Sentenze recenti indennità di accompagnamento

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI ROMA SEZIONE III - LAVORO Il Giudice del Lavoro, Dott.ssa Valentina Cacace, ha pronunciato, mediante lettura contestuale delle ragioni di fatto e di diritto, ai sensi dell'art. 429 c.p.c., la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al numero 14713 del Ruolo Generale degli Affari Contenziosi dell'anno 2020, discussa e decisa all'udienza del giorno 3.5.2023 e vertente TRA (...), (...), in proprio e n.q. di eredi di (...) elettivamente domiciliati in Roma, Largo (...), presso lo studio degli avv.ti Cr.Fa. e Da.Ma. che li rappresentano e difendono, giusta delega in atti RICORRENTI E (...) s.p.a. - Azienda per la (...), in persona del legale rapp. pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via (...) presso lo studio "(...)", rappresentata e difesa dall'avv. An.De. come da procura in atti RESISTENTE OGGETTO: risarcimento danno iure successionis e iure proprio per vittima di amianto. FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato il 22.5.2020 i sigg.ri (...) e (...), premettendo che il sig. (...) (nato il (...) e deceduto il 12.11.2014) - rispettivamente proprio marito e padre - era stato dipendente della convenuta dal 3.4.1973 al 30.6.2007, data del pensionamento e che in tale periodo aveva svolto mansioni di manovale e di gommista, venendo sistematicamente a contatto con sostanze nocive sul posto di lavoro ed in particolare inalando polveri di amianto e che a causa di tale esposizione aveva contratto la malattia professionale dell'adenocarcinoma polmonare, come tale riconosciuto anche dall'Inail che in data 28.3.2014 aveva riconosciuto la tecnopatia e costituito una rendita diretta in favore dell'(...), lamentavano che in data il 12.11.2014 il proprio congiunto era deceduto a causa della malattia professionale - con conseguente riconoscimento da parte dell'Inail della rendita in favore dei superstiti - e chiedevano all'adito Tribunale: 1) che venisse accertata la responsabilità di (...) s.p.a. nella causazione della neoplasia e del conseguente danno biologico permanente del 100%; 2) che venisse, quindi, condannata la società convenuta a risarcire ai ricorrenti: - iure hereditatis, il danno biologico temporaneo e permanente subito dal de cuius, che prudenzialmente quantificavano in applicazione delle tabelle romane in Euro 701.937,30, da cui andava detratta la somma erogata dall'Inail, per il medesimo titolo; nonché il danno morale soggettivo patito dal de cuius (danno terminale/catastrofale) nella somma di Euro 140.000,00 o in quella ritenuta di giustizia; - iure proprio, il danno parentale per la perdita del congiunto, da quantificare nella somma di Euro 274.587,60 in applicazione delle tabelle romane. Si costituiva tempestivamente in giudizio la società (...) s.p.a. (d'ora innanzi anche (...)), già (...) s.p.a., contestando la fondatezza delle domande e chiedendone il rigetto. Preliminarmente la società eccepiva in rito l'incompetenza del giudice adito e il difetto di legittimazione attiva in capo al sig. (...); quindi eccepiva la prescrizione del diritto dovendo il dies a quo farsi coincidere con la data del 12.6.2010 in cui vi era stata diagnosi e la piena conoscibilità dell'origine professionale della malattia; nel merito sosteneva che per le mansioni disimpegnate il de cuius non aveva avuto una esposizione qualificata alla sostanza morbigena, che non vi era prova del nesso causale tra il rischio professionale e la malattia ad eziologia multifattoriale che aveva portato alla morte l'(...), che in ogni caso il datore di lavoro era esente da responsabilità avendo adottato tutte le cautele imposte dalla normativa vigente tempo per tempo, che quindi in alcun modo poteva rispondere del danno lamentato dai ricorrenti, né iure hereditatis, né iure proprio, che comunque i ricorrenti avevano omesso di descrivere specificamente le mansioni svolte dal de cuius, nell'ambito delle diverse qualifiche, dei diversi segmenti temporali e delle diverse sedi lavorative. Istruita la causa a mezzo di esame testimoniale, di c.t.u. ambientale e medico legale, essa era decisa all'udienza del 3.5.2023 con la pubblica lettura della sentenza. 1. Preliminarmente deve ribadirsi nella presente sede quanto espresso nell'ordinanza del 16.3.2021 al cui contenuto ci si riporta integralmente, in merito all'eccezione sollevata da parte resistente circa la dedotta "incompetenza" per materia del giudice del lavoro sulla domanda risarcitoria iure proprio svolta dagli eredi che integra, in realtà, una questione di "mera distribuzione degli affari all'interno del medesimo ufficio giudiziario" (sulla questione che l'eccezione non integri una questione di competenza in senso tecnico, cfr. anche Cass. 33423/22). Sull'opportunità di non separare la domanda risarcitoria proposta dagli eredi iure proprio da quella iure hereditatis appare, poi, utile segnalare che la stessa Suprema Corte ha proceduto ex officio alla riunione di due ricorsi promossi contro distinte sentenze rese rispettivamente sul danno iure proprio e su quello iure successionis rilevando che "l'assegnazione del ricorso RG 2664/2013 alla sezione lavoro di questa Corte non ha costituito violazione delle tabelle in vigore relative alla distribuzione delle materie tra le varie sezioni atteso che dette tabelle possono subire deroghe per esigenze derivanti dalla necessità di rispettare i principi del giusto processo di cui all'art. 111 Cost. e della sua ragionevole durata. Nella specie tali esigenze sussistono considerata l'opportunità di una trattazione unitaria dei due giudizi attinenti alle conseguenze risarcitorie relative ad un medesimo fatto storico come sopra specificato" (Cass.18503/16). In ogni caso la trattazione della controversia, da parte del giudice adito, con un rito diverso da quello previsto dalla legge, non determina l'inammissibilità della domanda o la nullità del procedimento e della sentenza successivamente emessa, se la parte non deduca e dimostri che dall'erronea adozione del rito sia derivata una lesione del diritto di difesa, del contraddittorio o un diverso regime probatorio (cfr. tra le tante Cass. 30 novembre 2018 n. 31077; Cass. 26 settembre 2018 n. 23038; Cass. 33423/22). Nella specie parte resistente non ha dedotto, né comunque provato che lo svolgimento del processo secondo le norme del rito del lavoro abbia leso il suo diritto di difesa. 2. Sempre in via preliminare va dato conto del fatto che (...), fin dalla costituzione in giudizio, ha contestato la legittimazione attiva in capo al sig. (...) e in particolare la sua qualità di erede. L'eccezione è fondata. D'altro canto, come noto, il possesso della qualità di erede, incidendo sulla titolarità del diritto fatto valere in giudizio, non sostanzia una questione di legittimazione in senso proprio, ma attiene al merito ed è rilevabile d'ufficio dal giudice in tutto il corso del processo (Cass. 31402/2019). Nel caso di specie il sig. (...) ha allegato la propria qualità di figlio ed erede del sig. (...), ma ha omesso di depositare insieme al ricorso qualsiasi documento da cui potessero evincersi tali qualità. Parte resistente, come chiarito, fin dalla memoria di costituzione ha sollevato tale contestazione e il giudice alla prima udienza del 16.3.2021 ha autorizzato il ricorrente al deposito dell'atto dello stato civile attestante il rapporto di filiazione, ma il sig. (...) non ha provveduto a tale deposito né all'udienza del 19.10.2021, né a quella successiva del 9.11.2021, curandolo solo dopo l'udienza del 15.12.2021, oltre il termine assegnato ed in assenza di qualsiasi autorizzazione. Di tale documento, pertanto, non può tenersi alcun conto e sul punto deve rilevarsi che parte resistente ha tempestivamente e sistematicamente contestato la violazione del regime delle preclusioni e decadenze previste dal rito processuale, la quale può comunque essere rilevata d'ufficio dal giudice per tutta la durata del grado in cui si verificano (Cass. 21529/21). Né al fine di dimostrare la qualità di erede soccorre il deposito della denuncia di successione che ha valore di atto di natura meramente fiscale (Cass. 10729/2009; Cass. 4783/2007; Cass. 31402/2019). Pertanto devono essere rigettate sia la domanda proposta dal sig. (...) quale erede, sia anche quella proposta iure proprio, non avendo egli documentato la propria qualità di figlio, né al momento della costituzione in giudizio, né nei termini giudizialmente concessi. È, invece, documentalmente dimostrata la qualità di moglie ed erede in capo alla sig.ra (...) (cfr. dichiarazione sostitutiva di atto notorio doc. 1, documentazione Inail attestante il riconoscimento della rendita ai superstiti doc 2, doc. 8), peraltro mai messa in discussione dalla parte resistente. Costituisce, infine, orientamento consolidato e condivisibile della Suprema Corte quello per cui ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l'intero credito comune o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l'intervento di questi ultimi in presenza dell'interesse all'accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito (Cass. SS.UU. 24657/2007): nella specie la ricorrente ha agito per la condanna della società convenuta facendo valere l'intero credito e non la sola parte proporzionale alla propria quota ereditaria e la società convenuta non ha richiesto l'integrazione del contraddittorio, sicché deve ritenersi del tutto ammissibile la domanda per l'intero. 3. Infondata appare, invece, l'eccezione di prescrizione sollevata dalla convenuta in riferimento alla domanda risarcitoria. E ciò sia con riferimento alla domanda spiegata a titolo di responsabilità extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.) dagli eredi iure proprio, sia a fortiori con riferimento alla domanda spiegata a titolo di responsabilità contrattuale (ex art. 2087 c.c.) per la quale trova applicazione il termine di prescrizione decennale. Ed invero, conformemente al consolidato e condivisibile orientamento della S.C., la prescrizione del diritto al risarcimento del danno conseguente a una malattia causata al dipendente dal comportamento colposo del datore di lavoro decorre dal momento in cui il danno si è manifestato e l'origine professionale della malattia può ritenersi conoscibile dal danneggiato (Cass. 24586/2019; Cass. 7272/2011; Cass. 17985/2007). Nel caso di specie se è vero che la prima diagnosi della neoplasia polmonare è stata resa al sig. (...) nel giugno del 2010 presso l'ospedale S. Camillo-Forlanini di Roma, deve tuttavia ritenersi che la piena consapevolezza della imputabilità della malattia all'esposizione ad amianto si può fare risalire al momento dell'accoglimento della domanda di riconoscimento della malattia professionale, presentata in data 3.12.2013, con provvedimento Inail del 28.3.2014 (cfr. doc. 2 fasc. parte ricorrente), con la conseguenza che la lettera di messa in mora degli eredi notificata a mezzo pec alla società convenuta in data 28.11.2018 (doc. 12 fasc. ricorrente) ha avuto effetto interruttivo del corso della prescrizione, tanto con riferimento al risarcimento del danno iure hereditatis (per responsabilità contrattuale avente prescrizione decennale), quanto con riferimento al risarcimento del danno iure proprio (per responsabilità extracontrattuale). A quest'ultimo riguardo, peraltro, deve trovare applicazione non già il termine prescrizionale quinquennale, ma il più lungo termine previsto dalla fattispecie di reato connessa al fatto illecito oggetto di causa siccome previsto dall'art. 2947, comma terzo c.c.. 4. Ancora (...) contesta l'idoneità della diffida del 28.11.2018 ai fini dell'interruzione della prescrizione, sostenendo che essa difetta dell'esplicitazione della volontà di far valere il credito, mancano i nominativi degli eredi e le loro firme, non vi sono gli estremi della procura al legale e l'atto non era ratificabile neanche a posteriori. L'eccezione di (...) appare infondata. Deve, infatti, ritenersi che la lettera di messa in mora del 2018 abbia piena valenza interruttiva del corso della prescrizione: essa esplicita in modo chiaro ed inequivocabile la volontà degli eredi del sig. (...) - irrilevante essendo che non siano stati indicati nominativamente - di far valere le proprie rivendicazioni economiche derivanti dall'illecito datoriale, nei confronti di (...) s.p.a. ed è stata regolarmente sottoscritta dal procuratore degli odierni ricorrenti e spedita a mezzo pec alla società. Quanto alla sottoscrizione, elemento essenziale dell'atto di costituzione in mora in quanto atto giuridico unilaterale recettizio a contenuto dichiarativo per il quale è richiesta la forma scritta ad validitatem, essa è stata ritualmente apposta dal difensore, con la conseguenza che il documento è pienamente produttivo dell'effetto interruttivo della prescrizione previsto dall'art. 2943, comma 4, c.c. (Cass. ord. 12182/2021). Sul punto giova rilevare come non vi siano ragioni per ritenere priva di efficacia interruttiva tale lettera in quanto firmata dal difensore dei ricorrenti, condividendosi sul punto l'orientamento espresso dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 5482/1995 che ha chiarito che "idonea alla costituzione in mora deve ritenersi anche l'offerta che sia formulata con lettera del difensore nominato per un siffatto giudizio, sia perché la procura rilasciata ad un terzo ai fini della costituzione in mora del creditore non richiede la forma scritta, sia perché tale procura è implicitamente ricompresa in quella relativa al giudizio, essendo in questione un atto strettamente connesso con quest'ultimo". Nella specie della procura, che può essere conferita anche verbalmente non esigendo forma scritta, si dà espressamente atto nella diffida e la sua sussistenza si ricava anche indiziariamente dal fatto che lo stesso procuratore - avv. (...) - ha avuto anche il mandato per agire nel presente giudizio. 5. Nel merito la domanda è fondata. La ricorrente sig.ra (...) domanda, iure successionis, il risarcimento del danno derivante da responsabilità contrattuale del datore di lavoro nei confronti del proprio congiunto deceduto e chiede la sua condanna al pagamento del danno biologico (cd. danno differenziale), del danno morale-catastrofale (cd. danno complementare); domanda altresì, iure proprio, il risarcimento del danno non patrimoniale per la perdita del congiunto derivante da responsabilità extracontrattuale della parte resistente. Le due domande risarcitorie - iure successionis e iure proprio - vanno esaminate separatamente. 6. Risarcimento del danno iure successionis. La ricorrente sig.ra (...) fa qui valere, ai fini del risarcimento del danno iure successionis, la responsabilità contrattuale del datore di lavoro. 6.a. Ai sensi dell'art. 2087 c.c. "L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro". Il codice civile ha dunque previsto a carico del datore di lavoro un obbligo generale di sicurezza in base al quale egli è tenuto ad attivarsi per adottare ogni accorgimento che sia necessario per preservare a salute e la sicurezza dei suoi dipendenti. Trattandosi di responsabilità contrattuale, in applicazione dei principi generali (art. 1218 c.c.) il lavoratore deve, quindi, provare l'inadempimento del datore di lavoro agli obblighi di cui all'art. 2087 c.c., il danno patito e il relativo nesso causale. A propria volta il datore di lavoro deve provare, per essere esente da responsabilità, l'impossibilità di eseguire la prestazione per causa a lui non imputabile (art. 1218; cfr. sul punto Cass. 14469/2000; Cass. 3162/2002; Cass. 13887/2004; Cass. 12763/1993). Se, infatti, il datore di lavoro non fornisce tale prova, si perviene ad un accertamento indiretto della sua colpa, laddove chi agisca facendo valere una responsabilità aquiliana, ex art. 2043 c.c., deve provare attraverso un accertamento in positivo la condotta, nella sua duplice componente oggettiva e soggettiva, l'evento e il nesso causale. 6.b. Applicando questi principi al caso di specie emerge che la ricorrente ha senz'altro provato l'inadempimento degli obblighi datoriali, mentre la parte datoriale non ha fornito la prova liberatoria. 6.c. Infatti è pacifico e documentalmente provato (cfr. schede di appartenenza e di servizio docc. 2 e 3 fasc. parte resistente) che il sig. (...) nel corso della sua vita lavorativa presso la resistente (dapprima (...) e poi (...)) abbia svolto essenzialmente due mansioni: quella di manovale e quella di gommista. In particolare: dal 3.4.73 al 31.5.77 mansioni di manovale presso il sito/autorimessa di (...); dal 1.6.77 al 31.12.77 mansioni di gommista quale operaio di 3 classe presso il medesimo sito; dal 1.1.78 al 31.12.1980 mansioni di gommista quale operaio qualificato presso il medesimo sito; dal 1.1.1981 al 30.11.1997 mansioni di gommista quale operaio specializzato presso i siti (...), (...), (...), (...); infine dal 1.12.97 al pensionamento del 30.6.2007 mansioni di capo operatore, presso il sito di (...) (cfr. memoria di costituzione (...) e docc. 2 e 3 cit.). Parimenti dall'istruttoria orale è emerso che le mansioni di manovale svolte dal de cuius, consistevano essenzialmente nella pulizia delle vetture tramviarie compresi i caminetti, le parti interne del tubo di scappamento contenenti amianto, nel lavaggio dei ferodi e tamburi costituiti di amianto, nel lavaggio sotto cassa posizionando la vettura su un ponte mobile pulendo con una lancia ad acqua il motore e le ruote, parti queste ad alto contenuto di amianto, nella raccolta dei materiali residui, nella pulizia delle officine e delle cosiddette "fosse da visita". Le mansioni di gommista consistevano, invece, nella riparazione delle gomme tramite raspatura con apposite mole che grattavano le gomme producendo polvere, fumo e vapori; nella separazione della gomma dal cerchione con caduta a terra di polveri derivanti dallo sgretolamento del cerchione costituito di amianto; nell'ancorizzazione e riscolpitura delle gomme usurate tramite apposito macchinario che produceva fumi e polveri che si disperdevano nell'ambiente lavorativo; nel ritiro manuale e carico sui mezzi di trasporto delle gomme usurate ricoperte di polveri di amianto derivanti dall'usura del ferodo posto in prossimità della ruota degli autobus; nella sostituzione delle gomme attraverso l'utilizzo della pistola avvitatrice ad aria compressa il cui getto provocava la dispersione di polvere di amianto depositatasi sulle parti meccaniche. Invero il teste di parte ricorrente, (...), della cui attendibilità non vi sono ragioni di dubitare, ha dichiarato di avere lavorato quale collega del ricorrente presso l'autorimessa di Grottarossa ("Abbiamo lavorato insieme in questo reparto per circa una decina di anni. Il reparto in questione era quello di Grottarossa. Quando il sig. (...) è arrivato io già vi lavoravo. Poi siamo andati in pensione insieme, lo stesso giorno, nel 2007) e che il sig. (...) aveva la funzione di capo squadra e quindi si occupava in quel periodo di distribuire il lavoro, di coordinare i reparti, di fare i turni, di controllare il lavoro degli operatori. Il teste ha chiarito che il lavoro dell'operatore gommista - che anche il sig. (...) aveva svolto prima di diventare capo squadra - consisteva nella riparazione e sostituzione delle gomme, nell'immatricolazione, nell'ancorizzazione e nella riscolpitura; che il lavoro si svolgeva all'interno di una grande officina nella quale avvenivano tutte le operazioni di cui al capitolo n. 3 del ricorso (vale a dire quelle sopra sintetizzate) e che "A seguito delle lavorazioni che facevamo noi operai vi erano dei residui, di tante cose, di polvere e anche residui di gomma eliminata. In base al tipo di lavoro che si faceva si creavano polveri diverse. Per esempio se si riparavano le gomme c'erano delle polveri sottili. Se si scolpivano le gomme vi erano pezzi di gomma che rimanevano sul pavimento e che, poi, finito il lavoro, venivano messi nei contenitori e prelevati da chi faceva le pulizie. Inizialmente era l'azienda a fare le pulizie e poi il servizio di pulizie è stato esternalizzato. (...) non mi ricordo che il sig. (...) avesse strumenti di protezione individuale. Posso dire che quello di Grottarossa era un reparto molto polveroso, c'era molta polvere". Parimenti il teste di parte ricorrente L.M., anch'egli già dipendente della convenuta presso il sito di (...) e da ritenere pienamente credibile, ha riferito di avere "lavorato in passato per (...) spa dal 1982 al 2019, io sono stato dapprima manovale, poi operaio comune, poi generico e poi carrozziere. ... Ho lavorato presso il deposito Trionfale, Magliana e Grottarossa. Sono stato collega del sig. (...) presso il deposito di Grottarossa, ultimamente. A Grottarossa io ci sono stato mi pare dal 1996/97 fino al 2019". Il teste ha chiarito che "avendo fatto il manovale effettuavo la pulizia dei locali, dei torni, degli autobus. Io avevo i guanti, non avevo mascherine. Pulivo il tubo di scappamento senza il pannello di protezione. Detto tubo di scappamento era rivestito di una fibra bianca, non so di che materiale fosse fatta, poi si è detto che era amianto. Io facevo il lavaggio dei ferodi e delle parti meccaniche delle vetture e le pulivo con la lancia a pressione che nebulizzava. Pulivo anche le gomme. Ho fatto pure il lavaggio sotto cassa, cioè al di sotto della vettura che era sollevata da un ponte sempre con la lancia. Dalla vettura cadevano a terra grasso, polvere e tutto ciò che stava attaccato. Mi occupavo della raccolta dei materiali residui con scopa e paletta, pulivo anche le officine". Dunque entrambi i testi hanno confermato che le mansioni di manovale e di gommista svolte dall'(...), comportavano la manipolazione di oggetti contenenti amianto e lo esponevano all'inalazione delle relative polveri. L'esposizione è stata giornaliera, continuativa ed intensa, raggiungendo ragguardevoli livelli. 6.d. Sul punto rilevano essenzialmente gli accertamenti compiuti dai consulenti tecnici d'ufficio nominati nel presente giudizio, alle cui relazioni, in quanto immuni da vizi e congruamente motivate, deve farsi integrale rinvio in questa sede. Entrambi i c.t.u., invero, hanno accertato la nocività dell'ambiente di lavoro in cui si è trovato ad operare il sig. (...) e l'esposizione al rischio professionale. Segnatamente il c.t.u. dott. (...), medico-legale, ha accertato che il de cuius è stato esposto dal 1973 al 1992 al rischio amianto in misura superiore alle 25 fibre/c.c. anni. Osserva sul punto il c.t.u. che "Dovendosi seguire un criterio di "ragionevolezza" nell'identificazione dei rischi tipici delle lavorazioni descritte nel ricorso giudiziario, è del tutto verosimile ritenere che l'A. sia stato esposto a polveri di amianto, quale componente dei materiali da attrito delle frizioni e dei freni dei veicoli a motore, in particolare durante e a seguito delle operazioni di manutenzione e di riparazione dei mezzi di trasporto, soprattutto in caso di lavaggio e pulizia delle ganasce e dei tamburi dei freni (come sostenuto nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado e conforme alle deposizioni del Sig. (...) e del Sig. (...)). Del resto, secondo una puntuale analisi dei rischi tipici del comparto autofficine pubblicata sul sito INAIL - ISPESL nel controllo e riparazione impianto frenante sussisteva un rilevante rischio di esposizione a polveri miste e a polveri di amianto così motivato: "Durante la riparazionee la pulizia dei freni degli autoveicoli, si possono diffondere polveri del materiale costitutivo dei freni e altre polveri nocive dovute alla circolazione su strada (particolato solido, ecc...). Se viene effettuata pulizia con aria compressa la diffusione delle polveri è maggiore. Nell'istante di apertura del tamburo, specie quando si lavora con un martello, si può avere la proiezione di polvere che può investire l'addetto e diffondersi nell'ambiente di lavoro. La polvere interna al tamburo è costituita dal materiale costitutivo dei freni che si è consumato (contenente lane di vetro, cellulosa, fibre di carbone, grafite, ecc...) ed il suo quantitativo è notevole, tanto da formare un bel mucchietto. Prima dell'entrata in vigore della Legge sull'amianto nel materiale costitutivo dei freni erano contenute anche fibre di amianto. Pertanto l'esposizione ad amianto può essere ancora presente durante la riparazione e la pulizia con aria compressa dei freni degli autoveicoli più vecchi, anche se, in seguito alla ordinaria manutenzione, anche i freni degli autoveicoli più vecchi, sono ormai stati sostituiti. Data comunque la particolare pericolosità delle fibre di amianto, è necessario mantenere alta l'attenzione su questo fattore di rischio"". Prosegue il consulente "A questo punto (v.pag. 13 di questa relazione) è ragionevole ipotizzare un'esposizione ambientale all'amianto dal 1973 quantomeno fino al 1992 (anno del "banning" dell'amianto) per le operazioni di manutenzione e di riparazione dei mezzi di trasporto, soprattutto in caso di lavaggio e pulizia delle ganasce e dei tamburi dei freni. Si sottolinea peraltro che la normativa sull'amianto risale al 1992 e che perciò anche negli anni successivi, sino alla progressiva completa sostituzione dei materiali, tale sostanza era ancora presente negli impianti frenanti, lasciando ragionevolmente ipotizzare un'ulteriore esposizione residua dopo il 1992, ancorchè in progressiva diminuzione. Quale fosse la concentrazione delle fibre di amianto in questa attività è desumibile dal data base D. (punto di riferimento in materia di concentrazione di amianto negli ambienti di lavoro) secondo il quale l'esposizione annua è calcolabile secondo la formula E = (F x t x g) /1920, in cui: - "E" indica l'esposizione annua; - "F" indica la concentrazione delle fibre d'amianto; - "t" indica le ore di lavoro trascorse ogni giorno nell'attività esponente al rischio; - "g" indica i gironi di lavoro lavorati all'anno; - 1920 è il numero di ore lavorate all'anno per 240 giornata a 8 ore al giorno. Lo sviluppo del calcolo prende in esame le seguenti voci, che definiscono prudenzialmente uno scenario nel quale 7 ore su 8 al giorno sono trascorse in un'officina di "manutenzione freni - centro garage, di mattina" e 1 residua ora al giorno su 8 è impegnata nella "Pulizia freni di autocarro: lavoro effettivo sui freni". I risultati sono i seguenti: A. manutenzione freni - centro garage - 7 h/die = 0,42875 f/c.c. ogni anno (figura 1); B. pulizia freni di autocarro: lavoro effettivo sui freni - 1 h/ die = 0,88625 f/c.c. ogni anno (figura 2); C. esposizione complessiva annua (A + B) = 1,32 Stimati i dati di esposizione annua, tenuto conto che l'attività esponente all'asbesto è intercorsa tra il 1973 e quantomeno fino al 1992 si desume una esposizione complessiva per 20 anni pari a 1,32 x 20 = 26,3 fibre/c.c.-anni". Il c.t.u., dunque, rispondendo in modo esaustivo e convincente alle osservazioni di parte resistente con nota integrativa a cui si rimanda, conclude affermando che l'esposizione è stata superiore a 25 fibre/c.c.-anni previsto dal "Consensus report" di H. (1997) che stabilisce che tale limite realizza un rischio relativo pari a 2 nella popolazione, tale da farne ritenere l'incidenza causale nel cancro del polmone (cfr. infra). Parimenti il c.t.u. ing. (...), che ha redatto la consulenza ambientale, ha accertato che il ricorrente è stato esposto all'inalazione di polveri di amianto in modo consistente nell'arco della sua vita lavorativa. Il c.t.u. ha accertato che le mansioni di manovale e quelle di operaio-gommista svolte dal ricorrente per la resistente hanno comportato una sua sicura e qualificata esposizione all'amianto "che era utilizzato in gran parte della componentistica delle vetture, per le sue indubbie proprietà ignifughe che lo rendono adatto all'isolamento termico in primis; di conseguenza gli interventi manutentivi comportavano la necessaria manipolazione dello stesso con evidente liberazione di fibre nell'aria; da tutte le operazioni sopra descritte ne derivava una esposizione per inalazione del lavoratore. Inoltre, il ricorrente, viste le mansioni prima indicate, prestava la sua attività all'interno di reparti nei quali si svolgevano contestualmente altre operazioni a rischio elevato di produzione di fibre di amianto, senza alcuna separazione tra ambienti, trascorrendo pertanto l'intera giornata in ambienti di lavoro intrisi di fibre disperse nell'aria, depositate sul pavimento e poi rimesse in circolo dal movimento dei mezzi o dalle stesse operazioni di pulizia dei locali. È bene ricordare che proprio nel settore dei trasporti, ambito di attività dell'azienda in cui operava il ricorrente, l'amianto era largamente presente nelle guarnizioni frenanti e di frizione, nei rivestimenti dei tubi di scarico, nelle guarnizioni delle testate dei motori e dei collettori, nonché nei rivestimenti interni delle carrozzerie e negli apparati elettrici tranviari (Il C. afferma, nelle sue relazioni in materia, che l'esposizione ad amianto nell'azienda (...)/(...) sia "attestabile a tutto il 1992", ma aggiunge altresì che, nonostante il decremento graduale, l'esposizione è stimabile fino all'anno 2000). La tipologia di operazioni svolte, la diffusa presenza di amianto nell'azienda in generale e, in particolare, nelle parti dei mezzi in cui operava in prossimità il ricorrente, suggeriscono, in effetti, una possibile esposizione prolungata del lavoratore a fibre di amianto in concentrazioni superiori ai limiti di legge (...)". Il c.t.u. ha, quindi, concluso accertando che i livelli espositivi del sig. (...) sulle otto ore lavorative risultano, - "dal 1973 al 1977, pari a 824 ff/l, ottenuti sommando 73 ff/l (vedi tabella n. 2 della relazione INAILCONTARP del 2005, lavorazione D2 - manovale per le Rimesse) con l'esposizione derivante dalla pulizia dei sistemi frenanti pari a 478 ff/l (dalla banca dati D. in cui si indica una concentrazione di 2550 ff/lper la lavorazione "Soffiatura freni: area nella nuvola di polvere durante la soffiatura"), a cui vanno aggiunte le esposizioni indirette, spiegate in precedenza, pari a 89 ff/l e 184 ff/l; - per il periodo 01/06/1977-31/12/1992, per l'attività lavorativa quale gommista, si può considerare un'esposizione diretta sulle OTTO ore pari a 439 ff/l, a cui vanno aggiunte le esposizioni dovute all'uso di guanti per l'attività di gommista (non considerate dal C.) pari a 81 ff/l, nonché le esposizioni indirette, spiegate in precedenza, pari a 337 ff/l, per un'esposizione complessiva pari a 857 ff/l; - per il periodo 1993-1996, considerando la riduzione percentuale di amianto sui mezzi di anno in anno, spiegata in precedenza: 1. per l'anno 1993 (riduzione della presenza di amianto di circa il 20% rispetto al 1992) si può stimare un'esposizione quotidiana pari a 685 ff/l; 2. per l'anno 1994 (ulteriore riduzione della presenza di amianto di circa il 30% rispetto al 1993) si può stimare un'esposizione quotidiana pari a 480 ff/l; 3. per l'anno 1995 (ulteriore riduzione della presenza di amianto di circa il 40% rispetto al 1994) si può stimare un'esposizione quotidiana pari a 288 ff/l; 4. per l'anno 1996 (ulteriore riduzione della presenza di amianto di circa l'80% rispetto al 1995) si può stimare un'esposizione quotidiana pari a 58 ff/l". Da tutto ciò ne consegue che, dal 1973 al 1996, ovvero dall'assunzione fino a quando il c.t.u. ambientale ha considerato significativa la presenza di amianto nell'azienda (...), il sig. (...) è stato sistematicamente e costantemente esposto in modo rilevante all'inalazione delle polveri di amianto. Si rimanda per il resto alla consulenza e alle osservazioni svolte dal c.t.u. in replica alle osservazioni di parte, che in quanto pienamente condivisibili, devono intendersi qui integralmente recepite. 7. Provata la nocività dell'ambiente di lavoro, l'azienda non ha fornito la prova liberatoria (art. 1218 c.c.), indicando l'impossibilità di adempiere all'obbligo di sicurezza e informativo per causa sé non imputabile. Il datore di lavoro, infatti, non ha provato di avere adottato alcuna misura di protezione, nè gli accorgimenti di prudenza e le cautele che sarebbero state necessarie. Sostiene la società di essere esente da responsabilità perché aveva commissionato importanti studi ed indagini per verificare la presenza di amianto negli ambienti di lavoro (nel 1981 al prof. (...), negli anni novanta al prof. (...); nel 2000 sempre al prof. B.) in esito alle quali i livelli di polveri presenti risultarono di entità del tutto accettabile per un ambiente di lavoro industriale; che aveva eseguito pure rilevamenti a campione da cui erano emersi parametri non pericolosi per la salute dei lavoratori; che all'epoca dei fatti tutti i fornitori impiegavano l'amianto nella produzione prodotti utilizzati dai dipendenti perché all'epoca non era vietato, né sussisteva l'obbligo di indicarne la presenza; che i d.p.i. dell'epoca non erano efficaci; che non era vero che il ricorrente operasse in contesti lavorativi non arieggiati perché nelle Officine Centrali di (...) vi erano impianti di ventilazione. Partendo subito da questo rilievo, si osserva che esso è del tutto inconferente nel caso che ci occupa, posto - dalla documentazione di parte resistente docc. 2, 3 - risulta che il sig. (...) non abbia mai lavorato nella sede di (...). Inoltre il c.t.u. nella relazione ambientale ha accuratamente esaminato la le relazioni allegate agli atti da parte resistente e ha concluso che la relazione del prof. (...), del prof. (...) e il documento di sicurezza di (...) del 2004, non siano dirimenti ai fini della decisione. Infatti, per un verso quanto alla relazione del prof. (...) le schede allegate sono relative solo alla rimessa di Porta Maggiore e comunque a lavorazioni diverse da quelle oggetto del presente giudizio e dallo stralcio della relazione non sono rilevabili descrizioni sulle modalità di svolgimento delle lavorazioni oggetto di causa, mentre dalle schede fornite da (...) al c.t.u. ad integrazione documentale emerge che nelle situazioni indagate non erano presenti impianti di aspirazione; per altro verso quanto alla relazione del prof. (...) del 1993, essa aveva come scopo di verificare eventuali dispersioni di fibre di amianto derivanti dalle coperture dei locali e non dalle lavorazioni che in essi si svolgevano e inoltre nella relazione del prof. (...) del 1998 è addirittura documentata la carenza dei sistemi di aerazione/aspirazione, presente (peraltro parzialmente) solo nella sede di via (...). Tali convincenti rilievi svolti dal c.t.u., pertanto inducono a ritenere scarsamente affidabile la quanto riferito dal teste (...) che ha dichiarato di essere stato Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione della resistente dal 1996/97 al 2004 e che "In tutti gli impianti (...) vi erano sistemi di ventilazione e aspirazione. Intendo con sistemi di ventilazione i sistemi di ricambio area di tutto il capannone. Erano dei tubi grandi con prese di aria a sezione circolare o rettangolare. Questi impianti erano stati fatti molto prima che arrivassi io. Questi tubi erano di materiale metallico. Con impianto di aspirazione intendo quello localizzato nelle lavorazioni che potevano avere qualche problema. A Grottarossa c'erano questi impianti. Grottarossa e stata una delle ultime rimesse costruite ed era moderna per l'epoca". Tale deposizione - appunto in contrasto con le emergenze documentali - collide anche con quanto riferito dai due testi di parte ricorrente e non è neppure suffragata dalla dichiarazione resa dal teste di parte convenuta (...), il quale ha inizialmente sostenuto che vi erano impianti di aspirazione e di ventilazione in tutte le rimesse di (...), ma poi ha circostanziato e ridotto la portata di tale affermazione chiarendo di non ricordare come fossero fatte le rimesse in cui ha lavorato il sig. (...), nè "se vi fosse un impianto generale. Essendo un "baraccone" cioè un grosso ambiente in lamiera, non poteva esserci un sistema di ricambio dell'aria, tipo aria condizionata. Gli ingressi erano sempre aperti e vi erano due portoni grandissimi". Pertanto dalla disamina della documentazione in atti e dalle testimonianze deve concludersi che: a) (...) non ha assunto iniziative volte ad impedire o a ridurre lo sviluppo e la diffusione in aria di fibre di amianto durante le lavorazioni mediante impianti di aspirazione e trattamento aria, sia localizzati che generali di ambiente, almeno nel periodo maggiormente significativo oggetto del presente giudizio; b) che non ha reso edotti i lavoratori dei rischi specifici cui venivano esposti e dei modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti; c) che non ha messo a disposizione dei lavoratori dei d.p.i. per le vie respiratorie, avendo sul punto il c.t.u. smentito quanto sostenuto dalla società circa l'inesistenza all'epoca di adeguati dispositivi (osservando invece che "almeno dalla fine degli anni '60 erano disponibili DPI respiratori per l'amianto (Weeks T.J. et al., Performance of dust respirators againt a fibrous dust, Am.Ind.Hyg.Ass.J., 31:290-293 (1970)); soltanto però alla fine degli anni 70 furono effettivamente distribuiti i primi facciali filtranti del tipo 3M/8710"); d) che in ogni caso non ha effettuato efficaci controlli in merito all'effettivo utilizzo di tali dispositivi ove forniti (come sostenuto dal teste (...), peraltro in aperto contrasto con quanto dichiarato dagli altri testi). D'altro canto la nocività dell'asbesto è nota quantomeno dagli anni quaranta, atteso che la L. 12 aprile 1943, n. 455 (recante "Estensione dell'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali alla silicosi ed all'asbestosi") riconosce espressamente la gravità dell'inalazione delle polveri di amianto; successivamente il D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 (recante "Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro") ha stabilito obblighi ben precisi per il datore di lavoro in caso di lavorazioni pericolose aventi ad oggetto sostanze nocive e tossiche, prevedendo l'adozione di una serie di cautele tra cui l'adeguata ventilazione degli ambienti e comunque controlli e misurazioni frequenti (art. 354), l'utilizzo di masche ed apparecchi respiratori (art. 369, 387) e mezzi personali di protezione per i lavoratori appropriati ai rischi delle lavorazioni effettuate (art. 377); in seguito il D.P.R. n. 303 del 1956 (recante "Norme generali per l'igiene del lavoro") ha fornito indicazioni generali per proteggere la salute dei lavoratori in rapporto ad agenti inquinanti e nocivi e tossici dell'aria da questi respirata (l'art.20), con obbligo datoriale di rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti (art. 4); vi è poi stata la Direttiva 83/477/CEE del Consiglio del 19 settembre 1983 che ha fissato limiti soglia per le polveri di amianto, recepita in Italia dal D.Lgs. n. 277 del 1991 ("Attuazione delle direttive n. 80/1107/CEE, n. 82/605/CEE, n. 83/477/CEE, n. 86/188/CEE e n. 88/642/CEE"). In realtà dalla documentazione in atti risulta che (...) abbia iniziato ad occuparsi della problematica amianto nei propri luoghi di lavoro solo agli inizi degli anni 80, laddove "ad esempio, le (...), nello stesso periodo, anzi proprio negli anni 70, avevano già avviato indagini conoscitive su località e impianti in cui si svolgevano attività che potessero esporre al rischio di silicosi e asbestosi, anche con l'esecuzione di campionamenti di polveri (...) e che comunque all'esito di tali indagini non si sia avuta alcuna modifica nei comportamenti e nell'organizzazione aziendale, mentre solo dopo la metà degli anni 90, l'azienda abbia intrapreso alcune azioni in materia di valutazione dei rischi. Inoltre il c.t.u. ha anche accertato che per almeno due anni - il 1992 e il 1993 - l'esposizione giornaliera del sig. (...) alle fibre di amianto sia stata addirittura superiore ai limiti di legge all'epoca vigenti: segnatamente al limite di cui al D.Lgs. n. 277 del 1991 in vigore dal febbraio 1992 che stabiliva la soglia delle 1000 ff/l e poi di cui al D.Lgs. n. 257 del 1992 in vigore dall'aprile del 1992 che abbassa quel valore soglia per il crisotilo a 600 ff/l (ove poi l'analisi fosse stata condotta rispetto al crocidolite e/o all'amosite, sostanze pure presenti nelle lavorazioni del de cuius, il rischio espositivo sarebbe risultato ancora maggiore). Insomma all'esito dell'istruttoria è emerso che il sig. (...) sia deceduto a causa dell'espletamento del proprio lavoro alle dipendenze della convenuta, essendo stato esposto in maniera continuativa all'inalazione di sostanze cancerogene senza che il datore di lavoro avesse al riguardo adottato idonee cautele per evitarlo. 8. Come anticipato la ricorrente domanda, iure successionis, il risarcimento del danno non patrimoniale sub specie di danno biologico sofferto dal de cuius e non già coperto dalla rendita Inail costituita a suo favore (cd. danno differenziale), nonché il risarcimento del danno morale -catastrofale patito dal de cuius (cd. danno complementare). A tale proposito appare opportuno richiamare la nozione di danno complementare (o qualitativo) e di danno differenziale (o quantitativo). 8.a. Ai sensi dell'art. 10 comma 1 T.U. Inail (D.P.R. n. 1124 del 1965), l'assicurazione obbligatoria esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nell'ambito dei rischi coperti dall'assicurazione, con i suoi limiti oggettivi e soggettivi, per cui laddove la copertura assicurativa non interviene per mancanza di presupposti, l'esonero non opera: in tali casi, per il risarcimento dei danni convenzionalmente definiti appunto complementari, vigono le regole generali del diritto comune previste in caso di inadempimento contrattuale (Corte Cost. 356/1991; Cass. 1114/2002; Cass. 16250/2003; Cass. 8386/2006; Cass. 10834/2010; Cass. 9166/2017). 8.b. L'esonero del datore di lavoro non opera anche quando ricorre il meccanismo previsto dai commi dell'art. 10 successivi al primo, allorquando venga accertato che i fatti da cui deriva l'infortunio o la malattia "costituiscano reato sotto il profilo dell'elemento soggettivo e oggettivo" (così Corte Cost. 102/1981), per cui la responsabilità permane "per la parte che eccede le indennità liquidate" dall'Inail ed il risarcimento "è dovuto" dal datore di lavoro. Di qui la nozione di danno cd. differenziale, inteso come quella parte di risarcimento che eccede l'importo dell'indennizzo coperto dall'assicurazione obbligatoria e che resta a carico del datore di lavoro ove il fatto sia riconducibile ad un reato perseguibile d'ufficio; parallelamente l'art. 11 del D.P.R. n. 1124 del 1965, nella ricorrenza del medesimo presupposto, consente all'Inail di agire in regresso nei confronti del datore di lavoro "per le somme pagate a titolo di indennità" (Cass. 9166/2017). Il lavoratore - o il suo erede come in questo caso - potrà, pertanto, richiedere al datore di lavoro il risarcimento del danno cd. "differenziale", allegando circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d'ufficio ed il giudice, accertata in via incidentale autonoma l'illecito di rilievo penale, potrà liquidare la somma dovuta dal datore, detraendo dal complessivo valore monetario del danno civilistico, calcolato secondo i criteri comuni, quanto indennizzato dall'Inail con un'operazione di scomputo che va effettuata secondo il criterio delle poste omogenee (da ultimo Cass. 12041/20). 8.c. È, quindi, escluso che le prestazioni eventualmente erogate dall'Inail esauriscano di per sè e a priori il ristoro del danno patito dal lavoratore infortunato od ammalato (Cass. 777/2015; Cass. 13689/2015; Cass. 3074/2016; Cass. 9112/2019). 8.d. Quanto all'operatività dei casi di esclusione dalla regola dell'esonero dalla responsabilità del datore di lavoro, che in origine richiedevano la condanna penale per il fatto da cui l'infortunio è derivato, essa ha subito una rimodulazione a seguito della fine della pregiudizialità penale: la sentenza della Corte costituzionale 22/1967 ha di fatto esteso l'accertamento incidentale del giudice civile anche ai casi di estinzione dell'azione penale per prescrizione del reato. Le due successive sentenze 102/1981 e 118/1986 hanno esteso quell'accertamento anche ai casi di proscioglimento o archiviazione del procedimento penale rispettivamente ai fini dell'azione di regresso Inail e ai fini dell'azione risarcitoria contro il datore di lavoro). 8.e. Infine, particolarmente importanti sono i principi dettati da Cass. n. 9166 del 2017, per cui: - anche se il lavoratore nel ricorso giudiziale non ha allegato rigorosamente per quale tipo di danno stia agendo (differenziale/complementare), spetta al giudice la qualificazione anche d'ufficio; - anche se il lavoratore non ha allegato nel ricorso che vi è responsabilità penale del datore di lavoro per un reato perseguibile d'ufficio, il giudice deve procedere a tale incidentale accertamento ai fini della verifica della sussistenza di un danno differenziale. 9. Tornando al caso di specie, la ricorrente domanda il risarcimento del danno non patrimoniale biologico differenziale e di quello morale, che non essendo coperto dalla rendita Inail costituisce un danno complementare, ma non qualifica tali danni e non allega con riguardo al primo l'esistenza di una responsabilità penale datoriale. Tuttavia, alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale (punto 8.e), deve ritenersi che il giudice sia tenuto a compiere d'ufficio la qualificazione della natura del danno - indispensabile per procedere alla sua liquidazione - e l'accertamento incidentale della fattispecie di reato ai fini della liquidazione del danno differenziale. Nella specie deve ritenersi che anche tale ultima condizione sia integrata. Invero la violazione delle regole di cui all'art. 2087 c.c. è idonea a concretare la responsabilità penale (Cass. 1579/2000; 3785/2009; 6002/12; 14192/12; 1312/14; 8911/19), per il reato di omicidio colposo ex art. 589 secondo comma c.p. che è procedibile d'ufficio. Costituisce infatti condivisibile orientamento della S.C. quello per cui: "In tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disciplina prevista dal D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11, deve essere interpretata nel senso che l'accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del cd. danno differenziale, sia nel caso dell'azione di regresso proposta dall'INAIL, deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all'elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale tra fatto ed evento dannoso" (Cass. 12041/2020), con la precisazione che "resta in ogni caso fermo che l'art. 2087 c.c. non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva (tra le altre: Cass. n. 8911 del 2019; Cass. n. 1312 del 2014; Cass. n. 14192 del 2012; Cass. n. 6002 del 2012), essendo necessario che l'evento dannoso sia comunque riferibile a colpa del datore di lavoro, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione di misure idonee a prevenire il danno, per cui è solo la prova dell'elemento soggettivo ad essere agevolata dall'inversione dell'onere probatorio di cui all'art. 1218 c.c." (Cass. 12041 cit.). In relazione all'accertamento dei profili del nesso causale e della colpa secondo i criteri civilistici, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che in forza della disposizione generale di cui all'articolo 2087 c.c. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo gli viene imputato a titolo di responsabilità anche solo omissiva. Pertanto la colpa della parte datoriale risiede proprio nell'omessa adozione degli obblighi preventivi e informativi previsti dalla legge: il comportamento colpevole è consistito nell'aver omesso di apprestare tutti gli accorgimenti idonei a fronteggiare le cause della malattia del tutto prevedibili e di fornire al lavoratore le informazioni necessarie sulle lavorazioni pericolose. Essendovi, pertanto, sulla base di una valutazione effettuata incidenter tantum, prova del reato perseguibile d'ufficio, sono astrattamente liquidabili i danni differenziali non coperti dall'esonero. 10. Dalla provata nocività dell'ambiente di lavoro è derivata la malattia professionale (neoplasia polmonare) che ha condotto il sig. (...) alla morte. 10.a. Segnatamente il c.t.u. medico - legale ha accertato che il sig. (...), nel suo ultimo periodo di vita, fu affetto da due neoplasie polmonari: 1) Non Small Cell Lung Cancer - NSCLC - a tipo carcinoma squamocellulare, in stadio IV, con metastasi nei linfonodi controlaterali, sintomatico dal maggio 2010, trattato con disostruzione laser del bronco principale di destra (luglio 2010), con chemioradioterapia (giugno-settembre 2010) e con intervento di lobectomia superiore destra (dicembre 2010), in apparente assenza di successivi segni di ripresa di malattia; 2) Small Cell Lung Cancer - SCLC - a tipo carcinoma a piccole cellule, riscontrato strumentalmente e biopticamente a maggio 2013, trattato con pluri-chemioterapia (giugno-agosto 2013 e maggio-giugno 2014) ed evoluto con plurime ripetizioni metastatiche epatiche fino al decesso del 12.11.2014. 10.b. Il nesso causale è stato accertato dal c.t.u. medico-legale che ha appunto ritenuto che l'esposizione all'amianto sia stata concausa determinante di entrambe le neoplasie polmonari. Osserva il c.t.u. che in termini di causalità generale "la letteratura scientifica in materia ha incontrovertibilmente segnalato l'aumentata incidenza di carcinomi polmonari tra le persone esposte all'asbesto. Per quanto attiene alla oncogenicità dell'amianto, tale osservazione è stata più volte ribadita dalla IARC (International Agency for the Reserch on Cancer) dell'OMS, che ha raccolto in accurate schede monografiche le evidenze epidemiologiche, biologiche e sperimentali emerse a livello mondiale, con giudizio di sintesi fondato sulla "consistenza", sulla "forza", sulla "specificità" e sulla "coerenza" dell'associazione (?)". Prosegue il c.t.u. rilevando che, in termini di causalità individuale, il criterio di valutazione della forza causale deve rispondere alla regola del "più probabile che non", la quale implica che "sul medesimo fatto vi siano un'ipotesi positiva ed una complementare ipotesi negativa, sicchè, tra queste due ipotesi alternative, il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, ha un grado di conferma logica superiore all'altra" (Cass. 26304/2021) e che per l'applicazione della citata regola, occorre tener conto del concetto di "rischio relativo" che descrive la probabilità che un soggetto, appartenente ad un gruppo esposto a determinati fattori, sviluppi la malattia, rispetto alla probabilità che un soggetto appartenente a un gruppo non esposto sviluppi la stessa malattia. Chiarisce, infine, il consulente: "Il rischio relativo (RR) è un valore numerico che deriva dal rapporto tra numero di nuovi casi di malattia tra gli esposti in un determinato periodo di tempo e numero di nuovi casi della medesima malattia tra i non esposti nel medesimo periodo di tempo. Tale valore numerico può essere pari a 1 (e in tal caso il fattore di rischio è ininfluente sulla comparsa della malattia), può essere maggiore di 1 (e in tal caso il fattore di rischio è implicato nella manifestazione della malattia) ovvero può essere è minore di 1 (e quindi l'ipotizzato fattore di rischio in realtà difende dalla malattia). (...) Il rischio relativo 2 segna quindi il confine oltre il quale è possibile asserire che "è più probabile che non" che il fattore di rischio abbia determinato la malattia in esame. Nell'ipotesi di un RR superiore a 2 si ha quindi ha un grado di conferma logica del ruolo causale del fattore di rischio superiore all'altra ipotesi, complementare e alternativa. (...). Tanto premesso, con riferimento al rapporto tra cancro del polmone ed esposizione ad asbesto, l'universalmente riconosciuto "Consensus report" di H. (1997) stabilisce che un'esposizione cumulativa di 25 fibre/c.c.-anni realizza un rischio relativo pari a 2 nella popolazione esposta. Orbene, per risolvere il caso in esame occorre dapprima stimare l'esposizione complessiva all'amianto alla quale il Sig. (...) è stato soggetto, e verificare se questa si pone al di sopra o al di sotto del limite di 25 fibre/c.c.-anni. Nel primo caso il rapporto causale andrà ammesso, nel secondo caso andrà escluso. (...) Stimati i dati di esposizione annua, tenuto conto che l'attività esponente all'asbesto è intercorsa tra il 1973 e quantomeno fino al 1992 si desume una esposizione complessivaper 20 anni pari a 1,32 x 20 = 26,3 fibre/c.c.-anni. (...) Sulla base di quanto prima esposto e ricordando che - secondo il documento di consenso di (...) - per l'esposizione cumulativa all'amianto il rischio relativo pari a 2 viene raggiunto con una esposizione di 25 fibre/c.c.-anni, ne discende che nel caso in esame la stima delle esposizioni annue è superiore a tale limite e che, applicando la regola del "più probabile che non", è possibile sostenere che la dedotta esposizione all'amianto abbia causato lo sviluppo della neoplasia polmonare combinata che ha condotto all'exitus il Sig. (...)". Né è dirimente nel senso di escludere il nesso causale la circostanza che l'esposizione rilevante si sia avuta molti anni prima della manifestazione della patologia, stanti i lunghi tempi di latenza della malattia in questione. 10.c. Quanto all'abitudine tabagica del lavoratore, osserva il c.t.u. nell'elaborato e nelle convincenti osservazioni ai rilievi di parte resistente, che "questa potrebbe ridurre, fino a escludere, il ruolo dell'esposizione lavorativa all'asbesto solo se esistesse una legge di copertura generale secondo la quale tutti i fumatori contraggono il cancro del polmone. Nel caso in esame non è però evocabile una simile regola deduttiva, vigendo invece un criterio induttivo di probabilità che consente di affermare, con sussunzione secondo leggi statistiche, che l'esposizione al fumo di tabacco aumenta la probabilità, ma non determina la certezza di verificazione di una neoplasia polmonare primitiva. Analogo ragionamento vale per l'esposizione lavorativa all'amianto, il cui effetto aumenta l'incidenza di tumori polmonari, ma non li causa in tutti gli esposti. Quando i due fattori di rischio si incontrano, ne discende un reciproco potenziamento che va oltre la mera sommazione (effetto che nel caso in esame è avallato sia dallo scrivente, sia dal Prof. (...)) e che supporta ancor più la concreta derivazione causale del cancro del polmone dall'esposizione all'amianto. È peraltro evidente che nei lavoratori esposti a mutageni lavorativi il fumo di tabacco predispone al loro potere oncogeno, che risulta l'unica condizione giuridicamente rilevante, mentre il fumo assume la veste di concausa naturale di lesione, come tale priva di valore giuridico". 10.d. Infine e concludendo, la sussistenza del rischio lavorativo e del nesso causale con la patologia contratta dal de cuius risultano accertati dall'Inail che ha costituito in suo favore una rendita diretta, convertita poi in rendita in favore della coniuge superstite. 11. Tanto premesso il primo pregiudizio di cui la ricorrente chiede ristoro, nella qualità di erede del sig. (...), si identifica nella lesione dell'integrità psico-fisica del dante causa verificatosi nell'intervallo di tempo compreso tra l'insorgenza della malattia, il cui esordio clinico risale al giugno 2010 ed il decesso, verificatosi il 12.11.2014. 11.a. Infatti, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra l'evento lesivo e la morte causato dallo stesso, è configurabile un danno biologico subito dal danneggiato, da liquidarsi in relazione alla effettiva menomazione della integrità psicofisica da lui patita per il periodo di tempo indicato e il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli eredi che potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante iure hereditatis (cfr. Cass. 9470/1997; Cass. 1131/1999; Cass. 24/2002; Cass. 3728/2002). 11.b. Ritiene, l'ufficio di dover integralmente condividere i principi espressi dalla Suprema Corte in ordine ai criteri da adottare per la liquidazione del cd. danno biologico terminale, ossia del danno alla salute temporaneo sofferto dal de cuius nell'apprezzabile intervallo di tempo intercorso tra l'evento lesivo e il decesso che trovi in tale evento la sua causa. In punto di fatto il c.t.u. ha così ricostruito la vicenda sanitaria del sig. (...). Manifestatisi i primi sintomi della neoplasia a maggio del 2010, nel giugno del 2010 al sig. (...) viene data la prima diagnosi di "Non Small Cell Lung Cancer" - NSCLC - a tipo carcinoma squamocellulare. Successivamente la neoplasia viene ascritta allo stadio IV, con metastasi nei linfonodi controlaterali e viene trattata con disostruzione laser del bronco principale di destra (luglio 2010), con chemio-radioterapia (giugno-settembre 2010) e con intervento di lobectomia superiore destra (dicembre 2010), in apparente assenza di successivi segni di ripresa di malattia fino al febbraio 2013. Quindi, dopo l'intervento chirurgico del dicembre del 2010, si è verificata una stabilizzazione dei postumi della patologia che per più di due anni non ha manifestato segni di ripresa. Successivamente, tuttavia, il de cuius ha manifestato la seconda componente del carcinoma combinato, ovverosia "uno Small Cell Lung Cancer - SCLC - a tipo carcinoma a piccole cellule" riscontrato strumentalmente e biopticamente a maggio 2013, trattato con pluri-chemioterapia (giugno-agosto 2013 e maggio-giugno 2014) ed evoluto con plurime ripetizioni metastatiche epatiche fino alla morte. Pertanto come accertato dal c.t.u., dal maggio 2013 fino al novembre del 2014 si è realizzata una marcata compromissione della salute del sig. A.: la neoplasia, sempre eziologicamente collegata all'esposizione all'amianto, non è evoluta nella guarigione, né nella consolidazione dei postumi, ma lo ha condotto al decesso. In tale situazione deve farsi applicazione dei condivisibili principi espressi dalla Suprema Corte. Segnatamente con riferimento alla prima neoplasia scoperta nel 2010 il criterio di liquidazione del danno biologico deve essere quello del danno permanente: "In tema di liquidazione del danno biologico "iure successionis", il principio secondo cui l'ammontare del risarcimento dev'essere parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato si applica nel solo caso in cui quest'ultimo sia deceduto per causa non ricollegabile alla menomazione conseguente all'illecito, mentre, laddove la morte sia intervenuta, dopo una temporanea sopravvivenza, in conseguenza diretta dell'evento lesivo, la liquidazione va operata secondo le tecniche di valutazione probabilistica proprie del danno permanente. (Principio affermato dalla S.C. in una fattispecie in cui il danneggiato era deceduto per epatocarcinoma cagionato da patologia epatica contratta in occasione di una trasfusione con sangue infetto)" (Cass. 32916/ 2022, Cass. 41933/21; Cass. 10897/2016; Cass. 679/2016). Con riferimento invece alla seconda neoplasia, collegata alla prima e scoperta nel 2013, il criterio di liquidazione del danno biologico deve essere quello del danno temporaneo. Hanno affermato i Giudici di legittimità: "Assumere, come mostrano di ritenere i ricorrenti, che il risarcimento del danno biologico, cui consegua la morte, è dovuto per intero (come se il soggetto avesse raggiunto la durata di vita conforme alle speranze) nelcaso in cui il decesso è conseguenza delle lesioni, non è corretto perché esclude uno degli elementi costitutivi del danno risarcibile: e cioè la durata di esso. Poiché, secondo i più recenti orientamenti, anche il danno biologico è una perdita (del bene salute), non può dar luogo allo stesso risultato risarcitorio risentire di questa perdita del bene salute nella misura del 100% per alcuni giorni/mesi o per l'intera durata della vita media. Se la morte è stata causata dalle lesioni, l'unico danno biologico risarcibile è quello correlato dall'inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso concepibile un danno biologico da invalidità permanente. Infatti, secondo i principi medico-legali, a qualsiasi lesione dell'integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un'invalidità permanente. Per l'esattezza l'invalidità permanente si considera insorta allorché, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, l'individuo non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità. Il consolidarsi di postumi permanenti può quindi mancare in due casi: o quando, cessata la malattia, questa risulti guarita senza reliquati; ovvero quando la malattia si risolva con esito letale. La nozione medico-legale di "invalidità permanente" presuppone, dunque, che la malattia sia cessata, e che l'organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile. Si intende, pertanto, come nell'ipotesi di morte causata dalla lesione, non sia configurabile alcuna invalidità permanente in senso medico-legale: la malattia, infatti, non si risolve con esiti permanenti, ma determina la morte dell'individuo. Ne consegue che quando la morte è causata dalle lesioni, dopo un apprezzabile lasso di tempo, il danneggiato acquisisce (e quindi trasferisce agli eredi) soltanto il diritto al risarcimento del danno biologico da inabilità temporanea e per il tempo di permanenza in vita. Ovviamente, ... la quantificazione del danno biologico da inabilità temporanea assoluta subito dal de cuius nell'apprezzabile intervallo di tempo tra la lesione del bene salute e la morte conseguente a tali lesioni, va operata tenendo presenti le caratteristiche peculiari di questo pregiudizio, costituite dal fatto che si tratta di un danno alla salute che, se pure è temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità. Di tanto il giudice di merito dovrà necessariamente tener conto, sia se applica il criterio di liquidazione equitativa, cosiddetto "puro", sia se applica i criteri di liquidazione tabellare o a punto, poiché, come questa Corte ha più volte ribadito, la legittimità dell'utilizzazione di detti ultimi sistemi liquidatori, essendo fondata sempre sul potere di liquidazione equitativa del giudice, passa necessariamente attraverso la cosiddetta "personalizzazione" degli stessi, costituita dall'adeguamento al caso concreto. La peculiarità del "danno biologico terminale" è che esso è di tale entità ed intensità da condurre a morte un soggetto in un limitato, sia pure apprezzabile, lasso di tempo" (Cass. 7632/2003; conformi Cass. 18305/2003; Cass. 18163/07; Cass. 16592/2019). 11.c. Aderendo alle condivisibili conclusioni cui è pervenuto il c.t.u. e applicando i principi anzidetti al caso di specie, deve ritenersi che a decorrere dal maggio del 2010 sussista un danno biologico da invalidità permanente del 45%, facendo riferimento all'accreditato barème medico-legale di cui alla guida valutativa S. utilizzata dal dott. C.. Il sig. (...), a seguito dell'intervento chirurgico, infatti, ha avuto una condizione sanitaria stabilizzata per circa due anni, durante la quale gli esami medici eseguiti rilevavano l'assenza di segni di ripresa della malattia: in particolare la PET/TC del 26.4.2011 non mostrava segni di ripetizione di tipo neoplastico, né ciò emergeva nel successivo follow-up eseguito con esami clinici, ematici e strumentali. Solo il 2.5.2013 una PET/TC ha evidenziato l'aumentata attività metabolica in corrispondenza di una linfoedenomegalia localizzata in sede ilare polmonare sinistra, con diagnosi del 30.5.2013 di carcinoma neuroendocrino (cfr. relazione clinica dell'ospedale S. Camillo Forlanini del 15.4.2014, doc 10 fasc. ricorrente) e inizio della chemioterapia in data 11.6.2013. Da quel momento e fino al decesso avvenuto l'11.12.2014 il ricorrente ha avuto un danno biologico da invalidità assoluta temporanea per n. 519 giorni. Deve ritenersi che in detto arco temporale di 519 giorni, come emerge dalla documentazione in atti (doc. 10, 11 fasc. ricorrente) e dalla c.t.u., i debilitanti trattamenti chiemioterapici e le sofferenze fisiche patite dal sig. il sig. (...) a causa della malattia, abbiano determinato la sua assoluta temporanea invalidità essendo le sue condizioni di salute talmente deteriorate e compromesse dal punto di vista clinico-funzionale da rendergli impossibile lo svolgimento di qualsiasi attività. Il de cuius, infatti, era sensibilmente limitato nella capacità di far fronte alle esigenze personali del vivere quotidiano perché la sua malattia coinvolgeva l'intero organismo, con necessità di terapie che hanno alterano notevolmente la cenestesi. 12. Ai fini della liquidazione del danno in parola, ritiene l'Ufficio di adottare, quale parametro di riferimento, il valore monetario individuato dalle Tabelle per la liquidazione del danno biologico adottate dal Tribunale di Roma nell'anno 2019. 12.a.Non ignora questo giudice che la Suprema Corte ha individuato le tabelle milanesi come criterio generale di liquidazione equitativa del danno alla persona (Cass. 12408/2011, Cass. 4447/14, Cass. 20895/15 e altre successive). D'altro canto, tuttavia, la Cassazione ha ripetutamente affermato che non sussiste un diritto del danneggiato ad ottenere la liquidazione del danno in base ad una specifica tabella in uso presso un determinato ufficio giudiziario, né il giudice è vincolato ad utilizzare le tabelle in uso presso il proprio ufficio: la liquidazione è rimessa alla valutazione equitativa del giudice che deve solo motivare la sua scelta (Cass. 1524/2010, Cass. 16237/05; Cass. 13130/2006, Cass. 4186/2004) e che può certamente avvalersi di criteri equitativi diversi da quelli espressi dalle tabelle milanesi, qualora più congrui e più rispondenti alle esigenze del caso concreto. A tale riguardo è stato messo in rilievo come elemento di criticità delle Tabelle milanesi quello per cui il danno morale fosse incluso automaticamente nel punto percentuale del danno biologico, laddove esso deve essere invece considerato come una voce autonoma rispetto al danno biologico (cfr. tra le altre Cass. 24075/2017; Cass. 901/2018; Cass. 8580/2019) e in tempi più recenti sono state rilevate altre specifiche criticità relative alle regole di quantificazione del danno biologico permanente secondo quelle Tabelle (Cass. ord. 41933/2021). 12.b. Deve, invece, ritenersi che le Tabelle romane siano più idonee per la soluzione del caso concreto perché consentano di computare il danno biologico in modo distinto da quello morale e di quantificarlo in una dimensione standard, senza inglobare le eventuali percentuali riferibili ai diversi possibili aspetti della personalizzazione. Esse, invero, sono state revisionate nel 2019 e nella Relazione di accompagnamento, a cui si fa in questa sede integralmente rinvio, viene dato ampio conto delle ragioni per le quali dette tabelle siano ritenute preferibili rispetto alle altre. Nella detta Relazione, in particolare, si evidenzia come dopo l'entrata in vigore delle L. n. 24 e n. 124 del 2017 nonché dopo le sentenze della Corte di Cassazione 901/2018, 7513/2018 e 13770/2018, i criteri di valutazione previsti dalle Tabelle milanesi non sarebbero più conformi al dettato normativo di cui agli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni e non sarebbero più rispondenti ai principi dettati dalla Suprema Corte in tema di danno morale, per cui lo sforzo delle tabelle di Roma è di costruire il punto percentuale (dal suo interno) tenendo conto di queste nuove esigenze che riguardano sia il modo in cui esso cresce in funzione della percentuale dei postumi, sia della componente biologica e morale. In particolare esse si basano: a. per quanto concerne l'invalidità permanente sul punto base il cui valore economico in funzione del parametro dell'età e dell'entità dei postumi: esso è funzione crescente rispetto alla percentuale di invalidità e cresce in modo più che proporzionale rispetto all'aumento percentuale assegnato ai postumi, anche oltre il 38%; b. prevedono la possibilità di maggiorazioni percentuali soggettive per il caso in cui l'attore alleghi e provi un danno biologico eccezionale che superi cioè le conseguenze standard; c. quantificano il danno morale fuori dal punto percentuale del danno biologico standard con fasce parametrate al danno biologico che consentono una ulteriore, più puntuale, personalizzazione; d. per quanto concerne l'invalidità temporanea, prevedono il riconoscimento di Euro 110,60 al giorno per l'invalidità temporanea assoluta ed Euro 55,30 per l'invalidità temporanea parziale al 50%. Per questi motivi, dunque, si ritiene qui di fare applicazione delle Tabelle romane, tenendo conto che - come allegato dalla parte ricorrente - oltre al danno biologico, il de cuius ha patito nel caso che ci occupa anche un danno morale terminale, cd. catastrofale, che deve essere risarcito equitativamente. Tale danno non patrimoniale è determinato dal fatto che il sig. (...), dopo l'apparente guarigione dal primo tumore e il trascorrere di alcuni anni nei quali le sue condizioni si erano stabilizzate, ha avuto la diagnosi di un secondo tumore e ha visto progressivamente e rapidamente decadere le proprie condizioni di salute, nella piena e lucida consapevolezza dell'esito infausto della prognosi e quindi dell'approssimarsi inesorabile della morte, senza che le cure potessero sortire alcun effetto. 13. Tutto ciò premesso e venendo al caso di specie, aderendo alle conclusioni a cui è pervenuto il c.t.u., in quanto immuni da vizi, per le patologie riportate dal ricorrente in applicazione dei citati criteri, si stima equo liquidare quanto segue. 13.a. A titolo di danno biologico permanente, inteso quale danno all'integrità psico-fisica oggetto di tutela costituzionale (art. 32 Cost.), ai valori attuali, tenendo conto dell'età del soggetto al momento della prima malattia (all'epoca di 67 anni) e dell'affidabile bareme medico-legale impiegato dal c.t.u., per il 45% di invalidità permanente, l'importo di Euro 196.234,16. La quantificazione viene qui operata in via equitativa attenendosi al parametro tabellare, senza operare personalizzazioni, posto che non è stato allegato e non è comunque emerso dall'istruttoria che il ricorrente durante la prima fase della malattia abbia avuto sofferenze fisiche particolarmente prolungate nel tempo o di eccezionale intensità, anche in termini di dolore nocicettivo o di cenestesi lavorativa ovvero che abbia subito ripercussioni sulla sfera dinamico-relazionale superiori rispetto a quelle medie. 13.b Quanto, invece, al secondo segmento temporale, dal giugno del 2013 fino al decesso, la valutazione del danno - sempre equitativa - va condotta secondo il meccanismo di liquidazione dell'invalidità temporanea assoluta. Infatti in considerazione del lungo intervallo di tempo tra la scoperta del secondo tumore e la morte (di 519 giorni), ritiene l'ufficio equo liquidare il danno partendo dall'importo dell'invalidità temporanea giornaliera e poi operare un opportuno adeguamento, tenuto conto del fatto che, detto danno, se pure temporaneo, ha raggiunto la massima entità ed intensità, senza possibilità di recupero, atteso l'esito mortale (Cass. 22228/2014; Cass. 15491/2014) e di non utilizzare diversi parametri di liquidazione equitativa che meglio si attagliano ad ipotesi nella quali il decesso, senza postumi stabilizzati, sia intervenuto a breve distanza dall'evento lesivo. Le Tabelle romane prevedono per ogni giorno di inabilità temporanea assoluta, l'importo di Euro 110,60 risultando, quindi, pari ad Euro 1.106 il valore di ciascun punto percentuale. Tale valore deve, come chiarito, essere adeguato nel caso di specie in ragione della peculiarità della patologia, causa della lesione alla salute del de cuius, connotata da una prognosi che sin dal suo esordio clinico è stata infausta, con conseguente impatto psicologico fortemente negativo, dalla necessità di ripetuti cicli di chemioterapia, notoriamente implicanti rilevanti e negativi effetti collaterali per la qualità della vita, dalla necessità di interventi di aspirazione di liquido formatosi nei polmoni (cfr. elaborato peritale). Pertanto, tenuto conto del progredire della malattia, nonostante i cicli di chemioterapia, che rendeva pressoché certa la prognosi infausta e, quindi, del progressivo intensificarsi delle sofferenze psichiche provate dal sig. (...) e delle limitazioni allo svolgimento delle attività quotidiane e relazionali si ritiene di adeguare il valore giornaliero anzidetto di Euro 110,60 quintuplicandolo. Applicando tali criteri, si perviene alla somma di Euro 287.007,00 (pari a 519 giorni x Euro 110,60 x 5). Il danno biologico del sig. (...) ammonta, dunque, a complessivi Euro 483.241,16, di cui Euro 196.234,16 a titolo di invalidità permanente ed Euro 287.007,00 a titolo di invalidità temporanea personalizzata. 13.c. Tale somma è destinata a risarcire l'intero danno non patrimoniale subito dal de cuius, poiché la relativa liquidazione è stata eseguita tenendo conto, da un lato, del carattere unitario del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., dall'altro delle necessità di un integrale risarcimento di tale danno, tenendo conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi dello stesso nel caso di specie, tramite l'incremento della somma dovuta a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione, secondo i principi affermati dalla più recente giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass. SS.UU.26972/2008, Cass. 24864/2010, Cass. 11950/2013, Cass. 21716/2013, Cass. 17577/2019). 14. Dalla somma liquidata in favore del de cuius a titolo di danno biologico permanente di Euro 196.234,16, deve essere decurtato l'importo dei ratei della rendita diretta corrisposta dall'Inail. Segnatamente come chiarito dalla Suprema Corte il calcolo va effettuato per poste omogenee: "in tema di liquidazione del danno biologico cd. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa Inail in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicchè, dall'ammontare complessivo del danno biologico, va detratto non già il valore capitale dell'intera rendita costituita dall'Inail, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell'art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell'assicurato, volta all'indennizzo del danno patrimoniale" (così Cass. 13222/2015; Cass. 20807/2016; Cass. 9166/2017). Pertanto il giudice di merito dopo aver calcolato in danno civilistico deve procedere alla comparazione di tale danno con l'indennizzo erogato dall'Inail secondo il criterio delle poste omogenee, tenendo presente che detto indennizzo ristora unicamente il danno biologico permanente e non gli altri pregiudizi che compongono la nozione unitaria del danno non patrimoniale (Cass. 12041/2020; Cass. 7471/2022). Occorre, dunque, dapprima distinguere il danno non patrimoniale dal danno patrimoniale e successivamente con riferimento al danno non patrimoniale, dall'importo liquidato a titolo di danno civilistico vanno espunte le voci escluse dalla copertura assicurativa cioè il danno morale e il danno biologico temporaneo per poi detrarre dall'importo così ricavato il valore capitale della sola quota della rendita Inail destinata al ristorare il danno biologico permanente (Cass. 9112/2019, Cass. 8580/19). Nell'ipotesi, poi, in cui il danneggiato sia deceduto può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno differenziale in favore degli eredi solo quanto già percepito dal de cuius alla data del decesso e non anche i ratei da percepire in futuro ovvero la rendita capitalizzata, dal momento che con il decesso del beneficiario cessa l'obbligo della relativa corresponsione e il danneggiante verrebbe altrimenti a trarre inammissibilmente vantaggio dal proprio illecito (Cass. 32916/22 sia pure con riferimento a diversa fattispecie dell'indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992). Solo nell'ipotesi in cui il danneggiato sia ancora in vita, ai fini della liquidazione del danno devono detrarsi i ratei già versati dall'Inail alla vittima e il valore capitale della rendita ancora da versare a titolo di danno biologico (Cass. 25618/2018). Pertanto dall'importo di Euro 196.234,16 dovuto a titolo di danno biologico permanente civilistico va detratto l'importo di Euro 12.689,74 a titolo di ratei percepiti dal de cuius per la rendita diretta Inail in quota danno biologico (cfr. doc. 8 fasc. ricorrente). Infatti nel prospetto in atti risulta che l'Inail ha corrisposto al sig. (...) dal 3.12.2013 al 12.11.2014, ratei di rendita per la somma complessiva di Euro 33.976,31, di cui la componente biologica ammonta ad Euro 12.689,74. L'importo dovuto a titolo di danno biologico permanente differenziale è, dunque, di Euro 183.544,42, mentre l'importo dovuto a titolo di danno biologico temporaneo complementare è di Euro 287.007,00. L'importo complessivo dovuto iure successionis è di Euro 470.551,42. Trattandosi di importo liquidato all'attualità, sullo stesso spettano interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data della presente pronuncia al soddisfo. 15. Risarcimento del danno iure proprio. Passando ad esaminare la domanda risarcitoria del danno non patrimoniale proposta dalla ricorrente iure proprio, rileva l'ufficio che la stessa è fondata. 15.a. Preliminarmente, infatti, va dato conto del fatto che appaiono sussistere i presupposti della responsabilità aquiliana della società resistente dovendosi ritenere - alla luce di quanto sopra osservato - pienamente integrata la prova della condotta omissiva, in punto di mancata adozione delle misure di sicurezza e della necessaria informazione, dell'evento dannoso e del nesso di causalità. Quanto all'elemento soggettivo, deve ritenersi positivamente dimostrata la colpa datoriale, consistente nel comportamento di negligenza, imperizia, imprudenza nell'organizzazione aziendale nel periodo di riferimento, pur a fronte della nota nocività dell'amianto e quindi nell'inosservanza degli obblighi di prevenzione come sopra specificamente individuati. 15.b. In merito alla liquidazione del danno derivante dalla perdita di un congiunto, la Suprema Corte ha affermato che il soggetto che chiede iure proprio il risarcimento del danno subito in conseguenza della morte di un congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta l'incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, sia dall'interesse all'integrità morale e ciò in quanto l'interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia e all'inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. (cfr. Cass. 2008, nn. 8827 e 8828). Le Sezioni Unite n. 26972 del 2008 hanno, poi, affermato che la perdita di una persona cara implica necessariamente una sofferenza morale, la quale non costituisce un danno autonomo, ma rappresenta un aspetto, del quale tenere conto, unitamente a tutte le altre conseguenze, nella liquidazione unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale. Più di recente la Suprema Corte ha affermato in tema di danno non patrimoniale, la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, incidente sulla conservazione dell'equilibrio emotivo-soggettivo del danneggiato e, in una dimensione dinamico-relazionale, sull'impedita prosecuzione concreta di una relazione personale, non costituisce una duplicazione risarcitoria rispetto alla liquidazione del danno biologico alla salute del congiunto, trattandosi di voci di danno diversa e derivante dalla lesione di beni logicamente ed ontologicamente distinti che trovano riferimento, rispettivamente, nell'art. 29 e nell'art. 32 Cost. (Cass. 9857/2022). Nel caso di specie, esclusa qualsiasi lesione dell'integrità psico-fisica, viene in rilievo il solo danno non patrimoniale sofferto dalla ricorrente, quale moglie convivente del lavoratore deceduto. A tale riguardo la Corte di legittimità ha chiarito che "in tema di danno non patrimoniale, il pregiudizio patito dai prossimi congiunti della vittima va allegato, ma può essere provato anche a mezzo di presunzioni semplici e massime di comune esperienza, dato che l'esistenza stessa del rapporto di parentela fa presumere la sofferenza del familiare superstite, ferma restando la possibilità, per la controparte, di dedurre e dimostrare l'assenza di un legame affettivo, perché la sussistenza del predetto pregiudizio, in quanto solo presunto, può essere esclusa dalla prova contraria, a differenza del cd. "danno in re ipsa", che sorge per il solo verificarsi dei suoi presupposti senza che occorra alcuna allegazione o dimostrazione" (Cass. 25541/2022). Tale danno nel caso di specie - tenuto conto dell'intensità del vincolo di coniugio e di ogni ulteriore circostanza, quale la consistenza del nucleo familiare, le abitudini di vita, la situazione di convivenza- può essere liquidato equitativamente assumendo come parametro il valore previsto dalle Tabelle del Tribunale di Roma del 2019, generalmente applicate nel distretto giudiziario e vigenti al momento della liquidazione, le quali appunto a tali elementi hanno riguardo. In base a tali Tabelle il valore di punto è pari ad Euro 9.806,70 ed è previsto un valore base di venti punti per il coniuge, che può essere aumentato di ulteriori 2 punti in considerazione dell'età della vittima e di ulteriori 4 punti per la convivenza e di ulteriori 2 punti in considerazione dell'età del congiunto, per complessivi Euro 274.587,60, così dovendo essere quantificato il danno non patrimoniale spettante alla vedova convivente, sig.ra (...). (...) s.p.a. deve essere condannata a pagare, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale rivendicato jure proprio, la somma di Euro 274.587,60 in favore di (...), oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla data delle presente pronuncia. 15.c. L'importo dovuto all'erede quale danno non patrimoniale iure proprio, non può essere decurtato in ragione delle prestazioni erogate dall'Inail, costituendo principio consolidato quello secondo cui le prestazioni erogate da detto Istituto a norma dell'art. 85 T.U. n. 1124 del 1965 in favore dei congiunti del lavoratore deceduto non sono intese ad indennizzare danni diversi da quelli patrimoniali, ed in particolare quelli di cui all'art. 2059 c.c. (cfr. Cass 17655/2020; Cass. 30857/2017; Cass., 18.5.2000, n. 6480; Cass., 28.1.97, n. 859). 16. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza; nei rapporti tra la ricorrente e la parte convenuta la liquidazione avviene in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari nel ricorso. Le spese delle due c.t.u., liquidate come da separati decreti, sono a carico di parte convenuta. P.Q.M. Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede: - accertata la sussistenza del nesso causale fra l'attività lavorativa e la patologia che ha determinato il decesso del sig. (...) e la responsabilità del datore di lavoro, condanna la società resistente al pagamento, in favore della ricorrente (...) nella qualità di erede, dell'importo complessivo di Euro 470.551,42 a titolo di danni non patrimoniali subiti dal de cuius, oltre accessori come in parte motiva; - condanna la società resistente al pagamento in favore di (...) della somma di Euro 274.587,60, a titolo di danno non patrimoniale iure proprio, oltre accessori come in parte motiva; - rigetta le domande di (...); - condanna la società resistente al pagamento dei compensi professionali in favore della parte ricorrente (...) che liquida in complessivi Euro 9.500,00, oltre rimborso forfettario al 15%, IVA e CPA come per legge, nonché rimborso del contributo unificato, da distrarsi in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari; - condanna (...) al pagamento delle spese di lite in favore della società resistente che liquida in complessivi Euro 9.500,00, oltre rimborso forfettario al 15%, IVA e CPA; - pone definitivamente a carico della società resistente le spese di entrambe le C.T.U., già liquidate come da separati decreti. Così deciso in Roma il 3 maggio 2023. Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI CAGLIARI SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI composta dai magistrati dott. Maria Teresa Spanu - Presidente dott. Cinzia Caleffi - Consigliere rel. dott. Cristina Fois - Consigliere ha pronunziato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 398/2019 RG promossa da (...) in persona del legale rappresentante (PI (...)) elettivamente domiciliata in VIA (...) SASSARI presso l'ufficio legale e rappresentata e difesa dall'avv. CO.CA. per procura in atti; appellante-appellata incidentale contro (...) (CF (...)) in persona dell'AdS avv. Gi.Ca. elettivamente domiciliata in VIA (...) SASSARI presso lo studio dell'avv. CA.GI. e rappresentata e difesa dall'avv. GA.FE. per procura in atti; appellata-appellante incidentale All'udienza del 20.1.2023 sono state precisate le seguenti SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ordinanza emessa ex art. 702 ter c.p.c. in data 22.7.2019, il Tribunale di Sassari, in accoglimento della domanda proposta da (...), condannava la (...), rimasta contumace, al pagamento in favore della (...) della somma di Euro 178.115,30 per danno non patrimoniale e di Euro 8.954,00 per spese mediche, in relazione agli esiti pregiudizievoli asseritamente derivati dagli interventi chirurgici subiti rispettivamente nel 2005 presso l'Istituto di Patologia Chirurgica dell'(...) n. 1 e nel 2006 presso la Clinica Neurochirurgica dell'Università di Sassari per la cura di ragadi anali e svolti in modo imperito dai sanitari intervenuti. In particolare, il tribunale gravato, sulla scorta dell'accertamento tecnico reso in sede di ATP dal medico legale dott. (...), riteneva sussistenti elementi di censura all'operato dei medici, i quali erano intervenuti chirurgicamente prima di una corretta definizione diagnostica e fisiopatologica della situazione e senza prescrivere una terapia medica, cagionando alla paziente un intrappolamento del nervo pudendo ed esiti invalidanti nella misura del 30%. Il giudice di prime cure liquidava il danno non patrimoniale sulla base delle Tabelle di Milano, con una personalizzazione del 10% per le "inevitabili conseguenze relazionali derivanti dagli interventi subiti", negando invece il danno patrimoniale da riduzione della capacità di guadagno, perché non adeguatamente dimostrato in relazione al "quantum", e quello da violazione del consenso informato, in difetto di prova del fatto che la (...), ove debitamente informata, avrebbe rifiutato il consenso. Infine, il tribunale riconosceva gli esborsi per spese mediche nell'importo di Euro 8.954,00. L'A. ha proposto appello censurando la sentenza, con un unico articolato motivo, nella parte in cui recepiva le errate conclusioni cui era pervenuto il consulente tecnico d'ufficio, posto che gli interventi non solo erano stati eseguiti a regola d'arte e con esiti positivi per la (...) ma altresì erano inidonei a determinare un intrappolamento del nervo pudendo, trattandosi di una area anatomica distante da quella oggetto degli interventi chirurgici. L'appellante ha, quindi, domandato il rinnovo della c.t.u. (...), in persona del suo Amministratore di Sostegno, si è costituita in giudizio resistendo all'appello, di cui ha chiesto il rigetto perché infondato. In via incidentale, la (...) ha domandato la riforma della sentenza: - nella parte in cui riconosceva una personalizzazione del danno non patrimoniale nella inadeguata misura del 10%; - nella parte in cui negava il danno da riduzione della capacità di lavoro specifica; - nella parte in cui ometteva ogni pronuncia sulla perdita di chances e sulla domanda relativa alle spese di assistenza future. Sospesa l'efficacia esecutiva della sentenza impugnata e disposta la rinnovazione della consulenza tecnica d'ufficio - previa nomina di un collegio peritale formato da un medico legale e da uno specialista chirurgo, in conformità a quanto previsto dalla L. n. 24 del 2017 - la causa è stata trattenuta in decisione sulle conclusioni sopra trascritte. Parte appellata all'udienza 8.7.2022 ha eccepito la nullità della consulenza tecnica d'ufficio, con argomentazioni sviluppate anche nella comparsa conclusionale. MOTIVI DELLA DECISIONE Con ordinanza in data 23.4.2020, la Corte - in considerazione delle contestazioni avanzate da parte appellante con particolare riguardo al nesso di causalità tra gli interventi cui la (...) era stata sottoposta presso le strutture sanitarie di Sassari e la lamentata lesione del nervo pudendo con sintomatologia dolorosa intrattabile - ha ritenuto necessario disporre il rinnovo della CTU, tenendo anche conto delle indicazioni di cui alla L. n. 24 del 2017, mediante la nomina di un medico legale unitamente ad uno specialista chirurgo, sul quesito già oggetto di ATP e finalizzato sostanzialmente a valutare la natura e l'entità delle lesioni pregiudizievoli riscontrate nella (...) ed il loro rapporto di causalità con gli interventi chirurgici subiti dalla paziente. I consulenti nominati, il medico legale dott.ssa (...) ed il chirurgo Dott. (...), all'udienza del 14.5.2021 sono stati autorizzati ad avvalersi di un collaboratore, nella specie il prof. (...), al solo scopo di sottoporre la paziente ad un questionario sul dolore. All'esito delle indagini peritali, gli ausiliari hanno depositato la loro relazione definitiva in data 1.4.2022. Ciò posto, va innanzi tutto disattesa l'eccezione avanzata dall'appellata di nullità della c.t.u. per essere stata resa in spregio al principio del contraddittorio, sul presupposto che "la valutazione dello stato psico - fisico della signora (...) è stata eseguita mediante lo svolgimento di visita medica presso l'abitazione dell'appellata e la somministrazione di un questionario da parte del Dott. (...), questionario che, oltre ad essere stato inviato solo al legale dell'appellata (vedasi quanto riferito a pag. 26 della perizia), in aperta violazione del principio del contraddittorio rispetto ai CCTTPP di parte appellata, sembra essere destituito di attendibilità anche per gli stessi CCTTUU che, tuttavia, ne traggono informazioni tali da farli pervenire a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle a cui, pur sulla base del medesimo quadro documentale, era pervenuto il CTU incaricato in sede di ATP" (vedi comparsa conclusionale (...)). Quanto alla visita medica, è sufficiente evidenziare come la stessa sia stata svolta dai cc.tt.uu. "in data 06.11.2020 ...presso l'abitazione dell'appellata" ed "i CCTTPP ritualmente nominati hanno partecipato da remoto. In tale occasionesi è proceduto alla raccolta anamnestica ed all'esame obiettivo, rimandando la discussione del caso" (vedi relazione pag. 24), senza quindi alcuna violazione del contraddittorio. Quanto invece alla somministrazione del questionario sul dolore, come sopra evidenziato, i consulenti nominati dalla Corte, il medico legale dott.ssa (...) ed il chirurgo Dott. (...), all'udienza del 14.5.2021 sono stati autorizzati ad avvalersi di un collaboratore, nella specie il prof. (...), al solo scopo di sottoporre la paziente ad un questionario sul dolore. Tale specialista è, pertanto, intervenuto nelle indagini peritali solo come mero collaboratore dei cc.tt.uu. e non ausiliario del giudice, nominato per l'esercizio di attività secondarie e specifiche, quali, nel caso di specie, la compilazione di un questionario sul dolore, consegnato alla (...) e restituito ai cc.tt.uu. tramite il legale di fiducia dell'appellata. A pag. 26 della relazione gli ausiliari hanno, infatti, dato atto che "Previo accoglimento di formale istanza trasmessa dai CCTTU, finalizzata alla richiesta di avvalersi di ulteriore ausiliario Specialista in Terapia del Dolore, ...Il Prof. (...) ha trasmesso un questionario ... inviato al Legale della Appellata la quale, dopo averlo compilato, lo ha trasmesso ai CCTTU tramite il Legale di fiducia". Non è, quindi, configurabile alcuna violazione del contraddittorio - peraltro, ravvisabile esclusivamente laddove eventualmente l'operato del collaboratore sostituisca integralmente quello del consulente (vedi Cass. n. 4257/18) - mentre nel caso di specie, espletata l'attività di sottoposizione alla paziente del test da parte del collaboratore, entrambe le parti sono state poste in grado di muovere le loro osservazioni sul punto in sede di redazione della consulenza tecnica, anche con riguardo alla modulistica utilizzata dal prof. (...) e su cui alcun rilievo è stato mosso né in sede di osservazioni né nella comparsa conclusionale. Pertanto, è assolutamente inconferente che i cc.tt.pp. non abbiano "avuto alcun incontro col prof. (...) ausiliario" (vedi osservazioni cc.tt.pp di parte appellata alla bozza di relazione), il cui unico compito è stato quello di sottoporre il questionario alla (...), mentre non è vero che "le risposte ai quesiti siano orientate in maniera preponderante dalla relazione specialistica del Prof. (...), ausiliario specialista in Terapia del Dolore" (vedi sempre osservazioni cc.tt.pp di parte appellata alla bozza di relazione), posto che i cc.tt.uu., come si vedrà in seguito, hanno fondato le loro valutazioni su di una analisi complessiva di tutta la documentazione sanitaria in atti e dell'esito della visita clinica della paziente condotto dai cc.tt.uu. stessi nella abitazione della paziente e nel contraddittorio delle parti, e non certo, né in via esclusiva né "preponderante", come dedotto da parte appellata, sulla relazione del dott. (...) allegata al questionario, dovendosi, comunque, negare che "che costituisca motivo di nullità della consulenza il sol fatto che il consulente abbia attinto elementi di giudizio anche dalle cognizioni e dalle percezioni del proprio collaboratore" (vedi sent. citata). Non ha, inoltre, fondamento, quale ulteriore causa di nullità della c.t.u., quanto dedotto da parte appellata, per la prima volta nella comparsa conclusionale, relativamente al fatto che il prof. (...) è risultato "una figura del tutto parziale e assolutamente non equidistante dalle parti in causa": - perché "di recente nominato da ares (già ats) con determinazione dirigenziale del 26.04.2022 quale componente di un collegio tecnico, e ciò in assoluta concomitanza temporale con il deposito della relazione peritale della presente causa, negativa per la signora (...) e positiva per ats"; - e perché avrebbe partecipato alla stipulazione di una Convenzione di collaborazione tra Università di Cagliari e (...) per l'espletamento dell'attività di tutoraggio degli studenti iscritti ai corsi di Laurea/Studio della Facoltà di Medicina e Chirurgia della Università di Cagliari. Orbene, il 26.4.2022 - peraltro successivamente al deposito della c.t.u. datata 1.4.2022 nonché alla compilazione del questionario risalente addirittura ad un anno prima (2.7.2021) - il Prof. (...), quale Direttore di Anestesia e Rianimazione dell'Azienda O.U.C., veniva nominato componente di un Collegio Tecnico, individuato dalla Direzione Sanitaria della A. n. 8 di (...), per la valutazione, al termine del periodo di prova, dell'incarico di Direttore di Anestesia e Rianimazione dell'Ospedale Marino di Cagliari e San Giuseppe di Isili, del dott. (...). Il Prof. (...), quale Presidente della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Cagliari, risulta inoltre avere sottoscritto una Convenzione disciplinante "la collaborazione tra Università di Cagliari e e (...) nell'espletamento dell'attività di tutoraggio degli studenti iscritti ai corsi di Laurea/Studio della Facoltà di Medicina e Chirurgia della Università di Cagliari" (depositata unitamente alla comparsa conclusionale e di cui si disconosce la data). In disparte la preliminare considerazione che il Prof. (...) non è stato nominato c.t.u. nel presente procedimento ma mero collaboratore per l'espletamento di attività collaterali allo svolgimento della perizia tecnica, è appena il caso di rilevare che, quanto alla nomina del 26.4.2022, le attività svolte dal collaboratore risalgono ad un periodo antecedente e quanto alla convenzione tra l'Università di Cagliari e l'(...), di cui si disconosce la data, il prof. (...) ha partecipato unicamente nella sua veste istituzionale di Presidente della Facoltà di Medicina. Pertanto, deve escludersi che tali vicende possano, di per sé, fondare una valutazione di mancanza di imparzialità del collaboratore stesso, il cui intervento si è caratterizzato unicamente per la predisposizione del questionario allegato agli atti. Tanto premesso, dalla documentazione depositata risulta, in fatto, che: - la (...) nel febbraio 2002 era stata sottoposta presso l'Ospedale Civile di Sassari ad un intervento chirurgico di sfinterotomia parziale laterale per una ragade anale, lamentando "intenso dolore al momento e dopo le evacuazioni, con alvo irregolare" (vedi cartella clinica ricovero); - nel luglio 2005, a causa di una nuova sintomatologia anale, in un "quadro compatibile con presenza di ragade anale recidiva e emorroidi non complicate", veniva ricoverata presso l'Istituto di Patologia Chirurgica dell'Università degli Studi di Sassari per essere sottoposta ad un altro intervento di sfinterotomia laterale sinistra per ragade anale; - il 14 marzo 2006 veniva sottoposta ad un nuovo intervento chirurgico di divulsione anale sec Lord per il trattamento di una ragade recidiva; - per il persistere di dolore in regione anale, il 25 luglio 2006 la paziente si era recata al Pronto Soccorso per essere presa in carico dal servizio di terapia antalgica dell'USL 1 Sassari e le veniva praticato un trattamento farmacologico a base di Tramadolo; - ad agosto 2006 la paziente aveva effettuato presso l'Azienda (...) una Elettromiografia ed un esame dei Potenziali Evocati del Nervo pudendo; - nel novembre 2006 veniva ricoverata presso il reparto di Neurochirurgia dell'Università Studi di Sassari dove, per il sospetto di un intrappolamento del nervo pudendo, veniva sottoposta il 16 novembre 2006 ad intervento chirurgico di decompressione; - nel periodo successivo all'intervento chirurgico decompressivo, la (...) era stata nuovamente seguita dalla medesima struttura dove, a causa della refrattarietà al tramadolo e la persistenza del dolore, era stata sottoposta a terapia con oppioidi; - nell'agosto 2008 veniva ricoverata presso il reparto di Terapia del dolore dell'(...) 8 di per impianto di elettrostimolatore provvisorio S3-S4; - nell'ottobre 2008 la paziente aveva subito un nuovo ricovero per introduzione di terapia psichiatrica (ansiolitici, antidepressivi, psicoterapia); - a dicembre 2008, veniva ricoverata per posizionamento di SCS definitivo; - a causa del persistere di algie perineali ed anali, per cui si trova in una situazione di semiallettamento, è stata riconosciuta invalida civile con diritto a percepire l'indennità di accompagnamento e portatrice di handicap in situazione di gravità. Secondo le allegazioni della (...), gli interventi rispettivamente del 2005 e del 2006 erano stati eseguiti in modo errato, essendo "molto verosimile, infatti, che il secondo (15.07.2005) ed il terzo intervento (14.03.2006) abbiano causato una lesione da intrappolamento del nervo pudendo", determinando il danno attualmente lamentato e costituito da "una sintomatologia dolorosa intrattabile in regione anale, perianale sx ed alla coscia omolaterale resistente ai farmaci ed al neuro stimolatore" (vedi ricorso introduttivo del giudizio). I cc.tt.uu. all'esito delle indagini peritali, hanno concluso sostenendo, da un lato, che la paziente è affetta da "neuropatia della regione anale-perineale refrattaria alle terapie" e, dall'altro, che "la condotta dell'Appellante ... non ha comportato una significativa modificazione del quadro clinico rispetto all'epoca antecedente, quando la sintomatologia dolorosa allegata era significativa risultando refrattaria ai trattamenti conservativi praticati al punto da condurre ad intervenire e reintervenire chirurgicamente" e non ha "di fatto prodotto i danni iatrogeni documentati". In particolare, gli ausiliari, in contrasto con quanto affermato nella relazione di primo grado, hanno escluso che la neuropatia di cui soffre la (...) sia conseguenza degli interventi chirurgici subiti e sia stata determinata da una lesione del nervo pudendo, ritenendo invece che l'etiopatogenesi della neuropatia cronica sia da ricondurre "ad una molteplicità di fattori (stipsi ostinata, lavoro che prevedeva lunghe sessioni in posizione seduta, dipendenza da oppiacei che possono aver solo aggravato la stipsi, manovre manuali di svuotamento della ampolla manuale)". Innanzi tutto, i due consulenti hanno preliminarmente evidenziato (vedi relazione pag. 35) delle incongruenze tra quanto rilevato nella compilazione del questionario del prof. (...), dove emerge "un punteggio massimo per quasi tutte le domande" ed "il quadro clinico obiettivato in corso di attività peritali", posto che alla visita domiciliare compiuta dai cc.tt.uu. il 6.11.2020, la (...), la quale "riporta nel questionario di avvertire moltissimo dolore al contatto con indumenti in regione anale", non ha riferito altrettanto, nonostante durante la visita indossasse "biancheria intima e pigiama, due indumenti che sono a stretto contatto con la regione perianale, glutea sinistra a sciatica omolaterale, non riferendo in quella occasione alcun dolore evocato dagli indumenti", precisando inoltre che "anche alla domanda sulla comparsa di dolore ad una leggera pressione sulla regione anale la (...) risponde apponendo la crocetta sulla voce "moltissimo", seppure durante la visita peritale non abbia lamentato dolore durante l'esplorazione rettale praticata". Inoltre, sempre in via preliminare, i cc.tt.uu. hanno osservato come "la nevralgia del nervo pudendo ... causata dall'"intrappolamento" delle fibre del nervo pudendo ... rappresenta una sindrome dolorosa neuropatica severa e disabilitanta rara, ..... estremamente impegnativa perché non esistono specifici test diagnostici", risultando "necessari una attenta anamnesi ed uno scrupoloso esame obiettivo per raggiungere una diagnosi che è prevalentemente clinica", ma che può essere fondata anche su "Test diagnostici utili", quali "il blocco nervoso con anestetici locali, i potenziali evocati (esami che studiano le risposte del sistema nervoso centrale ad uno stimolo sensoriale: i pazienti con un danno nervoso non sono in grado di determinare modificazioni della temperatura), l'ecografia .....e la risonanza magnetica ..." nonché, dal 2018, altresì su di una valutazione fondata sui cd "criteri di Nantes" (per cui sono individuati dei criteri di inclusione ed esclusione specifici, dettagliatamente elencati a pagg. 36 e 37 della relazione). Tanto premesso, nel caso di specie, secondo i cc.tt.uu., non sono ravvisabili evidenze cliniche e/o strumentali tali da ritenere sussistente la suddetta patologia del nervo pudendo, cui ricondurre il dolore lamentato dalla (...). Il referto dei Potenziali Evocati del nervo pudendo e l'Elettromiografia del 16.08.2006, eseguiti presso l'Azienda (...), immediatamente dopo il terzo intervento di divulsione anale sec Lord, avevano dato esito negativo, evidenziando una "regolare condizione lungo la via sensitiva bilateralmente" e "tracciati privi di significato patologico". Durante il ricovero nel novembre 2006, la (...) veniva sottoposta ad RM del bacino, il quale "non aveva rilevato alcun danno anatomico residuato all'intervento di sfinterotomia praticato precedentemente e tale da giustificare la intensa sintomatologia dolorosa anale-perianale" (relazione pag. 47, dove è riportato il referto: "Il canale di Alcock appare bilateralmente nella norma: nulla da segnalare a livello dei rami d'innervazione dei mm. glutei e dell'elevatore dell'ano"). Nonostante gli esiti di tale Risonanza e la mancanza di evidenze strumentali in ordine alla presenza di una lesione del nervo pudendo, i sanitari della Neurochirurgia nel novembre 2006 avevano sottoposto la appellata ad intervento chirurgico di decompressione del nervo pudendo, in seguito al quale, peraltro, pur dandosi atto nei referti dell'esito positivo dell'intervento, la paziente aveva riferito di "un ulteriore aggravamento della sintomatologia locale che, tuttavia viene descritta in maniera non molto dissimile da quella lamentata nel periodo preoperatorio" (vedi relazione pag. 48). Infine, a dimostrazione del fatto che gli interventi chirurgici praticati sulla (...) non avevano "lasciato alcun reliquato sul canale anale", viene riportato dagli ausiliari il referto della ecografia Ultranonografia Rettale del 31.03.2008, dal quale risulta quanto segue: "Normale morfologia dei muscoli puborettale sfintere esterno e sfintere interno per tutto il canale anale. Non immagini riferibili a tramiti fistolosi o cavità ascessuali" (vedi relazione pag. 44). I cc.tt.uu. hanno, quindi, osservato come non siano risultate risolutive neppure "le altre terapie alternative praticate in epoca antecedente e successiva agli interventi chirurgici ed alla procedura manuale (divulsione anale).... (la Appellata è stata anche sottoposta a ripetuti interventi chirurgici di posizionamento di stimolatore midollare da cui non risulta aver tratto beneficio permanente ma solo transitorio)" (relazione pag. 49). Alla luce di tali evidenze, secondo gli ausiliari seppur "è probabile che vi possa essere stato un danno temporaneo (neuroaprassia) del nervo pudendo su base compressiva, risoltosi successivamente", posto che nella documentazione medica si dà atto "della presenza di una sindrome compressiva e non di una lesione delle fibre stesse", è da escludere che la neuropatia di cui è afflitta la (...) possa essere stata determinata da una lesione del nervo pudendo cagionata dagli interventi chirurgici, e ciò in forza: - di una valutazione complessiva dei referti diagnostici sopra riportati (Potenziali Evocati del nervo pudendo, Elettromiografia, ecografia Ultranonografia Rettale e RM del bacino), i quali non riferiscono mai di una sofferenza neurologica; - dei cd criteri di Nantes (vedi relazione pag. 47: "la sintomatologia dolorosa allegata dalla appellata non poteva essere riconducibile ad una nevralgia del pudendo anche in relazione alla clinica, non conforme ai criteri di Nantes impiegati nella pratica clinica per formulare tale diagnosi. Infatti, la (...) riferiva e riferisce algie in sede glutea, e nonha risposto al blocco anestesiologico del nervo pudendo, che costituiscono criteri di esclusione per la diagnosi di nevralgia del pudendo, confermando le risultanze negative degli esami strumentali praticati"), tenuto anche conto che "la neuropatia da cui risultava affetta la (...) ...non viene definita dagli specialisti in Terapia del Dolore che negli anni successivi l'hanno avuta in cura, come nevralgia del pudendo ma come neuropatia con irradiazione anale, glutea sinistra che non necessariamente riconosce una causa iatrogena". Anche l'ultimo referto in atti - certificato del 6 agosto 2018 a firma del dott. (...) - non riporta la diagnosi di nevralgia del pudendo ma di dolore neuropatico in regione perineale sinistra. Gli ausiliari sono pervenuti a tali conclusioni pur avendo rilevato due profili di colpa nella condotta dei sanitari, di cui hanno però escluso qualsiasi rapporto di causalità con la neuropatia lamentata dalla paziente. Premesso, infatti, che la (...) "all'epoca della prima visita chirurgica (2002), era affetta da una patologia nota come RAGADE ANALE", la quale costituisce "la più comune causa di dolore anorettale negli adulti (incidenza annuale stimata in circa lo 0,11%), rappresentando una delle più frequenti condizioni cliniche sottoposte a trattamento nei reparti di coloproctologia", gli ausiliari hanno innanzi tutto evidenziato che l'intervento chirurgico del 2005 veniva effettuato senza osservare un adeguato preliminare approccio conservativo (dieta ricca di fibre e adeguata idratazione del paziente per almeno quattro settimane), come prescritto dalle "buone pratiche cliniche" dell'epoca, quando non vi erano ancora linee guida in materia. Tale approccio non risulta sia stato osservato nel caso in esame, posto che "l'intervallo di tempo intercorso tra la visita ambulatoriale ed il secondo intervento (2005)" era stato "troppo breve" (dal 4 luglio al 16 luglio), rilevando peraltro che "è anche probabile che l'opzione chirurgica sia stata adottata a causa della refrattarietà alle terapie conservative fino ad allora praticate ed alla riferita sintomatologia algica persistente". In ogni caso, tale profilo di colpa - in forza di quanto sopra evidenziato in ordine all'omesso riscontro di una nevralgia del nervo pudendo (esiti negativi di tutti gli esami diagnostici strumentali e criteri di Nantes) ed al fatto che dall'intervento non sia derivata alcuna delle complicanze normalmente ad esso collegate (vedi relazione pagg. 45 e 46) - secondo gli ausiliari non può avere avuto alcun rapporto di causalità con la condizione di dolore lamentata dalla paziente ("Tale breve rievocazione degli eventi porta a concludere che, seppure la sfinterotomia parziale laterale avrebbe dovuto essere praticata dopo un periodo di attesa maggiore, non ha di fatto prodotto danni iatrogeni documentati": relazione pag. 48). Il secondo profilo di colpa è stato individuato nella scelta dei sanitari di intervenire nel marzo del 2006 con la divulsione anale sec Lord, nonostante "all'epoca" tale pratica, utilizzata comunque negli interventi chirurgici sul colon retto, non fosse più "indicata per il trattamento della ragade anale recidiva...., a causa della sua invasività locale responsabile di incontinenza sfinterica"; complicanza peraltro che non si è verificata nel caso di specie, in cui la (...) era "continente all'epoca" e lo è "a tutt'oggi" soffrendo al contrario di stipsi cronica (vedi relazione pag. 44). Ciononostante, gli ausiliari, "sulla base dei dati emersi dallo studio del caso", hanno escluso che anche tale intervento possa avere cagionato qualche "danno anatomico" e, quindi, essere stato causa di una lesione del nervo pudendo, visti gli esiti dei "due accertamenti strumentali praticati dalla (...) a breve distanza di tempo dalla procedura in questione (divulsione anale)" ed in particolare quelli eseguiti "il 16.08.2006, quindi a distanza di circa due mesi dalla divulsione anale, ... presso l'Azienda (...), dove veniva praticato lo studio dei Potenziali Evocati ed una Elettromiografia del nervo pudendo risultate entrambe negative per lesioni a carico di tale struttura nervosa" (relazione pag. 47) e l'esito negativo del referto della ecografia Ultranonografia Rettale del 31.03.2008. Rispondendo, inoltre, alle osservazioni avanzate dai cc.tt.pp., gli ausiliari hanno confermato le loro conclusioni, ribadendo che la causa della neuropatia cronica della (...) non può essere ricondotta agli interventi chirurgici ma ad una diversa causa non iatrogena ("stipsi ostinata, lavoro che prevedeva lunghe sessioni in posizione seduta, dipendenza da oppiacei che possono aver solo aggravato la stipsi, manovre manuali di svuotamento della ampolla manuale"), non risultando "dagli atti difetti di tecnica né complicanze perioperatorie che possano aver cagionato un danno neurologico a carico del pudendo peraltro non previsto tra le complicanze degli interventi chirurgici praticati", ciò a conferma della "sussistenza di altri fattori che, nel caso di specie, come riportato nell'elaborato peritale, possono aver generato una sintomatologia dolorosa perineale refrattaria alle cure praticate (stipsi cronica, terapia con oppiacei). A tal proposito, è doveroso riportare l'articolo citato proprio dai Consulenti di Parte Appellata (Jean-Jacques Labat Diagnostic Criteria for Pudendal Neuralgia by Pudendal Nerve Entrapment (Nantes Criteria) Neurourology and Urodynamics 27:306-310 (2008), nel quale viene chiaramente indicato quale criterio rilevante ai fini della diagnosi di nevralgia del pudendo, la risposta positiva al blocco anestetico del n. pudendo. Nel caso di specie, tale procedura è stata eseguita ma non ha portato ad un risultato favorevole, motivo per cui è da escludersi la diagnosi di nevralgia del nervo pudendo, quale patologia da cui è affetta la (...)" (relazione pagg. 65 e 66). Relativamente alle osservazioni avanzate dai cc.tt.pp. e riproposte in sede di comparsa conclusionale, deve evidenziarsi inoltre che non risulta, come sostenuto dalla (...), che prima degli interventi oggetto di causa, la stessa non aveva mai lamentato una situazione di dolore, evidenziata invece addirittura fin dal primo ricovero del 2002 (vedi cartella clinica: "Da diversi anni dolore addominale, nausea, iperpiressia... Da diversi giorni tenesmo rettale con intenso dolore al momento e dopo le evacuazioni, con alvo irregolare per cui viene ricoverata per ragade anale posteriore, appena apprezzabile per il notevole spasmo"). Del resto, la stessa (...) nell'atto introduttivo del presente giudizio, allegava che "successivamente" all'intervento del luglio 2005 "continuò a lamentare dolore in sede anale" (vedi atto di citazione) e lo stesso consulente nominato nell'ATP, dott. (...), dava atto che "il 4/7/2005 la paziente fu visitata dal dr. (...) dell'Istituto di Patologia Chirurgica dell'Università di Sassari per dolori in sede anale"; dolore, pertanto, che era presente anche prima degli interventi oggetto di causa. Inoltre, come evidenziato anche dai cc.tt.uu. in risposta alle osservazioni dei cc.tt.pp, "dalla descrizione dell'intervento neurochirurgico risulta essere stato liberato il nervo quindi tecnicamente anche tale intervento è stato eseguito correttamente e con successo per cui non risultano elementi tali da porlo in relazione con la neuropatia del pudendo allegata" (relazione pag. 67), tenuto anche conto che dopo l'intervento la (...) aveva riferito di "un ulteriore aggravamento della sintomatologia locale" (vedi sopra), ad ulteriore conferma del fatto che la neuropatia non poteva essere stata cagionata da lesioni a carico del nervo pudendo. Né risulta efficacemente smentita l'affermazione dei cc.tt.uu. secondo cui gli specialisti della terapia del dolore che avevano in cura la (...) non avevano mai riferito della diagnosi di nevralgia del pudendo ma di mera neuropatia cronica, posto che dei certificati indicati nella comparsa conclusionale dall'appellata a sostegno di tale affermazione: - quello del 2007 proviene dalla Clinica Neurochirurgica di Sassari, dove era stata sottoposta all'intervento chirurgico per sospetta nevralgia del nervo pudendo; - nel certificato datato 18.4.2008 del primario di Chirurgia Generale di Ozieri viene riportata solo la presenza di "dolore costante in sede perineo-genitale ed in zona sacrale e muscolo piriforme..."; - nel certificato datato 6.6.2008 di Medicina del Dolore di Cagliari si evidenzia esclusivamente una "sofferenza del pudendo"; - nel certificato datato 26.10.2008 dell'Ospedale Civile si riferisce semplicemente di una "...sindrome del dolore cronico a carico del territorio del nervo pudendo". In nessuno di tali certificati viene riportata chiaramente, quale causa della neuropatia cronica, "la nevralgia del nervo pudendo". Pertanto, in conformità all'orientamento della Suprema Corte secondo cui "il paziente è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale tra condotta del medico in violazione delle regole di diligenza ed evento dannoso, consistente nella lesione della salute (ovvero nell'aggravamento della situazione patologica o nell'insorgenza di una nuova malattia), non essendo sufficiente la semplice allegazione dell'inadempimento del professionista" (cfr Cass. n. 26907/20) e tenuto altresì conto del fatto che, in ogni caso, "l'inadempimento del medico non è sufficiente ad affermarne la responsabilità, occorrendo il raggiungimento della prova del nesso causale tra l'evento e la condotta inadempiente, secondo la regola della riferibilità causale dell'evento stesso all'ipotetico responsabile, la quale presuppone una valutazione nei termini del c.d. "più probabile che non"" (cfr Cass. n. 21008/18), nel caso di specie, deve escludersi che la neuropatia della regione anale-perineale refrattaria alle terapie, di cui è affetta la (...), sia stata cagionata dalla condotta dei medici intervenuti chirurgicamente nel 2005 e nel 2006, seppur caratterizzata da profili di imperizia nei termini sopra riportati, dovendo ritenersi, al contrario, che, alla luce delle evidenze istruttorie del caso, sia molto più probabile che l'evento lesivo sia stato determinato da altre cause di natura non iatrogena. Pertanto, in forza delle conclusioni cui sono pervenuti i cc.tt.uu. di secondo grado, fondate su argomentazioni immuni da vizi logici ed adeguamente motivate, in accoglimento dell'appello proposto dalla (...) ed in totale riforma dell'ordinanza emessa dal Tribunale di Sassari in data 22.7.2019, deve rigettarsi la domanda proposta da (...), con assorbimento dei motivi di appello incidentale. Tenuto conto della complessità delle questioni oggetto di accertamento medico legale, come emergenti dal contenuto delle relazioni tecniche in atti, sussistono giustificati motivi per compensare integralmente le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio, ponendo a carico di entrambe le parti gli oneri di c.t.u.. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria domanda ed eccezione: 1) in accoglimento dell'appello proposto dalla (...) ed in totale riforma dell'ordinanza emessa dal Tribunale di Sassari in data 22.7.2019, assorbito l'appello incidentale, rigetta le domande proposte da (...) nei confronti di (...). 2) Compensa integralmente le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio. 3) Pone a carico di entrambe le parti gli oneri di c.t.u. 4) Dà atto della sussistenza dei presupposti di legge per l'applicazione dell'art. 13 comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002 in relazione all'appello incidentale. Così deciso in Sassari il 2 maggio 2023. Depositata in Cancelleria il 12 maggio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI MONZA QUARTA SEZIONE CIVILE Il Tribunale composto dai Magistrati: Dr.ssa Laura GAGGIOTTI - PRESIDENTE Dr.ssa Cinzia FALLO - GIUDICE rel. Dr.ssa Wandalba FARANO - GIUDICE riunito in camera di consiglio, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel procedimento avente n.3628/2022 R.G. promosso da: (...) (C.F. (...)), in qualità di nipote di (...), rappresentata e difesa dall'Avv.to Ma.La. ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Sesto San Giovanni, Via (...), giusta procura alle liti in atti; -ricorrente- nei confronti di (...), nata a S. S. (...) (M.), il (...) (C.F. (...)); -resistente- PUBBLICO MINISTERO, in persona del Procuratore Dr. (...); avente ad oggetto: Interdizione. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato in data 05.05.2022 (...), in qualità di nipote di (...), ha chiesto la pronuncia dell'interdizione nei confronti di quest'ultima in quanto incapace di provvedere ai propri interessi. In particolare, ha affermato che: la medesima, di anni 89, complice l'età avanzata, presenta un quadro clinico estremamente rilevante, avendo sei anni prima, a seguito di una caduta, riportato frattura vertebrale in sede lombare e che poco tempo prima cadeva nella propria abitazione a causa di una perdita d'equilibrio, procurandosi diverse contusioni; che la medesima, dal punto di vista terapeutico, rifiuta categoricamente le cure necessarie o assumendo farmaci prescritti in esubero e/o viceversa scordandosi di assumere gli stessi con regolarità. Sotto il profilo psichico ha evidenziato che presenta un rilevante decadimento che potrebbe ben porre la (...) in stato di oggettivo pericolo, oltre "ad attività alquanto bizzarre e senza senso agite nell'ultimo periodo sintomatiche del deficit predetto"; spesso si dimentica i nomi delle persone che conosce da anni e il proprio codice segreto e personale del bancomat chiedendo così ai passanti di leggerle il codice segreto; spesso inoltre dimentica dove ha riposto o nascosto il bancomat nella propria abitazione contattando la stessa ricorrente anche ad orari improbabili. Ne consegue che l'interdicenda, allo stato, non sia più in grado di vivere da sola autonomamente nella propria unità immobiliare sita al primo piano e priva di ascensore e/o montascale per disabili, per cui la stessa non esce più di casa avendo forti problemi di deambulazione e la fisiatra le ha consigliato anche un deambulatore che la stessa rifiuta. Pertanto, non essendo in grado di provvedere ai propri interessi, sia di natura personale che patrimoniale è necessario assicurare a (...) una adeguata e congrua protezione ad agevole supporto che le possano consentire di vivere dignitosamente ed in totale sicurezza. Sotto il profilo patrimoniale, si precisa che la medesima è beneficiaria di trattamento pensionistico mensile pari ad Euro 1277,00; è titolare di un conto corrente che ammontava a circa Euro 15.431,15 alla data del ricorso, nonché risulta proprietaria dell'immobile in cui risiede. Alla prima udienza, in data 09 novembre 2022, dopo l'audizione della ricorrente, si procedeva all'esame dell'interdicenda. All'esito dell'esame, il Giudice, su richiesta del legale di parte concedeva termine per produrre documentazione medica sopravvenuta dopo la presentazione del ricorso (certificato geriatria e documentazione relativa alla riconosciuta invalidità) e contestualmente, su istanza della parte, ritenendo la causa matura per la decisione, fissava udienza per la precisazione delle conclusioni, con le modalità della trattazione scritta, su richiesta del legale della ricorrente. Precisate le conclusioni nei termini indicati in epigrafe, la causa veniva, quindi, contestualmente rimessa al Collegio per la decisione, senza assegnazione dei termini, come da esplicita richiesta del difensore di parte ricorrente. MOTIVI DELLA DECISIONE La domanda di interdizione non può essere accolta sulla base delle considerazioni che seguono. Dagli atti e dai documenti di causa emerge che (...) "è affetta da marcata encefalopatia vascolare atrofica e marcato decadimento cognitivo. A mio avviso la paziente necessita di essere controllata ed assistita in modo costante in quanto non è assolutamente in grado di autogestirsi(cfr. documento a firma della Dott.ssa (...), Specialista in Neurologia, in data 10.03.2022, cfr. doc. 6 allegato al ricorso); tale diagnosi è stata confermata dalla visita eseguita in data 13.07.2022 dal medico geriatra che ha affermato "marcato decadimento cognitivo e marcata encefalopatia vascolare atrofica" ed ha concluso nel senso che la paziente è affetta da " decadimento cognitivo di grado severo in encefalopatia vascolare atrofica. La paziente necessita di cure e assistenza continua(cfr. referto medico Dott.ssa (...), in data 13.07.2021(cfr. docc. depositati in data 11.11.2022). Nel corso dell'esame condotto dal G.I. (...) è apparsa vigile, interessata al colloquio e attenta; parzialmente orientata nel tempo. È stata in grado di rispondere alle domande che le sono state rivolte, anche se a tratti in modo impreciso e confuso. Dall'esame e dalla documentazione prodotta emerge una situazione sanitaria che necessita, senz'altro, di una misura di protezione: è chiaro che (...) è affetta da decadimento cognitivo in considerazione dell'età avanzata e conseguente ad una condizione patologica accertata, che gli rende impossibile provvedere in maniera adeguata ai propri interessi, patrimoniali e non (in quanto incapace di provvedere ai propri interessi in modo abituale, stante anche i forti problemi di deambulazione), sia pure denotata da momenti di lucidità. Ciò premesso, ai sensi dell'art. 414 c.c., l'interdizione deve essere disposta nei confronti di soggetti i quali si trovino in condizioni di "abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi". Secondo il costante e condivisibile orientamento della Suprema Corte, il presupposto necessario per procedere all'interdizione è l'esistenza di un'alterazione patologica della realtà psichica del soggetto tale da dar luogo ad una totale incapacità di provvedere ai propri interessi e l'interdizione non può essere pronunciata in presenza di malattie psichiche, pur se persistenti nel tempo, che comportino episodi di squilibrio (e quindi di compromissione della capacità di intendere e di volere) solo momentanei ed alternati a periodi di equilibrio. Dopo la L. 9 gennaio 2004, n. 6, l'interdizione e l'inabilitazione si presentano quali misure aventi carattere residuale, avendo il legislatore espressamente dichiarato di voler perseguire la finalità di tutelare, con la minor limitazione possibile della capacità di agire, le persone prove in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni di vita quotidiana mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente(art. 1 L. 9 gennaio 2004).A tale scopo è stato introdotto il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno. La Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. I, 1.3.2010 n. 4866; Cass. Civ., Sez. I, 26.10.2011, n. 22332; Cass. Civ., Sez. I, 14.10.2016, n.11536) ha affermato che l'Amministrazione di Sostegno ha la finalità di offrire a chi si trovi nell'impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi in minor misura possibile la capacità di agire, in ciò distinguendosi dagli altri istituti di protezione a tutela degli incapaci, quali interdizione e inabilitazione. Rispetto ai predetti istituti, l'ambito di applicazione dell'amministrazione di sostegno va individuato, ad avviso della Suprema Corte, con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma con riferimento alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze del soggetto in relazione alla flessibilità del provvedimento e alla maggiore informalità della relativa procedura applicativa. Pertanto, quando la situazione personale del soggetto bisognevole di protezione sia tale da non richiedere l'assunzione di decisioni connotate da complessità, anche in relazione alle gestione economica, non sarà necessaria la pronuncia di interdizione, ben potendo la nomina di un amministratore di sostegno soddisfare esigenze di tutela e perseguimento degli interessi del beneficiario. Nella fattispecie, (...) è affetta da marcato decadimento cognitivo, unitamente a seri problemi di deambulazione e per tale ragione non è in grado di autogestirsi in modo sicuro per sé e necessità di essere supportata in ogni attività quotidiana dalla ricorrente, come dalla stessa affermato, "senza non pochi contrasti e difficoltà in quanto la stessa interdicenda non risulta più collaborativa e mentalmente lucida ma ostativa contro il proprio interesse"; dal punto di vista economico - patrimoniale risulta percettrice di pensione INPS che ammonta ad Euro 1277,00 mensili(cfr. doc.9) oltre ad indennità di accompagnamento che ammonta ad Euro 500,00 mensili; abita in immobile di sua proprietà ed è titolare di un conto corrente, ove viene accreditata la pensione, con un saldo di circa Euro 15.000,00. A fronte di tali considerazioni e in applicazione dei principi sopra richiamati, ritiene il Collegio che l'istituto della Amministrazione di Sostegno sia idoneo e sufficiente(non sussistendo, per contro, elementi di complessità che inducano a ritenere preferibile una misura di protezione particolarmente gravosa, sotto il profilo economico e gestorio, come quella richiesta) a tutelare - con la minore limitazione possibile della capacità d'agire - (...) a fronte della incapacità di provvedere autonomamente ai propri interessi. Ritiene pertanto il Tribunale che debba essere rigettata la domanda di interdizione promossa dalla ricorrente ed il procedimento deve essere trasmesso al Giudice Tutelare, ai sensi dell'art. 418 c.c., per quanto di competenza in relazione alle accertate incapacità di (...). Non possono essere accolte, in quanto inammissibili in tale sede, le ulteriori domande formulate dalla ricorrente (autorizzazione al ricovero presso struttura per anziani e autorizzazione all'alienazione dell'unità immobiliare di proprietà della stessa) in quanto di competenza del Giudice Tutelare. Considerata la particolare natura della controversia e il comportamento processuale della resistente, che, non costituendosi in giudizio, non si è opposta all'accoglimento della domanda della ricorrente, le spese sono dichiarate irripetibili. P.Q.M. Il Tribunale di Monza, respinta ogni diversa istanza, nel contraddittorio delle parti, definitivamente pronunciando sulla domanda di interdizione: I) rigetta la domanda di interdizione promossa da (...) nei confronti di (...), nata a S. S. (...) (M.) il (...); II) dispone la trasmissione degli atti al Giudice tutelare presso il Tribunale di Monza, ai sensi dell'art. 418 c.c.; III) dichiara irripetibili le spese di lite. Così deciso in Monza il 2 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI PALERMO Il Giudice del Lavoro, Dott.ssa Elvira Majolino nella causa civile iscritta al n. 1708/2021 R.G.L., promossa DA G.I., rappresentata e difesa dagli avv.ti RA.SC. e CO.SI. ed elettivamente domiciliata presso il suo studio, sito in Palermo, Piazza (...). - ricorrente - CONTRO ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. SP.MA. ed elettivamente domiciliato presso gli uffici legali, siti in Palermo, Via (...). - resistente - All'esito dell'udienza del 24/04/2023, tenutasi con le modalità di cui all'art. 127 ter c.p.c., ha pronunciato, mediante deposito nel fascicolo telematico, la seguente SENTENZA Completa di dispositivo e motivazione FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato il 24/2/2021, la ricorrente indicata in epigrafe conveniva in giudizio l'Istituto convenuto e, avendo premesso di essere titolare di pensione di invalidità cat. I., n. (...), nonché di avere ricevuto, in data 18/7/2019, una comunicazione con cui l'Istituto le aveva contestato l'esistenza di un indebito per il periodo dal gennaio all'agosto 2019, di ammontare complessivo pari ad Euro 1.693,30, in considerazione del venir meno del requisito sanitario a seguito di visita di revisione, lamentava l'illegittimità della pretesa restitutoria, nonché la sua irripetibilità per legittimo affidamento su di essa ingeneratosi e per assenza di dolo. Chiedeva, pertanto, di "Dichiarare infondate, in fatto ed in diritto, entrambe le pretese avanzate dall'Istituto in relazione alle somme corrisposte al ricorrente per il periodo gennaio-agosto 2019; 2) Dichiarare, conseguentemente, illegittimo, per le motivazioni esposte, l'eventuale recupero posto in essere dell'INPS dell'indebito maturato in favore dell'odierno ricorrente; 3) Dichiarare l'INPS comunque prescritto o, decaduto, dal diritto di ripetizione delle somme costituenti l'eventuale indebito maturato in favore dell'odierno ricorrente". Ritualmente instaurato il contraddittorio, si costituiva in giudizio l'Inps, contestando nel merito la fondatezza del ricorso, di cui chiedeva il rigetto. La causa, in assenza di attività istruttoria, è stata decisa. Al fine di individuare la disciplina legislativa applicabile al caso di specie, appare opportuno richiamare i principi generali espressi in materia di indebito previdenziale ed assistenziale dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che, sebbene la regola generale sia quella di cui all'art. 2033 c.c., secondo cui ogni erogazione attribuita in assenza dei requisiti prescritti dalla legge è da considerare indebita e soggetta a ripetizione, tuttavia, nel settore della previdenza e dell'assistenza obbligatorie si è affermato, ed è venuto via via consolidandosi, un principio di settore secondo il quale, in luogo della generale regola codicistica di incondizionata ripetibilità dell'indebito, trova applicazione la regola, propria di tale sottosistema, che esclude viceversa la ripetizione in presenza di situazioni di fatto variamente articolate, ma comunque avente generalmente come minimo comune denominatore la non addebitabilità al percepiente della erogazione non dovuta ed una situazione idonea a generare affidamento (quale può essere quella derivante dall'attribuzione di fatto di una prestazione per un lasso notevole di tempo) (cfr. Cass. civ., Sez. lav., 23/01/2008, n. 1446). Alla luce di quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, siffatta regola rinviene tutela costituzionale nell'art. 38 Cost. in funzione della soddisfazione di essenziali esigenze di vita della parte più debole del rapporto obbligatorio, che verrebbero ad essere contraddette dalla indiscriminata ripetizione di prestazioni naturaliter già consumate in correlazione - e nei limiti - della loro destinazione alimentare (C. cost. n. 39 del 1993; n. 431 del 1993). Nello specifico ambito delle prestazioni economiche corrisposte agli invalidi civili, la disciplina particolare della ripetibilità delle prestazioni indebitamente erogate va ricercata nella normativa appositamente dettata in materia, potendosi comunque ritenere dato acquisito quello per cui "non sussiste un'esigenza costituzionale che imponga per l'indebito previdenziale e per quello assistenziale un'identica disciplina, atteso che (...) rientra (...) nella discrezionalità del legislatore porre distinte discipline speciali adattandole alle caratteristiche dell'una o dell'altra prestazione" (Corte Costituzionale 22 luglio 2004, n. 264; in senso analogo Corte Costituzionale 27 ottobre 2000, n. 448). Ebbene, in ambito assistenziale, si è andato affermando il principio per cui "in tema di ripetibilità delle prestazioni assistenziali indebite (...) trovano applicazione, in difetto di una specifica disciplina, le norme sull'indebito assistenziale che fanno riferimento alla mancanza dei requisiti di legge in via generale" (Cass. 1 ottobre 2015, n. 19638; Cass. 17 aprile 2014, n. 8970; Cass. 23 gennaio 2008, n. 1446; Cass. 28 marzo 2006, n. 7048). Tali norme vanno rintracciate nel D.L. n. 850 del 1976, art. 3 ter, convertito in L. n. 29 del 1977 (secondo cui "gli organi preposti alla concessione dei benefici economici afavore...degli invalidi civili hanno facoltà, in ogni tempo, di accertare la sussistenza delle condizioni per il godimento dei benefici previsti, disponendo la eventuale revoca delle concessioni con effetto dal primo giorno del mese successivo alla data del relativo provvedimento") ed il D.L. n. 173 del 1988, art. 3, comma 9, convertito nella L. n. 291 del 1988 (secondo cui "con decreto del Ministro del Tesoro sono stabiliti i criteri e le modalità per verificare la permanenza nel beneficiario del possesso dei requisiti prescritti per usufruire della pensione, assegno o indennità previsti dalle leggi indicate nel comma 1 e per disporne la revoca in caso di insussistenza di tali requisiti, con decreto dello stesso Ministro, senza ripetizione delle somme precedentemente corrisposte" (risultando invece abrogata la L. n. 537 del 1993, che regolava l'indebito assistenziale all'art. 11, comma 4, e non applicabile, per eccesso del regolamento dalla delega di legge, il D.P.R. n. 698 del 1994, art. 5, comma 5: sul tema cfr. Cass. 28 marzo 2006, n. 7048 già citata). L' indebito di natura assistenziale è dunque ripetibile solo successivamente al momento in cui intervenga il provvedimento che accerta il venir meno delle condizioni di legge, salvo che non ricorrano ipotesi che a priori escludano un qualsivoglia affidamento, come nel caso di erogazione di prestazione a chi non sia parte di alcun rapporto assistenziale, nè ne abbia mai fatto richiesta (Cass. 23 agosto 2003, n. 12406), nel caso di radicale incompatibilità tra beneficio ed esigenze assistenziali (Cass. 5 marzo 2018, n. 5059, riguardante un caso di erogazione dell'indennità di accompagnamento in difetto del requisito del mancato ricovero dell'assistibile in istituto di cura a carico dell'erario) o in caso di dolo comprovato dell'accipiens. Regole specifiche valgono invece per l'indebito riconnesso al venire meno dei requisiti sanitari (art. 37, co. 8, L. n. 448 del 1998), che consente la ripetibilità fin dal momento dell'esito sfavorevole della visita di verifica (cfr. anche Cass. Cassazione civile sez. lav., 20/05/2021, n.13915). La Suprema Corte ha enucleato il principio secondo cui "l'indebito (assistenziale) che si è determinato per il venir meno del requisito sanitario, a seguito di visita di revisione, abilita alla restituzione solo a far tempo dal provvedimento con cui l'esito di detto accertamento sia comunicato al percipiente, salvo che l'erogazione indebita sia addebitabile all'assistito e non sussistano le condizioni di un legittimo affidamento" (Cass. 24180/2022). L'indebito per cui è causa trae origine dalla corresponsione in favore della ricorrente di ratei di assegno di invalidità cat. I.. n. (...), ritenuti non dovuti, per il periodo dal marzo (anziché dal gennaio, per come erroneamente dedotto dal ricorrente) all'agosto 2019, per complessivi Euro 1.693,30, per l'essere stata, la ricorrente, riconosciuta invalida nella misura del 70% a seguito di visita medica tenutasi nel giugno 2019. L'INPS comunicava alla ricorrente, il 12/7/2019 (cfr. comunicazione verbale e relativo avviso di ricevimento, in atti) l'esito della visita medica suddetta, provvedendo poi a comunicare l'indebito con Provv. del 19 luglio 2019, in relazione al periodo dal marzo al 31 agosto 2019. Ebbene, seguendo le coordinate ermeneutiche fornite dalla Suprema Corte, deve nella specie osservarsi come la pretesa restitutoria attivata dall'Istituto convenuto con il provvedimento impugnato appaia illegittima in relazione al periodo che precede la comunicazione del verbale di visita medica. Come sopra ricordato, l'indebito assistenziale determinatosi per il venir meno del requisito sanitario, a seguito di visita di revisione, abilita alla restituzione solo a far tempo dal provvedimento con cui l'esito di detto accertamento sia comunicato al percipiente, quindi nella specie, a far data dal 12.7.2019. Né può ritenersi che sussista nella fattispecie in esame un comportamento addebitabile alla parte ricorrente o che difetti il legittimo affidamento della stessa. La protrazione della corresponsione della prestazione in esame per un lungo lasso temporale - oltre 7 anni - può ritenersi circostanza idonea ad ingenerare in capo alla ricorrente un legittimo affidamento circa la spettanza della prestazione; né può essere condivisa la censura addotta dall'Istituto convenuto, secondo cui andrebbe esclusa la buona fede della ricorrente in considerazione della percezione dei ratei nella consapevolezza dell'intervenuta perdita del requisito sanitario, nonché della proposizione da parte della stessa del giudizio per accertamento tecnico preventivo a seguito della revoca della prestazione in questione. Ed invero, per un verso, la ricorrente ha proposto domanda di aggravamento in data 19/2/2019 ed è stata sottoposta a visita in data 18/6/2019, con comunicazione dell'esito della visita solo in data 12/7/2019, momento quest'ultimo prima del quale la ricorrente non poteva conoscere la sopravvenuta perdita del requisito sanitario. Per altro verso, va rilevato come la ricorrente abbia introdotto il giudizio per accertamento tecnico preventivo solo in data 29/6/2020 (cfr. sentenza r.g.n. 6208/2020 in memoria), e dunque successivamente alla conoscenza dell'esito della visita, intervenuta in data 18/6/2019, circostanza che, come tale, non può valere ad escludere la buona fede della ricorrente nel periodo di indebito dal marzo al luglio 2019. Diverso discorso va fatto con riferimento al periodo dal 12.7.2019 al 31.8.2019, per il quale, venendo meno il legittimo affidamento della ricorrente, stante la comunicazione del verbale di visita a lei sfavorevole, risulta legittima la ripetizione delle somme alla stessa erogate a titolo di assegno di invalidità. Alla luce di tali considerazioni, la pretesa restitutoria azionata dall'Istituto convenuto va dichiarata illegittima in relazione al periodo dall'1.3.2019 al 12.7.2019 e, invece, legittima per il periodo dal 12.7.2019 al 31.8.2019. Stante il parziale accoglimento del ricorso, compensa per metà le spese di lite, ponendo la restante parte, liquidata in dispositivo con distrazione in favore degli avv.ti Ra.Di. e Si.Co., a carico dell'INPS. P.Q.M. Come in epigrafe. DISPOSITIVO In parziale accoglimento del ricorso, dichiara l'illegittimità della pretesa restitutoria azionata dall'Istituto convenuto con il Provv. del 19 luglio 2019, limitatamente al periodo che va dall'1.3.2019 al 12.7.2019. Compensa per metà le spese di lite e condanna l'Istituto convenuto alla rifusione delle restanti spese di lite, che liquida in Euro 350,00 e distrae in favore degli avv.ti Ra.Sc. e Si.Co.. Così deciso in Palermo il 24 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO DECIMA CIVILE RG n.4337/2020 Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Damiano Spera ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 4337/2020 promossa da: P.B. (C.F. (omissis)), rappresentato e difeso dall'avvocato P.B. ILARIA, nonché dall'avvocato (...) ((omissis)) (...) 20121 MILANO; ATTORE contro S.P. (C.F. (omissis)), CONTUMACE COMUNE DI MILANO (C.F. (omissis)), rappresentato e difeso dall'avvocato (...) CONVENUTI CONCLUSIONI All'udienza di precisazione delle conclusioni in data 20.9.2022, le parti concludevano come da verbale di causa. Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione 1. Svolgimento del processo Con atto di citazione ritualmente notificato P.B. conveniva in giudizio S.P. e il Comune di Milano per chiederne la condanna in solido al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti in seguito ad un'aggressione a lui occorsa in data 18.9.2016. Instauratosi il contraddittorio, si costituiva in giudizio il Comune di Milano, chiedendo il rigetto delle domande attoree in quanto infondate e, in subordine, l'accertamento del concorso dell'attore nel verificarsi dell'evento. All'udienza dell'8.10.2020, il Giudice, constatata la mancata costituzione del sig. S.P. e rilevato il mancato rispetto dei termini a comparire di cui all'art. 163-bis c.p.c., dichiarava la nullità dell'atto di citazione assegnando termine all'attore per la rinotifica dello stesso al convenuto non costituito fino al 17.11.20 e rinviava così l'udienza al 23.2.21. All'udienza del 23.2.21, verificata la ritualità della predetta rinotifica nei confronti del sig. S.P., constatata la mancata costituzione di quest'ultimo, ne dichiarava la contumacia e concedeva i termini di cui all'art. 183, co. 6, c.p.c. Con ordinanza emessa fuori udienza in data 23.6.2021 il Giudice disponeva CTU-medico legale sulla persona dell'attore e, accogliendo l'istanza ex art. 210 c.p.c. proposta dal convenuto Comune di Milano, ordinava all'attore e alla (...) PLC di depositare copia della polizza assicurativa stipulata dalla predetta compagnia con il sig. P.B., nonché la quietanza comprovante l'avvenuto pagamento in favore di quest'ultimo dell'indennizzo assicurativo corrisposto per l'infortunio occorso in seguito all'aggressione del 18.9.2016. All'udienza del 23.2.2022, accertato l'avvenuto deposito della predetta documentazione da parte della (...) PLC, le parti concordemente davano atto che la compagnia assicuratrice aveva versato all'attore in data 15.11.2017 la somma di euro 27.000,00 a titolo di indennizzo. Alla stessa udienza, il Giudice invitava le parti a conciliare la lite e rinviava per la precisazione delle conclusioni all'udienza del 20.9.2022. All'udienza del 20.9.2022, il Giudice, fatte precisare dalle parti le proprie conclusioni, concedeva alle stesse termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica e, alla scadenza dell'ultimo termine, tratteneva la causa per la decisione. 2. Sull'an debeatur Il sig. P.B. agiva in giudizio al fine di far accertare la responsabilità di S.P. e del Comune di Milano per l'aggressione da lui subita in data 18.9.2016. Esponeva, in particolare, l'attore che, nella data suindicata, mentre si trovava nel proprio appartamento sito a Milano, (...), udiva musica ad alto volume provenire dalla pubblica via ove S.P. - un artista di strada, autorizzato dal Comune di Milano ad esibirsi in loco (come da aut. n. (omissis), di cui al doc. 5 allegato alla citazione) - stava intrattenendo il pubblico con alcuni "balletti". Sicché, il sig. P.B., infastidito dal rumore, usciva dalla propria abitazione e invitava il convenuto S.P. ad abbassare il volume, il quale tuttavia reagiva in modo aggressivo, dapprima rivolgendo insulti all'attore e, in un secondo momento, colpendolo con un violento pugno al volto. In conseguenza della colluttazione, interveniva immediatamente il personale di Polizia Locale già presente sul posto che provvedeva a redigere la relazione di servizio e a richiedere l'intervento dell'ambulanza per soccorrere il sig. P.B.; questi veniva così condotto al Pronto Soccorso dell'Ospedale (omissis) di Milano ove gli veniva diagnosticata un "trauma orbitario dx con Frattura pluriframmentaria del pavimento orbitario di destra, con affondamento dei frammenti nel seno mascellare, protrusione di adipe orbitario e prominenza del muscolo retto inferiore a livello del focolaio fratturativo. Frattura della parete mediale dell'orbita, con infossamento di alcune lamelle ossee dell'etmoide" (cfr. doc. 6 allegato alla citazione). In conseguenza dei fatti sopra descritti, l'attore conveniva in giudizio, oltre al sig. S.P., autore materiale della condotta di aggressione sopra descritta, anche il Comune di Milano che, nella prospettazione attorea, non avrebbe adempiuto ai doveri di prudenza e diligenza sullo stesso incombenti, i quali, ove osservati, avrebbero verosimilmente scongiurato il verificarsi del danno patito dal sig. P.B. 2.1. Sull'an debeatur nei confronti di S.P. Ritiene questo Giudice che le domande proposte in giudizio dall'attore nei confronti del convenuto S.P. debbano essere accolte, essendo provata la responsabilità di quest'ultimo per il danno patito da parte attrice. Deve anzitutto rilevarsi come il convenuto S.P. sia stato imputato nel procedimento penale n. 6293/17 per il delitto di lesioni personali ex artt. 61 n.1, 582, 583 co. 1 c.p., perché "spintonando P.B., facendolo cadere a terra e poi colpendolo con un pugno al volto, gli cagionava lesioni personali consistite in "frattura della parete mediale dell'orbita, con infossamento di alcune lamelle ossee dell'etmoide" dalle quali derivava una malattia ed un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore a quaranta giorni. Con l'aggravante di aver commesso il fatto per motivi futili, per essersi il P.B. lamentato del volume della musica utilizzata dallo S.P. per esibirsi quale artista di strada" (cfr. doc. 23 allegato all'atto di citazione). Tale contestazione di responsabilità penale contenuta nel capo di imputazione trova pieno riscontro nella ricostruzione dei fatti operata nell'atto di citazione. Peraltro, in esito a detto procedimento, con sentenza n. 1401/17, resa ai sensi art. 444 c.p.p., il Tribunale di Milano applicava a S.P. su richiesta delle parti la pena di un anno e 6 mesi di reclusione per i reati per cui lo stesso era imputato (cfr. doc. 23 allegato all'atto di citazione). In particolare, nella succinta motivazione del Tribunale di Milano, si rilevava quanto segue: "risulta corretta la qualificazione giuridica dei fatti: l'imputato colpendo P.B. al volto con un pugno, gli procurava lesioni giudicate guaribili, secondo quanto si evince dalla documentazione medica in atti, in oltre quaranta giorni. Ricorrono le circostanze aggravanti, oltre che per la durata della malattia, anche per i futili motivi: un litigio sorto per il volume della musica troppo alto". Deve evidenziarsi che il più recente indirizzo giurisprudenziale, pur escludendo un'efficacia vincolante della sentenza di patteggiamento nel giudizio civile di risarcimento del danno, precisa che, in tale sede, la menzionata sentenza può costituire un indizio liberamente valutabile dal Giudice unitamente ad altri elementi (cfr. Cass., sent. n. 7014/2020). Nel caso in esame, la responsabilità del sig. S.P. trova riscontro, oltre che nella sentenza di applicazione pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., anche nella relazione di servizio redatta dalla Polizia Locale (cfr. doc. 4 allegato all'atto di citazione), nella documentazione di pronto soccorso (cfr. doc. 6 allegato alla citazione), nelle fotografie del volto tumefatto dell'attore (cfr. doc. 2 allegato alla citazione), nelle lettere di scuse a firma del danneggiante (cfr. doc. 19 allegato alla citazione), nonché nella dichiarazione scritta resa da quest'ultimo (cfr. doc. 2 allegato alla comparsa di risposta). Alla luce di tutto quanto sopra, deve dunque conclusivamente ritenersi che il sig. S.P., autore materiale della condotta di aggressione perpetrata in data 18.9.2016 nei confronti del sig. P.B., sia responsabile dei danni di cui quest'ultimo chiede in questa sede il risarcimento. 2.2. Sull'an debeatur del Comune di Milano Le domande proposte dal sig. P.B. nei confronti del Comune di Milano non possono invece trovare accoglimento. Parte attrice sostiene la responsabilità del Comune di Milano, in quanto lo stesso, serbando una condotta gravemente negligente, avrebbe concorso a cagionare il danno di cui in questa sede si chiede il risarcimento. Nello specifico, ad avviso dell'attore, l'Amministrazione comunale avrebbe dovuto avvedersi che il sig. S.P. fosse soggetto pericoloso in quanto già condannato in via definitiva per diversi reati - pornografia minorile, detenzione di materiale pedopornografico e minaccia (come da casellario giudiziale di cui al doc. 22 allegato alla citazione) - e, per l'effetto, non avrebbe dovuto concedergli l'autorizzazione (aut. n. (omissis)) ad esibirsi sulla pubblica via. In alternativa, anche a non voler ritenere ostativi i predetti precedenti penali, il Comune di Milano avrebbe quanto meno dovuto revocare la concessa autorizzazione all'esibizione dopo che alcuni privati avevano già segnalato all'Amministrazione locale diversi episodi di aggressività del sig. S.P. Inoltre, sempre ad avviso dell'attore, posto che il convenuto era stato autorizzato ad esibirsi sulla pubblica via a condizione di "tenere il volume basso", il Comune di Milano avrebbe dovuto vigilare sul rispetto di detta prescrizione, vigilanza che avrebbe scongiurato lo scontro con il sig. P.B., originato proprio perché quest'ultimo si doleva col convenuto del (ritenuto) insopportabile frastuono. 2.2.1. Sulla questione di giurisdizione Prima di esaminare nel merito la fondatezza della domanda proposta dall'attore nei confronti del Comune di Milano, occorre affermare la sussistenza della giurisdizione in capo al Giudice adito. L'attore, pur richiamando un provvedimento amministrativo (aut. n. (omissis)), lo invoca quale elemento di una complessiva condotta negligente serbata dall'Amministrazione comunale. Il sig. P.B., infatti, eccepisce a più riprese la violazione da parte della predetta Amministrazione del generale dovere del neminem laedere, contestando dunque al Comune di Milano, non già di aver adottato un provvedimento illegittimo, ma di aver posto in essere una condotta contraria agli ordinari doveri di prudenza e diligenza gravanti sull'Amministrazione al pari di ogni soggetto privato. Sicché, al cospetto di tale colpevole comportamento dell'ente pubblico, si configura in capo all'attore una posizione di diritto soggettivo - e non già di interesse legittimo - con conseguente giurisdizione del Giudice adito. Sul punto, basti richiamare il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, nella parte in cui afferma che "la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo non è estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non esercita alcun potere pubblico, in particolare va riconosciuta la giustiziabilità davanti al giudice ordinario in tutte le controversie in cui si denunzino comportamenti configurati come illeciti ex art. 2043 cod. civ., e a fronte dei quali, per non avere la P.A. osservato condotte doverose, la posizione soggettiva del privato non può che definirsi di diritto soggettivo, restando escluso il riferimento ad atti e provvedimenti, di cui la condotta dell'amministrazione sia esecuzione, quando essi non costituiscano oggetto del giudizio, per essersi fatta valere in causa unicamente l'illiceità della condotta dell'ente pubblico, suscettibile di incidere sulla incolumità e i diritti patrimoniali del terzo, potendo in tali casi il giudice ordinario non solo condannare l'amministrazione al risarcimento, ma anche ad un "facere" specifico senza violazione del limite interno delle sue attribuzioni" (cfr. Cass., Sez. Unite, sent. n. 20117/2005). 2.2.2. Sulla (infondatezza della domanda nei confronti del Comune di Milano Tanto chiarito in punto di giurisdizione, le domande proposte dall'attore nei confronti del Comune di Milano devono essere rigettate nel merito, non sussistendo alcuna colposa condotta attiva/omissiva addebitabile all'ente pubblico e, prima ancora, non ricorrendo nella specie il nesso di causa tra le presunte negligenze contestate all'Amministrazione e il danno patito dall'attore. Ed invero, il Comune di Milano ha diligentemente predisposto un'articolata disciplina che - attraverso la previsione di un'apposita piattaforma online di gestione ("Stradarte") - consente le esibizioni degli artisti di strada solo previo ottenimento da parte degli stessi di apposita autorizzazione rilasciata dal Comune stesso. Nel caso di specie, l'Amministrazione comunale ha ritenuto di autorizzare l'esibizione del sig. S.P., secondo una valutazione discrezionale non irragionevole, in quanto i precedenti penali del convenuto risultavano molto risalenti - essendo sentenze del 2004 e del 2005 - e atteso che le segnalazioni pervenute al Comune riguardavano episodi dallo stesso ente locale ritenuti non gravi e comunque non corroborati da testimonianze o da accertamenti di pubblici ufficiali. Peraltro, l'ente pubblico, oltre ad avere puntualmente predisposto la procedura di autorizzazione sopra descritta, ha poi appositamente previsto un controllo successivo sulle esibizioni degli artisti di strada assicurando la presenza costante del personale di Polizia Locale sulla pubblica via il giorno degli spettacoli. Ciò è del resto confermato dalla vicenda in esame, essendo incontestato che la Polizia Locale, presente in loco proprio al fine di vigilare sugli spettacoli degli artisti di strada, è intervenuta immediatamente dopo la (repentina) aggressione, redigendo apposita relazione di servizio (cfr. doc. 4 allegato all'atto di citazione). Alla luce di quanto esposto non può dunque muoversi alcun rimprovero di negligenza al Comune di Milano e deve pertanto escludersi la responsabilità dello stesso ente pubblico in relazione all'aggressione subita dal sig. P.B. Anzi, a ben vedere, anche a voler ipotizzare un qualche profilo di colpa nell'operato dell'Amministrazione, non potrebbe comunque sostenersi la responsabilità di quest'ultima per via della mancanza del nesso di causa tra ipotetiche condotte rimproverabili al Comune e il danno subito dal sig. P.B. Sebbene invero il sig. S.P. si trovasse sul luogo dei fatti proprio per realizzare le esibizioni autorizzate dal Comune, la sua presenza in loco a tal fine ha integrato al più una mera occasione, non già la causa del danno subito dal sig. P.B. Il pregiudizio lamentato dall'attore è infatti riconducibile alla conseguenza immediata di una lite tra passanti, evento del tutto imprevedibile ed estemporaneo, sfuggendo ad ogni possibilità di controllo da parte del Comune di Milano. Sarebbe del resto inesigibile pretendere da qualsiasi ente locale di esercitare un penetrante controllo preventivo sui consociati transitanti sul proprio territorio al fine di prevenire ogni possibile episodio di colluttazione. Sotto questo profilo, non sono conferenti i richiami offerti dall'attore alle sentenze di merito del Tribunale di Rimini e del Tribunale di Brescia (cfr. doc. prodotti all'udienza del 23.2.2021), posto che, nelle pronunce citate, è stata accertata la responsabilità degli enti locali per danno cagionato da immissioni sonore intollerabili, rispetto alle quali le Amministrazioni convenute non avevano adottato le doverose cautele. Il caso in esame è invece del tutto diverso, posto che il danno sofferto dall'attore non è causalmente collegato alle emissioni sonore in sé - attività astrattamente controllabile dall'ente pubblico - ma, come anticipato sopra, è l'effetto di una lite tra passanti che, quale fenomeno del tutto estemporaneo ed eccezionale, sfugge ad ogni possibilità di controllo dell'ente pubblico. La domanda proposta nei confronti del Comune di Milano deve essere dunque rigettata, non potendosi rinvenire in capo allo stesso alcun profilo di responsabilità in ordine ai danni lamentati dall'attore. 2.2.3. Sulla responsabilità da contatto sociale. Va infine evidenziato che non può neppure ravvisarsi in capo al Comune di Milano la invocata responsabilità da contatto sociale. La teoria del contatto sociale presuppone la sussistenza di una relazione qualificata tra due soggetti determinati, in virtù della quale si generano tra le parti obblighi di protezione la cui violazione dà luogo a responsabilità contrattuale. Nel caso in esame, è di tutta evidenza come non sussista alcuna relazione qualificata tra l'attore e il Comune di Milano in grado di porsi quale fonte dei predetti obblighi di protezione. Del resto, diversamente opinando, dovrebbe sostenersi una responsabilità da contatto sociale in capo a tutti gli enti locali nei confronti dei propri cittadini. Tale conclusione contrasterebbe però con lo stesso fondamento della teoria del contatto sociale che, come sopra accennato, postula un rapporto tra soggetti determinati. Tali conclusioni non trovano smentita nella giurisprudenza della Cassazione richiamata dall'attore (Cass., ord. n. 8236 del 2020 e Cass., sent. n. 615 del 2021, di cui ai doc. prodotti all'udienza del 23.2.21), la quale si riferisce al diverso caso in cui sia stato già instaurato uno specifico procedimento amministrativo nell'ambito del quale grava sull'Amministrazione il dovere di tenere nei rapporti con il privato istante una condotta conforme ai principi di correttezza e buona fede, la cui frustrazione può giustificare una responsabilità contrattuale da contatto sociale in capo all'ente pubblico medesimo. Nel caso in esame, invece, non si è al cospetto di alcun procedimento amministrativo attivato su specifica istanza dell'attore e non possono dunque ravvisarsi gli estremi di quella relazione qualificata tra soggetti determinati cui si è fatto cenno sopra. Conseguentemente, deve rigettarsi la domanda proposta dall'attore nei confronti del Comune di Milano anche sotto il profilo della responsabilità da contatto sociale. 3. Sul quantum debeatur nei confronti del convenuto S.P. 3.1. Sul danno non patrimoniale Ai fini della quantificazione del danno risarcibile è stata effettuata, in corso di causa, una CTU medicolegale. L'ausiliario dell'Ufficio, il cui elaborato appare ben argomentato, completo e meritevole di adesione da parte del Tribunale, ha concluso nel senso che l'attore ha subito: - un'invalidità temporanea assoluta al 100% per 2 giorni: - un'invalidità temporanea parziale al 75% per 30 giorni; - un'invalidità temporanea parziale al 50% per 60 giorni; - un'invalidità temporanea parziale al 25% per 60 giorni; - una sofferenza per la patita invalidità temporanea giudicata di grado "lieve" (2/5); - un'invalidità permanente del 6% - una sofferenza per la patita invalidità permanente giudicata "lievissima" Ai fini del risarcimento, il danno biologico deve essere considerato in relazione all'integralità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni e i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita; non soltanto, quindi, con riferimento alla sfera produttiva, ma anche con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva, e a ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità e cioè a tutte le attività realizzatrici della persona umana (così la Corte Costituzionale, sent. n. 356/1991; v. altresì Corte Costituzionale, sent. n. 184/1986). Va ulteriormente precisato che, come recentemente statuito dalla Suprema Corte (cfr. Cass., ord. n. 7513/2018), il danno biologico consiste in una ordinaria compromissione delle attività quotidiane (gli aspetti dinamico relazionali). Il danno alla salute, quindi, non comprende i pregiudizi dinamico relazionali ma è esattamente il danno dinamico relazionale. Consegue che il danno alla vita di relazione è risarcibile oltre la misura liquidata in base ai punti percentuali accertati in sede medico legale, qualora si sia concretato non già in conseguenze comuni a tutti i soggetti che patiscano quel tipo di invalidità, ma in conseguenze peculiari del caso concreto che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto a casi consimili; qualora, quindi, consista in una conseguenza straordinaria, non avente base organica e quindi estranea alla determinazione medico legale. Inoltre, nei punti 8 e 9 dell'ordinanza "decalogo" n. 7513/2018 si stigmatizza: 8) "in presenza di un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)"; 9) "ove sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l'esistenza d'uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione". Ebbene dopo ampia analisi, l'Osservatorio di Milano ha ritenuto di rendere le tabelle compatibili con i nuovi orientamenti della Cassazione e della Medicina legale e con gli artt. 138 e 139 D.Lgs. n. 209/2005 (c.d. Codice delle assicurazioni private). A tal fine, nell'edizione 2021, si è proceduto ad una rivisitazione grafica della Tabella del danno non patrimoniale da lesione del bene salute e della (correlata) Tabella del danno definito da premorienza, fermi i valori monetari come aggiornati secondo gli indici ISTAT. Per quanto riguarda la Tabella del danno da lesione del bene salute, l'Osservatorio, lasciando invariati i valori espressi nella seconda e quarta colonna della Tabella, ha apportato le seguenti modifiche: a) nella terza colonna della Tabella (che nella edizione 2018 conteneva solo l'indicazione dell'aliquota percentuale di aumento del punto di danno biologico per la componente di sofferenza soggettiva) è stata aggiunta la specifica indicazione dell'aumento in termini monetari; b) nella quinta colonna della Tabella (che nella edizione del 2018 recava solo l'ammontare complessivo del danno non patrimoniale, inclusivo del danno biologico e del danno morale/ sofferenza soggettiva) è stata aggiunta l'indicazione dell'importo monetario di ciascuna delle citate componenti; c) infine, si è aggiornata la terminologia usata nell'intestazione delle colonne, prendendo atto che le voci di danno non patrimoniale, prima denominate "danno biologico" e "danno morale/sofferenza soggettiva", sono attualmente dalla giurisprudenza di legittimità e dalla dottrina definite, rispettivamente, come "danno biologico/dinamico-relazionale" e "danno da sofferenza soggettiva interiore" (media presumibile), ordinariamente conseguente alla lesione dell'integrità psicofisica accertata. Circa l'entità del risarcimento, il giudice liquiderà senz'altro l'importo indicato nella quinta colonna come compensativo del "danno biologico/dinamico-relazionale". Il giudice dovrà invece valutare se l'importo indicato sempre nella quinta colonna, come presumibilmente compensativo del "danno da sofferenza soggettiva interiore media", sia congruo in relazione alla fattispecie concreta. In altre parole, l'applicazione della Tabella non esonera affatto il giudice dall'obbligo di motivazione in ordine al preventivo necessario accertamento dell'an debeatur (sussistenza e consistenza delle componenti del danno, con prova che può darsi anche in via presuntiva); l'applicazione degli importi di cui alla Tabella esprime, invece, esercizio del potere di liquidazione equitativa del giudice e pertanto attiene alla fase del quantum debeatur e cioè alla valutazione della congruità degli importi liquidati, in relazione alle circostanze di fatto allegate e provate dalle parti nella fattispecie concreta, anche sulla base delle emergenze della C.T.U. Per il danno biologico temporaneo, la Tabella Milanese prevede quale importo standard la somma di euro 72,00 a titolo di danno biologico dinamico relazionale e di euro 27,00 a titolo di danno da sofferenza soggettiva interiore media presumibile, con possibilità di personalizzare il danno nella misura massima del 50%. Nel caso di specie, considerato che il danno di cui l'attore richiede il risarcimento è diretta conseguenza di un reato doloso, non vi è dubbio che vi sia una maggiore intensità delle sofferenze psicofisiche patite dalla vittima rispetto a quelle generalmente patite nei casi oggetto di monitoraggio da parte dell'Osservatorio sulla giustizia civile presso il Tribunale di Milano. Per tale ragione, deve procedersi ad una adeguata personalizzazione del danno da sofferenza soggettiva interiore. Non vi è infatti chi non veda che le lesioni personali accertate nel presente giudizio (di cui all'art. 582 c.p.) e relative aggravanti (ex artt. 61 n. 1 e 583 c.p.), causino una maggiore intensità delle sofferenze psicofisiche patite dalla vittima rispetto alla medesima durata di inabilità temporanea e al medesimo punto percentuale per danno biologico permanente subiti a seguito di un sinistro stradale o di reati colposi o altri atti/fatti anche privi di rilevanza penale (v. in tal senso anche i "Criteri orientativi" della Tabella milanese per la liquidazione del danno non patrimoniale per la lesione del bene salute - Edizione 2021). Per tale ragione, si ritiene equo procedere ad una personalizzazione del danno da sofferenza soggettiva interiore nei termini della personalizzazione massima prevista dalla Tabella Milanese in materia di danno biologico (pari al 50%), sia temporaneo che permanente, e da applicarsi sui valori compensativi della sofferenza interiore. Tenuto conto dei parametri indicati nelle Tabelle Milanesi del 2021, nonché delle risultanze della CTU medico-legale sopra richiamate, ritiene il Tribunale che il danno biologico subito dall'attore debba essere liquidato in complessivi euro 7.818,75 per inabilità temporanea, di cui euro 2.814,75 a titolo di sofferenza (assumendo come importo standard personalizzato euro 40,50) ed euro 5.004,00 quale danno dinamico-relazionale. Per il danno biologico permanente, la Tabella milanese indica, a titolo di danno biologico dinamico-relazionale e di sofferenza interiore per un soggetto di 67 anni alla data della fine della malattia (17.2.2017) e con la percentuale di invalidità del 6%, i seguenti importi standard: euro 6.626,00 a titolo di danno biologico dinamico-relazionale ed euro 1.657,00 a titolo di danno da sofferenza interiore media presumibile. Per le stesse ragioni sopra evidenziate con riferimento all'inabilità temporanea, anche con riguardo al danno permanente dev'essere personalizzata la componente di sofferenza interiore nella misura massima consentita dalle Tabelle milanesi che, nel caso di specie, è del 50%. Conseguentemente, l'importo standard personalizzato da prendersi a riferimento è di euro 2.485,50. Pertanto, stimasi equo liquidare, per il complessivo risarcimento del danno non patrimoniale da lesione permanente del diritto alla salute, la complessiva somma di euro 9.111,50 (euro 6.626,00 + euro 2.485,50). 3.2. Sul danno patrimoniale e statuizioni di condanna Non constano invece esborsi subiti dall'attore, posto che il CTU ha ritenuto che "non vengono allegate spese di cura". Pertanto, il danno complessivamente dovuto all'attore è pari ad euro 16.930,25. Deve inoltre rilevarsi che - come riconosciuto dalla stessa parte attrice - il convenuto ha provveduto a corrispondere in data 21.6.17 un acconto di euro 200,00 (v. doc. 19 allegato all'atto di citazione) somma che, rivalutata ad oggi, è pari ad euro 235,00, che andrà scomputata dalla somma finale dovuta. Residua quindi ancora dovuta la somma di euro 16.695,25, liquidata in moneta attuale Sulle somme liquidate in favore dell'attore devono essere riconosciuti gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell'equivalente pecuniario del bene perduto. Gli interessi compensativi - secondo l'ormai consolidato indirizzo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (v. Cass., sent. n. 1712/1995) - decorrono dalla produzione dell'evento di danno sino al tempo della liquidazione; per questo periodo, gli interessi compensativi si possono calcolare applicando un tasso annuo medio ponderato, equitativamente determinato, sul danno rivalutato. Da oggi, giorno della liquidazione, all'effettivo saldo decorrono gli interessi legali sulla somma rivalutata. Pertanto, alla luce degli esposti criteri, il convenuto S.P. dev'essere condannato al pagamento, in favore dell'attore, della complessiva somma di euro 16.695,25, liquidata in moneta attuale, oltre: - interessi compensativi, al tasso annuo medio ponderato del 1%, sulla somma di euro 7.818,75 dalla data del 18.9.2016 al 21.6.2017 (data dell'acconto); - interessi compensativi, al tasso annuo medio ponderato del 1%, sulla somma di euro 9.111,50 dal 17.2.2017 (data della fine della malattia) al 21.6.2017 (data dell'acconto); - interessi compensativi, al tasso annuo medio ponderato del 1%, sulla somma di euro 16.695,25 dal 22.6.17 alla data della presente sentenza; - interessi, al tasso legale, sulla somma di euro 16.695,25 dalla data della presente sentenza al saldo effettivo. 4. Sulla controversa operatività della compensatio lucri cum damno alla polizza infortuni Tanto chiarito circa l'an e il quantum debeatur, resta da dipanare un'ultima questione che, per la sua complessità, richiede un'attenta considerazione. Nel corso del presente processo è emerso che, in data 15.11.2017, la (...) PLC, compagnia assicuratrice presso la quale l'attore aveva concluso una polizza infortuni, ha versato al proprio assicurato, sig. P.B., in conseguenza del danno dallo stesso patito a causa dell'aggressione del 18.9.2016, un indennizzo di euro 27.000,00. In considerazione di tale circostanza, il Comune di Milano, richiamando il principio della compensatio lucri cum damno, ha eccepito che l'obbligazione risarcitoria fatta valere dall'attore dovesse ritenersi integralmente estinta con l'indennizzo dallo stesso già percepito dalla propria compagnia assicurativa. Come noto, l'istituto della compensatio lucri cum damno impone di scomputare, dal risarcimento del danno dovuto da fatto illecito, gli eventuali effetti vantaggiosi che il danneggiato abbia tratto quale conseguenza diretta del fatto dannoso medesimo. Si tratta allora di decidere se, nella fattispecie concreta, possa operare il principio in esame e, per l'effetto, se dal risarcimento del danno dovuto al sig. P.B. (liquidato come sopra) debba essere scomputata la somma dallo stesso percepita dalla propria compagnia assicurativa (importo che, peraltro, essendo di fatto superiore al risarcimento liquidato, operando la compensatio, determinerebbe l'estinzione dell'obbligazione risarcitoria dello S.P.). 4.1. Sul contratto assicurativo stipulato dal sig. P.B. Al fine di una migliore comprensione della questione, occorre preliminarmente inquadrare la natura e le condizioni della polizza assicurativa stipulata dal sig. P.B. Ebbene, l'attore, in data 4.4.2012, stipulava con la (...) PLC una polizza, denominata "Fortuna", in forza della quale, verso il pagamento dei premi convenuti, la compagnia assicurativa si obbligava a garantire l'assicurato contro il rischio di morte o invalidità permanente derivante da infortunio. Più precisamente, nelle condizioni contrattuali si prevedeva che, al verificarsi di uno degli eventi assicurati, la Zurich avrebbe dovuto corrispondere al sig. P.B. (o, in caso di morte, a sua moglie) un indennizzo quantificato applicando un importo percentuale - variabile a seconda del grado di invalidità - sulla somma assicurata, la quale veniva convenzionalmente pattuita dalle parti in euro 300.000,00. Si prevedeva altresì la corresponsione da parte della compagnia di un indennizzo volto a ristorare le spese mediche sostenute in conseguenza di eventuali infortuni occorsi al sig. P.B. entro un massimale annuo di euro 2.500,00. Deve sin d'ora evidenziarsi - essendo circostanza determinante ai fini della risoluzione della questione in esame - che nelle "condizioni di assicurazione" della polizza (denominata "Fortuna") le parti inserivano concordemente la seguente clausola rubricata "rinuncia alla rivalsa": "la Compagnia rinuncia a favore dell'assicurato, o degli aventi diritto, ad ogni azioni di regresso verso i terzi responsabili per le prestazioni da essa effettuate in virtù del presente contratto" (v. doc. depositato dalla (...) PLC in data 28.8.2021). La polizza stipulata dal sig. P.B. rientra nel genus - socialmente tipico - delle assicurazioni private contro gli infortuni, definibili come contratti con cui "l'assicuratore, previa corresponsione di un premio, si obbliga al pagamento di una certa somma all'assicurato, nel caso di lesione dovuta a causa fortuita, violenta ed esterna che ne determini l'inabilità temporanea o l'invalidità permanente, ovvero ad un terzo beneficiario, nel caso di morte dell'assicurato medesimo conseguente ad infortunio" (cfr. Cass., Sez. Unite, sent. n. 5119/2002). Nello specifico, nel caso in esame, il sig. P.B., stipulando la polizza "Fortuna", si è garantito contro il rischio di riportare un'invalidità permanente o la morte in conseguenza di un infortunio, estendendo peraltro la copertura anche alle spese mediche sostenute in conseguenza del trauma e prevedendo espressamente una rinuncia preventiva della (...) PLC a far valere il proprio diritto di rivalsa verso l'eventuale terzo responsabile del danno. In concreto, l'attore, a fronte dell'aggressione subita in data 18.9.2016, azionava la predetta polizza e, vedendosi riconosciuto dal perito della compagnia un grado di invalidità del 9%, otteneva un indennizzo di euro 27.000,00, pari al 9% (valore tratto dalla tabella di cui alla pag. 3 delle condizioni generali e incrementato del c.d. bonus franchigia di cui a pag. 12 dello stesso contratto) della somma assicurata di euro 300.000,00. 4.2. Sulla validità della clausola di rinuncia preventiva alla rivalsa Sempre in via preliminare, dev'essere affermata la piena validità della clausola con cui la (...) PLC ha rinunciato ad ogni azione di regresso (rectius: surroga) verso i terzi responsabili per le somme di denaro da essa stessa corrisposte al proprio cliente in virtù del contratto assicurativo stipulato. L'invalidità di tale clausola potrebbe astrattamente ravvisarsi nell'ipotetica violazione dell'art. 1916 c.c., norma che - specificamente dettata per l'assicurazione contro i danni, ma espressamente estesa ex art. 1916 co. 4 c.c. anche alle polizze contro gli "infortuni sul lavoro" e contro le "disgrazie accidentali" - prevede il diritto di surroga dell'assicuratore nei diritti dell'assicurato verso i terzi responsabili. Ebbene, dev'essere anzitutto evidenziato come tale previsione non sia collocata dall'art. 1932 c.c. tra le norme che, in materia di assicurazione, sono da ritenersi inderogabili: l'art. 1916 c.c. è dunque norma dispositiva e, come tale, derogabile dai contraenti. L'invalidità di detta clausola non può neppure essere fondata sul rilievo per cui l'art. 1916 c.c. -insieme ad altre norme (quali gli artt. 1905,1908,1909,1910 c.c.) - sarebbe espressione del c.d. principio indennitario, da alcuni ritenuto canone di ordine pubblico interno. Ed invero, in replica a questa tesi, basta rilevare che nessuna delle sopra richiamate disposizioni è espressamente ricompresa dall'art. 1932 c.c. tra le norme inderogabili, con conseguente ammissibilità di una deroga pattizia delle stesse, come del resto confermato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., sent. n. 1836/1969 e Cass., sent. n. 8714/1998). Questa conclusione trova ulteriore conferma nella prassi del mercato assicurativo, ove frequentemente si prevede la clausola di rinuncia preventiva alla rivalsa, normalmente verso il pagamento di un premio assicurativo più elevato. È appena il caso di rilevare che, in una prospettiva macroeconomica, laddove si ritenesse la nullità di dette pattuizioni, si determinerebbe, da un lato e pro futuro, un disincentivo per i consociati alla stipula della polizze infortuni divenendo le stesse di fatto meno appetibili, con conseguenze negative sul mercato assicurativo e sul complessivo sistema di welfare (data l'utilità sociale che queste assicurazioni rivestono); dall'altro lato e con sguardo al passato, dovrebbe prospettarsi, in capo a tutti coloro che hanno stipulato le (nella prassi innumerevoli) polizze infortuni con rinuncia alla rivalsa, il diritto di ripetere il surplus di premio corrisposto per remunerare tale clausola operazione che richiederebbe articolati sistemi di calcolo e che potrebbe potenzialmente generare numerosissime liti giudiziarie. Alla luce delle argomentazioni esposte, deve dunque sostenersi che la clausola di rinuncia preventiva alla rivalsa contenuta nella polizza "Fortuna" stipulata dal sig. P.B. sia pienamente valida. Del resto, la nullità di tale clausola non è stata sostenuta espressamente neppure dalla sent. n. 13233/14 con cui la Cassazione, nella disamina della pattuizione della rinuncia preventiva alla rivalsa, non ne ha dichiarato la nullità, ma si è limitata a rilevare che la previsione di siffatto accordo non vale comunque a giustificare il cumulo tra risarcimento e indennizzo assicurativo. 4.3. Sul quadro giurisprudenziale di riferimento L'istituto della compensatio lucri cum damno, pur chiaro nella sua portata generale, ha originato un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale con riferimento all'ipotesi in cui il danno e il beneficio collaterale riposino su differenti titoli da cui insorgono - in capo a due soggetti diversi - due distinte obbligazioni. Tale evenienza si riscontra nella fattispecie concreta in cui l'obbligazione risarcitoria deriva ex art. 2043 c.c. in capo al sig. S.P. per il fatto illecito a lui imputabile, mentre l'indennizzo trova fonte nel contratto assicurativo ed è quindi dovuto dalla (...) PLC. Il contrasto giurisprudenziale sul punto ha trovato composizione in quattro note pronunce delle Sezioni Unite (Cfr. Cass., Sez. Unite, sent. n. 12564, 12565, 12566, 12567 del 2018) che, dopo aver dettato i principi generali in materia - seppure enunciati "nei limiti della rilevanza" nel caso concreto -ne hanno immediatamente fatto applicazione alle controversie sottoposte al loro esame. Ebbene, ad avviso delle Sezioni Unite (che riprendono sostanzialmente le argomentazioni di Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 1/2018), nel caso in cui il danno e il vantaggio riposino su titoli differenti, l'operatività del principio della compensatio dipende dalla "ragione giustificatrice", cioè dalla funzione del beneficio collaterale che, in conseguenza dell'illecito, è entrato nel patrimonio del danneggiato. Così, la compensatio opera quando la provvidenza erogata al danneggiato neutralizza la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito. Viceversa, non può procedersi al suddetto defalco nel caso in cui il beneficio collaterale non mira a ristorare lo specifico pregiudizio cagionato dal responsabile, ma assolve ad una finalità diversa, quale può essere quella previdenziale tipica dell'assicurazione sulla vita o della pensione di reversibilità. Elemento dirimente nel compiere una siffatta valutazione è la previsione legale della rivalsa che, fungendo da "meccanismo di raccordo" tra il risarcimento del danno e il beneficio collaterale, scongiura il rischio che il danneggiante non risponda delle proprie negligenze e, al tempo stesso, evita un'ingiusta locupletazione del danneggiato in ossequio al principio indennitario. Ed allora, applicando i suddetti principi al caso di un'assicurazione contro i danni stipulata dal ricorrente per tutelarsi contro il rischio di danneggiamento ad un proprio aeromobile (quindi, a garanzia di una res), la Suprema Corte ha concluso nel senso della operatività della compensatio, rilevando che il risarcimento e l'indennizzo assolvono entrambi al medesimo fine di ristorare il danneggiato del danno derivante dalla distruzione della cosa di sua proprietà (cfr. Cass., Sez. Unite, sent. n. 12565/2018). Il diffalco dal risarcimento è stato poi applicato dalle Sezioni Unite (cfr. sent. n. 12566 e n. 12567 del 2018) in relazione all'indennizzo corrisposto dall'INAIL per infortunio sul lavoro e con riguardo all'indennità di accompagnamento percepita dalla vittima di un sinistro che ha menomato le sue capacità di deambulazione. Ad opposta conclusione sono invece pervenute le Sezioni Unite con riferimento alla possibilità di scomputare dal risarcimento del danno subito dalla vittima secondaria di un fatto illecito la somma dalla stessa incamerata a titolo di pensione di reversibilità. In tale ipotesi - rileva la Suprema Corte -"l'erogazione della pensione di reversibilità non è genticamente connotata dalla finalità rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell'illecito del terzo. Quell'erogazione non soggiace ad una logica e ad una finalità di tipo indennitario, ma costituisce piuttosto - come è stato rilevato in dottrina - l'adempimento di una promessa rivolta dall'ordinamento al lavoratore-assicurato che, attraverso il sacrificio di una parte del proprio reddito lavorativo, ha contribuito ad alimentare la propria posizione previdenziale: la promessa che, a far tempo dal momento in cui il lavoratore, prima o dopo il pensionamento, avrà cessato di vivere, quale che sia la causa o l'origine dell'evento protetto, vi è la garanzia, per i suoi congiunti, di un trattamento diretto a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire o ad alleviare lo stato di bisogno. Sussiste dunque una ragione giustificatrice che non consente il computo della pensione di reversibilità in differenza alle conseguenze negative che derivano dall'illecito, perché quel trattamento previdenziale non è erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato, ma risponde ad un diverso disegno attributivo causale. La causa più autentica di tale beneficio - è stato osservato - deve essere individuata nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente e assorbente rispetto alla circostanza (occasionale e giuridicamente irrilevante) che determina la morte" (cfr. Cass., Sez. Unite, sent. n. 12564/2018). Argomentazioni analoghe sono state peraltro spese dalle Sezioni Unite - seppur incidenter tantum, non rientrando in alcun caso concreto loro sottoposto - con riferimento all'assicurazione sulla vita, ove "l'indennità si cumula con il risarcimento, perché si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall'assicurato sopportando l'onere dei premi, e l'indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolge una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante" (cfr. Cass., Sez. Unite, sent. n. 12565/18). La Suprema Corte, nella sua più alta espressione, ha dunque fornito la propria soluzione circa l'applicabilità della compensatio alle due species di contratti assicurativi puntualmente regolati dal codice - cioè l'assicurazione contro i danni (artt. 1904 e ss. c.c.) e l'assicurazione sulla vita (artt. 1919 e ss. c.c.) - ma non pare risolutiva della vicenda all'esame di questo Giudice, in cui viene in rilievo una polizza infortuni. Ed invero, con riferimento a tali prodotti assicurativi, che non trovano nel codice una puntuale disciplina organica, il panorama giurisprudenziale è apparso per lungo tempo alquanto frastagliato. In particolare, a fronte di un orientamento interpretativo volto ad assimilare dette polizze alle assicurazioni contro i danni, si è fatta strada un'altra opinione tesa ad avvicinarle alla categoria delle assicurazioni sulla vita. A sopire tale acceso dibattito sono dunque intervenute le Sezioni Unite che, nel pronunciarsi (non già in termini generali e assoluti, ma specificamente) sull'applicabilità dell'art. 1910 c.c. alle polizze infortuni, hanno distinto entro queste ultime quelle volte a garantire il rischio di invalidità non mortali da quelle finalizzate a coprire l'evento morte (cfr. Cass., Sez. Unite, sent. n. 5119/2002). In estrema sintesi, la Suprema Corte ha chiarito che alle polizze contro infortuni non letali si devono applicare in prevalenza le norme sull'assicurazione contro i danni (e, specificamente, l'art. 1910 c.c.), posto che, da un lato, l'infortunio non mortale, pur essendo un accadimento genericamente relativo alla "persona", non può cionondimeno qualificarsi come "evento attinente alla vita umana" come prescrive per l'assicurazione sulla vita l'art. 1882, seconda parte, c.c.; dall'altro lato, il "danno", menzionato nella prima parte dell'art. 1882 c.c., non si riferisce solo alle cose, ma anche ai pregiudizi alle persone, con la conseguenza che anche la polizza infortuni soggiace al principio indennitario sotteso alla disciplina delle assicurazioni contro i danni. Ciò troverebbe conferma nel rilievo che l'art. 1916 co. 4 c.c. - disposizione ritenuta espressione del principio indennitario - estende espressamente la surroga dell'assicuratore nei diritti dell'assicurato verso l'eventuale danneggiante anche alle polizze stipulate contro gli "infortuni sul lavoro" e le "disgrazie accidentali". Un discorso opposto dovrebbe invece svolgersi - sempre, ad avviso delle Sezioni Unite - con riguardo alle coperture assicurative contro infortuni letali, la cui disciplina dovrebbe ritrarsi "prevalentemente" dalle disposizioni sull'assicurazione sulla vita. Infatti, solo la morte - e non già il mero infortunio invalidante - rientrerebbe nel concetto di "evento attinenti alla vita umana" di cui all'art. 1882 c.c. e, inoltre, le polizze contro infortuni letali hanno uno schema molto simile a quello proprio delle assicurazioni sulla vita, posto che vengono inevitabilmente e fatalmente stipulate dall'assicurato a vantaggio di un terzo beneficiario. Dopo aver tracciato la suindicata distinzione, le Sezioni Unite - sempre nella sent. n. 5119/2002 - si confrontano poi con la prassi assicurativa corrente chiarendo che spesso "le polizze di assicurazione contro gli infortuni non si limitano a coprire l'ipotesi dell'infortunio inabilitante o invalidante, ma anche quella dell'infortunio mortale". In tal caso - prosegue il Collegio - "le differenziazioni di disciplina sopra menzionate sono quindi destinate ad operare nell'ambito di un medesimo contratto. Una peculiarità del contratto di assicurazione privata contro gli infortuni è infatti proprio quella dell'essere tale contratto caratterizzato dalla complessità del rischio coperto, in quanto comprensivo sia del rischio di infortunio produttivo di inabilità temporanea o invalidità permanente, sia del rischio di infortunio mortale. La duplicità del rischio implica diversificazione di disciplina del contratto, che deve quindi ritenersi soggetto ad una disciplina di tipo misto: da ricavare prevalentemente dalla disciplina dettata per l'assicurazione contro i danni, nel caso in cui il particolare aspetto del rapporto del quale deve essere individuata la disciplina si ricolleghi alla deduzione di un infortunio che abbia determinato inabilità o invalidità, ovvero prevalentemente dalla disciplina dettata per l'assicurazione sulla vita, nel caso in cui venga in considerazione un infortunio mortale" (Cfr. Cass., Sez. Unite, sent. n. 5119/2002). Quindi, seguendo l'orientamento inaugurato dalla predetta pronuncia, alla polizza infortuni che copre sia il rischio di infortuni letali sia quello di traumi invalidanti non fatali deve trovare applicazione una disciplina di tipo misto, ritraibile alternativamente dall'assicurazione contro i danni o da quella sulla vita a seconda delle conseguenze dell'infortunio in concreto verificatesi. Un'applicazione dei principi tracciati dalle Sezioni Unite n. 5119/2002 si ritrova in una sentenza della Cassazione che, estendendo in via generale la distinzione sopra tracciata - estensione peraltro in sé non scontata, posto che le stesse Sezioni Unite hanno espressamente manifestato l'intenzione, non già di fornire criteri generali validi in assoluto, ma solo di risolvere la specifica questione dell'applicabilità al caso loro sottoposto dell'art. 1910 c.c. - ha escluso la possibilità di cumulare la somma ricevuta a titolo di risarcimento del danno per lesioni personali con l'indennizzo percepito in forza di una polizza infortuni (Cfr. Cass., sent. n. 13233/14). Nello specifico, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13233/14, ha sostenuto tale conclusione per le seguenti ragioni: - in primo luogo, ammettendo il cumulo, il danneggiato si troverebbe in una condizione patrimoniale più favorevole rispetto a quella in cui si trovava prima dell'illecito, in violazione del principio indennitario pienamente operante anche nel caso di pagamenti fondati su titoli differenti (rispettivamente, il contratto assicurativo e il risarcimento); - in secondo luogo, escludendo la compensatio, si verrebbe a configurare in capo all'assicurato un interesse positivo al verificarsi dell'infortunio, trasformando così il contratto assicurativo in un'occasione di lucro e finendo così per configurare la polizza - ammantata di un intento "speculativo" - come una sorta di "scommessa"; - in terzo luogo, "se il terzo responsabile risarcisce la vittima prima che questa percepisca l'indennizzo, il credito risarcitorio si estingue per effetto dell'adempimento, e con esso il danno risarcibile. L'assicuratore non sarà tenuto al pagamento di alcun indennizzo, per la semplice ragione che non v'è più alcun danno da indennizzare. Lo stesso dicasi nell'ipotesi inversa, in cui il danneggiato percepisca l'indennizzo assicurativo prima del risarcimento. Anche in tal caso l'obbligo risarcitorio del terzo responsabile verrà meno non per effetto della compensatio, ma per la semplice ragione che l'intervento dell'assicuratore ha eliso (in tutto od in parte) il pregiudizio patito dal danneggiato e non si può pretendere il risarcimento di un danno che non c'è più" (cfr. Cass., sent. n. 13233/2014). Nella medesima pronuncia, la Corte di Cassazione ha infine sottolineato che la soluzione sopra richiamata resta ferma anche se l'assicurazione ha preventivamente rinunciato al proprio diritto di surroga verso il responsabile civile ex art. 1916 c.c. (o ha comunque scelto di non esercitarlo), posto che "la surrogazione ex art. 1916 c.c., costituisce, secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente, una successione a titolo particolare dell'assicuratore nel diritto dell'assicurato. Orbene, perché il diritto si trasferisca, è necessario che esso sia perso dall'assicurato ed acquistato dall'assicuratore. Tuttavia, l'estinzione del diritto al risarcimento in capo all'assicurato avviene per effetto del solo pagamento, non certo per effetto della surrogazione". In definitiva, l'inserimento della clausola di rinuncia al diritto di surroga non vale a far mutare la natura indennitaria del contratto assicurativo, "perché il principio indennitario in materia assicurativa è principio di ordine pubblico e quindi inderogabile. Deve dunque concludersi nel senso che indennizzo dovuto dall'assicuratore e risarcimento dovuto dal responsabile assolvano ad una identica funzione risarcitoria, e non possano essere cumulati". 4.4. Il principio indennitario nell'assicurazione contro danni alle res non si attaglia alla polizza infortuni Chiarito quanto sopra, ritiene questo Giudice che, nel caso di specie, l'istituto della compensatio non trovi applicazione e che quindi dal risarcimento del danno patito dal sig. P.B. - come sopra quantificato - non vada scomputato l'indennizzo assicurativo di euro 27.000,00 percepito dall'attore in ragione della polizza infortuni dallo stesso stipulata con la (...) PLC. Come sopra illustrato (cfr. par. 4.1.), la polizza stipulata dal sig. P.B. è volta a garantire l'assicurato contro il rischio di subire un'invalidità permanente o la morte in conseguenza di un infortunio. In casi siffatti - in cui la polizza copre sia l'esito letale, sia quello meramente invalidante - ad avviso delle Sezioni Unite n. 5119/2002, si applica una disciplina "mista" che varia a seconda dell'evento che in concreto si è verificato ai danni dell'assicurato. Nel caso in esame, il sig. P.B. ha subito un trauma che ha cagionato postumi invalidanti, ma non la morte e, pertanto, seguendo il dictum delle Sezioni Unite - per come interpretato dalla successiva Cassazione n. 13233/14 - si dovrebbero applicare le norme dettate in tema di assicurazione contro i danni, comprese quelle che, espressione del generale principio indennitario, impediscono di cumulare al risarcimento del danno l'indennizzo assicurativo. Senonché, la tesi che postula un'automatica equiparazione (o comunque un'integrale estensione di disciplina) tra polizza infortuni non letali e assicurazione contro i danni non persuade. Ed invero, la disciplina delle assicurazioni contro i danni di cui agli artt. 1904 e ss. c.c. è stata pensata dal Codice civile con riguardo alle polizze contro danni alle cose, non per coperture contro pregiudizi alla persona. Molte di tali disposizioni fanno infatti riferimento alla specifica nozione di "cosa assicurata" (v. artt. 1906,1907,1908,1909 e 1911 c.c.), non già al più neutro concetto di "bene assicurato". Questa conclusione pare trovare una conferma testuale nell'art. 1916 c.c. che, dopo aver previsto il diritto di surroga dell'assicuratore nei diritti dell'assicurato verso il responsabile del danno, ha poi espressamente esteso tale previsione alle polizze contro gli "infortuni sul lavoro" e contro le "disgrazie accidentali". In effetti, se si ritenesse che le polizze infortuni (astrattamente ricomprese tra le coperture contro le "disgrazie accidentali") rientrino tout court nel genus dell'assicurazione contro i danni, la suddetta estensione contenuta nell'art. 1916 co. 4 c.c. apparirebbe del tutto priva di giustificazione. Non solo, nella relazione del Guardasigilli al codice del 1942 si precisa che "essendosi voluto dare per l'assicurazione solo una disciplina di carattere generale, non si sono poste (salvo che negli articoli 1906, quarto comma, 1913, secondo comma, 1916, quarto comma, e 1917) norme particolari per i contratti relativi ai vari rami assicurativi; questi sono lasciati al regolamento convenzionale per quanto concerne le loro peculiarità". La relazione, dunque, richiama l'art. 1916 co. 4 c.c. nella parte in cui fa riferimento alle polizze contro infortuni sul lavoro e disgrazie accidentali, precisando che si tratta di "contratti relativi ai vari rami assicurativi" e, dunque, non riconducibili tout court al ramo danni (che invece è espressamente regolato nel codice). Soprattutto però pare ingiustificato ritenere che la disciplina dell'assicurazione contro i danni -limitandosi a considerare il danno prodotto all'assicurato senza ulteriori precisazioni - "non è solo assicurazione di cose o di patrimoni, ma è suscettiva di ricomprendere anche i danni subiti dalla persona dell'assicurato per effetto di infortunio, così caratterizzandosi (anche) come assicurazione di persone" (cfr. Cass., Sez. Unite, sent. n. 5119/2002). Infatti, come rilevato da risalente - ma ancora attuale - giurisprudenza, nelle polizze infortuni, quello che viene in considerazione è "il corpo umano, cioè un bene tutt'affatto particolare, rispetto al quale, per la considerazione etica che i paesi civili hanno della vita umana, non è configurabile un puro e semplice contratto d'indennità come efficace strumento di riparazione del danno prodottosi" (cfr. Cass., sent. n. 2915/1968). In altri termini, a differenza delle cose, beni suscettibili di stima ad opera delle parti, la persona non ha un valore che possa essere oggettivamente stabilito da tutti i contraenti, sì da potervi commisurare l'indennizzo assicurativo. È vero che, in materia di danno non patrimoniale, nelle sedi giudiziarie si suole far ricorso alle c.d. Tabelle di liquidazione del danno alla persona, ma occorre non dimenticarsi come queste ultime - secondo quanto chiarito da ormai consolidata giurisprudenza (cfr., ex plurimis, Cass., sent. n. 10579/2021 e Cass., sent. n. 11719/2021) - non abbiano la pretesa di enucleare un "prezzo" del danno alla persona subito dal danneggiato, ma configurano solo un criterio convenzionale cui ancorare la valutazione equitativa del giudice ex art. 1226 e 2056 c.c. E, dunque, non può ragionevolmente sostenersi che la disciplina delle assicurazioni contro i danni si riferisca indifferentemente alle res e alle persone, stante l'ontologica diversità di questi beni assicurati. Tale conclusione trova del resto una conferma nella prassi assicurativa, posto che normalmente le parti non ancorano l'importo dell'indennizzo ai valori monetari espressi dalle Tabelle di liquidazione del danno, ma quantificano l'indennità in rapporto percentuale rispetto ad una (pre)determinata somma assicurata. Anzi, talvolta, l'indennizzo liquidato sulla base del capitale assicurato è di gran lunga superiore rispetto al valore del danno biologico quantificato sulla base delle Tabelle e, tuttavia, in tali casi, nessuno ha mai ravvisato la violazione del principio indennitario. In ogni caso, nelle ipotesi in cui il capitale assicurato sia fissato convenzionalmente dalle parti, appare comunque arduo sostenere che, con detta stima, i contraenti abbiano inteso pattiziamente attribuire un "valore" alla persona dell'assicurato. Piuttosto - come meglio s'illustrerà nel prosieguo - l'assicurato ha convenzionalmente individuato una somma su cui aver la certezza di poter contare nel malaugurato caso in cui si troverà a dover sopportare eventi traumatici invalidanti. L'individuazione del capitale assicurato, in altri termini, non è certo paragonabile alla c.d. stima concordata di cui all'art. 1908 c.c., norma che consente alle parti di stabilire pattiziamente il valore che una res ha al tempo della conclusione del contratto: con l'istituto di cui all'art. 1908 c.c. si attribuisce certezza all'indennizzo, il quale però, nelle polizze danni relative ad una res, resta pur sempre ancorato al valore oggettivo del bene e non - come invece avviene nella polizza infortuni - all'entità del premio concordato. Sempre con riguardo all'impossibilità di attribuire un valore economico alla persona, va peraltro rilevato che tale argomentazione è ripresa dalle stesse Sezioni Unite (nella sent. n. 5119/2002) che, dopo aver ritenuto applicabili alle polizze infortuni i primi due commi dell'art. 1910 c.c. (sul presupposto di un'estensione alle stesse delle norme sull'assicurazione contro i danni), ha poi precisato, con riferimento ai co. 3 e 4, "concernenti rispettivamente l'obbligazione solidale degli assicuratori per l'indennizzo, nei limiti dell'ammontare del danno, ed il regresso dell'assicuratore che ha pagato confronti degli altri per la ripartizione proporzionale del debito, la peculiarità dell'assicurazione contro gli infortuni, che è assicurazione di persone e non di cose, con le conseguenti difficoltà di rapportare la misura dell'indennizzo ad un danno di consistenza obbiettivamente accertabile, se non osta radicalmente alla loro applicazione, la rende indubbiamente difficoltosa nella pratica" (cfr. Cass., Sez. Unite, sent. n. 5119/2002). In conclusione, dunque, sulla base delle argomentazioni che precedono, non solo non può sostenersi la piena equiparazione delle polizze contro infortuni non letali alle assicurazioni contro i danni, ma, a ben vedere, neppure può patrocinarsi - come invece parrebbe sostenere Cass., Sez. Unite, sent. n. 5119/2002 - un'integrale estensione analogica di dette disposizioni alle polizze infortuni stesse. 4.5. Sulla soluzione della questione: necessità dell'indagine sulla causa concreta del contratto nella polizza infortuni Tanto chiarito, deve evidenziarsi che, al fine di individuare la disciplina applicabile alle polizze infortuni, occorre rifuggire da rigidi automatismi, essendo necessario risalire allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipula del contratto assicurativo in esame. È infatti principio consolidato quello per cui il requisito della causa del contratto dev'essere apprezzato in concreto, dovendosi indagare, non già lo schema astratto prescelto dai contraenti, ma lo scopo pratico (o funzione economico-individuale) che questi ultimi hanno inteso perseguire con la convenzione tra loro stipulata (cfr. Cass., Sez. Unite, n. 22437/2018, in tema di claims made). Deve dunque fornirsi un'interpretazione evolutiva della sent. Cass., Sez. Unite, n. 5119/2002, posto che quest'ultima, essendo intervenuta prima dello storico precedente di legittimità che ha accolto definitivamente il principio della c.d. causa in concreto (cioè Cass., sent. n. 10490/2006), ha offerto una soluzione ancorata entro i rigidi schematismi della causa in astratto. Abbracciando dunque un approccio aderente alla causa in concreto, si scongiura altresì l'equivoco (tanto contestato in dottrina) in cui sono incorse le stesse Sezioni Unite nella parte in cui, invocando la teoria del contratto misto, hanno affermato che, in presenza di una polizza infortuni contestualmente stipulata per esiti letali e non letali, si devono applicare norme diverse a seconda dell'evento che in concreto si è verificato: è infatti evidente come la disciplina di un unitario contratto non può certo mutare a seconda dell'evenienza della vita che viene ex post in rilievo. In una chiave evolutiva, è dunque necessario ricostruire la volontà delle parti e- specificamente - la natura del contratto assicurativo attraverso il periscopio della c.d. causa in concreto. La bontà di una simile prospettiva, attenta alla concreta configurazione del contratto operata dalle parti, trova un utile addentellato nel reg. ISVAP n. 29 del 16 marzo 2009 che, con riferimento alle assicurazioni per "malattie gravi" o alla copertura per la "non autosufficienza", inserisce detti prodotti alternativamente nel ramo vita o nel ramo danni a seconda dell'articolazione complessiva dell'operazione negoziale. Del pari, un'indagine sulla concreta configurazione del contratto assicurativo è suggerita dall'art. 2 D.Lgs. n. 209/2005 (c.d. Codice delle assicurazioni private) che riconduce al ramo vita le assicurazioni contro infortuni purché in concreto stipulate per una durata poliennale e con clausola di non rescindibilità (cfr. Cass., sent. n. 9380/21). Ed allora, ponendosi nell'alveo della causa in concreto, occorre indagare, anche alla luce dei criteri soggettivi di interpretazione del contratto (ex artt. 1362-1365 c.c.), lo scopo pratico che il sig. P.B. e la (...) PLC hanno inteso perseguire con la stipula della polizza "Fortuna". Ebbene, nel caso di specie, come più analiticamente illustrato sopra (cfr. par. 4.1.), i contraenti hanno previsto che, in caso di invalidità permanente, la compagnia assicurativa avrebbe dovuto versare all'assicurato un indennizzo calcolato in percentuale sulla somma assicurata (pari ad euro 300.000,00) contestualmente prevedendosi una preventiva rinuncia da parte della Zurich ad esercitare il proprio diritto di surroga nei confronti dell'eventuale terzo responsabile. Le parti, dunque, non hanno ancorato l'indennizzo assicurativo ad un supposto valore obiettivo della persona, ma lo hanno legato ad un capitale convenzionalmente stabilito, secondo un modello più simile a quello dell'assicurazione sulla vita (dove l'indennità è correlata al capitale investito), rispetto allo schema dell'assicurazione contro i danni alle cose (ove l'indennizzo è rapportato al valore del bene assicurato). Soprattutto però, ad illuminare il reale intento perseguito dalle parti, è l'esclusione convenzionale del diritto di rivalsa dell'assicuratore (per la cui previsione normalmente l'assicurato corrisponde premi maggiorati), clausola che, lungi dal porsi quale elemento accidentale del contratto (come invece sembrerebbero affermare Cass., sent. n. 13233/14 e Cass., ord. n. 14358/2019), assume un ruolo dirimente nell'interpretazione della concreta volontà delle parti. Tale pattuizione, infatti, dimostra chiaramente come i contraenti abbiano inteso scindere il profilo risarcitorio (derivante dall'applicazione degli artt. 2043 e ss. c.c.) da quello indennitario conseguente all'operatività della polizza. In altri termini, le parti, prevedendo la preventiva rinuncia dell'assicuratore alla surroga, hanno inteso pattuire che, in caso di infortunio imputabile a responsabilità del terzo, l'assicurato potesse cumulare il risarcimento del danno con l'indennizzo assicurativo. In altre parole, se la previsione di una rivalsa - come precisato dalle S.U. con sent. n. 12564/18 - trasforma il duplice, ma separato, rapporto bilaterale (danneggiante-danneggiato e assicuratore-assicurato) in una relazione trilaterale, l'esclusione convenzionale del diritto di surroga recide detta trilateralità, riportando la vicenda all'originaria doppia bilateralità. In definitiva, ritiene il Tribunale che la polizza stipulata dalle parti, per come in concreto articolata, risponda ad una finalità previdenziale: il sig. P.B. ha inteso cautelarsi contro il rischio di morte o invalidità permanente, sopportando il pagamento di una serie di premi e assicurandosi la possibilità di poter celermente disporre, in caso di verificazione di un evento traumatico, di una somma di denaro certa nel suo ammontare e proporzionata - in quanto ancorata ad un prescelto capitale assicurato -non già al danno effettivamente patito, ma alla propria capacità di spesa e alla propria propensione all'investimento previdenziale. Il contratto assicurativo stipulato dal sig. P.B., quindi, lungi dall'assolvere una funzione di neutralizzazione di un pregiudizio subito, intende precipuamente garantire all'assicurato (o ai suoi familiari in caso di decesso) una provvidenza dallo stesso stimata come idonea. E ciò dovrebbe valere sia nel caso di infortunio letale, sia nel caso di trauma solo invalidante: non si vede del resto per quale ragione la finalità previdenziale (riconosciuta dalle Sezioni Unite n. 5119/2002 solo per gli esiti mortali) dovrebbe mutare a seconda dell'evento - letale o non letale - che in concreto si verifica. È al riguardo peraltro significativo osservare come la polizza "Fortuna" in esame non abbia ad oggetto il "danno biologico" o altre ipotesi di "danno alla persona" con le modalità previste dalle tabelle giurisprudenziali o dal Codice delle Assicurazioni, ma correla l'indennizzo al verificarsi del mero "fatto", consistente nell'invalidità permanente derivante da infortunio. La previsione della rinuncia preventiva alla rivalsa può essere peraltro valorizzata anche sotto un altro aspetto: inserendo detta clausola, le parti hanno inteso attribuire alla polizza "Fortuna" non solo una funzione previdenziale, ma anche uno scopo in qualche modo "consolatorio". Infatti, nel pattuire tale clausola, l'assicurato ha evidentemente prefigurato l'evenienza di infortunio causato da un terzo, assicurandosi che, in tal caso, già di per sé drammatico, avrebbe quanto meno potuto ricevere, oltre al risarcimento del danno, anche un indennizzo assicurativo. Si tratta pur sempre di un interesse che, in un sistema che valorizza l'autonomia contrattuale al massimo grado entro i limiti della liceità, deve senz'altro ritenersi meritevole di tutela. Se invece si ritenesse di escludere il cumulo, l'intento pratico perseguito dalle parti di consentirlo in favore dell'assicurato sarebbe del tutto frustrato posto che lo scopo "consolatorio" che l'assicurato intendeva ritrarre dal contratto sarebbe vanificato da una sostanziale impunità del danneggiante. Conseguentemente si deve confutare la tesi innanzi esposta, secondo cui, con il pagamento del risarcimento da parte del terzo responsabile ovvero l'indennizzo da parte dell'assicuratore, si estinguerebbe in ogni caso il diritto di credito vantato dalla vittima. Sulla base delle considerazioni che precedono, si può dunque ritenere che la polizza "Fortuna" non possa essere ricondotta al genus delle assicurazioni contro i danni, stante l'ontologica diversità tra la res e la persona. La stessa polizza però non può neppure essere ricondotta tout court al ramo delle assicurazioni sulla vita, sebbene con essa condivida la medesima finalità previdenziale, non trattandosi di assicurazione stipulata sulla "vita propria o su quella di un terzo" come prevede l'art. 1919 c.c. Deve piuttosto ritenersi che trattasi di un contratto assicurativo dal contenuto atipico, ma riconducibile al modello generale di cui all'art. 1882, seconda parte, c.c., essendo evidente che - come affermato dalla dottrina e come ritenuto da pronunce giurisprudenziali antecedenti alla sentenza delle Sezioni Unite n. 5119/2002 - un infortunio è certamente "un evento attinente alla vita umana". Del resto, non può disconoscersi come la varietà del mercato assicurativo offra al pubblico sempre più polizze non agevolmente riconducibili né al ramo danni, né al ramo vita. Si pensi alla polizza cauzione o all'assicurazione per la contestazione delle violazioni del Codice della strada. Sono poi le stesse Sezioni Unite (sent. n. 5119/2002) che qualificano la polizza infortuni come "contratto socialmente tipico", specificando che la disciplina dello stesso si trae, a seconda dei casi, "prevalentemente" - quindi non integralmente - dall'ordito normativo predisposto per le assicurazioni contro i danni o per le polizze-vita. Nemmeno la Suprema Corte dà quindi la stura ad una piena e integrale riconduzione delle polizze infortuni alle due branche di assicurazione tipizzate nel codice, ma pare in qualche modo prospettare un modello ibrido di "assicurazione contro i danni alla persona", assimilabile, ma diverso da quello di cui agli artt. 1904 e ss. c.c. Alla luce delle esposte considerazioni, la polizza "Fortuna", pur non rientrando nei due genera assicurativi disciplinati dal codice (rispettivamente agli artt. 1904 e ss. agli artt. 1919 e ss. c.c.), cionondimeno, condivide con l'assicurazione sulla vita la stessa natura previdenziale, trovando tale contratto assicurativo ragione - per com'è articolato dalle parti attraverso la previsione della rinuncia alla rivalsa - nella precauzione di introdurre una forma di provvidenza, volta non tanto ad elidere il danno, ma a garantire all'assicurato una maggiore tranquillità economica al verificarsi di un evento avverso. Per l'effetto, si deve ritenere che la polizza "Fortuna" stipulata dal sig. P.B., stante la sua natura sostanzialmente previdenziale, soggiace prevalentemente alle norme dettate per l'assicurazione sulla vita, giustificandosi così l'inoperatività del principio indennitario, con la conseguenza che dalla somma liquidata a titolo di risarcimento in favore dell'attore non dev'essere scomputato l'indennizzo corrisposto dalla (...) PLC. La soluzione appena illustrata ha trovato sostanziale avallo anche in un recente precedente della Corte d'Appello di Milano (sent. dell'8.2.2022, R.G. n. 1131/2021), la quale, dopo aver ravvisato nella polizza infortuni sottoposta al suo esame una natura previdenziale, ha escluso l'operatività della compensatio osservando che "la causa del contratto quale misura dell'esercizio dell'autonomia negoziale è idonea pertanto a fare sì che l'indennizzo possa atteggiarsi in termini non meccanicamente riconducibili nell'alveo del principio della "compensatio lucri cum damno", ciò in considerazione della possibilità di riferire un valore all'integrità fisica, da reperire consensualmente nella misura dell'indennizzo, costituendo la polizza una modalità di quantificazione delle conseguenze dannose dell'evento pregiudizievole. L'assicurazione sull'infortunio può quindi trovare la propria ragione non solo in relazione alla rimozione del danno ma anche nella precauzione - a fronte di un evento negativo che può colpire la persona nella sua integrità psicofisica o nella sua capacità di produrre reddito - di introdurre una forma di previdenza che non si sostituisce ma si affianca a quella indennitaria. Trattasi di prestazione funzionale a garantire, proprio a fronte dell'evento negativo incidente sull'integrità fisica, non solo l'elisione del danno attraverso il processo indennitario ma anche una maggiore tranquillità economica, introducendo così anche una forma di risparmio di pieno valore sociale. tranquillità economica, introducendo così anche una forma di risparmio di pieno valore della compensatio non può automaticamente e aprioristicamente estendersi a tutte le polizze infortuni: ove non sia stato pattiziamente derogato l'art. 1916 co. 4 c.c. torna ad operare il principio generale della compensatio lucri cum damno. Peraltro, è opportuno rilevare che, seguendo gli approdi delle Sezioni Unite (sent. n. 12564-5-6-7 del 2018), affinché operi la compensatio tra il risarcimento del danno ed eventuali provvidenze percepite dal danneggiato, deve individuarsi lo scopo cui mira il beneficio collaterale che si pretenderebbe di scomputare. Ebbene, nel compiere detta valutazione con riferimento ad una provvidenza che ha fonte, non già legale (come sarebbe l'indennità di accompagnamento o la pensione di reversibilità), ma contrattuale (qual è il contratto di assicurazione), l'interprete non può esimersi dal ravvisare detto scopo alla luce della volontà delle parti. Al cospetto, dunque, di un contratto assicurativo (almeno quando esso non riproduce integralmente un modello tipico integralmente regolato dal codice, com'è l'assicurazione contro i danni alle cose), non è solo l'intentio legis che conta, ma soprattutto la volontà delle parti, autentiche interpreti delle loro pattuizioni. Del pari, al cospetto di provvidenze aventi fonte contrattuale, anche l'esistenza di un meccanismo di rivalsa non dev'essere riguardata unicamente sul piano dell'astratta previsione legislativa, ma dev'essere vagliata in concreto esaminando le specifiche pattuizioni dei contraenti. Sicché, nel caso in esame, la polizza infortuni stipulata dalle parti, prevedendo in concreto una rinuncia da parte dell'assicuratore al proprio diritto di surroga ex art. 1916 c.c., ha una finalità previdenziale e, quindi, assume in concreto una configurazione del tutto similare a quella delle assicurazioni sulla vita, rispetto alle quali la Suprema Corte esclude pacificamente l'operatività della compensatio. La tesi - qui non condivisa - dell'ammissibilità della compensatio si presta inoltre ai seguenti ulteriori rilievi: - laddove sia prevista la clausola di rinuncia alla rivalsa, l'unico soggetto che si troverebbe beneficiato dal contratto assicurativo sarebbe paradossalmente il danneggiante, il quale potrebbe non dover corrispondere alcun risarcimento ove il danneggiato abbia già percepito un'indennità dalla propria compagnia assicurativa. Si tratta di una conclusione irragionevole che finisce con il sacrificare sull'altare del principio indennitario, il preminente principio di responsabilità e ciò con buona pace della funzione deterrente della responsabilità aquiliana, ulteriormente scolpita anche dalla Suprema Corte a Sezioni Unite con sent. n. 16601 del 2017. Sono del resto le stesse Sezioni Unite, con la sent. n. 12564 del 2018, a chiarire che "non corrisponde infatti al principio di razionalità - equità, e non è coerente con la poliedricità delle funzioni della responsabilità civile (cfr. Cass., Sez. U., 5 luglio 2017, n. 16601), che la sottrazione del vantaggio sia consentita in tutte quelle vicende in cui l'elisione del danno con il beneficio pubblico o privato corrisposto al danneggiato a seguito del fatto illecito finisca per avvantaggiare esclusivamente il danneggiante, apparendo preferibile in tali evenienze favorire chi senza colpa ha subito l'illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato". Non si condivide quindi l'affermazione contenuta nella citata sent. n. 13233/14 secondo cui "la rinuncia al diritto di surroga giova solo al responsabile civile", conclusione peraltro certamente contraria all'effettiva intenzione dei contraenti, nell'ottica della causa in concreto del contratto. Del resto, non ricorrono neppure i presupposti di cui all'art. 1411 cc. non avendo in concreto le parti alcun interesse a stipulare un contratto in favore del danneggiante; - inoltre, nel caso in cui il danneggiante abbia stipulato una assicurazione della propria responsabilità civile (si pensi a tutti i casi della assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile) e contestualmente il danneggiato abbia stipulato una polizza infortuni, il sistema entrerebbe in un evidente "corto circuito": ad entrambi gli assicuratori converrebbe non adempiere perché, operando la compensatio, il primo che paga estingue il credito indennitario/risarcitorio del danneggiato, sicché il secondo assicuratore non dovrebbe più pagare alcunché; - non appare infine certamente ipotizzabile un "interesse positivo" al verificarsi dell'infortunio in capo all'assicurato, né può ragionevolmente valorizzarsi il rischio che, escludendo il cumulo, l'assicurato stesso possa spingersi ad auto-provocarsi dolosamente un evento lesivo della sua salute (come prospettato nella citata sent. Cass., sent. n. 13233/14). È agevole, infatti, replicare che appare arduo ipotizzare un interesse positivo di un soggetto a subire un infortunio - e quindi un danno non ad una cosa propria, ma alla sua persona - con postumi permanentemente invalidanti. Contro il rischio di dolosi episodi auto-lesivi procuratisi dall'assicurato al sol fine di conseguire l'indennizzo assicurativo si pongono, invece, oltre alla naturale remora a provocarsi una menomazione della propria integrità fisica, la disciplina di cui all'art. 1900 c.c. e la fattispecie criminosa di cui all'art. 642 co. 2 c.p. Deve infine rilevarsi che il principio della compensatio - nei casi in cui in concreto si ritiene operante -richiede comunque una valutazione di omogeneità dei crediti portati in compensazione. Tale verifica è del resto imposta anche dalla sopra citata sentenza n. 13233/14 della Cassazione che ha chiarito che "la detrazione dal risarcimento del danno aquiliano dell'indennizzo assicurativo percepito dalla vittima in virtù di una assicurazione contro gli infortuni esige che il danno patito ed il rischio assicurato coincidano: se l'assicurazione copre il danno da perdita della capacità di lavoro (danno patrimoniale), e la vittima del fatto illecito abbia subito soltanto un danno biologico (danno non patrimoniale), nessuna detrazione sarà possibile, a nulla rilevando che l'assicuratore abbia, per effetto di particolari clausole contrattuali che ammettano l'indennizzabilità d'un danno presunto, pagato ugualmente l'indennizzo". Ebbene, nel caso di specie, come sopra anticipato (cfr. par. 4.1.), la polizza "Fortuna" stipulata dall'attore copre il rischio di infortuni letali o invalidanti derivanti da infortunio (e le relative spese mediche), non garantendo invece la copertura delle ipotesi di inabilità temporanea. Sicché, ove si fosse ammessa l'operatività della compensatio, dal risarcimento liquidato in questa sede - relativo sia al danno permanente (per euro 9.111,50) sia al pregiudizio per inabilità temporanea (per euro 7.818,75) - avrebbe dovuto scomputarsi solo la somma liquidata per l'invalidità permanente. Alla luce di tutte le considerazioni esposte, deve dunque concludersi che, nel caso in esame, non può darsi luogo ad alcuna compensazione tra il risarcimento del danno liquidato al sig. P.B. e l'indennizzo assicurativo da questo percepito dalla (...) PLC. 5. Sulle spese Conseguono alla soccombenza: la condanna del convenuto S.P. a rifondere all'attore le spese processuali, oltre quelle stragiudiziali (liquidate queste ultime in complessivi euro 1.890,00, come da citazione) oltre all'esborso per onorario CTP dell'attore pari ad euro 488,00 (come da CTU depositata il 18.1.22, pag. 11); la condanna dell'attore a rifondere le spese processuali sostenute dal convenuto Comune di Milano. Le spese di c.t.u. vengono definitivamente poste a carico del convenuto S.P. - P.Q.M. - Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando, così provvede: - Dichiara S.P. responsabile del fatto illecito meglio specificato in motivazione verificatosi il 18.9.2016; - Condanna il convenuto S.P. al pagamento in favore dell'attore della somma di euro 16.695,25 oltre interessi come in motivazione; - Rigetta le altre domande ed eccezioni proposte dall'attore; - Pone le spese di CTU a carico del convenuto S.P.; - Condanna il convenuto S.P. a rifondere all'attore le spese processuali, che liquida in euro 1.890,00 per spese stragiudiziali, euro 545,00 per esborsi, euro 488,00 per onorario CTP ed euro 3.855,00 per onorari di avvocato, oltre 15% per spese forfettarie, oltre c.p.a. e I.V.A.; - Condanna l'attore a rifondere al Comune di Milano le spese processuali, che liquida in euro 5.077,00 per onorari di avvocato, oltre 15% per spese forfettarie, oltre c.p.a. e I.V.A.; - Dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva. Milano, 11 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA III Sezione lavoro e previdenza composta dai signori magistrati: dott. Vito Francesco Nettis - Presidente dott. Enrico Sigfrido Dedola - Consigliere relatore dott. Maria Giulia Cosentino - Consigliere riunita in camera di consiglio ha pronunciato in grado di appello all'udienza del 22 marzo 2023 la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 2747/2020 del Ruolo Generale Sezione Lavoro, vertente TRA (...), con l'avv. Es.Mo. APPELLANTE E I.N.P.S., con l'avv. Da.Gi. APPELLATO OGGETTO: appello avverso la sentenza n. 726/2019 del Tribunale del lavoro di Civitavecchia SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E CONCLUSIONI Con ricorso depositato in data 18 aprile 2017 (...) adiva il giudice del lavoro del Tribunale di Civitavecchia esponendo di essere stato riconosciuto invalido civile con totale permanente inabilità lavorativa al 100% dal giugno 2006; di essere stato riconosciuto dal 1 dicembre 2008 invalido al 100%, con necessità di assistenza continua non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita ai sensi dell'art. 1 della L. n. 18 del 1980, a seguito di sentenza della Corte di Appello di Roma n. 6829/2009; che, a seguito di visita di revisione del 24 novembre 2014 gli era stata riconosciuta la sola invalidità ai sensi dell'art. 12 della L. n. 118 del 1971 a decorrere dal 12 ottobre 2014, con conseguente revoca dell'indennità di accompagnamento; che l'I.N.P.S. aveva continuato ad erogare spontaneamente l'indennità di accompagnamento sino all'aprile del 2016; che sempre dall'aprile del 2016 l'Istituto non gli aveva più corrisposto la pensione quale invalido civile totale ai sensi dell'art. 12 della L. n. 118 del 1971, in virtù di un verbale di revisione del 12 settembre 2016 da considerarsi nullo in quanto l'accertamento dell'insussistenza del requisito sanitario (con decorrenza dal 27 aprile 2016) era intervenuto dopo il compimento del 65 anno di età e la conseguente trasformazione ex lege della pensione in assegno sociale, ai sensi dell'art. 19 della L. n. 118 del 1971; di aver ricevuto, con nota dell'I.N.P.S. del 18 marzo 2016, la richiesta di restituzione della somma di Euro 16.380,67 asseritamente "pagati in più sulla Sua pensione cat. (...) n. (...)". Tanto premesso, chiedeva l'accertamento e la declaratoria dell'insussistenza dell'indebito e l'infondatezza della richiesta di restituzione della somma di Euro 16.380,67 formulata dall'I.N.P.S. con la nota citata e, contestualmente, la condanna dell'Istituto alla restituzione in proprio favore delle somme trattenute, pari a Euro 534,97, e di quelle da ulteriormente trattenersi, stante la mancata sospensione dell'erogazione della prestazione dopo la visita di revisione e la totale assenza di dolo o colpa imputabili al ricorrente, percettore in buona fede in virtù dell'affidamento incolpevole dovuto anche al decorso del tempo; chiedeva, inoltre, il ripristino della corresponsione della pensione di invalidità civile, trasformatasi ex lege in assegno sociale sin dal 25 aprile 2013 (epoca del compimento del 65 anno di età), con condanna dell'I.N.P.S. alla restituzione della somma maturata a tale titolo dal maggio 2016 al febbraio 2017 e pari a Euro 4.013,90, oltre le somme maturande nonché, in via subordinata, l'accertamento dell'esistenza di un debito pari a Euro 9.138,20 anziché a Euro 16.380,67, vinte le spese di lite, con loro distrazione. Instaurato il contraddittorio, si costituiva l'I.N.P.S. richiedendo il rigetto del ricorso per la sua infondatezza, evidenziando la sussistenza di un indebito in relazione all'indennità di accompagnamento per il periodo successivo alla visita del 24 novembre 2014, ciò che escludeva qualsiasi affidamento di controparte; che nel periodo 2011-2016 il (...) aveva inoltre percepito indebitamente la maggiorazione sociale sulla pensione per un importo di Euro 1.208,61 (pari a Euro 134,90 annui), al che conseguiva che quanto indebitamente ricevuto ammontava complessivamente a Euro 9.851,62 sostanzialmente ammettendo l'erroneità della richiesta di restituzione riferita alla pensione di inabilità, poi convertita in assegno sociale. Istruita in forma documentale, la causa era decisa con sentenza n. 726/2019, depositata il 14 febbraio 2020, che accoglieva parzialmente il ricorso dichiarando il diritto dell'I.N.P.S. al recupero della somma di Euro 9.851,62 ma, riconosciuto il diritto del (...) alla percezione dell'assegno sociale, condannava l'istituto alla restituzione delle somme indebitamente trattenute a tale titolo pari a Euro 4.013,90 e al pagamento delle spese processuali. Con atto depositato il 16 ottobre 2020 il (...) impugnava quindi la sentenza con tempestivo appello. A sostegno, deduceva che il primo giudice aveva omesso di considerare che la restituzione richiesta era illegittima in quanto l'I.N.P.S. avrebbe dovuto immediatamente sospendere l'erogazione della prestazione a seguito della visita di revisione; che l'Istituto aveva invece continuato a versare il trattamento per un periodo di tempo tale da ingenerare nel percettore l'affidamento nel diritto alla prestazione, in violazione dell'art. 37, comma 8, della L. n. 448 del 1998 e dell'art. 80 del D.L. n. 112 del 2008, con la conseguenza che l'indebito era ad esso addebitabile, stante anche la naturale destinazione delle somme percepite alla soddisfazione di esigenze elementari di vita e la completa assenza di dolo nella propria condotta. Concludeva richiedendo la parziale riforma della sentenza con declaratoria di illegittimità della richiesta di restituzione del preteso indebito per l'intera somma di Euro 16.380,67 e la condanna dell'I.N.P.S. alla restituzione delle somme trattenute e da trattenersi; il tutto, con vittoria di spese del grado del giudizio e loro distrazione. Nuovamente integrato il contraddittorio, si costituiva l'I.N.P.S., riportandosi alle proprie difese in primo grado e al contenuto della sentenza impugnata. All'esito della discussione orale e della successiva camera di consiglio, la causa è stata decisa come da dispositivo. MOTIVI DELLA DECISIONE Con l'unico motivo di gravame l'appellante lamenta che il primo giudice avrebbe erroneamente considerato ripetibili le somme erogate dopo la visita di revisione da cui emergeva pacificamente l'insussistenza dei presupposti per la percezione dell'indennità di accompagnamento, in assenza di una immediata sospensione della relativa corresponsione e della consequenziale comunicazione, non configurandosi peraltro alcun comportamento doloso da parte propria. Orbene, la questione proposta è stata già affrontata in più occasioni dalla Corte di legittimità, che, fin dalla remota sentenza n. 14590/2002, previo ampio esame della normativa susseguitasi a regolare gli effetti, sul piano temporale, delle visite di verifica dello stato di invalidità civile, ha precisato che la revoca dei benefici assistenziali agli invalidi civili, ai sensi dell'art. 4, comma 3-bis, del D.L. n. 323 del 1996, produce i suoi effetti (tra cui il diritto della pubblica amministrazione alla ripetizione delle prestazioni indebite) dalla data della visita sanitaria di verifica, mentre la mancata immediata sospensione delle prestazioni, con conseguente formazione dell'indebito, non implica che la revoca operi da data successiva a quella della visita, e in particolare dalla data di comunicazione della revoca. Ne consegue che devono essere restituiti tutti i ratei maturati dopo la visita di verifica. La stessa sentenza ha rilevato che il citato art. 4, comma 3-bis, del D.L. n. 323 del 1996, non si discosta sostanzialmente dal precedente dell'art. 5, comma 5, del D.P.R. n. 698 del 1994, richiamato dall'art. 52, comma 3, della L. n. 449 del 1998. In sostanza, non può rilevare, al fine di escludere la ripetizione, il mancato rispetto, da parte dell'amministrazione, dell'obbligo di sospendere i pagamenti e di emanare il formale provvedimento di revoca entro termini prefissati, atteso che tale obbligo rileva solo all'interno della pubblica amministrazione. In base a questi principi, dai quali non vi è motivo di discostarsi, il gravame non può trovare accoglimento (in termini, Cass. 34013/2019; Cass. n. 26162/2016; Cass. 26096/2010). Infatti, nella specie, non è in discussione la circostanza che la visita di verifica sia stata disposta dall'I.N.P.S. ai sensi dell'art. 20, comma 2, del D.L. n. 78 del 2009 convertito, con modificazioni con la L. n. 102 del 2009, con conseguente applicazione dell'art. 5, comma 5 del D.P.R. n. 698 del 1994 sopra richiamato, alla cui stregua è previsto che, nel caso di accertata insussistenza dei requisiti prescritti per il godimento dei benefici, si dia luogo alla immediata sospensione cautelativa del pagamento degli stessi, da notificarsi entro trenta giorni dalla data del provvedimento di sospensione. Sostiene, invece, l'appellante che nella specie avrebbe dovuto applicarsi la normativa concernente l'indebito previdenziale anche in materia di prestazioni assistenziali e che, pertanto, l'assistito potrebbe opporre all'ente erogatore della prestazione, indebitamente percepita, il principio di irripetibilità delle somme incamerate precedentemente alla data di accertamento della carenza dei requisiti per il riconoscimento della provvidenza, una volta esclusa ogni sua responsabilità sulla erroneità del relativo provvedimento di erogazione e stante il generale principio di tutela dell'affidamento. L'assunto è infondato. Costituisce ius receptum (vedi, tra tante, Cass. n. 2056/2004) il principio secondo cui, premesso che il diritto alle prestazioni assistenziali nasce dalla legge, quando si realizzino le condizioni da questa previste, e che gli atti dell'amministrazione o dell'ente pubblico hanno la natura di meri atti di certazione, ricognizione e adempimento - e non di concessione della prestazione - il diritto alla prestazione viene meno nel momento in cui venga accertata l'insussistenza delle condizioni cui la legge subordina la corresponsione della prestazione. Ne consegue che le erogazioni indebite effettuate dopo l'accertamento della insussistenza dei requisiti non sono sottratte alla regola generale dell'art. 2033 c.c., restando irrilevante il mancato rispetto delle norme che impongono all'amministrazione di attivarsi prontamente, sospendendo i pagamenti ed emanando il formale provvedimento di revoca entro termini prefissati, concretizzandosi tali atti (sospensione e revoca) in meri atti di gestione del rapporto obbligatorio. Né, così interpretato, il sistema normativo della ripetibilità delle prestazioni assistenziali indebitamente erogate si pone in contrasto con l'art. 38 Cost., giacché è ragionevole che la fine dell'affidamento dell'assistito nella definitività dell'attribuzione patrimoniale ricevuta venga fatta risalire al momento dell'accertamento amministrativo, ancorché precedente il formale atto di revoca, del venir meno delle condizioni di legge per la erogazione di quelle prestazioni. Alla stregua di tale ricostruzione, è dunque infondata l'obiezione di parte appellante per la quale, in materia di erogazione di prestazioni assistenziali, si vorrebbe che operi una sorta di sanatoria in relazione alle somme corrisposte in base a circostanze - quali la mancata attivazione della sospensione ex lege della prestazione - non imputabili all'assistito, non rilevando, ai fini della configurazione dell'indebito, la sussistenza o meno del dolo dell'interessato. Orbene, facendo applicazione dei criteri interpretativi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità, sopra richiamata, non v'è dubbio che nella specie l'indebito sia maturato con decorrenza dall'accertamento del venir meno del requisito per l'erogazione della prestazione assistenziale. Ne conseguono il rigetto dell'appello e la conferma della sentenza impugnata. Stante la dichiarazione emessa ai sensi dell'art. 152 disp. att. c.p.c. l'appellante è esonerato dal pagamento delle spese di giudizio nei confronti dell'I.N.P.S. Si deve ad ogni modo dare atto che sussistono le condizioni oggettive richieste dall'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 per il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto. P.Q.M. Definitivamente pronunciando sull'appello proposto da (...) con ricorso depositato il 16 ottobre 2020 avverso la sentenza del Tribunale del lavoro di Civitavecchia n. 726/2019, così provvede: - respinge l'appello; - dichiara parte appellante non tenuta alla rifusione delle spese del giudizio; - dà atto che per l'appellante sussistono le condizioni oggettive richieste dall'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 per il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto. Così deciso in Roma il 22 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3431 del 2017, proposto da Da. Ro., rappresentato e difeso dagli avvocati Fr. Lo., Gu. Pe., con domicilio eletto presso lo studio Ma. Cl. in Roma, viale (...); contro Comune di Udine, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Ma., Cl. Mi., Ni. Pa., con domicilio eletto presso lo studio Ni. Pa. in Roma, via (...); Regione Autonoma Friuli Venezia, in persona del Presidente pro tempore, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza 13 ottobre 2016, n. 472 del Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia, sezione prima. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Udine; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 febbraio 2023 il consigliere Vincenzo Lopilato e udito per la parte intimata l'avvocato Gi. Pa. su delega dichiarata di Ni. Pa.; preso atto che gli avvocati Fr. Lo. e Gi. Ma. ha depositato una istanza con la quale hanno chiesto il passaggio in decisione della causa. FATTO 1.- Il sig. Da. Ro. è proprietario di un terreno sito nel Comune di Udine in via (omissis), acquistato nel 1972 e inserito nella zona omogenea H-gialla, con capacità edificatoria. 1.1. Nel corso degli anni su tale area il Comune ha apposto una serie di vincoli e, in particolare, il primo vincolo destinato alla realizzazione di opere di varia importanza a cui succedeva il secondo vincolo finalizzato alla costruzione di un'opera destinata a luogo di culto. Con la variante n. 97 approvata nel 1999 l'area veniva destinata a verde. 1.2. Il Comune di Udine, con delibera consiliare del 25 luglio 2011, n. 67, ha adottato il nuovo piano regolatore generale e ha destinato la suddetta area a verde di quartiere. Il sig. Ro. ha presentato osservazioni al piano adottato, chiedendo, in via subordinata, il riconoscimento di una indennità in ragione del carattere sostanzialmente espropriativo derivante dalla destinazione pubblica assegnata. 1.3. Il Comune, con deliberazione 3 settembre 2012, n. 57, ha approvato il nuovo piano regolatore, respingendo le osservazioni proposte. 2.- Il sig. Ro. ha impugnato le suddette deliberazioni innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia, rilevando l'illegittimità delle deliberazioni impugnate perché : i) il Comune non avrebbe tenuto conto delle caratteristiche reali del bene; ii) non sarebbe stata accolta la domanda proposta in via subordinata di ottenere l'indennità conseguente all'imposizione di un vincolo di natura espropriativa. 3.- Il Tribunale amministrativo, con sentenza 13 ottobre 2016, n. 472, ha rigettato il ricorso. 4.- Il ricorrente di primo grado ha proposto appello, facendo valere le censure riportate nella parte in diritto. 5.- Si è costituito in giudizio il Comune, chiedendo il rigetto dell'appello. 6. - Il Comune ha depositato, in data 11 gennaio 2023, una memoria difensiva. 6.1 - L'appellante ha depositato, in data 24 gennaio 2023, una memoria di replica. 7.- La causa è stata decisa all'esito dell'udienza pubblica del 16 febbraio 2023. DIRITTO 1.- La questione posta all'esame della sezione attiene alla legittimità degli atti di pianificazione urbanistica indicati nella parte in fatto. 2.- L'appello non è fondato. 3.- Con un primo motivo si assume l'erroneità della sentenza e l'illegittimità delle deliberazioni impugnate perché non si sarebbe tenuto conto delle caratteristiche reali del bene "che risulta inserito all'interno di una zona fortemente urbanizzata e che beneficia di tutti i servizi tecnologici all'uopo necessari", il che giustificherebbe, per tutelare l'affidamento del privato, l'assegnazione della destinazione d'uso residenziale. In questo contesto, il Comune avrebbe dovuto motivare in modo "diffuso e puntuale". 3.1. Il motivo non è fondato. 3.2. La giurisprudenza amministrativa è costante nell'affermare che "le scelte di pianificazione sono espressione di un'amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito", salvo che siano inficiate per errori di fatto, per abnormità e irrazionalità delle scelte effettua (tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 7 febbraio 2023, n. 1316; sez. IV, 24 gennaio 2023, n. 765; sez. IV, 22 marzo 2021 n. 2421; sez. II, 18 maggio 2020, n. 3163; sez. II, 4 maggio 2020, n. 2824; sez. II, 9 gennaio 2020, n. 161; sez. IV, 19 febbraio 2019, n. 1151; sez. II, 6 novembre 2019, n. 7560; sez. IV, 17 ottobre 2019, n. 7051; sez. IV, 29 agosto 2019, n. 5960; sez. II, 7 agosto 2019, n. 5611; sez. IV, 25 giugno 2019, n. 4345; sez. IV, 28 giugno 2018, n. 3986). Si è, inoltre, affermato che "la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione (c.d. polverizzazione della motivazione), oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione allo strumento urbanistico generale, a meno che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni" (Cons. Stato, sez. IV, 22 marzo 2021 n. 2421; sez. II, 18 maggio 2020, n. 3163; sez. II, 4 maggio 2020, n. 2824; sez. IV, 3 febbraio 2020, n. 844). La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che una motivazione "rinforzata" è richiesta soltanto quando ricorrono le seguenti evenienze: i) affidamento qualificato del privato, derivante, da un lato, da convenzioni di lottizzazione ovvero da accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, dall'altro, da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di titoli edilizi o di silenzio rifiuto su una domanda di rilascio di un titolo; ii) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo; iii) sovradimensionamento delle aree destinate a standards per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico rispetto ai parametri stabiliti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona (Cons. Stato, sez. IV, n. 1316 del 2023, cit.; sez. IV, n. 765 del 2023, cit.; sez. IV, 2 gennaio 2023, n. 21; sez. IV, 22 marzo 2021 n. 2421; sez. II, 18 maggio 2020, n. 3163; sez. II, 20 gennaio 2020, n. 456; sez. IV, 24 giugno 2019, n. 4297; Sez. IV, 26 ottobre 2018, n. 6094; Sez. IV, 24 marzo 2017, n. 1326; sez. IV, 11 novembre 2016, n. 4666). Nella fattispecie in esame, il Comune ha esercitato correttamente il potere discrezionale senza incorrere nei vizi di eccesso di potere e di difetto di motivazione lamentati dall'appellante. La vicenda amministrativa in esame non rientra tra i casi "tipizzati" dalla giurisprudenza che richiedono una "motivazione rinforzata" e la sezione ritiene che non sussistano valide ragioni per rivedere il proprio consolidato orientamento. 4.- Con un secondo motivo si assume l'erroneità della sentenza e l'illegittimità delle deliberazioni impugnate nella parte in cui non è stata accolta la richiesta, formulata in via subordinata, volta ad ottenere dall'amministrazione la corresponsione di una indennità per la natura sostanzialmente espropriativa del vincolo imposto. In particolare, si assume che deve ritenersi avere tale natura la destinazione alla formazione di "un'attrezzatura pubblica e di uso pubblico di interesse urbano e di quartiere". L'art. 36 delle norme tecniche di attuazione prevede che la zona avente siffatta destinazione sia "destinata alla conservazione, modificazione o formazione di servizi e attrezzature collettive pubbliche e di uso pubblico" e che ivi sono ammesse "attrezzature di carattere infrastrutturale (viabilistico, anche relativo alla sosta e ai trasporti pubblici, tecnologico (...); i servizi per il culto, la cultura, la vita associativa, gli uffici amministrativi locali, le attrezzature per l'istruzione; i servizi per l'assistenza e la sanità ; le attrezzature per il verde, lo sporto, gli spettacoli all'aperto". 4.1. Il motivo non è fondato. 4.2. Nell'ambito delle previsioni urbanistiche si deve distinguere tra "prescrizioni di zona" (cd. zonizzazione) e "prescrizioni di localizzazione" (cd. localizzazione di opere pubbliche). Le "prescrizioni di zona" consistono nello stabilire i possibili usi del territorio in base alla funzione principale assegnata dal piano ad una certa parte dell'ambito spaziale cui si riferisce. Le "prescrizioni di localizzazione" sono finalizzate ad indicare in modo puntuale gli spazi destinati alla realizzazione delle opere pubbliche. Si tratta dei cd. vincoli preordinati all'espropriazione in quanto, su quell'area, il proprietario non può svolgere alcuna attività in attesa della realizzazione dell'intervento programmato per non frustrarne la previsione. L'art. 39 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, dispone che "in attesa di una organica risistemazione della materia, nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità, commisurata all'entità del danno effettivamente prodotto" (comma 1). La questione che si pone in questo ambito è distinguere le prescrizioni meramente conformative dalle prescrizioni sostanzialmente espropriative. La distinzione si basa essenzialmente sulla natura dei beni coinvolti: i) in presenza di un'attività di conformazione di intere categorie di beni, il vincolo è meramente conformativo senza obbligo di corrispondere alcuna indennità ai proprietari trattandosi di un vincolo compatibile con la funzione sociale della proprietà di cui all'art. 42 Cost.; ii) in presenza di una attività di conformazione che incide su un singolo bene, privando il proprietario della possibilità di utilizzo dello stesso, il vincolo può ritenersi sostanzialmente espropriativo, con obbligo di corrispondere un'indennità al proprietario commisurata al danno subito (cfr. Corte cost. n. 179 del 1999). Sulla questione relativa alla qualificazione delle aree destinate a verde pubblico sussiste un contrasto di giurisprudenza. Un primo orientamento, prevalente, condiviso dalla sezione, ritiene che si tratti di vincolo conformativo. In particolare, si sostiene che "la destinazione a verde pubblico (ma anche quella a "parco urbano", "parco pubblico", "verde urbano", "verde attrezzato", "attrezzature ricreative" o "attrezzature sportive") o quella a "sede viaria" impressa dal piano regolatore generale (o da uno strumento di pianificazione equivalente) risultano effettuate in virtù di criteri generali e astratti, e non già in funzione della localizzazione di opere pubbliche specifiche su beni per esse individuati"(cfr. Cons. Stato, sez. II, 28 febbraio 2022 n. 1367; sez. II, 21 gennaio 2020, n. 476; sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 783; Cons. Stato, sez. IV, 1 luglio 2015, n. 3256; sez. IV, 6 ottobre 2014, n. 4976; sez. IV, 29 novembre 2012, n. 6094; sez. IV, 19 gennaio 2012, n. 244). Un secondo orientamento ritiene, invece, che si tratti di un vincolo espropriativo, rilevando che "la destinazione di un'area a "verde pubblico" implica - diversamente da quanto potrebbe accadere nell'ipotesi di destinazione "a verde privato" - che essa debba (...) essere espropriata per realizzare le strutture pubbliche che la rendano puntualmente conforme alla zonizzazione prevista (id est: alla funzione pubblicistica impressale)". Sicché, delle due l'una: "- o alla predetta zonizzazione imprimente destinazione a "verde pubblico" segue, coerentemente, l'avvio (...) del correlativo procedimento di espropriazione; - ovvero, in assenza di ciò, la reiterazione del "vincolo di destinazione" in costanza di ulteriore inerzia in ordine agli atti consequenziali, si configura come patologica cristallizzazione di un vincolo di inedificabilità assoluta (solo virtualmente e dunque surrettiziamente preordinato all'espropriazione), che tende a connotarsi come illegittima espropriazione di fatto" (Cons. giust. amm. sic., 28 marzo 2022, n. 383). Tale ultimo orientamento sembra, invero, limitare l'affermazione della natura espropriativa del vincolo soltanto alla tipologia di vincoli di destinazione le cui prescrizioni possono essere attuate soltanto dalla pubblica amministrazione e non anche quanto l'attuazione è rimessa all'iniziativa del privato. Nella fattispecie in esame, venendo in rilievo la previsione di destinazione a verde pubblico ad attuazione privata, deve certamente qualificarsi il vincolo come avente natura conformativa. 5.- A tanto consegue il rigetto dell'appello e la condanna della parte ricorrente al pagamento, in favore del Comune, delle spese del processo come determinate nel dispositivo tenuto conto dei parametri di cui al regolamento n. 55 del 2014 e dei criteri di cui all'art. 26, comma 1, cod. proc. amm. P.Q.M. Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, sezione quarta, definitivamente pronunciando: a) rigetta l'appello proposto con il ricorso indicato in epigrafe; b) condanna l'appellante al pagamento, in favore del Comune, delle spese del processo che si determinano in euro 4.000,00, oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Vito Poli - Presidente Vincenzo Lopilato - Consigliere, Estensore Francesco Gambato Spisani - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere Luca Monteferrante - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D'APPELLO DI CATANZARO SEZIONE LAVORO La Corte, riunita in camera di consiglio, così composta: 1. dott.ssa Gabriella Portale - Presidente 2. dott. Antonio Cestone - Consigliere 3. dott. avv. Domenico Ottavio Siclari - Consigliere rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa in grado di appello iscritta al numero 1275 Ruolo Generale affari contenziosi dell'anno 2018 e vertente TRA (...), con l'Avv. Vi.Va. appellante. E INPS, con gli Avv.ti Ma.Pu., Si.Pa. e Fr.Mu. appellato Avente ad oggetto: appello avverso sentenza Tribunale di Catanzaro, Giudice del Lavoro. Indennità disoccupazione agricola ed (...). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. L'appello è stato proposto dal Sig. (...), avverso la sentenza del Tribunale di Catanzaro, giudice del lavoro, che ha rigettato la sua richiesta di accertamento del diritto a percepire l'indennità di disoccupazione agricola e l'assegno per il nucleo familiare, per l'anno 2014, giusta domanda amministrativa del 29.1.2015, e di correlativa condanna dell'INPS. 2. Il detto Tribunale, infatti, ha dichiarato insufficiente la prova offerta dalla parte privata circa l'effettiva presentazione della domanda amministrativa, posto che i dati presenti nella stessa (ad es. data di nascita e codice fiscale) risultavano errati, e, soprattutto, ha rilevato che il ricorrente non aveva "allegato né chiesto di provare i fatti costitutivi dei diritti azionati, limitandosi alle deduzioni relative alla trasmissione della domanda amministrativa ed alla vicenda amministrativa". 3. Avverso la sentenza dianzi sintetizzata è insorto il Sig. (...), affermando che il Tribunale si era ingiustamente pronunciato in termini di rigetto: non motivando adeguatamente sulle ragioni dello stesso; non valorizzando l'ampia documentazione prodotta a sostegno della domanda e non ricercando sufficientemente la verità materiale, fuorviato da un errore materiale riguardante i suoi codice fiscale e data di nascita, ma emendato da numerosi altri elementi utilmente concludenti. 4. S'è costituito anche in grado d'appello l'INPS, insistendo nell'eccezione di improponibilità della domanda, per essere stata, quella amministrativa, introdotta, quantunque formalmente in modo corretto (telematicamente, siccome confermatosi in primo grado), da soggetto diverso dal ricorrente/appellante, e resistendo nel merito. 5. All'udienza del 9 marzo 2023, acquisito il fascicolo di primo grado ed ascoltate le conclusioni dei procuratori costituiti, la causa è stata decisa come da dispositivo sotto trascritto. MOTIVI DELLA DECISIONE I.- L'appello è fondato. I.1 La parte privata ha inoltrato domanda amministrativa nelle forme corrette (così è emerso in corso di giudizio), ossìa telematicamente, invero sbagliando - non si comprende se per errore commesso dal (...) o da chi altri - nell'indicazione dei dati anagrafici (data di nascita, residenza, codice fiscale). Corretti, tuttavia, erano la descrizione dei componenti del nucleo familiare, il luogo di residenza del nucleo familiare, i redditi prodotti e documentati, la firma e l'IBAN. I.2 Ora, se è vero che i dati anagrafici sbagliati potevano indurre - ed hanno sicuramente indotto - in errore l'INPS, nella valutazione del caso, è altrettanto vero che l'assistibile ha tentato di chiarire l'equivoco con una richiesta di "riesame" proposta appena giunto a conoscenza dell'equivoco, sulla quale l'Istituto previdenziale, piuttosto che assumere un atteggiamento collaborativo, si è mantenuto totalmente inerte, salvo a pronunciarsi sul successivo ricorso amministrativo, eccependo che la domanda del lavoratore (la cui identità era stata, nei fatti, ormai chiarita) risultava intempestiva, giacché quella tempestiva riguardava persona diversa. I.3 Ne è conseguita l'azione giudiziaria che ci occupa, nella quale nessuna critica può essere mossa alla condotta processuale del lavoratore, diversamente da quanto sostenuto dall'Inps e dal Giudice di prime cure, posto che egli ha dato piena prova della sussistenza dei presupposti per godere delle provvidenze negategli, versando in atti copiosa documentazione consistente: nella Comunicazione obbligatoria da dove si evince che dal 1.3.2014 al 31.12.2014 aveva lavorato alle dipendenze del Consorzio di B.J.C. (All. 5); nell'estratto conto previdenziale aggiornato alla data di deposito del ricorso di primo grado, nel quale veniva evidenziato il periodo di lavoro svolto nell'anno 2014 (All. 6); nelle ricevute di invio dei DMAG relativi al I, II, III e IV trimestre 2014, con le giornate analiticamente indicate (All. 7); nelle buste paga di tutto il 2013 e di tutto il 2014 (All. 8); nell'attestazione ISEE dalla quale si poteva cogliere la coincidenza del nucleo familiare con quello indicato nella domanda amministrativa originaria (All. 9); nella scheda lavoratore del Centro per l'Impiego di Catanzaro, nella quale era evidenziato lo svolgimento del rapporto lavorativo, nell'anno 2014, alle dipendenze del Consorzio (All. 10); nelle dichiarazioni dei redditi, contenenti, oltre al percepito, anche la conferma della consistenza del nucleo familiare e dei dati anagrafici corretti (All. 11). I.4 Sicché, l'unica "pecca" addebitabile alla parte privata è stata quella di non essersi correttamente identificata, nella domanda, quanto ai dati anagrafici. Sennonché, come già detto, la stessa parte medesima ha tentato in ogni modo di chiarire l'errore e di vedersi riconosciute le provvidenze invocate, trovando una resistenza dell'INPS, fondata su carenze rigidamente formali, ma non sostanziali. I.5 L'equivoco è stato dissipato vieppiù in giudizio, laddove la parte ha chiarito, sia in senso logico, sia in termini di allegazioni, sia mediante produzione documentale, la propria posizione. I.6 La Suprema Corte di Cassazione, in fattispecie analoga, ha avuto modo di chiarire come la commissione di un errore formale non possa determinare un'improcedibilità o un'improponibilità della domanda, quando sia possibile dedurre, da essa, in cosa consista la prestazione chiesta dalla parte: "In tema di prestazioni previdenziali ed assistenziali, al fine di integrare il requisito della previa presentazione della domanda non è necessaria la formalistica compilazione dei moduli predisposti dall'INPS o l'uso di formule sacramentali, essendo sufficiente che la domanda consenta di individuare la prestazione richiesta affinché la procedura anche amministrativa si svolga regolarmente. Ne consegue che non costituisce requisito imprescindibile della domanda amministrativa barrare la casella che, nel modulo, individua le condizioni sanitarie la cui sussistenza è necessaria per il riconoscimento del diritto all'indennità di accompagnamento, non potendo l'istituto previdenziale introdurre nuove cause di improcedibilità ovvero di improponibilità in materia che deve ritenersi coperta da riserva di legge assoluta ex art. 111 Cost." (Cassazione civile sez. VI, 22/07/2019, n. 19724). II.- Ne consegue l'accoglimento dell'impugnazione, con consequenziale affermazione del diritto dell'appellante a percepire le prestazioni di disoccupazione agricola e l'assegno per il nucleo familiare, per l'anno 2014. III.- Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo, tenuto conto dello scaglione corrispondente al valore delle prestazioni richieste. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello proposto dal Sig. (...), con ricorso depositato in data 8 ottobre 2018, avverso la sentenza del Tribunale di Catanzaro, giudice del lavoro, n. 248/2018, resa in data 6 aprile 2018, così provvede: 1.- Accoglie l'appello e, in riforma della gravata sentenza, accerta il diritto di (...) (C.F. (...)) ad ottenere, l'indennità di disoccupazione agricola e l'assegno per il nucleo familiare per l'anno 2014, e, per l'effetto, condanna l'INPS, in persona del legale rappresentante in carica, a corrispondere all'appellante le somme corrispondenti; 2.- Condanna altresì l'INPS, in persona del legale rappresentante in carica, al pagamento delle spese di lite del doppio grado di giudizio, liquidate, quanto al primo grado, in Euro 980,50, oltre rimb. spese generali 15%, CPA ed IVA, e, quanto al secondo grado, in Euro 915,00, oltre rimb. spese generali 15%, CPA ed IVA, se dovuta, con distrazione in favore del procuratore di parte appellante. Così deciso in Catanzaro il 9 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 15 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA - Sezione Lavoro e Previdenza - composta dai Signori Magistrati Dott. Guido ROSA - Presidente - Dott.ssa Bianca Maria SERAFINI - Consigliere est.- Dott. Vincenzo SELMI - Consigliere - all'esito dell'udienza del 2 marzo 2023 ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 297 del Ruolo Generale Affari Contenziosi del 2020 vertente TRA (...), rappresentata e difesa dall'avv. St.Vi., giusta delega in calce al ricorso in appello, elettivamente domiciliata presso lo studio del difensore in Roma, via (...) APPELLANTE E ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE I.N.P.S., rappresentato e difeso dall'avv. Si.Be., giusta procura alle liti del 21/07/2015, elettivamente domiciliato in Roma via (...) presso l'ufficio legale dell'istituto APPELLATO Oggetto: appello avverso la sentenza n. 9173/2019 del Tribunale di Roma Sez. Lavoro pubblicata in data 22/10/2019. RAGIONI DELLA DECISIONE Con sentenza n. 9173/2019, pubblicata il 22/10/2019, il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha rigettato il ricorso presentato da (...) con cui quest'ultima aveva impugnato il provvedimento dell'INPS, ricevuto in data 16.02.2018, con il quale le era stato richiesto il pagamento di Euro 10.291,90, quale somma dovuta per indebita percezione dell'indennità di accompagnamento sulla pensione di invalidità civile n. (...), nel periodo dall'1/7/2016 al 28/2/2018. Il Tribunale, premessa l'applicabilità alla fattispecie al suo esame, avente ad oggetto prestazione di natura assistenziale per la quale erano venuti meno i requisiti di legge, del principio generale della ripetibilità dell'indebito di cui all'art. 2033 c.c., ha rilevato come nel caso di specie l'indebito scaturisse dal venir meno del requisito sanitario utile per accedere al beneficio dell'indennità di accompagnamento e che tale circostanza era stata regolarmente comunicata alla parte ricorrente. Avverso la citata sentenza ha proposto appello (...) deducendo l'erroneità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell'art. 2033 c.c. in relazione all'indebito assistenziale, evidenziando la necessità di tutela dell'affidamento del percipiente per non essere intervenuta una tempestiva revoca della prestazione assistenziale, e per avere ritenuto ripetibili i ratei già corrisposti in assenza di dolo del beneficiario. Ha, pertanto, chiesto l'accoglimento dell'appello e, in riforma della gravata sentenza, di dichiarare non dovuto l'indebito contestato dall'Inps e di condannare l'ente alla restituzione di quanto indebitamente trattenuto sul trattamento pensionistico, con rivalutazione ed interessi. L'Inps si è costituito in giudizio resistendo all'accoglimento del gravame. All'odierna udienza, all'esito degli adempimenti previsti dall'art. 437 c.p.c., la causa è stata decisa come da dispositivo. L'appello non può trovare accoglimento alla stregua delle considerazioni che seguono. Risulta pacifico in causa che l'indebito oggetto di controversia si sia determinato a seguito della revoca alla odierna appellante dell'indennità di accompagnamento conseguentemente alla visita di revisione effettuata il 1 luglio 2016 e al cui esito era stata disconosciuta la sussistenza in suo capo del relativo requisito sanitario. Come è noto la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato che il regime dell'indebito previdenziale ed assistenziale presenta tratti eccentrici rispetto alla regola della ripetibilità propria del sistema civilistico e dell'art. 2033 c.c., in ragione dell'"affidamento dei pensionati nell'irripetibilità dei trattamenti pensionistici indebitamente percepiti in buona fede". La giurisprudenza di legittimità in materia di indebito assistenziale, ha individuato una articolata disciplina che distingue vari casi, a seconda che il pagamento non dovuto afferisca alla mancanza dei requisiti reddituali (Cass. n. 13223/2020; n. 26036/2019; n. 28771/2018), di quelli sanitari, di quelli socio economici, cioè in collocazione al lavoro o disoccupazione (Cass. n. 31372/2019), a questioni di altra natura (come ad es. l'esistenza di ricovero ospedaliero gratuito nel caso dell'indennità di accompagnamento (Cass. 5059/2018) o, ancora, in via generale alla mancanza dei requisiti di legge. Nel presente caso di specie l'art. 20, comma 2, D.L. n. 78 del 2009, convertito in L. n. 102 del 2009 dispone che "L'Inps accerta altresì la permanenza dei requisiti sanitari nei confronti dei titolari di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità. In caso di comprovata insussistenza dei prescritti requisiti sanitari si applica l'art. 5, comma 5 del Regolamento di cui al D.P.R. 21 settembre 1994, n. 698". Tale ultima norma prevede che "Nel caso di accertata insussistenza dei requisiti prescritti per il godimento dei benefici si dà luogo alla immediata sospensione cautelativa del pagamento degli stessi, da notificarsi entro trenta giorni dalla data del provvedimento di sospensione. Il successivo formale provvedimento di revoca produce effetti dalla data dell'accertata insussistenza dei requisiti prescritti ...". Osserva il Collegio come risultano a tal proposito applicabili i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in base ai quali "poiché il diritto alle prestazioni assistenziali nasce dalla legge, quando si realizzino le condizioni da questa previste, e gli atti dell'amministrazione o dell'ente pubblico hanno la natura di meri atti di certazione, ricognizione e adempimento - e non di concessione della prestazione -, il diritto alla prestazione viene meno nel momento in cui venga accertata la insussistenza delle condizioni cui la legge subordina la corresponsione della prestazione; ne consegue che le erogazioni indebite effettuate dopo l'accertamento della insussistenza dei requisiti (mediante visita di verifica) non sono sottratte alla regola generale dell'art. 2033 cod. civ., restando irrilevante il mancato rispetto delle norme che impongono all'amministrazione di attivarsi prontamente, sospendendo i pagamenti ed emanando il formale provvedimento di revoca entrotermini prefissati, concretizzandosi tali atti (sospensione e revoca) in meri atti di gestione del rapporto obbligatorio. Nè, così interpretato, il sistema normativo della ripetibilità delle prestazioni assistenziali indebitamente erogate contrasta con l'art. 38 Cost., giacché è ragionevole che la cessazione dell'affidamento dell'assistito nella definitività dell'attribuzione patrimoniale ricevuta venga fatta risalire al momento dell'accertamento amministrativo (ancorché precedente il formale atto di revoca) del venir meno delle condizioni di legge per la erogazione di quelle prestazioni (v. Corte Cost. n.448 del 2000)" (in tal senso Cass. n. 6610 del 29/03/2005, negli stessi termini più di recente Cass. n. 34013/2019). La Corte di Cassazione ha quindi affermato che il diritto alla ripetizione delle somme erogate nel periodo tra la data della visita medica, in cui è stata accertata l'insussistenza della condizione sanitaria, e quella del provvedimento di comunicazione della revoca della prestazione decorre, ai sensi dell'art. 2033 c.c., dalla formazione dell'indebito, che coincide con l'accertamento sanitario che determina il venir meno di uno degli elementi costitutivi del diritto alla prestazione (requisito sanitario), e dunque la decorrenza dell'indebito coincide con l'accertamento sanitario e non con quello della sua successiva comunicazione (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sent. 19 dicembre 2016, n. 26162). Il dies a quo della ripetibilità delle somme erogate per prestazioni assistenziali coincide pertanto con la data dell'accertamento dell'inesistenza del relativo presupposto sanitario che, nel caso di specie, risale alla visita di revisione del 01/07/2016. Alla stregua dei principi giurisprudenziali sopra richiamati l'appello non potrà quindi trovare accoglimento dovendosi dare rilievo assorbente alla impossibilità di configurare, in epoca successiva alla visita di revisione (visita a cui è stata pacificamente sottoposta la odierna appellante in data 1 luglio 2016), un legittimo affidamento dell'assistita in ordine al carattere dovuto delle prestazioni assistenziali che l'Inps ha pacificamente continuato ad erogare in suo favore con conseguente ripetibilità di tali importi (ripetibilità che non viene meno a seguito della mancata adozione da parte del suddetto istituto previdenziale del provvedimento di sospensione ex art. 5, comma 5, D.P.R. n. 698 del 1994). Risulta pertanto irrilevante la questione della ritualità della comunicazione dell'esito della visita di verifica, dovendosi ritenere venuto meno, in ogni caso, il legittimo affidamento dell'assistita alla data dell'accertamento della insussistenza del relativo requisito sanitario. La norma di cui all'art. 52 L. n. 88 del 1989, che prevede un regime di non ripetibilità delle somme erogate dall'INPS salvo il caso di dolo dell'accipiens, è stato oggetto di interpretazione autentica con l'art. 13 della L. n. 412 del 1991 alla cui stregua le disposizioni di cui all'articolo 52, comma 2, della L. 9 marzo 1989, n. 88, si interpretano nel senso che la sanatoria ivi prevista opera in relazione alle somme corrisposte in base a formale, definitivo provvedimento del quale sia data espressa comunicazione all'interessato e che risulti viziato da errore di qualsiasi natura imputabile all'ente erogatore, salvo che l'indebita percezione sia dovuta a dolo dell'interessato. L'omessa od incompleta segnalazione da parte del pensionato di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione goduta, che non siano già conosciuti dall'ente competente, consente la ripetibilità delle somme indebitamente percepite. Deve ribadirsi a tale proposito, anche ai sensi dell'art. 118 disp. att. c.p.c., quanto già precedentemente affermato da questa Corte con riferimento ad analoga fattispecie (cfr. CdA n. 1201/2017 del 15/3/2017). L'art. 55, comma 5, L. n. 88 del 1989 non sancisce un generale divieto di ripetibilità delle somme erogate dall'Inps. La norma in questione, infatti, deve essere necessariamente letta in combinato disposto con l'art. 9 del D.Lgs. n. 38 del 2010, che ha abrogato il primo comma dell'art. 55 della L. n. 88 del 1989, e ha provveduto a ridisciplinare la normativa in materia di "Rettifica per errore", disponendo che "Le prestazioni a qualunque titolo erogate dall'istituto assicurato re possono essere rettificate dallo stesso Istituto in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione delle prestazioni". Quindi, il presupposto perché possa trovare applicazione il principio di irripetibilità di cui all'art. 55, comma 5, è che si verta in ipotesi nelle quali l'istituto provveda ad operare una correzione di un proprio errore. Trattasi di presupposto che non ricorre nel presente caso di specie ove l'indebito consegue ad una regolare visita di revisione, effettuata a distanza di anni dalla erogazione della prestazione, all'esito della quale l'appellante è risultata inidonea al mantenimento del beneficio in godimento in quanto priva del necessario requisito sanitario. Ne consegue che del tutto legittimamente l'Inps ha richiesto in restituzione quanto percepito dall'assistita successivamente alla visita di revisione e sino alla regolarizzazione della posizione amministrativa dello stessa, senza che possa rilevare il suo atteggiamento soggettivo. Alla luce delle considerazioni espresse l'appello non può quindi trovare accoglimento con conferma della sentenza impugnata. Le spese del grado, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. Stante il tenore della decisione deve trovare applicazione l'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1 comma 17 L. 24 dicembre 2012, n. 228, per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta l'appello. Condanna l'appellante al pagamento delle spese del grado in favore della parte appellata che si liquidano in complessivi Euro. 1.500,00, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, Iva e Cpa come per legge. Sussistono le condizioni oggettive richieste dall'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 per il versamento da parte dell'appellante dell'ulteriore importo del contributo unificato, se dovuto. Così deciso in Roma il 2 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE DI APPELLO DI ROMA IV SEZIONE LAVORO La Corte composta dai signori magistrati: dott.ssa Alessandra Trementozzi - Presidente rel. dott. Glauco Zaccardi - Consigliere dott.ssa Isabella Parolari - Consigliere All'udienza del 28/02/2023 nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 1081/2021 del Ruolo Generale degli affari contenziosi e vertente tra (...), con l'avv. An.Ra., come da procura in atti, appellante e INPS, in persona del legale rappresentante p.t., con l'avv. An.Bo., giusta procura in atti appellato ha pronunziato la presente SENTENZA Oggetto: appello avverso la sentenza del Tribunale di n. 838/2020 del 11/11/2020 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso al Tribunale di Frosinone in funzione di giudice del lavoro depositato il 21.6.2019, (...) esponeva che con decreto di omologa del 23.4.2015 gli era stato riconosciuto il diritto all'indennità di accompagnamento a decorrere dal marzo 2014, con revisione nel marzo 2016. Nel frattempo, essendo già titolare di pensione di invalidità civile, alla visita di revisione del 9.3.2015 gli veniva confermato lo stato di invalido al 100%. Rilevava che alla successiva visita di revisione del 26.1.2016 veniva riconosciuto invalido in misura pari all'85%, con conseguente diritto al solo assegno di invalidità ma l'INPS, senza adottare alcun provvedimento di sospensione o di revoca, aveva continuato ad erogare sia la pensione (di pari importo all'assegno) che l'indennità di accompagnamento. Evidenziava che anche all'esito della visita di revisione del 5.3.2018, in cui veniva accertata una invalidità del 50%, insufficiente alla maturazione del diritto ai trattamenti assistenziali in godimento, l'INPS non adottava alcun provvedimento formale e continuava ad erogare le prestazioni fino al maggio 2018. Infine, con nota del 13.11.2018 gli veniva richiesta la restituzione di Euro 20.068,16 a titolo di ratei indebitamente corrisposti dal 1.4.2015 al 31.5.2018. Svolte articolate deduzioni sulla propria buona fede e sulla condotta dell'INPS che, non provvedendo alla revoca entro 90 giorni, aveva generato un legittimo affidamento nella spettanza dei ratei, concludeva chiedendo di dichiarare irripetibile l'indebito e condannare l'INPS alla restituzione di quanto eventualmente recuperato, con vittoria di spese processuali, da distrarsi. Si costituiva l'INPS evidenziando la diversa regolamentazione degli indebiti assistenziali rispetto a quelli previdenziali e richiamando le disposizioni normative che regolano l'indebito assistenziale per il venir meno dei requisiti sanitari. Concludeva chiedendo il rigetto del ricorso. Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale respingeva il ricorso e dichiarava irripetibili le spese processuali. Rilevava il Tribunale che le disposizioni normative relative ai requisiti sanitari delle prestazioni assistenziali hanno sempre statuito come la revoca produca effetti dalla data di accertamento dell'insussistenza dei requisiti prescritti, cioè dalla data della visita di revisione. Osservava inoltre il Tribunale che era irrilevante la comunicazione della non spettanza dei benefici assistenziali, non essendo prevista alcuna comunicazione del provvedimento di revoca ed attenendo la comunicazione alla sospensione dei pagamenti. Riteneva infine che il periodo di tempo intercorso fra le visite di revisione e l'interruzione dei pagamenti, pur non essendo breve, non era così significativo da generare l'affidamento dell'assistito. Avverso tale sentenza ha proposto tempestivo appello (...) deducendone l'erroneità per aver disatteso i principi giurisprudenziali sanciti dalla S.C. in tema di indebito assistenziale, senza tener conto della buona fede del percettore e della reiterata negligente inerzia dell'INPS. Ha concluso chiedendo, in riforma della gravata sentenza, di dichiarare irripetibile l'indebito e, conseguentemente, dichiarare l'Istituto tenuto a restituire quanto eventualmente recuperato; in via estremamente subordinata, salvo gravame, dichiarare ripetibili solo le somme versate dalla visita del marzo 2018, con vittoria delle spese del doppio grado, da distrarsi. L'INPS si è costituito resistendo al gravame e chiedendone il rigetto. All'udienza del 28 febbraio 2023 la causa è stata decisa come da separato dispositivo. MOTIVI DELLA DECISIONE Secondo i consolidati insegnamenti della S.C., cui questo Collegio di conforma, "In tema di indebito assistenziale trova applicazione, in armonia con l'art. 38 Cost., la disciplina peculiare, diversa sia da quella generale dettata dall'art. 2033 c.c. che da quella prevista con riferimento alle pensioni o ad altri trattamenti previdenziali, appositamente dettata in materia, come tratteggiata da plurime decisioni di questa Corte (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 13915 del 2021; Cass. n. 13223 del 2020; Cass. nn. 10642 e 31372 del 2019); 8. in particolare, si è delineato il principio in base al quale, nella materia in oggetto, trova applicazione "la regola propria del sottosistema assistenziale", che esclude la ripetizione in presenza di situazioni di fatto variamente articolate, ma comunque aventi generalmente come minimo comune denominatore la non addebitabilità all'accipiens della erogazione non dovuta ed una situazione idonea a generare affidamento; 9. pertanto, l'indebito (assistenziale) che si è determinato per il venir meno del requisito sanitario, a seguito di visita di revisione, abilita alla restituzione solo a far tempo dal provvedimento con cui l'esito di detto accertamento sia comunicato al percipiente, salvo che l'erogazione indebita sia addebitabile all'assistito e non sussistano le condizioni di un legittimo affidamento" (così da ultimo Cass. 24180/2022 del 4.8.2022). Conformemente a quanto costantemente ribadito dalla S.C., dunque, devono essere restituiti i ratei percepiti dopo la comunicazione dell'esito delle visite di revisione da cui emergeva l'insussistenza dapprima delle condizioni sanitarie per l'indennità di accompagnamento e poi anche di quelle per la pensione e per l'assegno di invalidità. Nel caso in esame lo Z. non ha mai contestato di aver ricevuto gli esiti delle visite di revisione, anzi ha egli stesso prodotto i relativi verbali nell'originario fascicolo di parte. Non può ritenersi che possa sorgere l'affidamento dell'assistito per il solo fatto che l'INPS, dopo aver comunicato gli esiti delle visite di revisione, non abbia provveduto alla immediata revoca delle prestazioni assistenziali ed abbia invece continuato ad erogarle per oltre tre anni. Infatti, pur trattandosi di un lasso di tempo non certo breve, deve escludersi che lo (...), dopo aver ricevuto i verbali delle visite di revisione, potesse in buona fede fare affidamento sulla spettanza dei benefici assistenziali che continuavano ad essergli erogati. L'appello deve pertanto trovare rigetto. Spese irripetibili avendo l'appellante formulato apposita dichiarazione ai sensi dell'art. 152, disp. att., c.p.c.. Occorre dare atto - ai sensi dell'art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1-quater all'art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte dell'appellante, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata. P.Q.M. Rigetta l'appello; dichiara irripetibili le spese processuali del grado; dà atto che sussistono per l'appellante le condizioni oggettive richieste dall'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 per il raddoppio del contributo unificato. Così deciso in Roma il 28 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 3 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D' APPELLO DI PERUGIA - SEZIONE LAVORO - composta dai magistrati: Dr.ssa Alessandra Angeleri - Presidente est. Dr.ssa Simonetta Liscio - Consigliere Dr Pierluigi Panariello - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 111 dell'anno 2022 Ruolo Gen. Contenzioso Lav. Prev. Ass., promossa da (...), rappresentata e difesa - giusta delega rilasciata su supporto cartaceo, la cui copia informatica, autenticata dal difensore con firma digitale, è stata trasmessa in via telematica contestualmente al deposito dell'at-to d'appello, ai sensi dell'art. 83, terzo comma, ultimo periodo c.p.c. - dall'avvocato Mo.Ra., presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Perugia, Via (...) - appellante - contro ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE - INPS, con sede legale in Roma, Via (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ro.An., Mi.Ar., Ri.Li. e St.Di. - in forza di procura generale alle liti per atto del dottor P.C., notaio in R., del (...), repertorio n. (...), raccolta n. (...) - ed elettivamente domiciliato presso l'Avvocatura dell'Istituto medesimo in Perugia, Via (...) - appellato - OGGETTO: appello avverso la sentenza n. 56/2022 del Tribunale di Perugia - indebito su indennità d'accompagnamento Causa decisa all'udienza del 1o febbraio 2023. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso depositato dinanzi al Tribunale di Perugia il 14 maggio 2021, (...) chiese che fosse accertata l'illegittimità della richiesta di restituzione delle somme indebitamente percepite a titolo d'indennità d'accompagnamento, pari a Euro 3.639,58 complessivi, e che, di conseguenza, l'INPS fosse condannato a restituire gl'importi, nel frattempo indebitamente trattenuti sui trattamenti pensionistici di cui la ricorrente era titolare. Costituitosi in giudizio, l'INPS contestò la domanda e ne chiese il rigetto. Con la sentenza n. 56/2022, pronunciata, ai sensi dell'art. 429 c.p.c., modificato dall'art. 53 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, all'udienza del 18 marzo 2022, il Tribunale respinse la domanda e dichiarò la ricorrente esonerata dalla refusione delle spese del giudizio. Con atto depositato il 16 settembre 2022, (...) interpose appello avverso la decisione, e ne chiese la riforma, con il conseguente accertamento dell'illegittimità delle ritenute e la condanna dell'INPS alla restituzione di quanto indebitamente trattenuto. Con D.P. del 21 ottobre 2022, fu fissata per la discussione della causa l'udienza del 1o febbraio 2023. Con decreto del 4 gennaio 2023, inserito nel fascicolo telematico del processo il 9 gennaio, il Presidente della Sezione ha individuato in via generale per le udienze di discussione la modalità della discussione orale, ossia, in presenza, fatti salvi gli eventuali provvedimenti da adottarsi ai sensi dell'art. 127-ter c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149. L'INPS s'è costituito in giudizio con memoria depositata il 18 gennaio 2023, e ha concluso per il rigetto del gravame. All'esito della discussione del 1o febbraio 2023, la causa è stata decisa come al dispositivo in atti, qui trascritto. Il giudice di primo grado ha rilevato che non era in contestazione la sussistenza di un indebito oggettivo, originato dalla visita di revisione cui la (...), titolare d'indennità d'accompagnamento, era stata sottoposta il 20 novembre 2019, nella quale i sanitari dell'INPS avevano riscontrato il venir meno del requisito sanitario. La ricorrente, piuttosto, sosteneva l'irripetibilità delle somme riscosse nel periodo compreso tra la comunicazione del verbale della visita, avvenuta nel dicembre del 2019, e la richiesta di ripetizione delle somme indebitamente percepite, avanzata dall'Istituto il 9 giugno 2020. Il Tribunale, esclusa l'applicabilità al caso della (...) delle norme in tema d'indebito previdenziale, ha richiamato la giurisprudenza di legittimità e ha concluso che, nella fattispecie, difettasse il legittimo affidamento dell'invalida circa la spettanza della provvidenza economica. Di conseguenza, ha respinto la domanda. L'appellante censura la decisione, rilevando come il Tribunale non abbia correttamente applicato i principi affermati dalla giurisprudenza che, in realtà, avrebbero condotto all'accoglimento del ricorso. In particolare, richiama la sentenza n. 4668 del 2021; nell'udienza di discussione, ha citato anche una pronuncia più recente, la n. 24180 del 2022. È pacifico che (...), titolare d'indennità d'accompagnamento, fu sottoposta a visita di revisione il 20 novembre 2019, all'esito della quale fu riconosciuta totalmente inabile, ma non anche bisognosa di assistenza continua. Il verbale della visita le fu comunicato il 17 dicembre 2019. La prestazione non fu sospesa; tuttavia, con raccomandata del 25 giugno 2020, l'INPS richiese alla (...) la restituzione di Euro 3.639,58, somma corrispondente ai ratei indebitamente percepiti tra il dicembre 2019 e il giugno 2020. Per accertare il fondamento dell'impugnazione, è necessario premettere alcune considerazioni a proposito delle provvidenze a favore degli invalidi civili e del regime ad esse applicabile in caso in materia d'indebito. A questo proposito si può richiamare la sentenza n. 6610/2005 emessa dalla Sezione Lavoro della Suprema Corte il 29 marzo 2005. Osservano in questa pronuncia i giudici di legittimità: "Le prestazioni economiche agli invalidi civili costituiscono l'oggetto di obbligazioni (pubbliche) ex lege, in quanto nascono al verificarsi dei fatti previsti dalle norme. Di conseguenza, i procedimenti amministrativi preordinati ad accertare tali fatti e, quindi, l'esistenza o l'inesistenza dell'obbligazione (originaria o sopravvenuta), ancorché i detti fatti siano complessi ed il relativo accertamento abbia natura critica, cioè di giudizio, con l'opinabilità che contrassegna tutti i giudizi, rivestono natura meramente ricognitiva, funzionale all'attuazione dei rapporti obbligatori, perciò escludendo la configurabilità di poteri amministrativi e di provvedimenti costitutivi degli effetti (giurisprudenza pacifica: cfr. per tutte, Cass., sez. un., 8 aprile 1975, n. 1261 e 24 ottobre 1991, n. 11329). Ciò implica che il diritto nasce in coincidenza con l'insorgenza dei requisiti e non certo per effetto degli atti c.d. di "concessione", come impropriamente talora denominati dalle norme; allo stesso modo, i c.d. atti di revoca non sono altro che ricognizioni in ordine all'inesistenza originaria o sopravvenuta dell'obbligazione e non certo provvedimenti espressione della c.d. "autotutela amministrativa", che è potere discrezionale di apprezzamento della conformità della situazione all'interesse pubblico (vedi, per tutte, Cass. 256/2001; 8713/1999; 5138/1994). Il descritto assetto ordinamentale si pone in diretta derivazione dai principi espressi dall'art. 38 Cost., attributivi del "diritto" al mantenimento e all'assistenza sociale spettante ai cittadini inabili e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere, nonché del diritto alla previdenza per i lavoratori. In linea generale, perciò, le prestazioni derivanti dalla solidarietà sociale non possono riconoscersi a coloro che non possiedono i requisiti previsti dalla legge per essere titolari del diritto. A questa regola, può derogare il legislatore mediante espresse previsioni e per casi specifici, ove ritenga di privilegiare l'affidamento determinato dall'attribuzione di fatto di una prestazione per un lasso notevole di tempo (si veda il disposto dell'art. 9, comma 1, D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, circa la rettificabilità degli errori commessi dall'I.N.A.I.L. nell'attribuzione di prestazione entro il termine massimo di dieci anni). Ne discende l'applicabilità del principio generale di cui è espressione l'art. 2033 c.c., secondo il quale ogni erogazione attribuita in assenza dei requisiti prescritti dalla legge è da considerare indebita e soggetta a ripetizione. Tuttavia, nel settore della previdenza e dell'assistenza obbligatorie si è affermato, ed è venuto via via consolidandosi, un principio di settore secondo il quale, in luogo della generale regola codicistica di incondizionata ripetibilità dell'indebito, trova applicazione la regola, propria di tale sottosistema, che esclude viceversa la ripetizione in presenza di situazioni di fatto variamente articolate, ma comunque avente generalmente come minimo comune denominatore la non addebitabilità al percipiente della erogazione non dovuta ed una situazione idonea a generare affidamento. ... Nello specifico ambito delle prestazioni economiche corrisposte agli invalidi civili, la disciplina particolare della ripetibilità delle prestazioni indebitamente erogate va ricercata nella normativa appositamente dettata in materia, non potendo trovare applicazione in via analogica - ma neppure estensiva stante il carattere derogatorio dell'art. 2033 c.c. di disposizioni di questo genere - le regole dettate con riferimento alle pensioni o agli altri trattamenti previdenziali. Su questo specifico punto si è espressa la Corte costituzionale, giudicando manifestamente infondate le q.l.c, in riferimento agli art. 3 e 38 comma 1 cost., dell'art. 1, commi 260- 265, L. 23 dicembre 1996, n. 662, e dell'art. 52, comma 2, L. 9 marzo 1989, n. 88, nelle parti in cui, pongono limiti alla ripetibilità dell'indebito previdenziale ma non anche di quello assistenziale". Dopo un ampio excursus sulle norme susseguitesi nel corso degli anni nella materia della ripetibilità dell'indebito su prestazioni assistenziali, la Corte di cassazione osserva: "La ricognizione della normativa ed i principi generali precisati consentono agevolmente di concludere nel senso che le erogazioni indebite effettuate dopo l'accertamento dell'insussistenza dei requisiti non sono sottratte alla regola generale dell'art. 2033 c.c. Per affermare il contrario, in presenza, appunto, di deroghe al principio generale, sarebbe necessaria l'individuazione di una norma che in tal senso disponga. Ma, come si è constatato, le norme contemplano, in linea di massima, l'irripetibilità delle sole prestazioni effettuate fino alla data dell'accertamento amministrativo dell'inesistenza dei requisiti. Per queste ragioni la giurisprudenza della Corte si è orientata nel senso dell'irrilevanza ai fini della ripetizione dei ratei indebitamente riscossi, del mancato rispetto delle norme che impongono all'amministrazione di prontamente attivarsi, sospendendo i pagamenti ed emanando il formale provvedimento di revoca entro termini prefissati, siccome tali atti (sospensione e revoca) non concretano esercizio di poteri amministrativi, ma si sostanziano in meri accertamenti, in atti di gestione del rapporto obbligatorio; come dimostra anche il fatto che i termini sono stati per la prima volta previsti proprio da un regolamento emanato in tema di strutturazione dei procedimenti amministrativi; si è, dunque, in presenza di disposizioni organizzatorie, preordinate ad impedire - anche collegando all'inosservanza la responsabilità degli organi per danno erariale - proprio che siano effettuate prestazioni indebite, le quali sia poi necessario ripetere, non certo sancire l'irripetibilità delle stesse quale sanzione per l'inosservanza dei termini ...". L'art. 4, comma 3-ter del D.L. 20 giugno 1996, n. 323, convertito, con modificazioni, nella L. 8 agosto 1996, n. 425, stabiliva: "In caso di accertata insussistenza dei requisiti sanitari, la Direzione generale di cui al comma 1 provvede, entro novanta giorni dalla data della visita di verifica o degli ulteriori accertamenti che si rendessero necessari, alla revoca delle provvidenze in godimento a decorrere dalla data della visita di verifica". La norma è stata modificata dalla L. 23 dicembre 1998, n. 448, il cui art. 37 (rubricato "Verifiche in materia di invalidità civile"), al comma 8, prevede: "In caso di accertata insussistenza dei requisiti sanitari, il Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica oggi, l'INPS, n.d.e. dispone l'immediata sospensione dell'erogazione del beneficio in godimento e provvede, entro i novanta giorni successivi, alla revoca delle provvidenze economiche a decorrere dalla data della visita di verifica". In tempi recenti, la Corte di cassazione, con la sentenza n. 26162 del 19 dicembre 2016, ha affermato ancora: "Si è, infatti, statuito (Cass. sez. lav. n. 16260 del 29/10/2003) che "con riferimento alla revoca delle prestazioni assistenziali in favore degli invalidi civili, alla stregua della disciplina via via succedutasi nel tempo a partire dall'art. 11, quarto comma, L. n. 537 del 1993 (art. 4, comma terzo ter, D.L. n. 323 del 1996, convertito in L. n. 425 del 1996, art. 37, ottavo comma, L. n. 448 del 1998) - disciplina alla quale rimane estranea la disposizione meramente "regolamentare" dettata dall'art. 5, quinto comma, D.P.R. n. 698 del 1994 avente ad oggetto l'articolazione del relativo procedimento - deve ritenersi che la ripetizione delle prestazioni previdenziali indebitamente erogate operi dalla data di accertamento amministrativo dell'inesistenza dei requisiti sanitari, senza che possa rilevare - in mancanza di una norma che disponga in tal senso - il mancato rispetto, da parte dell'amministrazione, dell'obbligo di sospendere i pagamenti e di emanare il formale provvedimento di revoca entro termini prefissati; né il sistema normativo così interpretato può essere ritenuto non rispettoso dell'art. 38 Cost., essendo ragionevole che la data dell'accertamento amministrativo, ancorché precedente il formale atto di revoca, determini la fine dell'affidamento dell'assistito nella definitività dell'attribuzione patrimoniale ricevuta" (conforme Cass. sez. lav. n. 6091 del 26/4/2002). ... A tal riguardo questa Corte ha ribadito (Cass. Sez. 6 - L. Ordinanza n. 26096 del 23/12/2010) che "in tema di invalidità civile, la revoca dei relativi benefici assistenziali, ai sensi dell'art. 4, comma 3 bis, della L. 8 agosto 1996, n. 425, (applicabile alla fattispecie "ratione temporis"), produce i suoi effetti, per espressa previsione normativa, "dalla data della visita di verifica"; e non dalla successiva data di comunicazione della revoca, restando irrilevante, altresì, la tardiva sospensione delle prestazioni; ne consegue che devono essere restituiti tutti i ratei maturati dopo la visita di verifica"". Alla stregua dei principi esposti negli autorevoli precedenti citati, confermati dalle pronunce successive della Corte di cassazione (v., tra le altre, Cass., n. 29419/2018), si deve ritenere irrilevante, contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, l'epoca in cui l'INPS le comunicò formalmente l'indebito (25 giugno 2020). In particolare, è ininfluente, ai fini della ripetibilità delle somme indebitamente erogate, che la comunicazione stessa sia avvenuta dopo il decorso del termine di novanta giorni previsto dal comma 8 dell'art. 37 della L. n. 448 del 1998, che, come s'è visto, ha modificato l'art. 4, comma 3-ter del D.L. n. 323 del 1996. La norma - come perspicuamente osservato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 6610/2005 a proposito di quella emanata nel 1996, di contenuto analogo a quella del 1998 - è finalizzata a responsabilizzare gli organi amministrativi, non certo a sancire l'irripetibilità delle somme indebitamente riscosse, stabilendo termini di decadenza all'esercizio del diritto alla ripetizione di somme indebitamente erogate. Né una simile soluzione ermeneutica può indurre a dubitare della legittimità costituzionale della disposizione del comma 8 citato: in realtà, come rilevato dalla Corte di cassazione, è ragionevole che "la data dell'accertamento amministrativo, ancorché precedente il formale atto di revoca, determini la fine dell'affidamento dell'assistito nella definitività dell'attribuzione patrimoniale ricevuta" (così già Cass., Sez. Lav., 26 aprile 2002, n. 6091, e, più di recente, la citata Cass., n. 26162/2016). Peraltro, nel caso in esame, non si può neppure sostenere che dal verbale della visita di revisione non fosse evincibile la diversa condizione accertata. Mentre nel verbale della precedente visita di revisione, risalente al 12 dicembre 2017, la (...) era stata riconosciuta invalida "con totale e permanente inabilità lavorativa 100%", e "con necessità di assistenza continua non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani (L. n. 18 del 1980)", nel verbale della visita di revisione del 20 novembre 2019 era stata dichiarata invalida "con totale e permanente inabilità lavorativa: 100% art. 2 e 12 L. n. 118 del 1971", tout court, ossia, senza la necessità di assistenza continua, condizione, questa, prevista dalla L. n. 18 del 1980 per l'indennità d'accompagnamento. Inoltre, il verbale di revisione era stato tempestivamente comunicato all'interessata: si deve, perciò, escludere che, da quel momento, ella potesse nutrire alcun legittimo affidamento circa la persistenza del diritto al beneficio assistenziale. Ne discende che il pur protratto comportamento mantenuto dall'INPS, sostanziatosi nell'erogazione del trattamento economico per alcuni mesi dopo la visita, non può aver obiettivamente indotto la parte a ritenere consolidato il diritto alla prestazione, mentre, certamente, l'omessa immediata attivazione delle verifiche dell'Istituto esclude il diritto ad assommare in restituzione alla sorte capitale gl'interessi maturati in epoca anteriore alla richiesta di restituzione. Né, infine, può condurre a una conclusione differente il precedente citato dall'appellata durante la discussione della causa (Cass., Sez. Lav., ordinanza 4 agosto 2022, n. 24180). In quella pronuncia, in applicazione del principio del legittimo affidamento, è stato affermato che l'indebito assistenziale determinatosi per il venir meno del requisito sanitario può dar luogo alla restituzione soltanto a decorrere dal provvedimento con cui l'esito dell'accertamento sia portato a conoscenza dell'interessato. Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, la comunicazione del verbale era avvenuta con notevole ritardo, ben quattro anni dopo la visita di revisione; è stato, quindi, dichiarato il diritto dell'invalida a trattenere i ratei percepiti medio tempore. Nella fattispecie in esame, invece, la comunicazione del verbale è avvenuta il mese successivo alla visita di revisione, e l'INPS ha correttamente chiesto la restituzione dei ratei maturati da quel momento. In definitiva, la (...) è tenuta a restituire all'INPS i ratei indebitamente percepiti dal dicembre 2019 al giugno 2020, così come statuito nella sentenza impugnata. Per tutte le ragioni esposte, l'appello è infondato e dev'essere respinto, mentre la sentenza impugnata dev'essere confermata. Quanto alle spese del giudizio, l'appellante ha dichiarato di trovarsi nelle condizioni di reddito previste dall'art. 152 disp. att. c.p.c. Di conseguenza, dev'essere dichiarata esonerata dal pagamento delle spese del grado. P.Q.M. LA CORTE D'APPELLO respinge l'appello e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata. Visto l'art. 152 disp. att. c.p.c., dichiara l'appellante esonerata dal pagamento delle spese del grado. Così deciso in Perugia l'1 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 14 febbraio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA V SEZIONE LAVORO composta da: Giovanna Ciardi - Presidente rel. Maria Antonia Garzia - Cons. Sabrina Mostarda - Cons. nella causa civile in grado di appello n. 1190/2022 all'udienza del 20.1.2023, ha emesso la seguente SENTENZA TRA (...) Avv.ti Fr.El. e Da.De. appellanti E INPS Avv. Si.Za. appellato OGGETTO: appello contro la sentenza n. 9383/2021 del Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato in data 25.1.2021 e ritualmente notificato, (...), premesso di percepire l'assegno sociale n.(...), conveniva in giudizio l'INPS chiedendo che venisse accertata l'inesistenza dell'indebito di Euro 1.724,00 accertato dall'INPS con nota del 7.7.2020. Deduceva la ricorrente di aver percepito canoni locatizi di Euro 1.600 annui in applicazione della cedolare secca e che l'INPS aveva ridotto l'importo dell'assegno sociale dalla stessa percepito per gli anni 2016 e 2017 da Euro 376,00 mensili ad Euro 337,00 accertando altresì un indebito di Euro 1.724,16. Contestava la sussistenza di detto indebito avendo l'INPS calcolato i redditi al lordo delle ritenute fiscali e non al netto. Precisava che sul reddito di 1600 Euro derivante dal canone locatizio l'imposta era di Euro150 e che pertanto detraendo dall'importo dell'assegno sociale la somma netta di Euro1450 (1600-150) si determinava un reddito di Euro4.374,91 che diviso per 13 mensilità era pari a Euro336,53 mensili. Deduceva l'irripetibilità dell'indebito avendo la ricorrente sempre chiaramente comunicato i propri redditi e dovendo l'indebito essere recuperato dalla data dell'accertamento. Deduceva altresì l'inesigibilità dell'indebito in caso di assegno sociale. Si costituiva l'INPS contestando il ricorso e chiedendone il rigetto. Deduceva che annualmente l'INPS verificava i redditi del pensionato e che se dalla verifica emergeva un reddito superiore si procedeva al recupero dell'indebito. Con la sentenza in oggetto, il Tribunale ha respinto il ricorso, compensando fra le parti le spese di lite. Avverso detta decisione propone appello (...), lamentandone l'erroneità con riferimento ai limiti reddituali rilevanti in materia di assegno sociale e ai principi giurisprudenziali relativi all'irripetibilità dell'indebito assistenziale per motivi reddituali. Si costituisce in giudizio l'INPS contestando la fondatezza del gravame e chiedendone il rigetto. All'odierna udienza la causa è decisa come da separato dispositivo. MOTIVI DELLA DECISIONE L'appello è fondato. Si premette che risulta pacifico che l'azione recuperatoria dell'Inps ha ad oggetto il recupero di ratei dell'assegno sociale ex art. 3, L. n. 335 del 1995 percepito dall'assistita nel periodo dal 1/1/2016 al 30/11/2017 a seguito del superamento del relativo requisito reddituale; la prestazione in questione ha natura assistenziale in quanto non collegata ad un versamento contributivo ma il cui onere economico è posto a carico della fiscalità generale. Osserva poi questa Corte che con ordinanza n. 12608/2020 la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto "L'indebito assistenziale determinato dalla sopravvenuta carenza del requisito reddituale, in assenza di norme specifiche che dispongano diversamente, è ripetibile solo a partire dal momento in cui intervenga il provvedimento che accerta il venir meno delle condizioni di legge." Al fine, la Suprema Corte ha chiarito quanto segue: - all'indebito relativo all'assegno sociale, in quanto prestazione assistenziale, non si applica il principio di generale ripetibilità di cui all'art. 2033 c.c., ma si applicano invece i principi di settore, propri dell'indebito assistenziale, per come ricostruiti dalla giurisprudenza di legittimità, che ha individuato, in relazione alle singole e diversificate fattispecie esaminate, un'articolata disciplina, che distingue vari casi a seconda che il pagamento non dovuto afferisca, volta per volta, alla mancanza dei requisiti reddituali, di quelli sanitari, di quelli socio economici (incollocazione o disoccupazione) o a questioni di altra natura (come, ad esempio, l'esistenza di ricovero ospedaliero gratuito nel caso dell'indennità di accompagnamento); - si tratta invero di un sottosistema, che si fonda sulla regola per cui la ripetizione dei pagamenti indebiti è esclusa in presenza di situazioni di fatto variamente articolate, ma comunque aventi come minimo comune denominatore la non addebitabilità al percipiente dell'erogazione non dovuta e l'idoneità della situazione di fatto a generare affidamento; - sull'esistenza di questo principio si è basata anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di indebito assistenziale, che, pur affermando con le ordinanze n. 264/2004 e n. 448/2000 l'inesistenza di un'esigenza costituzionale che imponga per l'indebito previdenziale e per quello assistenziale un'identica disciplina, ha ritenuto che operi anche in questa materia un principio di settore, che sottrae tendenzialmente la regolamentazione della ripetizione dell'indebito al regime generale del codice civile; - al riguardo la Corte Costituzionale ha pure evidenziato che il canone dell'art. 38 Cost. appresta al descritto principio di settore una garanzia costituzionale in funzione della soddisfazione di essenziali esigenze di vita della parte più debole del rapporto obbligatorio, che verrebbero ad essere contraddette dall'indiscriminata ripetizione di prestazioni naturaliter già consumate in correlazione -e nei limiti- della loro destinazione alimentare (Corte Cost. n. 39/1993, n. 431/1993); - sulla precipua questione dell'indebito assistenziale per mancanza del requisito reddituale, è principio già affermato dalla giurisprudenza di legittimità che detto indebito, in assenza di norme specifiche che dispongano diversamente, è ripetibile solo a partire dal momento in cui intervenga il provvedimento che accerta il venir meno delle condizioni di legge, e ciò a meno che non ricorrano ipotesi che escludano qualsivoglia affidamento dell'"accipiens" ovvero la sua buona fede, come nel caso di erogazione di prestazioni a chi non abbia avanzato domanda o non sia parte di un rapporto assistenziale o di radicale incompatibilità tra beneficio ed esigenze assistenziali o, infine, di dolo comprovato; - nessun obbligo di restituzione si può configurare nell'ipotesi in cui l'accipiens abbia già dichiarato i propri redditi all'INPS ed essi fossero perciò conoscibili dall'Istituto previdenziale; - inoltre, già l'art. 42 del D.L. n. 269 del 2003, conv. in L. n. 326 del 2003, consentiva all'INPS di accedere alla conoscenza dei redditi dichiarati onerandolo del controllo telematico dei requisiti reddituali, mentre l'art. 15 del D.L. n. 78 del 2009, convertito con modificazioni dalla L. n. 102 del 2009, stabilisce che dal primo gennaio 2010 l'Amministrazione finanziaria ed ogni altra Amministrazione pubblica, che detengono informazioni utili a determinare l'importo delle prestazioni previdenziali e assistenziali collegate al reddito dei beneficiari, sono tenute a fornire all'INPS in via telematica le predette informazioni, presenti in tutte le banche dati a loro disposizione, relative ai titolari di prestazioni pensionistiche o assistenziali residenti in Italia e ai rispettivi coniugi e familiari. Da ciò si evince che tutti i fatti relativi ai dati reddituali dei titolari di prestazioni pensionistiche o assistenziali sono sempre conosciuti o conoscibili d'ufficio dall'INPS in via telematica; - questo principio risulta rafforzato dall'art. 13 del D.L. n. 78 del 2010, convertito con modificazioni dalla L. n. 122 del 2010, che al comma 1 prevede l'istituzione presso l'INPS del "Casellario dell'Assistenza" per la raccolta, la conservazione e la gestione dei dati, dei redditi e di altre informazioni relativi ai soggetti aventi titolo alle prestazioni di natura assistenziale, mentre al comma 6 prevede che i titolari di prestazioni collegate al reddito devono comunicare all'INPS soltanto i dati della propria situazione reddituale, incidente sulle prestazioni in godimento, che non sia già stata comunicata all'Amministrazione finanziaria; - pertanto, è confermato che i pensionati non devono comunicare all'INPS la propria situazione reddituale già integralmente dichiarata e conosciuta dall'Amministrazione, salvo che non si tratti di dati reddituali che, proprio perché non vanno dichiarati nel modello 730 (come, ad esempio, i redditi da lavoro dipendente prestato all'estero, gli interessi bancari, postali, dei BOT, dei CCT e di altri titoli di Stato, ecc.), devono essere perciò dichiarati all'Istituto; - inoltre, in nessun caso si possono ipotizzare i presupposti per la restituzione dell'indebito quando esso scaturisca dal possesso di un certo reddito costituito da una prestazione di qualsiasi natura (previdenziale o assistenziale) erogata dall'INPS e che, quindi, l'Istituto già conosce. In questo quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, può allora concludersi nel senso indicato dalla Cassazione secondo cui, in tema di indebito assistenziale per mancanza del requisito reddituale, ai fini della ripetizione dell'indebito è necessario il "dolo comprovato dell'accipiens atto a farne venir meno ogni tipo di affidamento alla legittima erogazione della prestazione assistenziale". Calati questi principi nella fattispecie in esame, è dalla dichiarazione dei redditi dichiarati dalla B. alla Agenzia delle Entrate per gli anni 2015 e 2016 che l'INPS è venuto a conoscenza del superamento del limite reddituale di legge, come, fra l'altro, riconosciuto dallo stesso Istituto (v. pag. 5 della memoria di costituzione in appello), per cui non pare ricorrere alcuna ipotesi di dolo. Se è vero che i redditi derivanti dai canoni locatizi sono conoscibili dall'INPS solo a partire dalla presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte dell'odierna appellante, questa, nella specie, aveva reso la dichiarazione in questione nell'anno 2016 e nell'anno 2017, con conseguente tardività della comunicazione pervenuta nel 2020. Nel caso di specie, va quindi esclusa la configurabilità del dolo dell'accipiens, stante la piena conoscibilità, da parte dell'INPS, dei dati reddituali d'interesse, e conseguentemente l'Istituto non può ripetere le somme oggetto di causa, in quanto pagate in epoca antecedente all'adozione del provvedimento che ha accerta il venir meno delle condizioni di legge per la loro erogazione. Né a conclusioni differenti possono condurre le tardive ed indimostrate deduzioni dell'INPS nella memoria di costituzione per il presente grado di giudizio, secondo cui "Lo stesso INPS ha allegato il provvedimento di ricostituzione dell'assegno sociale del 2.11.2017 (comunicato a parte ricorrente per compiuta giacenza) relativo al periodo dal 1.1.2016 al 30.11.2017 (periodo oggetto anche del provvedimento di accertamento indebito impugnato) che ha provveduto alla rideterminazione della pensione e a calcolare pertanto un indebito di Euro1724,16 di cui è stata immediatamente richiesta alla parte ricorrente la restituzione con interruzione dei termini di prescrizione. Tale comunicazione è stata inviata dall'INPS a parte ricorrente e ricevuta per compiuta giacenza e detta comunicazione non è stata impugnata. Nel caso in esame l'INPS ha quindi provveduto entro l'anno successivo all'anno di invio della dichiarazione dei redditi da parte della ricorrente ad Agenzia delle Entrate ad effettuare le sue verifiche sui redditi della ricorrente ed a rideterminare l'assegno sociale detraendo l'importo maggiore non dovuto a seguito dei maggiori redditi percepiti. Il provvedimento impugnato è quindi una replica del Provv. del 2 novembre 2017 non impugnato da parte ricorrente". Si tratta infatti di deduzioni del tutto nuove, non contenute nella memoria di primo grado dell'Istituto, e pertanto inammissibili nel presente grado. L'esistenza di un precedente Provv. del 2 novembre 2017 non è stata dedotta nel giudizio di primo grado e non è suffragata da alcuna documentazione, non essendo rinvenibile in atti il citato provvedimento. Conseguentemente, l'indebito oggetto di controversia, così come si evince dalla nota del 7.7.2020 e come può ritenersi pacifico in causa, risulta essersi formato per un mero superamento del limite reddituale e risulta riferibile ad un periodo (dal gennaio 2016 al novembre 2017) anteriore alla data della predetta nota; tale indebito non risulta imputabile ad erronee segnalazioni da parte dell'appellante che ha provveduto a dichiarare ai fini fiscali i redditi percepiti nel periodo sopraindicato. Trattasi quindi di circostanze di per sé idonee, nel loro complesso, a determinare, in capo all'odierna appellante, sino alla comunicazione da parte dell'Inps del superamento del limite reddituale collegato alla prestazione oggetto di recupero e dell'importo delle somme indebitamente percepite, un legittimo affidamento sulla correttezza degli importi erogati, con conseguente irripetibilità della prestazione indebita oggetto di controversia. Alla stregua delle considerazioni che precedono, alle quali deve attribuirsi rilievo assorbente rispetto ad ogni altra questione sollevata dalle parti, l'appello deve pertanto essere accolto, dichiarando, in riforma della sentenza impugnata, non dovuta dall'appellante la somma di Euro 1.724,16, di cui alla nota dell'INPS del 7.7.2020. La condanna dell'INPS al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, segue la soccombenza. P.Q.M. La Corte in accoglimento dell'appello e in riforma della sentenza impugnata, dichiara che la somma di Euro 1.724,16, di cui alla nota dell'INPS del 7.7.2020, non è dovuta dall'appellante; condanna l'INPS al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, che liquida in Euro 850,00 per il primo grado e in Euro970,00 per l'appello, oltre 15% per spese forfettarie, da distrarsi. Così deciso in Roma il 20 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 31 gennaio 2023.

  • CORTE DI APPELLO DI BOLOGNA Prima Sezione Civile La Corte di Appello nelle persone dei seguenti magistrati: dott. Paola Montanari - Presidente dott. Antonella Allegra - Consigliere Relatore dott. Rosario Lionello Rossino - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. r.g. .../2021 promossa da: XX, (c.f. omissis), nata a (omissis), (Matera), il (omissis). (omissis).1951, residente in Modena, via (omissis) n(omissis), rappresentata e difesa dagli Avv.ti ...(c.f. omissis) e ...(c.f. omissis) del fòro di Modena, elettivamente domiciliata nel loro studio in Modena,.... RICORRENTE IN RIASSUNZIONE Contro YY, (c.f. omissis), nato a (omissis), (Modena), il (omissis). (omissis).1947, residente in (omissis), (Modena), via (omissis) n. (omissis), rappresentato e difeso dagli Avv.ti..., elettivamente domiciliato presso il loro studio in Modena, via ... PEC: ... RESISTENTE IN RIASSUNZIONE in punto a giudizio in riassunzione ex art. 392 c.p.c. a seguito di ordinanza della Suprema Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile n. .../2021 depositata in data 17.02.2021, che ha cassato la sentenza della Corte di Appello di Bologna, Sezione Prima Civile, n. 1130/2016 del 10.06.2016 e pubblicata il 30.06.2016, per l'appello avverso la sentenza del Tribunale di Modena n ../2015 pubblicata in data 19/3/2015 (condizioni di cessazione degli effetti civili del matrimonio) con l'INTERVENTO del Procuratore Generale che ha chiesto l'accoglimento del ricorso. LA CORTE udita la relazione della causa fatta dal Consigliere dott.ssa Antonella Allegra; udita la lettura delle conclusioni prese dai procuratori delle parti; letti ed esaminati gli atti e i documenti del processo, ha così deciso: SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1.a- Con ricorso in data 29 luglio 2009, YY chiedeva la cessazione degli effetti civili del matrimonio a suo tempo contratto il 16 giugno 1985 con XX e dalla quale era consensualmente separato alle condizioni omologate con decreto del Tribunale di Modena del 28 luglio 2006 e dalla aveva avuto due figli, J nato il (omissis).(omissis).1985 e W nata il (omissis).(omissis).1991, ormai maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti, chiedendo contestualmente la modifica del contributo di mantenimento a favore dei figli da Euro 856,00 a Euro 600,00 mensile, in quanto divenuto eccessivamente oneroso a seguito del pensionamento e delle spese di cui era gravato, ferma l'assegnazione alla XX della casa familiare in comproprietà con la moglie, convivente con i figli, fino al raggiungimento da parte loro dell'autosufficienza, senza alcun assegno divorzile, non essendo stato neppure stabilito un contributo al mantenimento della moglie in sede di separazione. 1.b- Si costituiva in giudizio XX deducendo di aver perso la vista a causa di una malattia degenerativa di cui soffriva da tempo (la cecità assoluta le era stata riconosciuta il 15 aprile 2005), e che proprio in tale periodo il marito si era legato a una donna russa con la quale ora conviveva; che per tale ragione, era stata costretta a lasciare il proprio lavoro; che a causa dello stato di prostrazione in cui si trovava, pur avendo proposto ricorso ella stessa ricorso di separazione con domanda di mantenimento e di addebito nei confronti del marito, vi aveva poi rinunciato accettando le proposte del YY al solo scopo di porre fine al giudizio, trasformato in consensuale. Ciò nondimeno chiedeva ora il riconoscimento di un assegno divorzile in proprio favore, in considerazione delle proprie condizioni, dell'impossibilità di muoversi autonomamente al di fuori delle mura domestiche e senza l'aiuto di persone, della necessità di un aiuto costante di terzi (la cui retribuzione a tempo pieno non poteva permettersi, delle spese necessarie per diverse attrezzature specializzate, del fatto che la pensione di inabilità le era stata revocata dal 1° agosto 2008 e che gli emolumenti per la cecità erano stati ridotti di 246,73 euro; che il suo reddito non le consentiva di provvedere a se stessa e ai figli, mentre il marito era andato in pensione proprio in corrispondenza della separazione e aveva sicuramente percepito un TFR significativo di cui non l'aveva mai messa a conoscenza, era proprietario di un immobile dato in locazione, viveva gratuitamente con la compagna in un appartamento messogli a disposizione dal fratello. 1.c- Il Tribunale di Modena, dopo aver con sentenza parziale in data 22 luglio 2011 - 13 settembre 2011, dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio, all'esito dell'istruttoria, definiva il giudizio quanto alle condizioni del divorzio, con sentenza n. 498/2015 del 21.01.2015 pubblicata il 19 marzo 2015, con la quale (confermando quanto già nel corso dell'istruttoria disposto dal giudice istruttore), riconosceva l'assegno divorzile richiesto dalla XX e determinava l'obbligo del YY di corrispondere un assegno di divorzio di Euro 400,00 con decorrenza dal mese di ottobre 2013, revocando inoltre il contributo di mantenimento a favore del figlio J, divenuto autosufficiente, fin dal mese di ottobre 2013, ferme le condizioni relative alla figlia W, e condannando il YY alla rifusione delle spese di lite alla XX. 2.- Avverso la predetta sentenza proponeva appello YY chiedendo alla Corte d'Appello di Bologna di "..revocare il contributo al mantenimento della sig.ra XX posto a carico di YY, stabilendo che la stessa non può conseguire un contributo al proprio mantenimento potendo contare su autonomi redditi ed in ogni caso non ravvisandosi i presupposti normativamente richiesti. In subordine, ridurre in ogni caso l'importo del predetto contributo stabilito nella gravata sentenza di primo grado, fissandolo nel minore importo che verrà ritenuto congruo e di giustizia, altresì in considerazione della misura del contributo comunque versato in favore della figlia W, ammontante ad Euro 436,00 mensili. In riforma della sentenza gravata, dichiarare che la revoca dell'obbligazione del sig. YY a versare alla sig.ra XX il contributo per il mantenimento del figlio J abbia effetti retroattivi, a decorrere dal raggiungimento dell'indipendenza economica di quest'ultimo, coincidente con il mese di dicembre 2011, o comunque dal momento della proposizione della domanda da parte del sig. YY (giugno 2012). Revocare altresì la condanna alla rifusione delle spese di primo grado posta a carico di YY ed in favore di XX. In via istruttoria, come richiesto, da ultimo, all'udienza di precisazione delle conclusioni, ordinare alla sig.ra XX, titolare di una pensione di invalidità civile e di ulteriore pensione di cieco (parziale o assoluto), di produrre la documentazione comprovante gli importi percepiti a tali titoli, atteso che dal Modello 730 non emergono tali erogazioni, bensì solo i redditi da pensione diretta ex Inpdap (dalla stessa percepita a fronte dell'attività lavorativa). Con vittoria di spese, competenze e onorari di entrambi i gradi di giudizio.". Il ...lamentava : I) l'erronea, contraddittoria e carente motivazione della sentenza impugnata in ordine alla configurabilità dei presupposti per la concessione dell'assegno divorzile di cui alla L. 898/1970 ed alla misura del contributo stante le contraddizioni nella parte motiva della decisione impugnata. In particolare, il Tribunale avrebbe errato nella valutazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti posto che la cecità della XX non sarebbe avvenuta successivamente alla separazione ma prima di tale evento; che la somma indicata quale reddito dell'appellante sarebbe errata in quanto riferita al reddito lordo percepito e che la XX non avrebbe depositato alcuna documentazione reddituale aggiornata. YY sosteneva che, tenuto conto dell'indennità di accompagnamento di Euro 600,00 (di cui erroneamente il Tribunale non aveva tenuto conto) e della pensione di Euro 1.200,00 mensili, la XX percepiva un'entrata complessiva di circa Euro 1.800,00 mensili e che ella godeva altresì della casa coniugale, beneficio economicamente non sottovalutabile seppur transitorio. Viceversa, egli affermava di percepire un reddito lordo di Euro 31.431,00 pari - a seguito delle detrazioni fiscali - a poco più di Euro 2.000,00 al mese, e che pertanto, non corrispondeva al vero quanto sostenuto dal Tribunale relativamente alla disponibilità di entrate corrispondenti "..a più del doppio.." di quelle della XX, sicché l'attribuzione patrimoniale a suo carico di Euro 400,00 determinava un'inaccettabile discrepanza fra le condizioni dei due coniugi. Parte appellante censurava, altresì, la presunzione di possesso di maggiori redditi da parte del YY in costanza di matrimonio, posto che egli avrebbe utilizzato tale reddito per l'acquisto della casa coniugale, per consentire una vita dignitosa alla famiglia e per il mantenimento dei figli nati dalla precedente relazione, e attribuiva al giudicante di non aver in alcun modo motivato il tenore dei rapporti durante la convivenza coniugale, come pure di aver attribuito rilevanza ad episodi di violenza domestiche riferite da una vicina e mai confermate dalla figlia W. Conclusivamente, il YY affermava l'insussistenza di un peggioramento del tenore di vita della XX e l'insussistenza dei presupposi richiesti ai fini del riconoscimento dell'assegno divorzile. II) l'erroneità della sentenza di primo grado sul punto in cui, confermando l'ordinanza 24.10.2013, aveva dichiarato l'irretroattività della revoca dell'obbligo di mantenimento del figlio J, dal momento che quest'ultimo viveva stabilmente a Parigi dal 1.12.2011 e percepiva Euro 1.643,00 mensili come dottore di ricerca presso l'università, pertanto il padre aveva versato l'importo mensile di Euro 430,00 al mese alla XX per 23 mesi nei quali J non risiedeva più con la madre ed ella non era gravata dagli oneri di mantenimento. XX contestava quanto ex adverso dedotto e chiedeva il rigetto delle domande avversarie e la conferma della sentenza impugnata. Con Sentenza n. 1130/2016 pubblicata in data 30 giugno 2016, la Corte d'Appello, in parziale riforma della sentenza impugnata, rigettava la domanda di XX di riconoscimento dell'assegno divorzile ex art. 5 L. 898/1970; fissava la decorrenza a decorrere dal 1°.12.2011 della cessazione dell'obbligazione paterna al mantenimento del figlio; condannava la XX a rifondere al YY le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio. 3.- Con ricorso in data 29 ottobre 2016 XX ricorreva dinanzi alla Suprema Corte per la cassazione della decisione della Corte d'Appello, articolando tre distinti motivi: I) Violazione e falsa applicazione dell'art. 5 comma 6 L. 898/1970 in relazione all'art. 360 n. 3 cpc, avendo la Corte di Appello erroneamente affermato l'impossibilità per la XX di richiedere l'assegno divorzile successivamente alla rinuncia in tal senso nel procedimento di separazione e senza provare il peggioramento delle sue condizioni dopo la separazione, e non avendo compiuto alcun accertamento relativo alla situazione economica della stessa, come richiesto dall'art. 5 L. 898/70: evidenziava al riguardo i differenti i presupposti e le diverse finalità dei due istituti dell'assegno di mantenimento e dell'assegno divorzile, l'irrilevanza del fatto che la diagnosi di cecità assoluta era stata emessa prima della separazione nonché l'irrilevanza dell'indennità di accompagnamento ai fini dei redditi, trattandosi di emolumenti destinati alla persona; II) Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti - art. 360 n. 5 cpc, quale l'intera consistenza patrimoniale del YY, comprensiva di tutte le utilità da questo percepite e suscettibili di valutazione economica. III) Violazione e falsa applicazione dell'art. 6 comma 2 L. 898/1970 con riferimento all'art. 337 septies c.c. nonché dell'art. 4 comma 13 L. 898/1970 - art. 360 n. 3 cpc nella parte in cui, riformando la sentenza del Tribunale di Modena, la Corte d'Appello aveva previsto la decorrenza della revoca dell'assegno di mantenimento del figlio J dal dicembre 2011 sulla base del presunto raggiungimento dell'indipendenza economica del figlio, contrariamente a quanto statuito dall'orientamento unanime della Suprema Corte in materia in punto di insufficienza dell'assegno di ricerca e di decorrenza della domanda. YY eccepiva l'inammissibilità del ricorso e comunque ne chiedeva il rigetto . La Corte di Cassazione con Sentenza n. 4224/2021 del 22 gennaio 2021 e depositata il 7 febbraio 2021, ha accolto il primo ed il terzo motivo di ricorso, dichiarando assorbito l'esame del secondo, cassando la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e ha rinviato la causa, anche per la regolamentazione delle spese, alla Corte di Appello di Bologna in diversa composizione per il corrispondente nuovo esame. In particolare, nell'accogliere il primo motivo di ricorso. Dopo aver ripercorso l'evoluzione giurisprudenziale relativa all'interpretazione dell'art. 5 L. 898/1970, la Suprema Corte ha richiamato l'ultimo approdo della Sezioni Unite, che ha abbandonato i vecchi automatismi che avevano dato vita ai due orientamenti contrapposti (da un lato il tenore di vita e dall'altro il criterio dell'autosufficienza, quest'ultimo consacrato nella sentenza n 11504/2017) e della natura meramente assistenziale dell'assegno divorzile, valorizzando la necessità della valutazione dell'intera storia coniugale e di una prognosi futura che tenga conto delle condizioni dell'avente diritto all'assegno (età, salute, etc.) e della durata del matrimonio, nonché l'importanza del profilo perequativo - compensativo dell'assegno e la necessità di un accertamento rigoroso del nesso di causalità tra scelte endofamiliari e situazione dell'avente diritto al momento dello scioglimento della decisione del vincolo coniugale con la "..vigorosa riaffermazione del principio del principio di solidarietà postconiugale, agganciato ai parametri costituzionali ex art. 2 e 29 Cost.". La Corte, nella sentenza che disposto il rinvio, ha quindi sostanzialmente recepito la prospettazione della ricorrente, ritenendo che il modus procedendi (della Corte d'Appello di Bologna) "..si rivela non in linea con i riportati principi dettati dalla descritta statuizione delle Sezioni Unite, perché: i) quanto alla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, al fine di accertare l'inadeguatezza, o meno, dei mezzi della XX, o, comunque, l'impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, sostanzialmente, ha preteso la dimostrazione, da parte dell'odierna ricorrente, di un mutamento delle rispettive condizioni economiche degli ex coniugi (ed in particolare il peggioramento di quelle della odierna ricorrente) rispetto al momento della loro separazione personale, non richiesta, invece, tra i criteri di cui all'art. 5, comma 6, della legge n. 898/70 in relazione alla spettanza, o meno, dell'assegno divorzile; ii) ha mostrato, in questo modo, di valorizzare il solo criterio dell'autosufficienza economica, e, dunque, il carattere meramente assistenziale dell'assegno in questione, senza minimamente indagare gli ulteriori aspetti perequativi/compensativi (né, in contrario, può essere sufficiente la riduttiva affermazione del YY, rinvenibile alla pag. 10 della sua memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ., secondo cui "nel caso de quo, non sussistono, in concreto elementi atti ad integrare l'assegno come misura 'compensativa', atteso che la sig.ra XX, come dalla stessa ammesso nel corso dell'istruttoria di primo grado, ha sempre pienamente perseguito la sua attività di insegnante sino al pensionamento, non avendola dovuta sacrificare per la cura della famiglia in quanto si avvaleva, grazie ai redditi congiunti dei due coniugi, dell'ausilio di una "domestica ad ore e babysitter".".); iii) ha seguito una concezione assolutistica ed astratta del criterio "adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi", solo apparentemente contestualizzandolo nella specifica vicenda coniugale. Invero, non si è dato conto dell'intera storia matrimoniale, né del nesso di causalità tra le scelte endofamiliari e la situazione della XX al momento dello scioglimento del vincolo coniugale, né, soprattutto, del contributo fornito da entrambi gli ex coniugi alla conduzione familiare e come esso abbia inciso sulla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due (dovendosi qui ribadire l'irrilevanza, in contrario, della già riportata, riduttiva, affermazione del YY, rinvenibile alla pag. 10 della sua memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ., nonché di quella, ulteriore, secondo cui "il reddito di YY, così come quello della sig.ra XX, era infatti integralmente destinato al soddisfacimento delle esigenze dei suoi quattro figli (due nati dal precedente matrimonio) ed al pagamento dei due mutui contratti per l'acquisto della casa coniugale.").". Quanto al terzo motivo di ricorso, e segnatamente in ordine al limite alla retroattività della statuizione modificativa od estintiva dell'obbligo di mantenimento alla espressa domanda di parte, la Suprema Corte ha osservato che "..la decisione del giudice relativa al contributo per il mantenimento del figlio a carico del genitore non affidatario o collocatario non ha effetti costitutivi, bensì meramente dichiarativi di un diritto che, nell'an, è direttamente connesso allo status genitoriale. Il diritto a percepirlo di un coniuge ed il corrispondente obbligo a versarlo dell'altro, nella misura e nei modi stabiliti dalla sentenza di divorzio, conservano la loro efficacia, sino a quando non intervenga la modifica di tale provvedimento, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui di fatto sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell'obbligo suddetto, sicché, in mancanza di specifiche disposizioni, in base ai principi generali relativi all'autorità, intangibilità e stabilità, per quanto temporalmente limitata (rebus sic stantibus), della precedente imposizione del contributo medesimo, la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza anticipata al momento dell'accadimento innovativo (come, invece, ha opinato la corte distrettuale), rispetto alla data della domanda di modificazione.". Ciò posto, la Corte ha accolto il terzo motivo di ricorso, nei limiti enunciati, rinviando a questa Corte di Appello, in diversa composizione, per il nuovo esame. 4.- XX ha quindi riassunto il giudizio dinanzi a questa Corte d'Appello di Bologna, con atto di citazione in appello in riassunzione, ex art. 392 cpc, della controparte per sentire accogliere le seguenti conclusioni: "Darsi atto che in forza di quanto stabilito dalla Corte Suprema di Cassazione con l'ordinanza n. ...del 22 gennaio 2021, depositata in cancelleria il 17 febbraio 2021, XX ha diritto a percepire da YY, così come già determinato dal Tribunale Civile di Modena con la sentenza del 19 marzo 2015, ed a far tempo dalla domanda (ottobre 2009), o comunque dalla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio (settembre 2011), un assegno mensile di divorzio nella misura di Euro 400,00, o in quella diversa maggiore o minore somma che la Corte d'Appello dovesse ritenere equa, con gli interessi di mora dalla decorrenza al saldo. Fissarsi la decorrenza della revoca dell'obbligo del contributo al mantenimento del padre per il figlio J alla data della domanda, e pertanto a giugno 2012. Condannare inoltre YY a restituire a XX le somme che essa ha dovuto pagare a seguito della sentenza della Corte d'Appello di Bologna del 10-30 giugno 2016, e precisamente a restituire Euro 15.410,50, con gli interessi dal pagamento al saldo. Condannare inoltre YY a pagare tutte le spese processuali relative ai giudizi definiti con sentenza del Tribunale di Modena nr. 498 del 21 gennaio-19 marzo 2015, con sentenza della Corte d'Appello di Bologna n. 1130 del 10-30 giugno 2016, nonché del giudizio di Cassazione definito con l'ordinanza n. 4224 del 22 gennaio-17 febbraio 2021, e del presente giudizio di rinvio.". 5.- Si è costituito nel presente giudizio di rinvio, contestando le pretese avversarie, il resistente il riassunzione, YY. Il YY ha, in particolare, evidenziato che la Corte di legittimità non avrebbe riconosciuto il diritto all'assegno divorzile in favore della ex coniuge, avendo piuttosto affidato alla Corte adita il compito di procedere al nuovo esame della domanda secondo i principi dettati dalle S.U. del 2018, e ha insistito nell'assenza dei presupposti richiesti ai fini del riconoscimento anzidetto, non essendo emerso alcuno squilibrio dalla comparazione delle risorse economiche dei due ex coniugi e non essendo stata accertata l'inadeguatezza dei mezzi della richiedente. L'appellato ha, poi, sottolineato che il concetto di "mezzi adeguati" comprenderebbe l'insieme di tutte le entrate e disponibilità suscettibili di valutazione economica, pertanto, i mezzi a disposizione della XX ammonterebbero ad una somma superiore ad Euro 27.000,00 annui, oltre il godimento in via esclusiva della casa familiare di cui sono proprietari per la quota di 1/2 ciascuno; che, nel caso di specie, l'assegno divorzile non assolverebbe una funzione compensativa, non avendo la richiedente sacrificato le proprie aspettative professionali ed avendo entrambi i coniugi contribuito alla vita familiare e alla formazione di un patrimonio comune senza accumulare risparmi personali, e che la ricorrente avrebbe chiesto solo nel presente giudizio la modifica in punto di decorrenza del riconoscimento dell'assegno, pertanto, tale domanda sarebbe inammissibile in quanto la mancata contestazione in appello avrebbe comportato una rinuncia. Il YY ha evidenziato che, nonostante il decreto del Tribunale di Modena del 21.5.2019 di revoca dell'assegnazione della casa familiare alla XX, quest'ultima continua a godere in via esclusiva di tale immobile senza versare alcuna indennità all'appellato, il quale corrisponderebbe un canone mensile al fratello nell'abitazione ove vive e non avrebbe la disponibilità economica per acquistare la quota della XX; gli ex coniugi non sarebbero, inoltre, riusciti a trovare un accordo sulla destinazione dell'immobile e sulla divisione del prezzo di vendita, costringendo parte appellata ad instaurare un giudizio per lo scioglimento della comunione tutt'ora pendente. Ha quindi chiesto il rigetto delle domande tutte svolte da XX nei propri confronti, non sussistendo i presupposti dell'assegno divorzile, e in ogni caso, in via subordinata, ha chiesto la riduzione dell'importo del predetto contributo richiesto da XX, da fissarsi nel minore importo che verrà ritenuto congruo e di giustizia. Quanto al figlio maggiorenne J, ha chiesto la declaratoria di revoca dell'obbligazione di YY a versare a XX il contributo per il mantenimento del figlio J abbia effetto dalla proposizione della domanda giudiziale da parte del sig. YY (giugno 2012), con conseguente obbligo della XX di restituire le somme a tale titolo incassate in eccesso sino all'ottobre 2013. 6.- Il Procuratore Generale è intervenuto in giudizio e ha chiesto l'accoglimento di quanto domandato dalla ricorrente in riassunzione. All'udienza del 27 maggio 2022, la Corte ha disposto l'acquisizione del fascicolo di ufficio del primo grado di giudizio e ha invitato le parti a produrre l'aggiornamento della documentazione reddituale e comunque relativa agli emolumenti percepiti. All'esito, all'udienza del 28 ottobre 2022, sono comparse le parti, le quali si sono riportate ai propri atti e la Corte ha trattenuto la causa in decisione. MOTIVI DELLA DECISIONE 7.- È appena il caso di osservare che in questa sede è demandato alla Corte d'Appello l'obbligo di attenersi alle statuizioni della Suprema Corte, la quale, nell'ordinanza che ha disposto il rinvio, ha accolto il primo motivo di ricorso, in quanto la sentenza impugnata si rivela non rispettosa dell'art. 5 comma 6 L. 898/1970, così come attualmente interpretato dalle Sezioni Unite, e il terzo motivo di ricorso, in quanto la decisione giudiziale di revisione dell'assegno di mantenimento non può avere decorrenza anticipata rispetto alla data della domanda di modificazione. 7.1- Sotto il primo profilo e dunque quanto alla spettanza dell'assegno divorzile in capo a XX, come già sopra ricordato, la Corte di Cassazione ha evidenziato l'erroneo percorso seguito in precedenza dall'organo giudicante di merito, fornendo così a questa Corte nel dettaglio le indicazioni per ricondurre la valutazione nell'ambito del corretto perimetro. Come sopra ricordato, è stato detto che la precedente decisione era, in particolare, "..non in linea con i riportati principi dettati dalla descritta statuizione della Sezioni Unite perché: i) quanto alla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, al fine di accertare l'inadeguatezza, o meno, dei mezzi della XX, o, comunque, l'impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, sostanzialmente, ha preteso la dimostrazione, da parte dell'odierna ricorrente, di un mutamento delle rispettive condizioni economiche degli ex coniugi (ed in particolare il peggioramento di quelle della odierna ricorrente) rispetto al momento della loro separazione personale, non richiesta, invece, tra i criteri di cui all'art. 5, comma 6, della legge n. 898/70 in relazione alla spettanza, o meno, dell'assegno divorzile; ii) ha mostrato, in questo modo, di valorizzare il solo criterio dell'autosufficienza economica, e, dunque, il carattere meramente assistenziale dell'assegno in questione, senza minimamente indagare gli ulteriori aspetti perequativi/compensativi (né, in contrario, può essere sufficiente la riduttiva affermazione del YY, rinvenibile alla pag. 10 della sua memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ., secondo cui "..nel caso de quo, non sussistono, in concreto elementi atti ad integrare l'assegno come misura 'compensativa', atteso che la sig.ra XX, come dalla stessa emesso nel corso dell'istruttoria di primo grado, ha sempre pienamente perseguito la sua attività di insegnante sino al pensionamento, non avendola dovuta sacrificare per la cura della famiglia in quanto si avvaleva, grazie ai redditi congiunti dei due coniugi, dell'ausilio di una 'domestica ad ore e babysitter'.".); iii) ha seguito una concezione assolutistica ed astratta del criterio "adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi", solo apparentemente contestualizzandolo nella specifica vicenda coniugale. Invero, non si è dato conto dell'intera storia matrimoniale, né del nesso di causalità tra le scelte endofamiliari e la situazione della XX al momento dello scioglimento del vincolo coniugale, né, soprattutto, del contributo fornito da entrambi gli ex coniugi alla conduzione familiare e come esso abbia inciso sulla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due.". In ossequio a quanto disposto dalla Suprema Corte, occorre preliminarmente evidenziare che non si può più discutere circa la pacifica irrilevanza in questa sede divorzile dell'eventuale rinuncia operata dalla XX all'assegno di mantenimento in sede di separazione e alla sua declaratoria di autosufficienza in quel giudizio, dal momento che, come noto e ribadito dalla Corte, l'assegno divorzile presenta una natura giuridica e presupposti differenti rispetto a quelli dell'assegno di mantenimento, poiché si fonda sul principio della solidarietà post coniugale e "..il parametro sulla base del quale deve essere fondato l'accertamento del diritto ha natura composita, dovendo l'inadeguatezza dei mezzi o l'incapacità di procurarli per ragioni oggettive essere desunta dalla valutazione del tutto equiordinata degli indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, in quanto rivelatori della declinazione del principio di solidarietà, posto a base del giudizio relativistico e comparativo di adeguatezza ... l'adeguatezza assume un contenuto prevalentemente perequativo-compensativo che non può limitarsi né a quello strettamente assistenziale né a quello dettato dal raffronto oggettivo delle condizioni economico patrimoniali delle parti. Solo così viene in luce, in particolare, il valore assiologico, ampiamente sottolineato dalla dottrina, del principio di pari dignità che è alla base del principio solidaristico anche in relazione agli illustrati principi CEDU, dovendo procedersi all'effettiva valutazione del contributo fornito dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune e alla formazione del profilo economico patrimoniale dell'altra parte, anche in relazione alle potenzialità future. La natura e l'entità del sopraindicato contributo è frutto delle decisioni comuni, adottate in sede di costruzione della comunità familiare, riguardanti i ruoli endofamiliari in relazione all'assolvimento dei doveri indicati nell'art. 143 c.c. Tali decisioni costituiscono l'espressione tipica dell'autodeterminazione e dell'autoresponsabilità sulla base delle quali si fonda, ex artt. 2 e 29 Cost. la scelta di unirsi e di sciogliersi dal matrimonio.". Dovendosi procedere al nuovo esame della domanda di assegno divorzile alla luce della nuova interpretazione dell'art. 5 comma 6 L. 898/1970 espressa dalla nota sentenza a Sezioni Unite dell'11 luglio 2018, n. 18287, occorre allora tener debitamente conto non solo della natura assistenziale ma anche di quella compensativa-perequativa dell'assegno in questione, e valutare la reciproca condizione di autosufficienza dei coniugi compiendo un'opera di ponderazione unitaria e concreta di tutti i criteri equiordinati previsti dall'art. 5 co. 6 L. 898/70 Non v'è dubbio, peraltro, che sia comunque necessario, anche in questa sede, prendere le mosse dalla comparazione fra le condizioni economico reddituali delle parti al fine della preliminare verifica delle condizioni indicate dal suddetto art. 5. La lettura della documentazione in atti, finalmente integrata dalle parti a seguito dell'ordine disposto da questa Corte, consente di ritenere che il YY è sempre stato ed è effettivamente ancora oggi titolare di beni e redditi superiori a quelli della ex moglie. Ripercorrendo a ritroso le indicazioni di cui alle note autorizzate depositate rispettivamente il 13 e il 15 settembre 2021 (e i modelli 730 allegati) si evince che YY ha denunciato nel 2022 (con riguardo all'anno fiscale 2021) un reddito complessivo di 32.487,00 (detratte imposta netta e addizionali regionali e comunali 25.228,00), analogamente alle annualità precedenti (730/2021: 32.462,00; 730/2021: idem; 730/2019: 32.225,00; 730/2018: 31.987,00; 730/2017: 29.077,00. Considerando l'imposta netta e le addizionali l'importo complessivo netto si aggira sempre fra i 24.000,00 e i 25.000,00 euro annui). XX, invece ha denunciato importi, al netto delle imposte, non superiori a 14.234,00 euro (730/2022, relativo ai redditi 2021: al netto delle imposte e addizionali euro 14.234,00 e importi del tutto analoghi nelle annualità precedenti, salvo quanto al 730/2018, nel quale il reddito complessivo denunciato è di 14.926,00 con reddito netto 13.896,00 e l'anno 730/2017 in cui il reddito complessivo netto è 18.771,00) E' quindi evidente la discrepanza fra i redditi (da pensione) percepiti da entrambe le parti: mentre YY può contare su una pensione di circa 2.100,00 euro mensili, la XX ha una pensione come insegnante di circa 1.118,00 euro mensili. YY, inoltre, è proprietario per metà della casa familiare e per intero di altro immobile dato in locazione, in relazione al quale non ha mai fornito documentazione, ma che in alcune pregresse dichiarazioni dei redditi risulta per via dell'indicazione dell'imposta cedolare secca (v.730 relativo agli anni 2013 e 2014 pare indicato il canone di locazione percepito, ossia Euro 5.641,00 nel 2013 ed Euro 3.249,00 nel 2014). Dalla documentazione fiscale da ultimo prodotta il 13 settembre 2022 nulla risulta; tuttavia, è lo stesso resistente a dichiarare nelle note di accompagnamento in tale data, di percepire, oltre agli importi reddituali sopra menzionati, anche Euro 5.584,00 per canoni di locazione netti (Euro 6.204,00 per canoni di locazione imponibili tassati con cedolare secca quindi detratti Euro 620,00), e tale importo quanto meno nelle annualità relative al 2022, 2021, 2020, 2019. Se ne desume che attualmente il YY percepisce annualmente almeno 30.812,00 euro netti all'anno, ossia euro 2.567,66 mensili. Egli inoltre non ha in alcun modo dimostrato nel corso degli anni del presente giudizio (instaurato dinanzi al Tribunale di Modena nel 2009), nonostante le contestazioni della controparte circa l'assunto di tale onerosità, di dover pagare al fratello un canone per l'appartamento che questi gli ha messo a disposizione; né ha mai dimostrato di dover provvedere al mantenimento dell'attuale compagna di nazionalità russa (che egli in sede presidenziale ha dichiarato essere docente universitaria in pensione) e tanto meno ha offerto elemento di prova alcuna circa il TFR percepito con il pensionamento, avvenuto proprio in concomitanza della separazione e che - tenuto conto degli anni di lavoro svolto e della buona retribuzione percepita - si può presumere abbia costituito un ottimo supporto nell'assolvimento degli obblighi di mantenimento della prole e per se stesso. Vero è che XX, a causa della sua cecità percepisce un'indennità di accompagnamento che negli ultimi anni è variata dai 14.000,00 euro annuali circa (2016, 2019, 2020) a 9.700,00 euro nel 2017 (11.375,16 nel 2018) attestandosi nel 2021 sui 12.303,35 euro. Tale emolumento, peraltro, a prescindere dalla sua non assoggettabilità a imposte (che è irrilevante ai fini che ci occupano) e pur dovendo essere tenuto presente, per un'adeguata valutazione delle risorse di chi lo percepisce per far fronte alle proprie esigenze, non è certo equiparabile ad un reddito, essendo finalizzato per sua natura alle particolari esigenze, appunto "di accompagnamento", della persona affetta da gravi patologie (nel caso di specie appunto la cecità). Il fatto che la ricorrente non abbia dimostrato di aver assunto una persona di supporto a tempo pieno (fermo restando che nel corso dell'istruttoria del 2010 e i testi C. F., E. Z. e G. L., come pure la figlia W hanno confermato che ella si avvaleva dell'aiuto di una persona sia pure non a tempo pieno, non potendo sostenere un onere maggiore, ma avendo necessità tutti i giorni, ricorrendo per il resto all'aiuto di conoscenti) va oggi valutato anche in considerazione del tempo trascorso e dell'età della XX, la quale ha ora 71 anni: ben si può e si deve presumere che le sue esigenze di assistenza siano e diverranno sempre maggiori. Per quanto sopra detto la sperequazione dei redditi tra le parti deve ritenersi senza dubbio significativa e ulteriore rispetto alla semplice differenza di circa 500 euro (riferibili al canone di locazione ammesso) fra le rispettive pensioni e indennità delle parti. Non solo: deve inoltre rilevarsi che la ricorrente in riassunzione vive ancora attualmente nella casa familiare di cui è comproprietaria al 50% e che le era stata assegnata in quanto vi abitava insieme ai figli fino alla loro autosufficienza. Ora l'assegnazione è stata revocata (con decreto in data 17 aprile -21 maggio 2019) e l'ex marito ha instaurato un giudizio di divisione tuttora pendente, nel quale ha chiesto altresì l'indennità di occupazione. La XX dovrà quindi a breve procurarsi un altro alloggio per il quale dovrà pagare un canone o comunque dovrà corrispondere un indennizzo per l'occupazione della quota d'immobile di pertinenza del YY, con evidente aggravamento della propria condizione economico-reddituale. Altri elementi devono poi essere considerati ai fini della valutazione della sussistenza del diritto all'assegno divorzile in capo a XX. Come ha evidenziato la Suprema Corte nella decisione che ha disposto il rinvio, a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite, l'assegno divorzile non assume più una mera natura assistenziale bensì una natura composita, assistenziale, perequativa-compensativa e risarcitoria, ed impone al giudice una valutazione e quantificazione che tenga conto dell'intera storia coniugale, del contributo apportato dal coniuge alla realizzazione della vita familiare, della durata del matrimonio e della prognosi futura in base alle condizioni dell'avente diritto. In particolare, la riconosciuta natura perequativa-compensativa comporta un accertamento rigoroso di tali aspetti e del nesso di causalità tra le scelte endofamiliari assunte e la situazione dell'avente diritto al momento dello scioglimento del vincolo coniugale, dovendosi abbandonare il criterio della adeguatezza o inadeguatezza dei mezzi radicata sul tenore di vita. In concreto si osserva che, una volta verificata la sussistenza di uno squilibrio economico-patrimoniale tra le parti, deve indagarsi in ordine al profilo compensativo-perequativo, e al contributo apportato dalla moglie alla realizzazione della vita familiare, della durata del matrimonio, sempre effettuando una valutazione prognostica futura in base alle condizioni dell'avente diritto. Ebbene, è inequivocabilmente emerso dalle prove e da quanto detto dalla figlia W l'apporto della XX alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio comune e di quello personale del coniuge: la stessa ha difatti lavorato come insegnante e si è sempre dedicata alla cura e gestione dei propri figli e della casa, destinando tutte le proprie energie ed attenzioni alla famiglia ed al coniuge tanto che lo stesso appellato ha evidenziato in termini critici e negativi che la XX attendesse il sabato per fare le spese, tuttavia, tale circostanza testimonia il fatto che l'appellata dedicasse ed organizzasse tutto il proprio tempo per la conduzione del ménage familiare. Di non poco significato è poi quanto emerso dall'istruttoria svolta in primo grado, circa il contributo fornito dalla appellata nella gestione degli altri figli del YY (avuti da una precedente unione), i quali trascorrevano regolarmente con la nuova famiglia del padre periodi di tempo "ordinario" e di vacanza, sicché il supporto della XX nei confronti del marito e della complessiva organizzazione familiare è stato sia dal punto di vista affettivo che materiale e il contributo fattivo fornito dall'appellante e che tale contributo deve essere compensato, anche tenuto conto della durata di 21 anni dell'unione matrimoniale (considerando la data del decreto di omologa della separazione). Venendo al quantum dell'assegno si deve ter conto degli indici di cui all'art. 5 l. div. ora richiamati e alla condizione e all'età dell'appellata e delle sue potenzialità future (ormai, per quanto sopra venute meno). Peraltro, come già sopra detto, non può ignorarsi che XX per le esigenze di accompagnamento e di accudimento della propria persona gode di una specifica indennità: va detto che tale indennità non può peraltro soddisfare le finalità perequative e compensative proprie dell'assegno divorzile, che va quindi riconosciuto, nella misura reputata congrua di 300 euro mensili. Nessuna duplicazione, quindi va riconosciuta in favore della XX, stanti le diverse finalità delle due corresponsioni (indennità di accompagnamento e assegno divorzile). Né tale riconoscimento comporta un detrimento a carico di YY. Infatti, ipotizzando con un importo di tale misura, aggiunto a quello di 1.186,16 (mensilità della pensione complessiva netta quale insegnante percepita dalla donna nell'ultimo anno) la ricorrente, la quale vive sola, verrebbe a fruire di un importo mensile di circa 1.486,16 euro, con il quale provvedere alle spese abitative (oltre che alle utenze quelle del futuro canone di locazione per il quale l'importo di 300 euro mensili difficilmente può bastare), alimentari e delle ordinarie esigenze di vita, potendo utilizzare per le specifiche necessità di accompagnamento e di cura della persona l'indennità di accompagnamento di circa 1.000 euro mensili. Al YY, rimarrebbero circa 2.300,00 euro mensili nette (sempre ipotizzando che il canone di locazione da questi percepito per la locazione dell'immobile di sua proprietà sia effettivamente soltanto di 500 euro mensili, come ammesso, non avendo egli fornito alcuna documentazione al riguardo), ampiamente congrui per le esigenze di una persona (per quanto noto in salute) e che vive gratuitamente in un alloggio unitamente all'attuale compagna, anch'ella pensionata, con la quale verosimilmente condivide le spese. Tale importo, annualmente rivalutabile secondo gli indici ISTAT dei prezzi medi al consumo per le famiglie degli operai e impiegati, spetta alla ricorrente con la medesima decorrenza stabilita nella sentenza impugnata (24 ottobre 2013), non essendo stata tale decorrenza impugnata a suo tempo dalla XX. 7.2- Nulla quaestio, invece, in punto di decorrenza della revoca del contributo al mantenimento del figlio J in capo al padre. La Corte di Cassazione al riguardo ha affermato che il diritto al contributo di mantenimento e il corrispondente obbligo di versarlo "..conservano la loro efficacia, sino a quando non intervenga la modifica di tale provvedimento, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui di fatto sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell'obbligo suddetto, sicché, in mancanza di specifiche disposizioni, in base ai principi generali relativi all'autorità, intangibilità e stabilità, per quanto temporalmente limitata (rebus sic stantibus), della precedente imposizione del contributo medesimo, la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza anticipata al momento dell'accadimento innovativo (come, invece, ha opinato la corte distrettuale), rispetto alla data della domanda di modificazione.". In aggiunta a ciò la Corte ha precisato che "..allorquando si discuta - come nel caso in esame - del momento estintivo di un siffatto obbligo di cui precedentemente sia stata accertata l'esistenza, il limite alla retroattività della statuizione è costituito dall'espressa domanda di parte.". Entrambe le parti hanno chiesto, in conformità con tale statuizione, che la sentenza del Tribunale di Modena sia riformata nel senso della decorrenza della revoca dalla data del 28 giugno 2012, quando - nel corso del giudizio di primo grado - è stata depositata l'istanza del YY di revoca del contributo al mantenimento del figlio J. Premesso quindi che non è più in discussione che J abbia raggiunto l'indipendenza economica a tale data e neppure che già dal 1° dicembre 2011, J si era trasferito a Parigi per un dottorato di ricerca triennale che gli assicurava Euro 1.600,00 mensili; che era stato raggiunto a Parigi dalla fidanzata, con la quale ha formato un proprio nucleo e che ha in seguito sposato, deve ritenersi pacifico che dall'epoca della domanda (28 giugno 2012) fino all'ottobre 2013 (data individuata dal Tribunale per la decorrenza della revoca dell'obbligo di mantenimento in capo al padre) le somme eventualmente versate dal YY alla XX non sono state effettivamente deputate ad assolvere un obbligo alimentare. Ben può applicarsi pertanto il principio secondo il quale l'irripetibilità delle somme versate dal genitore obbligato all'ex coniuge si giustifica solo ove gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, che non ricorre ove ne abbiano beneficiato figli maggiorenni ormai indipendenti economicamente in un periodo in cui era noto il rischio restitutorio (Cass. n. 11489 del 2014; nel senso che il principio di irripetibilità delle somme versate, in caso di revoca giudiziale dell'assegno di mantenimento, non trova applicazione in assenza del dovere di mantenimento medesimo, cfr. Cass. n. 21675 del 2012) (Cass, I Sez. Civ., Ordinanza 29 novembre 2019 - 13 febbraio 2020, n. 3659): gli importi eventualmente versati a tale titolo dal luglio 2012 all'ottobre 2013 devono quindi essere restituiti. 8.- La riforma - anche se parziale - della decisione impugnata determina l'obbligo del giudice di appello di procedere di ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, alla stregua dell'esito finale della lite. Nella fattispecie, inoltre, a questa Corte d'Appello è demandata la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, come disposto dalla Suprema Corte della sentenza 4224/2021, mentre quelle del primo giudizio d'appello, conclusosi con la sentenza cassata, seguono la sorte della decisione e devono ritenersi non dovute e da restituire alla parte soccombente che le abbia in concreto rifuse in virtù della decisione posta nel nulla. Nel caso di specie l'accoglimento della domanda di assegno divorzile per un importo di 300 euro mensili, anche se quantificato in misura inferiore a quanto inizialmente richiesto in primo grado (500 euro aumentabile a 700 euro) e a quanto disposto con la sentenza impugnata (400 euro), importo al quale la XX ha prestato acquiescenza in appello avendo chiesto la conferma della decisione impugnata da controparte, consente di ritenere prevalentemente soccombente il YY. Peraltro, la suddetta riduzione nel "quantum" richiesto dell'assegno divorzile, il mutato orientamento giurisprudenziale in materia di assegno divorzile intervenuto in corso di causa, la revoca del contributo al mantenimento del figlio maggiorenne J con decorrenza diversa da quella proposta da ciascuna delle parti, consentono di ritenere equa la parziale compensazione delle spese di lite - in misura della metà - di tutti i gradi di giudizio. Tali spese sono liquidate, ai sensi del DM 147/2022, trattandosi di prestazioni professionali esaurite successivamente al 23 ottobre 2022 con riferimento ai valori medio-bassi (e con esclusione dei compensi per la fase istruttoria e di trattazione nel presente giudizio dinanzi alla Corte d'Appello, in quanto non svoltasi), valore indeterminato basso, per l'intero come segue: - quanto al primo grado di giudizio come da sentenza impugnata (5.000 euro di cui euro 300 per spese) oltre accessori (art. 2 DM); - quanto al primo giudizio d'appello in complessivi 6.000,00 euro per compensi (art. 12 DM); - quanto al giudizio in Cassazione in complessivi euro 6.000,00 per compensi (art. 13 DM); - quanto al presente giudizio di rinvio in complessivi euro 6.000,00 per compensi (art 12 DM) 9.- Il parziale accoglimento del gravame comporta l'insussistenza dei presupposti processuali di cui all'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello proposto da YY nei confronti di XX avverso la sentenza n 1130/2016 del Tribunale di Modena, nel giudizio di rinvio disposto dalla Suprema Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile n. 4224/2021, così provvede: 1) in parziale riforma della decisione impugnata determina l'assegno divorzile dovuto da YY in favore di XX in misura di 300,00 euro mensili, annualmente rivalutabili secondo gli indici ISTAT dei prezzi medi al consumo per le famiglie degli operai ed impiegati; 2) fissa al 28/06/2021 (anziché al 24 ottobre 2013) la decorrenza della cessazione dell'obbligazione paterna di contribuire al mantenimento del figlio J; 3) condanna YY a rifondere a XX la metà delle spese di lite sostenute in primo grado, nel giudizio di legittimità, nel presente giudizio di rinvio, così liquidate per l'intero: - euro 5.000 (di cui euro 400 per spese), oltre a IVA e c.p.a. come per legge; - euro 6.000 per compensi, oltre a spese forfettarie e accessori di legge, quanto al primo giudizio d'appello; - euro 6.000 per compensi, oltre a spese forfettarie e accessori di legge, quanto al giudizio di legittimità; - euro 6.000 per compensi, oltre a spese forfettarie e accessori di legge, quanto al presente giudizio di rinvio. Compensa la restante metà. Così deciso in Bologna, nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 28 ottobre 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI ROMA SEZIONE LAVORO E PREVIDENZA composto dai Sigg. Magistrati: dott.ssa Vittoria Di Sario - Presidente dott. Vincenzo Selmi - Consigliere rel. dott. Vito Riccardo Cervelli - Consigliere all'esito dell'udienza del 19.1.2023 ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 2706 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2021 vertente TRA T.L., rappresentata e difesa, giusta procura in atti, dall'avvocato Fe.Lu. ed elettivamente domiciliata presso il suo studio sito in Roma, piazza (...) -APPELLANTE - E I.N.P.S., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso, in virtù di procura generale, dall'avvocato Es.Sc. ed elettivamente domiciliato presso la sede dell'istituto in Roma, via (...) -APPELLATO- OGGETTO: appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 2762 pubblicata in data 23.3.2021 RAGIONI DELLA DECISIONE Con la sentenza impugnata il Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, in parziale accoglimento del ricorso presentato da (...), dichiarava la non ripetibilità dell'indebito assistenziale comunicato alla suddetta ricorrente con nota del 20/1/2020 dichiarando la parziale ripetibilità nei confronti della stessa dell'indebito comunicato con missiva del 13/7/2020 per Euro 5.471,82 limitatamente alla sua quota ereditaria. Avverso tale sentenza (...) presentava appello fondato su un unico e articolato motivo. L'Inps si costituiva in giudizio resistendo all'accoglimento del gravame. All'odierna udienza, la causa è stata decisa come da separato dispositivo. (...), premesso di essere madre di tre figli e vedova di (...), deceduto il 13/10/2015 e già titolare di trattamento assistenziale, aveva agito in giudizio impugnando: - la nota Inps del 20/1/2020 con il quale le era stato comunicato un indebito di Euro 4.767,59 in relazione ai ratei di pensione indebitamente erogati al defunto coniuge (...) per il periodo dal 1/1/2009 al 30/11/2011 e non spettanti per motivi reddituali; - la nota Inps del 13/7/2020 con la quale le era stato comunicato un indebito di Euro 5.471,83 in relazione ai ratei di pensione indebitamente erogati al defunto coniuge nel periodo dal 1/1/2012 al 30/11/2013 e ritenuti non spettanti anche in questo caso per motivi reddituali. Eccepiva la parziale prescrizione del diritto al recupero in relazione alle somme pretese per il periodo antecedente al l/1/2010 e comunque l'irripetibilità dell'indebito. Contestava la genericità dei provvedimenti impugnati e la parziarietà della obbligazione, sussistendo altri tre coeredi (i figli minori del defunto (...)). Il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda. Affermava, alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità ed enunciati nella parte motiva della gravata sentenza, la "ripetibilità, con riferimento alle ipotesi di indebito riferibile a prestazione assistenziale, dei soli ratei di prestazione eventualmente erogati dopo il provvedimento che accerta il venir meno delle condizioni di legge salvo il caso in cui la buona fede e l'affidamento dell'assistito, alla cui tutela sono preposte le norme limitative della ripetibilità dell'indebito, debbano senz'altro essere escluse, in ragione, ad esempio, del dolo dell'accipiens o della radicale incompatibilità del beneficio con le esigenze assistenziali ovvero allorquando l'incremento reddituale sia talmente significativo da rendere inequivocabile il venir meno del beneficio" rilevando altresì come tale situazione non possa ritenersi configurabile "in base alla mera omissione di comunicazione di dati reddituali che l'istituto previdenziale già conosce o all'onere di conoscere". Escludeva, sulla base di tali premesse, la ricorrenza nel caso di specie di una ipotesi di dolo idonea a far ritenere operante la regola generale della ripetibilità ex art. 2033 c.c. (in luogo di quella limitata ai ratei eventualmente erogati dopo la comunicazione della riliquidazione della prestazione per motivi reddituali) rilevando come dall'estratto contributivo prodotto dall'Inps emergesse che il reddito che aveva determinato, nel periodo dal giugno 2010 a novembre 2013, il superamento del limite reddituale era stato percepito dal defunto (...) nella qualità di lavoratore dipendente pubblico, redditi quindi perfettamente conoscibili dall'istituto mediante l'accesso al casellario dell'assistenza. Rilevava conseguentemente l'irripetibilità delle somme oggetto del primo indebito comunicato nel novembre 2011 (trattandosi di dati erogati anteriormente al provvedimento di riliquidazione che aveva accertato l'insussistenza del requisito reddituale) ritenendo invece ripetibile l'indebito di Euro 5.471,82 relativo al periodo dal 1/1/2012 al novembre 2013 in quanto relativo a ratei di prestazione erogati successivamente al suddetto Provv. del novembre 2011. Respingeva in relazione a tali ratei anche l'eccezione di prescrizione per mancata decorrenza alla data di comunicazione dell'indebito del termine decennale applicabile. Limitava tale indebito alla sola quota gravante sulla (...) quale coerede in concorrenza con i tre figli minori. Con quello che costituisce un unico e articolato motivo l'appellante contesta la gravata sentenza nella parte in cui aveva ritenuto la ripetibilità, sia pure parziale, dell'indebito oggetto della nota Inps del 13/7/2020. Contesta in particolare quanto affermato dal giudice di prime cure in ordine all'essere i ratei oggetto di tale nota, relativi al periodo 1/2012-11/2013, erogati solo successivamente al provvedimento di riliquidazione con accertamento del venir meno del requisito reddituale, atteso che alcun provvedimento di riliquidazione delle somme dovute e di contestazione dell'indebito relativo a tale lasso temporale le era pervenuto anteriormente alla percezione di tali ratei. Evidenziava in particolare come il pregresso provvedimento Inps del 27/11/2011 menzionato in sentenza avesse ad oggetto le rate indebitamente percepite negli anni 2010 e 2011 sostenendo altresì che il perdurare del pagamento della prestazione assistenziale successivamente alla prima contestazione dell'indebito avrebbe creato in suo capo il ragionevole affidamento in ordine alla correttezza della successiva dell'erogazione della prestazione assistenziale oggetto di recupero. Si osserva che, in mancanza di impugnazione, risulta essersi formato il giudicato interno tanto in ordine alla irripetibilità dell'indebito oggetto della comunicazione Inps del 20/1/2020 che in ordine alla solo parziale ripetibilità (limitatamente alla quota ereditaria della odierna appellante) dell'indebito oggetto della successiva comunicazione Inps del 13/7/2020. Il residuo oggetto del contendere nella presente fase di appello è pertanto costituito esclusivamente, dalla ripetibilità dei ratei oggetto di tale ultima comunicazione Inps limitatamente alla quota ereditaria della (...). Si osserva che, così come risulta dalla documentazione prodotta in atti e dal complesso delle allegazioni dell'ente resistente (non contestate in ordine a tali specifici punti), tale indebito risulta conseguente al superamento dei limiti reddituali di legge ed alla conseguente revoca, per il periodo dal 1/1/2012 al 30/11/2013, della pensione assistenziale originariamente fruita dal defunto coniuge dell'appellante, (...). Dalle dichiarazioni fiscali, infatti, è emerso che il sig. (...) ha avuto redditi da lavoro dipendente pari per il 2009 a Euro 15.260, per il 2010 a Euro 15.030, per il 2011 a Euro 17.278 e per il 2012 a Euro 20.565, redditi che risultano essere stati pacificamente dichiarati dal defunto (...) all'amministrazione finanziaria (il superamento di tali limiti reddituali, in relazione alla prestazione assistenziale oggetto di controversia, con riferimento a tale lasso di tempo, non risulta di per sé contestata). Tanto premesso si ritiene che l'appello sia fondato. Si ribadiscono i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità (enunciati anche dal giudice di prime cure a fondamento della sua decisione) alla cui stregua in tema di indebito assistenziale, in luogo della generale ed incondizionata regola civilistica della ripetibilità, trova applicazione, in armonia con l'art. 38 Cost., quella propria di tale sottosistema, che esclude la ripetizione, quando vi sia una situazione idonea a generare affidamento del percettore e la erogazione indebita non gli sia addebitabile. Ne consegue che l'indebito assistenziale, per carenza dei requisiti reddituali, abilita alla restituzione solo a far tempo dal provvedimento di accertamento del venir meno dei presupposti, salvo che il percipiente non versi in dolo, situazione comunque non configurabile in base alla mera omissione di comunicazione di dati reddituali che l'istituto previdenziale già conosce o ha l'onere di conoscere (Cass. n. 13223 del 30/06/2020. Nello stesso senso Cass. n. 13915 del 20/05/2021). Ha in particolare affermato la SC che" se è vero che, come sostiene l'INPS, in materia di indebito assistenziale non si applichi la disciplina dell'art.13 L. n. 412 del 1991 che si riferisce all'indebito previdenziale non è men vero tuttavia che nel settore non si applichi nemmeno il principio generale di ripetizione dell'indebito stabilito dall'art. 2033 c.c. ed invocato dall'Istituto. 4. Vanno bensì applicati i principi di settore, propri dell'indebito assistenziale, per come ricostruiti dalla giurisprudenza di questa Corte la quale ha individuato, in relazione alle singole e diversificate fattispecie esaminate, una articolata disciplina che distingue vari casi, a seconda che il pagamento non dovuto afferisca, volta per volta, alla mancanza dei requisiti reddituali, di quelli sanitari, di quelli socio economici (incollocazione o disoccupazione) o a questioni di altra natura (come ad es. l'esistenza di ricovero ospedaliero gratuito nel caso dell'indennità di accompagnamento). 5.- In termini generali, questa Corte ha sempre precisato (fin dalla sentenza n. 1446/2008 est. (...), v. pure n. 11921/2015) che "nel settore della previdenza e dell'assistenza obbligatorie si è affermato, ed è venuto via via consolidandosi, un principio di settore secondo il quale, in luogo della generale regola codicistica di incondizionata ripetibilità dell'indebito, trova applicazione la regola, propria di tale sottosistema, che esclude viceversa la ripetizione in presenza di situazioni di fatto variamente articolate, ma comunque avente generalmente come minimo comune denominatore la non addebitabilità al percepiente della erogazione non dovuta ed una situazione idonea a generare affidamento". 6.- Sulla esistenza di questo principio si è appoggiata anche la giurisprudenza della Corte Cost. in materia di indebito assistenziale allorchè pur affermando - ordinanze n. 264/2004 e n. 448/2000 - che non sussiste un'esigenza costituzionale che imponga per l'indebito previdenziale e per quello assistenziale un'identica disciplina, ha ritenuto che operi anche "in questa materia un principio di settore, onde la regolamentazione della ripetizione dell'indebito è tendenzialmente sottratta a quella generale del codice civile" (ord. n. 264/2004). 7.- Al riguardo la Corte Cost. ha pure evidenziato che il canone dell'art. 38 Cost., appresta al descritto principio di settore una garanzia costituzionale in funzione della soddisfazione di essenzialiesigenze di vita della parte più debole del rapporto obbligatorio, che verrebbero ad essere contraddette dalla indiscriminata ripetizione di prestazioni naturaliter già consumate in correlazione - e nei limiti - della loro destinazione alimentare (C. cost. n. 39 del 1993; n. 431 del 1993) ... Va pertanto affermato che secondo le ragioni fin qui precisate le prestazioni erogate alla pensionata non fossero ripetibili fino al provvedimento che ha accertato l'indebito dovendosi tutelare l'affidamento dell'accipiens, non potendosi applicare l'art. 2033 c.c. e non sussistendo nessuna allegazione in relazione al dolo comprovato, il quale non è comunque configurabile 'dalla mera omissione di comunicazione di dati reddituali che l'INPS già conosce o ha l'onere di conoscere" (Cass. n. 13223/2020 cit.). Sicché la regola che ne deriva è quella per cui l'indebito assistenziale, in mancanza di norme specifiche che dispongano diversamente, è ripetibile solo successivamente al momento in cui intervenga il provvedimento che accerta il venir meno delle condizioni di legge e ciò a meno che non ricorrano ipotesi che a priori escludano un qualsivoglia affidamento, come nel caso di erogazione di prestazione a chi non sia parte di alcun rapporto assistenziale, né ne abbia mai fatto richiesta (Cass. 23 agosto 2003, n. 12406), nel caso di radicale incompatibilità tra beneficio ed esigenze assistenziali (Cass. 5 marzo 2018, n. 5059, riguardante un caso di erogazione dell'indennità di accompagnamento in difetto del requisito del mancato ricovero dell'assistibile in istituto di cura a carico dell'erario) o in caso di dolo comprovato dell'accipiens (in tal senso Cass. n. 28771 del 09/11/2018). Tanto premesso ritiene il Collegio che le conclusioni raggiunte dal giudice di prime cure in ordine alla ripetibilità dell'indebito oggetto della lettera del 13/7/2020, non siano meritevoli di conferma. Si osserva infatti che, così come rilevato dall'appellante, la comunicazione del 28/10/2011 comunicata al defunto (...) mezzo di lettera raccomandata e ricevuta da quest'ultima in data 22/11/2011 (all.ti 3 e 4 della comparsa di costituzione di primo grado in primo grado), faceva riferimento alla comunicazione reddituale per l'anno 2009, provvedendo, sulla base di essa, a ridurre l'importo della pensione dovuta al suddetto assistito a decorrere dal dicembre 2011 e ad accertare la formazione dell'indebito solo con riferimento agli anni 2010 e 2011. Trattasi di provvedimento inidoneo a determinare, alla stregua dei principi giurisprudenziali precedentemente enunciati, il venir meno del legittimo affidamento dell'assistito in ordine alla legittimità della percezione della prestazione assistenziale anche per il successivo periodo dal 1/1/2012 al 30/11/2013 oggetto della nota di indebito del 13/7/2020, indebito quest'ultimo che risulta essere stato comunicato al (...) solo con la nota del 6/11/2013, ricevuta da quest'ultimo in data 22/11/2013 (all.ti 5 e 6 della comparsa di costituzione di primo grado dell'Inps), con la quale era stata accertata la formazione dell'indebito relativamente agli anni 2012 e 2013. Ne consegue l'irripetibilità, alla stregua dei principi giurisprudenziali precedentemente enunciati, anche di tale indebito in quanto relativo a ratei percepiti in data anteriore alla comunicazione di tale nota. In accoglimento dell'appello, e in parziale riforma della gravata sentenza nel resto confermata, dovrà pertanto dichiararsi integralmente non dovuta dall'appellante la somma di Euro 5.471,82 di cui alla nota INPS in data 13/7/2020. La regolamentazione delle spese di lite liquidate come in dispositivo, la soccombenza. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando, in accoglimento dell'appello e in parziale riforma della gravata sentenza nel resto confermata, dichiara non dovuta dall'appellante la somma di Euro 5.471,82 di cui alla nota INPS in data 13/7/2020. Condanna l'Inps al pagamento delle spese di entrambi i gradi di lite che liquida in Euro 1.865 per il primo grado ed in Euro 962 e per il presente grado di appello. In entrambi i casi oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, Iva e Cpa come per legge. Spese da distrarsi ex art. 93 c.p.c.. Così deciso in Roma il 19 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 26 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D'APPELLO DI MESSINA SEZIONE LAVORO La Corte d'Appello di Messina, composta dai Signori Magistrati: 1) dott. B. Catarsini - Presidente 2) dott. C. Zappalà - Consigliere 3) dott. A. Santalucia - Consigliere rel In esito alla scadenza del termine per note fissato per il 19/1/2023, sciogliendo la riserva, ha emesso la presente SENTENZA nella causa vertente tra ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dall'avv. M.Ca. appellante CONTRO (...), nato a (...) il (...) ed ivi residente in Contrada C., C. A., Pal. F2 cod. fisc. (...), elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. Gi.Tr. che lo rappresenta e difende per procura in atti appellato-appellante incidentale OGGETTO: indennità di accompagnamento SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO E CONCLUSIONI DELLE PARTI Con ricorso depositato l'11/12/2020, (...) adiva il giudice del lavoro del Tribunale di Messina, esponendo che, in esito all'accertamento tecnico preventivo obbligatorio promosso ai sensi dell'articolo 445 bis c.p.c., gli era stato riconosciuto, con decreto di omologa del 27/1/2020, il requisito sanitario utile ai fini dell'indennità di accompagnamento. Lamentava che l'Inps non aveva liquidato detti benefici, eccependo la decadenza dell'azione giudiziaria ed invocava, pertanto, la relativa condanna al pagamento dell'indennità di accompagnamento con decorrenza dal 29/4/2014, data della domanda amministrativa. Si costituiva l'Inps, insistendo per il rigetto del ricorso, attesa la maturata decadenza dall'azione. Il Tribunale con la sentenza n. 815/21 accoglieva la domanda, dichiarando il diritto della ricorrente al conseguimento dell'indennità di accompagnamento con condanna dell'Inps a corrispondere i ratei dal 29.4.2014, con rivalutazione e interessi legali nei limiti e termini di cui alla L. n. 412 del 1991. Richiamando quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 20847 del 2/8/2019, rilevava risolutivamente che l'Inps avrebbe dovuto far valere le doglianze proposte con la presente comparsa di costituzione, nell'ambito del procedimento per ATP, formulando espressa dichiarazione di dissenso, da ritenersi ormai pacificamente ammissibile anche per ragioni diverse dal profilo strettamente sanitario dell'accertamento. Con ricorso del 26/8/2001 l'INPS proponeva appello, contestando la valutazione del giudice di prime cure. Evidenziava che la possibilità di far valere con la dichiarazione di dissenso contestazioni relative ai presupposti processuali e condizioni dell'azione non fosse per nulla preclusiva di una successiva autonoma azione giudiziaria ex art. 442 c.p.c. sempre ammissibile. Richiamava al riguardo altri pronunciamenti della Corte di Cassazione e da ultimo quello n. 28417/2020 che non si erano espressi in termini di obbligatorietà ma solo di possibilità di far valere ogni contestazione con la dichiarazione di dissenso, lasciando impregiudicata la possibilità di fare valere ogni contestazione anche in un autonomo giudizio di merito. Insisteva nell'eccezione di decadenza dell'azione avendo il (...) proposto il ricorso ex art. 445 bis in data 27/10/2016 e quindi ben oltre il termine di sei mesi dalla comunicazione dell'esito del procedimento amministrativo come attestato dalla produzione dell'avviso di ricevimento della relativa raccomandata recapitata all'indirizzo del destinatario e sottoscritta dalla madre dello stesso, sig.ra (...), in data 9 gennaio 2015. Si costituiva (...), eccependo l'inammissibilità dell'appello ed insistendo nella conferma della sentenza, in quanto l'Inps avrebbe dovuto far valere la doglianza formulando espressa dichiarazione di dissenso. Proponeva altresì appello incidentale concernente la statuizione di condanna alle spese in proprio favore, lamentando la violazione dei minimi tariffari nella determinazione dell'importo liquidato Alla scadenza del termine per note, la causa veniva decisa. MOTIVI DELLA DECISIONE Ai fini della soluzione della questione di diritto fatta valere dall'appellante principale, la Corte reputa opportuno brevemente procedere ad una ricostruzione della disciplina del procedimento per a.t.p., alla luce dei più recenti pronunciamenti della Corte di Cassazione. Costituisce principio ormai pacificamente acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello secondo il quale "l'ammissibilità dell'accertamento tecnico preventivo presuppone, come proiezione dell'interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), che l'accertamento medico-legale, pur sempre richiesto in vista di una prestazione previdenziale o assistenziale, risponda ad un concreto interesse del ricorrente che renda azionabile la pretesa al riconoscimento dei diritti corrispondenti alla condizione sanitaria allegata, al fine di evitare il rischio della proliferazione smodata del contenzioso sull'accertamento del requisito sanitario" (Cass. n. 2587 del 2020; n. 9876 del 2019); Ciò significa, agli effetti dell'ammissibilità dell'a.t.p.., che il giudice adito accerti sommariamente, nella verifica dei presupposti processuali, oltre alla propria competenza, anche la ricorrenza di una delle ipotesi per le quali è previsto il ricorso alla procedura prevista dall'art. 445-bis, nonchè la presentazione della domanda amministrativa, l'eventuale presentazione del ricorso amministrativo, la tempestività del ricorso giudiziario; quanto al profilo dell'interesse ad agire, che il giudice valuti l'utilità dell'accertamento medico richiesto al fine del riconoscimento del diritto soggettivo sostanziale di cui l'istante si affermi titolare, utilità che potrebbe "difettare ove siano manifestamente carenti, con valutazione prima facie, altri presupposti della prestazione previdenziale o assistenziale in vista della quale il ricorrente domanda l'accertamento tecnico (v., in tal senso, Cass. n. 98742019, ed ivi ulteriori richiami). Parimenti prima dell'omologa le parti hanno la possibilità di muovere le contestazioni che, coerentemente con la suddetta preventiva verifica che il giudice è chiamato a svolgere, possono riguardare non solo le conclusioni cui è pervenuto il ctu, ma pure investire i presupposti processuali e le condizioni dell'azione. La stessa Corte di Cassazione, con le sentenze n. 22721 del 9/11/2016 e n. 22949 del 10/11/2016 (ma anche con le sentenze n. 20847 e 9876 del 2019 e con la sentenza n. 5719 del 2021), precisa proprio che "deve ritenersi che la dichiarazione di dissenso che la parte deve formulare al fine di evitare l'emissione del decreto di omologa può avere ad oggetto gli aspetti preliminari che sono stati di verifica giudiziale e ritenuti non preclusivi dell'ulteriore corso. In mancanza di contestazioni anche per profili diversi da quelli attinenti all'accertamento sanitario, il decreto di omologa diviene definitivo e non è successivamente contestabile". Ora, secondo l'interpretazione di una parte della giurisprudenza di merito, nella specie fatta propria dal Tribunale con l'impugnata sentenza (e pure inizialmente seguita da questa Corte), una volta intervenuto il decreto di omologa definitivo, l'Inps, al quale pure è demandata nella ulteriore fase amministrativa, la verifica degli ulteriori requisiti utili alla erogazione della prestazione, non potrebbe più mettere in discussione i presupposti processuali e le condizioni di proponibilità della domanda. Senonchè, proprio di recente, con la sentenza n. 18377 del 2022 (ma anche con la sentenza n. 29272/2022 che ha ribadito lo stesso principio già affermato dalla Sezioni Unite n. 12903 del 2021) la Corte di Cassazione ha puntualizzato, meglio chiarendo detta questione, che "la predicata definitività del decreto di omologa, come limite invalicabile per il giudice dell'omologa rispetto ad ogni contestazione attinente al requisito sanitario e alle altre condizioni dell'azione proposta (v., fra le altre, Cass. n. 11043 del 2020), attiene all'accertamento delle condizioni sanitarie, vincolante per l'ente previdenziale, e al contemperamento del procedimento sommario con la concreta utilità per il richiedente la prestazione, la quale potrebbe del tutto mancare se manifestamente carenti, con valutazione prima facie, altri presupposti della predetta prestazione e ciò al fine di evitare, come già ricordato, la proliferazione smodata del contenzioso sull'accertamento del requisito sanitario". Consegue all'essenza non dichiarativa del diritto alla pretesa, che proponibilità e procedibilità della domanda giudiziaria per il riconoscimento del diritto alla prestazione assistenziale o previdenziale non possano cristallizzarsi alla fase sommaria, con un'attitudine a divenire irretrattabili nell'azione previdenziale, introdotta o meno la questione, e svolta o meno la relativa eccezione, in sede sommaria, dall'ente previdenziale". Si tratta di principi che questa Corte condivide e fa propri, ritenendo pertanto che nessuna preclusione ad un ordinario giudizio di cognizione sul diritto vantato possa derivare dal vaglio preventivo effettuato dal giudice dell'ATP sulle condizioni e presupposti processuali dell'azione. Nella specie, pertanto, il giudice di prime cure avrebbe dovuto esaminare l'eccezione di decadenza ancorchè non espressamente fatta valere dall'Inps in sede di ATP e ancorchè oggetto della preventiva sommaria verifica del giudice dell'ATP cui si è accennato. Deduce l'Inps che la decadenza si sarebbe maturata in quanto il ricorso giudiziario sarebbe stato depositato il 27/10/2016 e dunque oltre il termine di sei mesi dalla comunicazione dell'esito del procedimento amministrativo avvenuta mediante recapito postale della relativa racca a.r. nelle mani del madre del destinatario in data 9 gennaio 2015. L'eccezione di decadenza è pertanto fondata con conseguente rigetto della domanda originaria avanzata dal (...); resta altresì travolta la fondatezza dell'appello incidentale dallo stesso proposto in ordine alla quantificazione dei compensi liquidati in primo grado per asserita violazione dei compensi professionali. Rimangono da regolare le spese di lite, che avuto riguardo alla questione di diritto affrontata, solo di recente chiarita dalla Suprema Corte, vanno compensate per entrambi i gradi. Si dà della ricorrenza dei presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto, a carico dell'appellante incidentale P.Q.M. - in accoglimento dell'appello principale proposto dall'Inps, rigetta le domande proposte da (...) per intervenuta decadenza. - Compensa tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Si dà della ricorrenza dei presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto, a carico dell'appellante incidentale Così deciso in Messina il 23 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 26 gennaio 2023.

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