostanza che: - la Capitaneria di Porto, dopo aver esaminato la questione con nota del 16 maggio 2022 prot. n. 9424 aveva esplicitamente consentito la prosecuzione dei lavori; - l'Agenzia del Demanio ha avuto modo di chiarire che il muro in corso di realizzazione, una volta completato, avrebbe rappresentato "il confine demaniale aggiornato". Il giudice di prime cure, pur in presenza di queste valutazioni delle competenti Amministrazioni sul profilo della demanialità, se ne sarebbe inopinatamente discostato e avrebbe provveduto in autonomia ad individuare di fatto un nuovo confine tra proprietà privata e demanio marittimo, quando la legge assegna tale compito all'Amministrazione nella figura del Capitaneria di Porto competente o al giudice ordinario. Secondo parte appellante la controversia in esame riguarderebbe un'ordinanza di sospensione lavori che non comporta alcun accertamento sulla regolarità o meno dell'opera edilizia con conseguente impossibilità da parte del giudice di prime cure di esaminare la legittimità ovvero l'esistenza della SCIA edilizia che ha assentito il muro di protezione dagli eventi meteo-marini. 5 - bis. Le censure sono infondate. La sentenza appellata è congruamente motivata sul punto anche con riferimento agli esiti della verificazione espletata nel giudizio di primo grado. Infatti il Tar ha premesso che ai sensi dell'art. 822, primo comma, cod. civ., il lido del mare e la spiaggia "appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico". I beni che assumono i connotati naturali di "lido del mare" o di "spiaggia" sono acquisiti al demanio marittimo necessario, indipendentemente da un atto costitutivo della pubblica amministrazione. Per univoco orientamento giurisprudenziale, il lido del mare è la porzione di riva a contatto diretto con le acque del mare da cui resta normalmente coperta per le ordinarie mareggiate, mentre la spiaggia comprende i tratti di terra prossimi al mare che siano sottoposti alle mareggiate straordinarie (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 22 ottobre 2019, n. 26877). Rientra nel demanio marittimo necessario anche l'arenile, vale a dire quel tratto di terraferma relitto dal naturale ritirarsi delle acque che resti idoneo ai pubblici usi del mare (Cass. civ., sez. II, 16 ottobre 2020, n. 22567). Il verificatore pur non avendo risposto espressamente al quesito che chiedeva di accertare se il muro da erigere insista, in tutto o in parte, sul lido del mare o sulla spiaggia, ha fornito informazioni che consentono di ravvisare gli elementi costitutivi della demanialità con riguardo al terreno interessato dall'intervento edilizio, rimanendo irrilevante la sua iscrizione in catasto come proprietà privata. Riferisce innanzitutto il verificatore che il muro dovrebbe sorgere sull'appezzamento di terreno identificato a catasto al foglio (omissis), mappali (omissis), "posto fronte mare al di sotto della linea ferroviaria" (pag. 6). Le fotografie interfogliate nella relazione rivelano che il terreno in questione è privo di scogli e coperto da ciottoli fino al terrapieno posto a monte; si nota "la presenza sulla linea di battigia di blocchi di cemento e numerosi tondini di ferro installati lungo una linea che rappresenterebbe il tracciato dove far sorgere il muro" (pag. 8). Tale tratto di litorale "è caratterizzato da fenomeni di mareggiate particolarmente intense e saltuarie" (pag. 15), come dimostrato anche dall'erosione del terrapieno predetto cagionata dal "frangersi del moto ondoso durante le mareggiate" (pag. 28). Infine, per quanto concerne l'esatta ubicazione del muro, il verificatore precisa che esso si collocherebbe a circa 11 metri dalla linea di battigia nella parte più distante e ad un paio di metri in quella più prossima al mare (pag. 28). Tali elementi dimostrano che la porzione di riva sulla quale dovrebbe sorgere il muro, restando coperta nella sua interezza da mareggiate non eccezionali, non consente altro uso che non sia quello marittimo e, in conseguenza, ha qualità intrinseca di "lido del mare" o di "spiaggia", comunque riconducibile alle categorie indicate dall'art. 822, primo comma, cod. civ. Anzi, considerando che le operazioni peritali sono state effettuate in condizioni di mare calmo, vento assente e bassa marea (pag. 28), è verosimile che la parte di muro più vicina al mare sorga direttamente sulla battigia, ossia sulla fascia costiera interessata dal movimento ordinario di flusso e riflusso delle onde, come dimostra chiaramente anche la fotografia inserita alla pag. 8 della relazione peritale. La sicura qualificazione dell'area come bene appartenente al demanio marittimo necessario rende irrilevanti le ulteriori questioni afferenti la sua potenziale attitudine a realizzare i pubblici usi del mare. Discende da tali considerazioni la diagnosi di fondatezza dell'eccezione di inammissibilità del ricorso espressamente sollevata dai primi intervenienti (ma insita anche nelle argomentazioni difensive delle altre parti resistenti). In assenza di concessione, infatti, i ricorrenti non avevano alcun titolo di legittimazione per realizzare l'opera su un bene del demanio marittimo, sicché la s.c.i.a. edilizia, di per sé inidonea ad esplicare effetti sul piano del governo dei diritti demaniali, deve considerarsi tamquam non esset. Ne consegue che, non disponendo del bene della vita, i ricorrenti non possono vantare un interesse astrattamente meritevole di tutela o, più precisamente, un interesse legittimo oppositivo nei confronti del provvedimento adottato dal Comune di (omissis) che, inibendo la prosecuzione dei lavori (a prescindere dalla natura del potere concretamente esercitato), non determina alcun effetto restrittivo della sfera giuridica dei soggetti privi dello ius aedificandi. Contrariamente a quanto sostenuto da parte appellante, l'accertato difetto di legittimazione ad eseguire le opere comporta necessariamente la non regolarità delle opere edilizie di cui alla Scia. In conclusione l'appello deve essere respinto. La condanna alle spese dell'appello segue la soccombenza con liquidazione nella misura di: - Euro 2.000 a favore del Comune di (omissis); - Euro 2.000 per i seguenti intervenienti costituitisi in appello con unico atto: Ro. De Mu.ed altri; - Euro 2.000 a favore del Condominio "Vi. Bo.". P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna parte appellante al pagamento delle spese dell'appello nella misura di: Euro 2.000/00 (Duemila/00) a favore del Comune di (omissis); Euro 2.000/00 (Duemila/00) a favore dei seguenti intervenienti costituitisi in appello con unico atto: Ro. De Mu. ed altri; Euro 2.000/00 (Duemila/00) a favore del Condominio "Vi. Bo.". Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere, Estensore Laura Marzano - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2357 del 2024, proposto da: Co. Consorzio Ge. In., in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ce., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di Caserta, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ma., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; nei confronti Sa. - Se. per l'a. S.r.l., in liquidazione, non costituita in giudizio; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione sesta, n. 1272/2024. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Caserta; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 105, comma 2 e 87, comma 3, cod. proc. amm.; Relatore il Cons. Laura Marzano; Uditi, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, l'avvocato Pa. Ce. e l'avvocato Ma. Me. in sostituzione dell'avvocato Pa. Ma.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Co., Consorzio Ge. In. in liquidazione (per brevità "Consorzio"), ha impugnato la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 con cui il Tar Campania, sezione VIII, ha dichiarato il difetto di giurisdizione sul ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto per l'annullamento dell'ordinanza del comune di Caserta n. 54542 del 3 maggio 2023 di sgombero e rilascio del compendio immobiliare denominato "parcheggio interrato di Piazza (omissis)" ubicato in Caserta, al Viale (omissis) e della nota n. 61752 del 19 maggio 2023 a firma del dirigente ing. Lu. Vi.. Il Comune appellato si è costituito nel presente grado di giudizio eccependo l'inammissibilità dell'appello. Alla camera di consiglio del 28 maggio 2024, sentiti i difensori presenti, la causa è stata trattenuta in decisione. Devono essere tratteggiati i fatti di causa. 2. Il Consorzio, costituito nel 1990, a seguito di procedura ad evidenza pubblica si è aggiudicato il servizio di progettazione, costruzione e successiva gestione - in regime di concessione - dell'infrastruttura di parcheggio sotterraneo attualmente ubicata sotto il piazzale del museo Reggia di Caserta. Il comune di Caserta, nella qualità di ente procedente, avendo adottato i provvedimenti volti a regolare i rapporti e le obbligazioni tra le parti, affermava di avere disponibilità dei luoghi e di essere titolare del potere di definirne la destinazione e l'utilizzo. L'amministrazione comunale, infatti, promuoveva e ratificava ogni iniziativa relativa all'utilizzo e alla destinazione ad uso pubblico del bene. In virtù di tanto, la società realizzava l'infrastruttura e ne avviava la gestione, proseguita negli anni fino ad oggi. Nello specifico, la vicenda ha avuto il seguente svolgimento. Con delibere CIPE del 3 agosto 1988 e 29 marzo 1990 venivano stanziati i fondi relativi alla realizzazione dei progetti per due parcheggi sotterranei da ubicare in via (omissis) ed in piazza (omissis) a Caserta. Con successiva delibera del Consiglio comunale n. 106 del 18 ottobre 1990, integrata con delibera di Giunta n. 807 del 21 giugno 1991, l'amministrazione decideva di unificare i due parcheggi e deliberava di affidare la realizzazione del Piano parcheggi e viabilità connessa all'Associazione te. d'I. costituita dalla società It. spa (subentrata all'I. spa, entrambi soggetti interamente pubblici) e dal Consorzio CO.: in esecuzione delle menzionate delibere il comune di Caserta, con atto notarile n. 76636 del 10 ottobre 1991, stipulava apposita convenzione con la suddetta ATI. Con convenzione n. 197/90, stipulata il 13 marzo 1992 tra il comune di Caserta e l'Agenzia per la promozione dello sviluppo del mezzogiorno, veniva finanziato il progetto per la realizzazione del parcheggio sotterraneo sito in Caserta, alla piazza (omissis). In particolare, in tale atto il comune di Caserta assicurava, sotto la propria responsabilità, che "per l'esecuzione dell'opera come risultante dal progetto esecutivo non sussistevano impedimenti di sorta per l'espletamento di tutti gli adempimenti di legge e regolamentari per consensi, autorizzazioni, permessi, pareri di qualunque Autorità, di Enti o di terzi comunque in causa per le opere di che trattasi". Nella stessa convenzione era previsto, all'art. 2, che "il Concessionario provvederà in primo luogo alla realizzazione ed alla successiva gestione del parcheggio ubicato in Piazza (omissis), quale risulta dall'unificazione dei precedenti progetti di due distinti parcheggi in Piazza (omissis) e Via (omissis) ai sensi della predetta delibera consiliare del 18 ottobre 1990, n. 106". Ancora prima del completamento delle opere il comune aveva richiesto al Consorzio di avviare le attività di gestione del parcheggio ed aveva riconosciuto in favore di quest'ultimo il diritto al rimborso di alcuni oneri conseguenti alla gestione in perdita dello stesso. Nell'attesa della sottoscrizione degli atti aggiuntivi alla convenzione di concessione, su espressa richiesta del comune, nel 2001, veniva avviata la gestione provvisoria del parcheggio. L'amministrazione comunale, tuttavia, non provvedeva a stipulare gli atti aggiuntivi previsti dall'atto di concessione, né si adoperava per costituire il diritto di superficie previsto in convenzione, talché il Consorzio - viste le difficoltà finanziarie causate dai ritardati pagamenti da parte del comune - era costretto a sospendere la gestione del parcheggio. Il comune di Caserta richiedeva però immediatamente la riattivazione del servizio, ritenendo "assolutamente necessario che tutte le attività connesse alla gestione del parcheggio non vengano interrotte". In particolare, con nota del 28 aprile 2008, il comune rappresentava al consorzio appellante che "data la complessità del rapporto e le notevoli implicazioni che la gestione del parcheggio comporta nel sistema della mobilità cittadina appare non opportuno prevedere la sua chiusura". A seguito di numerosi solleciti volti a compulsare la costituzione del diritto di superficie, con Protocollo di intesa del 21 luglio 2009, il comune di Caserta e il Demanio si impegnavano ad effettuare una permuta di edifici ed aree delle loro rispettive proprietà : tra i beni oggetto dell'accordo figuravano anche cui l'area denominata "campetti antistanti la Reggia" e il "sottostante parcheggio interrato a due piani", che venivano inclusi tra i beni demaniali da trasferire all'ente locale. Solo in quel momento emergeva, dunque, che il comune di Caserta, fin dagli anni '90, aveva compiuto atti di disposizione di un suolo di proprietà del demanio statale e che, in assenza di un trasferimento da parte dello Stato, il comune mai avrebbe potuto legittimamente costituire il diritto di superficie in favore del concessionario, né adottare una serie di provvedimenti relativi alla definizione dei rapporti con il concessionario. In data 5 giugno 2012, il comune di Caserta trasmetteva al concessionario una nota con cui l'Agenzia del demanio aveva richiesto al comune "la riconsegna del menzionato complesso demaniale libero di persone e cose". Con successivo provvedimento prot. n. 61463 del 31 luglio 2012, il comune di Caserta disponeva "di annullare l'atto di concessione della gestione del parcheggio; di dichiarare che tale atto è comunque nullo per le ragioni sopra indicate; di dichiarare risolta e comunque priva di validità e di effetti, per le ragioni di cui in premessa, la convenzione del 1991; in ogni caso, per le ragioni indicate nel paragrafo sugli inadempimenti e sulle violazioni del Consorzio Co., di dichiarare la decadenza della concessione di gestione e della convenzione accessiva; di ordinare al Consorzio Co. di liberare il parcheggio sotterraneo di piazza (omissis) e di restituirlo al Comune di Caserta entro 60 giorni dalla notifica e comunicazione del presente provvedimento; di riservarsi ogni determinazione in ordine ai rapporti patrimoniali con il Consorzio Co. all'esito di una più approfondita verifica anche in ordine allo stato del parcheggio al momento della sua restituzione". In sintesi, l'Agenzia del demanio, in qualità di proprietaria dei suoli, chiedeva la riconsegna dell'immobile; viceversa, il comune ne chiedeva la restituzione in proprio favore. Di fatto, nella vigenza del rapporto concessorio con il comune di Caserta e stante la confusione circa la proprietà del bene alla luce del Protocollo di intesa del 2009, il concessionario non avrebbe potuto retrocedere l'infrastruttura ad un ente terzo, pena la violazione degli obblighi contrattualmente assunti con la convenzione stipulata nel 1991. La situazione restava invariata sino al 2017, allorquando - nella pendenza di alcuni giudizi - l'Agenzia del demanio dava parere favorevole al trasferimento della proprietà in favore del comune di Caserta, che dava atto dell'acquisizione del bene al proprio patrimonio con delibera consiliare del 12 luglio 2017, n. 71. Poco dopo, con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, il comune di Caserta approvava il "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", inserendo tra gli immobili suscettibili di alienazione l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa. La pendenza del contezioso in ordine alla legittimità dell'annullamento in autotutela dell'atto di concessione - conclusosi solo nell'anno 2021 - e l'incertezza sulla validità o meno degli impegni contrattuali assunti, hanno impedito al concessionario (ma anche al comune) di assumere determinazioni in ordine al rilascio dell'infrastruttura, perdurando la vigenza degli impegni contrattuali - la cui nullità è stata accertata in via definitiva solo nel 2021 - che imponevano la prosecuzione nella gestione per ragioni di interesse pubblico. Il comune, peraltro, dall'avvenuta adozione del menzionato provvedimento di annullamento in autotutela del 2012 fino alla notifica dell'ordinanza di sgombero oggetto del presente giudizio - dunque per oltre 10 anni - ha consentito la prosecuzione della gestione dell'infrastruttura, pur avendo annullato l'atto concessorio. Il provvedimento di annullamento in autotutela veniva impugnato innanzi al Tar Campania il quale accertava che l'amministrazione comunale di Caserta non aveva titolo per disporre delle aree in questione e che pertanto tali beni erano insuscettibili di formare oggetto di atti di disposizione materiale e giuridica da parte del comune stesso: pertanto con sentenza n. 2661 del 14 maggio 2014, il Tar respingeva il ricorso e affermava, tra l'altro che "le obbligazioni assunte dal Comune concedente in ordine alla costituzione di un diritto di superficie, indispensabile per la costruzione e la successiva gestione del parcheggio, hanno geneticamente un oggetto giuridicamente impossibile, attesa la natura demaniale dell'immobile, non rientrante nella disponibilità dell'ente comunale. Pertanto, la relativa convenzione risulta affetta da nullità per impossibilità dell'oggetto, in base agli artt. 1418 e 1346 c.c." e osservava che "il comportamento delle amministrazioni dello Stato nel corso degli anni, pur manifestando la conoscenza dell'iniziativa fin dalla sua origine, palesa una tollerante inerzia per le iniziative del Comune e, tutt'al più, la disponibilità ad esplorare possibili soluzioni, senza tuttavia mai pervenire all'adozione di atti definitivi dai quali sia possibile evincere una manifestazione espressa di volontà equipollente ad una cessione o concessione dell'area in questione". In sintesi, il Tar Campania affermava la legittimità del provvedimento di annullamento in autotutela stante la indisponibilità del bene oggetto di convenzione e accertava che tale circostanza era ben nota a tutte le amministrazioni resistenti fin dal momento della stipula della convenzione con il concessionario. La sentenza veniva sostanzialmente confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 5231 del 24 luglio 2019, ancorché con motivazione parzialmente diversa da quella del primo giudice. Ulteriore conferma della statuizione avveniva a seguito di ricorso per cassazione, concluso con ordinanza di rigetto n. 36595/2021. In definitiva, all'esito dell'intero contenzioso, veniva accertato che il comune non aveva disponibilità delle aree oggetto di affidamento in concessione e che pertanto la progettazione, costruzione e gestione del parcheggio era avvenuta, ab origine, sine titulo. A seguito della cessazione del rapporto concessorio e fino all'adozione dell'ordinanza impugnata nel primo grado di giudizio, il comune di Caserta non ha assunto determinazioni chiare in ordine alla natura e all'uso cui intende destinare il bene. Il parcheggio, infatti, è stato inserito tra gli immobili suscettibili di alienazione e facenti parte del patrimonio disponibile non strumentale all'esercizio di funzioni istituzionali. Il nuovo Piano delle alienazioni e valorizzazioni adottato nel mese di gennaio 2022 e relativo al triennio 2022-2024 ha poi qualificato il bene come suscettibile di valorizzazione. L'infrastruttura, in seguito, è stata sottoposta a procedura esecutiva da parte della società Sa. in liquidazione, che vantava crediti nei confronti del comune per un ammontare complessivo di circa 43 milioni di euro ed aveva pertanto individuato nell'area in questione il bene da sottoporre ad esecuzione forzata. Il relativo pignoramento immobiliare veniva regolarmente trascritto nel mese di gennaio 2023, per poi cessare i propri effetti in conseguenza dell'adempimento parziale da parte Comune. Tali essendo gli antefatti, con ordinanza dirigenziale n. 5454 del 3 maggio 2023 il comune di Caserta premesso che "è interesse dell'ente comunale rientrare nel possesso e nella disponibilità del parcheggio interrato nell'area sottostante Piazza (omissis), bene immobile che il Comune intende valorizzare mantenendone in ogni caso l'uso pubblico" ed osservato che "l'articolo 283 comma 2 del codice civile, nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del patrimonio dello stesso, e che essa alla facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso" ed ancora che "l'autotutela patrimoniale delle amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti dei beni appartenenti anche al demanio e al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli articoli 826 comma 3 e 828 (...) la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene", ha ordinato al Consorzio il rilascio dell'area denominata "Parcheggio interrato di piazza Carlo 12 III", ubicato in Caserta, viale (omissis) intimando "di lasciare entro 15 giorni il compendio immobiliare libero da cose e/o persone al fine di consentirne il pieno e libero utilizzo da parte del Comune di Caserta per le proprie finalità pubbliche". Infine avvertiva che, decorso inutilmente il termine di 15 giorni dalla data della notifica del provvedimento, l'amministrazione avrebbe proceduto all'esecuzione forzata con l'ausilio della forza pubblica. Ancora, in data 8 maggio 2023, la società Sa., stante il perdurante inadempimento del comune di Caserta, provvedeva a notificare un nuovo pignoramento per la parte residua del credito: la procedura esecutiva veniva poi rinnovata con notifica del precetto e pignoramento del 29 febbraio 2024. 3. Con il ricorso introduttivo del giudizio incardinato innanzi al Tar Campania l'appellante, nella qualità di gestore di fatto del parcheggio interrato sito in Caserta, alla piazza (omissis) di Borbone, ha impugnato l'ordinanza dirigenziale di sgombero adottata dal comune di Caserta in data 3 maggio 2023, n. 5454, chiedendone l'annullamento. Tra i motivi di ricorso deduceva l'illegittimità del provvedimento in quanto, a suo dire, il potere di polizia demaniale sarebbe stato esercitato su un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile dell'amministrazione: sarebbe mancato pertanto il presupposto per l'esercizio del potere autoritativo. Osservava che la natura disponibile del bene si evincerebbe dagli atti di pianificazione delle risorse, adottati dall'amministrazione comunale, che ha inserito il cespite nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare, sicché sarebbe provato che l'immobile in questione ha natura di bene disponibile e non strumentale all'esercizio delle funzioni. Con ordinanza n. 902 del 25 maggio 2023, il Tar accoglieva la domanda cautelare rilevando che, "ad un primo sommario esame, sembra sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo, non essendo in contestazione il difetto di attribuzione in capo al Comune quanto, piuttosto, il non corretto esercizio, in relazione ai presupposti di fatto, del potere in concreto esercitato"; e che "sembra fondata la censura con la quale parte ricorrente lamenta che, a fronte di un bene appartenente al patrimonio disponibile del Comune (come sembrerebbe evincersi dall'inclusione dello stesso nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile di cui alla delibera di G.C. n. 14 del 28 gennaio 2022 e, prima ancora, alla delibera di C.C. n. 24/2018 - cfr. art. 58, comma 2 del d.l. n. 112/2008), l'attivazione del potere di autotutela esecutiva ex art. 823, comma 2 c.c. non era consentita". Il comune di Caserta, nel costituirsi in giudizio in primo grado, ha depositato l'atto, adottato il 19 maggio 2023 dal dirigente dell'ente locale ing. Vi., in cui si afferma che "da verifiche effettuate è emerso che l'impianto denominato Piazza (omissis) è inserito nell'inventario come beni immobili di uso pubblico per natura o destinazione e pertanto lo stesso non ricade nei beni immobili patrimoniali disponibili". L'atto richiama, sul punto, la delibera di Giunta comunale n. 183/2019, successivamente impugnata con ricorso per motivi aggiunti. Con la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 il Tar ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, individuando quale giudice munito di giurisdizione quello ordinario: la motivazione si fonda sul richiamo dell'ordinanza regolatoria delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 255 del 4 gennaio 2024. 4. L'appello è affidato a due motivi. Con il primo motivo si deduce error in iudicando in relazione alla declinatoria di giurisdizione. In sintesi l'appellante fa presente che uno dei motivi di ricorso investiva l'illegittimità del provvedimento impugnato per carenza dei presupposti per l'esercizio del potere: si trattava, infatti, di un provvedimento emanato dall'amministrazione comunale nell'esercizio del potere autoritativo di polizia demaniale su un bene facente parte del patrimonio disponibile e che a fronte di un siffatto provvedimento, il destinatario dell'atto non può che assumere una posizione giuridica di interesse legittimo. Quindi lamenta che, nella sentenza, il Tar avrebbe declinato la giurisdizione richiamando un precedente delle sezioni unite della Corte di Cassazione, che avrebbe deciso una fattispecie del tutto diversa da quella in esame. Nel caso di specie infatti non sarebbe possibile affermare che il provvedimento impugnato sia stato adottato dall'amministrazione nella gestione di un rapporto iure privatorum, né potrebbe esservi ricondotto in via esegetica qualificandolo, a posteriori, come mera "diffida". In definitiva ritiene che il provvedimento impugnato in primo grado si configuri come atto autoritativo illegittimo, in quanto viziato per carenza di potere in concreto, con conseguente radicamento della giurisdizione amministrativa. Con il secondo motivo sono riproposti i motivi formulati in primo grado. 5. L'appello è fondato. La narrazione dei fatti di causa si è resa necessaria per perimetrare l'oggetto del presente giudizio e per chiarire quale sia l'origine del provvedimento impugnato in primo grado. L'ordinanza dell'11 maggio 2023, adottata dal dirigente del comune di Caserta, rappresenta l'atto conclusivo di un rapporto concessorio che, essendo stato dichiarato nullo dal giudice amministrativo, impone al comune di rientrare nella disponibilità del bene concesso. Osserva il Collegio che, nel caso di specie, il comune non ha agito in posizione paritetica con il concessionario bensì esercitando poteri chiaramente autoritativi: la differenza tra la vicenda esaminata dalle sezioni unite e la fattispecie in esame è, peraltro, agevolmente ricavabile proprio dall'ordinanza richiamata dal Tar, di cui si dirà nel prosieguo. Dal provvedimento impugnato in primo grado risulta testualmente che lo stesso è stato adottato ai sensi dell'art. 823, comma 2, del codice civile, il quale nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che "spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che ne fanno parte del demanio pubblico. Essa ha la facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso, regolati dal presente codice". Richiamata e trascritta la suddetta norma il dirigente prosegue ricordando: "che l'autotutela patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti di beni appartenenti anche al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli artt. 826, comma 3, e 828 c.c."; che "nella fattispecie, ricorre la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene sopra citato"; che "l'art. 21ter, comma 1, della legge n. 241/90, prevede che "nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge"". Dunque il dirigente ha inteso spendere il potere di autotutela esecutiva sul presupposto, affermato nel provvedimento, che il bene di cui è ordinato lo sgombero appartenga al patrimonio indisponibile del comune. La ricorrente, invece, già in primo grado sosteneva che il bene in questione apparterrebbe al patrimonio disponibile del comune, ricavando tale qualificazione dal "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", approvato con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, in cui l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa risulta inserita tra gli immobili suscettibili di alienazione (detta circostanza è, peraltro, contestata dal comune nelle sue difese, richiamando la delibera di Giunta comunale n. 183 dell'11 novembre 2019 che riporterebbe una diversa collocazione del bene in questione nell'elenco dei beni comunali appartenenti al patrimonio disponibile ed indisponibile dell'Ente), con la necessaria conseguenza dell'impossibilità per il comune di avvalersi dell'autotutela esecutiva, dovendo viceversa, a suo dire, procedere con gli ordinari rimedi civilistici a tutela della proprietà e del possesso. Dunque l'oggetto del giudizio postula un duplice accertamento: quello riguardante la legittimità del potere esercitato in concreto e quello riguardante la natura del bene di che trattasi: se appartenente al patrimonio disponibile, l'autotutela non poteva essere esercitata, se appartenente al patrimonio indisponibile, come affermato nel provvedimento dal dirigente, l'autotutela era ammissibile. Osserva il Collegio che il principio affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nell'ordinanza n. 255/2024, richiamata dal Tar, è pienamente condiviso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. tra le tante, sez. VII, 16 aprile 2024, n. 3449; id., 30 aprile 2024, n. 2980), tanto che l'incipit del principio affermato dalle sezioni unite, non riportato dal Tar nel virgolettato, è il seguente: "Costituisce principio acquisito, tanto nella giurisprudenza della Suprema Corte, quanto nella giurisprudenza amministrativa, che il potere di autotutela....". É infatti pacifico, come afferma la citata ordinanza, che il potere di autotutela, attribuito all'amministrazione in relazione ai beni demaniali, è esteso, in virtù del combinato disposto degli artt. 823 e 825 c.c., ai beni del patrimonio indisponibile, mentre resta escluso per la tutela dei beni del patrimonio disponibile, rispetto ai quali l'amministrazione potrà avvalersi solo delle ordinarie azioni a tutela della proprietà e del possesso. Pertanto, in presenza di beni del patrimonio disponibile di proprietà del comune, occupati sine titulo, gli atti posti in essere dall'amministrazione comunale non possono ritenersi riconducibili all'esercizio di un potere autoritativo a tutela di un bene pubblico, quale è quello attribuito dall'art. 823 con riferimento ai beni demaniali e ai beni patrimoniali indisponibili, quanto piuttosto all'esercizio di un potere di autotutela del patrimonio immobiliare, posto in essere iure privatorum. L'affermazione consequenziale contenuta nell'ordinanza in rassegna, secondo cui "Si tratta, in altre parole, di atti di diffida di natura paritetica volti alla tutela della proprietà comunale, a fronte dei quali sussistono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario sulle relative controversie", sulla quale il Tar ha fatto acriticamente leva per declinare la giurisdizione, è tuttavia correlata alla fattispecie concreta ivi dedotta in giudizio che, come risulta dalla parte in fatto della stessa ordinanza, riguardava una "azione di manutenzione nel possesso di un fabbricato e di terreni", in relazione ai quali il comune proprietario aveva ordinato "di rimuovere dalle dette particelle... qualsiasi oggetto e bene di proprietà entro 10 giorni dal ricevimento; con avvertenza che decaduto tale termine il Comune di... provvederà a rimuovere la recinzione della particella sopra citata nonché il manufatto esistente" aggiungendo che, in riferimento a tale missiva, il ricorrente aveva dedotto "che l'ordine con essa rivolto non trovava giustificazione nell'esercizio di un potere autoritativo dell'ente, costituendo, pertanto, una molestia al proprio possesso, nel quale chiese di essere mantenuto". Nel caso di specie, invece, è del tutto evidente che non si tratti di azione possessoria bensì di ordinanza di sgombero di un immobile di proprietà pubblica, adottato nell'esercizio di poteri autoritativi. Ciò posto, premesso che l'autorità amministrativa è titolare, in astratto, dei poteri di autotutela esecutiva, come ricordato anche dalle sezioni unite, ciò che discrimina la legittimità dell'uso di tale potere in concreto, è la natura del bene a tutela del quale esso viene esercitato. Nel declinare la giurisdizione il Tar ha compiuto un salto logico, omettendo di accertare proprio la natura del bene di cui è stato ordinato lo sgombero, al fine di verificare "se" quel potere concretamente esercitato, potesse essere esercitato oppure no. In altri termini il primo giudice, che sembrerebbe essersi orientato nel senso di ritenere l'ordinanza impugnata come riferibile ad un bene del patrimonio disponibile, quindi emessa in carenza di potere in concreto, anziché rispondere alla domanda di giustizia formulata dalla parte ricorrente, che sosteneva appunto tale tesi, erroneamente si è spogliato della giurisdizione. Osserva il Collegio che la risposta che, in questo caso, il giudice amministrativo deve dare è se il comune, nel caso di specie, possa esercitare i poteri autoritativi. Se la risposta dovesse essere positiva perché il bene viene fatto rientrare nel patrimonio indisponibile dell'ente, il ricorso (salvo l'esame delle ulteriori censure non scrutinate) andrebbe respinto in quanto, una volta verificato che l'area continua ad essere abusivamente adibita ad uso privato, legittimamente e doverosamente il comune deve attivare il proprio potere di autotutela esecutiva di cui all'art. 823 del codice civile, esercitabile anche a tutela dei beni del patrimonio indisponibile (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30 settembre 2015, n. 4554). Siffatto provvedimento avrebbe natura doverosa e vincolata e non necessiterebbe né della preventiva comparazione con gli interessi del privato occupante, non potendosi giammai ingenerare un affidamento "legittimo" in presenza di una situazione connotata da evidente abusività, né di specifica motivazione, se non quella necessaria a dare atto dell'accertamento dell'abusiva occupazione e nei confronti del quale non è configurabile il vizio di eccesso di potere, perché l'esercizio del potere di autotutela esecutiva si giustifica unicamente in ragione della perdurante occupazione sine titulo del bene pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 gennaio 2024, n. 862). Né, in tal caso, rileverebbe una eventuale iniziale tolleranza in merito all'occupazione del bene (tolleranza tutt'altro che sussistente nel caso di specie) non radicando un simile contegno dell'amministrazione alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all'occupante sine titulo (cfr., per il principio, Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4775). Se, viceversa, la risposta dovesse essere negativa, l'atto impugnato non potrebbe che essere annullato. Soltanto sulla successiva attività che il comune dovesse porre in essere affidandosi (questa volta correttamente) agli ordinari rimedi civilistici, mediante azioni petitorie o possessorie, si radicherebbe correttamente la giurisdizione del giudice ordinario: si tratta, tuttavia, di attività che, nel caso di specie, non risulta ancora posta in essere e che, esula, quindi dal thema decidendum. A maggior chiarimento di quale sia l'accertamento che il giudice deve compiere, valga richiamare una recente pronuncia (Cons. Stato, sez. V, 9 febbraio 2024, n. 1337), che ha affrontato il tema della corretta qualificazione del potere esercitato dal comune, in una fattispecie in cui era stato ingiunto lo sgombero di un immobile acquisito al patrimonio pubblico. Nella fattispecie ivi esaminata il Tar aveva accolto il ricorso sull'assorbente rilevo dell'illegittimo ricorso all'autotutela esecutiva con riferimento a un bene del patrimonio disponibile, sicché il comune non avrebbe potuto esercitare poteri autoritativi, ma avrebbe dovuto agire innanzi al giudice ordinario, ricorrendo agli strumenti previsti dalla legge per la tutela della proprietà e del possesso. Il Consiglio di Stato ha innanzitutto sciolto il dubbio sulla giurisdizione con le seguenti argomentazioni: - il provvedimento con il quale l'amministrazione comunale ordina lo sgombero di un immobile abusivamente realizzato, acquisito al patrimonio pubblico a seguito di inottemperanza all'ordine di demolizione, "costituisce esercizio di poteri pubblicistici di repressione dell'abusivismo e conseguentemente la giurisdizione appartiene al Giudice amministrativo" (C.g.a., sez. giur., 20 marzo 2020 n. 194); - l'atto di sgombero dell'immobile abusivo che sia stato acquisito al patrimonio comunale per inottemperanza all'ordine di demolizione notificato al privato - che si inserisce nell'ambito dei provvedimenti repressivi dell'abusivismo ordinariamente di competenza dirigenziale - ha dunque natura provvedimentale e autoritativa, essendo riconducibile all'esercizio di poteri pubblicistici dell'ente locale, il che dà luogo alla potestas iudicandi del giudice amministrativo sulle relative controversie; - a tal riguardo le sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 19889 del 22 settembre 2014, hanno chiarito che: "la giurisdizione in relazione al provvedimento di demolizione (e, per quel che concerne la fattispecie in esame, in relazione a quello "propedeutico" di sgombero) adottato dalla P.A. spetta al giudice amministrativo, e ciò a prescindere dalle ragioni addotte in tale provvedimento - che saranno eventualmente sindacate dinanzi a quel giudice - onde ogni eventuale contestazione circa la spettanza del relativo potere in capo alla Amministrazione che ha adottato il provvedimento ovvero circa le modalità con cui esso è stato esercitato (...) configura questione devoluta al giudice amministrativo"; - la giurisprudenza (cfr. C.g.a., sez. giur. 3 aprile 2018, n. 178), muovendo dalla considerazione per cui l'art. 823 c.c. ammette il ricorso dell'amministrazione all'esercizio dei poteri amministrativi al solo fine di tutelare i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile, ha affermato che il potere di autotutela esecutiva presuppone il previo accertamento della natura del compendio immobiliare oggetto di tutela recuperatoria, sicchè "l'Amministrazione può, ove richiesto, adottare solo i rimedi di carattere ordinario. Ipotesi che ricorre nella controversia oggetto dell'appello, non avendo l'immobile di cui si discute i requisiti che ne consentirebbero la qualificazione come bene appartenente al patrimonio indisponibile. Con la conseguenza che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia in ordine all'ordinanza di sgombero di un immobile che si colloca nell'alveo del patrimonio disponibile del comune, essendo stata tale ordinanza emessa in carenza assoluta di potere e, pertanto nulla, con conseguente lesione di diritti soggettivi tutelabili innanzi al giudice ordinario" (C.g.a., 3 aprile 2018, n. 178; anche Cons. Stato, sez. VII, 19 maggio 2023, n. 4987; Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934); - non sembra dubitabile che ogni qualvolta in cui l'atto di sgombero costituisca "nient'altro che il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, ossia della possibilità di essere portati ad esecuzione coattivamente ad opera della stessa amministrazione e senza l'intermediazione dell'autorità giudiziaria" (Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2015 n. 316), esso viene a configurarsi a guisa di vero e proprio provvedimento amministrativo, esecutivo di precedenti misure repressive di opere abusive, attratto, come tale, al sistema tipizzato delle sanzioni in materia edilizia, vertendosi in un'ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti in materia urbanistica ed edilizia ai sensi dell'art. 133, lett. f), c.p.a. (cfr. C.g.a., n. 194 del 2020 cit.). Ciò posto, la sentenza ha confermato la decisione del Tar attraverso i seguenti snodi argomentativi: - sebbene, come detto, l'amministrazione possa legittimamente agire seguendo le regole proprie dell'esercizio dei poteri autoritativi di sgombero nell'ambito del procedimento repressivo-ripristinatorio degli abusi edilizi così come tratteggiato dalla disciplina del d.P.R. n. 380 del 2001 al fine di ottenere il rilascio dell'immobile occupato da soggetti privati (il più delle volte gli ex proprietari), onde eseguire concretamente l'immissione in possesso finalizzata alla successiva demolizione dello stesso oppure, a determinate condizioni, al suo utilizzo per fini pubblici, di tanto, però, non vi è alcuna evidenza nell'ordinanza di sgombero impugnata; - se è vero che l'atto di sgombero è certamente strumento idoneo a perseguire il mancato rilascio dei beni, spesso occupati, anche dopo l'acquisizione, dagli stessi soggetti che hanno perpetrato l'illecito edilizio, deve, tuttavia, rilevarsi come il provvedimento impugnato non contenga alcun riferimento all'esercizio dei poteri repressivi in materia edilizia ai sensi dell'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001, né cenno alcuno all'abusività dei manufatti o a eventuali ordinanze di demolizione che non risultano nel frattempo neanche adottate (né la difesa dell'amministrazione ha dato prova contraria), avendo il comune soltanto disposto che l'ufficio tecnico avesse cura di provvedere alla loro adozione; - l'ordinanza di sgombero si limita, infatti, a enunciare che sui lotti occupati senza titolo dei ricorrenti in cui è suddiviso il terreno "vi sono dei manufatti edili diversi tra loro per tipologia, forma e utilizzo di materiali costruttivi con annessa strada interpoderale delimitata da due cancelli metallici, uno posizionato in corrispondenza della complanare, l'altra a delimitazione della spiaggia" e a richiamare succintamente alcune risalenti ordinanze con le quali, rispettivamente, si vietò di disporre con atto tra vivi dell'immobile, se ne dispose l'acquisizione di diritto al patrimonio del comune e si ordinò, a suo tempo, lo sgombero dell'area già occupata; ma non contiene il benché minimo riferimento alla commissione di abusi edilizi o indicazione sulla loro concreta consistenza; - solo in sede di giudizio, con le deduzioni processuali contenute negli atti di causa, il comune ha sostenuto che l'impugnata ordinanza di sgombero sia riconducibile ad attività esecutiva del procedimento repressivo e sanzionatorio di illeciti edilizi avviato nel 1992 con l'acquisizione del bene al patrimonio disponibile a seguito del contestato frazionamento per finalità edificatorie, viceversa il provvedimento non contiene alcun riferimento che consenta di ricondurlo all'esercizio dei poteri pubblicistici afferenti alle funzioni di controllo e sanzione in materia edilizia, avendo soltanto ordinato il rilascio del bene disponibile di sua proprietà occupato sine titulo, dichiarando espressamente di agire con lo strumento in parola per far fronte alla "occupazione di immobile di proprietà comunale"; - in assenza di elementi che consentano di configurare l'ordinanza in questione come il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, "non resta che ricondurre l'azione intrapresa dal comune, per come concretamente esercitata, ai poteri di autotutela disciplinati dall'art. 823 comma 2 del codice civile"; - "in tal caso, tuttavia, al cospetto di un bene al patrimonio disponibile del comune - quale pacificamente è il terreno oggetto della presente controversia acquisito gratuitamente al patrimonio dell'ente a seguito dell'illegittimo frazionamento per pretese finalità edificatorie contestato ai ricorrenti - il comune non avrebbe potuto esercitare l'autotutela amministrativa per le ragioni correttamente indicate dal primo giudice ma il recupero del bene avrebbe dovuto seguire, invece, le vie contrassegnate dagli strumenti giurisdizionali ordinari, a mezzo delle azioni possessorie o della rei vindicatio civilistica (Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934)"; - "i poteri di tutela esecutoria dell'amministrazione in presenza di occupazioni da terzi sono da ritenersi sine titulo quando la pubblica amministrazione agisca in area appartenente al patrimonio disponibile, dove l'esercizio di tale potere autoritativo non trova fondamento: l'autotutela demaniale si collega, infatti, al regime dominicale del bene pubblico, in coerenza con le funzioni amministrative di disciplina, ordinata gestione e uso del bene medesimo e con l'esigenza di "reagire" rispetto a condotte appropriative o usurpative di carattere privato". Quindi la sentenza ha concluso che sussiste una effettiva e comprovata divergenza, nei sensi sopra indicati, fra l'atto di sgombero e la sua funzione tipica, essendo stato il potere esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dalla norma di cui all'art. 823 c.c., attributiva dello stesso. Come si evince (anche) dalla decisione innanzi riportata, l'accertamento del giudice, ove si controverta di esercizio dei poteri di autotutela esecutiva, va svolto "in concreto", avendo riguardo alla fattispecie dedotta in giudizio e alle caratteristiche degli atti adottati. In conclusione l'appello è fondato e va accolto. Come noto, laddove sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, declinata in primo grado dal Tar, il giudice di secondo grado non può che annullare la sentenza impugnata, senza ulteriore trattazione della causa (cfr. tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2010, n. 7510), poiché, nel caso di erronea declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella sentenza di primo grado, la causa deve essere rimessa al Tar e da questi decisa, ai sensi dell'art. 105 c.p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6492). Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio al giudice di primo grado, secondo le modalità di cui all'art. 105, comma 3, del codice del processo amministrativo, non potendo il Consiglio di Stato pronunciarsi nel merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 847). 5. In ragione della particolarità della questione di giurisdizione esaminata, si può disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo e annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tar della Campania, dinanzi al quale il giudizio dovrà essere riassunto entro il termine di novanta giorni dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la pubblica amministrazione dia esecuzione alla presente decisione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. GALTERIO Donatella - Presidente Dott. SOCCI Angelo Matteo - Relatore Dott. LIBERATI Giovanni Dott. MENGONI Enrico Dott. ZUNICA Fabio ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Na.Da. nato il Omissis avverso la sentenza del 21/11/2022 della CORTE APPELLO di PERUGIA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO MATTEO SOCCI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI CUOMO che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso. L'avvocato RO.MA., sost. proc., per le PARTI CIVILI, chiede la conferma dell'impugnata sentenza. Deposita conclusioni e nota spese dichiarando che le parti civili sono ammesse al patrocinio a spese dello Stato. L'avvocato BI.FR., in difesa di Na.Da., si riporta al ricorso e ne chiede l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza della Corte di appello di Perugia del 21 novembre 2022, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Perugia del 1 luglio 2021, si è dichiarato di non doversi procedere nei confronti di Na.Da. in ordine al reato di cui al capo 1 dell'imputazione (art. 609 bis cod. pen.; commesso il 15 gennaio 2009) per prescrizione ed è stata rideterminata la pena per il residuo reato (art. 609 bis, ultimo comma, cod. pen. commesso nei confronti di Er.Ma.; commesso il 23 aprile 2012) in anni 1 e mesi 8 di reclusione 2. L'imputato ha proposto ricorso in cassazione, per i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen. 2. 1. Mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in relazione alle valutazioni di attendibilità delle dichiarazioni della parte offesa e ai ritenuti riscontri alle stesse (in ordine alla divisa di colore verde che avrebbe indossato il ricorrente per apparire un medico). Per la donna il ricorrente aveva indossato una divisa di colore verde (con una scritta "Servizio lavanderia"), per farsi scambiare per un medico. Il ricorrente invece esercitava nell'ospedale la professione di infermiere. In querela la donna non aveva riferito del particolare della divisa verde, solo in dibattimento, all'udienza dell'8 ottobre 2019 (dopo circa otto anni dai fatti) riferiva del camice verde. Il contrasto tra quanto dichiarato in querela e quanto riferito in dibattimento è rilevante in termini di valutazione della credibilità delle dichiarazioni della parte offesa. La Corte di appello non motiva sulla concreta possibilità per il ricorrente di procurarsi un camice verde; solo il personale medico ha accesso alle divise di colore verde. Il ricorrente è conosciuto nel reparto di urologia quale infermiere (lavorando ivi dal 2009) e con una divisa verde sarebbe stato notato e sottoposto a sanzioni disciplinari. Il Tribunale aveva indicato le dichiarazioni di Be.Ni. (caposala) e di Ci.Fr. (impiegato) per individuare il tipo di divisa indossato dagli operatori sanitari. Comunque, nessuno dei due testi aveva riferito della possibilità di accedere alle divise verdi da parte dell'imputato. Inoltre, la stessa parte offesa ha indicato sempre il ricorrente quale infermiere e non lo ha mai confuso con il personale medico. 2. 2. Difetto di motivazione sulla ritenuta attendibilità della parte offesa. Per le due sentenze la parte offesa avrebbe sempre raccontato i fatti in maniera dettagliata e costante. Per la sentenza di appello la donna sarebbe credibile anche per il comportamento tenuto immediatamente dopo i fatti di cui all'imputazione (sarebbe andata da una paziente in un'altra camera a piangere per l'accaduto e poi nell'aver riferito tutto alla caposala). Tutti i testi di riferimento, comunque, non sono stati mai escussi nel dibattimento. La sentenza, poi, non affronta nella motivazione le dichiarazioni rese dall'imputato alla caposala sullo svolgimento dei fatti, secondo la sua versione, nonostante la difesa dell'imputato avesse specificamente fatto riferimento alle dichiarazioni rese dall'imputato alla caposala. Inoltre, il ricorrente ha sempre svolto il suo lavoro con estrema professionalità come dichiarato da Be.Ni., caposala. La parte offesa in contraddizione con quanto denunciato con la querela in dibattimento negava l'effettuazione di paleggiamenti in due momenti distinti, come pure l'abbassamento dei pantaloni per toccamenti alle parti intime. Il racconto della donna risulta, quindi, estremamente incerto e contraddittorio tale da inficiare la sua attendibilità. Anche sulla reazione alle invasioni alla sua sfera sessuale la donna si contraddiceva tra quanto dichiarato in querela (non diceva nulla per paura) e quanto riferito, poi, in dibattimento (pensava di potersi fidare del ricorrente). Sulle origini etniche del ricorrente la donna si contraddiceva in quanto indicava il ricorrente come un filippino (le avevano riferito fosse filippino), mentre l'imputato è originario del Guatemala come tutti sapevano nel reparto. Conseguentemente, nessuno avrebbe potuto indicare alla donna l'imputato come un filippino. 2. 2. La parte offesa richiedeva un danno di euro 200.000,00 e il giudice di primo grado le riconosceva solo euro 2.000,00 di danni morali. La donna affermava di aver subito danni rilevanti in quanto dai fatti non avrebbe avuto più rapporti con il suo fidanzato; invece, emergeva dai social che la donna aveva avuto altre relazioni ed anche una gravidanza. Inoltre, aveva anche conseguito un diploma presso l'Istituto d'arte. 2. 3. Difetto di motivazione sulla valenza negativa attribuita dal Tribunale al mancato esame dell'imputato. Il Tribunale valorizzava negativamente l'omesso esame dell'imputato, che rendeva solo spontanee dichiarazioni. Il silenzio è un diritto dell'imputato e non può essere considerato negativamente per l'affermazione della sua responsabilità. Sul punto la decisione impugnata non motiva. 2. 4. Difetto di motivazione sulla valenza probatoria reciproca, ritenuta dal giudice di primo grado, in relazione al racconto delle due parti offese (capo 1 e capo 2 dell'imputazione). La sentenza di primo grado conferiva valore di conferma alle dichiarazioni delle parti offese la loro valutazione reciproca. Anche quest'aspetto era motivo di appello, ma la Corte di appello non motiva. Ha chiesto pertanto l'annullamento della sentenza impugnata. 2. 5. La Procura generale ha depositato richiesta scritta di inammissibilità del ricorso. 2. 6. L'imputato ha depositato memoria nella quale riprende i motivi del ricorso e ne chiede l'accoglimento. CONSIDERATO IN DIRITTO 3. Il ricorso è manifestamente infondato, in quanto i motivi sono generici e ripetitivi dell'appello, senza critiche specifiche di legittimità alle motivazioni della sentenza impugnata. Inoltre, il ricorso, articolato in fatto, valutato nel suo complesso, richiede alla Corte di Cassazione una rivalutazione, non consentita in sede di legittimità. La decisione della Corte di appello (e la sentenza dì primo grado, in doppia conforme) contiene ampia e adeguata motivazione, senza contraddizioni e senza manifeste illogicità, sulla responsabilità del ricorrente, e sulla piena attendibilità della donna, parte offesa. In tema di giudizio di Cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 - dep. 27/11/2015, Musso, Rv. 265482). In tema di motivi di ricorso per Cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento. (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 - dep. 31/03/2015, O., Rv. 262965). In tema di impugnazioni, il vizio di motivazione non può essere utilmente dedotto in Cassazione solo perché il giudice abbia trascurato o disatteso degli elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero dovuto o potuto dar luogo ad una diversa decisione, poiché ciò si tradurrebbe in una rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità. (Sez. 1, n. 3385 del 09/03/1995 - dep. 28/03/1995, Pischedda ed altri, Rv. 200705). 4. La Corte di appello (e il Giudice di primo grado), come visto, ha con esauriente motivazione, immune da vizi di manifesta illogicità o contraddizioni, dato conto del suo ragionamento che ha portato alla valutazione di attendibilità della parte offesa. Infatti, in tema di reati sessuali, poiché la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l'attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene il modo di essere della persona escussa, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria. (Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006 - dep. 18/12/2006, Agnelli e altro, Rv. 235578). Le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l'individuazione dell'iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata; mentre non ha rilievo, al riguardo, il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame qualora si tratti di deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria l'esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese ed essendo, invece, sufficiente una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa. (Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014 - dep. 14/01/2015, Pirajno e altro, Rv. 261730); le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012 - dep. 24/10/2012, Bell'Arte ed altri, Rv. 253214). 4. 1. Nel caso in giudizio le analisi delle due decisioni (conformi) sono precise, puntuali e rigorose nell'affrontare l'attendibilità della donna, rilevando come i fatti sono emersi dalle sue dichiarazioni lineari e dal suo comportamento immediatamente successivo ai fatti, ovvero era "andata in un'altra camera da una ragazza che ho conosciuto lì e sono scoppiata a piangere con la mamma, le ho raccontato più o meno i fatti e poi, niente, è venuto mio padre, ho spiegato un po' la situazione, ho spiegato la situazione alla capo reparto, nessuno mi voleva credere e alla fine ho fatto denuncia". Su questi aspetti il ricorso, articolato in fatto e in maniera del tutto generica, reitera le motivazioni dell'atto di appello senza confrontarsi con la sentenza impugnata. Sostanzialmente non contiene motivi di legittimità nei confronti delle motivazioni della sentenza impugnata. Ripropone acriticamente dubbi soggettivi, adeguatamente risolti dalle decisioni di merito. 4. 2. Dalla querela (nel ricorso si insiste sulla valutazione del contenuto della querela per l'inattendibilità della donna), del resto, non possono trarsi elementi per la valutazione di attendibilità della querelante e, al contrario, nemmeno elementi di inattendibilità, in mancanza di acquisizione al fascicolo per il dibattimento e di lettura ("In tema di letture consentite, ex artt. 431 e 511 cod. proc. pen., la querela può essere inserita nel fascicolo per il dibattimento ed è utilizzabile ai soli fini della procedibilità dell'azione penale, con la conseguenza che da essa il giudice non può trarre elementi di convincimento circa la valutazione di attendibilità della persona offesa, tranne che per circostanze o fatti imprevedibili, risulti impossibile la testimonianza dell'autore della denuncia-querela, perchè in tal caso la lettura è consentita ai sensi dell'art. 512 cod. proc. pen., anche per utilizzarne il contenuto ai fini della prova. (Nella specie, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva tratto dalla querela valutazioni inerenti alla attendibilità e credibilità della persona offesa, confrontandone il contenuto con le dichiarazioni rese dallo stesso querelante in udienza)" Sez. 5, Sentenza n. 21665 del 16/02/2018 Ud. (dep. 16/05/2018) Rv. 273167 - 01). Comunque, la questione della divisa verde (in uso ai medici e indossata dal ricorrente), che non sarebbe stata indicata dalla donna nella querela, è un'argomentazione in fatto; inoltre, non sono stati indicati elementi certi che possano dimostrare l'impossibilità per l'imputato di procurarsi una divisa verde, momentaneamente. 4. 3. Anche sulle dichiarazioni relative al danno patito (che per il ricorrente sarebbero contraddittorie e non provate) non può ritenersi una complessiva inattendibilità delle dichiarazioni della donna sul contenuto essenziale delle stesse, riferibili alla violenza sessuale. Si tratta di elementi diversi: uno riferito al danno, l'altro alla commissione del reato. 5. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità ", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 3.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio a spese dello Stato nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Perugia con separato decreto di pagamento ai sensi degli art. 82 e 83 d.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 13 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA Presidente ENRICO MANZON Consigliere GIOVANNI LA ROCCA Consigliere-Rel. LUNELLA CARADONNA Consigliere MARIA GIULIA PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Consigliere Oggetto: TRIBUTI ACCERTAMENTO Ud.06/12/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 19424/2015 R.G. proposto da: FORNO ETTORE, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati TAMBASCO FRANCESCA (TMBFNC84C41C351V), DI PAOLA NUNZIO SANTI GIUSEPPE (DPLNZS67B25C351B); -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (ADS80224030587) che la rappresenta e difende; -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. CALTANISSETTA n. 350/2015 depositata il 29/01/2015. Udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni La Rocca nella pubblica udienza del 6 dicembre 2023; Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alberto Cardino, che ha concluso per l’accoglimento del quinto e del settimo motivo, non essendo comparso nessuno per le altre parti. FATTI DI CAUSA 1. A seguito di PVC di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza di Enna, l’Agenzia delle Entrate notificava al sig. Ettore Forno, in qualità di titolare dell’omonima ditta individuale, in data 01.08.2012, l’avviso di accertamento n.TYU01T200460/2012, con il quale veniva recuperato imponibile per l’anno d’imposta 2010, con conseguenti maggiori imposte IRPEF, IRAP e IVA, oltre interessi e sanzioni correlate. 2. L’Ufficio accertava l’omessa contabilizzazione di incassi, una plusvalenza derivante da cessione d’azienda e ricavi non dichiarati desunti da accertamenti bancari. 3. Il contribuente impugnava, quindi, l’avviso di accertamento e la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Enna emetteva la sentenza n. 432/01/13, depositata il 20.12.2013, con la quale rigettava il ricorso e condannava il ricorrente alle spese di giudizio. 4. Il contribuente proponeva appello e la Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Sicilia, con la sentenza in epigrafe, rigettava il gravame, confermando la decisione di primo grado. 5. La CTR osservava che con l’atto impugnato, correttamente motivato per relationem con riferimento al PVC, regolarmente notificato al Forno, l’Ufficio aveva «adeguatamente motivato, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste a base dell’accertamento»; nel merito confermava tutti i rilievi, osservando, in particolare, quanto agli accertamenti bancari che questi pongono una presunzione legale in base alla quale sia i versamenti sia i prelevamenti costituiscono ricavi, mentre è onere del contribuente fornire la prova contraria e, in questo caso, «i prelevamenti contestati dall’Ufficio sono quelli per i quali non è stata fornita alcuna giustificazione e quelli per i quali il contribuente, pur fornendo qualche forma di giustificazione non è stato in grado di produrre idonea documentazione probatoria a supporto, così come precisato a pag. 104 del processo verbale di giustificazione». 6. Il contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza fondato su quindici motivi. 7. Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo il ricorrente deducel’«inesistenza giuridica dell’avviso impugnato per carenza del potere dirigenziale del Direttore firmatario» alla luce della sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale, in quanto «pare» che la nomina del Direttore provinciale che aveva sottoscritto l’atto impugnato «rientrerebbe» tra quelle interessate dalla predetta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 8 comma 24 del d.l. n. 16/2012. 1.1. L'eccezione di inammissibilità sollevata dall’Agenzia, la quale rileva che la questione non era stata proposta con il ricorso iniziale in primo grado, può essere superata trattandosi di ius superveniens per effetto della pronuncia della Corte costituzionale invocata. Il motivo è inammissibile, piuttosto, perché si esprime in maniera ipotetica e dubitativa sul fatto che la nomina del sottoscrittore rientrasse tra quelle interessate dalla pronunzia di incostituzionalità. 1.2. Il motivo, in ogni caso, è infondato alla luce dell’orientamento di questa Corte secondo cui «In tema di accertamento tributario, ai sensi dell'art. 42, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d'ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell'ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva e, cioè, da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, convertito nella l. n. 44 del 2012» (Cass. n. 22810 del 2015; conf. Cass. n. 5177 del 2020). 2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art.7 dello Statuto del contribuente e dell’art.42 d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., nella parte in cui non è stato annullato l’avviso per mancata indicazione della metodologia di accertamento, essendo insufficiente il riferimento all’art. 39 comma 1 d.P.R. n. 600/1973 che contempla diverse metodologie – l’accertamento analitico e l’accertamento analitico – induttivo - , con conseguente violazione del diritto di difesa del contribuente. 2.1. La censura è infondata, posto che è irrilevante la formale qualificazione della metodologia a fondamento dell’atto da parte dell’Amministrazione finanziaria, essendo essenziale invece che siano chiari i suoi presupposti di fatto e di diritto. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, non è necessaria l'indicazione delle «norme di riferimento», bastando che l'avviso indichi i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che permettano al contribuente di esercitare il proprio diritto difensivo (Cass. n. 9499 del 2017; Cass. n. 28968 del 2008; Cass. n. 3257 del 2002); d’altro canto, all’Amministrazione finanziaria è consentito impiegare sia il metodo di accertamento induttivo che quello analitico- induttivo contemporaneamente, ove consti una complessiva inattendibilità delle scritture contabili la quale, peraltro, non esclude che l’accertamento possa essere fondato anche su elementi contabili (Cass. n.7626 del 2008; Cass. n. 27068 del 2006). 3. Con il terzo motivo il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art.7 Statuto del contribuente e dell’art.42 d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., nella parte in cui la CTR non ha annullato, per omessa motivazione, l’avviso impugnato che aveva malamente sintetizzato il PVC che non conteneva specifici accertamenti di irregolarità contabili. 3.1. Il motivo è, per un verso, inammissibile e, per altro verso, infondato. 3.2. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità e autosufficienza, denunciando genericamente carenze del PVC e acritico recepimento di questo da parte dell’Agenzia ma senza riportare puntualmente il contenuto dell’atto né offrire comunque elementi specifici in grado di circostanziare queste doglianze. 3.4. In ogni caso il motivo è infondato. Come osservato dalla stessa CTR, la motivazione per relationem con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell'esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell'Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l'Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (Cass. n. 32957 del 2018; Cass. n. 30560 del 2017; Cass. n. 21119 del 2011; Cass. n. 8183 del 2011); inoltre, non sussisteva alcun obbligo di allegazione del processo verbale di constatazione all’avviso di accertamento, trattandosi di atto già a conoscenza del contribuente (tra le tante, Cass. n. 28060 del 2017; Cass. n. 16976 del 2012). 4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.2697 c.c. sul mancato assolvimento dell’onere della prova da parte dell’Agenzia dalle entrate, laddove la CTR ha ritenuto provata l’omessa contabilizzazione di incassi «atteso che il contribuente non è riuscito a provare l’omesso pagamento della somma in questione», invertendo di fatto l’onere della prova e addossando sul contribuente un fatto negativo, quando deve essere l’Amministrazione a dimostrare che il pagamento vi era stato. 4.1. Il motivo è inammissibile, perché non coglie la ratio decidendi, ed è comunque infondato. 4.2. La decisione non si fonda sulla mancata prova di un fatto negativo ma poggia sull’assenza degli adempimenti che fiscalmente fanno ritenere che non vi è materiale imponibile tassabile. Infatti, l’emissione di fattura per operazioni imponibili fa sorgere l’obbligazione tributaria di versamento della relativa IVA, ex art. 6, comma 5, d.P.R. 26.10.1972, n. 633 e l’eventuale mancato pagamento della fattura emessa, per portare all’annullamento dell’obbligazione tributaria di versamento dell’IVA, deve essere contabilizzato mediante nota di credito, ex art. 26, d.P.R. n. 633/1972, la cui emissione non è stata dedotta né tantomeno provata. Ai fini delle imposte dirette, invece, il venir meno dell’imponibile fatturato deve essere registrato come sopravvenienza passiva, ex art. 101 (ex art. 66), d.P.R. 22.12.1986, n. 917 (Cass. n. 7313 del 2003) ma non è stato indicato neppure questo adempimento. 5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.86 comma 2 TUIR e dell’art.2 d.P.R. n.460/1996 nella parte in cui non si è annullato il rilievo sulla plusvalenza da cessione di azienda nonché deduce, in relazione all’art.360 comma 1 n. 5 c.p.c., omesso esame circa un fatto decisivo con riferimento alla plusvalenza per cessione di azienda, erroneamente calcolata sulla base di quanto definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro, anziché sulla base del corrispettivo conseguito. 5.1. Il motivo è fondato con riguardo alla violazione di legge, mentre è inammissibile la censura sotto il paradigma del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non trattandosi di un fatto storico e ricorrendo una c.d. “doppia conforme” (v. § 9.2. e § 9.3.). 5.2. Va rammentato che la norma di interpretazione autentica di cui all'art. 5, comma 3, d.lgs. 14.9.2015, n. 147, avente efficacia retroattiva, esclude che l'Amministrazione finanziaria possa determinare, in via induttiva, la plusvalenza realizzata dalla cessione di immobili e di aziende solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro, ipotecaria o catastale, dovendo l'Ufficio individuare ulteriori indizi, gravi, precisi e concordanti, che supportino l'accertamento del maggior corrispettivo rispetto a quanto dichiarato dal contribuente, su cui grava la prova contraria (Cass. n. 12131 del 2019; Cass. n. 9513 del 2018; Cass. n. 19227 del 2017); in questo caso, invece, come riportato in sentenza, la plusvalenza accertata deriva dalla rettifica dall’atto ai fini dell’imposta di registro. 6. Con il sesto motivo il ricorrente denunzia, in relazione all’art.360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.32 d.P.R. n. 600/73 e dell’art.2967 c.c., perché la CTR non ha annullato la ripresa a tassazione dei prelevamenti di cui è stato indicato il beneficiario. 6.1. Il motivo è inammissibile, perché in realtà tenta di rimettere in discussione l’accertamento in fatto svolto dal giudice di merito che è incensurabile come tale nel giudizio di legittimità, ed è comunque infondato. 6.2. Il citato art. 32, n. 2), d.P.R. n. 600/1973, prevede che vengano posti come ricavi o compensi a base delle rettifiche ed accertamenti i prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei rapporti bancari, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili. Si pone così una presunzione relativa, di fonte legale, circa la corrispondenza fra versamenti e prelevamenti bancari, non risultanti dalle scritture contabili, e ricavi occultati, che determina in capo al contribuente un preciso ed analitico onere di prova contraria; quest’onere non può essere assolto solo attraverso il ricorso a dichiarazioni di terzi, non potendo queste ultime assurgere né a rango di prove esclusive della provenienza del reddito accertato, né essere idonee, di per sé, a fondare il convincimento del Giudice (Cass. n. 6405 del 2021; Cass. n. 22302 del 2022). Va altresì osservato che l’indicazione del beneficiario non può risolversi nella mera menzione di un nominativo, in quanto ciò permetterebbe facili elusioni della presunzione, ma deve essere accompagnata da una qualche documentazione che giustifichi la causa del prelevamento a favore del terzo o, comunque, da elementi che rendano credibili che tale prelevamento sia stato effettuato al di fuori dell’attività di impresa, in modo che sia fornita prova che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili (tra le altre, v. Cass. n. 15161 del 2020; n. 16896 del 2014). 6.3. Incombeva, quindi, sul ricorrente allegare di aver superato la presunzione attraverso la dimostrazione in modo analitico dell'estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili (Cass. n. 35258 del 2021); solo in questa evenienza il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all'efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso contribuente, avuto riguardo ad ogni singola movimentazione e dandone conto in motivazione. Nel caso in esame, però, il motivo si sostanzia nella elencazione dei prelevamenti recuperati con indicazione di causali in gran parte generiche, mentre, come riferito in sentenza, il recupero ha riguardato solo i prelevamenti per i quali il ricorrente non è stato in grado di produrre idonea documentazione probatoria a supporto. 7. Con il settimo motivo il ricorrente deducenullità della sentenza per violazione dell’art.32 D.P.R. 600/1973 e art. 53 Cost. nella parte in cui non tiene conto degli eventuali costi per produrre il reddito. 7.1. Il motivo è fondato. 7.2. A seguito della sentenza della Corte cost. n. 10/2023, che ha operato un'interpretazione adeguatrice dell'art. 32, comma 1, n. 2), d.P.R. n. 600/1973, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi occulti, scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore può sempre opporre la prova presuntiva contraria, eccependo una incidenza percentuale forfettaria di costi di produzione, che vanno quindi detratti dall'ammontare dei maggiori ricavi presunti (Cass. n. 18653 del 2023; n. 6874 del 2023; v. anche n. 7122 del 2022). 8. Con l’ottavo motivo rileva nullità della sentenza, in relazione all’art.360 comma 1 n. 3 c.p.c., per violazione dell’art.36 d.lgs. n. 546/1992 e 115 c.p.c. avendo la CTR erroneamente ritenuti assorbiti una serie di motivi d’appello, riguardanti singole riprese. e mancato di esaminare i documenti prodotti e mai contestati dall’Ufficio, cosicché risulta un vizio di omessa motivazione che rende nulla la sentenza. 8.1. Il motivo è inammissibile in quanto l'assorbimento erroneamente dichiarato si traduce in una omessa pronunzia (Cass. n. 26520 del 2023; Cass n. 12193 del 2020), che deve essere censurata in sede di legittimità ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (Cass. n. 11459 del 2019). In questo caso il motivo si discosta dalle regole in materia secondo cui, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell'art.112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l'una o l'altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d'ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del "fatto processuale", intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all'onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un'autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi (Cass. n. 28072 del 2021). 9. Con i motivi dal nono al quindicesimo il ricorrente denunzia la sentenza impugnata, in relazione all’art.360 comma 1 n.5 c.p.c., per l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia e segnatamente: «non avere annullato la ripresa a tassazione dei versamenti relativi all’acquisto di vendita e di carburante Eni» (motivo 9); «non avere annullato la ripresa a tassazione dei versamenti relativi agli incassi del negozio di telefonia Tim» (motivo 10); «non avere annullato la ripresa a tassazione delle operazioni effettuate quale “anticipo socio”, “finanziamento a favore di Ipsale” (Rosa, Salvatore, Luca, Fortunato), “restituzione finanziamento Ipsale”» (motivo 11); «non avere annullato la ripresa a tassazione delle operazioni neutre» (motivo 12); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 90.000,00 relativo all’acquisto dell’appartamento in via Canfora 55 Catania» (motivo 13); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 515.000,00 relativo all’acquisto delle quote di Villa Parlapiano» (motivo 14); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 300,000,00 relativo all’acquisto di un immobile a Milano alla via Teuliè n.13» (motivo 15). 9.1. Questi motivi sono inammissibili. 9.2. La censura prevista dal novellato art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ossia di un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico- naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali, che ha costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) (Cass. n. 13024 del 2022; Cass. n. 14802 del 2017); non possono considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio (Cass. n. 10525 del 2022). 9.3. Va considerato, inoltre, che, secondo quanto previsto dall’art. 348 ter, comma 5, c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), è escluso che possa essere impugnata ex art. 360, n. 5, c.p.c. la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (c.d. “doppia conforme”), salvo che il ricorrente non dimostri che le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello sono tra loro diverse (Cass. n.5947 del 2023); la “doppia conforme”, peraltro, ricorre non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni sono fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo Giudice (Cass. n. 7724 del 2022). 9.4. In questo caso, da un lato, manca la precisa indicazione dei fatti storici decisivi che la CTR avrebbe omesso di esaminare, poiché le doglianze riguardano la valutazione di mezzi istruttori ovvero istanze difensive, e, dall’altro, il ricorrente non si è fatto carico di superare la preclusione derivante dalla c.d. “doppia conforme”. 10. Conclusivamente, accolti il quinto motivo nei limiti in motivazione e il settimo motivo, rigettati gli altri, la causa deve essere cassata di conseguenza con rinvio alla Corte di merito in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. accoglie il quinto motivo nei limiti in motivazione e il settimo motivo, rigettati gli altri, cassa di conseguenza la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 06/12/2023. Il Consigliere estensore Il Presidente GIOVANNI LA ROCCA ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA

  • 1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Responsabilità civile per danno da animale selvatico GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. CHIARA GRAZIOSI Consigliere ENZO VINCENTI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 PAOLO PORRECAConsigliere Ud.22/4/2024 PU Cron. R.G.N24493/2021 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 24493/2021 R.G. proposto da: ATC AMBITO TERRITORIALE DI CACCIA RAVENNA 3, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II 308, presso lo studio dell’avvocato RUFFOLO UGO (RFFGUO42D02I872U) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato LOCCISANO VALTER (LCCVTR76B01I725W) -ricorrente- contro PAGLIAI ARMANDO E GIORGIO SS SOC. AGRICOLA AZIENDA AGRICOLA PAGLIAI, elettivamente domiciliato in Roma via delle Milizie 2 22, presso lo studio dell’avvocato ARONICA WALTER (RNCWTR80P23H501A) rappresentato e difeso dall'avvocato DOLCINI SILVIA (DLCSLV59H58D458J) -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO BOLOGNA n. 1136/2021 depositata il 11/05/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 22/04/2024 dal Consigliere ENRICO SCODITTI; sentite le parti ed il Pubblico Ministero GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA. Fatti di causa 1. Con atto di citazione notificato in data 11 luglio 2012 l’Azienda Agricola Pagliai Armando e Giorgio s.s. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Ravenna l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 chiedendo il risarcimento del danno causato dall’azione di cinghiali e caprioli sui propri fondi coltivati siti nel Comune di Brisighella. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando il convenuto al risarcimento del danno nella misura di Euro 20.965,00, oltre accessori. 3. Avverso detta sentenza propose appello l’Ambito Territoriale. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 11 maggio 2021 la Corte d’appello di Bologna rigettò l’appello. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, che, diversamente da quanto affermato da Cass. n. 2374 del 2016 in relazione ad un fatto accaduto nel 1997, in relazione al fatto in questione, verificatosi nel 2011, doveva aversi riguardo, ai fini del riconoscimento della sussistenza della legittimazione passiva del convenuto, alle modifiche intervenute prima con la legge regionale n. 3 6 del 2000, e poi con la legge regionale n. 16 del 2007, alla legge regionale n. 8 del 1994. In particolare, osservò quanto segue. «L’art. 17 della L.R. 8/1994 prevedeva nella formulazione originaria che gli oneri per il contributo al risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate su terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica sono a carico delle Provincie, qualora siano provocati nelle zone di protezione, anche se in gestione convenzionata ovvero, per quanto di rilievo in questa sede, degli ambiti territoriali di caccia qualora si siano verificati nei fondi ivi compresi. Con la L.R. 6/2000 si è disposto che la legittimazione è degli ambiti territoriali di caccia, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi, oppure delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all'art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. Con L.R. 16/2007 si è provveduto a modificare ulteriormente la disciplina di cui trattasi confermando la legittimazione degli ambiti territoriale di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi». 5. Ha proposto ricorso per cassazione l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 sulla base di un motivo. Resiste con controricorso la parte intimata. Il Pubblico Ministero ha presentato le conclusioni scritte, concludendo per l’accoglimento del ricorso. E’ stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 26 legge n. 157 del 1992, 16, 17 e 18 legge regionale n. 8 del 1994, 111 Cost., 132 n. 4 e 118 att. cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha ravvisato la sussistenza della legittimazione passiva in capo al ricorrente nonostante le modifiche richiamate alla 4 legge regionale non modificassero, per la parte rilevante, la legge regionale n. 8 del 1994, così come interpretata da Cass. n. 2375 del 2016, la quale aveva individuato nella Provincia il soggetto passivamente legittimato, posto che la lieve modifica intervenuta aveva toccato solo l’art. 17, il quale prevede, come affermato da Cass. n. 2375 del 2016, la ripartizione interna fra la Provincia e gli altri soggetti (fra cui l’Ambito Territoriale) degli oneri relativi ai contributi per il fondo regionale, previsto dall’art. 26 legge n. 157 del 1992 per i danni arrecati alle produzioni agricole dalle specie di fauna selvatica cacciabile. Aggiunge che la motivazione, alla luce di quanto osservato, risulta anche apparente. 1.1 Deve premettersi all’esame del motivo che il ricorrente ha depositato copia della sentenza impugnata, con asseverazione di autenticità, priva però dell’indicazione della data di pubblicazione (c.d. glifo). La questione, per come ha già trovato modo di declinarsi nella giurisprudenza di questa Corte, è riassumibile nei seguenti termini: se il deposito di sentenza digitale priva della stampigliatura (quest’ultima indicata, in taluni precedenti, atecnicamente come “glifo”), apposta in via automatica dal sistema informatico di gestione dei servizi di cancelleria, indicante la data di deposito ed il numero del provvedimento, valga o meno a soddisfare l’onere di deposito del provvedimento impugnato previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., ovvero, in assenza dei predetti dati, debba addivenirsi, altrimenti, ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per tardività, ove non si ritenga superata la c.d. prova di resistenza. 1.2. – Occorre, anzitutto, dare evidenza, in estrema sintesi, alle soluzioni (con gli argomenti che le sorreggono) sinora adottate dalla giurisprudenza di questa Corte, alla luce di una ricognizione di cui si fa carico, in modo ampio, la memoria del pubblico ministero e alla quale, dunque, giova richiamarsi. 5 1.2.1. – L’improcedibilità del ricorso per cassazione è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 29803/2020, Cass. n. 5771/2023, Cass. n. 8535/2023, Cass. n. 10180/2023, Cass. n. 23694/2023, Cass. n. 25472/2023, Cass. n. 28035/2023, Cass. n. 36379/2023) nel caso in cui la sentenza impugnata, redatta in formato digitale, risulti priva dell’attestazione di cancelleria circa l’avvenuta pubblicazione, la relativa data e il conseguente numero di pubblicazione, sia perché i suddetti adempimenti sono gli unici che permettono alla Corte di controllare se e quando il provvedimento impugnato sia effettivamente venuto ad esistenza, sia perché la produzione di una copia della sentenza incerta nella data e priva del numero identificativo non consente di verificare la tempestività dell’impugnazione, né, in caso di accoglimento del ricorso, di formulare un corretto dispositivo che, coordinato con la motivazione, individui con esattezza il provvedimento cassato. In particolare, gli argomenti a sostegno dell’improcedibilità (Cass. n. 5771/2023) muovono dal rilievo che «la disposizione dell’art. 16- bis, comma 9-bis, del d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 221/2012) - introdotta dall’art. 52, comma 1, lett. a), del d.l. n. 90/2014 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 114/2014) - che stabilisce la equivalenza all’originale delle copie informatiche, anche per immagine, dei provvedimenti del Giudice “anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale”» attribuisce «al difensore il potere di certificazione pubblica delle “copie analogiche ed anche informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico” ma non anche la competenza amministrativa riservata al funzionario di Cancelleria relativa alla “pubblicazione” della sentenza». Si è, quindi, ritenuto che, “per quanto in linea generale sia possibile produrre in giudizio copie o duplicati del provvedimento impugnato estratti dal fascicolo telematico, attestando la conformità del relativo contenuto all’originale 6 contenuto nel predetto fascicolo, ai fini della procedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c. deve comunque trattarsi di copie o duplicati recanti l’attestazione di Cancelleria della pubblicazione del provvedimento, con la relativa data e il numero attribuito dal sistema”, altrimenti resterebbe preclusa alla Corte la verifica circa l’effettiva venuta ad esistenza del provvedimento impugnato e del suo numero identificativo. 1.2.2. – L’inammissibilità del ricorso è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 18510/2023, Cass. n. 29263/2023, Cass. n. 36189/2023, Cass. n. 817/2024, Cass. n. 841/2024) nel caso in cui il ricorrente depositi un duplicato della sentenza telematica dal quale non si evince la data di pubblicazione e la notificazione del ricorso è avvenuta in una data che non risulta tempestiva - se calcolata in relazione al giorno della decisione indicato nel testo del provvedimento - rispetto al termine dell’art. 327, comma primo, c.p.c. Va, peraltro, posto in evidenza che, nel superare la soluzione dell’improcedibilità del ricorso, questa Corte, in base a questo orientamento, ha affermato (in un caso in cui ha avuto esito positivo la c.d. “prova di resistenza” sulla tempestività dell’impugnazione: Cass. n. 865/2024) che la «copia analogica prodotta, pur con le dette omissioni, non si può considerare come copia non autentica, in quanto risulta ─ e vi è in tal senso anche espressa asseverazione del Procuratore dello Stato resa ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-bis, 16- decies e 16-undecies d.l. n. 179 del 2012 ─ “tratta con modalità telematiche” e “conforme” allo “esemplare presente nel fascicolo informatico” come “reso disponibile dai servizi informatici e telematici del competente plesso giurisdizionale”, e, dunque, deve considerarsi conforme al documento informatico effettivamente presente nel fascicolo del giudizio di merito e, pertanto, autentica». 1.2.3. – Giova, altresì, dare conto che, sebbene in un caso di rigetto del ricorso in presenza di ragione più liquida di infondatezza dello 7 stesso (e superando in tal modo la depositata proposta di definizione accelerata nel senso della improcedibilità del ricorso), Cass. n. 5204/2024 - premesse le nozioni di “copia informatica di documento informatico” e di “duplicato informatico”, secondo le definizioni contenute nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e richiamate le disposizioni speciali per il processo civile in tema di attestazione di conformità - ha prospettato i seguenti interrogativi: a) «può il deposito di una tale copia ritenersi soddisfare l’onere, previsto all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c. … di depositare “copia autentica della sentenza”?»; b) “se sì, può la mancanza, nella copia informatica estratta dal fascicolo informatico e attestata conforme, delle indicazioni relative al numero e alla data di pubblicazione dal fascicolo informatico considerarsi causa di inammissibilità del ricorso per mancata prova della sua tempestività (salva la c.d. prova di resistenza …)?”; c) “accedendo a tale ultimo orientamento, può infine ritenersi utilmente e tempestivamente prodotta, a riprova dell’ammissibilità del ricorso, altra copia informatica, questa volta recante il c.d. glifo, successivamente al deposito ed alla comunicazione della proposta di definizione? Se sì, può essa ritenersi utilmente prodotta, come nella specie, al di là del termine di quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza, fissato dall’art. 372, secondo comma, c.p.c.?”. 1.3. – Il Collegio ritiene che gli interrogativi posti da Cass. n. 5204/2024 trovino complessiva risposta nelle considerazioni che seguono. 1.3.1. - Le nozioni di “copia informatica” e di “duplicato informatico”. In base alle definizioni contenute nell’art. 1 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale: C.A.D.), applicabili anche al processo civile, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo 8 telematico (art. 2, comma 6): a) la copia informatica di documento informatico: è il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento da cui è tratto su supporto informatico con diversa sequenza di valori binari (lett. i-quater); b) il duplicato informatico: è il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario (lett. 1- quinquies). Ai sensi dell’art. 23-bis del C.A.D.: «1. I duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle Linee guida [i.e. le linee guida adottate dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) ai sensi dell’art. 71 C.A.D.]. Le copie e gli estratti informatici del documento informatico, se prodotti in conformità alle vigenti Linee guida, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale, in tutti le sue componenti, è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato o se la conformità non è espressamente disconosciuta. […]». Nozioni, queste, che sono riprese dalla citata Cass. n. 5204/2024 e che erano tenute ben presenti già da Cass. n. 27379/2022 (la quale ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile per tardività l’impugnazione svolta nei confronti della sentenza di primo grado, sul presupposto che la notifica telematica della stessa, mediante duplicato informatico, era idonea a far decorrere il ‘termine breve’, pur non presentando segni grafici relativi all’apposizione della sottoscrizione del giudice), da cui è stato tratto il principio di diritto così massimato: “in tema di notificazione della sentenza con modalità telematica, occorre distinguere la copia informatica di un documento nativo digitale, la quale presenta segni grafici (generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari) che 9 rappresentano una mera attestazione della presenza della firma digitale apposta sull’originale di quel documento, dal duplicato informatico che, come si evince dagli artt. 1, lett. i) quinquies e 16-bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, consiste in un documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario e la cui corrispondenza con quest’ultimo non emerge dall’uso di segni grafici - la firma digitale è infatti una sottoscrizione in bit la cui apposizione, presente nel file, è invisibile sull’atto analogico cartaceo - ma dall’uso di programmi che consentono di verificare e confrontare l’impronta del file originario con il duplicato”. 1.3.2. - Le attestazioni di conformità nel processo civile. La materia delle attestazioni di conformità trova espressa disciplina per il processo civile nelle disposizioni sul processo telematico, dapprima ai sensi degli artt. 16-bis, comma 9-bis, decies ed undecies, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, ora (sostanzialmente) riproposti negli artt. 196-octies, 196 novies, 196 decies e 196 undecies disp. att. c.p.c. In sintesi, e per quel che qui rileva, è conferito al difensore il potere di estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche di atti e provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico e attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti originali, mentre per il duplicato informatico (la cui equivalenza all’originale esclude la necessità di attestazione) si richiede che lo stesso venga prodotto mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione o su un sistema diverso contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine. 1.3.3. – La nozione di “contrassegno elettronico”, “timbro digitale”, “codice bidimensionale”, “glifo”. 10 Ai sensi dell’art. 23, comma 2-bis, C.A.D.: «Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale è possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico. I soggetti che procedono all’apposizione del contrassegno rendono disponibili gratuitamente sul proprio sito Internet istituzionale idonee soluzioni per la verifica del contrassegno medesimo». Nelle linee guida emanate dall’AgID con circolare n. 62 del 30 aprile 2013 si chiarisce che «Nei vari contesti il contrassegno generato elettronicamente può essere indicato, anche in relazione alle specificità dello scenario implementato, con termini differenti, quali “Contrassegno elettronico”, “Timbro digitale”, “Codice bidimensionale”, “Glifo”, termini che sono da intendersi come sinonimi». Nell’ambito delle predette linee guida, si precisa che «per contrassegno generato elettronicamente si intende una sequenza di bit, codificata mediante una tecnica grafica e idonea a rappresentare un documento amministrativo informatico o un suo estratto o una sua copia o un suo duplicato o i suoi dati identificativi. A tutti gli effetti di legge sostituisce la sottoscrizione autografa della copia analogica. Il contrassegno generato elettronicamente è rappresentato graficamente con tecnologie differenti, per leggere le quali può essere richiesto apposito software rilasciato dallo sviluppatore della soluzione». 1.4. – Ciò premesso, si osserva quanto segue. L’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., richiede il deposito di “copia autentica della decisione impugnata”. 11 Il provvedimento emesso come documento informatico e sottoscritto con firma digitale è depositato nel fascicolo tramite l’applicativo l’informatico, ai sensi dell’art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44. La pubblicazione avviene, dunque, non più attraverso la materiale apposizione del deposito e della relativa certificazione da parte del cancelliere, bensì attraverso l’accettazione del deposito telematico del provvedimento e l’attribuzione mediante il sistema informatico del numero identificativo e della data dell’adempimento, con inserimento nel fascicolo informatico e conseguente ostensibilità agli interessati (si veda anche Cass. n. 2829/2023). Ne consegue che, per effetto dell’attuazione del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull’unico originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico effettuata dal sistema informatico. Con l’accettazione del deposito telematico e l’attribuzione del numero cronologico, il provvedimento digitale è inserito nel fascicolo informatico e solo in esito alla pubblicazione informatizzata diventa consultabile da parte dei difensori, attraverso il portale dei servizi telematici di cui all’art. 6 del d.m. n. 44/2011, nella versione originale, rappresentata dal duplicato (che reca la firma digitale del magistrato), ovvero nella copia informatica, che reca la stampigliatura dei dati esterni della pubblicazione (vale a dire il numero di cronologico e la data di pubblicazione) come segno grafico apposto dal sistema per evidenziare l’avvenuto processamento informatico. Pertanto, nella differente realtà digitale il concetto di unico originale risulta sostanzialmente superato dalla possibilità di accedere al duplicato (che equivale all’originale), dovendosi, altresì, evidenziare che è l’accettazione dell’atto da parte del cancelliere a determinare l’inserimento del provvedimento nel fascicolo informatico, sicché resta 12 escluso che il difensore possa accedere al duplicato ovvero alla copia informatica se non è intervenuta la pubblicazione. E tanto emerge chiaramente anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che collega la pubblicazione dei provvedimenti digitali al necessario presupposto che l’atto divenga visibile e consultabile dalle parti, cosicché non è sufficiente il mero deposito, ma occorre l’accettazione da parte della cancelleria - almeno fino a che i sistemi richiederanno l’intervento manuale – e, comunque, l’inserimento nei registri e l’assegnazione del numero cronologico (Cass. n. 24891/2018, Cass. n. 2362/2020, Cass. n. 2829/2023). Infatti, solo a seguito dell’avvenuta pubblicazione informatica, i difensori, accedendo al fascicolo informatico tramite il portale dei servizi telematici, possono scegliere se estrarre copia informatica del provvedimento, recante le indicazioni sulla data di pubblicazione e sul numero di cronologico, come stampigliatura apposta dal sistema informatico in esito all’accettazione dell’atto digitale da parte della cancelleria, ovvero se scaricare direttamente il duplicato informatico che, in quanto tale, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione che determinerebbe ipso facto l’alterazione dell’originale informatico (e la conseguente alterazione della sequenza di valori binari del documento originario). Non è, pertanto, sanzionabile con l’improcedibilità la scelta del difensore che, potendo optare tra il deposito del duplicato e la copia informatica(la cui apposta stampigliatura rappresenta soltanto un’evidenza grafica della registrazione informatizzata), si determini per il deposito del primo in quanto equivalente all’originale e, come tale, non necessitante di alcuna attestazione di conformità. Sicché, il concetto stesso di duplicato risulta assorbente rispetto al requisito di “copia autentica della sentenza o della decisione impugnata”, postulato dall’art. 369 c.p.c. 13 I dati relativi alla pubblicazione, se in contestazione ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione (e, dunque, là dove non evincibili tramite gli stessi sistemi informatici in uso a questa Corte), possono essere verificati attraverso la consultazione del fascicolo informatico del giudizio di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis disp. att. c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere a decorrere dal 1° gennaio 2023 (art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 149/2022). Quanto ai giudizi introdotti precedentemente, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato (quale documento nativo digitale), se necessario, possono essere verificati tramite richiesta di attestazione degli stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso quel provvedimento, in presenza di istanza del ricorrente formulata ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nel testo antecedente alla abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149/2022. Dati che sono presenti nel fascicolo informatico che la cancelleria deve tenere e conservare ai sensi art. 36, ultimo comma, disp. att. c.p.c. e dell’art. 9 del d.m. n. 44/2011. Quest’ultima disposizione precisa, infatti, che il predetto fascicolo contiene “i dati del procedimento medesimo da chiunque formati” (comma 1) e in modo tale da “garantire la facile reperibilità ed il collegamento degli atti ivi contenuti [anche] in relazione alla data di deposito” (comma 5). E una tale verifica officiosa si rende necessaria in quanto il ricorrente, con il deposito del duplicato informatico del provvedimento impugnato, ha pienamente assolto l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c.; onere funzionale, in primo luogo, proprio a “consentire la verifica della tempestività dell’atto di impugnazione” (Cass., S.U., n. 8312/2019), la quale (è opportuno ribadire), in ambiente di processo telematico, è possibile solo attraverso i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario. 14 Occorre, dunque, collocarsi nel cono d’ombra del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU), il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (tra le tante: Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024; Cass., S.U., n. 6477/2024). Pertanto, va fatta applicazione del principio - già affermato da Cass., S.U., 25513/2016 in riferimento alla proposizione del ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma terzo, c.p.c. (e ribadito da Cass., S.U., n. 11850/2018, Cass., S.U., n. 8312/2019 e Cass., S.U., n. 21349/2022) - secondo il quale la Corte esercita il proprio potere officioso di controllo sulla tempestività dell’impugnazione ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo tramite l’istanza di cui all’ultimo comma dell’art. 369 c.p.c. 1.4.1. – Nel caso, invece, di deposito ex art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., di copia analogica di duplicato informatico della decisione impugnata (ossia, tramite la stampa del file), rimane necessaria l’attestazione di conformità del difensore ai sensi del citato art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179/2012 (nei termini affermati da Cass., S.U., n. 8312/2019), non potendosi, in siffatta evenienza, apprezzare altrimenti la qualità di duplicato informatico che dal difensore medesimo sia stata predicata (atteso che la stampa di un documento informatico sottoscritto digitalmente non consente la verifica dell’apposizione della firma, ciò che, come detto, è possibile con i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario). Tuttavia, all’interrogativo posto da Cass. n. 5204/2024 in ordine alla ritualità della copia autenticata così depositata, in quanto priva 15 delle indicazioni relative alla pubblicazione, si deve dare risposta positiva. Infatti, in quanto estratta dal fascicolo informatico ed attestata come conforme dal difensore, anche il deposito di una tale copia autenticata vale ad integrare il requisito richiesto dall’art. 369 c.p.c., così aprendosi la possibilità, pure in tale ipotesi, dell’accertamento officioso in ordine alla tempestività dell’impugnazione (ove in contestazione), tramite la richiesta alla cancelleria del giudice a quo di attestazione dei dati di pubblicazione del provvedimento. 1.5. – Devono, quindi, enunciarsi i seguenti principi di diritto: «a) in regime di deposito telematico degli atti, l’onere del deposito di copia autentica del provvedimento impugnato imposto, a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto non solo dal deposito della relativa copia informatica, recante la stampigliatura solo rappresentativa dei dati esterni (numero cronologico e data) concernenti la sua pubblicazione, ma anche dal deposito del duplicato informatico di detto provvedimento, il quale ha il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, dell’originale informatico e che, per sue caratteristiche intrinseche, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione (e, dunque, la stampigliatura presente nella copia informatica) che ne determinerebbe, di per sé, l’alterazione. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione, ove non evincibili tramite i sistemi informatici in uso alla Corte di cassazione e in contestazione, vanno attinti attraverso la consultazione del fascicolo di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023, ovvero, per i giudizi precedentemente introdotti, tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi 16 dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022; b) nel regime in cui è consentito il deposito di copia analogica del provvedimento impugnato redatto come documento informatico nativo digitale e così depositato in via telematica, ove detta copia analogica sia tratta dal duplicato informatico depositato nel fascicolo informatico, l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto tramite l’attestazione di conformità della copia al duplicato apposta dal difensore. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato, ove in contestazione, vanno attinti tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022». 1.6. Nel caso di specie, a seguito del dato acquisito tramite cancelleria, la data di pubblicazione del provvedimento impugnato è 11 maggio 2021. Essendo stato il ricorso notificato in data 30 settembre 2021, risulta rispettato il termine semestrale per proporre l’impugnazione. 1.7. Ciò premesso, il motivo è fondato. Conformemente alle conclusioni del Pubblico Ministero, deve essere mantenuto l’indirizzo di questa Corte, espresso dalle pronunce n. 2374 del 2016 e n. 2375 del 2016, il cui principio di diritto è che, in relazione alla legge della Regione Emilia Romagna,l'amministrazione provinciale è l'unico soggetto legittimato passivamente a fronte di azioni proposte da terzi per ottenere la riparazione dei danni eventualmente provocati dalla fauna selvatica, a nulla rilevando la ripartizione di compiti interna alla Provincia stessa riguardo al peso economico derivante dall'obbligo 17 risarcitorio. La modifica legislativa, considerata dalla corte territoriale, è relativa solo alla ripartizione degli oneri relativi al fondo regionale. L’art. 17 legge regionale n. 8 del 1994, applicabile ratione temporis (in relazione al fatto verificatosi nel 2011) sulla base delle modifiche intervenute, prima con l’art. 14 della legge regionale n. 6 del 2000, e poi con l’art. 10 della legge regionale n. 16 del 2007, è il seguente: «Danni alle attività agricole 1. Gli oneri relativi ai contributi per i danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate sui terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica cacciabile o da sconosciuti nel corso dell'attività venatoria sono a carico: a) degli ambiti territoriali di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora si siano verificati nei fondi ivi ricompresi; b) dei titolari dei centri privati della fauna allo stato naturale di cui all'articolo 41 qualora si siano prodotti ad opera delle specie ammesse nei rispettivi piani produttivi o di gestione e delle aziende venatorie di cui all'articolo 43 per le specie di cui si autorizza il prelievo venatorio, nei fondi inclusi nelle rispettive strutture; c) dei proprietari o conduttori dei fondi rustici di cui ai commi 3 e 8 dell'art. 15 della legge statale, nonché dei titolari delle altre strutture territoriali private di cui al capo V, qualora si siano verificati nei rispettivi fondi; d) delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all’art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. 2. Le Province concedono contributi per gli interventi di prevenzione e per l'indennizzo dei danni: a) provocati da specie cacciabili ai sensi del comma 1 lettera d); b) provocati nell'intero territorio agro-silvo-pastorale da specie protette, dal piccione di città (Columba livia, forma domestica) o da 18 specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse. 3. I contributi sono concessi entro i limiti di disponibilità delle risorse previste dall’art. 18, comma 1». La rilevanza della modifica legislativa al livello della ripartizione interna del peso economico derivante dall’obbligo di risarcire i danni da fauna selvatica, come risulta dal primo comma della disposizione citata, non incide sul principio di diritto enunciato dai richiamati precedenti di questa Corte, cui il Collegio presta continuità e rinvia, anche sul piano della motivazione, per quanto concerne l’individuazione del soggetto tenuto al risarcimento del danno, salva la modifica legislativa evidenziata sul piano del riparto interno. 1.8. Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito con il rigetto della domanda. L’intervento della giurisprudenza determinante nel corso del processo costituisce ragione di compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie il motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta la domanda; dispone la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 22 aprile 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino 19

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5839 del 2023, proposto da St. Ou. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ca. Di Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Bari, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ro. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Fa. Ca. in Roma, via (...); nei confronti Er. It. S.r.l. e Cl. Ch. It. S.p.A., non costituite in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Sezione Terza n. 1776/2022 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Bari; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 marzo 2024 il Cons. Daniela Di Carlo e uditi per le parti gli avvocati Ca. Di Gi. e Ro. Ci.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società ricorrente ha appellato la sentenza di cui in epigrafe con la quale il Tar per la Puglia, Bari, ha respinto il suo ricorso per l'annullamento dell'ordinanza datata 25 ottobre 2021, n. 2021/03412, con cui le è stata ingiunta la rimozione degli impianti pubblicitari installati sul suolo comunale. In particolare, il provvedimento comunale è stato motivato con il riferimento al fatto che "è spirato alla data del 22 settembre 2021 il termine per la presentazione delle offerte nell'ambito della procedura selettiva cod. S21010 bandita con avviso pubblico del 14.05.2021 relativa a "affidamento in concessione degli spazi comunali per l'installazione dei gruppi omogenei di mezzi pubblicitari sul suolo pubblico di cui all'art. 9 del regolamento sulla Pubblicità, suddiviso in venti lotti" e che, per l'effetto e ai sensi della D.G.C. n. 40/2021, è consentita la permanenza sul territorio ai soli operatori, titolari di impianti e proponenti offerta, limitatamente agli impianti oggetto della relativa dichiarazione di permanenza; la permanenza sul territorio comunale oltre il termine di cui alla D.G.C. n. 40 del 22.01.2021 è consentita ai soli operatori economici che hanno presentato dichiarazione di permanenza e risultano aver formulato l'offerta di gara, in linea con le risultanze della prima fase di controllo di regolarità formale della documentazione amministrativa dichiarate da ultimo con la determina n. 1442 del 01.10.2021 da parte della Ripartizione Stazione Unica Appaltante, Contratti e Gestione LL.PP; l'amministrazione comunale può agire in autotutela ai sensi dell'art. 823, co. 2 del codice civile al fine della tutela dei beni sottoposti al regime del demanio pubblico di cui all'art. 822, co. 2 c.c.; l'art. 1, co. 822, della legge n. 160/2019 attinente al Bilancio di previsione dello Stato per l'anno 2020 prevede la "rimozione delle occupazioni e dei mezzi pubblicitari privi della prescritta concessione o autorizzazione o effettuati in difformità dalle stesse". In merito alla situazione specifica della società ricorrente, veniva infatti rilevato che l'operatore economico "è presente sul territorio comunale con impianti su suolo pubblico, ha presentato dichiarazione di permanenza ai sensi della D.G.C. 40/2021, ricevuta dalla scrivente ripartizione con nota prot. 027868 del 03.02.2021, ha presentato offerta nei termini indicati dagli atti della procedura ad evidenza pubblica S21010 ma è stata esclusa per mancata regolarizzazione della documentazione amministrativa ai sensi dell'art. 83, co. 9 del d.lgs. 50/2016". Senonché, è poi accaduto che la società abbia impugnato la suddetta esclusione dalla procedura con ricorso n. 1148/2021, riportando vittoria nel giudizio. Riammessa quindi alla procedura, ne ha conseguito anche la definitiva aggiudicazione. Reclama pertanto ora, con il ricorso in oggetto, la illegittimità dell'ordine di rimuovere gli impianti pubblicitari, essendo stato definitivamente acclarato in via giudiziale, seppure in via postuma rispetto all'adozione dell'atto impugnato, il suo diritto a partecipare alla procedura di aggiudicazione, finanche poi vinta. 2. Il Tar adito ha prescisso dall'esame delle preliminari eccezioni di inammissibilità sollevate dal Comune intimato e ha respinto il ricorso, tuttavia compensando le spese del giudizio. 3. La società ricorrente ha riproposto le originarie censure, articolate quali ragioni di critica specifica avverso la sentenza impugnata, così nella sostanza devolvendo alla odierna cognizione tutta l'originaria materia del contendere. In particolare, la stessa ha dedotto: 1) la violazione e falsa applicazione della delibera di Giunta comunale n. 40 del 22 gennaio 2021 e degli atti deliberativi presupposti, pregressi, successivi o comunque collegati, ivi compreso il regolamento comunale, delibera di c.c. n. 114/2017 - violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3, legge n. 241/1990, art. 97 Cost. - eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità manifesta, contraddittorietà ; 2) sotto diverso profilo, la violazione e falsa applicazione della succitata delibera n. 40/2021 e di quella, a essa presupposta, n. 963 del 4 dicembre 2020, unitamente agli ulteriori atti, a essa pure connessi e presupposti - violazione e falsa applicazione dell'art. 41 Cost., dell'art. 10, d.lgs. n. 59/2010, nonché dell'art. 48, commi 1 e 2, del regolamento sulla pubblicità, approvato con delibera di c.c. n. 114/2017 - violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3, legge n. 241/1990 - violazione del principio di proporzionalità e contrasto con i principi di cui all'art. 97 Cost. - eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità manifesta, contraddittorietà, sviamento di potere - violazione e falsa applicazione dell'art. 42 del T.u.e.l. - violazione dei principii di libera concorrenza. 4. Il Comune di Bari ha resistito al gravame e ne ha chiesto la reiezione. 5. Le parti hanno ulteriormente insistito sulle rispettive tesi difensive. 6. Alla udienza pubblica del 12 marzo 2024, la causa è passata in decisione. 7. Anzitutto va respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado riproposta dal Comune appellato in quanto la rimozione degli impianti, contrariamente a quanto si afferma nel corpo dell'ordinanza di rimozione impugnata, non rappresenta una misura applicativa della delibera giuntale n. 40/2021, di talché non può condividersi l'eccezione di tardività della sua impugnazione e di quella della presupposta delibera giuntale n. 963/2020. L'applicazione dei precetti promananti dalla delibera in parola, infatti, inerenti all'obbligo di rimozione degli impianti esistenti, deve ritenersi riferibile solo agli operatori che non avevano partecipato alla procedura per l'assegnazione dei lotti, e non anche a quelli che, come la società ricorrente, vi avevano preso parte, indipendentemente dalle vicende che poi ne sono seguite (esclusione, impugnativa dell'esclusione, riammissione alla gara per effetto dell'accoglimento del ricorso, finanche l'aggiudicazione definitiva). 8. Nel merito, l'appello è fondato. La questione giuridica sottesa alla materia del contendere può così sintetizzarsi. Se, come motivato dal Comune di Bari e ritenuto dal Tar, la permanenza degli impianti di affissione deve essere fatta dipendere dalla ammissione della società alla gara, allora l'atto di rimozione impugnato va ritenuto legittimo, in quanto il vaglio di legittimità va necessariamente ancorato alla situazione di fatto e di diritto esistente al tempo della sua emanazione, quando cioè la società era stata dichiarata esclusa dalla procedura. Secondo questa ricostruzione esegetica, in particolare, il fatto che poi la società abbia impugnato la propria esclusione, abbia riportato vittoria nel giudizio e sia stata di conseguenza riammessa alla gara, addirittura aggiudicandosela, rappresenterebbero, tutti, nella sostanza, dei postfatti irrilevanti ai fini dell'adozione dell'atto, che resterebbe così insensibile alle sopravvenienze di fatto e giuridiche poi effettivamente verificatesi. Se invece, come propugnato dalla società ricorrente, la permanenza degli impianti di affissione va fatta dipendere dalla propria effettiva partecipazione alla gara, allora l'atto impugnato deve di conseguenza reputarsi illegittimo in quanto lo stesso non ha considerato che l'esclusione dalla gara era sub iudice e quindi, nelle more, l'Amministrazione non avrebbe potuto provvedere o, se già lo avesse fatto, l'atto avrebbe poi dovuto essere rimosso, rappresentando il sopravvenuto accertamento giurisdizionale del diritto a partecipare alla gara, in conseguenza della avvenuta caducazione dell'atto di illegittima esclusione, il necessario antefatto logico-giuridico rispetto all'ordine di rimozione degli impianti pubblicitari. 9. Ad avviso del Collegio, la ricostruzione esegetica corretta è la seconda. Deve anzitutto precisarsi che non è qui in discussione, e va anzi condivisa, la parte della sentenza in cui il primo giudice con articolata motivazione ricostruisce il quadro giuridico di riferimento alla base della riorganizzazione del sistema pubblicitario nel Comune di Bari, quale atto generale di programmazione e indirizzo nel trapasso dal sistema autorizzatorio a quello concessorio ai fini di programmazione e controllo, di attuazione dei principi costituzionali in materia di concorrenza e libertà economica di impresa e di quelli dell'evidenza pubblica, europea e nazionale. In particolare, è corretto affermare che il riordino di questo specifico settore di mercato è stato graduale ed è stato posto in essere attraverso la proroga del mantenimento degli impianti pubblicitari esistenti alla condizione che l'operatore economico interessato a continuare ad esercitare la propria attività imprenditoriale abbia manifestato in tal senso il proprio perdurante interesse attraverso l'apposita presentazione di domanda di partecipazione alla gara per le nuove assegnazioni degli spazi. In linea, infatti, con l'esigenza di ripensare il previgente regime basato su autorizzazione ad un sistema competitivo incentrato su rilascio di titolo concessorio, l'Amministrazione comunale ha programmato l'indizione di procedure di evidenza pubblica per l'assegnazione dei suoli pubblici sui quali consentire ai privati imprenditori di installare o mantenere i propri cartelloni pubblicitari. Senonché, rispetto a tale condivisibile premessa generale, ciò che però non può essere condiviso è l'esito decisionale al quale è giunto il primo giudice, sulla base del ragionamento logico-giuridico incentrato sul concetto di ammissione alla gara, piuttosto che di effettiva partecipazione alla stessa, che lo ha portato a valutare la legittimità dell'atto impugnato considerando unicamente l'avvenuta esclusione della società ricorrente dalla gara, ma non anche le conseguenze giuridiche che ne sono poi derivate. In particolare, non è condivisibile la parte della sentenza in cui si motiva "(c)he poi la fine del regime transitorio sia stata individuata nella scadenza del termine per la presentazione delle offerte di partecipazione alla gara e sia coincisa, per la società ricorrente, nel momento in cui ne è stata decretata l'esclusione per mancata produzione di documentazione ritenuta necessaria, riflette coerentemente l'impostazione generale del Comune, ed è conseguenza ragionevole di un programma attraverso il quale, lo si ripete, il regime concessorio soppianta definitivamente le autorizzazioni ad installare i cartelloni pubblicitari" e che "(l)a decisione di rimuovere gli impianti della ricorrente, contrariamente a quanto sottolineato dalla difesa della stessa, è del tutto adeguata e proporzionata al fine pubblico perseguito, che è quello di ampliare il mercato degli operatori del settore attraverso una procedura selettiva in linea con la libertà di impresa tutelata in sede sovranazionale, e assolutamente non in contrasto con l'art. 41 della Costituzione". Ritiene infatti il Collegio che non possano imputarsi alla ricorrente, peraltro risultata illegittimamente esclusa dalla gara, gli effetti pregiudizievoli conseguenti all'adozione dell'ordine di rimozione qui impugnato, dal momento che se per un verso è corretto affermare che la legittimità dell'atto va valutata sulla base delle circostanze di fatto e di diritto esistenti al momento della sua emanazione, per un altro verso è anche corretto affermare che nelle suddette circostanze rientrano pure le vicende successive che ne sono seguite. Di conseguenza, il Comune di Bari non avrebbe potuto obliterare le conseguenze derivanti dall'avere adottato l'atto di esclusione della società ricorrente dalla gara, ma anzi avrebbe dovuto considerare, nella pienezza dello svolgimento del rapporto tra le parti, l'impugnativa proposta dalla società esclusa e gli esiti giudiziari che ne sarebbero seguiti, essendo l'ordine di rimozione basato su un atto, ossia l'esclusione della gara, ancora sub iudice. Nemmeno possono poi essere condivise le motivazioni della sentenza nella parte in cui fa riferimento alla ritenuta corretta applicazione dei principi costituzionali in materia di libertà economica di impresa "in un quadro di bilanciamento doveroso con altri interessi ritenuti parimenti meritevoli di protezione al più alto livello normativo" e al fatto che "nel caso in esame, a fronte della pretesa della società ricorrente di beneficiare di una ulteriore proroga del mantenimento dei propri impianti pubblicitari, nonostante la scadenza abbondantemente consumata del regime transitorio fissato con il regolamento, è decisamente prevalente il pubblico interesse dell'amministrazione comunale a porre in essere una procedura selettiva per l'assegnazione dei suoli pubblici di localizzazione degli impianti, in modo tale da aprire al mercato e favorire la concorrenza, che della libertà di iniziativa economica costituisce un precipitato tecnico irrinunciabile". Tale lettura si appalesa infatti sproporzionata ed eccessiva rispetto alla legittima finalità perseguita dagli atti di programmazione generale del Comune, in quanto ha l'effetto di traslare la responsabilità gravante sul Comune per la corretta conduzione della gara in capo alla società ricorrente per la subita illegittima esclusione dalla gara. Di conseguenza, proprio nell'ottica di una lettura costituzionalmente orientata ad attuare un regime effettivamente paritario e concorrenziale fra gli operatori economici, non può ritenersi legittimo l'operato dell'Amministrazione comunale, in quanto lo stesso condurrebbe a discriminare la società ricorrente rispetto alle altre imprese concorrenti, pur avendo anch'essa, come queste ultime, legittimamente manifestato il proprio perdurante interesse alla prosecuzione dell'attività economica attraverso la partecipazione alla gara. 10. In definitiva, l'appello va accolto. 11. Le spese del doppio grado di giudizio possono compensarsi attesa la novità delle questioni esaminate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado e di conseguenza annulla l'atto impugnato. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere, Estensore Sergio Zeuli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ig.Gi. , nato a R il (Omissis); avverso l'ordinanza del 13/09/2023 emessa dal Tribunale di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Fabrizio D'Arcangelo; udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Silvia Salvadori, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; udito il difensore, avvocato Vi.Ca., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata, il Tribunale di Roma ha rigettato l'appello cautelare proposto avverso il provvedimento del 19 gennaio 2023 con il quale la Corte di Appello di Roma ha rigettato la richiesta di revoca dell'ordinanza di ripristino della misura cautelare della custodia in carcere disposta nei confronti di Ig.Gi. Il ricorrente è stato condannato, all'esito del giudizio di primo grado, alla pena di due anni e sei mesi di reclusione per il delitto di maltrattamenti in famiglia ai danni di Ki.He. , di lesioni personali ai danni della stessa e di resistenza a pubblico ufficiale. 2. L'avvocato Vi.Ca., nell'interesse dell'Ig.Gi. , ricorre avverso tale ordinanza e ne chiede l'annullamento. Con un unico motivo, il difensore censura la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. Rileva il difensore che il Tribunale di Roma non avrebbe considerato che l'imputato, dopo la sentenza di condanna di primo grado, non ha tenuto condotte violente ai danni delle persone offese. Precisa, inoltre, il difensore che la persona offesa, nelle sommarie informazioni rese in data 26 novembre 2022, ha escluso che, in occasione dell'ultima violazione contestata del divieto di avvicinamento, l'imputato avesse usato violenza nei suoi confronti e ha precisato che era stata lei stessa a chiedergli di incontrarsi, per trascorre del tempo insieme e fargli conoscere il loro figlio, nato pochi mesi prima; la persona offesa, peraltro, avrebbe espresso "parere favorevole alla scarcerazione" del ricorrente, depositato personalmente in data 16 gennaio 2023 presso la cancelleria della Corte di appello di Roma. Ad avviso del difensore, dunque, anche in ragione dei sette mesi già trascorsi dall'imputato in carcere, non sussisterebbe più alcuna esigenza cautelare e, comunque, la misura della custodia cautelare in carcere si rivelerebbe, ormai, sproporzionata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in quanto in quanto i motivi proposti sono manifestamente infondati e, comunque, diversi da quelli consentiti dalla legge. 2. Con un unico motivo, il difensore censura congiuntamente la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. 3. Il motivo è, tuttavia, inammissibile, in quanto si risolve nella confutazione in fatto delle argomentazioni espresse dal Tribunale di Roma, senza dimostrarne la manifesta illogicità, e, dunque, in una sollecitazione a pervenire a nuovo esame in ordine alle esigenze cautelari ravvisabile nel caso di specie. Occorre, tuttavia, rilevare che esula dalle funzioni della Corte di cassazione la valutazione della sussistenza o meno dei gravi indizi e delle esigenze cautelari, essendo questo compito primario ed esclusivo dei giudici di merito. Il ricorso per cassazione che deduca l'assenza esigenze cautelari è, dunque, ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (ex plurimis: Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628; Sez. 4, n. 18795 del 02/03/2017, Di Iasi, Rv. 269884 - 01). Muovendo da tali premesse, deve rilevarsi che il Tribunale di Roma ha argomentato congruamente la permanente attualità delle esigenze cautelari in ragione della propensione a delinquere del ricorrente e della sua acclarata e costante inaffidabilità, in ragione delle plurime violazioni accertate alla misura coercitiva del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa. Il Tribunale ha rilevato, infatti, che l'imputato ha maltrattato la persona offesa e cagionato lesioni alla stessa nelle date del 15 settembre 2021, del 27 ottobre 2021, del 28 novembre 2021, del 15 dicembre 2021 e del 10 marzo 2022, quando, in occasione dell'arresto, ha commesso anche il reato di resistenza a pubblico ufficiale; ulteriori episodi di aggressività e di violenza nei confronti anche dei familiari della persona offesa erano stati denunciati dalla stessa in data 27 dicembre 2021 e in data 8 gennaio 2022. In data 24 novembre 2022, inoltre, l'imputato ha violato il divieto di avvicinamento impostogli dall'autorità giudiziaria, accettando di incontrare la persona offesa e trascorrendo con lei un giorno e una notte. Il Tribunale ha, inoltre, congruamente ritenuto che tali elementi siano così significativi da rendere subvalente il consenso della persona offesa all'ultimo incontro e l'assenza di violenza e di maltrattamenti da parte dell'imputato nel corso dello stesso. D'altra parte, il consenso della persona offesa all'incontro con l'imputato, sottoposto al divieto di avvicinamento di cui all'art. 282 - ter cod. proc. pen. , non elide la volontarietà della violazione accertata, né la giustifica, in quanto non può derogare alla misura coercitiva imposta dall'autorità giudiziaria. Nella valutazione, non certo illogica, del Tribunale, dunque, le reiterate condotte violente poste in essere dall'imputato, anche quando la persona offesa era in stato di gravidanza e nei confronti dei suoi famigliari, rendono necessario il ricorso ad un presidio cautelare non rimesso all'autodisciplina dell'imputato e l'unica misura coercitiva adeguata e proporzionata all'intensità delle esigenze cautelari ravvisate nel caso di specie è la custodia cautelare in carcere. 4. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. , al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso siano stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata invia equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1 - ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 7 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. VERGA Giovanna - Presidente Dott. DI PAOLA Sergio - Consigliere Dott. DE SANTIS Anna Maria - Consigliere Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Consigliere Dott. COSCIONI Giuseppe - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Sa.Ga. nato a B il (Omissis) avverso l'ordinanza del 21/12/2023 della CORTE APPELLO di BOLOGNA udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE COSCIONI; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale PERLA LORI, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 21 dicembre 2023, la Corte di appello di Bologna dichiarava inammissibile l'istanza di revisione proposta nell'interesse di Sa.Ga. avverso la sentenza di condanna della Corte di appello di Trieste, che aveva confermato la decisione di primo grado di condanna di Sa.Ga. per il reato di circonvenzione di incapace; la Corte di appello non aveva ritenuto che potesse essere definita "prova nuova" ai sensi dell'art. 630 comma 1 lett. c) cod. proc. pen. una nuova perizia sullo stato psichico della persona offesa. 1.1 Avverso l'ordinanza ricorre per Cassazione il difensore di Sa.Ga., premettendo che per il giudizio proprio della fase rescindente o sull'ammissibilità, la prova nuova costituita dalle risultanze della perizia è dato in astratto idoneo a scalfire la pronuncia di condanna secondo sommaria delibazione, senza che, per ci vengano in considerazione quegli approfonditi esami riservati al giudizio rescissorio; ciò premesso, osserva che la Corte di appello, nell'affermare che la perizia non costituiva prova nuova e che nessun nuovo metodo scientifico era posto a sostegno della perizia di parte, non aveva formulato un giudizio prognostico sulla novità della metodologia e sulla efficacia della stessa, per cui non aveva proceduto ad una congrua valutazione della metodica adottata, avendo solo apoditticamente affermato che "nessun nuovo metodo scientifico è posto a sostegno della perizia di parte" ed avendo omesso ogni motivazione finalizzata a stabilire se il nuovo metodo applicato alle emergenze processuali già acquisite fosse in concreto produttivo di effetti diversi rispetto a quelli già ottenuti e potessero far sorgere il ragionevole dubbio sulla colpevolezza della persona di cui si era affermata la personale responsabilità. CONSIDERATO IN DIRITTO 1.11 ricorso è inammissibile. 1.1 Si deve infatti ribadire che "In tema di revisione, nella nozione di nuove prove rilevanti a norma dell'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., ai fini dell'ammissibilità della relativa istanza, non rientrano quelle esplicitamente valutate dal giudice di merito, anche se erroneamente per effetto di travisamento, potendo, in tal caso, essere proposti gli ordinari mezzi di impugnazione". (Sez.3, Sentenza n. 34970 del 03/11/2020, Iorio, Rv. 280046-01; nella motivazione della sentenza si legge che ": Con la sentenza n. 6141 del 25/10/2018-dep. 2019, Milanesi, Rv. 27462701, le Sezioni Unite hanno ribadito il costante orientamento per cui, in tema di revisione, per "prove nuove", rilevanti a norma dell'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., ai fini dell'ammissibilità della relativa istanza, devono intendersi le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna, quelle scoperte successivamente ad essa, quelle non acquisite nel precedente giudizio e quelle acquisite nel precedente giudizio, però sempre che non siano valutate neppure implicitamente (purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudicante). 2.2. È pertanto inammissibile, per manifesta infondatezza, la richiesta di revisione fondata non sull'acquisizione di nuovi elementi di fatto, ma su una diversa valutazione di prove già conosciute ed esaminate nel giudizio)". A tale proposito si deve ribadire che la fase rescindente del giudizio di revisione ha ad oggetto la preliminare delibazione sulla non manifesta infondatezza della richiesta, da valutarsi apprezzando l'astratta capacità demolitoria del giudicato da parte del novum ; il compito affidato al giudice della revisione nella fase rescindente è quello di "valutare in astratto, e non in concreto, la sola idoneità dei nuovi elementi dedotti a dimostrare - ove eventualmente accertati - che il condannato, attraverso il riesame di tutte le prove, unitamente a quella "noviter producta", debba essere prosciolto a norma degli artt. 529, 530 e 531 cod. proc. pen.; detta valutazione preliminare, tuttavia, pur operando sul piano astratto riguarda pur sempre la capacità dimostrativa delle prove vecchie e nuove a ribaltare il giudizio di colpevolezza nei confronti del condannato e, quindi, concerne la stessa valutazione del successivo giudizio di revisione. Nel caso in esame, la Corte di appello ha applicato correttamente la costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale in tema di revisione, agli effetti dell'art. 630 lett. c) cod. proc. pen., una perizia può costituire prova nuova se basata su nuove acquisizioni scientifiche idonee di per sé a superare i criteri adottati in precedenza e, quindi, suscettibili di fornire sicuramente risultati più adeguati (vedi Sez. 5, n. 4255 del 22/01/2013, Valenti Rv. 256599) osservando che, nel caso in esame, la perizia di parte prodotta dalla difesa si limita a contestare il metodo procedurale seguito dal perito di ufficio. 2. Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile; ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 3.000,00 così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Così deciso l'11 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. BORSELLINO Maria Daniela - Consigliere Dott. D'AURIA Donato - Relatore Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. LEOPIZZI Alessandro - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Mi.Na. nato a P il (omissis) Hu.Si. nato a P il (omissis) Fu.Do. nato a C il (omissis) Ri.Va. nata a A il (omissis) avverso la sentenza del 12/07/2023 della Corte di Appello di Venezia visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Donato D'auria; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Luigi Cuomo, che ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi; ricorsi trattati con contraddittorio scritto ai sensi dell'art. 23, comma 8, D. L. n. 137/2020. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Venezia con sentenza del 12/7/2023, in riforma della sentenza del Tribunale di Padova in data 25/5/2022, che aveva condannato - tra gli altri - Mi.Na., Hu.Si., Fu.Do. e Ri.Va. per i reati loro rispettivamente ascritti, dichiarava non doversi procedere in ordine a taluni dei reati contestati e rideterminava la pena. 2. Mi.Na., a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico articolato motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica con riferimento alla dichiarazione di responsabilità per i reati di cui ai capi 7), 15) e 21). Rileva che in relazione al reato di cui al capo 7), la Corte territoriale non ha tratto dalla inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, evidenziata nei motivi di appello, le dovute conseguenze, tenuto conto che Pe.Ma. solo dopo circa tre mesi dai fatti, in sede di integrazione della denunzia, ha riferito delle minacce ricevute; che, anche in relazione al reato di cui al capo 15), i giudici di appello non hanno tenuto conto delle doglianze difensive, specie in punto di errata indicazione del numero di targa dell'autovettura, di talché hanno confermato la responsabilità del ricorrente solo sulla base di una generica compatibilità di luogo e di tempo con l'indicazione parziale di una targa, non compatibile con quella attribuibile ai rapinatori; che analoghe doglianze devono essere mosse con riferimento alla motivazione relativa al reato di cui al capo 21), atteso che anche in relazione a tale reato gli elementi a carico del ricorrente sarebbero inconsistenti, tenuto conto che l'indicazione del colore dell'autovettura utilizzata dagli autori del furto è errata e che le intercettazioni ambientali sono prive di concreto significato. 3. Hu.Si., a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per carenza e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla dichiarazione di responsabilità per il reato di cui al capo 15). Ritiene che la Corte territoriale non si sia confrontata con i motivi di appello, specie con riferimento alla errata indicazione del numero di targa dell'autovettura, per cui ha fondato il giudizio di responsabilità solo sulla base di una generica compatibilità di luogo e di tempo con l'indicazione parziale di una targa, non compatibile con quella attribuibile ai rapinatori. 4. Fu.Do. a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per carenza della motivazione con riferimento alla applicazione della recidiva ed al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza. Osserva, quanto al primo profilo, che la motivazione del provvedimento impugnato non dà conto del perché la reiterazione dell'illecito sia sintomo effettivo di maggiore riprovevolezza, avendo invece ritenuto la recidiva sulla scotta dei precedenti penali, a seguito di un automatismo non consentito; quanto al secondo profilo, che la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche - giustificata in considerazione dell'età del ricorrente, del corretto comportamento processuale e della non particolare gravità del fatto - avrebbe consentito di irrogare una pena maggiormente aderente alle specifiche circostanze di fatto. 5. Ri.Va. a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per carenza e contraddittorietà della motivazione con riferimento al mancato contenimento della pena entro il minimo edittale. Evidenzia che risulta del tutto generico il riferimento alla concreta gravità dei fatti ed alla negativa personalità dell'imputata, specie se si considera che la pena inflitta è superiore a quella minima edittale; che, dunque, la Corte territoriale avrebbe dovuto adottare una motivazione più specifica e dettagliata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso di Mi.Na. è inammissibile. Invero, l'unico motivo cui è affidato non è consentito, atteso che è costituito da mere doglianze di fatto, tutte finalizzate a prefigurare una rivalutazione alternativa delle fonti probatorie, estranee al sindacato di legittimità. In particolare, sollecita una rivalutazione delle risultanze probatorie, discutendo il peso attribuito a questo o a quell'elemento vagliato, ma non evidenziando -contrariamente a quanto predicato - manifeste illogicità motivazionali, né travisamento della prova. A questo proposito, va ricordato che il controllo di legittimità concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicché il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di cassazione. Ne consegue che sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sezione 3, n. 17395 del 24/1/2023, Chen Wenjian, Rv. 284556 - 01; Sezione 5, n. 26455 del 9/6/2022, Dos Santos Silva, Rv. 283370 - 01; Sezione 2, n. 9106 del 12/2/21, Caradonna, Rv. 280747 - 01; Sezione 5, n. 48050 del 2/7/2019, S., Rv. 277758 - 01; Sezione 5, n. 19970 del 15/3/2019, Girardi, Rv. 275636 - 01; Sezione 3, n. 18521 del 11/1/2018, Ferri, Rv. 273217 - 01). Peraltro, la sentenza impugnata in relazione alla ricostruzione dei fatti ascritti all'imputato costituisce una c.d. doppia conforme della decisione di primo grado, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stato rispettato sia il parametro del richiamo da parte della sentenza d'appello a quella del Tribunale, sia l'ulteriore parametro costituito dal fatto che entrambe le decisioni adottano i medesimi criteri nella valutazione delle prove (Sezione 2, n. 6560 del 8/10/2020, Capozio, Rv. 280654 - 01). Deve esser evidenziato, inoltre, che il motivo è reiterativo di medesime doglianze inerenti alla ricostruzione dei fatti e all'interpretazione del materiale probatorio già espresse in sede di appello ed affrontate in termini precisi e concludenti dalla Corte territoriale, che ha evidenziato - con riferimento al reato di cui al capo 7) - come costituisca mera illazione quella secondo la quale la persona offesa avrebbe riferito delle minacce ricevute perché indotta dalla polizia giudiziaria, tenuto conto che non ha mostrato ostilità nei confronti degli imputati, non si è costituita parte civile ed ha effettuato una puntuale ricostruzione dell'accaduto, che ha trovato conferma nelle risultanze delle intercettazioni ambientali; come il riferimento alle minacce ricevute solo in sede di integrazione della denunzia trovi spiegazione nella circostanza per cui, tenuto conto del valore modesto dei beni sottratti e del mancato uso di violenza fisica, la persona offesa si sia determinata a sporgere denunzia solo per senso civico e che solo successivamente abbia avuto modo di rivalutare l'accaduto. Quanto al reato di cui al capo 15), i giudici di appello hanno valorizzato - tra l'altro - i) gli esiti delle operazioni di captazione, che hanno consentito di ascoltare le conversazioni intercorse all'atto della partenza ("a cinesi dovremmo andare") ed al ritorno dalla spedizione predatoria, ii) la circostanza che l'autovettura utilizzata per commettere la rapina è stata ripresa dal sistema di videosorveglianza del comune del luogo in cui è avvenuta l'aggressione in danno della persona offesa in orario del tutto compatibile, iii) il tipo di autovettura cui ha fatto riferimento il cittadino cinese rapinato. Quanto, infine, al reato di cui al capo 21), il provvedimento impugnato ha ricostruito il furto praticamente "in diretta", grazie alle intercettazioni delle conversazioni intercorse all'interno dell'autovettura utilizzata, che contengono riferimenti inequivoci alla azione criminosa messa a segno, per cui ha ritenuto irrilevante la discrasia sulla tonalità del colore grigio dell'autovettura come riferita dalla persona offesa ed il riferimento alla somma di cinquanta Euro, inferiore a quella complessiva sottratta alla cittadina cinese, di cui ha ritenuto costituisse solo una parte, contenuta in una tasca della borsa. Trattasi di motivazione congrua, esaustiva e immune da vizi logici, per cui non è censurabile in sede di legittimità. 2. Il ricorso di Hu.Si. è inammissibile per le stesse ragioni indicate sub 1, cui sul punto integralmente si rinvia. Invero, contiene le stesse doglianze in fatto già sviluppate dal coimputato Mi.Na. relative al reato di cui al capo 15), che mirano ad ottenere una diversa rivalutazione delle prove, preclusa alla Corte di legittimità. 3. Il ricorso di Fu.Do. è inammissibile. Reputa il Collegio che il profilo relativo alla mancata disapplicazione della recidiva sia aspecifico, atteso che non si confronta con la trama argomentativa del provvedimento impugnato, che ha evidenziato come debba ritenersi sussistente il legame tra le condanne annotate nel certificato del casellario giudiziale ed i fatti per cui si procede, in ragione della inefficacia della comminatoria penale rispetto ad una personalità altamente trasgressiva, quale quella del ricorrente, tale da far ritenere accentuata e più intensa la sua pericolosità. In altri termini, la Corte territoriale ha valutato che le pregresse condotte criminose siano indicative "di una persistenza di stimoli criminogeni e, dunque, di una perdurante inclinazione al delitto atta a influire quale fattore criminogeno per la commissione della nuova azione delittuosa". Ebbene, a fronte di questo articolato percorso logico argomentativo, il difensore glissa, limitandosi genericamente a denunciare la carenza motivazionale. Come reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (Sezione 6, n. 23014 del 29/4/2021, B., Rv. 281521 - 01; Sezione 3, n. 50750 del 15/6/2016, Dantese, Rv. 268385 - 01; Sezione 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849; Sezione 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano Rv. 236945 - 01). Inammissibile, infine, è il profilo relativo al bilanciamento delle circostanze, essendo la motivazione esente da manifesta illogicità, con la conseguenza che è insindacabile in cassazione (Sezione 3, n. 1913 del 20/12/2018, Carillo, Rv. 275509 - 03; Sezione 6, n. 42688 del 24/9/2008, Caridi, Rv. 242419 - 01). Ed invero, il giudizio di comparazione tra opposte circostanze, che può legittimare la diminuzione della pena, presuppone una valutazione di fatto che, se adeguatamente motivata, si sottrae al sindacato di legittimità della Corte di cassazione (Sezioni Unite, n. 10713 del 25/2/2010, Contaldo, Rv. 245931 -01; Sezione 2, n. 31543 del 8/6/2017, Pennelli, Rv. 270450 - 01). Nel caso di specie, va evidenziato che la Corte territoriale ha negato la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche nel giudizio di bilanciamento con le contestate circostanze aggravanti, valorizzando la obbiettiva gravità del fatto, desunta dalle sperimentate modalità esecutive e dalla pluralità di circostanze aggravanti, oltre che dalla negativa personalità del ricorrente, desunta dai precedenti penali specifici da cui risulta gravato. Trattasi di motivazione all'evidenza né arbitraria, né illogica. 4. Il ricorso di Ri.Va. è inammissibile. Invero, il dedotto vizio motivazionale in ordine alla congruità della pena non è ammesso dalla legge in sede di legittimità: le statuizioni relative al quantum della pena, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione (Sezione 2, n. 36104 del 27/4/2017, Mastro, Rv. 271243 - 01), tale dovendo ritenersi quella dell'impugnata sentenza che ha stimato decisive - tra l'altro - le modalità allarmanti della condotta criminosa, anche considerato il coinvolgimento in plurimi delitti di un minore, pur a fronte di una pena determinata in misura di poco superiore al minimo edittale. Dunque, in tema di dosimetria della pena, per costante giurisprudenza non vi è margine per il sindacato di legittimità quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge ed ai canoni di logica, in aderenza ai principi enunciati dagli artt. 132 e 133 cod. pen. 5. All'inammissibilità dei ricorsi segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di Euro tremila ciascuno, così equitativamente fissata. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il giorno 8 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6902 del 2023, proposto da -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Torino, via (...); contro -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante, non costituito in giudizio; Ministero dell'Istruzione e del Merito, -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti -OMISSIS-, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte Sezione Seconda n. -OMISSIS-, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni intimate; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024 il Cons. Marco Morgantini e udito per la parte appellante l'Avv. An. Ve.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue; FATTO e DIRITTO 1. L'appellante ha sostenuto l'esame di Stato nel secondo ciclo di istruzione per l'anno scolastico 2020/21, per il conseguimento del diploma di maturità classica presso -OMISSIS-, ottenendo un voto pari a 93/100 così composto: - 55 punti per il credito scolastico; - 37 punti per il colloquio finale; - 1 punto per il punteggio integrativo di cui all'art. 18, co. 5, d.lgs. 62/2017 e all'art. 16, co. 8, lett. b), dell'ordinanza del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (O.M.) n. 53/2021, in relazione al criterio - stilato dalla sottocommissione d'esame il 14 giugno 2021 - "per un'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano sia in lingua straniera". Con la sentenza appellata è stato respinto il ricorso proposto avverso la mancata attribuzione di ulteriori 3 punti integrativi e il mancato conseguimento di un voto complessivo pari a 96/100. La motivazione della sentenza appellata fa riferimento alle seguenti circostanze. La ricorrente ha impugnato l'esito dell'esame di Stato per vari profili di violazione di legge ed eccesso di potere, sostenendo che la sottocommissione d'esame si sia immotivatamente discostata dai criteri da essa stessa fissati, con il verbale della riunione del 14 giugno 2021, per l'attribuzione del punteggio integrativo. La candidata, avendo conseguito una valutazione pari a 37 punti nel colloquio finale, avrebbe dovuto ottenere - oltre al punto assegnatole per l'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano sia in lingua straniera - i seguenti punteggi premiali: - 1 punto per una valutazione alta del colloquio (pari, cioè, al range di voti tra 35 e 37); - 1 punto per un elaborato (che ciascun candidato doveva redigere e discutere all'inizio del colloquio) di elevata qualità ; - 1 punto per una conduzione globale del colloquio di elevata qualità . Il Tar ha osservato che il punteggio integrativo attribuibile ai candidati all'esame di Stato è previsto dall'art. 18, co. 5, d.lgs. 62/2017, in forza del quale "la commissione d'esame può motivatamente integrare il punteggio fino a un massimo di cinque punti ove il candidato abbia ottenuto un credito scolastico di almeno trenta punti e un risultato complessivo nelle prove d'esame pari almeno a cinquanta punti". Per l'esame di Stato relativo all'anno scolastico 2020/21, l'O.M. n. 53/2021, all'art. 16, co. 8, lett. b), chiarisce che, in sede di riunione preliminare, la sottocommissione definisce "i criteri per l'eventuale attribuzione del punteggio integrativo, fino a un massimo di cinque punti per i candidati che abbiano conseguito un credito scolastico di almeno cinquanta punti e un risultato nella prova di esame pari almeno a trenta punti". Nel caso di specie, la sottocommissione d'esame, nella riunione preliminare del 14 giugno 2021, ha fissato i seguenti criteri per l'attribuzione del punteggio integrativo: "1) 2 punti per una valutazione altissima (p. 38-40) del colloquio; 2) 1 punto per una valutazione alta (p. 35-37) del colloquio; 3) 1 punto per un'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano che in lingua straniera; 4) 1 punto per un elaborato di elevata qualità ; 5) 1 punto per una conduzione globale del colloquio di elevata qualità ". Dagli artt. 18, co. 5, d.lgs. 62/2017 e 16, co. 8, lett. b), O.M. n. 53/2021 emerge che il punteggio integrativo è una votazione premiale di natura prettamente eventuale e, dovendo essere adeguatamente motivata dalla commissione, con portata eccezionale. In altri termini, la regola è la mancata spettanza del punteggio integrativo, mentre il suo riconoscimento costituisce un'eccezionale facoltà attribuita alla commissione in relazione a speciali qualità dimostrate dal candidato durante il corso di studi o all'esame finale. Ne consegue, secondo il Tar, che la decisione di non assegnare in tutto o in parte il punteggio integrativo non deve essere motivata, la motivazione essendo richiesta solamente se la commissione decide di premiare lo studente. Legittimamente, dunque, la sottocommissione ha illustrato la ragione per cui ha assegnato alla ricorrente 1 punto per la fluidità e la correttezza espressiva sia in italiano che in lingua straniera, mentre non era tenuta a giustificare la mancata attribuzione di ulteriori punti premiali. Il Tar ha ritenuto che, avuto riguardo al carattere premiale ed eccezionale del punteggio integrativo, non può ritenersi che l'attribuzione di 37 punti per il colloquio finale imponesse altresì di assegnare alla ricorrente 1 punto "per una valutazione alta (p. 35-37) del colloquio". Non può esservi alcun automatismo tra il voto del colloquio e l'assegnazione del punteggio integrativo, perché altrimenti esso perderebbe la sua funzione premiale e si tramuterebbe in uno strumento di livellamento al rialzo dei voti dell'esame. Né può sostenersi che la sottocommissione si fosse autovincolata in tal senso, inserendo la valutazione alta del colloquio tra i criteri per l'attribuzione del punteggio integrativo. La valutazione del colloquio è, per l'appunto, solo un criterio a cui ispirarsi per il riconoscimento del punteggio integrativo, il quale rimane, però, eventuale. L'autovincolo insiste sull'elemento premiale, nel senso che la commissione non avrebbe potuto valorizzare criteri diversi da quelli precedentemente enucleati, e non anche sull'an dell'attribuzione del punteggio. Di riflesso, ha osservato il Tar, la commissione non era tenuta ad attribuire neppure gli ulteriori 2 punti "per un elaborato di elevata qualità " e "per una conduzione globale del colloquio di elevata qualità ", che la ricorrente pretende le venissero assegnati in via ulteriormente automatica, in ragione della votazione alta conseguita in sede di colloquio finale. Il Tar ha ritenuto inammissibili le impugnazioni proposte avverso: - il certificato d'esame, in quanto privo delle diciture "rilasciato ai fini dell'acquisizione d'ufficio" e "rilasciato solo per l'estero", imposte dalla normativa sulle certificazioni (primo atto di motivi aggiunti); - le relazioni predisposte dal presidente della sottocommissione e dalla coordinatrice didattica a seguito del ricorso, sia per invalidità derivata dai vizi censurati con il ricorso introduttivo, sia perché provenienti da singoli membri della commissione e dunque violativi del principio della collegialità della valutazione, sia perché contenenti indebite e, comunque, non condivisibili integrazioni postume della motivazione provvedimentale (primo atto di motivi aggiunti); - la relazione integrativa predisposta nel corso del giudizio dal presidente della sottocommissione, sia invalidità derivata, sia per difetto assoluto di attribuzioni in quanto redatta dopo lo scioglimento della commissione, sia perché contenente ulteriori integrazioni postume della motivazione provvedimentale (secondo e terzo atto di motivi aggiunti). Infatti il certificato d'esame e le relazioni istruttorie sono atti non provvedimentali, come tali non lesivi e, di conseguenza, insuscettibili di impugnazione. Il certificato si limita ad attestare l'esito dell'esame sostenuto dalla ricorrente, mentre le relazioni sono redatte dall'amministrazione all'unico fine di aiutare l'Avvocatura di Stato nella predisposizione della difesa. Né l'uno né gli altri producono effetti giuridici, tantomeno lesivi, per la ricorrente. Con il primo atto di motivi aggiunti al ricorso di primo grado, la ricorrente ha mosso all'esito dell'esame una nuova censura di eccesso di potere per disparità di trattamento, perché la sottocommissione avrebbe attribuito 2 punti premiali ad altra candidata "per una valutazione altissima (p. 38-40) del colloquio". Il Tar ha ritenuto tale doglianza è inammissibile perché priva del requisito della "distinzione", imposto dall'art. 40, co. 1, lett. d), cod. proc. amm., essendo stata formulata nel medesimo motivo incentrato sull'impugnazione delle relazioni istruttorie, che tra l'altro sono atti insuscettibili d'impugnazione, e non in apposita parte del gravame dedicata a tale elemento, di cui il motivo costituisce il nucleo essenziale e centrale. Il Tar ha anche ritenuto la medesima censura destituita di fondamento, perché l'esame di Stato non è una procedura comparativa, sicché le votazioni dei candidati non si influenzano reciprocamente. I punteggi integrativi sono assegnati in relazione alle specifiche qualità dei singoli esaminandi, senza alcuna comparazione tra gli stessi. Ne consegue che l'attribuzione di 2 punti premiali ad altra candidata, oltretutto per il diverso criterio relativo alla valutazione altissima del colloquio, non imponeva alla sottocommissione di riconoscere alla ricorrente 1 punto per la valutazione alta del colloquio. 2. Parte appellante deduce i motivi di ricorso articolati in primo grado con l'atto introduttivo del giudizio e con i motivi aggiunti, al fine della loro devoluzione al Consiglio di Stato in sede d'appello e lamenta che avrebbero dovuto essere attribuiti alla candidata i 3 punti previsti a titolo di bonus che le avrebbero consentito di raggiungere il punteggio complessivo e finale di 96/100. Parte appellante fa genericamente riferimento (pagine 11 e 12 dell'appello) alla possibilità di riproporre in appello una censura non delibata dal giudice di primo grado. Tuttavia non specifica in modo adeguato quali sarebbero le censure non delibate dal giudice di primo grado. Ne consegue l'inammissibilità dell'appello nella sola parte in cui sono riproposti i motivi di censura proposti in primo grado senza che siano formulate specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, richieste invece dal primo comma dell'art. 101 del cod. del proc. amm. Infatti il principio di specificità dei motivi di impugnazione, posto dall'art. 101, comma 1, c.p.a., impone che sia formulata una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, non essendo sufficiente la mera riproposizione dei motivi contenuti nel ricorso introduttivo (Consiglio di Stato sez. II, 20 febbraio 2020, n. 1308). Il fatto che l'appello sia un mezzo di gravame ad effetto devolutivo, non esclude l'obbligo dell'appellante di indicare nell'atto le specifiche critiche rivolte alla sentenza impugnata e, inoltre, i motivi per i quali le conclusioni del primo giudice non sono condivisibili, non potendo il ricorso in appello limitarsi ad una generica riproposizione degli argomenti originariamente dedotti (così Consiglio di Stato VII n° 659 del 22 gennaio 2024). Il collegio esamina pertanto l'appello limitatamente alle specifiche censure formulate avverso la sentenza appellata, a prescindere dal superamento dei limiti dimensionali dell'appello. 3. Ciò premesso parte appellante contesta la sentenza appellata ove afferma (p.ti 5.3 e 5.4 sentenza impugnata) "(...) che il punteggio integrativo è una votazione premiale di natura prettamente eventuale e, dovendo essere adeguatamente motivata dalla commissione, con portata eccezionale" per poi stabilire, illogicamente, poche righe dopo, "La decisione di non assegnare in tutto o in parte il punteggio integrativo non deve essere motivata". Secondo parte appellante tale affermazione sarebbe smentita dalla giurisprudenza che fa riferimento all'inapplicabilità al caso di specie della regola della sufficienza del voto numerico -come pure sostenuta dalla amministrazione resistente - in presenza del vincolo esplicito posto dal citato comma 9, art. 18, o.m. n. 65 del 2022, in ordine alla motivazione specifica che deve accompagnare ogni deliberazione. 3 - bis. Le censure sono infondate. Parte appellante, oltre al punto assegnatole per l'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano sia in lingua straniera - chiede il riconoscimento dei seguenti ulteriori punteggi premiali: - 1 punto per una valutazione alta del colloquio (pari, cioè, al range di voti tra 35 e 37); - 1 punto per un elaborato (che ciascun candidato doveva redigere e discutere all'inizio del colloquio) di elevata qualità ; - 1 punto per una conduzione globale del colloquio di elevata qualità . Il Tar ha correttamente osservato che il punteggio integrativo attribuibile ai candidati all'esame di Stato è previsto dall'art. 18, co. 5, d.lgs. 62/2017, in forza del quale la commissione d'esame può motivatamente integrare il punteggio fino a un massimo di cinque punti ove il candidato abbia ottenuto un credito scolastico di almeno trenta punti e un risultato complessivo nelle prove d'esame pari almeno a cinquanta punti. Per l'esame di Stato relativo all'anno scolastico 2020/21, l'O.M. n. 53/2021, all'art. 16, co. 8, lett. b), chiarisce che, in sede di riunione preliminare, la sottocommissione definisce i criteri per l'eventuale attribuzione del punteggio integrativo, fino a un massimo di cinque punti per i candidati che abbiano conseguito un credito scolastico di almeno cinquanta punti e un risultato nella prova di esame pari almeno a trenta punti. Nel caso di specie, la sottocommissione d'esame, nella riunione preliminare del 14 giugno 2021, ha fissato i seguenti criteri per l'attribuzione del punteggio integrativo: 1) 2 punti per una valutazione altissima (p. 38-40) del colloquio; 2) 1 punto per una valutazione alta (p. 35-37) del colloquio; 3) 1 punto per un'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano che in lingua straniera; 4) 1 punto per un elaborato di elevata qualità ; 5) 1 punto per una conduzione globale del colloquio di elevata qualità . Dagli artt. 18, co. 5, d.lgs. 62/2017 e 16, co. 8, lett. b), O.M. n. 53/2021 emerge che il punteggio integrativo è una votazione premiale di natura prettamente eventuale e, dovendo essere adeguatamente motivata dalla commissione, con portata eccezionale. In altri termini, la regola è la mancata spettanza del punteggio integrativo, mentre il suo riconoscimento costituisce un'eccezionale facoltà attribuita alla commissione in relazione a speciali qualità dimostrate dal candidato durante il corso di studi o all'esame finale. Ne consegue che la decisione di non assegnare in tutto o in parte il punteggio integrativo non deve essere motivata, la motivazione essendo richiesta solamente se la commissione decide di premiare lo studente. Legittimamente, dunque, la sottocommissione ha illustrato la ragione per cui ha assegnato alla ricorrente 1 punto per la fluidità e la correttezza espressiva sia in italiano che in lingua straniera, mentre non era tenuta a giustificare la mancata attribuzione di ulteriori punti premiali. D'altro canto la stessa parte appellante ha ottenuto un punto premiale in relazione all'efficace fluidità e compiuta correttezza espressiva sia in italiano che in lingua straniera. Anche tale circostanza induce il collegio a ritenere che l'esame sia stato nel suo complesso adeguatamente valutato, anche con riferimento al punteggio premiale. 4. Secondo parte appellante sarebbe irragionevole, contraddittoria e perplessa la condotta dell'Amministrazione, e quindi il relativo capo di sentenza, nella misura in cui dapprima, in sede di valutazione del colloquio, attribuiva alla ricorrente la votazione di n. 37 punti, salvo poi non assegnare all'appellante il punto integrativo previsto dalla Commissione stessa per le "valutazioni" della prova orale comprese tra n. 35 e n. 37 punti. Secondo parte appellante le avrebbe dovuto essere attribuito n. 1 punto integrativo, ulteriore a quello ottenuto, in ragione della "valutazione alta" del colloquio, documentalmente acclarata dalla Sottocommissione, che ha deliberatamente attribuito n. 37 punti al colloquio svolto dall'Appellante. La sentenza appellata sarebbe errata ove afferma l'assenza di un automatismo tra il voto del colloquio e l'attribuzione del punteggio integrativo. A fronte di siffatta specifica previsione contenuta nei criteri predeterminati dalla commissione, verificata l'esistenza del presupposto (voto di esame ricompreso tra i limiti di 35 e 37) deve conseguire l'effetto predeterminato in sede di formulazione dei criteri di valutazione. 4 - bis. Le censure sono infondate. Infatti, avuto riguardo al carattere premiale ed eccezionale del punteggio integrativo, non può ritenersi che l'attribuzione di 37 punti per il colloquio finale imponesse altresì di assegnare alla ricorrente 1 punto "per una valutazione alta (p. 35-37) del colloquio". Non può esservi alcun automatismo tra il voto del colloquio e l'assegnazione del punteggio integrativo, perché altrimenti esso perderebbe la sua funzione premiale e si tramuterebbe in uno strumento di livellamento al rialzo dei voti dell'esame. Né può sostenersi che la sottocommissione si fosse autovincolata in tal senso, inserendo la valutazione alta del colloquio tra i criteri per l'attribuzione del punteggio integrativo. La valutazione del colloquio è, per l'appunto, solo un criterio a cui ispirarsi per il riconoscimento del punteggio integrativo, il quale rimane, però, eventuale. Il vincolo sussiste nel senso che la commissione non avrebbe potuto valorizzare criteri diversi da quelli enucleati, e non invece nel senso che avrebbe avuto l'obbligo di attribuire il punteggio. 5. Parte appellante censura la mancata attribuzione del punto integrativo che la sottocommissione stessa aveva stabilito di riconoscere per la "conduzione globale del colloquio di elevata qualità ". Secondo parte appellante l'attribuzione alla medesima di 37 punti (su un totale di 40) per la prova orale, contiene il corrispondente giudizio di eccellenza per "l'elevata qualità della conduzione globale del colloquio" della candidata, che pertanto avrebbe dovuto trovare riconoscimento anche nella gestione del punteggio integrativo. La stessa sottocommissione, nel riconoscere alla ricorrente l'unico punto integrativo per la fluidità e correttezza espressiva, qualifica "elevata" la competenza linguistica valorizzata in sede di esame orale con una valutazione "altissima", ossia con il voto massimo a disposizione della Sottocommissione (5/5) ad avviso della quale la ricorrente "si esprime con ricchezza e piena padronanza lessicale e semantica, anche in riferimento al linguaggio tecnico e/o di settore". Se ne dovrebbe desumere che la Sottocommissione avrebbe qualificato "elevata" la competenza valorizzata in sede di esame orale con una valutazione "altissima" (sub criterio riferito alla "ricchezza e padronanza lessicale e semantica" per la quale è stato attribuito il punteggio di "5/5"). 5 - bis. La censura è inammissibile perché non contiene specifica censura nei confronti della sentenza appellata. La censura è altresì infondata. Infatti non può esservi alcun automatismo tra il voto del colloquio e l'assegnazione del punteggio integrativo, perché altrimenti il punteggio integrativo perderebbe la sua funzione premiale e si tramuterebbe in uno strumento di livellamento al rialzo dei voti dell'esame. Né può sostenersi che la sottocommissione si fosse autovincolata in tal senso, inserendo la valutazione alta del colloquio tra i criteri per l'attribuzione del punteggio integrativo. La valutazione del colloquio è, per l'appunto, solo un criterio a cui ispirarsi per il riconoscimento del punteggio integrativo, il quale rimane, però, eventuale. Il vincolo sussiste nel senso che la commissione non avrebbe potuto valorizzare criteri diversi da quelli enucleati, e non invece nel senso che avrebbe avuto l'obbligo di attribuire il punteggio. Né, come vorrebbe invece parte appellante, doveva essere riconosciuto il punteggio integrativo per la conduzione globale del colloquio di elevata qualità per avere ottenuto il diverso punteggio premiale integrativo per la fluidità e correttezza espressiva. 6. Parte appellante lamenta che la sentenza appellata non avrebbe affrontato la questione relativa alla mancata attribuzione del punto che la sottocommissione stessa aveva stabilito di riconoscere ai candidati che avessero presentato "un elaborato di elevata qualità ", come previsto dal criterio n. 5 dell'elenco di cui al verbale n. 2 delle Sottocommissioni. Fa riferimento alla circostanza che la Sottocommissione aveva elaborato il criterio per cui si deve considerare elevata" la "qualità " dell'elaborato a prescindere dalla valutazione e dal punteggio ottenuti per il colloquio. 6 - bis. La censura è inammissibile perché non contiene specifica censura nei confronti della sentenza appellata che ha motivato sul punto. La censura è inoltre infondata. La decisione di non assegnare in tutto o in parte il punteggio integrativo non deve essere motivata, la motivazione essendo richiesta solamente se la commissione decide di premiare lo studente. La commissione non era tenuta ad attribuire gli ulteriori 2 punti per un elaborato di elevata qualità . Il vincolo sussiste nel senso che la commissione non avrebbe potuto valorizzare criteri diversi da quelli enucleati, e non invece nel senso che avrebbe avuto l'obbligo di attribuire il punteggio. 7. Parte appellante ripropone i primi motivi aggiunti di ricorso con cui si è contestato nel giudizio di primo grado, oltre al certificato d'esame, la relazione a firma della -OMISSIS-e la relazione a firma del Presidente della Commissione d'esame (nonché il verbale n. 13 relativo all'attribuzione del voto finale, integrato dei punteggi riconosciuti agli altri candidati, se interpretato come vorrebbero le gravate relazioni) poiché costituirebbero un'inammissibile e illegittima integrazione postuma della motivazione. Parte appellante, con riferimento al certificato d'esame, lamenta che la sentenza gravata nell'assumere l'inammissibilità della censura, sarebbe viziata giacché il certificato lederebbe la sfera giuridica dell'appellante. 7 - bis. Le censure sono inammissibili perché non contengono specifiche censure avverso la sentenza appellata e per carenza d'interesse oltre che infondate. Il certificato d'esame e le relazioni istruttorie sono atti non provvedimentali, come tali non lesivi e, di conseguenza, insuscettibili di impugnazione. Il certificato si limita ad attestare l'esito dell'esame sostenuto dalla ricorrente, mentre le relazioni sono redatte dall'amministrazione all'unico fine di aiutare l'Avvocatura di Stato nella predisposizione della difesa. Né l'uno né gli altri producono effetti giuridici, tantomeno lesivi, per l'appellante. Il collegio osserva altresì che parte appellante non ha provato la lesione ed in particolare non ha provato che il certificato abbia un contenuto falso con riferimento alla propria sfera giuridica. Parte appellante, riproponendo i primi motivi aggiunti del ricorso di primo grado ha formulato censura di eccesso di potere per disparità di trattamento, perché la sottocommissione avrebbe attribuito 2 punti premiali ad altra candidata per una valutazione altissima (punteggio tra 38 e 40) del colloquio. La censura è anche infondata, perché l'esame di Stato non è una procedura comparativa, sicché le votazioni dei candidati non si influenzano reciprocamente. I punteggi integrativi sono assegnati in relazione alle specifiche qualità dei singoli esaminandi, senza alcuna comparazione tra gli stessi. La circostanza secondo cui l'esame di Stato non è una procedura comparativa, è del resto condivisa dalla stessa appellante a pagina 32 dell'appello. 8. Parte appellante ripropone i secondi motivi aggiunti proposti in primo grado, aventi ad oggetto la relazione istruttoria relativa al ricorso al TAR a a firma del Presidente della Commissione d'esame e relativi allegati. 8 - bis. Le censure sono inammissibili perché non contengono specifiche censure verso la sentenza appellata e perché non sussiste l'interesse, trattandosi di documenti a supporto della difesa erariale e non di provvedimenti. 9. Parte appellante formula istanza istruttoria per l'acquisizione in giudizio degli atti del procedimento gravato, nonché per l'esibizione dell'originale della griglia di valutazione della prova orale, istanza già respinta nel giudizio di primo grado. 9 - bis. Il collegio respinge l'istanza istruttoria, essendo sufficiente il quadro probatorio esistente ai fini della decisione. In conclusione l'appello deve essere respinto. Le spese dell'appello possono essere compensate, essendosi l'Amministrazione costituita in appello solo formalmente. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese dell'appello compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Vista la richiesta dell'interessato e ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, comma 1, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, incarica la Segreteria di precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, l'indicazione delle sole generalità della parte appellante. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere, Estensore Laura Marzano - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7690 del 2023, proposto da An. Al. ed altri, tutti rappresentati e difesi dall'Avvocato Se. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Treviso, via (...); contro Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministero pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Consap - Concessionaria Servizi Assicurativi Pubblici s.p.a., non costituita in giudizio; Commissione Tecnica del Fondo Indennizzo Risparmiatori, non costituita in giudizio; nei confronti Ve. Ba. s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, non costituita in giudizio; Ba. Po. di Vi. s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, non costituita in giudizio; Ca. Gi., non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza n. 2489 del 13 febbraio 2023 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. II, resa tra le parti, che ha respinto il ricorso contro il silenzio proposto in primo grado dagli odierni appellanti e volto, previo riconoscimento dell'errore scusabile e conseguente rimessione in termini ex art. 37 c.p.a. dei ricorrenti, a fare comunque annullare in via subordinata i provvedimenti emessi nei confronti dei ricorrenti, prodotti dal n. 1 al n. 163) con cui è stato negato l'accesso al Fondo Indennizzo Risparmiatori (FIR) e, in particolare, nella parte in cui, dopo aver ritenuto insussistenti i requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario, hanno concluso che "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145, ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024 il Consigliere Massimiliano Noccelli e viste le conclusioni delle parti come da verbale; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. I ricorrenti indicati in epigrafe sono risparmiatori danneggiati dalle vicende che hanno riguardato la Ve. Ba. e la Ba. Po. di Vi., poste entrambe in liquidazione coatta amministrativa. 1.1. Nel mese di febbraio 2020 hanno presentato domanda per ottenere l'erogazione di un indennizzo forfettario da parte del Fondo indennizzo risparmiatori (FIR) previsto dall'art. 1, comma 493, della legge del 30 dicembre 2018, n. 145, in favore dei risparmiatori danneggiati dalle banche poste in liquidazione coatta amministrativa, "dopo il 16 novembre 2015 e prima del 1° gennaio 2018", al ricorrere dei presupposti ivi stabiliti. 1.2. Nel periodo compreso tra il 7 dicembre 2021 e il 28 dicembre 2021 hanno ricevuto, tramite la piattaforma predisposta da parte di Cosap che gestisce le richieste di indennizzo, prima la comunicazione sul "cambio di stato" della loro domanda di indennizzo e dopo il rigetto della domanda. 1.3. In particolare, Consap faceva pervenire all'interessato la comunicazione secondo cui, testualmente, "in relazione alla Sua posizione, come certificato dall'AdE, non sono stati soddisfatti i requisiti reddito-patrimoniali ai fini dell'accesso alla procedura di indennizzo forfettario di cui all'art, 1, co. 502 bis, L. 30.12.2018, n. 145" e "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145, ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". 1.4. Benché la domanda di indennizzo forfettario fosse stata respinta da Consap, i ricorrenti hanno ritenuto che il procedimento per il riconoscimento dell'indennizzo non si fosse in realtà concluso in quanto l'amministrazione avrebbe dovuto comunque convertire la domanda di indennizzo forfettario (art. 1, comma 502-bis) in domanda di indennizzo ordinario (art. 1, comma 501) in virtù dell'auto-vincolo espresso con la Comunicazione della Segreteria Tecnica di Consap del 6 agosto 2020. 1.5. Quest'ultimo atto prevede infatti che in caso di controllo negativo sui requisiti reddituali posti a fondamento della domanda di indennizzo ordinario "sarà inviata all'utente apposita richiesta di integrazione istruttoria al fine di raccogliere, in primo luogo, l'eventuale dichiarazione sul possesso del requisito patrimoniale (< 100.000 euro), e, in secondo luogo ed in via alternativa - dunque in mancanza dei requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario - la documentazione relativa alle violazioni massive del T.U.F.". 1.6. Dopo aver diffidato in data 20 ottobre 2022 il Ministero dell'Economia e delle Finanze e Consap s.p.a. a concludere il procedimento mediante "passaggio alla procedura di indennizzo ordinaria di cui all'art. 1, co. 493, L. 30.12.2018, n. 145" previa acquisizione della "documentazione volta a comprovare il possesso dei relativi requisiti", gli istanti hanno impugnato avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma (di qui in avanti, per brevità, il Tribunale), il silenzio formatosi sulla predetta diffida chiedendo di accertare "il silenzio-inadempimento delle Amministrazioni resistenti per quanto di rispettiva competenza, alla determinazione dalla Commissione Tecnica assunta nella seduta del 06.08.2021 e all'atto di diffida di cui sopra" ai sensi e per gli effetti degli artt. 31 e 117 c.p.a. 1.7. In via subordinata, i ricorrenti in prime cure hanno altresì proposto domanda di annullamento, previa rimessione in termini ex art. 37 c.p.a., dei provvedimenti emessi nei lori confronti con cui è stato negato l'accesso all'indennizzo forfettario di cui all'art. 1, comma 501, della l. n. 145 del 2018. 1.8. Le pubbliche amministrazioni intimate si sono costituite nel primo grado del giudizio soltanto formalmente. 1.9. All'udienza dell'8 febbraio 2023, dopo la discussione di rito, la causa è stata trattenuta in decisione dal primo giudice. 2. Il Tribunale, con la sentenza n. 2489 del 13 febbraio 2023, ha respinto il ricorso contro il silenzio. 2.1. In particolare, il primo giudice, richiamando la sentenza n. 664 del 29 gennaio 2023 di questa Sezione, ha statuito che non sussiste l'obbligo di provvedere sull'istanza di parte ricorrente in quanto l'amministrazione non è obbligata a convertire la domanda di indennizzo forfettario che è stata rigettata in domanda di indennizzo massivo, attesa l'autonomia dei due distinti procedimenti, né in base alla legge (all'art. 1, commi da 493/501-bis, della l. n. 145 del 2018), né in base ad atti di auto-vincolo (deliberazione della Segreteria Tecnica di Consap del 6 agosto 2020). 2.2. Di conseguenza, non sussistono gli estremi per concedere la rimessione in termini ai sensi dell'art. 37 c.p.a. al fine di poter ritenere tempestivamente impugnati i provvedimenti di rigetto delle domande di indennizzo forfettario conosciute nel mese di dicembre 2021. 2.3. Sempre secondo il primo giudice, infatti, i ricorrenti avrebbero con le loro censure posto una questione sostanziale, nell'assumere che l'art. 1, comma 501, della l. n. 148 del 2018 non preclude la possibilità di applicare il procedimento ordinario anche alle domande attivate tramite il canale dell'indennizzo forfettario (art. 1, comma 502-bis). 2.4. Si tratterebbe tuttavia di una questione che attiene al merito della controversia che non incide, in quanto tanto, sull'esercizio del potere processuale di reagire contro la comunicazione del rigetto della domanda di indennizzo forfettario ricevuto da Cosap che i ricorrenti avrebbero potuto senza altro impugnare anziché attendere la conversione del procedimento, conversione che, peraltro, non era stata neppure comunicata in via diretta. 3. Avverso questa sentenza hanno proposto appello gli interessati, meglio in epigrafe indicati, lamentandone l'erroneità, e ne hanno chiesto la riforma, al fine di far riconoscere, in via preliminare, l'errore scusabile e conseguentemente, previa rimessione in termini ex art. 37 c.p.a. dei ricorrenti, accogliere il ricorso di primo grado - se ritenuto necessario, anche previa sottoposizione della questione di costituzionalità formulata - e per l'effetto annullare i provvedimenti emessi nei confronti dei ricorrenti, prodotti dal n. 1 al n. 163, che hanno negato l'accesso all'indennizzo e, in particolare, nella parte in cui, dopo aver ritenuto insussistenti i requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario, hanno concluso che "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145., ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". 3.1. Si è costituito il Ministero appellato per eccepire l'inammissibilità e, nel merito, l'infondatezza dell'appello. 3.2. Nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024 il Collegio, non essendo presenti i difensori delle parti, ha comunque rilevato d'ufficio, facendola constare a verbale, ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a., la questione inerente all'eventuale irricevibilità dell'appello per violazione del termine dimidiato di cui all'art. 87, commi 2 e 3, c.p.a. e, all'esito, ha trattenuto la causa in decisione. 4. L'appello è irricevibile. 5. Invero, come il Collegio ha rilevato d'ufficio nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024, ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a., nell'assenza dei difensori delle parti (che non può precludere al Collegio, solo per la scelta di non presenziare all'udienza da parte di questi, la possibilità di indicare questioni rilevabili d'ufficio in udienza e di farle constare a verbale), l'appello presenta evidenti profili di irricevibilità (art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a.) perché esso è stato notificato il 25 settembre 2023, ben oltre il termine di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza impugnata. 6. Al riguardo si deve rammentare che il ricorso di primo grado era rivolto ai sensi dell'art. 117 c.p.a. contro il silenzio del Ministero sulla domanda di indennizzo proposta dagli appellanti e, dunque, essi avevano l'onere di impugnare la sentenza, che ha respinto la loro domanda, nel termine dimidiato previsto dall'art. 87, commi 2 e 3, c.p.a. (v., ex plurimis, C.G.A.R.S., sez. giurisd., 8 maggio 2013, n. 455). 6.1. Il rito sul silenzio è assoggettato a termini processuali dimezzati rispetto a quelli ordinari, salvo quelli concernenti la notificazione del ricorso introduttivo in primo grado (art. 87, commi 2 e 3, c.p.a.). 6.2. È noto che, secondo la previsione dell'art. 87, comma 3, c.p.a. (nel testo conseguente alle modifiche apportate dal primo correttivo del 2011), nei giudizi che si svolgono in camera di consiglio di cui al comma 2 - tra cui il giudizio in materia di silenzio - l'eccezione alla regola generale del dimezzamento dei termini processuali è circoscritta al solo giudizio di primo grado e, pertanto, tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne, nel giudizio di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 27 giugno 2022, n. 5233). 6.3. Né in senso contrario nel caso qui in esame, a giustificare la tardiva proposizione dell'appello e rendere scusabile il relativo errore, può rilevare che la trattazione del ricorso in appello - a differenza di quanto accaduto, invece, ritualmente in primo grado - sia avvenuta in udienza pubblica anziché con il rito camerale, in quanto è pure noto - anzitutto agli stessi appellanti, che non potevano incolpevolmente ignorare tale dato normativo - che ai sensi dell'art. 87, comma 4, c.p.a. la trattazione in udienza pubblica non è causa di nullità della decisione, ma costituisce anzi una maggiore garanzia di contraddittorio per le parti. 7. Da tanto discende che l'appello, notificato oltre il termine lungo dimidiato di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza, è irricevibile per tardività . 8. Le spese del presente grado del giudizio, considerato il rilievo officioso della questione nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024 nell'assenza dei difensori, possono essere interamente compensate tra le parti. 8.1. Rimane definitivamente a carico degli appellanti il contributo unificato corrisposto per la proposizione dell'irricevibile gravame. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, proposto dai ricorrenti in epigrafe indicati, lo dichiara irricevibile per tardività . Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado del giudizio. Pone definitivamente e solidalmente a carico degli appellanti il contributo unificato richiesto per la proposizione del gravame. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere, Estensore Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. APRILE Stefano - Consigliere Dott. CENTONZE Alessandro - Consigliere Dott. MONACO Marco Maria - Consigliere Dott. RUSSO Carmine - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ig.Br. (C.U.I. (Omissis)) nato il (Omissis) avverso la sentenza del 27/09/2023 della CORTE di APPELLO, SEZ. MINORENNI, di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere CARMINE RUSSO; lette le conclusioni del PG, SIMONE PERELLI, che ha chiesto l'inammissibilità del ricorso. lette le conclusioni del difensore dell'imputato, avv. Pa.Mu., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 3 marzo 2023 il Tribunale per i minorenni di Milano, in rito abbreviato, ha condannato Ig.Br. alla pena di 6 anni di reclusione per i reati di tentato omicidio aggravato in danno di Yu.Pr. e di tentata estorsione in danno di Al.Ma., fatti commessi il 17 maggio 2022. Con sentenza del 27 settembre 2023 la Corte di appello di Milano, sezione per i minorenni, ha confermato la sentenza di primo grado. 2. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso l'imputato, per il tramite del difensore, con unico motivo in cui deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al riconoscimento dell'aggravante dell'art. 576, comma 1, n. 1, cod. pen., in relazione all'art. 61, n. 2, cod. pen., atteso che il giudice del merito ha riconosciuto l'aggravante ritenendo che il reato mezzo, ovvero il tentato omicidio, sia stato commesso per realizzare il reato scopo, ovvero la tentata estorsione; però, ad avviso, del ricorrente, tale prova manca, perché la causa scatenante dell'utilizzo del coltello da parte del ricorrente era da attribuire a quanto verificatosi solo successivamente all'intervento di Pr. in difesa dell'amico Ma., intervento rapidamente degenerato prima in spintoni, e quindi in un reciproco scambio di pugni, infine nel ricorso da parte dell'imputato all'utilizzo dell'arma che aveva con sé; lo scontro fisico quindi si era verificato non in uno, ma in due momenti; la stessa sentenza riconosce che il coltello non è stato utilizzato fin dall'inizio; non è, pertanto, possibile pervenire alla conclusione che, senza l'intervento non preventivato di Pr., l'imputato avrebbe comunque estratto l'arma per minacciare Ma.; in definitiva, manca la volontà e rappresentazione della aggravante in quanto la condotta è stata tenuta soltanto come reazione estemporanea all'intervento da parte di un soggetto estraneo ai fatti. 3. Con requisitoria scritta il Procuratore generale, dr. Simone Perelli, ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. Con note scritte il difensore dell'imputato, avv. Pa.Mu., ha replicato alle conclusioni del P.G. ed insistito per l'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. Nel giudizio di legittimità il sindacato sul modo in cui il giudice del merito ha fatto concreta applicazione della regola legale dell'art. 192, comma, 1 cod. proc. pen., secondo cui "il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati", e di quella di cui al successivo comma 2, secondo cui "l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti" è molto ristretto, perché si limita al controllo logico e giuridico della struttura della motivazione dedicata all'interpretazione degli elementi probatori, con esclusione della possibilità di rivalutazione degli stessi. L'ambito di sindacato è ancora più ristretto in caso, quale quello in esame, in cui il giudizio sulla prova è oggetto di doppia conforme, atteso che nel caso in cui una statuizione della pronuncia di primo grado sia confermata in appello, ai fini del controllo di legittimità, la motivazione della sentenza di primo grado e quella della sentenza di appello si integrano vicendevolmente (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595). Nel caso in esame, l'unico motivo di ricorso affida la critica del percorso logico della sentenza impugnata e l'individuazione in esso di vizi logici alla circostanza che il coltello sia stato utilizzato dal ricorrente soltanto in un secondo momento dell'aggressione, ed in particolare soltanto dopo l'intervento di Pr., amico della persona offesa dell'estorsione. La pronuncia di appello ha affrontato questo argomento, già proposto nel giudizio di secondo grado, alle pagg. 4 e 5 della sentenza, ed ha ritenuto non sussistesse questa cesura che l'impugnazione pretende di introdurre nella lite, perché la presenza di un'arma indosso all'imputato fin dall'inizio della discussione tratteggia pienamente l'intento che animava la richiesta restitutoria, perché l'intervento di Pr. ha avuto come unica causa scatenante la condotta tenuta dall'imputato nei confronti della vittima dell'estorsione, e perché dalle dichiarazioni rese da questi si comprende che il successivo battibecco tra l'imputato e gli amici intervenuti a sostegno della vittima ha semplicemente avuto l'effetto di estendere anche a questi la condotta criminosa in atto. In questa ricostruzione effettuata dal giudice di secondo grado non ci sono vizi logici, perché il rapporto di stretta consequenzialità tra la minaccia perpetrata in danno di Ma., l'intervento degli amici di questi, l'immediata estensione dell'aggressione anche a danno di costoro - con l'utilizzo del coltello per riequilibrare i rapporto di forza che erano divenuti sbilanciati nel numero in favore degli aggrediti - rende non manifestamente illogico sia stato ritenuto dal giudice del merito la inesistenza di una cesura tra le condotte complessivamente tenute dall'imputato e sia stato ritenuto esistente, invece, un nesso teleologico tra l'aggressione in danno di Pr. e la estorsione in danno di Ma. che ne era stata la causa. Ne consegue che le doglianze mosse dal ricorrente si risolvono in una ricostruzione alternativa delle evidenze probatorie, che di per sé non è apprezzabile in sede di legittimità (Sez. 2, Sentenza n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747; Sez. 3, Sentenza n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Cammarata, Rv. 270519), il che conduce alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso. 2. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso non consegue la condanna alle spese processuali né la sanzione in favore della cassa delle ammende (Sez. U, Sentenza n. 15 del 31/05/2000, Radulovic, Rv. 216704) per effetto dell'art. 29 disp. att. c.p.m., norma ritenuta applicabile anche al giudizio di legittimità (Sez. 4, Ordinanza n. 11194 del 01/06/1999, Milanovic, Rv. 214385). 3. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 4 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

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