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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. PISTORELLI Luca - Presidente Dott. SESSA Renata - Relatore Dott. PILLA Egle - Consigliere Dott. BORRELLI Paola - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI CAGLIARI dalla parte civile Ma.Al. nato a C il (Omissis) nel procedimento a carico di: Lo.En. nato a C il (Omissis) inoltre: St.An. ATS SARDEGNA avverso la sentenza del 07/03/2023 della CORTE APPELLO di CAGLIARI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere RENATA SESSA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore TOMASO EPIDENDIO che ha concluso chiedendo Il Procuratore Generale conclude per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente ai capi Al e B per intervenuta prescrizione; inammissibilità nel resto per il ricorso del PG; per le statuizioni civili chiede rimettersi gli atti al Giudice competente. udito il difensore L'avvocato Lu.Po. per la posizione di Ma.Al. si riporta ai motivi di ricorso e insiste per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata; deposita conclusioni scritte e nota spese delle quali chiede la liquidazione. L'avvocato Gu.Bi. deposita conclusioni scritte alle quali sì riporta e nota spese delle quali chiede la liquidazione. L'avvocato Mi.Ca. si riporta alla memoria difensiva depositata a mezzo PEC il 28 marzo 2024 e chiede l'inammissibilità dei ricorsi; in subordine il rigetto dei ricorsi. L'avvocato Ca.Mu. si riporta alla memoria difensiva depositata a mezzo PEC il 25 marzo 2024 e chiede la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 7.03.2023 la Corte di appello di Cagliari, su appello del Pubblico Ministero, della parte civile St.An. e dell'imputato Lo.En., in parziale riforma della pronuncia emessa in primo grado dal Tribunale della medesima città, in data 7.07.2021, nei confronti del predetto Lo. - che lo aveva dichiarato colpevole dei reati di rifiuto di atti d'ufficio, con esclusione della condotta ai danni di St.An., e di abbandono di incapace, di cui, rispettivamente, ai capi A) e B), assolvendolo dal delitto di truffa tramite falsa attestazione in servizio di cui al capo C), oltre che dal rifiuto di atti d'ufficio in danno della predetta paziente per l'insussistenza dei fatti - ha assolto l'imputato - anche - dai reati allo stesso ascritti al capo A.1) e A.3), condotte ai danni, rispettivamente, di Ma.Al. ed Em.Ra., ed al capo B), perché il fatto non sussiste. Ha, altresì, assolto l'imputato dal delitto di cui al capo C), limitatamente ai fatti del 28.07.2015, perché non punibile per la particolare tenuità dei fatto. Ha, altresì, condannato l'imputato al risarcimento del danno ed alla refusione delle spese in favore della parte civile A.T.S. Sardegna. Ha confermato nel resto la sentenza impugnata. 2. Avverso la suindicata sentenza ricorrono per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Cagliari e la parte civile Ma.Al., tramite il proprio difensore di fiducia. 3. Il ricorso proposto dal Procuratore generale si compone di due motivi, trattati congiuntamente. In particolare: 3.1. Con il primo motivo si contesta l'erronea applicazione dell'art. 40 cpv. cod. pen. e della legge n. 180/78, delle norme extra - penali e delle linee guida in tema di assistenza ai malati psichiatrici. 3.2. Con il secondo motivo si lamenta l'insufficienza e la contraddittorietà della motivazione, relativamente all'obbligo di una motivazione rafforzata in caso di riforma in appello di una sentenza di condanna di primo grado. Per quanto attiene alla vicenda relativa alla paziente psichiatrica Ma.Al., relativamente alle condotte contestate all'imputato ai capi A.l.) e B), dopo aver effettuato un excursus sulla storia clinica della persona offesa, il Procuratore generale lamenta che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto che, in capo all'imputato, non esistesse alcuna posizione di garanzia nei confronti della paziente Ma. e che lo stesso, con la sola telefonata - sua o dell'infermiera di turno - che rinviava la visita della Ma. all'indomani, avesse compiutamente assolto i propri obblighi di assistenza medica; laddove aver limitato il proprio dovere di assistenza a tale telefonata non esenta da responsabilità l'imputato per il grave gesto posto in essere dalla Ma. Piuttosto, la storia clinica della paziente, l'aggressione attuata dalla stessa ai danni della propria madre, Francesca Fa., le accorate e le ripetute telefonate pervenute presso il C.S.M. avrebbero dovuto indurre l'imputato ad intervenire immediatamente, con una visita ambulatoriale o domiciliare o ricorrendo ad un T.S.O., ed invece egli, a fronte della richiesta di una visita urgente sin dal giugno 2015, la fissava solo per il giorno 14.10.2015, cioè a distanza di ben quattro mesi dalla richiesta; e ciò nonostante il peggioramento delle condizioni della paziente nei giorni 27 e 28 luglio 2015 segnalate anche dalla madre della Ma.; peggioramento a cui faceva infatti seguito il tentativo di suicidio della Ma. che, lanciatasi dal secondo piano della sua abitazione, si procurava diverse fratture, alla colonna vertebrale e al cranio, entrando in stato di coma. Indi, si riporta la giurisprudenza di legittimità in tema di rifiuto di atti d'ufficio e si afferma che ai fini della sussistenza di tale reato è sufficiente che il soggetto si sia sottratto alla valutazione di urgenza dell'atto del suo ufficio, indipendentemente da una richiesta o da un ordine in tal senso (ove si tratti, cioè, di un atto da compiersi senza ritardo). Il ricorrente prosegue, sostenendo che la Corte territoriale ha errato anche nel ritenere che il rischio suicidano della paziente non fosse prevedibile e fronteggiabile dal dott. Lo. e che, di conseguenza, lo stesso non sarebbe stato tenuto ad una condotta diversa da quella adottata, laddove è irrilevante il concreto esito dell'omissione. Infine, si osserva che la Corte è incorsa in vizio motivazionale perché nel riformare in senso assolutorio la pronuncia di condanna emessa in primo grado avrebbe dovuto offrire una motivazione puntuale ed adeguata, fornendo una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata. Invece, la Corte territoriale ha disatteso tutte le prove testimoniali rese nel giudizio di primo grado (in primis quella del dott. Cu.) e la stessa perizia psichiatrica della dott.ssa Pinna, le quali hanno concordemente sostenuto che in capo all'imputato, medico incaricato dal C.S.M. della cura della Ma., incombeva un preciso dovere di protezione in relazione al piano terapeutico formulato. Con riguardo al reato di abbandono di persona incapace, sì evidenzia che sull'imputato incombeva una posizione di garanzia nei confronti della paziente Ma. che lo stesso ha disatteso non seguendo con la dovuta diligenza il piano terapeutico concordato e di fatto abbandonando la paziente al proprio destino, nonostante fosse avvisato dello stato dì scompenso in cui versava la medesima. Infine, quanto alla vicenda dì Em.Ra. - soggetto che viveva in precarie condizioni igieniche ed era affetto da una patologia ritenuta dai medici grave – si afferma che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che differire l'intervento terapeutico urgente richiesto rientrasse nella discrezionalità tecnica dell'imputato. Inoltre, la Corte territoriale ha ignorato e ribaltato le testimonianze rese dai dottori Po. e Mo., i quali hanno invece sottolineato l'assoluta urgenza del T.S.O. in un caso grave, come quello che aveva riguardato il Ra. il 17.12.2015 (che aveva in quell'occasione assunto dei comportamenti violenti). In sostanza, l'imputato, anche nel caso di specie, avrebbe omesso di porre in essere qualsivoglia atto, anche di tipo interlocutorio, senza alcuna giustificazione tecnica, nei confronti del paziente che versava in una situazione di assoluta urgenza, preferendo per di più nel caso specifico del Ra. seguire i suoi personali pazienti in una terapia di gruppo dei movimento dal medesimo fondato, denominato il "Gruppo Sales", che non era stato peraltro neppure autorizzato dal C.S.M. in quanto interferente con l'ordinaria attività del Centro, piuttosto che visitare il Ra. e, se del caso, reiterare il T.S.O. già disposto dai suoi colleghi. 4. Il ricorso proposto nell'interesse della parte civile, Ma.Al., si compone di tre motivi. 4.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell'art. 125, comma 3, cod. proc. pen. e il vizio di motivazione per travisamento del fatto e della prova. La ricorrente afferma che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto l'insussistenza del reato di rifiuto di atti d'ufficio sulla base della mancata individuazione dell'atto dovuto ed omesso (che il Tribunale aveva individuato, quanto meno, nella instaurazione di un "colloquio" con la paziente Ma., in un contatto telefonico per apprezzare le reali condizioni della paziente), laddove l'intervento doveroso e non procrastinabile non deve essere confuso con l'atto omesso che, stante la discrezionalità dell'agire del medico, non deve essere necessariamente preventivamente individuato ma è rimesso alla sua scelta (e nei casi di rifiuto di intervento nei confronti del paziente psichiatrico c'è oltre al T.S.O. anche l'A.S.O., il colloquio, la visita domiciliare o ciò che il medico ritenga per l'emergenza creatasi terapeuticamente più opportuno); ciò che egli non può scegliere è se agire o non agire senza ritardo a fronte di un atto dovuto quando le circostanze ne richiedono il compimento. A fondamento di tale discutibile tesi, vengono poste dalla Corte di appello le dichiarazioni rese in sede di istruttoria dibattimentale, le s.i.t. e le produzioni ivi acquisite sia dalla madre della paziente che dall'infermiera Za.. Tali dichiarazioni comproverebbero sia la mancata volontà della Ma. a farsi accompagnare la mattina del 28.07.2015 presso il C.S.M., sia lo stato psichico non alterato della paziente, così come rilevato telefonicamente dall'infermiera a fine serata. Tutto ciò è stato tuttavia travisato nella sentenza impugnata che ha finito col porre dei fatti storici, estranei alla contestazione ed acquisiti da soggetti terzi, come percorsi propri dell'imputato che da tali fatti avrebbe trovato la giustificazione dal suo omesso operato. La Corte di appello, inoltre, ha addirittura escluso il requisito dell'urgenza e della necessità dell'intervento doveroso da parte del medico, per il fatto che la madre della Ma. non avesse ritenuto necessario un intervento immediato di uno psichiatra ovvero chiamato il 118, da ciò deducendo che il quadro non fosse così allarmante. Sempre al fine di escludere la necessità ed urgenza dell'intervento del medico, la Corte territoriale ha inoltre disquisito in ordine alle telefonate effettuate dalla madre e dalla Ma. nelle giornate del 27 e 28 luglio, e ha ritenuto che esse, di numero comunque inferiore a quello indicato, non facendo nessun riferimento ad un rischio suicidano, escludessero la responsabilità dell'imputato in quanto, appunto, mancante il requisito dell'urgenza e della necessità dell'intervento. Sicché, conclude la Corte di appello, visto anche che lo psichiatra si era reso disponibile (sia pure solo per il tramite dell'infermiera) a visitare la paziente il giorno dopo, non si può dire che egli abbia violato il dovere di agire senza ritardo sanzionato dall'art. 328 c.p. ovvero abbia posto in essere una condotta concretamente integrante ipotesi di rifiuto implicito. Ebbene - osserva la difesa - tali argomentazioni appaiono gravemente viziate da un'erronea interpretazione di legge con frequente confusione degli elementi del reato contestato con quelli delle lesioni colpose (avendo la sentenza impugnata fatto tra l'altro riferimento ad una "pretesa di controllare costantemente le condotte della Ma." laddove tale controllo costante non rientrerebbe più nei doveri del medico a seguito della riforma Basaglia), ma soprattutto da un palese travisamento del fatto. La sentenza impugnata, infatti, oltre all'omessa menzione delle telefonate di soccorso effettuate anche dal padre della Ma. - che rafforzano l'ipotesi dell'urgenza e dell'improcrastinabilità dell'intervento del medico - travisa ed omette anche parte delle dichiarazioni della madre - acquisite agli atti all'udienza del 19.06.2019 - e dell'infermiera Za.. In particolare, la signora Fa., madre della persona offesa, nella memoria in atti aveva affermato di avere atteso, il 28 luglio, le 14 per avvertire il dr. Lo. ma non era riuscita a parlargli perché non era ancora arrivato e aveva allora lasciato il messaggio all'infermiere Gi., raccontandogli i fatti, pregandolo di mettere tutto per iscritto, sottolineando il pericolo di vita in cui si trovava la figlia e quindi l'urgenza dell'intervento, con ciò confermando, quasi non bastassero i pregressi tentativi di suicidio da parte della Ma., il pericolo reale ed attuale di un nuovo gesto auto - soppressivo, poi di fatto avvenuto. L'infermiera, a sua volta, confermava che la Fa. aveva chiamato più volte al C.S.M. per parlare urgentemente con il dott. Lo., e riferiva di avere ritenuto tale urgenza così grave tanto da interrompere la riunione dei medici delle ore 19:00 per far presente all'imputato la situazione in atto. Proprio dalle dichiarazioni di tale testimone si evince altresì che il Lo. non si trovava presso la struttura, come avrebbe dovuto essere, ma altrove. 4.2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione degli artt. 125 comma 3, 546 comma 1, lett. e) cod. proc. pen., in relazione all'art. 111, comma 6, Cost. per vizio di motivazione. In particolare, la ricorrente, richiamando le Sezioni Unite Troise, evidenzia come, nel caso di specie, la Corte territoriale, a fronte di una pronuncia di primo grado che non ha trascurato alcun argomento, ha offerto una motivazione del tutto inadeguata. Invero, nella sentenza impugnata, al fine di escludere la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di rifiuti di atti d'ufficio, si parla di "incertezza in ordine all'individuazione dell'atto rifiutato", confondendo l'atto materiale individuato in un colloquio con il più consono riferimento, fatto invece dal Tribunale, alla necessità di un intervento legato alla doverosa "protezione" insita nel patto terapeutico e già posta in essere da! precedente collega dell'imputato, Dott. Cu.. Inoltre, la Corte territoriale, contrariamente al giudice di primo grado, ha omesso di confrontarsi con le dichiarazioni rese dalla Ma., dal suo amministratore di sostegno, dalla madre della stessa e, soprattutto, dal Dott. Cu.. In sostanza, la Corte territoriale, affermando - a pag. 81 - che la pretesa di controllare le condotte dalla paziente psichiatrica non rappresenta un dovere del medico, il quale piuttosto è tenuto a sovraintendere alle esigenze terapeutiche, è incorsa in un grave travisamento per omissione avendo trascurato del tutto di considerare non solo che il rischio omicidiario risultava segnalato nel caso di specie, ma anche ciò che aveva affermato il dr. Cu. circa gli impegni assunti dalla struttura - in cui era incardinato anche il dottor Lo. - al fine di consentire alla Ma. l'allontanamento dell'abitazione materna (in particolare era stato sostanzialmente assunto un impegno da parte della struttura a controllare costantemente le condotte della Ma. e ad intervenire in caso di necessità). 4.3. Con il terzo motivo si denunzia la violazione degli artt. 125 comma 3 e 546 comma 1, lett. e), in relazione all'art. 111, comma 6, Cost. per vizio di motivazione, relativamente alla contestazione di abbandono di incapace. In particolare, si evidenzia come la Corte di appello abbia omesso di confrontarsi con la sentenza di primo grado relativamente alla contestazione suindicata. Invero, i giudici di secondo grado, al fine di supportare la tesi dell'insussistenza del reato per mancanza del nesso causale tra il comportamento dell'imputato e l'evento delle lesioni, sì sono soffermati sui concetto di accadimento imprevedibile ed inevitabile, affermando che da nessun elemento emergevano presupposti per l'applicazione di un T.S.O. che fossero noti all'imputato. La motivazione offerta dalla Corte territoriale sul punto appare carente nella misura in cui il Tribunale aveva ravvisato la responsabilità del Lo. proprio alla luce del fatto che il gesto auto - soppressivo era prevedibile e prevenibile, indicando, al riguardo, le seguenti circostanze: - l'urgenza evidenziata dalla madre della paziente, collegata al fatto che la figlia non stesse assumendo la terapia prescritta - e riportata anche nelle annotazioni di ben due infermieri - comunicata al Lo. che, dunque, ne era a conoscenza; - le risultanze della perizia della dott.ssa Pinna e della deposizione del Dott. Cu.; - l'esito dell'interrogatorio ex art 289 cod. proc. pen., reso in data 29.04.2016 dinanzi al G.I.P. dal Lo. ed acquisito dal Tribunale all'udienza del 8.04.2021, ove lo stesso conferma le modalità di controllo ed il fatto di esserne a conoscenza tanto da avere fissato, dopo l'appuntamento di giugno, quello di ottobre, in quanto vi era comunque la costante possibilità di interloquire, anche prima di tale data, telefonicamente con la paziente. Le parti hanno concluso in pubblica udienza come riportato in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso del Procuratore Generale, limitatamente al reato di cui al capo A III) - di rifiuto di atti d'ufficio ai danni di Em.Ra. -, è fondato, risultando viziato il relativo iter argomentativo reso nella pronuncia impugnata. In particolare, si deve rilevare che, come correttamente denunciato dal Procuratore Generale, alla vicenda di Ra.Em. - soggetto che viveva in precarie condizioni igieniche ed era affetto da una patologia ritenuta dai medici grave - la Corte territoriale ha dedicato pochi argomenti, peraltro affrontati in modo insufficiente ai fini del ribaltamento della decisione di condanna di primo grado - ribaltamento che, benché non necessiti, come meglio si dirà in prosieguo affrontando i ricorsi relativi alla posizione della parte civile Ma., della ed. motivazione rafforzata, deve essere comunque supportato da un costrutto argomentativo preciso ed adeguato. La Corte territoriale, secondo la puntuale analisi contenuta nel ricorso del P.G. che trova riscontro in atti, ha finito con l'ignorare e ribaltare le testimonianze rese dai dottori Po. e Mo., i quali hanno invece sottolineato l'assoluta urgenza del T.S.O. in un caso grave, come quello che aveva riguardato il Ra. il 17.12.2015 (che aveva in quell'occasione assunto anche dei comportamenti violenti), e si è limitata, in buona sostanza, a rilevare - erroneamente - che differire l'intervento terapeutico urgente richiesto rientrasse nella discrezionalità tecnica dell'imputato; laddove la sentenza di primo grado aveva appurato e posto in evidenza come l'imputato, nel caso di specie, avrebbe omesso di porre in essere qualsivoglia atto, anche di tipo interlocutorio, senza alcuna giustificazione tecnica, "posto che in nessun modo era emerso quali fossero le ragioni che avevano indotto il dottor Lo. a superare le valutazioni già espresse dai colleghi Mo. e Po.", nei confronti di un paziente che versava in una situazione di assoluta urgenza; il Lo. aveva, in definitiva, preferito - secondo la ricostruzione della pronuncia di primo grado - di seguire i suoi personali pazienti in una terapia di gruppo del movimento da lui fondato, denominato il "Gruppo Sales", che, peraltro, non era stato neppure autorizzato dal C.S.M. in quanto interferente con l'ordinaria attività del Centro, piuttosto che visitare il Ra. e, se del caso, reiterare il T.S.O. già disposto dai suoi colleghi. La Corte di appello è dunque incorsa in un evidente vizio di motivazione. Consegue che, in applicazione del principio affermato da questa Corte, anche a sezioni unite, per cui in caso di vizio di motivazione implicante l'annullamento della sentenza impugnata, la Cassazione, ove sia decorso il termine di prescrizione - in mancanza della rinuncia ad essa da parte dell'imputato - non può che rilevare la prescrizione in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva, e coerentemente annullare la sentenza agli effetti civili con rinvio al giudice civile (Sez. U, Sentenza n. 17179 del 27/02/2002, Rv. 221403 - 01; Sez. U, Sentenza n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275 - 01), questo Collegio deve limitarsi, agli effetti penali, a rilevare la decorrenza del termina massimo di prescrizione, trattandosi di causa estintiva che deve essere immediatamente rilevata in mancanza di elementi che depongano per l'immediata pronuncia assolutoria dell'imputato ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U Tettamanti, cit.), nel caso di specie non evincibili alla stregua delle stesse risultanze della pronuncia impugnata. Sicché, essendo il termine massimo di prescrizione del reato di rifiuto di atti di ufficio, risalente al 17.12.2015, pari, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 157 e 161 cod. pen,, a sette anni e mezzo, esso, pure a tenere conto dei periodi di sospensione, intervenuti per complessivi giorni 175 nel primo grado di giudizio - per astensione della difesa dalle udienze, per legittimo impedimento e sospensione Covid - è, comunque, interamente decorso il 9.12.2023 (ossìa in data successiva alla pronuncia della sentenza di appello ed antecedente al pervenimento del ricorso in cassazione). E la circostanza che il termine di prescrizione sia decorso dopo la pronuncia di primo grado non è irrilevante agli effetti civili, sebbene l'unica parte civile, la A.T.S. Sardegna, costituitasi in relazione al reato di cui al capo A III), ai danni del Ra., non abbia impugnato la pronuncia assolutoria emessa in appello - e si sia limitata a presenziare all'udienza di discussione fissata dinanzi a questa Corte instando per l'annullamento della sentenza assolutoria, ad ulteriore dimostrazione della persistenza del suo interesse alla controversia. Se è vero, infatti, che una volta venuta meno la sentenza di assoluzione pronunciata in appello, le statuizioni civili, ovviamente, non conseguiranno automaticamente essendo dipeso l'annullamento dalla rilevazione di un vizio motivazionale - e non potrebbe essere diversamente nel presente giudizio di legittimità in cui questa Corte, non potendo trattare il merito, non potrebbe giammai giungere ad una pronuncia di condanna -, è altrettanto vero che esse, ciò nondimeno, essendo state affermate in virtù di sentenza di condanna "validamente" pronunciata in primo grado - per non essere decorso all'epoca della sua emissione il termine di prescrizione - permangono quale entità storica inscindibilmente connessa alla pronuncia di condanna penale. Questa, in conseguenza dell'annullamento della pronuncia di secondo grado che l'aveva riformata, pur evolvendo nella declaratoria di prescrizione del reato, rimane come dato processuale 'valido' ai fini che occupano. Sicché, poiché alla declaratoria di prescrizione l'art. 578 del codice di rito ricollega l'obbligo - sia per il Giudice di appello che per la Corte di cassazione - di decidere agli effetti civili, tale obbligo sussiste anche nella fattispecie in scrutinio, riscontrandosi anche in essa il presupposto di una sentenza di condanna "validamente" pronunciata. Significativa al riguardo è innanzitutto la pronuncia Sez. U n. 30327 del 10/07/2002, Guadalupi, Rv. 222001 - 01, la quale, dubitando delle conclusioni cui era pervenuta la precedente sentenza delle Sezioni Unite Loparco, del 25.11.1998, ha, in virtù del principio generale dell'accessorietà dell'azione civile promossa in sede penale rispetto a quella penale, affermato che il giudice di appello, che su gravame del solo pubblico ministero condanni l'imputato assolto nel giudizio di primo grado, deve provvedere anche sulla domanda della parte civile che non abbia impugnato la decisione assolutoria; e, a sostegno di tale assunto, ha tra l'altro osservato: che la disposizione dell'art. 601 comma 4 cod. proc. pen. non avrebbe senso se la parte civile che non ha proposto impugnazione rimanesse vincolata dalla pronuncia assolutoria; e che la parte civile, anche quando non ha proposto impugnazione, deve essere citata, oltre che nel giudizio di appello, in quello di cassazione e in quello di rinvio e che "il giudice di rinvio deve pronunciarsi sulle sue richieste". In tale solco si inserisce la sentenza Sez. U, n. 39614 del 28/04/2022, Di Paola, Rv. 283670 - 01, che ha osservato che, in forza del principio generale dell'accessorietà delle statuizioni civili alla condanna penale, stabilito dall'art. 538 cod. proc. pen. - in base al quale il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, avanzata dalla parte civile nel processo penale, allorché pronuncia sentenza di condanna - la sentenza di condanna é, in via ordinaria, la pre - condizione perché il giudice penale di primo grado decida sulla domanda risarcitoria o restitutoria della parte civile; con la conseguenza che, in base all'art. 538 cod. proc. pen., accertamento della responsabilità penale e accertamento della responsabilità civile sono, di regola, inscindibili. In estrema sintesi - si afferma nella sentenza De. - a differenza dì quanto accade nell'ipotesi di proposizione dell'azione civile nella sua sede propria in pendenza di un giudizio penale per lo stesso fatto (ipotesi in cui l'attuale sistema processuale - a differenza di quello previgente - é informato ai principi dell'autonomia e della separazione tra processo civile e processo penale), qualora l'azione civile venga promossa all'interno del giudizio penale vale, come detto, la regola che subordina il potere del giudice di decidere sulle restituzioni e sul risarcimento alla sentenza di condanna (artt. 538 e 74 cod. proc. pen., 185 cod. pen.). Tale previsione deve essere integrata con quella di cui all'art. 578 cod. proc. pen. che attribuisce al giudice dell'impugnazione che ha dichiarato estinto il reato la legittimazione a decidere in ordine alle statuizioni civili adottate con la condanna emessa in primo grado. Sicché si deve giungere ad affermare che il principio della immediata declaratoria della prescrizione non travolge le decisioni relative ai capi civili allorquando esse sono accessorie rispetto a una condanna (penale) "validamente emessa", avente, cioè, ad oggetto un reato la cui estinzione é maturata solo successivamente alla sua emissione. Indi, conclude la pronuncia De. che "(a)ppare evidente che, su queste basi, la fattispecie cui ha inteso fare riferimento il legislatore é essenzialmente quella in cui il fatto estintivo non abbia alcuna interferenza temporale con la condanna dell'imputato, essendo intervenuto in un momento successivo e non pregiudicandone, quindi, la validità". Con riferimento all'ambito applicativo dell'art. 578 cod. proc. pen., il Collegio conclude che quindi il primo presupposto é costituito dal fatto che vi sia stata una sentenza di condanna (anche generica) agli effetti civili (ossia alle restituzioni o al risarcimento del danno), e che ove tale requisito sussista il giudice che decide dichiarando la prescrizione del reato è sempre tenuto a decidere anche in ordine alle statuizioni civili già adottate. Né potrebbe essere dì ostacolo a tale interpretazione il fatto che questa Corte abbia affermato che l'operatività dell'art. 578 cod. proc. pen. é subordinata alla condizione che la precedente condanna sulle statuizioni civili alla quale sia sopravvenuta la prescrizione (o l'amnistia) sia stata validamente pronunciata nel grado di giudizio immediatamente precedente (Sez. 5, n. 17370 del 14/03/2003, Ministeri, Rv. 224195 - 01; Sez. 1, n. 242 del 06/12/2007, dep. 2008, Grassano, Rv. 238812), dal momento che il grado di giudizio immediatamente precedente, una volta venuta meno la sentenza di assoluzione di secondo grado, diventa quello di primo grado in cui è stata "validamente" pronuncia la sentenza di condanna per non essere ancora decorso il termine di prescrizione. Sicché, uria volta appurato, in cassazione, il vizio di motivazione della sentenza di assoluzione di appello, che in quanto di proscioglimento aveva travolto anche le statuizioni civili di primo grado, in caso di prescrizione del reato l'epilogo non può essere difforme da quello che sarebbe intervenuto nell'ipotesi di mancata decorrenza del termine prescrizionale, con la sola differenza che nella prima ipotesi - della intervenuta prescrizione - il vizio di motivazione non farà regredire il processo alla fase del giudizio di appello penale per le ragioni sopra esposte, ma imporrà il rinvio al giudice civile che nella sede sua propria procederà a (ri)verificare la fondatezza dell'azione agli effetti civili. In conclusione, dato che la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo (art. 76 comma 2), che il giudice di appello è tenuto a citare la parte civile (art. 601 comma 4), che se l'appello è stato proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento il giudice di appello può pronunciare condanna e adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge (art. 597 comma 2 lett. a e b), che l'art. 578 ancora la decisione agli effetti civili al presupposto dell'esistenza di una precedente sentenza di condanna, si deve affermare che anche nel caso del ricorso per cassazione proposto dal solo pubblico ministero, il giudice - la Corte di cassazione - sia tenuto a pronunciarsi agli effetti civili se in uno dei precedenti gradi di giudizio sia stata validamente pronunciata una sentenza di condanna anche agli effetti civili; deve, invero, escludersi che sulla sentenza di proscioglimento di primo grado, o di secondo grado, non impugnata dalla parte civile sì formi agli effetti civili il giudicato. 2. Il ricorso del Procuratore Generale, nel resto, e quello proposto nell'interesse della parte civile Ma., relativi, entrambi, ai reati di cui ai capi AI) e B), sono, invece, infondati. 3. Il ricorso proposto dal Procuratore Generale. Innanzitutto, devono operarsi delle precisazioni in ordine all'estensione dell'obbligo di motivazione in caso dì ribaltamento in appello della pronuncia di condanna, avendo il P.G. espressamente lamentato, tra l'altro, il vizio di motivazione della sentenza impugnata per non essere stata essa svolta in maniera "rafforzata". Impropriamente il ricorso fa riferimento alla ed. motivazione rafforzata dal momento che, come ha già avuto modo di affermare questa Corte (cfr. tra tante, Sez. 3, Sentenza n. 46455 del 17/02/2017, Rv. 271110 - 01), il giudice d'appello, in caso di riforma in senso assolutorio della sentenza di condanna di primo grado, sulla base di una diversa valutazione del compendio probatorio, non è obbligato alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, né è tenuto a strutturare la motivazione della propria decisione in maniera rafforzata, non venendo in rilievo - in tal caso - il principio del superamento del "ragionevole dubbio", potendo l'assoluzione intervenire anche quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova. Il giudice di appello, che pronunci sentenza di assoluzione, riformando la sentenza di condanna di primo grado, non ha l'obbligo di motivazione rafforzata che, invece, sussiste nel caso in cui alla pronuncia liberatoria faccia seguito in appello la decisione di condanna, considerato che mentre per l'affermazione della responsabilità penale, nonché di quella civile, è necessario l'accertamento di tutti gli elementi dell'illecito, per la sua esclusione è sufficiente anche il venir meno di uno solo di essi (Sez. 5, Sentenza n. 29261 del 24/02/2017, Rv. 270868 - 01). D'altra parte, anche la stessa sentenza Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 03/04/2018, Troise, Rv. 272430 - 01, nell'affermare che il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ha precisato che esso deve - comunque - offrire una motivazione puntuale ed adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata (anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva), con ciò intendendo evidentemente sottolineare la necessità di una motivazione congrua che tenga cioè comunque in debito conto le risultanze poste a base della pronuncia di condanna e gli argomenti in essa esposti, senza, tuttavia, imporre i canoni della ed. motivazione rafforzata. Ciò posto, deve rilevarsi che, leggendo le sentenze dì primo e secondo grado, emerge che nel caso di specie la pronuncia di assoluzione di secondo grado, nel ribaltare la precedente decisione di condanna, non si è limitata ad affermare genericamente l'esistenza di un ragionevole dubbio in merito agli addebiti di colpa dell'imputato, ma ha approfondito adeguatamente la plausibilità della ricostruzione alternativa dei fatti, prospettata dalla difesa. Ha, in particolare, osservato la Corte di appello che "(p)ur a fronte di una più ampia imputazione dove si contestava al dr. Lo. di non aver assicurato la necessaria assistenza ad Ma.Al. sin dal giugno 2015, quando alla richiesta di un appuntamento urgente faceva seguito la fissazione di una visita per il 12 ottobre successivo, omessa nel frattempo qualsivoglia verifica sull'andamento della malattia ed in specie sull'adesione al progetto terapeutico nei giorni 27 28 luglio 2015, giorni in cui perveniva anche una richiesta di intervento dal padre e dalla madre della paziente, io stesso è stato ritenuto responsabile esclusivamente per avere rifiutato di procedere nei giorni 27 e 28 luglio 2015 a un intervento urgente necessario per assicurare l'assistenza della paziente, più avanti individuandosi tale intervento urgente, dunque la condotta doverosa omessa, nel compiere quanto era nelle sue possibilità per compiere quanto richiesto, nell'acquisire ogni utile informazione sulle condizioni di Ma.Al., dunque instaurare urgentemente un colloquio con Ma.Al., invece che limitarsi a fissare un appuntamento per il giorno successivo". Su tale premessa, e sulla base delle emergenze processuali acquisite, passate in rassegna, la Corte di appello ha affermato che, di là del fatto che pur così delimitata la condotta, permane comunque un ampio margine di incertezza in ordine all'individuazione dell'atto rifiutato (se una visita domiciliare, la fissazione di una visita tempestiva presso gli ambulatori della struttura, la predisposizione di una particolare terapia o di un trattamento sanitario obbligatorio, per evitare forzosamente qualsiasi minimo rischio suicidano) - atto, in definitiva, individuato dal Tribunale nella instaurazione di un colloquio con la paziente per apprezzare le reali condizioni della stessa - , nella fattispecie in esame non si è formato un quadro probatorio sufficientemente robusto idoneo a suffragare un macroscopico arbitrio e nemmeno un aperto rifiuto di prestazioni e/o terapie dovute dal dottor Lo. nell'ambito dei doveri del suo ufficio. Ha invero posto in evidenza la sentenza impugnata che non vi è prova rassicurante di un rifiuto del Lo. di visitare la paziente, e che al contrario risulta: che la madre di questa, nonostante i tentativi, e pur avendo accompagnato la stessa mattina del 28 la figlia Al. presso il centro menopausa del Policlinico di Monserrato, non riuscì in alcun modo a dirottarla verso il Centro Salute Mentale neanche per una semplice visita per la ferma opposizione dell'interessata; che in seguito alle chiamate per lo più pomeridiano delle due donne il dottor Lo. durante il suo turno al centro tentò di mettersi inutilmente in contatto con la paziente che chiamò alle 16:28 sulla sua utenza cellulare senza ottenere alcuna risposta; che lo stesso psichiatra, avuta notizia delle ulteriori chiamate, specie di quella della madre, diede incarico all'infermiera di comunicare alla sua assistita che le aveva fissato un appuntamento per visitarla la mattina successiva; che, soprattutto, l'infermiera Za. alle 19:45, poiché la paziente non aveva più richiamato, chiamò - come risulta dai tabulati oltre che dalla relativa deposizione testimoniale - Ma.Al. sulla sua utenza fissa per comunicarle l'appuntamento ed ebbe con essa un breve colloquio durante il quale poté apprezzare che la stessa non si trovava, come temeva, in uno stato alterato ma aveva un atteggiamento pacato, e comunque l'interessata ma manifesto in tale occasione la necessità di essere visitata immediatamente dal suo psichiatra di riferimento o da altri. Ha, quindi, osservato la Corte di appello come proprio quest'ultima rilevante circostanza attesti che Lo. si fosse in realtà fatto carico della paziente e a fronte di una segnalazione solo telefonica nello stesso pomeriggio si fosse dimostrato pienamente disponibile a visitarla la mattina successiva; e non ha mancato di precisare la Corte di appello che nessun dubbio potesse esserci in ordine alla effettività di tale chiamata, a nulla potendo rilevare il fatto che di essa non si sia fatta parola nella querela dal momento che risulta univocamente attestata alla stregua non solo della deposizione dell'infermiera Za. e dei tabulati telefonici che confermano la riferita telefonata, ma anche dell'appunto sul ed. quaderno delle consegne che la riporta con scritto "chiamata Al. su disposizione del dottor Lo., si presenterà domani". Sullo stesso argomento la Corte territoriale ritiene ancora di dover osservare che, tanto più alla luce dei dati fattuali sopra richiamati, il numero di telefonate, pur ferma in astratto la portata indiziaria del dato, non appare di per sé sufficiente anche se letto alla luce della storia clinica della Ma. .per comprovare la dedotta condizione di estrema urgenza e di allarme perlomeno tale da richiedere un intervento immediato di uno psichiatra, che, del resto, neppure la solerte genitrice ritenne in quel momento di sollecitare chiamando il servizio 118 (come pure avrebbe potuto fare). Del resto non si può fare a meno di rilevare, osserva ulteriormente la Corte territoriale, come a dispetto di quanto sostenuto nella sentenza di primo grado non risulti affatto dagli atti, dalle dichiarazioni della madre cosi come dal contenuto della querela acquisita, che proprio in quei giorni, in quelle ore, la Ma. avesse fatto esplicito riferimento all'intenzione di porre in essere una condotta anticonservativa, che pure non si discute facesse parte della sua storia clinica, circostanza che evidentemente avrebbe posto in più serio allarme lo psichiatra come i familiari della paziente; ma del resto era accaduto lo stesso anche in occasione del precedente tentativo di suicidio del 2010 quando la Ma., pur visitata e seguita dal dottor Cu. non aveva minimamente accennato/anticipato le sue intenzioni che forse per la repentinità dei gesti che la caratterizzano neppure ancora esistevano. Completa il quadro - quand'anche aggiornata fino alla data dell'undici luglio 2015 - la consulenza tecnica d'ufficio effettuata dal dottor Ze. nel procedimento civile conclusosi con la revoca dell'amministratore di sostegno, la cui nomina era stata sollecitata proprio dal dottor Lo. a riprova del fatto che, contrariamente all'assunto accusatoria, non si disinteressava affatto della paziente; in tale consulenza - sottolinea la Corte di appello - parimenti si afferma che in quel periodo Ma.Al. era in stato di buona compensazione. Indi, conclude la Corte di merito che la visita della paziente Ma., ad essa riducendosi l'atto dovuto asseritamente rifiutato, sulla base degli elementi e dei dati a disposizione dell'imputato nelle giornate del 27 e del 28 luglio 2015 non era urgente, né tale da richiedere un intervento immediato e certamente fu disposta senza ritardo alcuno, non essendo infine avvenuta solo per la repentinità del gesto autolesionistico della paziente non imputabile al Lo., che comunque non è chiamato a rispondere di una fattispecie colposa del resto, ancor meno considerato che lo psichiatra si rese disponibile a visitare la paziente dopo poche ore dalla richiesta. Sicché si conclude nella sentenza impugnata, con corretto iter ricostruttivo in fatto ed in diritto, che non può assumersi che il Lo. abbia violato il dovere dì agire senza ritardo sanzionato dall'art. 328 cod. pen. ovvero abbia posto in essere una condotta concretamente integrante un'ipotesi di rifiuto implicito. Alla stregua di tutto quanto sopra indicato, si deve concludere che le censure mosse nel ricorso in scrutinio sono infondate, non sussistendo i vizi denunciati. 4. Il ricorso nell'interesse di Ma.Al. Alla luce delle risultanze sopra indicate, devono ritenersi insussistenti anche i vizi denunciati dalla parte civile Ma., avendo trovato già adeguata confutazione nella pronuncia impugnata i rilievi che la ricorrente ha inteso proporre nel ricorso in scrutinio, che non divergono, nella sostanza, da quelli formulati nel ricorso del Procuratore Generale. La sentenza impugnata, come sopra esposto, ha indicato le ragioni per le quali non si possa parlare, nel caso di specie, di mancata considerazione della emergenza suicidaria, per non essere in alcun modo emersi, più in generale, i tratti di una condizione di una urgenza tale da imporre un intervento immediato non procastinabile al giorno successivo (laddove il dedotto travisamento delle dichiarazioni rese in una memoria da Fa., madre della paziente, che asseriva di aver evidenziato all'infermiere Gi. di riferire immediatamente al Lo. della massima urgenza di un intervento del medico proprio per il pericolo di vita in cui versava la propria figlia non hanno trovato riscontro in atti, non potendo esso essere desunto dalla sola storia clinica della paziente). Né appare corretta l'impostazione che mira a fare leva sulla particolare posizione di garanzia facente capo al Lo., che, di là dei compiti strettamente clinici propri del terapeuta, si sarebbe trovato, nel caso di specie, nella particolare situazione di dover garantire protezione e presenza ad una paziente psichiatrica che versava in una fase di l'inserimento sociale, comportante una particolare attenzione per le sue criticità, dal momento che, come sopra esposto analizzando il ricorso del P.G., non si può affermare che il Lo. abbia omesso di assumere comportamenti idonei a monitorare le condizioni della paziente a fronte dì una situazione che, per come delineatasi ai suoi occhi, non era definibile di massima urgenza ovvero di una indilazionabilità tale da richiedere un intervento immediato, non essendo emersi elementi idonei a suffragare la prevedibilità dell'imminenza di un concreto pericolo per la persona offesa. D'altro canto, il costante controllo, a cui si sarebbe sottratto il Lo., cui allude il ricorso, non può certo essere inteso come un controllo continuativo e si risolve comunque in un concetto non incompatibile con un intervento posticipato al giorno successivo. D'altronde ad ogni situazione che esige protezione fa riscontro uno stato di pericolo che esige un pieno attivarsi, sicché se è vero che ogni abbandono diventa pericoloso e l'interesse risulta violato quando la derelizione sia anche solo relativa o parziale, è altrettanto vero che la mancata attuazione immediata dell'intervento da parte di colui che ha l'obbligo di attuarlo può non integrare un abbandono della persona laddove la situazione di pericolo non si sia palesata ai suoi occhi in termini tali da imporre un intervento immediato. 5. Dalle ragioni sin qui esposte deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali limitatamente al reato di cui al capo a III), perché estinto per prescrizione; che la sentenza deve essere altresì annullata agli effetti civili in relazione al medesimo capo con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui va rimessa anche la liquidazione delle spese tra le parti del presente giudizio (avendo la difesa della parte civile A.T.S. Sardegna avanzato espressa richiesta in tal senso); che, nel resto, il ricorso del Procuratore Generale e quello della parte civile Ma.Al. devono essere rigettati. In caso di diffusione del presente provvedimento devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali limitatamente al reato di cui al capo a III), perché è estinto per prescrizione. Annulla altresì la sentenza impugnata agli effetti civili in relazione al medesimo capo e rinvia per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti del presente giudizio. Rigetta nel resto il ricorso del Procuratore Generale e quello della parte civile Ma.Al. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 12 aprile 2024. Depositata in Cancelleria l'11 luglio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9393 del 2023, proposto dall’Azienda Ospedaliera dei Co., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ra.Cu. e Ri.Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro il dottor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Ma.Bi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Da.Mu. in Roma, via dei Co. Al., (...), per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Quinta) n. -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del dottor -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 23 aprile 2024, il Cons. Angelo Roberto Cerroni e uditi per le parti gli avvocati come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO E DIRITTO - Il dottor -OMISSIS- ha partecipato al concorso pubblico, per titoli ed esami, indetto dall’Azienda Ospedaliera dei Co. di Napoli per il reclutamento di n. 155 unità di personale con profilo di collaboratore professionale sanitario - infermiere ctg. D, da destinare al Centro Regionale di malattie infettive (P.O. Co.), alla rete dell’emergenza urgenza (P.O. CTO) ed alla rete dei trapianti 2 (P.O. Mo.). La lex specialis della procedura prevedeva che le prove di esame consistessero di una prova scritta, una prova pratica e una prova orale: la prova scritta, valevole sino a 30 punti, prevedeva lo svolgimento di un tema o la soluzione di quesiti a risposta sintetica o di un questionario a risposta multipla vertenti sulla professione specifica di infermiere, su argomenti relativi alla infermieristica clinica, alle competenze afferenti all’area disciplinare della rianimazione, delle malattie infettive, della cardiochirurgia, dell’ecmo, della cardiologia oltreché alla legislazione di settore ed alla organizzazione; il superamento della prova scritta era subordinato al raggiungimento di una valutazione di sufficienza espressa in termini numerici di almeno 21/30 e il mancato raggiungimento della valutazione di sufficienza in una prova comportava l’esclusione dalla prova successiva e quindi dalla procedura concorsuale. Con riguardo alla determinazione del punteggio da conseguire per il superamento della prova scritta la commissione esaminatrice aveva previsto che “A ciascuna risposta sarà attribuito il seguente punteggio: - Risposta esatta: +0,50 punti; - Mancata risposta o risposta per la quale siano state marcate due o più opzioni: 0 punti; - Risposta errata: -0,10 punti”. - Il candidato ha sostenuto, in data 13 marzo 2023, la prima prova conseguendo il punteggio complessivo di 20/30 avendo fornito n. 43 risposte esatte, n. 15 errate e n. 2 mancate risposte e, conseguentemente è stato escluso dal seguito della procedura conformemente alle previsioni del bando. Il dottor -OMISSIS-è insorto innanzi al TAR per la Campania avverso tale esito deducendone l’illegittimità in ragione dell’ambiguità di tre quesiti del questionario che, a suo dire, contemplavano più risposte corrette impedendogli di totalizzare il punteggio necessario per superare la soglia di sbarramento; si sarebbe trattato nello specifico dei quesiti n. 34, 41 e 48. 2.1. - Il quesito n. 34 - così formulato “Quale dei seguenti fattori svolge un ruolo determinante nella formazione delle piaghe da decubito? A) Perdita della sensibilità dolorifica; B) Ipossia locale per fenomeni vasospastico; C) Stato settico” - avrebbe ritenuto corretta la risposta contrassegnata dalla lett. A), mentre il ricorrente ha optato per la risposta indicata alla lett. B). Il quesito n. 41 - così formulato: “Quale delle seguenti malattie si può trasmettere per via aerea? A) Meningite cerebrospinale epidemica B) Parotite C) Mononucleosi” - avrebbe ritenuto corretta l’opzione B), di contro il ricorrente ha scelto l’opzione C). Infine, il quesito n. 48 - così formulato: “La porpora si riscontra più frequentemente in caso di: A) piastrinopenia; B) vasculopatia; C) trombocitosi” - avrebbe giudicato corretta l’opzione A), il ricorrente ha optato per l’opzione B). 2.2. - Il primo giudice, dopo aver passato in rassegna i principi pretori per cui, in relazione alle prove concorsuali fondate su quesiti a risposta multipla, risulta imprescindibile che l’opzione, da considerarsi valida per ciascun quesito, sia l’unica effettivamente e incontrovertibilmente corretta sul piano scientifico, costituendo tale elemento un preciso obbligo dell’Amministrazione, ha ravvisato l’intrinseca ambiguità dei quesiti contestati e, in accoglimento dell’articolata censura, ha rettificato recta via il punteggio conseguito dal candidato incrementandolo rispettivamente di 0,8 per ciascuno dei quesiti (+0,50 per ciascuna delle tre risposte, da considerarsi esatte, +0,30 per ciascuna delle tre risposte valutate errate dalla Commissione) in guisa da superare la prova di resistenza e passare alla prova successiva della procedura. - Ricorre in appello per la riforma della prefata statuizione di primo grado l’Azienda Ospedaliera dei Co. affidando il gravame ad un unico, articolato mezzo di impugnazione che si appunta sull’error in iudicando del primo giudice per travisamento in fatto e in diritto, incompletezza e difetto motivazionale e istruttorio. L’Azienda appellante, nel dedurre che il testo dei quiz non può essere assoggettato a procedimento ermeneutico in funzione integrativa, diretto addirittura a evidenziare in esso pretesi significati inespressi, bensì va interpretato secondo il significato immediatamente evincibile dal tenore letterale delle parole e dalla loro connessione, ha ribadito che i tre quesiti avevano una sola risposta esatta individuabile in modo inequivoco e, a tal uopo, ha svolto ampie argomentazioni medico-cliniche corredate da letteratura scientifica concernente gli ambiti di merito dei tre quesiti. Nel suo complesso, l’appello censura lo sconfinamento del sindacato del primo giudice, il quale, scrutinando la correttezza delle risposte del quiz, avrebbe invaso l’area di stretto merito amministrativo, tradizionalmente preclusa al sindacato di legittimità del giudice amministrativo che non potrebbe sostituirsi ad una valutazione rientrante nelle competenze valutative specifiche degli organi dell'Amministrazione a ciò preposti. - Si è costituito in giudizio il dott. -OMISSIS-, che ha controdedotto alle allegazioni di parte appellante e domandato la reiezione dell’appello. - In esito alla trattazione cautelare il Collegio, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, ha scrutinato favorevolmente l’istanza sospensiva limitatamente agli effetti assunzionali preservando la res adhuc integra e tenendo ferma esclusivamente l’efficacia dell’ammissione con riserva alla procedura e dell’inclusione con riserva nella graduatoria finale, nelle more della delibazione di merito. - Espletato lo scambio di memorie difensive, la causa è venuta in discussione all’udienza pubblica del 23 aprile 2024 e successivamente spedita in decisione. - Il thema decidendum che viene all’attenzione del Collegio attiene alla peculiare delimitazione dei margini di sindacato del giudice amministrativo allorquando venga in rilievo la discrezionalità tecnica dell’Amministrazione nella formulazione di quesiti a risposta aperta o chiusa in sede di selezione concorsuale per l’assunzione. 7.1. - Al riguardo è nota la posizione tradizionalmente assunta dalla giurisprudenza di questo Consiglio (v., Cons. Stato, sez. VI, 12 settembre 2014, n. 4670) per cui sindacare la correttezza delle risposte significa sconfinare nel merito amministrativo, ambito precluso al giudice amministrativo, il quale non può sostituirsi ad una valutazione rientrante nelle competenze valutative specifiche degli organi dell’Amministrazione a ciò preposti, e titolari della discrezionalità di decidere quale sia la risposta esatta ad un quiz formulato; ciò secondo la propria visione culturale, scientifica e professionale che ben può essere espressa in determinazioni legittime nei limiti, complessivi, della attendibilità obiettiva, nonché - quanto al parametro-limite logico “inferiore” di tale sfera di discrezionalità - della sua non manifesta incongruenza/travisamento rispetto ai presupposti fattuali assunti o della sua non evidente illogicità (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 marzo 2023, n. 3259). Senonché, è altrettanto nota la traiettoria seguita dal diritto vivente per quanto concerne la sindacabilità della discrezionalità tecnica, approdata infine ad un sindacato più penetrante che si conforma al parametro della attendibilità logico-scientifica, lasciando invece impregiudicata la sfera di stretta condivisibilità del giudizio espresso dall’Amministrazione, ambito per definizione caratterizzante la sfera di merito amministrativo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 5 dicembre 2022, n. 10624). Tale correzione di rotta verso un sindacato più incisivo sulle scelte tecnico-discrezionali dell’Amministrazione non può non rifluire anche sulla materia delle selezioni concorsuali. Al riguardo, come statuito da questa Sezione (cfr. Cons. Stato, sez. III, 1° agosto 2022, n. 6756), “se certamente compete all’amministrazione la formulazione dei quesiti, non può tuttavia ricondursi alla esclusiva discrezionalità tecnica dell’ente l’individuazione del contenuto coerente ed esatto della risposta, che deve invece potersi desumere con univocità dalla sua stessa formulazione e dal contesto tecnico-scientifico di fondo”. 7.2. - Stringendo il fuoco della disamina sui quiz a risposta chiusa, è stato altresì evidenziato (cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 1999 del 21 marzo 2022) che “ogni quiz a risposta multipla deve prevedere con certezza una risposta univocamente esatta per evitare una valutazione dei candidati in violazione del principio della par condicio desumibile dall’art. 97 Cost. (Cons. St., sez. V, 17 giugno 2015, n. 3060), sicché, in altre parole, in presenza di quesiti a risposta multipla, una volta posta la domanda non può ricondursi alla esclusiva discrezionalità tecnica dell'ente l’individuazione del contenuto coerente ed esatto della risposta (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 5 gennaio 2021, n. 158)”. Orbene, la scrutinabilità alla stregua del parametro di attendibilità logico-scientifica ben si presta all’applicazione nella fattispecie in esame: guardandosi bene dallo scivolare sul terreno sdrucciolevole del merito dei singoli quesiti, essa deve situarsi sul carattere univoco o meno delle risposte proposte in alternativa. Si può assumere come regula iuris dirimente ai fini di apprezzare l’equivocità di un quesito della natura di quelli per cui è causa la presenza di letteratura scientifica o di documentazione ufficiale che accrediti come corrette (o parimenti corrette) le risposte ritenute invece erronee dall’Amministrazione. Al verificarsi di questa circostanza il sindacato del GA sull’operato tecnico-discrezionale dell’Amministrazione può dirsi pienamente legittimo in quanto mira a sindacare l’attendibilità dei quesiti nella loro tenuta logico-scientifica a fronte di una lex specialis limpida e inequivocabile che stabilisce la presenza di una sola risposta esatta nel questionario a risposta multipla (verbale n. 3 del 9 marzo 2023 sub all. 4 fascicolo di primo grado). - Trasponendo, dunque, tali coordinate ermeneutiche alla fattispecie in esame si constata quanto segue. Con riguardo al quesito 41 (“Quale delle seguenti malattie si può trasmettere per via aerea? A) Meningite cerebrospinale epidemica B) Parotite C) Mononucleosi”) il primo ricorrente aveva depositato nel giudizio di prime cure la versione del test ministeriale 2012 per l’accesso alla scuola di specializzazione in Igiene A.A. 2012/13 ove figura lo stesso quesito con identica formulazione, ma risposta difforme da quella dell’Amministrazione e concorde con le note critiche dell’odierno appellato. Ha poi ulteriormente avvalorato la tesi della possibile trasmissibilità della mononucleosi anche per via aerea producendo alcune pagine ipertestuali a valenza informativa dell’Istituto Superiore di Sanità e del Ministero dell’istruzione e del merito. Ad ulteriore corroborazione di tale asserto mette conto di rilevare che la Sezione si è già pronunciata sullo stesso quesito nell’ambito di un giudizio parallelo ove si dibatteva della correttezza della trasmissibilità per via aerea anche della meningite cerebrospinale, in aggiunta alla riferita parotite (cfr. Cons. Stato, sez. III, 20 febbraio 2024, n. 1694): la Sezione ha stigmatizzato la distinzione tra trasmissione per via aerea e via respiratoria tracciata dal perito dell’Azienda Ospedaliera che non offre un chiaro criterio discretivo per orientarsi tra le tre patologie proposte dal quesito - anche in raffronto con la manualistica compulsata in quel giudizio in materia di Igiene - e ha concluso che, sulla scorta delle risultanze tecnico-scientifiche, il quesito in discorso presentava margini oggettivi di ambiguità, non superabili attraverso lo sforzo di diligenza interpretativa esigibile dai candidati al concorso di cui si trattava, i quali inficiavano in radice l’idoneità dello stesso ad assurgere a strumento attendibile di verifica della preparazione dei concorrenti. Il Collegio intende, infatti, dare continuità ad una preziosa ratio decidendi della precedente pronuncia, alla stregua della quale “lo sforzo di approfondimento del quesito, al fine di farne emergere intero il significato e quindi calibrare la risposta corretta in modo che ne soddisfi in maggior misura il nucleo esplicativo, deve essere raccordato alla specifica tipologia del posto oggetto di concorso, non potendo esigersi - per esemplificare - ad un candidato ad un concorso di livello non accademico di porre a confronto testi scientifici eventualmente non coerenti, onde estrapolare la posizione più plausibile” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 20 febbraio 2024, n. 1694). Nel caso di specie, il concorso mirava a selezionare collaboratori professionali sanitari - infermieri, indi non era esigibile un grado di discernimento dei quesiti tale da sapersi necessariamente orientare tra domande munite di un non trascurabile grado di verosimiglianza, optando per quella più plausibile scientificamente rebus sic stantibus e destreggiandosi tra le altre, pur in limine corrette, ma meno accreditate o comuni. 8.1. - Alla luce di quanto considerato, il quesito in esame sconta un insanabile tasso di equivocità e ambiguità che finisce per integrare un vizio nell’esercizio del potere tecnico-discrezionale da parte dell’Azienda ospedaliera nella formulazione dello stesso. - Spostando la disamina sul quesito n. 48 - così formulato “La porpora si riscontra più frequentemente in caso di: A) piastrinopenia; B) vasculopatia; C) trombocitosi” (per la Commissione la risposta esatta era la A, il candidato ha optato per la lettera B) - deve rilevarsi, concordemente con quanto opinato dal giudice di prime cure, che la porpora, in campo medico, è una nozione intrinsecamente polisemica che abbraccia un insieme di malattie aventi come caratteristica comune un quadro emorragico a livello dei tessuti caratterizzato da macchie di dimensioni variabili che non scompaiono alla digito-vitro-pressione: la pronuncia appellata ha ravvisato l’ambiguità e l’equivocità del quesito sulla scorta del rilievo, corroborato dalla letteratura scientifica, che la pluralità di malattie di cui la porpora è sintomatica acclude “entità diverse come difetti delle piastrine, vasculiti e disturbi del tessuto connettivo”, ponendo dunque sullo stesso piano di astratta efficacia causale sia la piastrinopenia, sia la vasculopatia. 9.1. - Sempre sul versante eziopatogenetico il compendio documentale versato dall’Azienda appellante non vale a schiarire il campo dai dubbi adombrati dal primo ricorrente e recepiti dal TAR: la relazione peritale a firma del dott. -OMISSIS-, infatti, traccia una summa divisio tra porpora trombocitopenica (espressione di una riduzione, più o meno marcata, del numero di piastrine circolanti nel sangue) e non trombocitopenica, la cui causa “non è identificabile nella riduzione della conta piastrinica. Questa variante della porpora è conseguente a disordini vascolari” (v. relazione sub doc. 4 Relazione Dott. -OMISSIS-). Il successivo passaggio in cui il perito liquida sbrigativamente come eccessivamente generico il riferimento alle vasculopatie entra in contraddizione con quanto da lui stesso affermato in sede di classificazione dei gruppi di porpora e non trova comunque riscontro nella letteratura medico-scientifica che annovera, a fianco della porpora trombocitopenica, anche la porpora di Henoch-Schönlein che viene proprio descritta come una forma acquisita di vasculite dei piccoli vasi (ovvero vasculopatia). Ne riviene che la delimitazione delle risposte corrette alla sola piastrinopenia come perorato dall’Azienda ospedaliera non sarebbe suffragata dalle stesse evidenze documentali di parte appellante, né troverebbe comunque riscontro nella letteratura scientifica relativa alla porpora di Henoch-Schönlein. Deve quindi concludersi, al pari del quesito n. 41, per l’inesattezza e l’ambiguità della formulazione del quesito, integrante un vizio di eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza. - La disamina della res controversa può arrestarsi al riscontrato vizio concernente i due quesiti di cui sopra, valevoli di per sé soli a superare la soglia di sufficienza richiesta dalla lex specialis di concorso (21/30) con conseguente infondatezza dell’appello e conferma della statuizione di prime cure. - Alla luce delle peculiarità della vicenda, il Collegio ritiene che sussistano giustificati motivi per compensare le spese di lite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2024 con l’intervento dei magistrati: Raffaele Greco - Presidente Giovanni Pescatore - Consigliere Nicola D'Angelo - Consigliere Luca Di Raimondo - Consigliere Angelo Roberto Cerroni - Consigliere, Estensore L'ESTENSORE IL PRESIDENTE Angelo Roberto Cerroni Raffaele Greco IL SEGRETARIO

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 6672 del 2023, proposto dalla Ci. di Le. Ho. Gv. Ca. & Re. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fl. Ia., Fr. Sc. e Gi. Lu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro l'Azienda Sanitaria Locale di Taranto, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ma. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; la Regione Puglia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Is. Fo. e Pa. Sc., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sezione seconda, n. 711 del 3 maggio 2023, resa tra le parti, concernente il riconoscimento di indennità per il periodo corrispondente alla permanenza di pazienti ospedalieri nei reparti di oncologia e ematologia in una clinica privata. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Azienda Sanitaria Locale di Taranto e della Regione Puglia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 26 marzo 2024 il consigliere Nicola D'Angelo e uditi per le parti gli avvocati Fl. Ia., Pa. Sc. e Ma. Ca.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La Ci. di Le. Ho. Gv. Ca. & Re. gestisce il presidio "D'A. Ho." di Ta., struttura autorizzata all'esercizio nelle discipline di chirurgia generale e di ortopedia e traumatologia per 50 posti letto, di cui 40 accreditati. 1.2. Nel contesto del potenziamento delle reti di assistenza sanitaria territoriale resosi necessario per fronteggiare l'emergenza causata dalla pandemia da covid 19, nel periodo 24 marzo - 3 giugno 2020 (quindi per 72 giorni), presso il "D'A. Ho." è stato trasferito il reparto di oncoematologia del presidio ospedaliero pubblico "Sa. Gi. Mo." di Ta. (lo stesso presidio è stato infatti riconvertito in hub covid 19 e si è dunque dovuto evitare di esporre al virus pazienti fragili ed immunodepressi). 1.3. Presso la struttura della clinica D'A. sono stati quindi trasferiti gli arredi, i beni e le forniture utili al funzionamento del reparto di ematologia ed è stata disposta la dislocazione del personale dell'Asl di Taranto al fine di organizzare il reparto di oncoematologia presso la parte di struttura immobiliare messa a disposizione. 1.4. In particolare, la società Ci. di Le. Ho. Gv. Ca. & Re. ha messo a disposizione presso la sua clinica diversi ambienti. In via esclusiva, gli ambulatori medici al piano terra, il primo piano dedicato all'accettazione dei day service, il secondo piano dedicato alle degenze, gli ambulatori medici al piano terra, il primo piano dedicato all'accettazione dei day service e il secondo piano dedicato alle degenze. In condivisione, gli ambienti comuni del piano terra. Inoltre, ha reso disponibile per il periodo di utilizzo taluni servizi quali consulenze mediche del cardio e dell'anestesista, radiodiagnostica per immagini e analisi cliniche, servizio di triage all'ingresso, servizio centralino, servizio accettazione, servizio di pulizia e sanificazione, servizio di manutenzione, nonché la fornitura di gas medicali e dei servizi essenziali (acqua, energia elettrica e metano). 1.5. Con deliberazione n. 1131 del 29 maggio 2020, il Direttore generale dell'Asl di Taranto ha determinato il fondo unico di remunerazione e dei tetti di spesa provvisori per l'acquisito di prestazioni da erogarsi nell'anno 2020 in regime di ricovero ordinario da parte delle Strutture Private Accreditate insistenti nel suo ambito territoriale. In applicazione della delibera di Giunta regionale n. 525 dell'8 aprile 2020 (avente ad oggetto l'istituzione della rete ospedaliera di emergenza "Piano Ospedaliero SARS - Cov2" e adottata ai sensi dell'art. 3 del DL 17 marzo 2020 n. 18), l'Asl ha quindi determinato in euro 5.500,00 al mese l'indennità da corrispondere alla casa di cura D'A. per il periodo di utilizzo corrispondente alla permanenza nella sua sede del reparto di oncoematologia, precisando che "la stima è stata effettuata avuto riguardo, secondo quanto previsto dall'art. 6, co. 8, del D.L. n. 18/2020, ai valori medi delle correnti quotazioni di mercato per le zone e le tipologie d'immobile di interesse" e che comunque l'indennità così determinata andava portata in detrazione dal tetto di spesa assegnato per il periodo corrispondente alla permanenza del reparto di ematologia. 1.6. Contro la suddetta determinazione la società Ci. di Le. Ho. Gv. Ca. & Re. ha proposto ricorso al Tar di Bari. 2. Il Tar, con la sentenza indicata in epigrafe (n. 711 del 2023), ha respinto il gravame, compensando le spese di giudizio. Lo stesso Tribunale ha ritenuto che il decreto legislativo 17 marzo 2020, n. 18 (sul potenziamento delle reti di assistenza territoriale nell'emergenza covid) all'art. 3, commi 1 e 2, facesse riferimento, per un maggiore riconoscimento dei costi, solo all'ipotesi in cui fossero stati messi a disposizione congiuntamente personale, locali e servizi. In sostanza, il personale della clinica D'A. non si sarebbe fatto carico dei pazienti oncologici, avendo provveduto il personale del reparto trasferito dal presidio ospedaliero pubblico, e comunque sarebbe stata assorbente l'aspetto relativo alla cessione temporanea dei locali. 2.1. D'altra parte, il Tar ha anche rilevato come il citato art. 3 non contenesse indicazioni sulla remunerazione di qualsivoglia modalità di apporto delle strutture private, cosicché la conseguente delibera regionale (D.G.R. n. 525/2020) ha tenuto conto sul punto "delle Linee Guida del Ministero della Salute (nota prot. 0007648-20/03/2020) recante "Emergenza COVID - 19 e flussi informativi NSIS: codifiche e tempistiche di trasmissione" e quindi delle tariffe DRG derivanti dall'applicazione delle citate codifiche. 2.2. Il giudice di primo grado ha poi ritenuto infondata anche la doglienza relativa all'irragionevolezza della D.G.R. n. 525/2020 nella parte in cui ha applicato per analogia alla remunerazione della "Modalità D" il criterio di quantificazione delle requisizioni in uso di strutture alberghiere, ovvero di altri immobili aventi analoghe caratteristiche di idoneità, per ospitarvi le persone in sorveglianza sanitaria e isolamento fiduciario o in permanenza domiciliare, ai sensi dell'art. 6 del DL n. 18 del 2020. 2.3. Allo stesso modo, è stata ritenuta infondata anche la censura relativa al concreto calcolo effettuato dall'Asl, non potendosi ritenere, come affermato dalla ricorrente, che il caso in esame fosse da ricomprendere nell'ambito di una cessione di ramo d'azienda piuttosto che della concessione del godimento di un bene immobile. 3. La suddetta sentenza è stata impugnata dalla Ci. di Le. Ho. Gv. Ca. & Re. sulla base dei motivi di appello di seguito sinteticamente indicati: i) la decisione del Tar sarebbe erronea laddove non ha ritenuto applicabile l'art. 3, comma 3, del DL n. 18 del 2020 (la norma prevedeva che le struttura sanitare privare durante l'emergenza covid mettessero a disposizione non solo le strutture, ma anche il personale necessario, inteso comprensivo oltre che del personale medico specialistico, delle altre professionalità necessarie - infermieri, oss, personale tecnico); ii) il giudice di primo grado avrebbe erroneamente ritenuto applicabile in via analogica la disposizione di cui all'art. 6, comma 8, del DL n. 18 del 2020 sulla quantificazione dell'indennizzo spettante in caso di requisizione delle strutture alberghiere o di analoghe caratteristiche alla struttura sanitaria; iii) non sarebbe sussistita nel caso in esame una lacuna normativa che consentisse l'applicazione in via analogica di altre disposizioni, tenuto conto che l'attività prestata sarebbe stata configurabile nell'ipotesi disciplinata dal citato art, 3, comma 3; iv) la sentenza del Tar sarebbe stata erronea anche nel ritenere che, essendo prevalente la resa di una disponibilità dei locali, nella remunerazione conseguente si dovesse tener conto della teoria contrattuale del c.d. assorbimento. 4. La Regione Puglia e la Asl di Taranto si sono costituite per resistere in giudizio rispettivamente il 26 settembre 2023 e l'11 gennaio 2024. 5. Parte appellante ha depositato ulteriori documenti il 9 febbraio 2024. 6. La Regione Puglia e la Asl di Taranto hanno depositato memorie il 23 febbraio 2024, cui ha replicato l'appellante il 5 marzo 2023. 6.1. In particolare, la Regione Puglia, oltre a confutare i motivi di appello, ha ribadito, nell'atto di costituzione, quanto rappresentato in primo grado in ordine alla inammissibilità del ricorso in ragione della tardiva impugnazione della delibera regionale D.G.R. n. 525 del 2020. 7. La causa è stata trattenuta in decisione nell'udienza pubblica del 26 marzo 2024. 8. Preliminarmente, va esaminata l'eccezione di tardività del ricorso. Secondo la Regione Puglia la società ricorrente avrebbe tardivamente impugnato la D.G.R. n. 50 del 10 aprile 2020 (il ricorso introduttivo è stato notificato il 2 luglio 2020). 8.1. L'eccezione, già formulata in primo grado, non è stata esaminata dal Tar per la ritenuta infondatezza del gravame nel merito ed è stata quindi riproposta in questa fase di giudizio. 8.2. In via generale, va rilevato che l'eccezione di tardività del ricorso di primo grado, qualora non sia stata esaminata dal Tar, va riproposta nel giudizio di appello a pena di decadenza entro il termine di costituzione in giudizio, vale a dire 60 giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso (art. 46, comma 1, c.p.a.), ai sensi dell'art. 101, comma 2, c.p.a. L'eccezione di tardività, nel caso in esame, è stata quindi ritualmente riproposta dalla Regione nella costituzione in giudizio avvenuta il 26 settembre 2023. 8.3. L'eccezione non può ritenersi fondata. Gli effetti lesivi della delibera regionale n. 50 del 2020 si sono concretizzati al momento della quantificazione dell'indennizzo con l'atto della Asl e comunque la Regione, prima di arrivare alla determinazione impugnata, con una nota del 21 maggio 2020 (cfr. allegato 2 al ricorso di primo grado), di riscontro alla richiesta di chiarimenti della ricorrente, aveva richiamato l'art. 3, comma 3, del DL n. 18 del 2020, convertito nella legge n. 27 del 2020, come disciplina applicabile al caso, ingenerando quindi diversi possibili profili di interpretazione della delibera regionale citata (nella nota, peraltro, era contenuto un rinvio all'art. 6, comma 4, dello stesso decreto). 9. L'appello è fondato nei limiti di seguito indicati. 10. La questione centrale della presente controversia, esaminata dunque come profilo più rilevante ed assorbente, si incentra sulla disciplina applicabile e sul calcolo dell'indennizzo conseguente alla messa a disposizione dei locali della casa di cura della ricorrente per il trasferimento temporaneo del reparto di oncoematologia del presidio ospedaliero pubblico Sa. Gi. Mo. di Ta.. 10.1. Il Tar ha sostenuto, nella sentenza impugnata, che non sarebbero stati applicabili gli artt. 3, comma 3, e 6, comma 4, del DL n. 18 del 2020 in quanto non sarebbero stati messi a disposizione, oltre ai locali, il personale medico e le attrezzature. Per questa ragione, l'indennizzo spettante all'appellante per le attività prestate doveva essere calcolato in via analogica secondo i criteri di cui all'art. 6, comma 8. 10.2. Secondo parte appellante, invece vi sarebbe stata un'erronea interpretazione della normativa di riferimento e un travisamento delle reali attività svolte nel periodo di trasferimento del suddetto reparto (l'art. 3, comma 3, del decreto legge citato, non rispondeva alla sola esigenza di sopperire alla carenza di personale medico sanitario, ma anche a quella, ulteriore e diversa, di avere a disposizione locali e attrezzature aggiuntivi necessari per consentire l'erogazione delle prestazioni sanitarie). 11. Ciò detto, va innanzitutto rilevato che la delibera della regione Puglia n. 525/2020 ha tenuto conto sul punto della remunerazione "delle Linee Guida del Ministero della Salute (nota prot. 0007648-20/03/2020) recante "Emergenza COVID - 19 e flussi informativi NSIS: codifiche e tempistiche di trasmissione" e quindi delle relative tariffe DRG, prevedendo alcune modalità di indennizzo. 11.1. L'atto della Asl impugnato (n. 1131 del 29 maggio 2020) ha richiamato la delibera regionale quanto alla modalità D in essa prevista (cioè quella disciplinata dal citato art. 6, comma 8), determinandosi non sulla base delle altre modalità di DRG ma per un indennizzo pari ad euro 5.500,00 "la stima è stata effettuata avuto riguardo, secondo quanto previsto dall'art. 6, co. 8, del D.L. n. 18/2020, ai valori medi delle correnti quotazioni di mercato per le zone e le tipologie d'immobile di interesse". 11.2. In sostanza, si è fatto riferimento alla previsione della requisizione di immobili e alla conseguente remunerazione in via analogica sulla base del citato art. 6, comma 8. 11.3. Tuttavia, tenuto conto della peculiarità del caso nel quale non è stata fornita la sola disponibilità della struttura, non sembra potersi operare la determinazione dell'indennizzo esclusivamente con il richiamo in via analogica al comma 8 dell'art. 6, che in effetti disciplina un'ipotesi che non può essere considerata analoga. 11.4. I locali sanitari messi a disposizione presentano infatti caratteristiche specifiche sia dal punto di vista strutturale che funzionale che non li rendono sovrapponibili ad immobili requisiti quali quelli alberghieri o similari (la struttura immobiliare della casa di cura si colloca con evidenza all'interno di un complesso in cui sono presenti una serie di segmenti necessari allo svolgimento delle prestazioni sanitarie). 11.5. L'operazione ermeneutica, necessaria a causa dell'essenza di una chiara norma di riferimento (fatto non contestato), avrebbe dovuto quindi considerare tali differenze e fondarsi su una applicazione sistematica delle diverse disposizioni del decreto legge (in particolare dell'art. 3). 11.6. La norma di cui all'art. 6, comma 8, richiamata in via analogica, definiva invece i criteri di quantificazione dell'indennizzo spettante per le attività prestate ai sensi dell'art. 6, comma 7, del DL n. 18 del 2020, quindi per le attività di messa a disposizione di "strutture alberghiere, ovvero di altri immobili aventi analoghe caratteristiche di idoneità, per ospitarvi le persone in sorveglianza sanitaria e isolamento fiduciario o in permanenza domiciliare, laddove tali misure non possano essere attuate presso il domicilio della persona interessata". 11.7. Il caso in esame, anche alla luce della delibera regionale n. 525/2020, riguarda il trasferimento presso strutture private per "evitare di esporre al citato virus pazienti fragili e immunodepressi" e, segnatamente, l'esigenza di garantire la continuità terapeutica di prestazioni salvavita di oncoematologia non garantite presso il presidio ospedaliero pubblico (tant'è che la richiesta di manifestazioni di interesse avanzata dalla Regione con nota prot. n. 215 del 13 marzo 2020 era rivolta a operatori e case di cura private, già accreditate, in grado di riconvertire in tempi brevissimi l'attività, destinando la struttura a percorsi distinti e dedicati per l'emergenza covid 19 (cfr. allegato sub doc. 9 ricorso di primo grado). 11.8. Ne consegue che l'Amministrazione, nella determinazione dell'indennizzo avrebbe dovuto esercitare la propria discrezionalità considerando in modo ragionevole e motivato le differenze con le strutture alberghiere dei locali utilizzati. 12. Per queste ragioni, l'appello va accolto e, per l'effetto, va riformata la sentenza impugnata, disponendo, in esito all'accoglimento del ricorso di primo grado, che la Asl di Taranto si ridetermini, sentita la Regione Puglia, nei sensi sopra indicati (fermo restando che parte ricorrente dovrà specificare puntualmente e in modo verificabile le attività svolte in funzione della struttura utilizzata dal reparto di oncoematologia). 13. Le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate in ragione dei complessi profili interpretativi. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello n. 6672 del 2023, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti indicati in motivazione. Compensa le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Stefania Santoleri - Presidente FF Nicola D'Angelo - Consigliere, Estensore Luca Di Raimondo - Consigliere Pier Luigi Tomaiuoli - Consigliere Enzo Bernardini - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. TRIA Lucia - Presidente Dott. MAROTTA Caterina - Consigliere rel. Dott. ZULIANI Andrea - Consigliere Dott. BELLÉ Roberto - Consigliere Dott. DE MARINIS Nicola - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 8782/2018 R.G. proposto da: La.St., rappresentata e difesa dall'Avv. PI.PA. ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, Via (...); - ricorrente - contro MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO; - controricorrente - avverso la sentenza n. 4311/2017 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 14/12/2017 R.G.N. 5192/2014; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2024 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l'assorbimento del ricorso incidentale condizionato; udito l'avvocato TI.AG. per delega verbale avvocato Pi.Pa.; udito l'avvocato GI.SA. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d'appello di Roma rigettava il gravame proposto da La.St. avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva respinto le sue domande volte ad ottenere in via principale l'accertamento della sussistenza di prestazioni di lavoro subordinato, corrispondente alla posizione di dipendente di Area C, posizione economica C2 del CCNL Comparto Ministeri, l'inserimento nei ruoli organici del Ministero della giustizia con il suddetto inquadramento, la condanna dell'Amministrazione al pagamento in suo favore della complessiva somma di Euro 487.526,81 oltre accessori e delle ulteriori differenze retributive fino alla pubblicazione della sentenza, oltre al versamento dei contributi previdenziali e al risarcimento del danno per la mancata regolarizzazione contributiva e alla ricostruzione della carriera, nonché la domanda proposta in via subordinata volta ad ottenere la condanna dell'Amministrazione al pagamento della somma di Euro 487.526,81 oltre accessori, a titolo di ingiustificato arricchimento. 2. La.St., a seguito di selezione pubblica, bandita dal Ministero della Giustizia, ai sensi dell'art. 80, comma 4, della L. n. 354/1975, e degli artt. 13 dell'ordinamento penitenziario e 120 del relativo regolamento di esecuzione, aveva avuto accesso alla lista degli psicologi esperti ed aveva svolto diversi incarichi. Dal settembre 1987 era stata trasferita a Roma presso il nuovo complesso carcerario di Rebibbia ove, per lo svolgimento dei vari incarichi, aveva sottoscritto varie convenzioni. Aveva dedotto che l'attività aveva avuto le connotazioni del lavoro subordinato e che le prestazioni rese corrispondevano alla posizione di un dipendente di area C, posizione economica C2. 3. Il Tribunale aveva respinto la domanda escludendo l'eterodirezione dell'attività, ritenendo riconducibile al lavoro autonomo la possibile revoca dell'incarico, ritenendo infondata la domanda anche in relazione alla parasubordinazione ed all'ingiustificato arricchimento. 4. La Corte territoriale evidenziava che la lavoratrice aveva concordato con la direzione presenze, giorni ed ore, ivi compreso l'orario extra nei casi urgenti. Riteneva tale circostanza incompatibile con l'asserita natura subordinata del rapporto di lavoro, nel quale il dipendente non può rifiutarsi di svolgere il lavoro straordinario che gli venga richiesto. Rimarcava che l'oggetto ed il contenuto della prestazione professionale dello psicologo non richiedono l'impiego di mezzi particolari ed escludeva pertanto la necessità di un'organizzazione propria anche di carattere minimo. Riteneva inoltre che il potere di revocare l'incarico da parte dell'Amministrazione deponesse per l'insussistenza del rischio economico. Considerava, a fronte delle previsioni contenute nell'art. 80 della legge n. 354/1975, priva di valenza indiziaria ai fini della qualificazione del rapporto la circostanza che il compenso percepito dalla lavoratrice fosse commisurato alle ore di presenza nel carcere. 3. Per la cassazione della sentenza di appello La.St. ha prospettato un unico motivo di ricorso. 4. Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso e proposto, altresì ricorso incidentale condizionato affidato ad un unico motivo. La causa, chiamata all'adunanza camerale del 3/10/2023, con ordinanza interlocutoria n. 30236/2023, è stata rimessa all'udienza pubblica. 6. Il P.G. ha presentato memoria scritta concludendo per il rigetto del ricorso principale con assorbimento del ricorso incidentale condizionato. 7. Entrambe le parti hanno depositato memorie. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con l'unico motivo, la ricorrente principale denuncia violazione degli artt. 2094 e 2222 cod. proc. civ, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. lamenta che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto l'inesistenza del potere direttivo dell'Amministrazione, omettendo di considerare le sue incontestate deduzioni relative alla necessità di autorizzazione delle segnalazioni e giustificazioni di assenze per ferie, malattia, motivi di famiglia, nonché l'autorizzazione alla sostituzione dei colleghi, con obbligo di servizio giornaliero e all'osservanza dei rigidi orari serali (inizialmente 19.00 - 21.00 e successivamente 17.00-21.00) comprensivi di giorni festivi e festività; evidenzia che la Direzione del carcere richiedeva la sua presenza quotidiana, le assegnava i casi da trattare determinando così la retribuzione, le forniva indicazioni sulle modalità di intervento attraverso ordini di servizio, fissava orari, autorizzava ferie ed assenze; rimarca che era tenuta a relazionare per iscritto sulle attività e sui risultati ottenuti; sostiene l'irrilevanza del potere di revoca del mandato da parte dell'Amministrazione, visto che comunque il lavoratore subordinato può essere licenziato; argomenta che la modalità e la specificità con cui il datore di lavoro esercita il potere conformativo dipendono dalla natura delle mansioni svolte, dal grado di autonomia che le caratterizza e dalla struttura dei processi organizzativi. Precisa che, ai fini della qualificazione del rapporto in termini di subordinazione, sono sufficienti l'etero organizzazione o l'eterodirezione, intesa come stabile disponibilità nel tempo alle esigenze dell'impresa; richiama la giurisprudenza di legittimità sulla valenza del nomen iuris adottato dalle parti ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, sugli indici sussidiari della subordinazione e sulla "doppia alienità", con specifico riferimento alle pronunce riguardanti la qualificazione del rapporto di lavoro dei medici. 2. Con l'unico motivo di ricorso incidentale, il Ministero della Giustizia denuncia l'omesso accertamento della prescrizione del credito azionato dalla controparte. 3. Il ricorso principale è infondato. 4. Gli psicologi penitenziari sono collocabili in due categorie: 1) psicologi dipendenti di ruolo, che esercitano funzioni sanitarie nell'ambito del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia (si tratta di dipendenti che hanno anche beneficiato dei trasferimenti di cui al D.P.R. 1 aprile 2008, si vedano Cass. 18 maggio 2020, n. 9096; Cass. 11 maggio 2023, n. 12804); 2) psicologi ex art. 80 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento Penitenziario), disposizione (modificata dall'art. 14 del D.L. 14 aprile 1978, n. 111, convertito, con modificazioni, dalla Legge 10 giugno 1978, n. 271 e poi dall'art. 11, comma 1, lettera s), del D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 123) ai sensi della quale: "1.Presso gli istituti di prevenzione e di pena per adulti, oltre al personale previsto dalle leggi vigenti, operano gli educatori per adulti e gli assistenti sociali dipendenti dai centri di servizio sociale previsti dall'articolo 72. 2. L'amministrazione penitenziaria può avvalersi, per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, di personale incaricato giornaliero, entro limiti numerici da concordare annualmente, con il Ministero del tesoro. 3. Al personale incaricato giornaliero è attribuito lo stesso trattamento ragguagliato a giornata previsto per il corrispondente personale incaricato. 4. Per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l'amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, nonché di mediatori culturali e interpreti, corrispondendo ad essi onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate. 5. Il servizio infermieristico degli istituti penitenziari, previsti dall'art. 59, è assicurato mediante operai specializzati con la qualifica di infermieri. 6. A tal fine la dotazione organica degli operai dell'amministrazione degli istituti di prevenzione e di pena, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1971, n. 275, emanato a norma dell'articolo 17 della legge 28 ottobre 1970, n. 775, è incrementata di 800 unità riservate alla suddetta categoria. Tali unità sono attribuite nella misura di 640 agli operai specializzati e di 160 ai capi operai. 7. Le modalità relative all'assunzione di detto personale saranno stabilite dal regolamento di esecuzione". La finalità perseguita dal legislatore, in applicazione di principi di matrice costituzionale secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, è dunque quella dell'effettivo ravvedimento finalizzato al successivo reinserimento del condannato nella società, perseguibile solo attraverso un periodo di osservazione, trattamento e di partecipazione all'opera rieducativa. Come facilmente intuibile, il legislatore ha previsto che, per un più efficace perseguimento di dette finalità, l'amministrazione penitenziaria possa avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, corrispondendo ad essi onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate in relazione alle attività di osservazione e di trattamento. 5. La ricorrente appartiene alla seconda tipologia, rientrando nell'ambito degli specialisti incaricati di coadiuvare il personale di ruolo nell'attività di "osservazione e trattamento" del condannato di cui al comma 4 della suddetta disposizione allo scopo di elaborare un programma rieducativo in carcere finalizzato al suo reinserimento sociale. 6. L'assegnazione degli incarichi ai professionisti esperti ex art. 80 è affidata ai Provveditorati Regionali e prevede procedure di selezione quadriennali da cui scaturiscono elenchi e graduatorie della stessa durata. L'individualizzazione del trattamento è stata, poi, disciplinata dall'art. 13 della stessa legge n. 354/1975. L'art. 132 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) ha dettato disposizioni relativa alla nomina degli esperti per le attività di osservazione e di trattamento e previsto che: "1. Il provveditorato regionale compila, per ogni distretto di Corte d'appello, un elenco degli esperti dei quali le direzioni degli istituti e dei centri di servizio sociale possano avvalersi per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento ai sensi del quarto comma dell'art. 80 della legge. 2. Nell'elenco sono iscritti professionisti che siano di condotta incensurata e di età non inferiore agli anni venticinque. Per ottenere l'iscrizione nell'elenco i professionisti, oltre ad essere in possesso del titolo professionale richiesto, devono risultare idonei a svolgere la loro attività nello specifico settore penitenziario. L'idoneità è accertata dal provveditorato regionale attraverso un colloquio e la valutazione dei titoli preferenziali presentati dall'aspirante. A tal fine, il provveditorato regionale può avvalersi del parere di consulenti docenti universitari nelle discipline previste dal quarto comma dell'art. 80 della legge. 3. Le direzioni degli istituti e dei centri di servizio sociale conferiscono agli esperti indicati nel comma 2 i singoli incarichi, su autorizzazione del provveditorato regionale". In questa cornice legislativa il Provveditore indica il monte ore da attribuire all'esperto, purché questi non operi già nell'istituto ad altro titolo; la collaborazione è formalizzata con la sottoscrizione di un "accordo individuale" con la Direzione dell'istituto penitenziario, dell'UEPE o delle strutture afferenti al Centro per la Giustizia Minorile. Per gli istituti penitenziari, l'accordo ha la durata di un anno con possibilità di rinnovo per un periodo di uguale durata per non più di tre volte, invece negli UEPE e nei Centri per la Giustizia Minorile la possibilità di rinnovo, alla scadenza del primo anno, è di un solo anno. 7. Dal chiaro tenore delle disposizioni richiamate emerge che gli esperti non rientrano tra il personale inserito stabilmente nei ruoli organici dell'amministrazione penitenziaria, trattandosi di liberi professionisti chiamati in convenzione dalle amministrazioni penitenziarie, in ragione della loro particolare qualificazione e specializzazione, come comprovata in sede di selezione finalizzata alla formazione di elenchi da cui in ogni tempo può attingere la singola struttura, secondo le proprie specifiche esigenze. Emerge, ancora, che gli elenchi circoscrivono la platea di specialisti di cui è stata attestata la capacità di offrire un fattivo affiancamento al personale stabile degli istituti di pena, e che possono occuparsi di quella parte di attività specialistica che, gradatamente, si orienta verso le diverse modalità del trattamento attraverso la conoscenza della personalità del detenuto, fino ad individuare le misure concrete finalizzate al successivo reinserimento, anche attraverso la sottoposizione del condannato a misure alternative alla pena detentiva; la semplice iscrizione agli elenchi, peraltro, è condizione necessaria ma non sufficiente per l'impiego degli esperti, che è invece una scelta riservata alle direzioni degli istituti di pena, in proporzione, evidentemente, alla effettiva necessità e/o budget economico disponibile. Nel rispetto della normativa, residua sempre in capo all'amministrazione penitenziaria un potere di definizione (a mezzo di proprie circolari) delle modalità di conferimento degli incarichi e di disciplina dello svolgimento dei medesimi. 8. La soluzione legislativa tiene, dunque, conto, da un lato, delle esigenze di rieducazione di cui si è detto e della necessità di potenziamento delle collaborazioni con specialisti al suddetto fine e, dall'altro, delle specificità del luogo all'interno del quale tale attività di collaborazione deve essere svolta e delle esigenze afferenti ad una rigida predisposizione di quanto occorrente per garantire che gli accessi agli istituti avvengano in piena sicurezza. 9. La situazione non è dissimile da quella del servizio per le guardie infermieristiche di cui all'art. 53 della legge 9 ottobre 1970, n. 740 (guardia infermieristica), egualmente previsto per le esigenze degli istituti di prevenzione e di pena. Proprio con riguardo alle guardie infermieristiche la Corte cost. con la sentenza n. 76/2015 ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 53 della legge 9 ottobre 1970, n. 740, impugnato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 36, primo comma, 38, secondo comma, Cost., in quanto non consente di qualificare il rapporto di lavoro dell'incaricato di guardia infermieristica negli istituti di prevenzione e pena come rapporto di lavoro subordinato e, comunque, prevede per dette prestazioni unicamente un compenso orario, con esclusione di ogni altro trattamento retributivo e previdenziale. Sono evidenti le analogie tra la disciplina di legge del rapporto di lavoro della guardia infermieristica negli istituti di prevenzione e pena, che espressamente denomina come "libero professionale" il rapporto di lavoro, e la disciplina degli psicologi esperti incaricati presso i medesimi istituti. Nel caso degli psicologi esperti, per quanto sopra evidenziato, fermo che è la struttura carceraria a presentare caratteristiche peculiari tali da giustificare la sussistenza di un vincolo di controllo da parte dell'Amministrazione, tuttavia tale vincolo, lungi dal rappresentare un indice rivelatore di un rapporto di lavoro subordinato, si giustifica in virtù della particolarità e della complessità del contesto carcerario. Come evidenziato dal Giudice delle Leggi nella citata sentenza n. 76/2015, i principali elementi che potrebbero in astratto rilevare quali indici di subordinazione, ovvero l'organizzazione del lavoro secondo il modulo dei turni, l'obbligo di attenersi alle direttive e alle prescrizioni impartite dal direttore del carcere e di comunicare le proprie assenze, la percezione di una retribuzione corrisposta secondo cadenze temporali prestabilite e lo svolgimento della prestazione nei locali e con gli strumenti messi a disposizione dall'Amministrazione penitenziaria (elementi che si riscontrano anche con riguardo alla figura dello psicologo esperto) non possono, nello specifico di una attività svolta all'interno di un carcere, qualificare il rapporto di lavoro in termini di lavoro subordinato. Sul punto, la Corte costituzionale è chiara là dove così si esprime: "se l'organizzazione in turni appare coessenziale alla prestazione di lavoro, l'obbligo di rispettare le prescrizioni del direttore del carcere e del personale medico non rispecchia l'assoggettamento dell'infermiere al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro" e "l'obbligo di uniformarsi alle prescrizioni di tenore generale del direttore del carcere, per un verso, non sminuisce l'autonomia e, per altro verso, si spiega con la peculiarità del contesto, in cui la prestazione si svolge, caratterizzato da imperative ragioni di sicurezza e di cautela, che finiscono con il permeare la disciplina del rapporto di lavoro degli infermieri incaricati e ne giustificano particolarità e limitazioni". D'altronde, "nella determinazione dei turni, nella vigilanza esercitata sull'operato degli infermieri, nell'obbligo di comunicare i giorni d'assenza, elementi che si potrebbero reputare emblematici della subordinazione, si estrinseca il necessario coordinamento con l'attività dell'amministrazione e con la complessa realtà del carcere, piuttosto che l'autonomia decisionale e organizzativa del datore di lavoro e il potere direttivo e disciplinare caratteristico della subordinazione. Il direttore del carcere, invero, non è chiamato a ingerirsi in aspetti di dettaglio della prestazione svolta dagli infermieri, né tanto meno a esercitare un controllo sull'adempimento della prestazione professionale, caratterizzata da un bagaglio di conoscenze tecniche e d'esperienza". Il Giudice delle leggi ha, così, conclusivamente chiarito che la qualificazione del rapporto come non avente natura subordinata non si prefigge una finalità elusiva della disciplina inderogabile che attiene alla subordinazione, ma pone in evidenza le peculiarità di una prestazione d'opera sottoposta a vincoli di controllo dell'Amministrazione solo in ragione del luogo in cui la prestazione stessa si svolge, e non di un potere direttivo, connotato in senso tipico e speculare all'inserimento nell'organizzazione del lavoro all'interno degli istituti di pena. 9. La sentenza della Corte costituzionale n. 76/2015 si pone d'altronde in linea con alcuni precedenti del giudice delle leggi che avevano anch'essi affrontato la questione della natura (subordinata o autonoma) del lavoro del personale non di ruolo delle carceri. Così, ad esempio, Corte cost., sent. n. 577/1989, riguardante i medici non di ruolo delle carceri disciplinati anch'essi dalla legge n. 740/1970 ha considerato tali lavoratori "parasubordinati" e Corte cost., sent. n. 149/2010, che aveva riguardato la legittimità della stabilizzazione dei medici non di ruolo delle carceri da parte di una legge regionale, ha pur sempre ribadito la natura non subordinata del loro rapporto di lavoro. 10. Anche questa Corte ha affermato (v. Cass., Sez. Un., 19 marzo 1990, n. 2286; Cass., Sez. Un., 17 dicembre 1998, n. 12618; Cass. Sez. Un., 20 maggio 2003, n. 7901), che le prestazioni dei medici di guardia presso gli istituti di prevenzione e pena, che vengano svolte con le modalità e secondo le prescrizioni dell'art. 51 della L. 9 ottobre 1970 n. 740, integrano non un rapporto di pubblico impiego, ma un rapporto di opera professionale, come tale devoluto alla giurisdizione del giudice ordinario (ed alla competenza del giudice del lavoro, per la presenza dei caratteri di cui all'art. 409 n. 3 c.p.c.), considerando che in dette prestazioni difetta il requisito della subordinazione, cioè lo stabile inserimento del lavoratore nell'organizzazione del datore di lavoro, con assoggettamento ai suoi poteri gerarchici e disciplinari. Il principio è stato più di recente ribadito (Cass. 24 aprile 2017, n. 10189) affermandosi che il rapporto di lavoro dei medici incaricati presso gli istituti di prevenzione e di pena per le esigenze del servizio di guardia medica, ai sensi dell'art. 51 della legge n. 740 del 1970, è di tipo autonomo, come risulta dall'interpretazione letterale e sistematica della disciplina richiamata, atteso che le modalità concrete del relativo svolgimento - in particolare, l'organizzazione del lavoro secondo il modulo dei turni, l'obbligo di attenersi alle direttive impartite dal direttore del carcere e dal dirigente sanitario - non integrano indici della subordinazione, ma sono espressione del necessario coordinamento, che caratterizza il rapporto, con l'attività dell'Amministrazione e con la complessa realtà del carcere. 11. Ed allora del tutto corretta è la decisione della Corte territoriale là dove ha ritenuto, esaminando gli specifici motivi di impugnazione, che non fossero riscontrabili o comunque valorizzabili i tradizionali incidi di subordinazione escludendo l'obbligo di assoggettamento ad un orario fisso e predeterminato e valorizzando la necessità che fossero concordate, di volta in volta, i giorni e le ore della presenza della La.St. presso l'Istituto carcerario, escludendo l'impiego di mezzi particolari ed una organizzazione, sia pur minima, desumendo la sussistenza di un rischio economico dalla prevista possibilità di revoca dell'incarico, svalutando ogni valenza indiziaria del compenso commisurato alle ore di presenza nel carcere espressamente prevista dall'art. 80 della legge n. 354/1975. 12. Conclusivamente il Collegio, superando il proprio precedente costituito da Cass. n. 12850/2023 (posto dall'ordinanza interlocutoria n. 30236/2023 a fondamento della decisione di rimettere la questione alla pubblica udienza), ritiene che non possa utilmente richiamarsi a sostegno della dedotta subordinazione il fatto di dover rendere le prestazioni in giorni ed orari stabiliti dalla Direzione del carcere con l'assegnazione di servizi e reparti di competenza ovvero che esistano meccanismi di verifica delle presenze e la necessità di segnalare e giustificare assenze per malattia o motivi di famiglia o per ferie (da autorizzarsi da parte della Direzione), trattandosi di semplici modalità operative rese indispensabili sia dalla necessità di accertare lo svolgimento della prestazione, comunque connesso al compenso determinato in base alle ore di servizio effettivamente prestate, e sia dall'esigenza (del tutto compatibile con la natura non subordinata del rapporto) di coordinare l'attività professionale in discorso con il più complesso sistema nel quale la stessa si innesta. È del tutto comprensibile, infatti, che chiunque operi in un ambiente di detenzione debba conformare la propria prestazione alle indicazioni (non tecniche) del direttore della struttura, in ragione delle evidenti necessità di sicurezza e cautela. È sempre tale complesso sistema che giustifica l'adozione di disposizioni o direttive da parte dell'Amministrazione, non implicanti esercizio di potere datoriale in senso stretto ed anche le convocazioni degli esperti nei casi urgenti ed in orario extra rispetto a quello concordato. I suddetti indici non bastano dunque a modificare la veste giuridica del prestatore d'opera professionale, il quale resta tale proprio perché rispondente ad una figura espressamente prevista dalla speciale normativa di cui all'art. 80, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354. 13. Il ricorso principale va, pertanto rigettato dovendosi affermare il seguente principio di diritto: "il rapporto di lavoro degli psicologi carcerari ex art. 80, comma 4, della L. n. 354/1975, incaricati presso gli istituti di prevenzione e di pena, sia in ragione della disciplina normativa, sia dell'assetto negoziale, è un rapporto di lavoro autonomo, atteso che, da un lato, la disciplina pone in evidenza che il legislatore ha scelto d'instaurare rapporti di lavoro autonomo; dall'altro, che le modalità concrete del rapporto - in particolare l'organizzazione del lavoro secondo il modulo dei turni, l'obbligo di attenersi alle direttive impartite dal direttore del carcere, la necessità di segnalare e giustificare assenze - non integrano indici della subordinazione, ma sono espressione del necessario coordinamento, che caratterizza il rapporto, con l'attività dell'Amministrazione e con la complessa realtà del carcere. Tale rapporto di lavoro va, quindi, distinto da quello di natura subordinata degli psicologi dipendenti di ruolo, che esercitano funzioni sanitarie nell'ambito del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia". 14. L'esito del ricorso principale determina l'assorbimento del ricorso incidentale condizionato. 15. L'esistenza di precedenti di legittimità di segno contrario giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio. 16. Occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., Sez. Un, 20 febbraio 2020, n. 4315, della sussistenza, quanto alla ricorrente principale, delle condizioni processuali richieste dall'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito l'incidentale condizionato; compensa le spese. Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da Dott. PEZZULLO Rosa - Presidente Dott. CATENA Rossella - Consigliere Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Consigliere Dott. RENOLDI Carlo - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Pr.An., nato a P il (omissis), Pa.Si., nato a F il (omissis), avverso la sentenza della Corte assise di appello di Firenze in data 8/03/2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi; udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Francesca Ceroni, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità e in subordine il rigetto dei ricorsi; udito, per la parte civile, l'avv. Ma.Ci., il quale si è riportato alle conclusioni scritte depositate in udienza unitamente alla nota spese, insistendo per la conferma del provvedimento impugnato e ha, inoltre, depositato conclusioni scritte a firma dell'avv. An.Me.; uditi, per gli imputati, gli avv.ti Ba.Me. e Gi.Ni., che hanno concluso chiedendo l'accoglimento dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. Pr.An. e Pa.Si. erano stati tratti a giudizio per rispondere del delitto di cui agli artt. 81 cpv., 61, primo comma, nn. 1, 4, 5 e 9, 110, 584 cod. pen. (in relazione agli artt. 582, 583, secondo comma, 585 e 576, primo comma, n. 1, cod. pen.), per avere, in concorso fra loro, mediante più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso e con atti diretti a commettere il delitto di lesioni personali gravissime, cagionato la morte di St.Ma., sopraggiunta il 12 ottobre 2018 presso la casa di cura Villa delle Terme sita in F - I, a causa di una "insufficienza cardio-respiratoria in paziente tetraplegico per lesione midollare mielica", dopo una lunga degenza iniziata con il ricovero presso l'ospedale di P in data 4 ottobre 2017. Secondo l'ipotesi accusatoria, le lesioni personali - consistite in "trauma cranico contusivo-fratturativo, con frattura scomposta della parete anteriore e della parete laterale del seno frontale sinistro, frattura composta dell'osso frontale a livello del tetto orbitario sinistro e concomitante ematoma intraorbitario, frattura composta delle ossa nasali, emoseno post-traumatico a livello del seno frontale sinistro, di alcune cellule etmoidali e, in misura minore, del seno mascellare sinistro; lesioni escoriative multiple del ginocchio e della superficie mediale della gamba, escoriazione subacuta C2-C7 ed ematoma epidurale esteso da C2 a C7" - erano state cagionate da entrambi gli imputati, i quali, agendo in concorso tra loro, avevano provocato la caduta di St.Ma. sul pavimento della sala d'attesa del pronto soccorso dell'ospedale di P e lo avevano, indi, attinto al volto mediante più colpi inferti con pugni o calci, procurandogli le lesioni descritte e, in particolare, la lacerazione delle strutture vascolari cervicali con conseguente ematoma midollare epidurale, a sua volta causa delle successive manifestazioni neurologiche della persona offesa, divenuta tetraplegica. St.Ma. era stato, poi, ricoverato in ospedale ed era successivamente andato incontro a una sepsi severa che aveva innescato una condizione di disfunzione multiorgano (MODS), con un processo infettivo-infiammatorio a carico dei polmoni che aveva portato a una insufficienza cardiorespiratoria, a sua volta causativa del decesso. Secondo la contestazione, i due indagati avevano agito per motivi futili e abietti e con crudeltà, approfittando delle particolari circostanze di tempo, di luogo e di persona tali da ostacolare la difesa (essendo il fatto avvenuto nelle prime ore del mattino nel corridoio antistante alla porta di ingresso della sala d'attesa del pronto soccorso dell'ospedale di P in una area priva, a quell'ora, di personale sanitario e di degenti, avendo St.Ma. 58 anni e versando, al momento dell'aggressione, in condizioni fisiche precarie); e avevano commesso il fatto in violazione dei doveri inerenti a un pubblico servizio, rivestendo entrambi la qualifica di guardie giurate con funzioni di vigilanza all'interno della struttura ospedaliera. 1.1. Con sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Prato in data 28 aprile 2021, emessa in esito a giudizio abbreviato, i due imputati furono assolti perché il fatto non sussiste, avendo il primo Giudice ravvisato "l'impossibilità di riscontrare adeguatamene l'ipotesi accusatoria" e ritenendo di non poter escludere "una ipotesi ricostruttiva alternativa lecita del fatto (...) quale la caduta accidentale" della persona offesa, risultata "per nulla fantasiosa o meramente ipotetica ma anzi, del tutto coerente con quanto emerso e pienamente verosimile, oltre che in parte riscontrata". Inoltre, anche qualora fosse stata accertata la sussistenza del fatto, si sarebbe dovuto riconoscere che era mancata o era "insufficiente e contraddittoria la prova che entrambi o uno solo degli imputati e quale di essi" lo avessero commesso. 2. All'esito del giudizio di appello, instaurato a seguito di impugnazione del Pubblico ministero e delle parti civili, nel corso del quale era stata disposta una articolata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, con sentenza in data 8 marzo 2023, la Corte di assise di appello di Firenze, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato i due imputati responsabili del delitto ad essi ascritto, riconosciute le sole aggravanti di cui all'art. 61, primo comma, nn. 5) e 9), cod. pen., condannandoli, con la riduzione per il rito, alla pena di 7 anni di reclusione ciascuno, con l'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e l'interdizione legale durante l'esecuzione della pena. 3. Pr.An. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello a mezzo del difensore di fiducia, avv. An.De., deducendo due articolati motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 3.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione all'obbligo di motivazione rafforzata esistente in caso di riforma totale della pronuncia assolutoria di primo grado. La Corte territoriale non si sarebbe rapportata con l'intero materiale probatorio valutato con la prima decisione, né avrebbe rilevato l'omissione di informazioni probatorie o errori giuridici, né si sarebbe, infine, confrontata con i passaggi argomentativi della prima sentenza al fine di rimuovere il ragionevole dubbio affermato dalla pronuncia assolutoria. 3.1.1. La genesi delle lesioni. 3.1.1.1. Le lesioni come conseguenza di una caduta accidentale. Mentre secondo il primo Giudice le lesioni sarebbero riconducibili a una caduta accidentale, a causa della quale St.Ma. avrebbe battuto violentemente contro la superfice rigida di una delle due pareti del corridoio che stava percorrendo, la Corte di assise di appello, senza confrontarsi adeguatamente con tale ricostruzione, riterrebbe che esse siano state provocate da un mezzo contundente naturale (un pugno o un calcio). 3.1.1.2. La presenza di spigoli vivi. A pagina 144 della sentenza di primo grado sarebbe stato evidenziato che alla data del fatto o subito dopo di esso non era stato effettuato alcun sopralluogo e che esso era stato eseguito soltanto il 27 aprile 2019, dopo l'accertamento peritale, la cui relazione conclusiva era stata depositata in data 8 aprile 2019. Pertanto, i periti non avrebbero avuto a disposizione le fotografie dei luoghi scattate in tale frangente. Inoltre, i difensori avrebbero allegato le pag. 1036 e 1037, che evidenzierebbero, come riconosciuto dal primo Giudice, la presenza sul luogo del fatto di spigoli vivi. In particolare, sul lato destro vi sarebbero stati spigoli costituiti dall'intersecazione del muro che delimitava il corridoio, con la continuazione dello stesso e della porta con il maniglione antipanico, in contrasto con l'affermazione della Corte di secondo grado secondo cui "nel breve tratto percorso da St.Ma. non vi erano spigoli vivi acuminati". Analogamente, nella foto alla pag. 1038 avrebbe ritratto angolature smusse, incorporate nei maniglioni antipanico della porta utilizzata da St.Ma. per uscire dal Pronto soccorso. 3.1.1.3. La possibilità che la caduta fosse stata provocata dalle condizioni psico-fisiche di St.Ma. Secondo la sentenza di primo grado, la perdita di equilibrio era compatibile con le condizioni di salute, di dolore, di agitazione, di assunzione di sostanze alcoliche e stupefacenti e di stanchezza della persona offesa al momento del fatto, che avrebbero potuto determinare un malessere o una improvvisa perdita di attenzione, controllo ed equilibrio o anche solo una disattenzione nel passare attraverso l'angusta porta metallica. Viceversa, la sentenza di appello avrebbe escluso che St.Ma. potesse avere perduto l'equilibrio in quanto pochi minuti prima del suo rinvenimento egli si era istintivamente protetto dall'aggressione di Pr.An., puntando le mani e attenuando il colpo. In questo modo, però, la Corte territoriale avrebbe omesso di confrontarsi con l'assunzione di stupefacente nelle ore antecedenti al fatto e con gli altri indicatori declinati dal primo Giudice. 3.1.1.4. La questione del mutamento dello stato dei luoghi. La Corte di merito avrebbe evidenziato, oltre all'assenza di spigoli vivi e altre insidie in grado di cagionare le lesioni, che lo stato dei luoghi corrispondeva esattamente a quello repertato dalla polizia scientifica dopo circa 18 mesi dal fatto. Tuttavia, il primo Giudice aveva sottolineato la presenza di tracce di sangue e altri segni nei luoghi dell'impatto, su porte, pareti e pavimento della sala di attesa, nonché dello zaino, della borsa-sacchetto e degli effetti personali di St.Ma. nonché degli occhiali rotti, indossati al momento del fatto. L'omessa valutazione di tali elementi da parte della Corte di merito renderebbe manifestamente illogica l'affermazione, rimasta non spiegata, della loro irrilevanza sul piano probatorio. Né, sul punto, potrebbero sopperire le dichiarazioni di Fr.Sc., che aveva notato soltanto la pozza di sangue a terra e non altre macchie su pareti o infissi, che ben avrebbero potuto non essere visibili a occhio nudo. 3.1.1.5. La mancata analisi delle obiezioni alla tesi delle percosse. La sentenza di primo grado avrebbe evidenziato come: a) in caso di colpo inferto con un calcio al volto, la vittima non sarebbe stata trovata prona a faccia in giù, posto che il colpo avrebbe determinato uno spostamento della testa e del corpo non compatibile con la posizione riscontrata all'arrivo dei sanitari; b) in presenza di un pugno frontale, la vittima non sarebbe caduta in avanti, faccia a terra, né vi sarebbe stata una macchia di sangue sul suolo in corrispondenza del volto; c) secondo quanto riconosciuto dalla perizia collegiale, il trauma contusivo avrebbe potuto essere originato dall'urto del corpo in movimento contro un ostacolo; d) la relazione della dott.ssa Fo., consulente del Pubblico ministero, avrebbe ritenuto che le lesioni potessero essere state inferte con un oggetto diverso da un calcio o un pugno; e) gli occhiali della parte offesa, operando sinergicamente con l'impatto accidentale, avrebbero prodotto le gravi e profonde lesioni riscontrate; f) infinite varianti di mezzi contundenti sarebbero state astrattamente idonee a provocare il trauma di St.Ma.; g) l'assenza di lesioni in altri parti del corpo di St.Ma. fosse incompatibile con la tesi dell'aggressione ai suoi danni; h) i periti avessero escluso la caduta accidentale in termini di probabilità e non di certezza. La Corte territoriale non si sarebbe, tuttavia, confrontata con tali osservazioni. In particolare, essa avrebbe dovuto spiegare come e quando era stato inferto il pugno o il calcio alla persona offesa e come tale modalità potesse conciliarsi con la posizione finale di St.Ma. Inoltre, benché il Giudice di primo grado abbia richiamato la pag. 211 della perizia in cui erano state esposte tre ipotesi ricostruttive alternative, la sentenza di appello non le esaminerebbe, né opererebbe un confronto serrato con la valutazione del primo Giudice. 3.1.2. La valutazione degli apporti dichiarativi. 3.1.2.1. Le dichiarazioni della dott.ssa Ma.Ya. La Corte avrebbe stigmatizzato la parcellizzazione di tali dichiarazioni operata dal primo Giudice, che non avrebbe tenuto conto del momento in cui erano state rese, delle condizioni di stanchezza, fisica e psichica, della dichiarante, delle modalità sintetiche della verbalizzazione. In realtà, sul contributo dichiarativo del sanitario inciderebbe la scarsa attendibilità della persona offesa, come riconosciuto dal primo Giudice, il quale avrebbe concluso, tenuto conto dei suoi non ricordo, per la inverosimiglianza e non veridicità di alcuni passaggi essenziali del narrato, quali il numero delle guardie giurate presenti al fatto (indicato in dieci), il luogo dell'aggressione iniziale (la sala di attesa del Pronto Soccorso), le modalità dell'aggressione e alle parti del corpo attinte dai colpi, le grida di aiuto e le implorazioni della vittima. Ciò in quanto: erano state rinvenute solo lesioni al volto della persona offesa, la teste Fr.Sc. non aveva sentito la persona offesa rivolgersi alla guardia giurata per invitarla a smettere; non sarebbe sopraggiunto alcun poliziotto al momento del fatto; le guardie giurate erano solo due e una sola di esse, stando al racconto di St.Ma., lo avrebbe colpito. La Corte di appello non si sarebbe uniformata ai criteri della giurisprudenza di legittimità sul divieto di una valutazione frazionata del dichiarato quando, come nella specie, la parte inattendibile sia un antecedente logico dell'altra parte. E manifestamente illogica sarebbe la motivazione nel rilevare significativi momenti di incertezza, passaggi contraddittori, riferimenti non verosimili poiché smentiti da dati obiettivi e, ciononostante, nell'affermare che essi troverebbero una spiegazione logica, in realtà non offerta con una motivazione rafforzata. 3.1.2.2. Le contraddizioni nel racconto della dott.ssa Ma.Ya. Secondo la sentenza di primo grado, il racconto della teste sarebbe caratterizzato da contraddizioni in ordine al fatto che St.Ma. le avesse confidato di essere stato aggredito dai due vigilantes. Nella cartella clinica di pronto soccorso, compilata alle 4.43.30 del 4 ottobre 2017, la dott.ssa Ma.Ya. darebbe atto che il paziente aveva riferito di essere stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto, senza che si comprenda per quale ragione ella avrebbe atteso di terminare il turno di servizio alle 8.00 per poi chiamare il "113", a distanza di ore. Inoltre, nel primo verbale di sommarie informazioni, reso alle 9:12 del 4 ottobre 2017, non si sarebbe dato atto che St.Ma. le aveva detto di essere stato aggredito dai vigilanti; e si riporterebbe che il paziente non era in grado di riferire sull'accaduto, sicché egli non avrebbe potuto raccontare di essere stato aggredito. Ancora: nelle sommarie informazioni rese alle 15:00, alcune ore dopo la precedente escussione, ella riferirebbe di avere appreso da St.Ma., la mattina e non nel corso della notte, che costui era stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto. Mentre soltanto nelle sommarie informazioni rese dal medico dinanzi al Pubblico ministero il 2 maggio 2019, a distanza di un anno e mezzo dai fatti, ella ricorderebbe di avere ricevuto delle confidenze della persona offesa, non riportate nei due verbali di sommarie informazioni rese il giorno del fatto. Infine, soltanto il referto redatto per l'Autorità giudiziaria avrebbe dato atto che St.Ma., dopo avere eseguito una TAC al cranio ed essere stato medicato, aveva riferito di essere stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto dai vigilantes. Il Giudice di primo grado avrebbe, peraltro, evidenziato come la dott.ssa Ti.Be. di turno insieme alla dott.ssa Ma.Ya. non abbia confermato che quest'ultima avesse saputo da St.Ma. dell'aggressione subita e che gliene avesse parlato in ben due occasioni, sia la notte del fatto che la mattina successiva. Secondo la teste, qualche giorno dopo i fatti la Ma.Ya. le aveva raccontato che la sera dei fatti si era recata nella sala del triage ove si trovavano il paziente e le guardie giurate; che la situazione era tesa in quanto essi "si gridavano contro", sicché si era spaventata ed era rientrata nel pronto soccorso; che era stata richiamata e quando era tornata nella zona dei triage aveva trovato St.Ma. in terra in un lago di sangue e con una ferita alla testa. Inoltre, la tempistica riferita dalla teste Ti.Be., secondo cui la collega Ma.Ya. le aveva riferito che, rientrata in pronto soccorso, subito dopo era stata richiamata, smentirebbe il racconto della persona offesa in ordine a una prolungata aggressione con calci e pugni e, per questa via, anche quello della dott.ssa Ma.Ya. con riguardo a quanto dalla stessa appreso dalla persona offesa. Inoltre, la sentenza di primo grado avrebbe evidenziato come la teste Gr. non avesse riportato che la dott.ssa Ma.Ya. le aveva confidato che St.Ma. le aveva raccontato di essere stato aggredito dalle guardie, per cui non potrebbe escludersi che ella avesse espresso, in un tale frangente, il proprio convincimento. Nonostante tali criticità, i Giudici di secondo grado avrebbero ritenuto che la dott.ssa Ma.Ya. sia pienamente credibile in ordine a quanto riferitole da St.Ma., nonostante che il primo Giudice abbia argomentato circa la non linearità del narrato, in ragione delle plurime versioni della teste, nonché circa i pregiudizi da lei nutriti verso gli imputati, da subito indicati come responsabili del fatto. Ancora una volta, dunque, la Corte territoriale non avrebbe adempiuto all'obbligo di motivazione rafforzata, non potendosi ritenere sufficiente il richiamo alle dichiarazioni di altri soggetti informati sui fatti, quali Ca., To. e Fr.Sc. Infatti, Ca. verrebbe preso in considerazione soltanto per trarre elementi valutativi sulle condizioni di salute e sul comportamento tenuto da St.Ma. nel suo secondo accesso al pronto soccorso, nonché per riferire sull'atteggiamento tenuto dagli imputati nel frangente, senza che dalle sue dichiarazioni si traggano argomenti per superare le contraddizioni del narrato della dott.ssa Ma.Ya. Le dichiarazioni della teste To. (pag. 44 della sentenza di primo grado) sarebbero utilizzate al solo fine di avvicinare gli imputati al fatto, senza alcuna interferenza logica con il tema sull'attendibilità della dott.ssa Ma.Ya. Quanto alle dichiarazioni di Mi.Ni., da un lato la Corte ne affermerebbe l'inattendibilità, a causa dell'amicizia con Pr.An.; dall'altro, le utilizzerebbe per affermare l'insofferenza e aggressività degli imputati anche nei confronti della dott.ssa. Anche in tale frangente verrebbe operato un frazionamento delle dichiarazioni che avrebbe dovuto essere spiegato nelle parti "salvate". Analogamente, le dichiarazioni di Fr.Sc., che avrebbe sentito nella sala d'attesa delle urla di dolore ("Ahi ahi") attribuibili a St.Ma., non avrebbero attinenza con il tema dell'attendibilità della dott.ssa Ma.Ya. In conclusione, le dichiarazioni di Mi.Ni., To., Ca., Ti.Be. e Gr., valorizzate nella sentenza di primo grado nel valutare le dichiarazioni rese dalla dott.ssa Ma.Ya., sarebbero state ignorate dalla Corte territoriale. 3.1.3. Le intercettazioni telefoniche. Quanto agli esiti intercettativi, essi sarebbero stati valutati da entrambe le sentenze in maniera diversa, senza che la diversa interpretazione sia stata accompagnata dalla spiegazione delle ragioni per le quali quella offerta nel precedente grado di giudizio fosse da ritenersi implausibile. Mentre la prima sentenza escluderebbe che dalle conversazioni emerga una ammissione del fatto da parte degli imputati, i Giudici dell'appello dissentirebbero da tale conclusione alla stregua di un approccio atomizzato del materiale probatorio. 3.1.3.1. Le intercettazioni nn. 4 e 5 del 4 ottobre 2017 alle 22.32 e alle 22.30. Le conversazioni intercorse tra Pa.Si., la moglie e il figlio, il giorno in cui St.Ma. riportò le lesioni, rivelerebbero, secondo la Corte territoriale, che l'imputato avrebbe raccontato l'accaduto alla moglie e che il bambino, percepita la conversazione tra i genitori, si fosse preoccupato e avesse interpellato il genitore sull'accaduto, dando per scontato che vi fosse stata una colluttazione o un'azione violenta e indicando le possibili conseguenze (la "galera") per il genitore. Nel frangente, Pa.Si. aveva fatto riferimento all'aggressione portata ai loro danni da St.Ma., ad una condotta contenitiva, al fatto che si era determinato "un po' di parapiglia", a seguito del quale la vittima era caduta a terra, riportando le lesioni ricordate. Secondo la prima sentenza, a pag. 106, la domanda del bambino ("chi ha iniziato a picchiare?") e la risposta di Pa.Si. ("Lui ha iniziato a picchiare") si riferirebbero non alla caduta ma a un momento precedente tra la sera del 3 e le 4.00 del 4 ottobre 2017. La Corte di appello, invece, non prenderebbe nemmeno in considerazione tale ipotesi, riconducendo immotivatamente il contatto fisico, a un momento precedente alla caduta, laddove, secondo il Giudice dell'udienza preliminare, ove le lesioni fossero state provocate da un pestaggio, l'interlocutore avrebbe temuto per il racconto della persona offesa, mentre la preoccupazione dell'imputato era rivolta a quanto avrebbe potuto riferire la dott.ssa Ma.Ya. sulla condotta dei vigilanti verso la persona offesa nella sala d'attesa, con il rischio di possibili conseguenze disciplinari e lavorative. Quanto, poi, al dialogo tra marito e moglie prima della telefonata del figlio, la prima sentenza, nel riportare l'invito di Pa.Si. alla donna di dire la verità al figlio e la replica rassicurante di costei, avrebbe escluso che la verità riferita dall'imputato alla moglie fosse quella ipotizzata dalla polizia giudiziaria, posto che, in tal caso, ella non lo avrebbe rassicurato. Inoltre, se si fosse trattato di una verità realmente compromettente per Pa.Si., costui non avrebbe certo invitato la moglie a riferirla a un bambino, il quale avrebbe potuto comunicarla a terzi, così compromettendo il padre. 3.1.3.2. Le intercettazioni ambientali effettuate in Questura al momento della notifica dei primi atti. Secondo il Giudice dell'udienza preliminare, con riferimento alla conversazione in cui la moglie di Pa.Si. aveva commentato "che non è possibile che il mondo va a rovescio fino a questo punto", se ella fosse stata a conoscenza del fatto che la persona offesa era stata picchiata, avrebbe invitato il marito a non proteggere il collega, considerate le gravi conseguenze lavorative e per tutta la famiglia; mentre se le lesioni fossero state procurate da entrambi non si sarebbe abbandonata alla considerazione prima riportata. Anche in questo caso, secondo la difesa, la motivazione rafforzata avrebbe imposto di dare contezza del perché le considerazioni espresse dal primo Giudice fossero infondate. 3.1.3.4. L'intercettazione n. 135 del 20 aprile 2019. Secondo la sentenza di appello, in tale conversazione, immediatamente successiva alla pubblicazione sul sito internet delle Notizie di P dell'articolo relativo alla vicenda per cui è processo, alle novità rappresentante dal contenuto della perizia e dalle dichiarazioni di un "supertestimone", gli imputati, in un momento di rabbia e agitazione, rivelerebbero di avere scrupolosamente verificato, dopo che si era verificato l'episodio, che non fosse presente nessun altro e che Pa.Si. era uscito dalla struttura per vedere se ci fosse qualcuno. Un contegno incompatibile con lo scenario della caduta accidentale, posto che, in tal caso, gli imputati avrebbero prestato immediatamente soccorso e richiesto l'intervento dei sanitari, sicché tale condotta sarebbe stata spiegabile con l'esigenza di assicurarsi che nessuno avesse assistito a quanto accaduto. Nel l'offri re tale lettura, nondimeno, la Corte di merito non si sarebbe confrontata con la motivazione del Giudice dell'udienza preliminare, secondo cui l'uscita fuori dalla struttura sanitaria si sarebbe spiegata con la ricerca di un medico per prestare un più rapido soccorso, piuttosto che recarsi nell'area del triage. 3.1.3.5. La conversazione n. 48 del 9 ottobre 2017 alle 11.31. Nel frangente, Pa.Si., parlando con la madre prima dell'interrogatorio che avrebbe dovuto rendere al Pubblico ministero, avrebbe censurato il contenuto della relazione di servizio del 3 ottobre 2017, materialmente redatta da Pr.An., la cui versione dei fatti sarebbe stata inverosimile. Secondo la sentenza di appello, essa sarebbe stata contraddetta dal contenuto delle intercettazioni nn. 4 e 5 del 4 ottobre 2017, da cui sarebbe emerso che vi era stato un effettivo contatto fisico tra le guardie giurate e St.Ma., a seguito del quale la vittima era caduta a terra riportando le lesioni. Anche in questo caso, però non sarebbero state prese in esame le considerazioni del Giudice dell'udienza preliminare sul perché il mendacio fosse volto a celare non l'aggressione, ma i modi rudi usati nell'antefatto. Né la sentenza di secondo grado si sarebbe confrontata con la considerazione espressa dal primo Giudice in ordine al fatto che i due imputati non si preoccupavano che St.Ma., pur dimesso, potesse accusarli della sua rovinosa caduta e che, ove lo avessero effettivamente picchiato, si sarebbero preoccupati delle conseguenze derivanti dalla commissione del reato. 3.1.3.6. Quanto all'intercettazione n. 93 del 19 aprile 2019, relativa alla conversazione tra i due imputati in vista dell'imminente interrogatorio, rispetto al quale essi intendevano concordare una versione comune, il Giudice dell'udienza preliminare aveva calato le dichiarazioni nell'ambito di un incombente difensivo assai delicato, che vedeva gli imputati interrogarsi su quale fosse il miglior modo per difendere la propria innocenza. La Corte di appello non avrebbe dato nemmeno una lettura alternativa, limitandosi a utilizzare un frasario ("la cautela" o "la versione da concordare") suggestivo della colpevolezza degli imputati, prescindendo però dal riferimento a specifici contenuti probatori. 3.1.4. Quanto, infine, alla relazione di servizio redatta da Pr.An. e inviata alla società per cui i due imputati lavoravano, il Giudice di primo grado avrebbe osservato che nel corso della notte tra il 3 e il 4 ottobre 2017 le guardie giurate avevano effettuato ripetuti interventi su richiesta dei sanitari, spesso nei confronti della persona offesa, che aveva un atteggiamento minaccioso, tanto da rendere necessario il coinvolgimento di alcuni poliziotti presenti, per altri motivi, nei locali del pronto soccorso; che la persona offesa, molto agitata, aveva urlato espressioni offensive e minacciose all'indirizzo del personale, picchiando contro il vetro di accoglienza del triage esterno e sbandando mentre camminava, come se fosse in stato di ebbrezza o avesse assunto stupefacenti; dopo essersi allontanata era ritornata presso il prono soccorso e verso le 4.00 aveva urlato, picchiando contro il vetro, chiedendo di ricevere le visite mediche, venendo invitato a smetterla dalle guardie giurate, che avevano cercato di riportarlo alla calma; dinnanzi al rifiuto del medico di dargli dei farmaci senza essere visitato, l'uomo si era infuriato, chiedendo di essere ricoverato in ospedale e facendo volare in aria uno zaino e una borsa di carta da cui uscivano oggetti personali e delle medicine, sicché le guardie giurate lo avevano aiutato a mettere a posto i suoi effetti personali. Anche in questo caso le considerazioni poste dal primo Giudice sarebbero state interamente ignorate, limitandosi la sentenza di secondo grado ad affermare che la relazione di servizio, sinergicamente ad alti elementi di prova, concorreva al giudizio di responsabilità degli imputati per il reato in contestazione. In particolare, quanto al fatto che, al momento della caduta, St.Ma. si stesse allontanando dai locali del Pronto soccorso, la Corte di appello non avrebbe valutato, ancora una volta, che egli avesse assunto stupefacente poche ore prima del fatto, la stanchezza che lo accompagnava, essendo persona afflitta da dolori e sofferenze, la prolungata attesa al Pronto soccorso in orario notturno: di tal che la motivazione sul punto non sarebbe stata rafforzata, quanto una mera valutazione contraria. 3.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla responsabilità concorsuale degli imputati, affermata dalla Corte territoriale sul presupposto che Pr.An. e Pa.Si. avessero agito insieme e di concerto, condividendo la condotta inizialmente minatoria e successivamente violenta, prima ancora amplificando inutilmente la tensione nella sala di attesa al momento della prima aggressione a St.Ma. e, successivamente, premurandosi di verificare che nessuno avesse assistito alla successiva azione lesiva che lo aveva lasciato a terra incosciente, infine concertando la falsa ricostruzione dei fatti riportata nella relazione di servizio. In realtà, l'aver amplificato gli imputati la tensione nella sala di attesa al momento della prima aggressione di St.Ma. non sarebbe interferente con la contestazione, rappresentando solo un antefatto e non potendosi sostenere che la prima aggressione abbia portato, secondo uno sviluppo logico certo e univoco, alla contestata aggressione. Nella stessa prospettiva, la condotta di Pa.Si., consistita nel verificare che nessuno avesse assistito all'azione lesiva, sarebbe suggestiva solo della compresenza degli imputati sulla scena. E valorizzando il dichiarato di St.Ma. la Corte di merito avrebbe dovuto confrontarsi con le considerazioni espresse dal Giudice dell'udienza preliminare, ovvero che l'aggressione fosse stata portata soltanto da un soggetto, che aveva interrotto l'aggressione all'arrivo di un'altra persona (qualificata come un poliziotto e mai identificata con un riconoscimento fotografico). 4. Pa.Si. ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del difensore di fiducia, avv. Ba.Me., avverso la sentenza di appello e l'ordinanza emessa all'udienza 14 dicembre 2022 con la quale la Corte di merito ha revocato l'ammissione della testimonianza di Fr.Sc. L'impugnazione deduce quattro distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 4.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la insufficienza e contraddittorietà della motivazione in relazione all'ordinanza di revoca dell'audizione di Fr.Sc., disposta sul presupposto della sua superfluità benché la teste fosse stata l'unica ad avere udito i lamenti della persona offesa. 4.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata audizione di Fr.Sc. in violazione dell'obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa decisiva in caso di riforma in appello della pronuncia assolutoria, e alla mancata audizione degli imputati nonostante l'obbligo posto dalla sentenza della Corte EDU, 8 luglio 2021, Maestri e altri c. Italia, in capo al giudice di secondo grado di procedere, prima della decisione, alla diretta audizione degli appellanti. 4.3. Con il terzo motivo, il ricorso denuncia, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza della motivazione rafforzata richiesta per la riforma della sentenza assolutoria, avendo la Corte territoriale ribaltato il giudizio di primo grado limitandosi a sostituire la propria lettura dei dati probatori a quella del Giudice dell'udienza preliminare. Quanto al racconto di St.Ma., unico teste diretto dei fatti oggetto del presente processo, esso sarebbe palesemente inquinato da falsi ricordi, da una sovrapposizione di immagini, da profili di inverosimiglianza e sarebbe in contrasto con altri elementi istruttori: l'aggressione ad opera di una guardia giurata non era avvenuta alla presenza di 10 poliziotti; l'uomo non sarebbe stato colpito con calci e pugni su tutto il corpo (posto che le lesioni erano concentrate al volto); non sarebbe stata presente una infermiera che avrebbe urlato "Denuncio, Denuncio", l'aggressione non sarebbe avvenuta nella sala d'attesa del Pronto soccorso. La Corte fiorentina, nel ritenere il suo racconto attendibile, non si confronterebbe con i dati oggettivi che avevano indotto il primo Giudice all'opposta conclusione, valorizzando la suggestività delle domande rivolte alla vittima da coloro che lo stavano "interrogando" (congiunti e polizia giudiziaria), la incomprensibilità delle risposte, interpretate in chiave accusatoria dall'interrogante e in tali termini ripropostegli nella domanda successiva, l'assenza di un filo logico nel suo racconto. Nella sentenza di primo grado, parlando della trascrizione del video girato da St.Gi., era stata evidenziata la suggestività delle domande suggestive e la non genuinità delle risposte ("St.Ma. chi è stato a ridurti così?" "Chi ti ha dato le botte?"); e a proposito della trascrizione del colloquio del 10 ottobre 2017 tra la persona offesa e il personale della Squadra mobile di P, il primo Giudice aveva ritenuto "impossibile stabilire se l'operante, stante la necessità di leggere il labiale e comprendere cosa la persona offesa abbia dichiarato realmente", abbia "compreso perfettamente la risposta, tanto che si impongono nuovamente tali nuove domande di conferma, ad attestarne il permanente dubbio di aver compreso bene". Con tali rilievi la Corte fiorentina non si confronterebbe, non spiegando le ragioni per le quali la suggestività delle domande non abbia nociuto alla genuinità delle risposte date dal testimone. Quanto al richiamo alle condizioni di salute di St.Ma. esse non legittimerebbero la formulazione di domande suggestive "in ausilio", come insegna la letteratura in materia di audizione dei minori, imponendo esse una ancora maggiore. Sotto altro profilo, il primo Giudice aveva valutato il racconto di St.Ma. in incidente probatorio prima verificandone verisimiglianza e veridicità e, in seguito, ponendolo a confronto con gli esiti delle indagini; mentre la Corte fiorentina avrebbe ritenuto che la valutazione frazionata delle dichiarazioni della vittima sia consentita in considerazione del "nocciolo duro" del narrato che fin dal primo momento St.Ma. aveva reso, riferendo di essere stato aggredito e picchiato. In questo modo, però, essa si sarebbe discostata dal consolidato orientamento di legittimità che preclude tale operazione ermeneutica quando la parte inattendibile costituisca imprescindibile antecedente logico dell'altra parte del narrato, come nella specie, in cui le inverosimiglianze e le circostanze smentite da altre risultanze probatorie atterrebbero proprio al nucleo centrale del fatto storico (modalità della presunta aggressione, numero e ruolo dei soggetti presenti, luogo di svolgimento dell'azione). Né la Corte territoriale spiegherebbe le ragioni per le quali sarebbe ammissibile la valutazione frazionata del narrato di un teste che riferisce circostanze inattendibili e smentite da altre risultanze probatorie. Quanto al racconto della dott.ssa Ma.Ya., la valutazione di inattendibilità del narrato e di suggestionabilità del teste compiuta dal primo Giudice sarebbe il frutto di una disamina del contenuto delle sue dichiarazioni e del raffronto con altri elementi probatori acquisiti che non troverebbero una puntuale confutazione nella sentenza di secondo grado, la quale analizzerebbe soltanto una delle molte contraddizioni emergenti dalle dichiarazioni del teste ovvero quanto riportato nel verbale di sommarie informazioni del 4 ottobre 2017 delle ore 9:12, in cui la dott.ssa Ma.Ya. riferirebbe che il paziente "non era in grado di riferire in merito all'accaduto". Tale frase, secondo quanto evidenziato dal primo Giudice, sarebbe in contrasto con quanto da lei dichiarato nei due successivi verbali di sommarie informazioni: quello dello stesso giorno, alle ore 15:00, in cui la teste riferiva di aver appreso da St.Ma. le modalità dell'aggressione ad opera delle guardie giurate già alle 8:30 circa; quello in data 2 maggio 2019, in cui aveva narrato di una prima confidenza ricevuta da St.Ma. già alle 4:00 circa nella sala rossa in occasione del primo soccorso che aveva prestato al paziente. Sul punto la Corte fiorentina avrebbe obliterato i riferimenti temporali evidenziati dal primo Giudice e il raffronto tra le diverse dichiarazioni rese dal medico nelle indagini preliminari, riconducendo la circostanza nell'alveo di quella incompletezza, non esaustività e imprecisione che caratterizza sempre le prime dichiarazioni rese nell'immediatezza di un fatto particolarmente drammatico, con ciò omettendo di considerare che si trattava di una circostanza assolutamente centrale nell'economia dell'intera vicenda e non di una banale discrasia su profili marginali. Quanto al contrasto tra le prime sommarie informazioni rese alle 15:00 del 4 ottobre 2017 e quanto riportato nell'annotazione di servizio redatta dalle Forze dell'ordine intervenute la mattina del 4 ottobre, mentre il primo Giudice aveva sottolineato che nell'annotazione si collocava la ricezione della confidenza "dopo le prime cure", il verbale delle 15:00 indicava nelle 8:30 circa il momento del colloquio con St.Ma. Discrasia che secondo la difesa precluderebbe la lettura coordinata tra i due atti. La prima sentenza, inoltre, osservava che la dott.ssa Ma.Ya. nel prestare il primo soccorso a St.Ma. lo aveva visitato e aveva potuto constatare l'assenza di lesioni, ecchimosi o segni di percosse compatibili con la riferita aggressione "con calci e pugni su tutto il corpo"; e che l'affermazione di costei circa l'essere St.Ma. tranquillo al momento del suo intervento nella sala d'attesa del pronto soccorso di P, contrastasse con quanto dalla stessa riferito a Ti.Be., ovvero che "la situazione era tesa in quanto le guardie e St.Ma. si gridavano contro". Profili, questi, che la Corte territoriale ometterebbe di considerare. La dott.ssa Ma.Ya. verrebbe ritenuta attendibile benché anche nel corso del suo esame dinanzi alla Corte di assise di appello, a domanda sulle ragioni per le quali non aveva immediatamente somministrato l'antidolorifico richiesto da St.Ma. avrebbe risposto di esservi stata impedita dalle guardie giurate, con ciò contraddicendo quanto affermato nel medesimo frangente, ovvero che il vigilante brizzolato era intervenuto in modo brusco dicendole, con tono provocatorio, che avrebbe dovuto dargli l'antidolorifico; e con ciò palesando il suo "pregiudizio" nei confronti dei due imputati, manifestato anche dal fatto di avere immediatamente offerto la sua versione dell'accaduto alla dott.ssa Gr. e alla dott.ssa Gi.Ca. Tali circostanze, su cui il primo Giudice aveva fondato la valutazione di suggestionabilità della testimone, non sarebbero state prese in considerazione dal giudice dell'impugnazione. Quanto ai risultati dell'accertamento peritale, il primo Giudice aveva condiviso le conclusioni dei periti in merito alla sussistenza del nesso causale tra lesioni riportate la sera del fatto e il decesso di St.Ma., dissentendo sul fatto che il colpo fosse stato inferto con un corpo contundente naturale (un pugno o un calcio), rilevando come non fosse stato messo a disposizione dei periti il fascicolo fotografico raffigurante lo stato dei luoghi, formato dalla polizia giudiziaria solo dopo la conclusione dell'incidente probatorio, 18 mesi dopo i fatti. La Corte fiorentina si limiterebbe a replicare all'assenza di rilievi sullo stato dei luoghi al momento del fatto, osservando come esso corrispondesse esattamente a quello "repertato" dalla polizia scientifica dopo circa 18 mesi, come confermato dai testi Ma.Ya., Ca., To. e Mi.Ni., cui erano state mostrate le foto contenute nel fascicolo redatto dalla polizia giudiziaria. Per sostenere l'irrilevanza della "cristallizzazione della scena del crimine", la Corte fiorentina richiamerebbe le sommarie informazioni della Fr.Sc. e la deposizione della dott.ssa Ma.Ya., che non avevano riferito di altre tracce o macchie ematiche oltre a quella in corrispondenza del corpo di St.Ma., con ciò indebitamente equiparando quanto visto o percepito da un teste e gli accertamenti tecnico-scientifici svolti dalla polizia giudiziaria sul locus commissi delicti. Anche sotto tale profilo la critica svolta dal Giudice dell'impugnazione non presenterebbe quelle caratteristiche di maggiore forza logica e pregnanza che deve sorreggere la c.d. motivazione rafforzata. 4.4. Con il quarto motivo, il ricorso deduce, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza della motivazione in relazione alla ricostruzione del fatto e al concorso di entrambi gli imputati nel reato contestato. Come osservato dal primo Giudice, non era stato possibile identificare il soggetto corrispondente alla "guardia" di cui aveva parlato St.Ma. e che lo avrebbe aggredito, alla presenza di altre 10 persone, interrompendo la sua azione solo grazie all'arrivo "di un poliziotto"; né individuare la condotta concorsuale della seconda guardia giurata, non descritta da St.Ma. La Corte territoriale, invece, attribuirebbe le condotte violente e aggressive a entrambi gli imputati, che avrebbero prelevato con la forza la persona offesa dalla sala di attesa in cui si trovava, gettandola a terra nel corridoio in prossimità dell'uscita del nosocomio e colpendola con calci al volto o con pugni. Premesso che anche in questo caso la motivazione non presenterebbe le caratteristiche richieste per il ribaltamento della sentenza assolutoria, si osserva che essa sarebbe estremamente sintetica e non sarebbe in grado di distinguere l'apporto causale di ciascuno dei due imputati. Inoltre, essa non si confronterebbe con gli elementi probatori da cui risulterebbe che l'azione delittuosa sia stata commessa da un solo soggetto. In particolare, quanto a Pa.Si., sembrerebbe essergli ascritto un concorso morale, senza che però gli sia stato attribuito un contegno aggressivo nei confronti di St.Ma. E insufficiente sarebbe la motivazione in ordine alla minore responsabilità di uno dei due concorrenti, discendente dall'oggettiva impossibilità di provare una diversa graduazione della responsabilità. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono infondati e, pertanto, devono essere respinti. 2. Per una migliore comprensione delle censure formulate con gli odierni ricorsi e delle ragioni della presente decisione è necessario riassumere il contenuto delle due pronunce di merito, attraverso cui si è pervenuti a opposte valutazioni in ordine alla responsabilità degli imputati. 2.1. Con la pronuncia di primo grado, il Giudice dell'udienza preliminare aveva ritenuto equivoca, contraddittoria e insufficiente la prova della responsabilità degli imputati. Dopo avere evidenziato le lacune investigative che avrebbero caratterizzato l'attività di ricerca della prova (v. le prime 22 pagine della motivazione), la sentenza aveva rilevato: la contraddittorietà delle dichiarazioni della persona offesa e la contrarietà delle stesse rispetto ad alcune risultanze obiettive, nonché, corrispondentemente, la non conducenza del racconto di quanti avevano appreso l'andamento dei fatti dalla voce dello stesso St.Ma. (dalla dott.ssa Ma.Ya. che, per prima, aveva soccorso la vittima presso il pronto soccorso dell'ospedale di P, al fratello e alla sorella di St.Ma., Pa. e St.Gi.: sino al colloquio in ospedale tra la persona offesa e la polizia giudiziaria, registrato e trascritto); la irrilevanza delle dichiarazioni rese da Fr.Sc., che aveva udito delle urla di dolore maggiormente compatibili con una caduta accidentale, posto che, in caso di aggressione, ella avrebbe udito ben altre esclamazioni e rumori, ivi compreso il tentativo dei due presunti aggressori di concordare il da farsi e che, ove l'aggressione fosse stata consumata nella sala di attesa del pronto soccorso, il corpo di St.Ma. non sarebbe stato rinvenuto nel corridoio che da essa conduceva all'uscita dal pronto soccorso; le dichiarazioni dei testi Signori, Me., Gr.. Mi.Ni., To. che avrebbero avallato la versione difensiva di una caduta accidentale della vittima, confermata dalle relazioni dei consulenti tecnici dei due imputati e di quello del Pubblico ministero, nonché dall'esito del sopralluogo in data 27 aprile 2019, corredato da rilievi fotografici dei luoghi e dello zaino della vittima, che muovendo dalla presenza del corpo nella porzione di corridoio immediatamente adiacente alla porta di ingresso alla sala di attesa, nei pressi del gabbiotto riservato agli Stewart e alle hostess, con i piedi verso la porta ad attestare la direzione in uscita dalla sala di attesa e la testa in prossimità dell'uscita, rendevano assai verosimile che St.Ma., in stato di alterazione e impacciato dallo zainetto e dagli effetti personali nell'angusto passaggio di circa 90 centimetri della porta, avesse perso l'equilibrio nell'aprirla, cadendo e sbattendo violentemente la testa, senza attivare manovre di difesa, contro una parete del corridoio e, in particolare, contro spigoli, angoli o cornici esterne dei vetri dell'ufficio accettazione, costituiti da materiale rigido, verosimilmente metallico. Tale impatto aveva, con altissima verosimiglianza, causato un brusco e violento contraccolpo al capo, causando una lesione traumatica e, indi, una nuova caduta a corpo morto in avanti, con un nuovo urto del volto contro il pavimento e conseguente rottura degli occhiali, rimasti comunque calzati. Una conclusione, questa, asseverata da argomenti di carattere logico, quali la considerazione che, nel caso in cui i colpi fossero stati inferti con un calcio al volto o con un pugno, la persona offesa non sarebbe stata trovata a faccia in giù, atteso che la violenza del colpo avrebbe prodotto uno spostamento del capo e del corpo della vittima non compatibile con la sua posizione all'arrivo dei sanitari; che non sarebbe stata rinvenuta, come invece avvenuto, la macchia di sangue presente proprio in corrispondenza del viso rivolto al suolo; che l'unicità della zona della principale lesione al volto e al cranio non poteva ritenersi compatibile neppure con un pugno al volto sferrato quando St.Ma. era in piedi. 2.2. A seguito dell'appello, la Corte di secondo grado ha, innanzitutto, ritenuto assolutamente necessario procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, con l'esame dei testi Ma.Ya., Ve.An., Ca.. To., Gr.. Mi.Ni., nonché della dott.ssa Gi.Ca. All'esito dell'istruttoria, dopo avere ritenuto provato, alla stregua degli accertamenti peritali, che la causa della tetraplegia che aveva condotto a morte St.Ma. fosse dovuta a un evento traumatico, la sentenza, sulla scorta sempre di quanto accertato dai periti, ha evidenziato come tale evento non potesse assolutamente identificarsi con l'urto contro una superficie piana, che avrebbe prodotto una frattura più estesa; e come, invece, esso dovesse ritenersi originato dai colpi praticati con un corpo contundente naturale, a stretta superficie e con angolo smusso, identificabile in un pugno o in un calcio, con esclusione di altri mezzi quali spigoli vivi di infissi o mobilio. Questi ultimi, infatti, erano assenti nel luogo di verificazione del fatto (ovvero nel breve tratto percorso da St.Ma. fino al punto in cui era stato trovato a terra, prono, in una pozza di sangue, con i palmi delle mani verso l'alto), secondo quanto emerso dai rilievi fotografici e dalle testimonianze, che hanno dato atto che lo stato dei luoghi al momento del fatto non era stato modificato rispetto alla loro rappresentazione fotografica. L'inverosimiglianza dell'ipotesi, accreditata dalla prima pronuncia, di una caduta di St.Ma. avvenuta mentre egli si apprestava ad allontanarsi dal pronto soccorso, è stata inoltre fondata sulla circostanza che l'uomo, quella notte, non era in stato di alterazione conseguente all'assunzione di bevande alcoliche, secondo quanto riferito dalla dott.ssa Ma.Ya. e dal personale della Squadra Volante della Questura di P, che si era relazionato con St.Ma. intorno alle 3.45 di quella mattina; che egli era perfettamente cosciente e reattivo, secondo quanto argomentato dalla Corte territoriale a partire dalla efficace azione difensiva di St.Ma. riferita da Ma.Ya., Ca. e To., in occasione della aggressione compiuta ai suoi danni poco prima, senza una reale motivazione, da Pr.An.; e che l'ipotesi di un suo allontanamento volontario era in contrasto sia con le sue richieste di vedersi somministrare un antidolorifico, cui la dott.ssa Ma.Ya. aveva dato il suo assenso e che pertanto St.Ma. era in attesa di ricevere, sia con l'intento dei due imputati di costringerlo a lasciare il presidio sanitario. Inoltre, a sostegno della responsabilità dei due imputati, la sentenza di appello ha valorizzato il contenuto dell'intercettazione tra essi (Rit. 81/19 del 20 aprile 2019 delle 18.34,49), sottolineando la straordinaria significatività del fatto che, con il corpo di St.Ma. esanime, in una pozza di sangue, essi avessero controllato se nei locali adiacenti e all'esterno vi fosse qualche scomodo testimone oculare, spiegando tale condotta con l'esigenza di assicurarsi che nessuno avesse assistito a quanto accaduto. Tale conversazione, unitamente ad altre intercettate (in primis quella di Pa.Si. con il figlio e quella dello stesso imputato con la madre), sono state ritenute dimostrative del coinvolgimento diretto e concorrente degli imputati nella caduta a terra di St.Ma. e nelle lesioni da questi riportate. A sostegno di tale conclusione, infine, la sentenza di appello ha richiamato anche la relazione di servizio dei due imputati, nella quale erano state omesse circostanze significative (quali l'ingiustificato strattonamento della persona offesa) o riportate altre non vere (come il fatto che St.Ma. avesse un alito vinoso e camminasse barcollando, nonché che egli avesse minacciato i due imputati). 3. Tanto premesso, osserva il Collegio che la sentenza di appello si è certamente fatta carico di fornire, a fronte della pronuncia assolutoria di primo grado, una disamina critica dei principali passaggi motivazionali della prima decisione, rispetto ai quali, all'esito di una articolata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, ha compiuto una nuova e più approfondita valutazione dell'intero materiale probatorio, evidenziando gli errori valutativi compiuti dal primo Giudice alla stregua di una lettura parcellizzata e atomistica degli elementi acquisiti. In questo modo, la Corte territoriale ha pienamente assolto all'obbligo di motivazione rafforzata incombente sul giudice di appello in caso di totale riforma della pronuncia liberatoria di primo grado, attraverso una compiuta indicazione delle ragioni per cui le prove acquisite hanno assunto una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado e, più in generale, attraverso un apparato giustificativo che ha dato conto degli specifici passaggi logici della decisione, in modo da conferirle una forza persuasiva superiore (Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 278056 - 01). In particolare, come in precedenza evidenziato, la Corte di assise di appello ha posto in luce: le risultanze della perizia collegiale, che ha confutato la tesi dell'impatto con uno spigolo vivo, la cui presenza è stata peraltro esclusa dai testi e dalle fotografie dello stato dei luoghi, anche in considerazione della particolare posizione del corpo all'atto del suo rinvenimento, e ha, invece, spiegato, in maniera argomentata e logicamente congrua, per quale ragione dovesse ritenersi che le lesioni presenti sulla vittima fossero state cagionate da un corpo contundente, come un calcio o un pugno; le dichiarazioni della persona offesa e del teste Ma.Ya. rispetto al quale sono state ritenute infondate le censure difensive in ordine alle contraddizioni che ne inficerebbero l'attendibilità; infine, le intercettazioni telefoniche, di cui la sentenza ha offerto una lettura non irragionevole e niente affatto travisante, come tale sottratta alla possibilità di un sindacato in sede di legittimità. A fronte di tale logica ricostruzione, le difese hanno cercato, attraverso il tentativo di una lettura parcellizzata della provvista indiziaria, di aggredire i singoli elementi che la compongono, senza però riuscire né a confutare il significato probatorio attribuito a ciascuno di essi, né tantomeno a disarticolare la valutazione complessiva dei medesimi. 4. Venendo, nel dettaglio, all'analisi dei singoli elementi probatori, puntuale e completa deve ritenersi la disamina dei profili attinenti alla genesi delle lesioni della vittima. 4.1. Quanto all'ipotesi che esse siano state prodotte in conseguenza di una caduta accidentale, la tesi difensiva muove dal presupposto che St.Ma. avrebbe perso l'equilibrio a seguito delle sue precarie condizioni di stabilità psicomotoria. Tale ipotesi, tuttavia, come efficacemente evidenziato dalla pronuncia impugnata, non ha trovato alcun elemento di conferma, non essendo risultato che egli si trovasse in una condizione di alterazione dovuta all'assunzione di sostanze psicoattive (in particolare a seguito dell'ingestione di bevande alcoliche) ed avendo, anzi, i testi ribadito che egli era perfettamente presente a sé stesso. E che le sue capacità attentive e i riflessi fossero integri è stato ulteriormente argomentato, in maniera ancora una volta del tutto logica, a partire dalla reazione attivata dinnanzi all'azione aggressiva cui era stato sottoposto da Pr.An. nella sala d'attesa, allorché St.Ma. si era istintivamente protetto, puntando le mani e attenuando il colpo. Viceversa, la motivazione della sentenza di primo grado, che ha valorizzato circostanze come le problematiche generali di assunzione di sostanze alcoliche e stupefacenti e la stanchezza per la prolungata attesa al pronto soccorso, finisce per fondarsi su una ricostruzione del tutto congetturale, per la non dimostrata incidenza di fattori che il primo Giudice ha considerato unicamente in termini astratti, quale portato di una pregressa situazione di disagio personale. 4.2. Quanto, poi, alla possibilità che St.Ma. possa avere battuto violentemente contro la superfice rigida di una delle due pareti del corridoio che stava percorrendo, detta possibilità è stata motivatamente esclusa già in sede peritale, ove è stato evidenziato come le caratteristiche delle lesioni imponessero di escludere la tesi di un impatto con una superficie estesa e piatta. La stessa difesa, del resto, ha ipotizzato, dinnanzi a tale risultanza peritale, che l'impatto sia avvenuto con una superficie ristretta, costituita da spigoli vivi di infissi o mobilio nel luogo della caduta, che il primo Giudice ha ritenuto di ravvisare sul luogo del rinvenimento del corpo, evidenziando la presenza di "spigoli, angoli" e delle "cornici esterne dei vetri dell'ufficio accettazione in materiale rigido verosimilmente metallico" (v. le pagine 90 e 91 della sentenza di primo grado). Sul punto, tuttavia, la ricostruzione in fatto compiuta dalla prima decisione è stata confutata nel giudizio di impugnazione, a partire dai rilievi fotografici e da quanto riferito dai periti e dai testi Ma.Ya., Ca.. To. e Mi.Ni., i quali hanno confermato la piena corrispondenza tra quanto riportato nelle foto acquisite agli atti e la situazione presente non soltanto al momento dei fatti per cui è processo, ma finanche al momento della audizione degli stessi dichiaranti. Dunque, i periti hanno fondato la loro valutazione su una situazione di fatto che è stata verificata dalla Corte di merito come corrispondente a quella in essere al momento delle lesioni riportate dalla persona offesa, così come "repertata" dalla polizia scientifica ancora 18 mesi dopo dai fatti, secondo quanto confermato dai testi. La difforme ricostruzione operata nella prima pronuncia e ribadita nell'odierno ricorso, involgendo un profilo di natura eminentemente fattuale, non può certo essere oggetto di scrutinio in questa sede, in specie a fronte, lo si ribadisce, dello specifico accertamento di segno contrario di cui ha dato atto la decisione di secondo grado. Né appare in alcun modo conferente l'argomento difensivo volto a dimostrare, al momento dell'accertamento dalla polizia scientifica, il mutamento dello stato dei luoghi rispetto all'epoca dei fatti. Il ricorso, invero, richiama una serie di profili, rilevabili nei luoghi teatro del fatto, quali la presenza di tracce di sangue o altri segni nei luoghi dell'impatto, nonché la presenza dello zaino, della borsa sacchetto e degli effetti personali della parte offesa, senza peraltro spiegare in che termini essi sarebbero stati rilevanti per dimostrare la totale infondatezza della ricostruzione compiuta dalla sentenza di secondo grado. Sul punto, infatti, deve rilevarsi la totale genericità delle deduzioni difensive, volte a rappresentare, in maniera allusiva e non strutturata, profili di incompletezza della decisione avversata, ma senza svolgere, al di là di ipotetici scenari alternativi, una compiuta critica in grado di destrutturarne la complessiva tenuta logica. Quanto, poi, al rilievo secondo cui la teste Fr.Sc. potrebbe avere notato soltanto la pozza di sangue a terra e non altre macchie su pareti o infissi, in quanto esse ben avrebbero potuto non essere visibili a occhio nudo, si è ancora una volta in presenza di considerazioni meramente ipotetiche, non ancorate ad alcuno specifico accertamento processuale, come tali del tutto irrilevanti sul piano probatorio. Quanto, infine, all'affermazione secondo cui la sentenza di secondo grado non avrebbe preso in considerazione le obiezioni difensive alla tesi secondo cui le lesioni sarebbero state provocate da percosse, essa non può essere in alcun modo condivisa. Va premesso, in termini generali, che nella motivazione della sentenza di secondo grado il giudice di appello non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; di tal che debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, Depretis, Rv. 281935 - 01; Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià, Rv. 254107 - 01; Sez. 2, n. 13151 del 10/11/2000, dep. 2001, Gianfreda, Rv. 218590 - 01; Sez. 5, n. 8411 del 21/05/1992, Chirico, Rv. 191488 - 01). Nel caso di specie, peraltro, le censure difensive, modellate su alcuni passaggi motivazionali della sentenza di primo grado, hanno comunque trovato risposta nella complessiva ricostruzione degli eventi compiuta dalla decisione impugnata. Infatti, quanto, alla posizione del corpo, prona a faccia in giù e con le braccia lungo i fianchi, essa è stata valorizzata, sul piano logico-argomentativo, per escludere l'ipotesi di una caduta accidentale, che avrebbe indotto la vittima a movimenti autoconservativi, rimasti non riscontrati; laddove l'opposta argomentazione, secondo cui, in caso di colpo inferto frontalmente, con un calcio o un pugno, la vittima non sarebbe stata trovata prona a faccia in giù, non è all'evidenza parsa conclusiva, ben potendo ipotizzarsi un successivo spostamento della vittima, dopo che questa aveva ricevuto le violentissime percosse, sino allo stato di quiete finale. Quanto, poi, alla possibilità che il trauma contusivo possa verificarsi anche per effetto dell'urto del corpo in movimento con un ostacolo, l'obiezione all'evidenza non considera che la presenza di un ostacolo di tal sorta è stata esclusa dalla sentenza e che, ove questo venisse identificato nella porta da cui St.Ma. stava uscendo, dovrebbe ipotizzarsi, ancora una volta, che egli abbia successivamente impattato su uno spigolo vivo, assente, ovvero sulla parete, laddove il relativo impatto, come osservato, non avrebbe prodotto, secondo gli stessi periti, una lesione che presentava le particolari caratteristiche riscontrate. Infine, che la relazione medico-legale della dott.ssa Fo., consulente del Pubblico ministero, abbia ritenuto che la eziologia delle lesioni fosse compatibile con un oggetto diverso da un calcio o un pugno e che, dunque, vi fossero "infinite varianti di mezzi contundenti, tutti astrattamente idonei a provocare il trauma di St.Ma.". non paiono essere considerazioni decisive che consentano di escludere la responsabilità dei due imputati, anche per la genericità della relativa prospettazione. Quanto, infine, al fatto che i periti avessero escluso l'alternativa in termini di probabilità e non di certezza è affermazione anch'essa di insuperabile vaghezza, che non tiene conto, in ogni caso, del fatto che ogni ipotesi alternativa è stata risolutamente esclusa alla stregua delle considerazioni peritali e degli argomenti di natura logica valorizzati dalla Corte di secondo grado, anche e soprattutto alla luce degli apporti dichiarativi dei soggetti sentiti dapprima a sommarie informazioni e poi ai sensi dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., come riconosciuto dalle stesse difese. 4.3. A quest'ultimo proposito, i ricorsi hanno articolato diffuse censure in ordine, in particolare, al contributo della dott.ssa Ma.Ya. in specie attraverso il primo motivo del ricorso proposto nell'interesse di Pr.An. e del terzo motivo del ricorso presentato nell'interesse di Pa.Si. 4.3.1. Sotto un primo profilo, la difesa lamenta che la Corte di merito sia pervenuta a un giudizio di credibilità soggettiva del medico, nonostante gli indicatori di un suo chiaro pregiudizio nei confronti delle due guardie giurate, attestato, in tesi, dall'affermazione del teste di non aver immediatamente somministrato l'antidolorifico richiesto da St.Ma. in quanto impeditavi dai vigilanti. Una versione dei fatti che sarebbe contraddetta dalla affermazione, compiuta nel medesimo frangente, che il vigilante brizzolato l'aveva invitata, in modo brusco e con tono provocatorio, a somministrare l'antidolorifico a St.Ma. Inoltre, il "pregiudizio" nei confronti dei due imputati sarebbe manifestato dal fatto che ella avesse immediatamente offerto la sua versione dell'accaduto alla dott.ssa Gr. e alla dott.ssa Gi.Ca. In proposito, osserva il Collegio che, quanto al primo profilo, la stessa sentenza offre una spiegazione della mancata somministrazione della terapia, che il sanitario aveva inteso differire a un secondo momento, avendo riscontrato che il paziente si era tranquillizzato e che, dunque, il farmaco avrebbe potuto essere assunto successivamente, una volta che ella avesse fatto fronte a più pressanti urgenze che incombevano in quel frangente. Quanto, poi, al fatto di avere indicato alle colleghe le due guardie giurate quali autori del pestaggio ai danni di St.Ma., la stessa sentenza impugnato, lungi dal ravvisare alcun elemento di pregiudizio in capo al sanitario, ha chiarito che ella aveva compiuto una ragionevole deduzione alla luce, da un lato, del contegno aggressivo immotivatamente tenuto dai due nei confronti del paziente e, dall'altro lato, della significativa contiguità temporale tra quanto avvenuto nella sala d'attesa e il successivo ritrovamento di St.Ma.. In questo senso, l'odierna censura difensiva, che riprendendo l'osservazione del primo Giudice secondo cui non si comprenderebbe per quale ragione il sanitario avrebbe atteso di terminare il turno di servizio alle 8.00 per poi chiamare il "113", a distanza di ore, al di là del suo carattere fattuale, può essere facilmente richiamata per smentire la tesi di un pregiudizio della testimone verso i due imputati, essendo essa indicativa, al contrario, di un atteggiamento di apprezzabile prudenza nella gestione di una situazione certamente perturbante. 4.3.2. In secondo luogo, la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni della testimone è stata fatta oggetto di censura in rapporto alla loro intrinseca contraddittorietà e al contrasto con talune risultanze obiettive. Quanto al primo profilo, gli elementi di contraddittorietà in cui sarebbe incorsa la dott.ssa Ma.Ya. in ordine al fatto che St.Ma. le avesse confidato di essere stato aggredito e, in particolare, che gli autori dell'aggressione fossero i due vigilantes riguardano, più precisamente, un supposto contrasto tra quanto riportato dal sanitario nella cartella clinica di pronto soccorso, referto n. 1102 dell'ospedale di P, alla voce "Anamnesi", compilata alle 4.43.30 del 4 ottobre 2017, quanto specificato nel referto destinato all'Autorità giudiziaria, quanto indicato nel primo verbale delle sommarie informazioni del sanitario, rese alle 9:12 del 4 ottobre 2017, quanto riferito nel secondo verbale di sommarie informazioni, rese alle 15:00 e, dunque, alcune ore dopo la precedente escussione, e quanto riportato nelle sommarie informazioni rese dinanzi al Pubblico ministero il 2 maggio 2019, a distanza di un anno e mezzo dai fatti. Nel primo caso, la dott.ssa Ma.Ya. darebbe atto che il paziente aveva riferito di essere stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto ("Paziente "che" accede in DEA per trauma cranico in aggressione"; "Riferisce di essere stato buttato in terra ed aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto"); nel secondo, che St.Ma., dopo avere eseguito una TAC al cranio ed essere stato medicato, aveva riferito di essere stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto dai vigilantes di turno la notte prima; nel terzo ella non avrebbe dato atto che St.Ma. le aveva detto di essere stato aggredito dai vigilanti e, inoltre, avrebbe riportato che il paziente "non era in grado di riferire in merito all'accaduto", sicché egli non avrebbe potuto riferire al medico di essere stato aggredito; nel quarto ella riferirebbe di avere appreso da St.Ma. la mattina già alle 8:30 circa e non nel corso della notte (come indicato nel referto), che costui era stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto; nel quinto ella ricorderebbe di avere ricevuto delle confidenze della persona offesa già alle 4:00 circa nella sala rossa in occasione del primo soccorso che aveva prestato al paziente: confidenze non riportate nei due verbali di sommarie informazioni rese il giorno del fatto. Tanto premesso, osserva il Collegio che la sentenza di appello si è fatta carico di prendere in esame tutti gli argomenti che erano stati valorizzati dal primo Giudice per escludere il rilievo probatorio delle dichiarazioni della testimone, li ha sottoposti a penetrante e convincente critica, argomentando, in maniera inappuntabile, le ragioni per le quali, al contrario, ella doveva ritenersi complessivamente attendibile. In primo luogo è stata richiamata la massima tratta dall'esperienza giudiziaria che valorizza l'incidenza sui processi mnemonici di eventi particolarmente significativi sulla dimensione emotiva del teste, per argomentare in ordine alla concreta possibilità che essi avessero potuto incidere sulla rievocazione di dettagli comunque non significativi degli eventi, senza intaccare, come avvenuto, la complessiva capacità di richiamarli e verbalizzarli. E soprattutto come la necessità di riassumere in un verbale manoscritto il contenuto di talune informazioni possa portare a una descrizione degli accadimenti particolarmente sintetica, sì da rendere comprensibile e giustificabile una più diffusa esposizione dei fatti nell'interlocuzione orale con gli operanti, contenuta nell'annotazione di servizio dagli stessi redatta qualche ora dopo e, a fortiori, nelle successive audizioni dapprima davanti al Pubblico ministero e, successivamente, dinnanzi al Giudice, ove le specifiche domande rivoltele avevano consentito "una più completa ricostruzione della seriazione causale degli accadimenti". In ogni caso, deve osservarsi che la tesi difensiva secondo cui nel verbale delle 9.15 del 4 ottobre 2017 non vi sarebbe alcun riferimento alle confidenze ricevute non tiene conto che esse erano state, invece, riportate nella coeva annotazione di polizia giudiziaria cui detto verbale era allegato. Inoltre, quanto all'asserito contrasto tra le prime sommarie informazioni rese alle 15:00 del 4 ottobre 2017 e quanto riportato nell'annotazione di servizio redatta dalle Forze dell'ordine intervenute la mattina del 4 ottobre, è appena il caso di osservare che è la stessa difesa ex ore suo a riconoscere come il primo Giudice avesse sottolineato che nell'annotazione si collocava la ricezione della confidenza "dopo le prime cure", mentre il verbale delle 15:00 indicava nelle 8:30 circa il momento del colloquio con St.Ma., con ciò in definitiva riconoscendo che in epoca prossima al fatto la teste aveva riferito di avere ricevuto da St.Ma. il racconto dell'accaduto, mantenendo poi tale versione anche in occasione delle audizioni successive. Disarmonie nelle dichiarazioni della teste che, dunque, si palesano soltanto apparenti, avendo la sentenza impugnata dato conto, in maniera logica e argomentata, degli asseriti contrasti su cui si è lungamente appuntata la difesa, senza però scardinare in alcun modo, sul piano logico, le spiegazioni offerte dalla Corte di secondo grado per giustificare il diverso apprezzamento delle dichiarazioni delia testimone. Sotto altro profilo, la credibilità soggettiva della dott.ssa Ma.Ya. è stata approfonditamente vagliata, sottolineandosi come ella fosse disinteressata, scevra da intenti persecutori, calunniatori o ritorsivi. 4.3.3. Infine, la difesa opina che le dichiarazioni della dott.ssa Ma.Ya. sarebbero smentite dal racconto di altri testimoni, come la dott.ssa Ti.Be., che era di turno insieme a lei e che non avrebbe confermato che la collega aveva saputo da St.Ma. dell'aggressione subita e che gliene aveva parlato in ben due occasioni, sia la notte del fatto che la mattina successiva. In particolare, la Ti.Be. si sarebbe limitata a dichiarare che la dott.ssa Ma.Ya. le aveva riferito, soltanto qualche giorno dopo i fatti, che la sera del ferimento era uscita dall'area del triage per chiedere al paziente cosa volesse e che, nel frangente, le guardie giurate e St.Ma. "si gridavano contro"; che dopo essere rientrata nei locali del pronto soccorso era tornata in quelli del triage e aveva trovato St.Ma. in terra in un lago di sangue e con una ferita alla testa. Tali doglianze sono, tuttavia, non autosufficienti, fondandosi su dichiarazioni estranee al perimetro motivazionale della sentenza impugnata, che non le menziona, e non essendo state le stesse allegate, né integralmente ritrascritte all'odierno ricorso. In ogni caso, esse non paiono in grado, in alcun modo, di inficiare l'attendibilità di quanto riferito dalla dott.ssa Ma.Ya., dal momento che il racconto della teste Ti.Be. non ha fornito utili indicazioni in ordine alla durata dell'intervallo temporale tra il reingresso della Ma.Ya. nei locali del pronto soccorso e il ritorno in quelli del triage, sicché non vi sono elementi concreti per poter escludere, sul piano logico, che nel corso di tale arco di tempo possa essere stata consumata l'aggressione ai danni di St.Ma. Quanto, poi, al fatto che "la situazione era tesa in quanto le guardie e St.Ma. si gridavano contro", la conclusione tratta dalla difesa, ovvero che tale inciso contrasterebbe con l'affermazione della Ma.Ya. circa il fatto che St.Ma. fosse tranquillo al momento del suo intervento, appare non condivisibile, ben potendo le due rappresentazioni descrivere momenti di una situazione che, nel frangente, era stata in dinamica evoluzione. Parimenti generiche sono le considerazioni difensive che, nel richiamare sul punto la sentenza di primo grado, evidenziano come la teste Irene Gr. non avesse specificato che la dott.ssa Ma.Ya. le avesse raccontato della confidenza di St.Ma. di essere stato aggredito dalle guardie giurante. Tale circostanza, invero, rende arbitraria, sul piano logico, l'affermazione secondo cui ella potesse avere espresso, in un tale frangente, un proprio convincimento. La conclusione che la difesa inferisce da tale premessa è, all'evidenza, puramente ipotetica, come tale non scrutinabile in questa sede. 4.4. Vi è, poi, un ulteriore profilo di inattendibilità, per così dire "derivata", delle dichiarazioni della dott.ssa Ma.Ya., conseguente alla inaffidabilità della sua fonte informativa, costituita da St.Ma. il quale sarebbe incorso in numerose contraddizioni e, soprattutto, avrebbe riferito su circostanze smentite da pacifiche acquisizioni dibattimentali. Sul punto, deve osservarsi che anche la Corte di assise di appello ha riconosciuto che alcuni dettagli riferiti dalla persona offesa erano palesemente inattendibili. Tuttavia, ha ritenuto, in maniera argomentata, che il nucleo centrale del suo racconto, sempre ribadito non soltanto al medico che lo aveva visitato, ma anche ai familiari, al personale di polizia giudiziaria e allo stesso giudice per le indagini preliminari in sede di incidente probatorio, consentisse di ascrivere in termini univoci l'azione lesiva ai due imputati. Sul punto, in disparte la circostanza che la dinamica dell'evento era stata ripetutamente ribadita anche in momenti successivi ai primi soccorsi, va considerato che la sentenza di appello ha comunque valutato approfonditamente il profilo relativo alla capacità della persona offesa di riferire, in maniera lucida e consapevole, quanto accaduto, valorizzando sia le dichiarazioni della dott.ssa Ma.Ya., ma anche quelle della sua collega, la dott.ssa Gi.Ca., secondo cui St.Ma. era presente a sé stesso, vigile, sofferente, pienamente in grado di parlare, come del resto riferito anche dagli infermieri Ca. e To.. In questo modo, la sentenza impugnata si è correttamente uniformata ai principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui è legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa e l'eventuale giudizio di inattendibilità, riferito ad alcune circostanze, non inficia la credibilità delle altre parti del racconto, sempre che non esista un'interferenza fattuale e logica tra le parti del narrato per le quali non si ritiene raggiunta la prova della veridicità e le altre parti che siano intrinsecamente attendibili ed adeguatamente riscontrate e sempre che l'inattendibilità di alcune delle parti della dichiarazione non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere per intero la stessa credibilità del dichiarante (Sez. 6, n. 3015 del 20/12/2010, dep. 2011, Farruggio, Rv. 249200 - 01). Invero, pur ravvisandosi una sostanziale unità di tempo e di luogo dell'episodio oggetto di narrazione e pur essendo stata accertata la pacifica non veridicità di alcune circostanze (la presenza di 10 persone al momento delle percosse, l'intervento di un poliziotto per fare desistere l'autore del pestaggio, il luogo dell'aggressione, individuato nella sala d'attesa e non nel corridoio fuori di essa), la sentenza impugnata ha fornito una giustificazione del tutto adeguata delle ragioni per cui la persona offesa aveva reso tali informazioni, individuate in una alterazione dei processi mnesici conseguenti al grave shock traumatico che aveva subito. E sottolineando, per converso, da un lato, come il nucleo essenziale del racconto fosse rimasto invece preservato e sostanzialmente ribadito, in maniera coerente, nel corso di tutte le audizioni; nonché, dall'altro lato, come il racconto in questione trovasse plurimi elementi di conferma negli ulteriori elementi di prova raccolti (dagli accertamenti peritali, indicativi di un'eziologia che escludeva l'impatto con il suolo a favore dell'azione di un corpo contundente quale un pugno o un calcio; alle situazioni di contesto, caratterizzate dall'atteggiamento aggressivo, poco tempo prima, mostrato dalle due guardie giurate nei confronti della persona offesa; dalle risultanze dell'attività intercettati va alla inverosimiglianza di ipotesi alternative, anche per l'assenza, sul luogo dei fatti, di altre persone che potessero avere fatto uso del corpo contundente adoperato per cagionare le lesioni). A fronte di tale puntuale motivazione, che ha dato pienamente conto delle ragioni della decisione, le censure difensive, oltre ad essere manifestamente infondate nella parte in cui lamentano che la Corte territoriale non avrebbe spiegato le ragioni per le quali sarebbe ammissibile la valutazione frazionata del narrato di un teste che riferisca fatti in parte inattendibili in quanto smentiti da altre risultanze probatorie, fanno riferimento a circostanze non decisive, quali la suggestività delle domande rivolte a St.Ma., certamente non pertinente per l'esame in incidente probatorio, o comunque solo genericamente evocate e apoditticamente affermate, come nel caso della incomprensibilità delle risposte o della mancanza di un filo logico nel suo racconto. 4.5. Con specifico riferimento alle intercettazioni telefoniche valorizzate dalla sentenza impugnata, giova premettere che costituisce questione di fatto, rimessa all'esclusiva competenza del giudice di merito, l'interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 3, n. 44938 del 5/10/2021, Gregoli, Rv. 282337 - 01; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258164 -01; Sez. 6, n. 17619 del 8/01/2008, Gionta, Rv. 239724 - 01) ovvero in presenza di un travisamento della prova ricorrente nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale e sempre che la difformità risulti decisiva e incontestabile (Sez. 2, n. 38915 del 17/10/2007, Donno, Rv. 237994 - 01; Sez. 6, n. 11189 del 8/03/2012, Asaro, Rv. 252190 -01; Sez. 5, n. 7465 del 28/11/2013, dep. 2014, Napoleoni, Rv. 259516 - 01; Sez. 3, n. 6722 del 21/11/2017, dep. 2018, Di Maro, Rv. 272558 - 01). 4.5.1. Nel dettaglio, quanto alle intercettazioni nn. 4 e 5 del 4 ottobre 2017 alle 22.32 e alle 22.30, intercorse tra Pa.Si., la moglie e il figlio, il giorno in cui St.Ma. riportò le lesioni, la Corte di assise di appello ha ritenuto, attraverso una interpretazione di puro merito, che le stesse rivelavano come l'imputato avesse raccontato l'accaduto alla moglie e come il bambino, percepita la conversazione tra i genitori, si fosse preoccupato e avesse chiesto al genitore notizie dell'accaduto, facendo riferimento a chi aveva iniziato l'aggressione e, dunque, dando così per scontato che si fosse verificata una colluttazione ovvero un'azione violenta, indicando le possibili conseguenze (la "galera") a cui il genitore avrebbe potuto andare in contro. Nel frangente, Pa.Si. aveva fatto riferimento all'aggressione portata ai loro danni da St.Ma., ad una condotta contenitiva, al fatto che si era determinato "un po' di parapiglia", a seguito del quale la vittima era caduta a terra, riportando le lesioni ricordate. Sul punto, la difesa, si limita sostanzialmente a riproporre l'interpretazione prospettata con la prima sentenza (v. pag. 106), secondo cui la domanda del bambino ("chi ha iniziato a picchiare?") e la risposta di Pa.Si. ("Lui ha iniziato a picchiare") si riferirebbero non al momento della caduta ma alla ricostruzione dei plurimi interventi tra la sera del 3 e le ore 4.00 circa del 4 ottobre 2017, atteso che se le lesioni fossero state da ricondurre a un pestaggio, l'interlocutore avrebbe temuto di quanto avrebbe potuto riferire la persona offesa, mentre la sua preoccupazione in quel momento era rivolta a quanto avrebbe potuto riferire la dott.ssa Ma.Ya. atteso il rischio di possibili conseguenze disciplinari e lavorative. E ancora, quanto al dialogo tra marito e moglie prima della telefonata con il figlio, il ricorso ricorda che la prima sentenza, nel riportare l'invito di Pa.Si. alla donna di dire la verità al figlio e la replica rassicurante di costei, avrebbe escluso che "la verità" riferita dall'imputato alla moglie fosse quella ipotizzata dalla polizia giudiziaria, posto che, in tal caso, ella non lo avrebbe rassicurato; e che, se si fosse trattato di una verità realmente compromettente per Pa.Si. e il collega, il primo non avrebbe invitato la moglie a riferirla a un bambino che avrebbe potuto comunicarla a terzi, così compromettendo il padre. Osserva, nondimeno, il Collegio che tali interpretazioni, pur astrattamente plausibili, non scaturiscono da una piana e incontrovertibile lettura del contenuto captativo e appartengono, in definitiva, all'area dei significati che possono essere legittimamente attribuiti dal giudice di merito al contenuto di una data conversazione. E tuttavia, come già osservato, al Giudice di legittimità non è in alcun modo consentito sindacare tale scelta, se non nei limiti della manifesta irragionevolezza della stessa, qui in realtà assolutamente non rinvenibile. 4.5.2. Alle medesime considerazioni si espongono le doglianze difensive che riguardano le intercettazioni ambientali effettuate in Questura al momento della notifica dei primi atti. Premesso che tali conversazioni non sono state allegate né integralmente trascritte e che, dunque, l'unica possibilità di accedervi è costituita dagli stralci, del tutto circoscritti, ricavabili dalla pronuncia di primo grado, deve osservarsi che la frase valorizzata dal ricorso, costituita dall'osservazione con cui la moglie di Pa.Si. aveva commentato "che non è possibile che il mondo va a rovescio fino a questo punto", non possiede affatto quell'univoco significato che possa consentire di dedurre un decisivo travisamento o, comunque, la possibilità di scardinare la complessiva ricostruzione compiuta dalla sentenza impugnata. Pertanto, la relativa deduzione difensiva, che su tale conversazione si fonda, deve ritenersi comunque generica. 4.5.3. Con riferimento all'intercettazione n. 135 del 20 aprile 2019, il ricorso lamenta che la Corte di merito non si sarebbe confrontata con l'interpretazione offerta dal Giudice dell'udienza preliminare, secondo cui le due guardie giurate, allorché St.Ma. giaceva esanime per le lesioni riportate, sarebbero uscite fuori dalla struttura sanitaria unicamente per verificare la presenza di qualche medico che potesse prestare immediato soccorso. Secondo la sentenza di secondo grado, invece, in tale conversazione, immediatamente successiva alla pubblicazione sul sito internet delle Notizie di P dell'articolo relativo alla vicenda per cui è processo, gli imputati, dinnanzi alle novità rappresentante dal contenuto della perizia e dalle dichiarazione di un "supertestimone", avevano rivelato, in un momento di rabbia e agitazione, di avere scrupolosamente verificato che non fosse presente nessun testimone, anche all'esterno della struttura sanitaria. E a partire da tale circostanza la sentenza ha ritenuto che tale contegno fosse incompatibile con lo scenario della caduta accidentale, posto che, in tal caso, gli imputati avrebbero prestato immediatamente soccorso e richiesto l'intervento dei sanitari entrando nei locali del pronto soccorso. Osserva, in proposito, il Collegio che è la stessa difesa a riconoscere che entrambe le inferenze siano astrattamente plausibili, a riprova della legittimità di una scelta a favore di una di esse, nell'esercizio di un apprezzamento di merito da parte della Corte territoriale che, proprio in quanto logicamente argomentato, si sottrae, ancora una volta, a ogni possibilità di censura in sede di legittimità. 4.5.4. Con riferimento alla conversazione n. 48 del 9 ottobre 2017 alle 11.31, in cui Pa.Si., parlando con la madre prima dell'interrogatorio che avrebbe dovuto rendere al Pubblico ministero, aveva censurato il contenuto della relazione di servizio del 3 ottobre 2017, materialmente redatta da Pr.An., la Corte di appello non avrebbe preso in esame le considerazioni del Giudice dell'udienza preliminare secondo cui il mendacio della relazione fosse volto a celare non l'aggressione fatale, ma i modi rudi usati dagli imputati nella sala d'attesa, ove la vittima era stata strattonata, con ciò mostrando di non essere responsabili delle gravi lesioni dalla stessa riportate, atteso che, in tale evenienza, costoro si sarebbero preoccupati che St.Ma., ove dimesso, potesse accusarli di averlo picchiato. Anche in questo caso, però, il ricorso si limita a delineare uno scenario alternativo rispetto alla non illogica lettura operata dalla sentenza di secondo grado, secondo cui il contenuto della relazione era stato contraddetto dalle conversazioni di cui alle intercettazioni nn. 4 e 5 del 4 ottobre 2017, da cui era emerso che vi era stato un effettivo contatto fisico tra gli imputati e St.Ma., a seguito del quale la vittima era caduta a terra riportando le lesioni ricordate. Pertanto, anche in questo caso le censure si risolvono nella richiesta di aderire a una lettura differente del materiale probatorio rispetto a quella motivatamente esperita dalla sentenza impugnata, attraverso una operazione rivalutativa che non è consentita al Giudice di legittimità. 4.6. Quanto, infine, alla relazione di servizio redatta da Pr.An. e inviata alla società per cui i due imputati lavoravano, il ricorso ha evidenziato come Giudice di primo grado avesse osservato che nel corso della notte tra il 3 e il 4 ottobre 2017 le due guardie giurate avevano effettuato ripetuti interventi su richiesta dei sanitari, spesso nei confronti della persona offesa, che aveva un atteggiamento minaccioso, tanto da rendere necessario il coinvolgimento di alcuni poliziotti presenti per altra ragione nei locali del pronto soccorso; che la persona offesa, molto agitata, aveva rivolto espressioni offensive e minacciose all'indirizzo del personale, colpendo il vetro di accoglienza del triage esterno e sbandando mentre camminava, come se fosse in stato di ebbrezza o avesse assunto stupefacenti; dopo essersi allontanato era ritornato presso il prono soccorso e verso le 4.00 aveva urlato, picchiando contro il vetro, per sollecitare le visite mediche, venendo invitato a smetterla dalle guardie giurate, che avevano cercato di portarlo alla calma; dinnanzi al rifiuto del medico di dargli dei farmaci senza essere visitato, l'uomo si era infuriato, chiedendo di essere ricoverato in ospedale e facendo volare in aria uno zaino e una borsa di carta da cui erano usciti degli oggetti personali e delle medicine, sicché le guardie giurate lo avevano aiutato a mettere a posto i suoi effetti personali. Ancora una volta, nondimeno, il ricorso ha operato un rinvio alle difformi valutazioni del primo Giudice e alla ricostruzione dallo stesso accolta, lamentando, genericamente, l'assenza di un adeguato confronto con la relativa motivazione da parte delia Corte di secondo grado. Viceversa, la sentenza impugnata ha puntualmente rilevato gli elementi distonici tra la esposizione dei fatti contenuta nella suddetta relazione e gli accadimenti realmente accertati, in particolare con riferimento alla tesi del volontario allontanamento di St.Ma. dai locali del Pronto soccorso; giungendo, infine, ad affermare, in maniera niente affatto illogica, il carattere mendace della relazione di servizio e la strumentalità della stessa rispetto alla strategia difensiva agita dai due imputati. 5. Con il secondo motivo del ricorso proposto nell'interesse di Pr.An. e con il quarto motivo del ricorso proposto nell'interesse di Pa.Si., le difese lamentano il vizio di motivazione in relazione alla affermazione della responsabilità concorsuale di entrambi gli imputati nel reato ad essi contestato. Ciò sebbene, come osservato dal primo Giudice, non fosse possibile identificare il soggetto corrispondente alla "guardia" di cui aveva parlato St.Ma. e che, secondo il suo racconto, lo avrebbe aggredito, né individuare la condotta concorsuale del suo presunto complice. Al contrario, la Corte territoriale attribuirebbe le condotte violente e aggressive a entrambi gli imputati, che avrebbero prelevato con la forza la persona offesa dalla sala di attesa in cui si trovava, gettandola a terra nel corridoio in prossimità dell'uscita del nosocomio e colpendola con calci o pugni al volto. Tale soluzione, opina la difesa, non si confronterebbe con gli elementi probatori raccolti, da cui risulterebbe che l'azione delittuosa sia stata commessa, in ipotesi, da un solo soggetto. In particolare, quanto a Pa.Si., sembrerebbe essergli ascritto un concorso morale, senza che però gli sia stato attribuito alcun contegno aggressivo nei confronti di St.Ma. Tanto premesso, osserva il Collegio che la Corte territoriale ha motivatamente riconosciuto il contributo concorsuale dei due imputati, affermando che Pr.An. e Pa.Si. avevano agito di concerto, dapprima amplificando la tensione nella sala di attesa al momento dello strattonamento di St.Ma. e, successivamente, condividendo la condotta minatoria e violenta e, quindi, premurandosi di verificare che nessuno avesse assistito all'azione lesiva che aveva lasciato a terra incosciente St.Ma. nonché concertando la falsa ricostruzione dei fatti riportata nella relazione di servizio. Tali elementi di fatto sono stati ritenuti, non illogicamente, di significativo rilievo indiziario ai fini dell'affermazione di un contributo quantomeno morale di entrambi, atteso che la partecipazione attiva di ciascuno alle varie fasi in cui si era esplicata la sequenza delittuosa aveva certamente prestato un contributo sul piano della realizzazione dell'azione lesiva e del rafforzamento dell'altrui proposito criminoso. Ciò anche alla luce del consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'affermazione della responsabilità a titolo di concorso in un delitto, di lesioni o di omicidio, può fondarsi su plurimi e convergenti indizi in ordine al pieno coinvolgimento degli imputati nella realizzazione dell'azione criminosa, ancorché non sia stato possibile individuare lo specifico contributo recato da ciascuno degli stessi alla realizzazione dell'azione tipica (Sez. 5, n. 43781 del 17/10/2023, S., Rv. 285775 - 01; Sez. 1, n. 12309 del 18/02/2020, Mazzara, Rv. 278628 - 01). Non concludente appare, del resto, l'affermazione difensiva circa l'irrilevanza, sul piano causale, della condotta tenuta dagli imputati nella sala di attesa al momento della prima aggressione di St.Ma., avendo tale fase della sequenza rappresentato un momento qualificato rispetto all'insorgere della causale delittuosa e al cementarsi di una comune volontà offensiva all'indirizzo della persona offesa. Del pari, la condotta di Pa.Si., consistita nel verificare che nessuno avesse assistito all'azione lesiva ai danni di St.Ma., se ovviamente priva di rilevanza causale rispetto ad essa, è stata non illogicamente valorizzata al fine di evincerne non solo la compresenza degli imputati sulla scena criminis, ma anche l'atteggiamento complice nel celare le responsabilità di entrambi. Infine, quanto al riferimento alle dichiarazioni di St.Ma., che il Giudice dell'udienza preliminare avrebbe valorizzato per giungere ad affermare che l'aggressione fosse stata portata soltanto da una persona, è appena il caso di osservare come esse, quand'anche ritenute attendibili nel circoscrivere l'azione materiale ad uno solo degli imputati, non possano certo ritenersi idonee ad escludere il contributo prestato dal complice sul piano del rafforzamento del proposito criminoso dell'agente. 6. La ricostruzione che precede impone di disattendere, conclusivamente, l'argomento difensivo, più volte ribadito, secondo cui la sentenza di condanna pronunciata dal giudice di appello non presenterebbe i crismi della ed. motivazione rafforzata. Sul punto, si è già ricordato che la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che in caso di totale riforma della sentenza assolutoria, la pronuncia di condanna deve contenere una compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonché un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanziale o processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore (Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 278056 -01). Orbene, nel caso di specie, la Corte di merito ha adempiuto a tale onere motivazionale, prendendo in considerazione i passaggi argomentativi su cui si fondava, sul piano logico, la pronuncia assolutoria e sottoponendoli a critica serrata, attraverso cui è stato dimostrato il risultato complessivamente illogico della lettura offerta dal primo Giudice e, per converso, la ben più solida e verosimile ricostruzione posta alla base della statuizione di condanna, certamente dotata di una forza persuasiva maggiore. Ciò vale per l'eziogenesi delle lesioni, fondata su una lettura degli accertamenti peritali in grado di farsi carico delle aporie logiche della soluzione alternativa della caduta accidentale; ma anche per l'interpretazione offerta, all'esito della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, delle dichiarazioni rese dai testimoni e, in particolare, dalla dott.ssa Ma.Ya. nonché delle numerose conversazioni intercettate. Elementi che, attraverso una lettura globale e coordinata, hanno consentito di rileggere, sul piano probatorio, altre specifiche circostanze, come il contenuto mendace della relazione di servizio, e di addivenire a una affermazione di responsabilità dei due imputati fondata sul canone dell'ai di là di ogni ragionevole dubbio. 7. Alla luce delle considerazioni testé sviluppate devono essere respinti anche i primi due motivi del ricorso proposto nell'interesse di Pa.Si. i quali ruotano intorno a due nuclei argomentativi fondamentali: da un lato, la mancata audizione della teste Fr.Sc. e, dall'altro lato, l'omesso esame dei due imputati. 7.1. Con riferimento al primo profilo, il ricorso deduce due distinte doglianze. 7.1.1. La prima attiene alla mancata riassunzione di una prova decisiva. Il primo Giudice, infatti, aveva valutato le dichiarazioni della teste come rese in favore dell'imputato, fondando la dinamica alternativa lecita dell'evento su quanto riferito dalla donna. Viceversa, la Corte di secondo grado avrebbe attribuito al suo racconto un valore diametralmente opposto, con conseguente violazione dei principi applicabili in caso di riforma della sentenza assolutoria. A questo riguardo, giova tuttavia osservare che la disciplina processuale sul punto applicabile dalla Corte territoriale era quella in vigore dal 30 dicembre 2022 e, dunque, vigente anche al momento della celebrazione del processo di appello. Secondo la nuova formulazione dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., introdotta dall'art. 34, comma 1, lett. i), n. 1, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, "nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice, ferme le disposizioni di cui ai commi da 1 a 3, dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all'esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5". Detta disposizione, dunque, avrebbe imposto alla Corte territoriale di procedere al nuovo esame del teste unicamente nel caso, qui non ricorrente, di giudizio dibattimentale di primo grado o di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato. Ne consegue che la mancata audizione di Fr.Sc. da parte del Giudice di appello non ha realizzato alcuna violazione delle disposizioni processuali in materia di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in caso di riforma della sentenza assolutoria conseguente all'impugnazione da parte del pubblico ministero (per la valutazione di compatibilità costituzionale della nuova formulazione dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. v. Sez. 5, n. 49667 del 10/11/2023, Fossatocci, Rv. 285490 - 02). 7.1.2. Sotto un differente profilo, si deduce il vizio di motivazione che inficerebbe l'ordinanza di revoca dell'audizione della teste, disposta dopo che ella non era comparsa all'udienza fissata per la sua audizione per motivi personali e sul rilievo che "all'esito dell'istruttoria già esperita, le circostanze sulle quali avrebbe dovuto deporre la teste" fossero "già state sufficientemente chiarite". In realtà, opina la difesa, Fr.Sc. sarebbe stata l'unica teste ad avere udito, mentre si stava verificando l'azione, per ben due volte, dei lamenti, emessi in rapida successione ("Ahi, ahi" e, di nuovo, "Ahi, ahi"); tant'è che la Corte utilizzerebbe ampiamente quanto da lei riferito, proprio perché portatrice di informazioni che nessun altro testimone possedeva. In nessun modo, pertanto, l'assunzione delle altre prove dichiarative avrebbe potuto rendere superflua la sua audizione, non potendo gli altri testi "sufficientemente chiarire" le circostanze sulle quali ella avrebbe dovuto essere ascoltata; sicché la motivazione addotta a giustificazione della revoca sarebbe insufficiente e contraddittoria. Le suggestive argomentazioni difensive devono essere, tuttavia, collocate nel contesto della disciplina della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale disposta, come nel caso di specie, nell'esercizio dei poteri officiosi del giudice dell'impugnazione. In questo caso, infatti, va ribadito che nel giudizio di appello conseguente allo svolgimento con le forme del rito abbreviato del giudizio di primo grado, è consentito al giudice disporre ex officio, ai sensi dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti costituenti oggetto di decisione, potendo le parti solo sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria allo stesso spettanti (Sez. 2, n. 30776 del 10/05/2023, Chionna, Rv. 284947 - 01). Dunque, nel caso qui esaminato il Giudice di appello si è limitato a disporre la revoca della prova testimoniale ritenendo che l'esame non fosse più assolutamente necessario, tenuto conto del fatto che le dichiarazioni già rese, unitamente al nuovo quadro probatorio conseguente alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale già espletata, non rendevano più indispensabile la nuova attività istruttoria ai fini della decisione finale. Una decisione, questa, che pur sinteticamente motivata, si sottrae, per gli ampi margini di discrezionalità che la caratterizzano, a ogni possibile censura da parte di questo Collegio. 7.2. Con riferimento al secondo profilo, il ricorso deduce, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata audizione degli imputati. Muovendo dai principi enunciati nella sentenza Corte EDU, Sezione I, 8 luglio 2021, Maestri e altri c Italia, secondo cui il giudice di secondo grado non può decidere sul merito della questione senza la diretta audizione degli appellanti, la difesa deduce che la Corte territoriale si sarebbe pronunciata sulla ricostruzione alternativa prospettata dagli imputati e sul contenuto delle conversazioni oggetto di captazione telefonica, sicché sarebbe stato necessario procedere alla loro diretta audizione, se del caso disponendo d'ufficio il loro esame. Osserva, nondimeno, il Collegio che la necessità di assumere l'esame dell'imputato in caso di riforma della sentenza assolutoria rientra in quella, più generale, di rinnovazione della prova dichiarativa di natura decisiva, sicché la stessa non sussiste ove, nel corso del giudizio di primo grado, sia mancata l'assunzione delle dichiarazioni dell'imputato o la valutazione probatoria da parte dei giudici dei due gradi di merito sia stata incentrata su risultanze istruttorie diverse rispetto a tale atto, non oggetto di esame alcuno (Sez. 6, n. 27163 del 5/05/2022, Burigo, Rv. 283631 - 01). Nel caso di specie, invero, Pr.An. e Pa.Si. si sono avvalsi della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio nel corso delle indagini preliminari, non hanno reso esame o dichiarazioni spontanee nel corso del giudizio abbreviato, né durante il processo di assise di appello, pur connotato da una significativa rinnovazione istruttoria della prova orale (v. pag. 54 della sentenza di appello), sicché i principi affermati dalla menzionata pronuncia della Corte Edu non possono ritenersi pertinentemente richiamati nel caso in esame. 8. Alla luce delle considerazioni che precedono, i ricorsi devono essere rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Inoltre, gli imputati devono essere condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili St.Gi. Pa. St.An. St.Ma. e St.Ra. che devono essere liquidate in complessivi 9.000,00 Euro, ai sensi degli artt. 12 e 16, d.m. n. 55 del 2014, come modificato dal d.m. n. 37 del 2018, tenuto conto - in relazione alle voci precisate nella nota spese depositata - dell'attività svolta e delle questioni trattate, cui devono aggiungersi gli accessori di legge, costituiti, ex art. 2, d.m. n. 55 del 2014, dalle spese forfettarie, da calcolarsi in misura del 15%, oltre all'IVA e al contributo per la Cassa previdenziale, da computarsi sull'imponibile, con attribuzione al procuratore antistatario avv. Ma.Ci.. Del pari, Pr.An. e Pa.Si. devono essere condannati anche alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile St.Ad. che devono essere liquidate, in base ai parametri normativi sopra richiamati e tenuto conto, anche in questo caso, dell'attività svolta e delle questioni trattate in relazione alle voci precisate nella nota spese depositata, in complessivi 3.600,00 Euro, cui devono ancora una volta aggiungersi gli accessori di legge come più sopra individuati. 8.1. In caso di diffusione del presente provvedimento dovranno omettersi le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52, D.Lgs. n. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili St.Gi., Pa. St.Ma., St.An. e St.Ra. che liquida in complessivi Euro 9000,00, oltre accessori di legge, con attribuzione al procuratore antistatario avv. Ma.Ci., nonché dalla parte civile Adele Sara St.Ma. che liquida in complessivi Euro 3600,00, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52, D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in data 19 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2024.

  • 1 AUL A 'A' 2024 1024 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ADRIANA DORONZO - Presidente - Dott. MARGHERITA MARIA LEONE - Consigliere - Dott. FRANCESCOPAOLO PANARIELLO - Consigliere - Dott. FABRIZIO AMENDOLA - Consigliere - Dott. ELENA BOGHETICH - Rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 7254-2019 proposto da: FARABELLA BRIGIDA, PERRONE PASQUALINA, ALOISE FABIO, CAPUTO SALVATORE, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA NAZARIO SAURO 16, presso lo studio dell'avvocato MASSIMO PISTILLI, che li rappresenta e difende; - ricorrenti - contro TIVAN S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CICERONE 49, presso lo studio dell'avvocato GAETANO DI GIACOMO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato ENZA MARIA ACCARINO; - controricorrente - avverso la sentenza n. 336/2018 della CORTE D'APPELLO di SALERNO, depositata il 21/08/2018 R.G.N. 425/2017; Oggetto INTERPRE TAZIONE CCNL R.G.N. 7254/2 019 Cron. Rep. Ud. 05/03/2024 PU 2 udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2024 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'Avvocato MASSIMO PISTILLI; udito l'Avvocato SILVIA MARESCA per delega verbale Avvocato GAETANO DI GIACOMO. FATTI DI CAUSA 1. con sentenza n. 336/2018 la Corte di appello di Salerno ha respinto il gravame dei lavoratori-originari ricorrenti (“terapisti della riabilitazione”, dipendenti della Tivan s.r.l.) avverso la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della stessa sede aveva rigettato la domanda diretta a ottenere, in relazione alla qualifica posseduta e alle mansioni svolte per un determinato arco di tempo, l'inquadramento nella superiore posizione economica D1 del CCNL per il personale dipendente delle Strutture Sanitarie Associate all’AIOP, all’ARIS e alla Fondazione Don Gnocchi, con le diverse decorrenze per ognuno dei lavoratori; 2. in particolare, la Corte territoriale – interpretando la contrattazione collettiva nazionale e, in specie, gli artt. 47 e 51 – ha rilevato che, per un verso, il CCNL 2002-2005 aveva introdotto un nuovo sistema di classificazione del personale (e stabilito un diverso inquadramento sulla base dell’anzianità già maturata) e, per un altro verso, aveva delineato un nuovo sistema di progressione professionale che, senza imporre un avanzamento fondato sull’anzianità di servizio, valorizzava l’evoluzione del lavoro del dipendente, l’accrescimento della professionalità acquisita e dimostrata con il conseguimento di titoli e riconoscimenti; ha, dunque, ritenuto che doveva ritenersi “inapplicabile, al caso di specie, l’art. 51 CCNL in quanto norma che stabilisce l’inquadramento del personale in base all’anzianità già maturata in fase di prima applicazione del contratto, mentre appare chiaro che sia l’art. 47 CCNL la norma che disciplina la progressione di carriera di cui si discute”; 3. nei confronti di detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i lavoratori con due motivi, cui ha resistito la società Tivan con controricorso (nell’ambito del quale vengono riprodotte alcune eccezioni formulate in grado di appello); entrambe le parti hanno depositato memoria. 3 RAGIONI DELLA DECISIONE 1. con il primo motivo i ricorrenti denunziano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 47 e 51 CCNL Aiop Aris e Fondazione Gnocchi (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.), avendo, la Corte territoriale, trascurato che il criterio dettato dall’art. 47 cit. per la progressione in carriera (l’acquisizione di attestati di aggiornamento professionale e/o specifiche conoscenze) non è l’unico, concorrendo con il criterio dell’anzianità che viene espressamente indicato nell’art. 51 del medesimo CCNL (ove emerge chiaramente che la progressione in diverse declaratorie professionali può avvenire anche a seguito di maturazione di una determinata anzianità di servizio). 1.1. con il secondo motivo si denunzia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 51 CCNL Aiop Aris e Fondazione Gnocchi (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, commesso un secondo errore esegetico sull’art. 51 cit. ove la clausola collettiva fa riferimento all’anzianità di servizio necessaria per accedere alla posizione (superiore) D1, dovendosi interpretare la dizione “Alla data di sottoscrizione del presente CCNL” (ossia a novembre 2004) come riferita solamente a quel momento storico (quando l’anzianità di servizio viene calcolata secondo un criterio in parte dimezzato), riespandendosi, successivamente, il principio generale della piena anzianità di servizio. 2. la società controricorrente riproduce le eccezioni non esaminate in primo e secondo grado e, in particolare, lamenta: l’inammissibilità dell’appello “per omessa specificazione dei motivi di gravame con conseguente inammissibilità derivata del ricorso per cassazione”, l’inammissibilità dell’appello “per difetto di interesse con conseguente inammissibilità del ricorso per Cassazione”, l’inammissibilità e l’infondatezza dell’appello “per falso presupposto con conseguente inammissibilità del ricorso per Cassazione”, la “inammissibilità dei ricorsi quindi dell’appello e del ricorso in Cassazione” per intervenuta prescrizione (che “si eccepiva e si eccepisce, ove possa occorrere”), l’infondatezza dei ricorsi di primo grado e dell’appello “per ammissione e non contestazione dei fatti dedotti dalla resistente”; in via subordinata, “era avanzata richiesta di confermare la interpretazione dell’art. 51 CCNL sempre sostenuta dal sindacato (anzianità di 25 anni)”; “in via ancora più gradata, si 4 eccepiva e si eccepisce infine la non retroattività della interpretazione sostenuta dai ricorrenti (che essi stessi ammettevano essere nuova)”. 3. i motivi del ricorso - che possono essere esaminati congiuntamente in quanto tutti concernenti la corretta interpretazione dell’art. 51 del CCNL in esame sotto il profilo della valorizzazione dell’anzianità di servizio ai fini della progressione in carriera - sono fondati; 4. ritiene il Collegio necessario premettere, quanto alle censure che investono il capo della sentenza impugnata relativo al riconoscimento della posizione economica superiore pretesa e agli adeguamenti retributivi conseguenti, che l’articolato mezzo d’impugnazione devolve, alla Corte, la denuncia di violazione o di falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006 n.40, parificata, sul piano processuale, a quella delle norme di diritto; ciò comporta, in questa sede di legittimità, l’interpretazione delle relative clausole in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (artt. 1362 ss. cod. civ.) come criterio interpretativo diretto e non come canone esterno di commisurazione dell’esattezza e della congruità della motivazione, senza più necessità, a pena di inammissibilità della doglianza, di una specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, né del discostamento, da parte del giudice di merito, dai canoni legali assunti come violati o di una loro applicazione sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti; 5. preliminarmente, è necessario fare una sintetica ricognizione dei criteri introdotti dal CCNL applicato (sottoscritto dalle parti sociali in data 23.11.2004 e trascritto in molte sue clausole sia nel ricorso che nel controricorso); 5.1. il Titolo VII del CCNL è dedicato alla Classificazione del personale e trattamento economico ed esordisce (nelle premesse) con l’esplicitazione degli obiettivi da perseguire, ossia la definizione di un nuovo sistema di classificazione al fine di creare maggiore interazione tra «organizzazione, nuove professionalità e sistemi di inquadramento del personale»; si segnala «la necessità di valorizzare la capacità e la responsabilità nel lavoro del personale», in modo da «proseguire nella crescita dei sistemi organizzativi consentendo anche un ampliamento delle possibilità di riconoscimento del valore professionale»; 5 5.2. in particolare, l’art. 45 del CCNL (recante rubrica: Il sistema di classificazione del personale) ordina il personale in cinque categorie denominate, rispettivamente, A, B, C, D e E; «categorie e relative posizioni economiche sono individuate nelle declaratorie, riportate nell'articolo 51, che descrive l'insieme delle caratteristiche e dei requisiti indispensabili per la classificazione delle posizioni di lavoro. Nelle declaratorie sono inoltre indicate le nuove denominazioni di alcune figure professionali»; 5.3. dato atto che in caso di eventuali modificazioni e integrazioni dei profili o di istituzione di nuove figure professionali da parte del Ministero della Salute, le parti sociali si incontreranno per determinare la corretta collocazione nella posizione di appartenenza del personale interessato (art. 46), l’art. 47 (recante rubrica: Norma di qualificazione e progressione professionale) recita: «Ferme restando le dinamiche già previste, il personale dipendente sarà inquadrato nelle posizioni economiche superiori della medesima categoria, allorquando, in rapporto all’organizzazione aziendale sulla base di percorsi lavorativi, formativi o di tutoraggio individuati, definiti e prefissati dalla Struttura - con esclusione di quelli imposti obbligatoriamente da norme di legge – acquisisca maggiore professionalità anche attraverso attestati di aggiornamento professionale e/o specifiche conoscenze che consentano la sua utilizzazione in mansioni lavorative più qualificate, che richiedono maggiore autonomia e responsabilità. Sarà valutata anche la richiesta disponibilità alla integrazione delle mansioni e all’acquisizione di parti di competenze riferite ad altre posizioni lavorative di pari o di diverso livello economico. Altresì a livello regionale, come previsto dall’articolo 7 punto c) saranno definiti ulteriori elementi di valutazione e indicatori di valorizzazione della professionalità da attribuire alle posizioni lavorative per completare i criteri già individuati nei punti precedenti e che dovranno anche tenere conto della esperienza acquisita e/o delle attitudini e/o delle potenzialità. Le parti si incontreranno con cadenza annuale, a far tempo dal 30 settembre 2004 per verificare la possibilità di dare concretezza a livello aziendale ai meccanismi migliorativi innanzi delineati»; 5.4. per quel che rileva nel caso di specie, dopo alcuni articoli dedicati alle mansioni da espletare in caso di acquisizione di categoria o posizione 6 economica superiore (art. 48) nonché ad aspetti economici (artt. 49 e 50), segue l’art. 51 (recante rubrica: Inquadramento del personale nel sistema di classificazione) che delinea tutte le categorie e le posizioni economiche; «Posizione A: Addetti alle pulizie, Operaio qualificato, addetto alla piscina, commesso, ausiliario. Sono inoltre compresi nella posizione le seguenti qualifiche […] Posizione A1: Il personale inquadrato nella posizione A, al compimento di una anzianità di 2 anni di servizio nella stessa Struttura sanitaria. Posizione A2: Il personale inquadrato nella posizione A1 al compimento di una anzianità di tre anni di servizio nella stessa struttura, in prima applicazione e con decorrenza dalla sottoscrizione del presente contratto. Aiuto cuoco, Ausiliario specializzato. Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione A3: Sono compresi nella posizione le seguenti qualifiche che hanno già assunto la denominazione: Ausiliario socio sanitario specializzato […] Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione A4: Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione B: Impiegato d'ordine, Centralinista, Portiere centralinista, […] Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione B1: Impiegato d’ordine con 5 anni di anzianità, Cuoco con 10 anni di anzianità, nella stessa qualifica e nella stessa Struttura. Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione B2:Operatore socio sanitario, Autista addetto saltuariamente alla conduzione di autoambulanza, Animatore, Tecnico di attività motoria in acqua, Impiantista. E’ inoltre compresa nella posizione la seguente qualifica […]. Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione B3: Educatore (senza titolo specifico, ad esaurimento), Insegnante (senza titolo specifico), ad esaurimento, Istruttore di nuoto, Assistente per l'infanzia, Capocuoco, Autista di ambulanza. 7 Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione B4: Con decorrenza dalla sottoscrizione del presente CCNL gli educatori senza titolo specifico con 15 anni di servizio maturati nella stessa struttura sono inquadrati dalla posizione B3 alla posizione B4. Successivamente l’inquadramento avviene al compimento di cinque anni di anzianità nella medesima struttura, gli anni già maturati alla sottoscrizione del presente contratto saranno computati in ragione di un terzo. Fatte salve eventuali condizioni di miglior favore. Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione C: A decorrere dal 1° gennaio 2005 gli educatori senza titolo specifico con diploma di scuola media superiore, già inquadrati in posizione economica B4 e quelli con 15 anni di servizio nella medesima struttura, sono inquadrati in categoria C. Sono fatte salve eventuali condizioni di miglior favore. L’impiegato amministrativo di concetto, infermiere psichiatrico con un anno di scuola, programmatore di centro elettronico, insegnante corsi formazione professionale, […]. Posizione C1: Impiegato amministrativo di concetto, al compimento di 5 anni di anzianità nella medesima Struttura e nella medesima qualifica, gli anni già maturati alla data della sottoscrizione del presente CCNL saranno computati in ragione di un terzo. Assistente tecnico dotato di titolo specifico alla funzione espletata – capo servizio, con decorrenza dalla data di sottoscrizione del presente CCNL. Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione C2: Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione C3: Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione C4: Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47 8 Posizione D: personale infermieristico (infermiere, infermiere psichiatrico con 2 anni di scuola, ostetrica, dietista, assistente sanitario, infermiere pediatrico, podologo, igienista dentale); personale tecnico sanitario (tecnico sanitario di laboratorio biomedico, tecnico sanitario di radiologia medica, tecnico di neurofisiopatologia, tecnico ortopedico, tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, odontotecnico, ottico); personale della riabilitazione (tecnico audiometrista, tecnico audioprotesista, fisioterapista, logopedista, ortottista, terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, tecnico dell’educazione e riabilitazione psichiatrica e psicosociale, terapista occupazionale, massaggiatore non vedente, massofisioterapista con tre anni di corso, educatore professionale); assistente sociale, cappellano. Collaboratore amministrativo. E’ inoltre compresa nella posizione la seguente qualifica, che ha già assunto la nuova denominazione a fianco indicata: Collaboratore direttivo Collaboratore amministrativo Posizione D1: 1. Infermieri, infermieri psichiatrici con 2 anni di scuola, ostetrica, dietista, assistente sanitario, infermiere pediatrico, podologo, igienista dentale, con anzianità di 20 anni nella stessa qualifica e nella stessa Struttura sanitaria. 2. Personale tecnico sanitario (tecnico sanitario di laboratorio biomedico, tecnico sanitario di radiologia medica, tecnico di neurofisiopatologia, tecnico ortopedico, tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, odontotecnico, ottico); personale della riabilitazione (tecnico audiometrista, tecnico audioprotesista, fisioterapista, logopedista, ortottista, terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, tecnico dell’educazione e riabilitazione psichiatrica e psicosociale, terapista occupazionale, massaggiatore non vedente, massofisioterapista con tre anni di corso, educatore professionale); assistente sociale. Alla data di sottoscrizione del presente CCNL il personale di cui al punto 2 ai fini dell’inquadramento è equiparato a quello del punto 1, con la sola differenza che l’anzianità maturata alla data di sottoscrizione del presente CCNL è calcolata al 100% fino al 15° anno di servizio e al 50% per la rimanenza. Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. 9 Posizione D2: 1. Infermieri, infermieri psichiatrici con 2 anni di scuola, ostetrica, dietista, assistente sanitario, infermiere pediatrico, podologo, igienista dentale, con anzianità di 25 anni nella stessa qualifica e nella stessa Struttura sanitaria. 2. Personale tecnico sanitario (tecnico sanitario di laboratorio biomedico, tecnico sanitario di radiologia medica, tecnico di neurofisiopatologia, tecnico ortopedico, tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, odontotecnico, ottico); personale della riabilitazione […].. Alla data di sottoscrizione del presente CCNL il personale di cui al punto 2 ai fini dell’inquadramento è equiparato a quello del punto 1, con la sola differenza che l’anzianità maturata alla data di sottoscrizione del presente CCNL è calcolata al 100% fino al 15° anno di servizio e al 50% per la rimanenza. Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione D3: 1. Infermieri, infermieri psichiatrici con 2 anni di scuola, ostetrica, dietista, assistente sanitario, infermiere pediatrico, podologo, igienista dentale, con anzianità di 30 anni nella stessa qualifica e nella stessa Struttura sanitaria. 2. Personale tecnico sanitario […]; personale della riabilitazione […]; assistente sociale. Alla data di sottoscrizione del presente CCNL il personale di cui al punto 2 ai fini dell’inquadramento è equiparato a quello del punto 1, con la sola differenza che l’anzianità maturata alla data di sottoscrizione del presente CCNL è calcolata al 100% fino al 15° anno di servizio e al 50% per la rimanenza. Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47. Posizione D4: Capo servizio o ufficio amministrativo di struttura sanitaria con oltre 250 posti letto, e di Ospedale Classificato, IRCCS e Presidi da 121 a 150 p.l.; Analista di sistemi elettronici. Tutti i profili previsti nelle precedenti posizioni economiche a seguito della progressione orizzontale prevista dall’articolo 47»; 6. ebbene, secondo un primo approccio interpretativo di carattere letterale, va rilevato che, nelle premesse del Titolo VII (dedicato alla Classificazione del personale e trattamento economico ed esordisce) le parti sociali hanno 10 sottolineato la necessità di «proseguire nella crescita dei sistemi organizzativi consentendo anche un ampliamento delle possibilità di riconoscimento del valore professionale», con chiaro riferimento («anche») ad un accrescimento (non ad una limitazione) della rosa di possibilità offerte (sino alla stipula del CCNL 2002-2005) per acquisire una progressione in carriera; 7. va notato, poi, l’incipit dell’art. 47 (clausola dedicata alle progressioni orizzontali) ove si puntualizza « Ferme restando le dinamiche già previste »: il tenore lessicale utilizzato dalle parti sociali rende evidente la conservazione del tradizionale sistema di progressione basato sull’anzianità di servizio; la clausola – in coerenza con le premesse che esplicitano l’obiettivo di ampliare i modi di riconoscimento dell’accresciuta professionalità - si dedica, poi, a descrivere (ulteriori e nuovi) sistemi di progressione tra le posizioni economiche basati sullo svolgimento di “percorsi lavorativi, formativi o di tutoraggio individuati, definiti e prefissati dalla Struttura” che consentano di acquisire maggiore professionalità “anche attraverso attestati di aggiornamento professionale e/o specifiche conoscenze”; la clausola valorizza altresì la disponibilità dei dipendenti a svolgere alcune mansioni ricomprese nella posizione di pari o diverso livello; si demanda, poi, a livello regionale il compito di definire ulteriori elementi di valutazione e indicatori di valorizzazione della professionalità … che dovranno tenere conto della esperienza acquisita e/o delle attitudini e/o delle potenzialità; ciò che emerge dalla lettura della clausola collettiva è la considerazione delle parti sociali, oltre che dei titoli conseguibili in sede di formazione (“anche attraverso attestati”), anche dell’esperienza acquisita con diverse modalità (vari percorsi, disponibilità a svolgimento di ulteriori mansioni, sede regionale), nella generale consapevolezza che lo svolgimento delle mansioni determina, comunque, un arricchimento del bagaglio di esperienze; 8. da un punto di vista sistematico, va, inoltre, sottolineato che – la disamina del sistema di progressione nelle diverse categorie delineato dall’art. 51 CCNL – dimostra come la progressione tra posizioni economiche può conseguirsi attraverso diverse modalità, quali l’anzianità di servizio in determinate mansioni e/o lo svolgimento di percorsi lavorativi, formativi o di tutoraggio, di disponibilità a mansioni diverse, ossia di tutti quei nuovi metodi delineati dall’art. 47 CCNL; infatti, va notato che verso alcune posizioni economiche si 11 progredisce solamente tramite anzianità di servizio (es. posizioni A1, C); ad altre si accede, alternativamente, tramite determinate anzianità di servizio oppure tramite i percorsi/titoli descritti dall’art. 47 (es. posizioni A2, B1, B4); ad altre ancora si accede unicamente tramite i percorsi dell’art. 47 (es. posizioni A3, A4, B2, B3, C2-C4); 9. dovendo, quindi, ricostruire il sistema di progressione orizzontale della categoria D in coerenza sistematica con le altre categorie e nel rispetto del tenore lessicale utilizzato dalle parti sociali, va rilevato che l’anzianità di servizio viene valorizzata per il riconoscimento della posizione economica D1, ossia 20 anni nella stessa qualifica e nella stessa Struttura per le professioni di cui al punto 1; per quel che interessa il caso di specie, ossia il personale della riabilitazione (di cui al punto 2), questo personale viene, con la sottoscrizione del CCNL 2002-2005 (24.11.2004), equiparato al personale di cui al punto 1, ma viene richiesta, “alla data di sottoscrizione del presente CCNL” una maggiore anzianità di servizio (non solo 20 anni bensì 25 anni, in considerazione del computo effettuato al 100% o al 50% per gli anni maturati fino al 24.11.2004); l’inciso (“alla data di sottoscrizione del presente CCNL”) rende evidente che, a regime (cioè successivamente alla data del 24.11.2004), il computo degli anni di servizio sarà effettuato normalmente, senza alcuna decurtazione o computo limitato (1=1); pertanto, gli anni di attività svolti sino al 24.11.2004 verranno conteggiati secondo il criterio parzialmente dimidiato (100% sino al 15° anno di servizio e 50% gli anni successivi sino al 24.11.2004), mentre quelli svolti successivamente al 24.11.2004 varranno interamente; insomma, le parti sociali – dettando il nuovo sistema di classificazione del personale - hanno ritenuto di “equiparare” due profili professionali (infermieri e profili equiparabili, da una parte, e personale tecnico sanitario e personale della riabilitazione, dall’altra), ma, in prima battuta (ossia “alla data di sottoscrizione del presente CCNL”) hanno ritenuto che l’equiparazione dovesse scontare una differenza di anzianità di servizio, che, poi, nel tempo, doveva essere abbandonata; va notato che alla posizione D1 si può accedere “anche” tramite i percorsi/titoli descritti dall’art. 47; 10. va rilevato che il meccanismo di accesso alla posizione economica D1 è, per esempio, simile a quello previsto per la posizione economica C1, ove si 12 accede, in prima battuta (“alla data di sottoscrizione del presente CCNL”) con un’anzianità pari a 15 anni (ossia 5 anni “computati in ragione di un terzo”), e, a regime, con un’anzianità di 5 anni (tenendo conto che, sino al 24.11.2004, l’arco temporale va ridotto ad un terzo, mentre dal 24.11.2004 ogni anno corrisponde ad un anno); si accede, poi, anche tramite i sistemi dettati dall’art. 47 CCNL; ciò conferma la constatazione che le parti sociali, a seconda delle professionalità, hanno utilizzato lo stesso metodo dell’anzianità di servizio dimidiata, pur adattandolo alle diverse figure professionali; 11. insomma, le parti sociali, nel delicato compito di “innestare” figure professionali nuove e di riassestare quelle già presenti, hanno effettuato articolate scelte di comparazione, modulando, a seconda dei casi, il tradizionale sistema di progressione orizzontale (l’anzianità di servizio, modalità che, in ogni caso, determina un arricchimento del bagaglio professionale) e i percorsi lavorativi/formativi, ecc. dell’art. 47 CCNL (sistemi innovativi che consentono di accelerare, anche notevolmente, la progressione orizzontale, e che, dunque, realizzano quegli obiettivi di valorizzazione della professionalità, dell’impegno lavorativo delle capacità evidenziati nelle premesse del Titolo VII del CCNL in esame); 12. alla luce delle considerazioni esposte, va enunciato il seguente principio di diritto: “il personale della riabilitazione” disciplinato, ratione temporis, dal CCNL 2002-2005 per il personale dipendente delle Strutture Associate AIOP, ARIS e Fondazione Gnocchi può conseguire la progressione orizzontale dalla posizione economica D a quella D1 nei seguenti modi: alla data di stipulazione del CCNL 2002-2005 (ossia al 24.11.2004), purchè in possesso di 25 anni di anzianità di servizio già maturati nella stessa qualifica e nella stessa Struttura sanitaria; successivamente e a regime, dopo 20 anni di anzianità di servizio nella stessa qualifica e nella stessa Struttura sanitaria oppure, a prescindere dall’anzianità, a seguito di svolgimento dei percorsi/titoli, ecc. previsti dall’art. 47 CCNL. 13. In ordine al controricorso, la mera riproduzione delle eccezioni svolte dalla società in grado di appello, che si rivolge a contestare, sotto diversi profili, l’atto di appello (e il ricorso introduttivo del giudizio) proposto dagli attuali ricorrenti, è inammissibile ai sensi dell’art. 375, secondo comma, n. 1), cod.proc.civ. per mancanza dei motivi, essendo stata totalmente omessa la 13 riconducibilità delle ragioni esposte ai paradigmi normativi dettati dall’art. 360, primo comma, cod.proc.civ. 14. In conclusione, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di appello di Salerno in diversa composizione, che provvederà, altresì, alle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Salerno, in diversa composizione, che provvederà, altresì, alle spese del presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 5 marzo 2024. Il Consigliere estensore Il Presidente dott.ssa Elena Boghetich dott.ssa Adriana Doronzo

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. DE MARZO Giuseppe - Presidente Dott. CANANZI Francesco - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Relatore Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere Dott. MAURO Anna - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Di.Fo. nato a E il Omissis avverso la sentenza del 28/06/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA BIFULCO; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale LUCIA ODELLO, la quale ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso. Ritenuto in fatto 1. Con sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Palermo ha confermato il provvedimento di primo grado, che ha dichiarato Di.Fo. responsabile del delitto di atti persecutori, aggravato ai sensi dell'art. 61, primo comma, n. 10, cod. pen. e di quello di diffamazione, aggravato dal nesso teleologico, nei confronti di Ca.Gi., condannandola alla pena di mesi otto e giorni quindici di reclusione e al risarcimento dei danni. 2. Nell'interesse dell'imputata è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo, si duole di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'ascritto delitto di atti persecutori, per avere la Corte territoriale erroneamente riscontrato nella condotta dell'imputata una "tendenziale stabilità di comportamenti persecutori, vessatori e minacciosi", che non troverebbe riscontro alcuno negli esiti dell'istruttoria dibattimentale. Le condotte dell'imputata si sarebbero invece caratterizzate per l'assenza di abitualità: la difesa indica, a tal proposito, il carattere estemporaneo dell'episodio in cui l'imputata ha rivolto alla persona offesa l'epiteto "parassita", ciò che non può considerarsi alla stregua di condotta inserita in una catena di comportamenti rilevanti ai sensi dell'art. 612 bis cod. pen. Anche la minaccia via social network "Facebook" è stata erroneamente indicata tra le condotte integranti l'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 612 bis, cod. pen., attesa la mancata prova della riconducibilità del profilo Facebook all'imputata. Del pari non comprovata sarebbe la sussistenza dell'elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie incriminatrice, nonché dell'evento, come dimostrato dall'assenza di certificazioni mediche comprovanti le conseguenze delle condotte dell'imputata sulla sfera emotiva e psicologica della persona offesa. 2.2 Col secondo motivo, si eccepisce vizio di motivazione in relazione alla mancata derubricazione del delitto di atti persecutori in quello previsto dall'art. 612 cod. pen., attesa la sussistenza di un unico episodio di minaccia, da cui non è scaturito l'evento richiesto dall'art. 612 bis cod. pen. 2.3 Col terzo motivo, si lamenta vizio di motivazione in relazione all'ascritto delitto di diffamazione (per l'espressione "parassita"), dal momento che la responsabilità dell'imputata è stata affermata in mancanza di prova certa della riconducibilità del profilo Facebook all'imputata, non avendo i giudici del merito provveduto ad accertare l'indirizzo I.P. di provenienza del post asseritamente diffamatorio. Non adeguatamente vagliato, inoltre, è il profilo della sussistenza dell'esimente del diritto di critica, che l'imputata avrebbe esercitato nel manifestare la propria opinione su un caso di ed. malasanità, rispetto al quale doveva considerarsi prevalente "il diritto di informazione pubblica". Sussisterebbero, nel caso di specie, i tre requisiti della veridicità dei fatti, della continenza e dell'interesse sociale alla conoscenza dei fatti narrati. Da ultimo, la difesa osserva che la condotta asseritamente diffamatoria poteva ben ritenersi assorbita nella condotta di atti persecutori, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d'appello. 3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con l. 18/12/2020, n. 176, le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa Lucia Odello, quale ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso. Sono altresì pervenute conclusioni scritte e nota spese della parte civile e conclusioni dell'imputata. Considerato in diritto 1. I primi due motivi sono manifestamente infondati, in quanto la difesa non si confronta con la parte argomentativa dell'impugnata sentenza, riproponendo censure reiterative delle medesime doglianze dedotte nel giudizio di appello, rispetto alle quali non può che ribadirsi quanto già, più volte, chiarito da parte di questa Corte di legittimità, per cui è inammissibile il ricorso per cassazione che riproduce i medesimi motivi prospettati con l'atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato, limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione (così, tra le altre, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970-01; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260608-01; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838- 01). Dopo aver brevemente rievocato l'antefatto della vicenda (il decesso della madre dell'imputata presso l'ospedale Sant'Antonio Abate di Trapani, del quale evento la ricorrente riteneva responsabile la persona offesa, che ivi prestava servizio in qualità d'infermiere), i giudici di appello, con valutazione conforme a quanto ritenuto dal Tribunale di Trapani, hanno smentito l'assunto difensivo, evidenziando, con motivazione che non presenta cadute logiche, la congruenza del narrato della persona offesa e di quello di numerosi testi (colleghi e dottori in servizio, all'epoca dei fatti, nel citato ospedale, il nipote della persona offesa, presente al momento dell'aggressione-inseguimento per strada, l'agente Mondello, che intervenne a seguito di segnalazione degli infermieri per la presenza insistente e minacciosa dell'imputata, alla ricerca della persona offesa, in reparto). Da tali dichiarazioni, si è accuratamente constatata la pluralità di condotte moleste, aggressive e vessatorie e, segnatamente, 1) i diversi episodi in cui l'imputata si era recata all'ospedale cercando Ca.Gi. per "ammazzarlo", come aveva detto ai colleghi di quest'ultimo; 2) la pubblicazione -confermata dall'imputata stessa- di un "post" con fotografia degli ematomi sul braccio della madre dell'imputata e dell'effige della persona offesa, accompagnata dalla dicitura "parassita"; 3) l'inseguimento, per strada, della persona offesa. La responsabilità dell'imputato è stata affermata dalla Corte territoriale sulla base di un compiuta ricostruzione tanto delle condotte persecutorie, come si è visto non certo estemporanee, quanto dell'elemento soggettivo del reato ascritto (sorretto dal dolo generico, vale a dire dalla consapevolezza dell'apporto che ciascuno degli attacchi apporta alla lesione dell'interesse protetto, cfr. ex plur., v. Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015, A., Rv. 265230 - 01). A tal proposito, la Corte territoriale ha ricordato come la piena volontà e consapevolezza dell'imputata circa il proprio agire persecutorio sia stata desunta dalle reiterate ed esplicite condotte della stessa, che ha ripetutamente riferito a terzi che il Ca.Gi. avrebbe pagato di persona la morte della madre. Quanto all'evento richiesto dalla fattispecie incriminatrice, va disattesa la censura difensiva che insiste sull'assenza di certificazioni mediche comprovanti le conseguenze delle condotte dell'imputata sulla sfera emotiva e psicologica della persona offesa (cfr., ex multis, Sez. 5, n. 47195 del 06/10/2015 Ce. (dep. 27/11/2015) Rv. 265530 - 01, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell'agente). Sul punto, va rimarcata la congruenza dell'iter motivazionale con i canoni giurisprudenziali elaborati da questa Corte in tema di atti persecutori: invero, la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente (i giudici del merito hanno evidenziato, a tal proposito, l'assenza sul luogo di lavoro per lungo periodo per tema d'incontri con l'imputata) ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, S., Rv. 269621 -01). La manifesta infondatezza del secondo motivo deve ricondursi a quanto già ricordato a proposito della congrua motivazione con cui i giudici di merito hanno ritenuto provato l'elemento oggettivo del delitto di atti persecutori. È infatti nel quadro complessivo delle plurime condotte vessatorie, moleste e aggressive che si inseriscono le minacce (non già la minaccia, come affermato dalla difesa) ed è dall'insieme di quelle condotte (ivi comprese le minacce) che è scaturito l'evento richiesto dall'art. 612 bis cod. pen. 2. Il terzo motivo è manifestamente infondato, per le ragioni qui di seguito illustrate. In relazione alla lamentata mancanza di prova certa della riconducibilità del profilo Facebook all'imputata, la Corte territoriale ha ricordato, in primis, che l'imputata stessa ha ammesso di aver pubblicato il post diffamatorio (con l'espressione "parassita"), ciò che basterebbe a disattendere l'eccezione difensiva. In ogni caso, gioverà ribadire quanto già chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte a proposito del carattere non necessario dell'accertamento tecnico relativo alla titolarità dell'indirizzo IP, da cui risultano spediti i messaggi offensivi. Infatti, "ai fini dell'affermazione della responsabilità per il delitto di diffamazione, l'accertamento tecnico in ordine alla titolarità dell'indirizzo IP da cui risultano spediti i messaggi offensivi non è necessario, a condizione che il profilo "Facebook" sia attribuibile all'imputato sulla base di elementi logici, desumibili dalla convergenza di plurimi e precisi dati indiziari quali il movente, l'argomento del "forum" sul quale i messaggi sono pubblicati, il rapporto tra le parti, la provenienza del "post" dalla bacheca virtuale dell'imputato con utilizzo del suo "nickname"" (Sez. 5, n. 38755 del 14/07/2023, L., Rv. 285077 - 01). Anche l'asserita sussistenza dell'esimente del diritto di critica va disattesa, avendo la Corte d'appello adeguatamente illustrato i modi in cui il limite della continenza sia stato superato, per avere l'imputata esposto al pubblico disprezzo la persona offesa, pubblicando - su una bacheca "Facebook", pubblica "piazza virtuale" aperta al libero confronto tra gli utenti registrati (Sez. 5, n. 8898 del 18/01/2021, Rv. 280571-01)- l'effige della persona offesa, il commento "parassita" e la foto del braccio tumefatto della madre, in modo che dal "post", nel suo insieme, trapelasse un attacco ben preciso alla reputazione professionale del Ca.Gi.. Ora, in tema di diffamazione, il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta - e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione (Sez. 5, n. 31669 del 14/04/2015, Marcialis, Rv. 264442 -01). Ma anche a voler concedere che l'espressione incriminata "parassita" possa considerarsi alla stregua di un termine insostituibile nella manifestazione del pensiero critico, in quanto privo di adeguati equivalenti, e che, pertanto, detto termine non superi i limiti della continenza, resta, come accennato, il profilo dell'architettura complessiva del post incriminato, che ha associato tre elementi (l'immagine del braccio tumefatto dalle flebo, l'immagine dell'infermiere asseritamente responsabile, l'epiteto offensivo "parassita") in modo non soltanto da denigrare la persona offesa e le sue capacità professionali, ma anche da indurre la platea degli utenti Facebook -che può essere costituita, come noto, da un numero quantitativamente apprezzabile di persone (Sez. 5, n. 13979 del 25/01/2021, Chita, Rv. 281023 - 01)- a ulteriori reazioni scomposte nei confronti della persona offesa, senza una razionale e apprezzabile correlazione con il fatto del quale si tratta. Infine, va rilevata la totale genericità dell'eccezione relativa al mancato assorbimento della condotta diffamatoria in quella di atti persecutori, non avendo la difesa contrastato con argomenti più articolati - rispetto a un vago dissenso - la valutazione della Corte d'appello circa il concorso del delitto di cui all'art. 612 bis cod. pen. con quello di diffamazione, alla stregua del condiviso orientamento di questa Corte: il delitto di atti persecutori concorre con quello di diffamazione anche quando nelle modalità della condotta diffamatoria si esprimono le molestie reiterate costitutive del reato previsto dall'art. 612 bis cod. pen. (Sez. 5, n. 49288 del 15/11/2023, C., Rv. 285559 - 01; Sez. 5, n. 51718 del 05/11/2014, T., Rv. 262635 - 01). 3. Alla pronuncia di inammissibilità consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. L'imputata va, inoltre, condannata alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità, che, in relazione all'attività svolta, vengono liquidate in complessivi euro 3.600,00, oltre accessori di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l'imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro 3.600,00, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003. Così deciso in Roma, il 22 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,   ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione Puglia 15 giugno 2023, n. 13, recante «Disposizioni per prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno di anziani e persone con disabilità e modifica alla legge regionale 9 agosto 2006, n. 26 (Interventi in materia sanitaria)», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 17 agosto 2023, depositato in cancelleria il successivo 18 agosto, iscritto al n. 25 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 2023. Visto l'atto di costituzione della Regione Puglia; udita nell'udienza pubblica del 20 marzo 2024 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta; uditi l'avvocato dello Stato Giancarlo Caselli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Isabella Fornelli per la Regione Puglia; deliberato nella camera di consiglio del 20 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.- Con ricorso iscritto al n. 25 del reg. ric. 2023, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione Puglia 15 giugno 2023, n. 13, recante «Disposizioni per prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno di anziani e persone con disabilità e modifica alla legge regionale 9 agosto 2006, n. 26 (Interventi in materia sanitaria)», per violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, con riguardo alle materie «ordinamento civile» e «ordinamento penale», e per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia al regolamento (UE) n. 679/2016 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), sia alla direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio. 1.1.- La disposizione impugnata si colloca nel contesto di una legge regionale che intende prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno di anziani e persone con disabilità nell'ambito delle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali a carattere residenziale, semi-residenziale o diurno (art. 1 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023). A tal fine, l'art. 4 della medesima legge regionale prevede l'installazione di sistemi di videosorveglianza quale requisito necessario a conseguire l'accreditamento istituzionale con il Servizio sanitario regionale e a ottenere o mantenere l'autorizzazione all'esercizio dell'attività da parte delle strutture private richiedenti. L'impugnato art. 3 regola la «[i]nstallazione dei sistemi di videosorveglianza e [la] tutela della privacy». In particolare, il legislatore regionale, oltre a stabilire che l'installazione dei sistemi di videosorveglianza sia effettuata in conformità al decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, recante «Disposizioni per l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazioni di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)», al regolamento n. 679/2016/UE, nonché alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, introduce alcune puntuali previsioni, riguardanti: l'installazione dei sistemi di videosorveglianza, che deve avvenire con modalità atte a garantire la sicurezza dei dati trattati e la loro protezione da accessi abusivi; la necessità che l'attivazione degli impianti sia preceduta dall'acquisizione del consenso degli ospiti o dei loro tutori; l'esigenza di una adeguata segnalazione dei sistemi di videosorveglianza a tutti i soggetti che accedono all'area interessata; l'esecuzione delle registrazioni, che deve essere effettuata in modalità criptata; la visione delle registrazioni stesse, che viene riservata esclusivamente all'autorità giudiziaria. 2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che la disposizione si ponga in contrasto con tre parametri costituzionali. 2.1.- Anzitutto, l'art. 3 invaderebbe la materia «ordinamento civile», di cui all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., poiché detterebbe una disciplina concernente il trattamento dei dati personali, ambito che questa Corte avrebbe già ascritto alla citata competenza legislativa esclusiva dello Stato (viene richiamata in proposito la sentenza n. 271 del 2005). La disposizione impugnata opererebbe un generico richiamo alle disposizioni del regolamento generale sulla protezione dei dati e del d.lgs. n. 101 del 2018, anziché rinviare all'intero plesso normativo di riferimento, e oltretutto evocherebbe le citate fonti con riguardo alla sola fase di installazione del sistema di videosorveglianza. La disciplina regionale alluderebbe poi alla mera necessità del consenso degli ospiti (o dei tutori), senza indicare le modalità con cui il consenso deve essere prestato, né i caratteri che deve presentare; così come non sarebbero regolati i tempi di conservazione delle videoriprese. Inoltre, l'art. 3 trascurerebbe del tutto la posizione dei lavoratori e le garanzie loro assicurate dalla disciplina statale con l'art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), che regola le condizioni di ammissibilità dei controlli a distanza dei lavoratori sul luogo di lavoro. Ne deriverebbe una violazione anche del principio di proporzionalità, in quanto si farebbe ricorso a uno strumento di monitoraggio particolarmente invasivo senza che sia dimostrato che esso risulti sempre quello più adeguato. In generale, secondo il ricorrente, la Regione sarebbe intervenuta «in un ambito riservato al legislatore statale cui spett[erebbe] il bilanciamento [degli] interessi giuridici in gioco». Da ultimo, il ricorso rinviene ulteriori indici della competenza esclusiva statale sia nell'art. 5-septies, comma 2, del decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici), convertito, con modificazioni, nella legge 14 giugno 2019, n. 55, che prevede un fondo destinato a finanziare l'installazione dei sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso presso le strutture di residenza e cura degli anziani, sia nell'art. 4, comma 2, lettera r), della legge 23 marzo 2023, n. 33 (Deleghe al Governo in materia di politiche in favore delle persone anziane), che annovera la presenza di sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso fra i criteri di accreditamento e autorizzazione di tali strutture (la delega conferita al Governo dall'art. 4 appena citato è stata esercitata, in epoca successiva al ricorso statale, con l'art. 31 del decreto legislativo 15 marzo 2024, n. 29, recante «Disposizioni in materia di politiche in favore delle persone anziane, in attuazione della delega di cui agli articoli 3, 4 e 5 della legge 23 marzo 2023, n. 33»). 2.2.- Quanto alla materia «ordinamento penale», ad avviso dell'Avvocatura, la disposizione impugnata si limiterebbe ad attribuire all'autorità giudiziaria la competenza all'accesso alle videoriprese, senza individuare l'intero plesso normativo di riferimento, da rinvenirsi anche nel decreto legislativo 18 maggio 2018, n. 51, recante «Attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio». 2.3.- Infine, a fronte di una disciplina del trattamento dei dati personali prevalentemente regolata da fonti dell'Unione europea, il Presidente del Consiglio dei ministri lamenta la violazione anche dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al regolamento n. 679/2016/UE e alla direttiva 2016/680/UE. 3.- La Regione Puglia si è costituita in giudizio con atto depositato il 20 settembre 2023. 3.1.- In rito, solleva tre eccezioni. 3.1.1.- Con la prima, contesta che nella delibera del Consiglio dei ministri non vi sarebbe alcun riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. e alla violazione dei parametri sovranazionali. La difesa regionale fa pertanto valere, rispetto al citato parametro, la ritenuta eccedenza della censura contenuta nel ricorso rispetto alla volontà dell'organo politico (sono richiamate in proposito le sentenze n. 147 del 2022 e n. 109 del 2018 di questa Corte). 3.1.2.- Con la seconda eccezione di inammissibilità, concernente la questione sollevata in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., con riguardo alla materia «ordinamento civile», la Regione Puglia rileva il mancato riferimento a norme interposte e, ancor prima, una inadeguata individuazione della specifica materia rientrante nell'alveo della menzionata competenza. 3.1.3.- Infine, la difesa regionale adduce l'inconferenza di tutti parametri costituzionali evocati, osservando che una disciplina relativa l'installazione degli impianti di videosorveglianza afferirebbe alla materia «ordine pubblico e sicurezza» (art. 117, secondo comma, lettera h) o, in subordine, alla «tutela della salute», materia attribuita dal terzo comma dell'art. 117 Cost. alla competenza legislativa concorrente delle regioni. 3.2.- Nel merito, la Regione Puglia sostiene la non fondatezza delle questioni sollevate, sottolineando come la disposizione impugnata si inquadri nell'ambito di una legge regionale che nasce in conseguenza «di gravissimi episodi di maltrattamento e di abuso riportati dalle cronache che riferiscono di anziani e disabili che all'interno delle strutture sociosanitarie o assistenziali hanno subito inaccettabili violenze fisiche e psicologiche». In simile contesto, l'impugnato art. 3 introdurrebbe un obbligo di installazione di sistemi di videosorveglianza, allo scopo di prevenire i maltrattamenti e per individuarne gli autori. La previsione corrisponderebbe, al contempo, all'interesse degli operatori sociosanitari che svolgono il proprio lavoro con impegno e correttezza e la cui immagine e professionalità sarebbero lese dalle condotte di colleghi irresponsabili. La Regione Puglia aggiunge che, ai sensi dell'art. 4 della stessa legge regionale, l'installazione degli impianti di videosorveglianza entra a far parte dei requisiti delle strutture private per ottenere l'accreditamento presso il Servizio sanitario regionale, nonché per conseguire o mantenere l'autorizzazione all'esercizio delle attività. Questo, oltre a confermare l'ascrivibilità della disposizione impugnata alla materia «tutela della salute», dimostrerebbe la mancata interferenza con l'àmbito materiale del trattamento dei dati personali, anche perché non sarebbe stata introdotta «una nuova disciplina» in materia, essendo «richiama[ta] espressamente la normativa statale e comunitaria sul punto». Dopo aver evocato alcuni passaggi della sentenza di questa Corte n. 271 del 2005, dai quali, a suo avviso, si comprenderebbe come non sussista una incompetenza del legislatore regionale a disciplinare il trattamento dei dati personali, quando siano integralmente rispettate le norme statali sulla loro protezione, la difesa regionale passa in rassegna i vari profili oggetto di impugnazione, sottolineando per ciascuno di essi la ritenuta conformità alle norme contenute nel regolamento n. 679/2016/UE e nel decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, recante «Codice in materia di protezione dei dati personali, recante disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento nazionale al regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE». Quanto alla omessa menzione del d.lgs. n. 51 del 2018, la Regione sostiene che tale disciplina riguarderebbe il trattamento dei dati personali delle persone fisiche da parte delle autorità competenti, a fini penalistici, e si collocherebbe, pertanto, al di fuori del perimetro applicativo dell'art. 3 impugnato. Né la disposizione oggetto di scrutinio contrasterebbe con il d.l. n. 32 del 2019, come convertito, o con la legge di delega n. 33 del 2023, posto che, al contrario, tali normative mostrerebbero un «favore per l'adozione, da parte delle strutture ivi indicate, di sistemi di videosorveglianza per la medesima finalità di tutela, consacrata nell'art. 1 della legge regionale 13/2023 in disamina, ed in tale quadro normativo ben si incaston[erebbe] allora la norma inopinatamente impugnata, che riprende a livello regionale quanto già previsto a livello statale». Da ultimo, la difesa regionale rammenta che anche la Regione Lombardia avrebbe normato nel medesimo settore e negli stessi termini adottati dalla legislazione pugliese, senza, tuttavia, suscitare alcuna impugnativa da parte statale. 4.- Successivamente, in data 27 febbraio 2024, la Regione Puglia ha depositato una memoria integrativa, con la quale ha reiterato le eccezioni di rito e di merito già proposte in sede di costituzione. 5.- All'udienza del 20 marzo 2024, l'Avvocatura generale dello Stato e la difesa regionale hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi. Considerato in diritto 1.- Con ricorso iscritto al n. 25 reg. ric. 2023, depositato il 18 agosto 2023, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023, per violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. con riguardo alle materie «ordinamento civile» e «ordinamento penale», nonché per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al regolamento n. 679/2016/UE e alla direttiva 2016/680/UE. 1.1.- L'impugnato art. 3 regola la «[i]nstallazione dei sistemi di videosorveglianza e [la] tutela della privacy», con cinque commi che, oltre a prevedere il rispetto - nella sola fase dell'installazione - del d.lgs. n. 101 del 2018, del regolamento n. 679/2016/UE e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, dettano specifiche prescrizioni concernenti la raccolta e il trattamento dei dati personali. 2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che le norme si pongano in contrasto con tre parametri costituzionali. 2.1.- Anzitutto, l'art. 3 violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., invadendo la materia, di esclusiva competenza legislativa statale, «ordinamento civile», alla quale sarebbe ascrivibile il trattamento dei dati personali. La disciplina impugnata, da un lato, opererebbe un rinvio limitato solo ad alcune fonti previste dal legislatore statale e con riferimento alla mera fase di installazione del sistema di videosorveglianza, e, da un altro lato, introdurrebbe puntuali prescrizioni, il cui implicito effetto sarebbe quello di derogare alla complessiva regolamentazione della materia disposta dal legislatore statale competente. 2.2.- Di seguito, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, sarebbe altresì violata la materia «ordinamento penale», di cui al medesimo art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto l'art. 3, comma 5, della legge reg. Puglia n. 13 del 2023 attribuirebbe all'autorità giudiziaria il compito di accedere alle videoriprese, senza individuare l'intero plesso normativo di riferimento, da rinvenirsi anche nel d.lgs. n. 51 del 2018. 2.3.- Infine, il ricorso lamenta anche la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al regolamento n. 679/2016/UE e alla direttiva 2016/680/UE. 3.- La Regione Puglia si è costituita in giudizio, sollevando tre eccezioni di inammissibilità e chiedendo nel merito il rigetto del ricorso. 3.1.- Con la prima eccezione di rito, la Regione contesta l'eccedenza della censura contenuta nel ricorso rispetto alla volontà dell'organo politico, assumendo che nella delibera del Consiglio dei ministri non vi sarebbe alcun riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. e alla violazione dei parametri sovranazionali. 3.1.1.- L'eccezione non è fondata. Una piana lettura della delibera del Consiglio dei ministri palesa come l'organo politico ravvisi nell'art. 3 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023 una disciplina che si porrebbe «in contrasto con i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario in riferimento alle disposizioni del Regolamento (UE) n. 2016/679 (cfr. art. 117, comm[a] primo […], Cost.» (pagina 12 della delibera). È, dunque, evidente che l'organo politico ha manifestato la volontà di censurare la violazione dei «vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario», di cui all'art. 117, primo comma, Cost. 3.2.- La seconda eccezione di inammissibilità attiene all'asserita mancanza, nel ricorso statale, di riferimenti alle norme interposte e, ancor prima, l'omessa esatta individuazione della materia specifica rientrante nell'ordinamento civile. 3.2.1.- Anche questa eccezione va disattesa. A prescindere dall'improprio utilizzo della locuzione “norma interposta” per una competenza legislativa statale esclusiva, è comunque agevole osservare che il ricorso contiene il riferimento a numerose norme di livello primario che costituirebbero espressione di tale competenza nel settore del trattamento dei dati personali. Inoltre, attraverso il richiamo ai contenuti della sentenza di questa Corte n. 271 del 2005, il Presidente del Consiglio dei ministri ha adeguatamente specificato in che termini e per quali ragioni l'oggetto della disposizione regionale impugnata rientrerebbe nella materia «ordinamento civile». 3.3.- Infine, con una terza eccezione di rito, la Regione Puglia sostiene l'inesatta individuazione del parametro costituzionale violato, che non combacerebbe con quelli di cui il ricorrente lamenta la lesione, posto che l'ambito normato dall'art. 3 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023 sarebbe, viceversa, ascrivibile all'art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., con riguardo alla materia «ordine pubblico e sicurezza», o, in subordine, alla competenza legislativa regionale concorrente nella materia «tutela della salute», di cui all'art. 117, terzo comma, Cost. 3.3.1.- L'eccezione non è fondata. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'eventuale «inconferenza del parametro indicato dal ricorrente rispetto al contenuto sostanziale della doglianza costituisce motivo di non fondatezza della questione (sentenze n. 132 del 2021 e n. 286 del 2019)» (di recente sentenze n. 163 e n. 53 del 2023), sicché l'eccezione attiene al merito e non al rito. 4.- Nel merito, le questioni sollevate in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., con riguardo alla materia «ordinamento civile», e all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al regolamento n. 679/2016/UE, sono fondate. 5.- Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, la protezione delle persone con riguardo al trattamento dei dati personali afferisce alla materia «ordinamento civile», sia per quanto concerne le norme sostanziali, che disciplinano le modalità di raccolta e il trattamento dei dati personali, sia per quanto riguarda le «tutele giurisdizionali delle situazioni soggettive del settore» (sentenza n. 271 del 2005; in senso analogo, anche sentenza n. 177 del 2020). Tali profili attengono, infatti, al «riconoscimento di una serie di diritti alle persone fisiche e giuridiche relativamente ai propri dati, diritti di cui sono regolate analiticamente caratteristiche, limiti, modalità di esercizio, garanzie, forme di tutela in sede amministrativa e giurisdizionale» (ancora sentenza n. 271 del 2005). Al contempo, l'Unione europea, nell'esercizio della sua competenza in materia di protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale e di libera circolazione dei dati (art. 16 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea), ha ampiamente regolamentato la materia, lasciando limitati spazi alla normazione degli Stati membri. L'attuale disciplina della protezione dei dati personali si compone, pertanto, di una complessa trama di fonti, il cui fulcro è rappresentato dalla normativa eurounitaria di carattere generale affidata al regolamento n. 679/2016/UE, che trova completamento e integrazione nelle fonti nazionali, a partire dal d.lgs. n. 196 del 2003 (come modificato e integrato) e dal d.lgs. n. 101 del 2018, che ha coordinato le disposizioni nazionali vigenti in materia di protezione dei dati personali con il regolamento generale sulla protezione dei dati (sentenza n. 260 del 2021). Né mancano discipline di settore, quale la direttiva n. 680/2016/UE, cui il legislatore nazionale ha dato attuazione con il d.lgs. n. 51 del 2018. Dalle richiamate fonti si evince una regolamentazione della videosorveglianza che scandisce molteplici fasi: dalle condizioni che consentono l'installazione, agli strumenti e alle modalità di raccolta dei dati; dalla informativa preventiva, al consenso dei titolari dei dati che vengono raccolti; dal successivo trattamento dei dati, all'accesso ai supporti contenenti questi ultimi e alla loro utilizzazione. In particolare, la videosorveglianza presso le strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali investe due campi d'azione particolarmente delicati: da un lato, determina un monitoraggio che comprende la raccolta e il trattamento di dati sensibili relativi a persone anziane, malate o disabili, con inevitabili ricadute sulla riservatezza e sulla dignità di persone fragili; da un altro lato, implica un controllo sull'attività lavorativa del personale operante all'interno delle strutture (medici, infermieri, operatori socio-sanitari e socio-assistenziali, personale amministrativo, addetti alle pulizie e altri) e di eventuali lavoratori esterni, la cui attività si svolge, in tutto o in parte, presso le strutture medesime. Da ultimo, non può tacersi il rilievo che, nella disciplina della materia, rivestono i provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali (Sezione II, Capo VI, del regolamento n. 2016/679/UE), a partire dal provvedimento di carattere generale in materia di videosorveglianza, adottato l'8 aprile 2010, e dal provvedimento del 22 febbraio 2018, che contiene le indicazioni preliminari volte a favorire la corretta applicazione delle disposizioni del regolamento n. 679/2016/UE. 6.- A fronte della complessità e ampiezza dei profili implicati nel trattamento dei dati personali, che richiedono delicati bilanciamenti fra diritti spesso di rango inviolabile, l'intervento della Regione vìola i vincoli derivanti dall'UE e invade la competenza legislativa esclusiva spettante allo Stato, in quanto si sovrappone con proprie previsioni autonome e con un rinvio selettivo al delicato intreccio di fonti dettate dall'Unione europea e dallo Stato. 6.1.- Come si inferisce, infatti, sin dalla sua rubrica, l'art. 3 regola l'«[i]nstallazione dei sistemi di videosorveglianza e [la] tutela della privacy». La disciplina si articola in cinque commi che, oltre a prevedere - con riferimento alla sola fase dell'installazione - il rispetto del d.lgs. n. 101 del 2018, del regolamento n. 679/2016/UE, nonché della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (comma 3), stabiliscono le seguenti puntuali prescrizioni: «1. Le strutture private adibite all'attività di cui all'articolo 1 provvedono autonomamente all'installazione delle telecamere a circuito chiuso e ne danno comunicazione alle aziende sanitarie locali in caso di strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali. 2. I sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso di cui al comma 1 devono essere installati con modalità atte a garantire la sicurezza dei dati trattati e la loro protezione da accessi abusivi. Nelle strutture di cui all'articolo 1 è vietato l'utilizzo di webcam. 3. […] Per l'attivazione è necessario acquisire il consenso degli ospiti o dei loro tutori. 4. La presenza dei sistemi di videosorveglianza è inoltre adeguatamente segnalata a tutti i soggetti che accedono all'area video sorvegliata. 5. Le registrazioni sono effettuate in modalità criptata e possono essere visionate esclusivamente dall'autorità giudiziaria, a seguito di segnalazioni da parte dei soggetti interessati, familiari o degenti». 6.2.- Una tale disciplina non può essere ricondotta - come invece sostiene la difesa della Regione Puglia - all'esercizio della competenza legislativa regionale concorrente nella materia «tutela della salute». Simile affermazione si potrebbe comprendere, ove riferita all'art. 4 della medesima legge reg. Puglia n. 13 del 2023, che prevede l'installazione degli impianti di videosorveglianza quale requisito ai fini dell'accreditamento o dell'autorizzazione all'esercizio delle attività socio-sanitarie e socio-assistenziali, disposizione che trova corrispondenza anche in quanto disposto a livello statale sia dall'art. 31, comma 7, lettera d), del d.lgs. n. 29 del 2024, che ha attuato l'art. 4, comma 2, lettera r), della legge n. 33 del 2023, annoverando la previsione di sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso fra i criteri per l'accreditamento e l'autorizzazione di strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali per anziani, sia dall'art. 5-septies, comma 2, del d.l. n. 32 del 2019, come convertito, che istituisce un fondo destinato a finanziare l'installazione dei sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso presso le strutture di residenza e cura degli anziani Viceversa, la competenza legislativa concorrente nella materia «tutela della salute» non è in alcun modo pertinente rispetto all'art. 3. Infatti, tale competenza può consentire alla Regione di prevedere un onere concernente l'installazione di impianti di videosorveglianza, al più evocando - tramite un rinvio mobile - il doveroso rispetto di tutta la disciplina dettata dall'Unione europea e dallo Stato nel campo della videosorveglianza e del trattamento dei dati personali, ma certo non autorizza la Regione a operare una cernita delle fonti rilevanti e a dettare essa stessa le regole concernenti i citati ambiti. 6.2.1.- L'invasione della competenza legislativa statale si rileva già solo in presenza di una novazione delle fonti (di recente, sentenza n. 239 del 2022 e, nella materia «ordinamento civile», sentenze n. 153 del 2021 e n. 234 del 2017), che nel tempo sono suscettibili di modificazioni e integrazioni da parte dei legislatori competenti. 6.2.2.- Inoltre, e soprattutto, non spetta alla Regione operare una selezione di fonti e di regole - quale emerge nella disciplina in esame - che, all'interno dell'articolato plesso normativo contemplato sia dall'Unione europea sia dal legislatore statale, sono chiamate a disciplinare questa complessa e delicata materia. In tal modo, la Regione non solo si sovrappone alle normative eurounitaria e statale, travalicando le proprie competenze, ma oltretutto effettua una arbitraria scelta, il cui contenuto precettivo equivale a ritenere vincolanti le sole regole individuate dal legislatore regionale e non anche le altre. 6.2.2.1.- Non è innocuo, in tale prospettiva, che l'art. 3 abbia individuato, quali fonti da rispettare, il d.lgs. n. 101 del 2018, il regolamento n. 679/2016/UE e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, così escludendo il d.lgs. n. 196 del 2003 e le altre fonti, emanate dall'UE e attuate dal legislatore statale. In particolare, quanto al d.lgs. n. 196 del 2003, esso è tuttora vigente e le sue previsioni sono state solo in parte abrogate o modificate dal d.lgs. n. 101 del 2018, che ha operato opportuni raccordi con il regolamento n. 679/2016/UE (così la sentenza n. 260 del 2021). Fra le previsioni del citato codice della privacy è doveroso, in particolare, richiamare l'art. 114, secondo cui: «[r]esta fermo quanto disposto dall'articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300», il quale detta le condizioni che consentono l'installazione di impianti audiovisivi «dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori», vale a dire proprio la fattispecie regolata dal legislatore regionale. 6.2.2.2.- Quanto alla raccolta e al trattamento dei dati personali, la disposizione impugnata, da un lato, opera un richiamo al regolamento n. 679/2016/UE e al d.lgs. n. 101 del 2018 riferendosi alla sola fase dell'installazione della videosorveglianza e, da un altro lato, entra nel vivo della disciplina sul trattamento dei dati personali, prevedendo che sia acquisito il consenso degli ospiti o dei loro tutori (art. 3, comma 3, della legge reg. Puglia n. 13 del 2023) e che l'installazione sia genericamente effettuata con modalità che garantiscano la sicurezza dei dati e la loro protezione da accessi abusivi (art. 3, comma 2). Ma, di nuovo, la selezione di fonti e di regole applicabili non prende in considerazione l'imponente corpo normativo che, in ambito eurounitario e statale, oltre a richiedere di regola il consenso di tutti coloro i cui dati vengono trattati (artt. 6 e 7 del regolamento n. 679/2016/UE, nonché art. 9 dello stesso regolamento rispetto ai dati sensibili), disciplina dettagliatamente: l'informativa; le modalità di raccolta del consenso e le sue caratteristiche; le cautele richieste in ordine ai dati sensibili; il trattamento dei dati successivo alla raccolta, a partire dalla durata e dalle modalità di conservazione dei dati; la garanzia per i titolari dei dati raccolti di poter accedere agli stessi e di poterne bloccare la diffusione. Né può tacersi che, nella scansione delle varie fasi del trattamento dei dati personali, le fonti emanate dai legislatori competenti riconoscono ai loro titolari specifiche situazioni giuridiche soggettive (a essere informati, a manifestare o revocare il consenso alla raccolta e al trattamento dei dati, a opporsi alla loro divulgazione, a prendere visione dei dati raccolti), che si riflettono su altrettanti strumenti di tutela. 6.2.2.3.- Analogamente, anche i commi 1 e 4 dell'art. 3 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023 - che prevedono, rispettivamente, l'autonoma installazione delle telecamere da parte delle strutture private, con mera comunicazione alle aziende sanitarie locali, nonché una semplice segnalazione dei sistemi di videosorveglianza a tutti i soggetti che accedono all'area - disattendono il necessario rispetto di tutte le fonti eurounitarie e statali, comprese le dettagliate prescrizioni richieste dal già citato provvedimento generale del Garante per la protezione dei dati personali dell'8 aprile 2010. 6.3.- In sostanza - come questa Corte ha già avuto modo di puntualizzare (sentenza n. 271 del 2005) - il contrasto con i vincoli derivanti dall'UE e con la competenza legislativa statale esclusiva emerge tanto a fronte di rinvii parziali, quanto in presenza di una disciplina puntuale che individui solo una limitata porzione di regole, trascurando le altre che sono oggetto della fitta disciplina eurounitaria e statale. 7.- In conclusione, l'art. 3 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023 è costituzionalmente illegittimo per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al regolamento n. 679/2016/UE e alla direttiva 2016/680/UE, e con l'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., con riguardo alla materia «ordinamento civile». È assorbita ogni ulteriore censura. 8.- Resta fermo che l'accoglimento delle questioni sollevate sull'art. 3 non incide sull'onere di installare impianti di videosorveglianza, previsto dall'art. 4 della stessa legge reg. Puglia n. 13 del 2023, e che l'installazione debba essere effettuata nel pieno rispetto di tutte le previsioni dettate dall'Unione europea e dal legislatore statale, nel campo della videosorveglianza e del trattamento dei dati personali. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione Puglia 15 giugno 2023, n. 13, recante «Disposizioni per prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno di anziani e persone con disabilità e modifica alla legge regionale 9 agosto 2006, n. 26 (Interventi in materia sanitaria)». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Emanuela NAVARRETTA, Redattrice Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2024 Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • Corte d'Appello di Roma, Sentenza n. 1215/2024 del 26-03-2024 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI ROMA ### composta dai ### dr. ### - Presidente dr. ssa ### - ### dr. ### - ### relatore all'esito del deposito delle note di trattazione scritta ex art. 127 ter c.p.c., come modificato con D.Lgs. 149/2022, in sostituzione dell'udienza del 26.3.2024 nella causa civile di II grado iscritta al n. R.G. 445/2021, avente ad oggetto: appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro, n. ###/2020, vertente TRA ########## ###### E ### tutti rappresentati e difesi dagli Avv.ti ### e ### ed elettivamente domiciliat ###indirizzo telematico in atti; APPELLANTI E ### - ###, elettivamente domiciliata in #### delle ### presso lo studio dell'Avv. ### che la rappresenta e difende; APPELLATA ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 281 sexies, 352 ultimo comma nel testo vigente ratione temporis alla data odierna ha pronunciato la seguente SENTENZA CONCLUSIONI: come in atti. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO Con ricorso depositato innanzi al Tribunale di ### in funzione di giudice del lavoro, ############## e ### chiedevano la condanna della convenuta ### - ### al pagamento, a titolo risarcitorio, delle somme analiticamente indicate nelle conclusioni del ricorso. Sostenevano: - di essere tutti dipendenti della stessa azienda, a tempo indeterminato, applicati presso varie postazioni territoriali del circondario del territorio di ### (meglio specificate in ricorso) con vari inquadramenti contrattuali e mansioni di infermiere ovvero di autista di autoambulanze ovvero, ancora, di autista-barelliere; - di svolgere, dall'anno 2008, la propria prestazione su turni avvicendati di 12 ore (dalle7 alle 19 e dalle 19 alle 7); - che l'orario di servizio era continuativo, non essendo previste pause durante l'espletamento dello stesso; - che essi, quindi, nel decennio andante dal dicembre 2008 al dicembre 2018 (ed anche successivamente) avevano sempre lavorato senza fruire della sosta giornaliera di 10 minuti, dopo le sei ore di turno continuativo, prevista dal D.Lgs. 66/03; - che la mancata fruizione della pausa di cui sopra era da qualificarsi inadempimento contrattuale del datore di lavoro che, anche a causa del suo protrarsi per un tempo così lungo ed in maniera sistematica, aveva determinato, in capo ai ricorrenti, un danno da usura psico-fisica; - che, sulla base della media mensile di turni svolti da ciascuno dei ricorrenti (da 15 a 30) si poteva quantificare per almeno 20 volte ### al mese e, quindi, per 240 volte ### all'anno e, così, nell'arco di 10 anni, per 2400 volte ### per un totale, approssimativo, in minuti, di 24.000 minuti e, quindi, di 400 ore la sommatoria complessiva dei riposi non fruiti; -che, pertanto, utilizzando un criterio individuato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità per casi analoghi, si poteva impiegare, ai fini della quantificazione, il parametro della retribuzione spettante a ciascuno dei ricorrenti, in base alla propria qualifica; Si costituiva in giudizio, la ### - ### chiedendo l'integrale rigetto del ricorso, in quanto infondato sia in fatto che in diritto ed eccependo, in via preliminare, la prescrizione quinquennale dei crediti ex adverso vantati. Il Tribunale, ritenute infondate l'eccezione preliminare di prescrizione atteso che si trattava di pretesa risarcitoria e non retributiva, per la quale si applicava l'ordinario termine di prescrizione decennale e quella relativa alla qualificazione dei ricorrenti in termini di "lavoratori discontinui" ai quali si sarebbe dovuto applicare la deroga sul diritto alla pausa giornaliera di 10 minuti di cui all'art. 17, comma 2, lettera c), n. 3, D.Lgs. 66/03, rigettava la domanda dei ricorrenti "per mancanza di prova della sussistenza di una rilevante reiterazione del mancato riposo giornaliero di 10 minuti a turno e della conseguente sussistenza di un significativo e risarcibile danno da usura psico-fisica" neanche in termini presuntivi, anche perché dalle prove testimoniali era emerso che "pur avendo le varie categorie di dipendenti anche dei compiti ulteriori rispetto a quelli concernenti lo specifico servizio, quale ad es. il controllo degli automezzi da parte degli autisti o quello dei farmaci da parte degli infermieri) il personale poteva godere, sia pure non con regolarità, di momenti di pausa o di tempi, anche minimi, per consumare un pasto o anche solo un panino". Con ricorso depositato il 22,2.2021 avverso detta decisione del Tribunale hanno proposto appello, ############## e ### i quali censurano la medesima per: 1. violazione dell'art.112 c.p.c. per omessa pronunzia su uno specifico capo della domanda; violazione dell'art 8 del D.Lgs. n. 66/2003 per non aver rilevato la obbligatorietà della previsione della pausa di dieci minuti ogni sei ore di servizio nella predisposizione dei turni di servizio e per non aver riconosciuto il diritto alla pausa in favore dei ricorrenti (sostengono gli appellanti che "Non è possibile, del resto, ipotizzare che la effettiva fruizione della pausa sia lasciata alla "imprevedibile" evoluzione della giornata lavorativa del ricorrente che in ipotesi di giornata lavorativa con pluralità e continuità di interventi sia impossibilitato a fruire della pausa mentre in una giornata di ridotto numero di interventi di fatto fruisca della pausa normativamente prevista anche in misura maggiore rispetto a quella stabilita dal decreto legislativo n. 66/2003. In tal modo si verrebbe a affermare da un lato la non cogenza ed applicabilità della richiamata normativa e dall'altro la derogabilità della stessa a discrezione del datore di lavoro affidando, inoltre, la fruizione della pausa alla pura causalità oraria derivante dal numero e dalla durata degli interventi richiesti nel corso della giornata... ### la motivazione adottata dal Tribunale di ### a sostegno della decisione non è condivisibile nella parte in cui non considera che è da intendersi come tempo di lavoro anche quello in cui il lavoratore, pur senza svolgere concretamente attività riconducibile alla prestazione lavorativa sia comunque posto a disposizione del datore di lavoro e non possa allontanarsi dal posto di lavoro stesso"); 2. erronea valutazione in termini di rilevanza di "occasionali" e contingenti momenti di pausa nel corso dell'orario di lavoro non essendo gli stessi regolamentati e, in ogni caso, dovendosi considerare le eventuali cause fra un soccorso ed un altro tempo di lavoro non essendo consentito al dipendente astenersi dall'effettuazione dell'intervento di soccorso eventualmente richiesto, non potendosi lo stesso allontanare dalla postazione e, in ogni caso, dovendo il dipendente rimanere a disposizione (dicono gli appellanti: "Nel caso non vi è dubbio che i ricorrenti negli intervalli fra gli interventi siano da considerarsi a disposizione del datore di lavoro e ciò per le seguenti circostanze emerse dall'istruttoria: a) ### le pause fra gli interventi attendono ad altre occupazioni preparatorie all'intervento stesso (controllo del mezzo e ripristino liquidi ###, verifica farmaci e presidi e ripristino degli stessi ### e sanificazione ambulanza ###; b) Non possono allontanarsi dalla postazione senza autorizzazione; c) ### indossare e indossano continuativamente gli abiti di lavoro; d) ### immediatamente e quindi devono essere immediatamente disponibili in caso di chiamata. Nel caso in esame l'istruttoria evidenziato che i ricorrenti non sono assolutamente liberi di autodeterminarsi tanto che non possono allontanarsi dalla postazione nemmeno per acquistare o consumare il pasto e che, in ogni caso, devono essere immediatamente a disposizione in caso di chiamata per il soccorso"); 3. mancato riconoscimento del danno derivato ai ricorrenti in ragione della mancata fruizione del tempo pausa (deducono gi appellanti che "le modalità di espletamento del servizio, per come emerso dall'istruttoria, evidenziano un particolare gravosità della prestazione lavorativa che non tutela in alcun modo l'integrità psicofisica della lavoratore escludendo, nell'intero turno, la possibilità di fruire di momenti di pausa e, soprattutto, non consentendo nemmeno la consumazione del pasto in orario "dedicato" ... Nel caso in esame, infatti, esistono elementi presuntivi che possono essere ritenuti gravi precisi e concordanti al fine di far ritenere che i ricorrenti abbiano subito una lesione da stress in conseguenza delle modalità con cui resa la prestazione oraria non essendo prevista la pausa di 10 minuti ogni 6 ore di lavoro che, nel caso in esame, trattandosi di turni di 12 ore avrebbe dovuto essere, addirittura di 20 minuti ... ### alla normativa anche contrattuale in tema di orario di lavoro e di sosta in caso di turni orari superiori a 6 ore consecutive espone ### al risarcimento del danno con conseguente applicabilità dei principi ribaditi recentemente da Cassazione n. 18884/2019 che in ragione della identità del bene tutelato possono applicarsi al caso in esame. Nel caso in esame non vi è dubbio che vi sia un danno non patrimoniale in quanto la articolazione dell'orario lavorativo denunziata dal ricorrente incide certamente su valori costituzionalmente garantiti quali la tutela della salute garantita attraverso un orario di lavoro che tuteli il lavoratore dalla ripetitività dalla monotonia impedendo la programmazione di lavoro continuativo per un orario superiore a 6 ore consecutive. Addirittura nel caso in esame la impossibilità di consumare il pasto se non con tempistica imprevedibile, in determinate del tutto casuale non avendo previsto la resistente nonostante la presenza di 1 turno di lavoro pari a 12 ore alcuna sosta. Sono certamente lesi diritti costituzionalmente garantiti con conseguente diritto al risarcimento del danno"). Si è costituita l'### - ### opponendosi all'avverso gravame ### è fondato. I motivi d'appello possono essere congiuntamente esaminati in ragione della stretta connessione tra i medesimi. Invero, l'art. 8 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 emesso in attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, prevede che 1. Qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo. 2. Nelle ipotesi di cui al comma 1, in difetto di disciplina collettiva che preveda un intervallo a qualsivoglia titolo attribuito, al lavoratore deve essere concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l'inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a dieci minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo. 3. ### diverse disposizioni dei contratti collettivi, rimangono non retribuiti o computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata i periodi di cui all'articolo 5 regio decreto 10 settembre 1923, n. 1955, e successivi atti applicativi, e dell'articolo 4 del regio decreto 10 settembre 1923, n. 1956, e successive integrazioni. Alla luce della normativa sopra richiamata sussiste l'obbligo in capo al datore di lavoro di provvedere che i lavoratori appellanti beneficino di pausa, anche sul posto di lavoro, tra l'inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a dieci minuti. Tale obbligo non è negato nemmeno dalla parte appellata, la quale, piuttosto, afferma che gli appellanti non abbiano provato di non aver goduto della detta pausa di dieci minuti. Le dichiarazioni rese dai testi escussi nel corso del giudizio di primo grado lo avrebbero dimostrato, diversamente da quanto opinato dagli appellanti. È necessario, pertanto, richiamare le menzionate dichiarazioni testimoniali. Al riguardo, ### ha detto: "dipendente della ### con mansioni di infermiere fino al 30 novembre 2019 e dal 1 dicembre sempre come infermiere presso la centrale operativa, servizio infermieristico. E ero addetto alla postazione sita a ### Non ho cause in corso con la società e non ne ho mai avute. Adr: vero che presso la postazione di ### ci sono uno spogliatoio maschile ed uno femminile, un bagno ad uso promiscuo anche del personale del Comune che opera nello stesso stabile, una stanza chiamata sala radio perché c'è la radio di servizio ed il telefono dove giungono le chiamate, nella quale inizialmente vi erano due poltrone reclinabili fornite dallo stesso 118 che si sono guastate rapidamente e sono state spontaneamente sostituiti dai dipendenti con un divano oltre ad un tavolo con delle sedie; non vi è nulla che si possa definire sala ristoro o cucina, né fornelli né microonde o altre attrezzature idonee a mangiare. Adr: fino a poco tempo fa vi erano tre unità attrezzate ciascuna con tre addetti quindi in tutto nove persone; la sala radio di cui non so precisare la metratura non era però in grado di ospitare agevolmente tutto il personale. Adr: preciso che nella postazione vi è anche un frigorifero dove vengono conservati i medicinali e questo dovrebbe essere lo scopo per cui è stato fornito; mi è capitato di vedere all'interno del cibo come ad esempio un frutto nei periodi caldi in cui potrebbe andare a male stando all'esterno; vero che se tra una chiamata e l'altra vi era del tempo ciascuno poteva occuparlo come meglio credeva; adr: in quella postazione i tempi di attesa erano modesti perché le chiamate erano molte; adr: ad ogni turno montante e smontante è affidata la compilazione di una check list a comprova di una serie di controlli che devono essere fatti anche tra una chiamata e l'altra; ### il pasto è consumato secondo le possibilità; vi è chi si porta qualcosa da casa, altrimenti sempre senza abbandonare il mezzo, a turno ci si reca in un bar per consumare velocemente qualcosa; preciso che la permanenza al bar è lo stretto tempo necessario prevalentemente acquistare qualcosa da portar via. Adr: nei turni di 12 ore percepiamo un buono pasto, mi pare sia sufficiente superare le sette ore di lavoro". Il teste ### ha riferito: "sono dipendente di ### con mansioni di capo area. ### è a ### 3 che comprende le seguenti postazioni: ### V. delle Pispole, #### presso ###, ### e ### Non ho cause in corso contro l'azienda né le ho avute in precedenza. Adr: al capo 3 della memoria: una sala ristoro non è prevista in nessuna delle postazioni; quanto ad una stanza riposo posso dire che più o meno dappertutto vi è una stanza con dei divani. Ad esempio, nella postazione di ### dove io fisicamente mi trovo ci sono due divani di una piazza in mezzo l'uno che non riescono ad ospitare tutti i turnisti quando siamo tutti presenti. In via di massima siamo sei per turno più il sottoscritto non che due autisti inidonei che sono al servizio dell'area. Adr: nelle ore in cui sono di servizio, cioè sette ore, spesso non vedo il personale in servizio se non la mattina al cambio turno, dopodiché spesso non rientrano neppure perché i servizi si susseguono oppure perché trattenuti in ospedale, quindi non posso neppure rispondere sulla domanda se essi abbiano degli intervalli non lavorati in cui possano riposarsi o fare altro durante il turno di lavoro. Adr: per il pasto a quanto mi consta per lo più gli addetti se lo portano da casa, anche perché non potendosi allontanare dal mezzo in quanto devono essere sempre pronti alla chiamata non possono recarsi presso un supermercato o un bar. Adr: al capo 8 della memoria: la circostanza non corrisponde alla reale; al riguardo basta guardare il numero di interventi svolti". Così da verbale d'udienza: "###. ### riferisce che per tempi di attesa ha inteso riportarsi ai dati statistici diurni e notturni che rivelano che questi sono i tempi nei quali non intervengono per attività di soccorso. Il teste ribadisce che per quanto a sua conoscenza questi tempi non sono possibili e comunque nei tempi di attesa ciascuno operatore ha dei compiti da svolgere riguardanti il ripristino del mezzo e degli strumenti per gli interventi successivi. Adr: preciso che la mattina e la sera gli operatori devono compilare una check list contenente alcuni dati relativi sia al mezzo che al materiale in dotazione riportando i controlli eseguiti e provvedendo gli opportuni reintegri ove necessari. Adr: so che il personale di cui si parla percepisce nel turno delle 12 ore un buono pasto credo dopo sette o otto ore". ### come desumibile da quanto emerge dalla sentenza impugnata (pur depurata dai commenti del giudice) "il teste ### ha riferito che "normalmente non hanno una vera e propria pausa pranzo; in genere si portano un panino da casa e lo mangiano o in postazione o dove si trovano quando possibile" soggiungendo poi che "... quando sono in postazione tra un servizio all'altro hanno ben precisi obblighi di controllo del mezzo, dei farmaci e di quant'altro attinente all'unità di soccorso... può anche capitare che possano avere qualche minuto di pausa ma il tutto non è codificabile perché il numero di interventi è molto variabile, con maggiori probabilità di regola nei turni diurni". Ebbene, è noto che "Ai fini della misurazione dell'orario di lavoro, l'art. 1, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 66 del 2003 attribuisce un espresso ed alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro; ne consegue che è da considerarsi orario di lavoro l'arco temporale comunque trascorso dal lavoratore medesimo all'interno dell'azienda nell'espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli, ove il datore di lavoro non provi che egli sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha considerato orario di lavoro il tempo impiegato dai dipendenti di una acciaieria per raggiungere il posto di lavoro, dopo aver timbrato il cartellino marcatempo alla portineria dello stabilimento, e quello trascorso all'interno di quest'ultimo immediatamente dopo il turno)", così Cass. Sez. L - , Sentenza n. 13466 del 29/05/2017. Al riguardo, parte appellata sostiene che "la Cassazione (sez. lav. - 03/09/2018, n. 21562) ha statuito che laddove la legge ed il contratto non prevedano una pausa, all'interno dell'orario di lavoro, è onere del lavoratore allegare e dimostrare che il tempo della pausa è connesso o collegato alla prestazione, che sia etero diretto e non lasciato, per la sua durata, nella disponibilità autonoma del lavoratore". Invero, la sentenza della Corte di cassazione invocata da ### in parte motivazionale così statuisce: "per restare esente dall'obbligo retributivo il datore di lavoro deve provare che il lavoratore per lo svolgimento di tali attività connesse allo svolgimento della prestazione sia libero di autodeterminarsi ovvero non sia assoggettato al suo potere gerarchico (cfr. Cass. ult. cit.). 5.3. Nel caso in cui invece all'interno dell'orario di lavoro sia prevista una pausa nello svolgimento dell'attività lavorativa, in difetto di una previsione di legge (neretto del redattore) o di contratto che ricomprenda tale tempo da dedicare alla pausa nell'orario di lavoro (si pensi a titolo esemplificativo al D.Lgs. n. 81 del 2008 che all'art. 175 prescrive che per i lavoratori addetti a videoterminali una pausa obbligatoria di quindici minuti ogni centoventi minuti di applicazione continuativa "considerata a tutti gli effetti parte integrante dell'orario di lavoro") è onere del lavoratore allegare e dimostrare che il tempo della pausa è connesso o collegato alla prestazione, è etero diretto, e non è lasciato, per la sua durata, nella disponibilità autonoma del lavoratore". In buona sostanza, alla luce della giurisprudenza di legittimità e delle dichiarazioni testimoniali sopra richiamate parte datoriale appellata non ha affatto dimostrato che nei turni svolti dagli appellanti oltre le 6 ore abbiano goduto di dieci minuti di pausa all'infuori di ogni eterodirezione datoriale e che, comunque, anche per l'acquisto di un panino ovvero per altre incombenze non fossero sempre nella disponibilità all'espletamento del servizio e soggetti alle disposizioni datoriali. Peraltro, se è vero che "I limiti legali imposti dal D.Lgs. 8 aprile 2003 n. 66 in materia di orario massimo complessivo, pause di lavoro e lavoro notturno, non possono essere derogati con il consenso del singolo lavoratore interessato - e dunque per effetto della rinuncia ai relativi diritti, - ma solo ad opera della contrattazione collettiva, e nei limiti e con le modalità stabilite dalla legge, comportando il mancato esercizio di tale facoltà di deroga da parte delle parti sociali l'operatività diretta delle garanzie e dei limiti legali, con conseguente applicazione delle sanzioni stabilite in caso di violazione", così Cass. Sez. L, Sentenza n. 11574 del 23/05/2014, è del pari certo che "Il superamento del limite di turni di pronta disponibilità considerato normale - e indicato nel c.c.n.l. col sintagma "di regola" - costituisce inadempimento datoriale qualora, in concreto, si determini un'interferenza, rispetto alla vita privata del lavoratore, tale da comprometterne in maniera intollerabile il diritto al riposo, la cui lesione il datore di lavoro è tenuto a risarcire indipendentemente dalla causazione di un pregiudizio (danno-conseguenza) di natura psicofisica, trattandosi di un danno in re ipsa. (Nella specie la S.C. ha affermato la risarcibilità del danno patito dal lavoratore, autista di ambulanza, essendosi realizzato un condizionamento illecito della sua vita personale in conseguenza della richiesta di svolgimento di dieci turni mensili di pronta disponibilità eccedenti i sei già previsti dall'art. 7, comma 6, del c.c.n.l. comparto sanità del 20.9.2001)", così Cass. Sez. L - , Ordinanza n. 21934 del 21/07/2023. Certo, nel caso di specie, non risulta un superamento dei limiti di turni, ma il mancato rispetto della pausa di 10 minuti ogni 6 ore di turno per una durata pluriennale ha determinato, come a carico di ciascun appellante una situazione di stress e, pertanto, di danno identificabile, non solo in via presuntiva, nella permanente disponibilità delle proprie energie lavorative in favore del proprio datore, nonostante la chiara disposizione di legge, al riguardo, che ne imponeva l'osservanza. Nella determinazione del dovuto a titolo di danno non può non farsi riferimento ai conteggi allegati dagli appallanti, contestati da parte appellata solo in termini di genericità, indeterminatezza e incertezza, ma senza la prospettazione di idonei e puntuali conteggi contrari. Ne consegue che in accoglimento dello spiegato gravame e in integrale riforma della gravata sentenza, l'### appellata va condannata al pagamento degli importi indicati nel ricorso di primo grado da ciascun appellante pari a -### 5.864,00: ### -### 5.560,00: ### -### 5.500,00 : #### -### 5.024,00: ### --### 4.676,00: ### -### 4.516,00 cadauno per: ##### -### 4.580,00 cadauno per #### -### 3.932,00 cadauno per #### In considerazione della soccombenza le spese di entrambi i gradi del giudizio, liquidate come da dispositivo, devono essere poste a carico dell'azienda appellata. P.Q.M. M. in integrale riforma della sentenza appellata condanna l'### - ### al pagamento di -### 5.864,00 in favore di ### -### 5.560,00 in favore di ### -### 5.500,00 in favore di D'### e di ### -### 5.024,00 in favore di ### --### 4.676,00 in favore di ### -### 4.516,00 cadauno in favore di ### di ### e di ### -### 4.580,00 cadauno in favore di ### e di ### -### 3.932,00 cadauno in favore di ### e di ### oltre interessi legali a far data dalla notifica del ricorso introduttivo (3.6.2019) al saldo; - condanna l'### - ### al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio, che liquida per il primo grado in complessivi Euro 9.643,20 e in complessivi Euro 6.995,00 per il presente grado, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, IVA e ####

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,   ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge della Regione Sardegna 5 maggio 2023, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di assistenza primaria), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 28 giugno 2023, depositato in cancelleria il 3 luglio 2023, iscritto al n. 22 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell'anno 2023. Visto l'atto di costituzione della Regione autonoma della Sardegna; udito nell'udienza pubblica del 23 gennaio 2024 il Giudice relatore Giulio Prosperetti; uditi l'avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Sonia Sau per la Regione autonoma della Sardegna; deliberato nella camera di consiglio del 23 gennaio 2024. Ritenuto in fatto 1.- Con ricorso notificato il 28 giugno 2023 e depositato il successivo 3 luglio 2023 (reg. ric. n. 22 del 2023), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge della Regione Sardegna 5 maggio 2023, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di assistenza primaria) per lesione delle competenze statutarie di cui agli artt. 3, 4 e 5 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), della competenza statale esclusiva nella materia «ordinamento civile», di cui all'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, nonché del principio di uguaglianza posto dall'art. 3 Cost. 1.1.- La disposizione regionale impugnata stabilisce: «[è] autorizzato, nelle more dell'approvazione dell'accordo integrativo regionale di categoria, l'innalzamento del massimale fino al limite massimo di 1.800 scelte, su base volontaria, per i medici del ruolo unico dell'assistenza primaria che operano in aree disagiate individuate dalla Regione nelle quali tale innalzamento si rende necessario per garantire l'assistenza». 1.2.- Il ricorrente premette che la disciplina del massimale di assistiti per ciascun medico del ruolo unico dell'assistenza primaria su cui interviene la disposizione regionale impugnata è dettata dall'art. 38 dell'accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale ai sensi dell'art. 8 del d.lgs. n. 502 del 1992 e successive modificazioni ed integrazioni - Triennio 2016-2018, del 28 aprile 2022 (da ora: ACN), che, ai commi 1 e 2, stabilisce: «1. I medici del ruolo unico di assistenza primaria iscritti negli elenchi possono acquisire un numero massimo di scelte pari a 1.500 unità. Eventuali deroghe al massimale possono essere autorizzate in relazione a particolari situazioni locali, ai sensi dell'articolo 48, comma 3, punto 5, della Legge 833/78, per un tempo determinato, non superiore comunque a sei mesi. 2. In attuazione della programmazione regionale, l'AIR [Accordo integrativo regionale] può prevedere l'innalzamento del massimale di cui al comma 1 fino al limite massimo di 1.800 scelte esclusivamente per i medici che operano nell'ambito delle forme organizzative multiprofessionali del ruolo unico di assistenza primaria, con personale di segreteria e infermieri ed eventualmente altro personale sanitario, per assicurare la continuità dell'assistenza, come previsto dall'articolo 35, comma 5, e/o in aree disagiate individuate dalla Regione nelle quali tale innalzamento si rende necessario per garantire l'assistenza». 1.3.- Allo scopo di comprendere le censure promosse nei confronti della disposizione regionale impugnata, la difesa statale procede a una ricognizione della disciplina che regola il rapporto in convenzione tra il Servizio sanitario nazionale e i medici di medicina generale. In proposito, rappresenta che già l'art. 48 (Personale a rapporto convenzionale) della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale) ha stabilito, al primo comma, che «[l]'uniformità del trattamento economico e normativo del personale sanitario a rapporto convenzionale è garantita sull'intero territorio nazionale da convenzioni, aventi durata triennale, del tutto conformi agli accordi collettivi nazionali stipulati tra il Governo, le regioni e l'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative in campo nazionale di ciascuna categoria». La difesa statale evidenzia, altresì, che la delineata struttura di regolazione del rapporto convenzionale in oggetto è stata confermata dall'art. 8, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e dall'art. 2-nonies del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81 (Interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 26 maggio 2004, n. 138. Il ricorrente rileva che, alla stregua delle illustrate disposizioni statali, «la disciplina del rapporto di lavoro del personale medico di medicina generale in regime di convenzione, sebbene sia di natura professionale, risulta demandata all'intervento della negoziazione collettiva, il cui procedimento è stato modellato dal legislatore con espresso richiamo a quello previsto per la contrattazione collettiva dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (“Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) per il personale della pubblica amministrazione il cui rapporto è stato privatizzato. In materia di rapporto tra i diversi livelli di negoziazione collettiva (nazionale, regionale e aziendale) assume particolare rilievo il richiamo, ad opera dall'articolo 4 della legge n. 412 del 1991, all'articolo 40 (“Contratti collettivi nazionali e integrativi”) del d.lgs. n. 165 del 2001». L'art. 40 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce che la contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie, con i vincoli e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, e dispone, a garanzia del rispetto di tali stringenti vincoli, la nullità e l'inapplicabilità di clausole dei contratti collettivi integrativi difformi dalle previsioni del livello nazionale. L'Avvocatura generale dello Stato rappresenta che in attuazione delle ricordate disposizioni statali, i rapporti di lavoro dei medici di medicina generale sono stati quindi disciplinati dall'ACN che, a sua volta, individua gli specifici aspetti rimessi alla definizione della negoziazione regionale. 1.4.- Secondo il ricorrente, dal delineato quadro normativo emerge con chiarezza «come alle Regioni sia preclusa l'adozione di una normativa che incida su un rapporto di lavoro già sorto e, nel regolarne il trattamento giuridico ed economico, di sostituirsi alla contrattazione collettiva, fonte imprescindibile di disciplina (cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 20 del 2021; n. 157/2019; n. 153/2021)». In particolare, viene menzionato quanto affermato nella sentenza n. 157 del 2019 in ordine alla natura del rapporto in convenzione dei medici di medicina generale e alla riconducibilità della relativa disciplina all'ordinamento civile in base alle disposizioni statali richiamate e al rinvio da esse disposto come fonte regolatrice all'autonomia collettiva. Pertanto, la difesa statale sostiene che la disposizione impugnata costituisce esercizio di una competenza che esula da quelle riconosciute al legislatore regionale dalla legislazione statale di riferimento, in quanto «autorizza una deroga in aumento al numero massimo di assisiti, sostituendosi alle previsioni della contrattazione integrativa e, al contempo, discostandosi da quelle della contrattazione collettiva nazionale» di cui all'art. 38 ACN, in quanto il comma 2 riserva all'AIR la possibilità di innalzare a 1.800 assistiti il massimale fissato in 1.500 dal comma 1 del medesimo articolo. Risulterebbe evidente, quindi, che la norma regionale impugnata, nel disporre l'innalzamento del massimale in questione, avrebbe violato le norme della contrattazione collettiva nazionale sostituendosi alla contrattazione integrativa. 1.5.- In definitiva, ad avviso del ricorrente, la disposizione impugnata innanzitutto eccederebbe le competenze statutarie attribuite alla Regione autonoma dagli artt. 3, 4 e 5 dello statuto; sarebbe quindi lesiva dell'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto la determinazione del massimale di assistiti per ciascun medico di assistenza primaria, quale aspetto del relativo rapporto di lavoro riconducibile alla materia «ordinamento civile» è rimessa alla contrattazione collettiva dalle menzionate disposizioni statali evocate come parametri interposti; infine, comporterebbe la «violazione dell'esigenza connessa al precetto costituzionale di eguaglianza (articolo 3, Cost.), di garantire l'uniformità, sul territorio nazionale, delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti in questione». 2.- La Regione autonoma della Sardegna si è costituita in giudizio con atto depositato il 2 agosto 2023, chiedendo di dichiarare il ricorso inammissibile o, comunque, non fondato. A sostegno, la Regione resistente premette alcune considerazioni. Innanzitutto, evidenzia che «già per la sua conformazione territoriale, caratterizzata da pochi grandi centri urbani e molteplici paesi sparsi in un vasto territorio, lontani e mal collegati, situati anche su isole minori e in montagna, ha strutturalmente difficoltà a garantire l'assistenza primaria nelle aree disagiate». Rileva poi che il decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, nell'introdurre disposizioni per accedere alla pensione anticipata, ha «ridotto drammaticamente il numero di medici in servizio, aggravando ulteriormente la situazione, e il Covid ha ulteriormente reso poco attrattiva la scelta, da parte dei medici, della formazione in medicina generale e, comunque, di tale tipologia di incarico». In tale contesto, la difesa della resistente rappresenta che «[l]a Regione, pertanto, nelle more dell'adozione del nuovo AIR, i cui tavoli sono stati già avviati - nel quale verrà inserita la disciplina strutturale di cui al comma 2 dell'art. 38 dell'ACN - ha esercitato la facoltà concessa dal comma 1 del predetto articolo, ai sensi dell'art. 48 della L. 833 del 1978, e in conformità all'art. 32 della Costituzione», prevedendo, per tale periodo di tempo, che i medici che operano nelle aree disagiate possano chiedere di essere autorizzati a superare il massimale di 1.500. Secondo la difesa regionale sarebbe evidente l'autonomia dei due commi della predetta disposizione dell'ACN «dal momento che il primo consente alle regioni di far fronte a situazioni contingenti, per un periodo limitato, mediante l'innalzamento del massimale che venga ritenuto più confacente alla situazione. Nel caso de quo la Regione Sardegna, valutata la situazione delle zone carenti, ha discrezionalmente ritenuto di adottare il massimale di 1.800. Il secondo comma, invece, prevede che sulla base della programmazione regionale possa essere previsto nell'AIR, in via strutturale quindi senza limiti di tempo, il massimale di 1.800 assistiti per le sole “categorie” di medici ivi indicate». Sulla scorta della prospettata esegesi delle disposizioni contrattuali in oggetto, la difesa regionale assume che «[e]rra quindi la ricorrente laddove eccepisce l'illegittimità della disposizione regionale impugnata sulla base del combinato disposto di tali autonomi commi dell'art. 38 dell'ACN, posto che il secondo non è una specificazione del primo ma contiene un'autonoma disciplina». Ne conseguirebbe che il legislatore regionale non si sarebbe appropriato di una disciplina rimessa alla contrattazione collettiva, «dal momento che ha esercitato la facoltà di cui all'art. 38 dell'ACN, che consente alle regioni di prevedere una deroga temporanea ai massimali di assistiti con strumenti diversi dall'AIR, al quale è invece riservata la deroga, di entità prestabilita e senza limiti di tempo, di cui al comma 2». 2.1.- La resistente conclude, pertanto, per la declaratoria di inammissibilità e/o non fondatezza del ricorso, assumendo che «nella sostanza, è incentrato sulla violazione dell'art. 38, comma 2 dell'ACN, che disciplina le deroghe al massimale rimesse all'AIR, mentre nulla dice sul corretto utilizzo, da parte della Regione, della deroga temporanea di cui al comma 1». Considerato in diritto 1.- Con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 22 del 2023), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2023, per lesione delle competenze statutarie attribuite alla Regione autonoma dagli artt. 3, 4 e 5 dello statuto, della competenza legislativa statale esclusiva nella materia «ordinamento civile», di cui all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., nonché del principio di uguaglianza posto dall'art. 3 Cost. L'art. 1, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2023 stabilisce: «[è] autorizzato, nelle more dell'approvazione dell'accordo integrativo regionale di categoria, l'innalzamento del massimale fino al limite massimo di 1.800 scelte, su base volontaria, per i medici del ruolo unico dell'assistenza primaria che operano in aree disagiate individuate dalla Regione nelle quali tale innalzamento si rende necessario per garantire l'assistenza». Ad avviso del ricorrente la predetta disposizione incide su un aspetto, quale quello costituito dalla determinazione del massimale di assistiti di ciascun medico del ruolo unico dell'assistenza primaria, che fa parte della disciplina del trattamento economico e normativo del predetto personale sanitario, demandata dalla legislazione statale alla fonte negoziale collettiva. Nella fattispecie l'art. 38, commi 1 e 2, ACN dei medici di medicina generale del 28 aprile 2022 stabilisce, a livello nazionale, il massimale in 1.500 assistiti per ciascun medico e demanda alla fonte negoziale di secondo livello, ovvero agli AIR, la possibilità di incrementare tale massimale fino a 1.800 assistiti, ove ricorrano determinate condizioni. 1.1.- Nel richiamare la giurisprudenza costituzionale che ha ricondotto la disciplina del rapporto convenzionale in oggetto alla materia «ordinamento civile» (sono citate le sentenze n. 153 e n. 20 del 2021, e n. 157 del 2019), il ricorrente deduce la illegittimità costituzionale della disposizione impugnata sotto plurimi profili. Innanzitutto, sarebbero violate le competenze statutarie della Regione autonoma Sardegna di cui agli artt. 3, 4 e 5, poiché la disposizione impugnata interviene sulla disciplina del rapporto di lavoro dei medici del ruolo unico di assistenza primaria che esula dalle predette competenze. Sarebbe leso, quindi, l'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto la determinazione del massimale di assistiti per ciascun medico di assistenza primaria, quale aspetto del relativo rapporto di lavoro riconducibile alla materia «ordinamento civile» riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, è rimessa alla contrattazione collettiva dalle disposizioni statali evocate come parametri interposti (art. 48 della legge n. 833 del 1978; art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992; art. 40 del d.lgs. n. 165 del 2001; art. 2-nonies del d.l. n. 81 del 2004, come convertito; art. 38, commi 1 e 2, del menzionato ACN). Infine verrebbe altresì violato l'art. 3 Cost., poiché la disposizione impugnata determinerebbe una violazione del principio di uguaglianza che si realizza attraverso la garanzia dell'uniformità sul territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano il rapporto convenzionale dei medici del ruolo unico dell'assistenza primaria. 1.2.- La Regione autonoma Sardegna - premesse brevemente le ragioni dell'intervento normativo, individuate nella strutturale difficoltà che essa incontra nell'assicurare l'assistenza primaria a causa delle caratteristiche del territorio regionale e della riduzione del personale medico disponibile - nel merito prospetta una esegesi dei commi 1 e 2 dell'art. 38 ACN, che consentirebbe comunque alla Regione di intervenire in via legislativa nei termini di cui al censurato intervento regionale che risulterebbe, pertanto, legittimo. 2.- Le questioni non sono fondate. 3.- Il problema dell'individuazione della materia di competenza cui ricondurre la disposizione impugnata va esaminato e risolto alla luce dei più recenti approdi della giurisprudenza di questa Corte. La sentenza n. 124 del 2023 ha affermato che «per individuare la materia cui ricondurre la norma impugnata occorre tener conto della sua ratio, della finalità che persegue e del suo contenuto, tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, in modo da identificare precisamente l'interesse tutelato, secondo il cosiddetto criterio di prevalenza». In applicazione di tale criterio la predetta pronuncia, e già prima la sentenza n. 112 del 2023, hanno escluso che le disposizioni regionali, impugnate nei rispettivi giudizi in via principale, comportassero la dedotta violazione della competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile in quanto afferenti a profili del rapporto in convenzione dei medici di medicina generale, poiché hanno ritenuto che fossero invece dettate in via prioritaria da esigenze organizzative producenti «effetti secondari sull'andamento dei rapporti convenzionali». Nello specifico, con la sentenza n. 124 del 2023, relativa a un intervento normativo della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, che ha previsto un criterio preferenziale ai fini del trasferimento dei medici convenzionati ulteriore rispetto a quelli fissati dalla contrattazione collettiva, questa Corte ha affermato che «la disposizione regionale ha anzitutto una ratio organizzativa, in funzione di tutela della salute, che persegue cercando di assicurare la medicina di prossimità anche agli abitanti delle zone carenti». In termini analoghi si è espressa la citata sentenza n. 112 del 2023, concernente una disposizione della Regione Veneto che incideva su modalità di impiego di medici specializzandi presso le strutture ospedaliere di emergenza-urgenza. In tale decisione si è difatti affermato che «[i]n questo modo, il legislatore regionale appronta un rimedio organizzativo straordinario finalizzato a garantire la continuità assistenziale in un settore nevralgico, come quello della medicina di emergenza, altrimenti pregiudicato dalla carenza di personale sanitario», e che la disposizione impugnata «investe, quindi, un ambito strettamente inerente all'organizzazione sanitaria, la quale, come ripetutamente affermato […] costituisce componente fondamentale della tutela della salute (ex aliis, sentenze n. 113 e n. 9 del 2022, n. 192 del 2017)». 4.- Venendo alla fattispecie in esame, questa Corte rileva che il limite del massimale è un profilo fortemente condizionato da esigenze correlate alla organizzazione del servizio sanitario funzionale alla tutela della salute. Pertanto, a fronte di un accordo collettivo nazionale che consente all'AIR di derogare al massimale, incrementandolo sino a 1.800 assistiti, al fine di assicurare l'assistenza primaria a chi vive in aree disagiate, l'intervento regionale si limita a integrare nelle more dell'approvazione dell'AIR, dunque con un regime temporaneo, la disciplina convenzionale, nel rispetto della cornice di principio fissata dall'ACN. La negoziazione collettiva relativa alla disciplina del rapporto in convenzione dei medici dell'assistenza primaria deve, dunque, necessariamente confrontarsi con gli effetti che essa produce nei confronti del diritto dei cittadini alla tutela della salute, in attuazione dell'art. 32 Cost. In tale prospettiva, la disposizione impugnata persegue la prioritaria finalità di contribuire, attraverso l'incremento del massimale, ad assicurare l'assistenza sanitaria di base ai cittadini di aree disagiate della Regione autonoma Sardegna, così sopperendo, in attesa della definizione dell'AIR, alle maggiori criticità che si sono presentate a livello locale, attestate dai lavori preparatori dell'iniziativa legislativa ed enunciate nell'atto di costituzione in giudizio della stessa Regione. La circostanza che l'intervento normativo in esame disponga, nelle more dell'approvazione dell'AIR di categoria, l'innalzamento del massimale fino al limite di 1.800 - scelte che l'AIR stesso può prevedere ai sensi dell'art. 38, comma 2, ACN -, ne attesta il carattere contingente e temporaneo in funzione di raccordo con l'assetto che verrà definito in via strutturale dalla negoziazione collettiva di secondo livello. Ciò anche tenendo conto dei tempi necessari per la definizione dell'AIR, posto che l'art. 3, comma 4, ACN prevede che «[l]e Regioni e le organizzazioni sindacali firmatarie del presente Accordo si impegnano a definire gli Accordi Integrativi Regionali entro il termine di cui al successivo art. 8, comma 3» ovvero entro dodici mesi decorrenti dagli atti di programmazione di cui al comma 2 del medesimo art. 8, che a loro volta vanno definiti dalle regioni entro sei mesi dall'entrata in vigore dell'ACN. La fisiologica, consistente durata del predetto percorso negoziale - e, in ipotesi, il suo prolungarsi - potrebbero invero comportare il rischio di lasciare senza assistenza primaria la platea di cittadini di aree disagiate della Regione autonoma Sardegna per un considerevole lasso di tempo. Né, a tal fine, risulta adeguata la ricordata possibilità, prevista dall'art. 38, comma 1, secondo periodo, ACN, di operare un incremento del massimale definito a livello nazionale, a motivo sia del limitato ambito temporale (non superiore comunque a sei mesi) da esso consentito per la deroga, sia perché l'intervento normativo assume, come è evidente, una dimensione ben più ampia e generalizzata. 5.- In definitiva la ratio, la finalità e i contenuti della disposizione impugnata conducono a identificare l'interesse da essa tutelato in via prioritaria nell'esigenza di organizzare il servizio sanitario regionale in modo da non lasciare i cittadini sprovvisti di assistenza medica di base. Con l'intervento in esame, la Regione autonoma Sardegna appresta, difatti, una soluzione di tipo organizzativo che trova la sua radice nel diritto tutelato dall'art. 32 Cost., in attesa della definizione dell'AIR di cui, comunque, non pregiudica gli esiti, laddove gli effetti prodotti sull'andamento dei rapporti in convenzione dalla disposizione impugnata possono essere considerati circoscritti, tenuto anche conto che il possibile incremento del massimale per ciascun medico convenzionato avviene «su base volontaria». Si è, dunque, in presenza di un'esigenza analoga a quella già posta da questa Corte a fondamento delle ricordate sentenze n. 124 e n. 112 del 2023. Per tali ragioni, la disposizione impugnata, per la sua finalità e i suoi intrinseci contenuti, va considerata esercizio della competenza legislativa concorrente della Regione autonoma Sardegna nella materia «tutela della salute», in riferimento ai profili organizzativi dell'assistenza primaria. Non è pertanto fondata la censura relativa alla lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia «ordinamento civile». 6.- La riscontrata non fondatezza della predetta censura comporta anche quella delle ulteriori e correlate questioni riferite agli artt. 3 Cost. e 5 dello statuto. Invero la dedotta violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. non assume una propria autonoma funzione, rappresentando il mero riflesso della denuncia di lesione della competenza legislativa esclusiva statale (ex plurimis, sentenze n. 124 e n. 112 del 2023, e n. 6 del 2022), così come, parimenti, la censura riferita all'art. 5 dello statuto difetta di una motivazione indipendente da quella relativa alla violazione degli artt. 3 e 4 dello statuto stesso. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge della Regione Sardegna 5 maggio 2023, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di assistenza primaria), promosse, in riferimento agli artt. 3 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, nonché agli artt. 3, 4 e 5 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Giulio PROSPERETTI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2024 Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TORINO SEZIONE DEI GIUDICI PER LE INDAGINI PRELIMINARI Il Giudice per le Indagini Preliminari dott.ssa Angela Rizzo all'esito dell'udienza in camera di consiglio del 21.02.2024 ha pronunciato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo e delle motivazioni, la seguente SENTENZA ai sensi degli artt. 442 e ss. c.p.p. nei confronti di: Le.Gi., nato a V. in data (...), residente a N. in via T. nr. 10 Difeso di fiducia dall'avv. AT.Ro. del Foro di Torino - libero- assente IMPUTATO Per il reato di cui all'art. 609 bis c.p. perché costringeva Va.Ma. (che come lui era ricoverata nel reparto SPDC dell'ospedale di Moncalieri) a subire atti sessuali contro la sua volontà, ovvero dicendole "mi fai venire voglia di scopare", strusciandosi contro di lei, baciandola sulla bocca e leccandola dappertutto, toccandole il seno e le parti intime, smettendo solo quando la predetta lo spintonava e si allontanava per chiamare aiuto. In Moncalieri il 02/08/2022 In cui risulta persona offesa: Va.Ma., residente a P.T. in via V. nr. 2, di fatto domiciliata presso la S.C. sita a T.P. (T.), viale D. nr. 58 MOTIVAZIONI 1. A seguito di richiesta di rinvio a giudizio del 27.6.2023, in data 17.01.2024 veniva celebrata l'udienza preliminare. In detta occasione, il difensore, munito di procura speciale, chiedeva che l'imputato venisse giudicato nelle forme del rito abbreviato. Ammesso al rito, all'udienza di discussione del 21.02.2024 le parti concludevano come in epigrafe e il Giudice, all'esito della camera di consiglio, pubblicava la presente sentenza mediante lettura del dispositivo. 2. Il materiale probatorio legittimamente acquisito al giudizio (c.n.r. redatta dalla Stazione CC di Moncalieri in data 02.08.2022; verbale di ricezione di querela orale sporta da Va.Ma. in data 02.08.2022 presso la Stazione CC di Moncalieri; relazione di Consulenza Psichiatrica nella persona di Le.Gi. redatta dal Dr. Da.Be. del 09.03.2023; verbale di s.i.t. rese da Va.Ma. in data 13.04.2023; cartella clinica relativa al ricovero di Va.Ma. presso il reparto SPDC dell'Ospedale di Moncalieri riferibile al periodo oggetto di contestazione) fornisce chiara prova della materialità dei fatti addebitati al Le.. In particolare, le dichiarazioni rese dalla persona offesa del reato sia in sede di denuncia-querela (sporta in data 2.8.2022), che di sommarie informazioni testimoniali (in data 13.2023) sono inequivocabili e dimostrano come il Le. abbia posto in essere ai suoi danni la condotta di violenza sessuale di cui all'art. 609bis c.p., così come contestata in imputazione. Nel dettaglio, la donna riferiva quanto segue: "premetto che da venerdì 29 luglio sono ricoverata presso l'ospedale Santa Croce di Moncalieri, reparto psichiatrico, preciso che prima del ricovero la mia collocazione si chiama "Du." sito in T.P.. Oggi, verso le ore 12,00 circa, ero in attesa delle dimissioni e sono stata avvicinata da un soggetto anch'esso degente presso il precitato ospedale - un uomo di circa 50 anni- capelli castani , corporatura robusta , alto all'incirca 1,65. L'uomo iniziava a farmi in primis dei complimenti , dicendo che ero bella e che voleva sposarmi ed avere dei figli , quindi si avvicinava a me ed iniziava a toccarmi, prima palpandomi il seno e non contento infilando le mani toccandomi la vagina mediante la fessura del pantaloncino "quindi iniziava a baciarmi dappertutto, sulla bocca sul collo, il seno, senza però sfilarmi gli abiti, il tutto avveniva nel corridoio dell'ospedale. Inizialmente ero rimasta scioccata ed immobile, quindi capite le sue intenzioni l'ho spintonato allontanandolo da me e mi sono recata subito nello studio dei medici ed infermieri per avvisarli di quanto accaduto. a.d.r: - non è andato oltre i palpeggiamenti, si strusciava su di me rimanendo anch'esso vestito, continuava a ripetermi che voleva dei figli da me e che voleva sposarmi. Quando sono intervenuti i medici ha smesso di importunarmi .-sono anche i giunti i carabinieri che hanno identificato tutti i presenti" (cfr. verbale di denuncia-querela del 2.8.2022 Stazione CC Moncalieri). Ebbene, le dichiarazioni della persona offesa risultano pienamente attendibili in quanto coerenti e circostanziate, né emergono elementi che possano far presumere la natura calunniosa delle stesse (non vi era tra i due soggetti alcun rapporto di pregressa conoscenza). Inoltre, esse trovano riscontro nell'intervento delle forze dell'ordine, allertate su richiesta della vittima, che scioccata per quanto accaduto chiede subito aiuto agli infermieri e manifesta la volontà di denunciare il fatto. La stessa, sentita in maniera approfondita anche successivamente ai fatti, riporta in maniera puntuale i dettagli della violenza, fornendo una versione perfettamente combaciante con quella resa nell'immediatezza dei fatti. Infine, lo stesso imputato in sede di consulenza ammetteva i suoi agiti sessuali. Nessun dubbio, inoltre, sulla qualificazione giuridica dei fatti, correttamente inquadrati nella fattispecie consumata di cui all'art. 609bis c.p. E' pacifico infatti che la nozione di "atti sessuali" comprende tutti quegli atti che esprimono l'impulso sessuale dell'agente e che comportano una invasione della sfera sessuale del soggetto passivo, inclusi, pertanto, i toccamenti, i palpeggiamenti e gli sfregamenti sulle parti intime della vittima, tali da suscitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e per un tempo di breve durata (cfr. tra tutte Cass. Sez. 4, Sentenza n. 3447 del 03/10/2007). 2.2 Ciò posto, tuttavia, ritiene questo Giudice di poter accogliere la richiesta assolutoria concordemente formulata dalle parti, essendo l'imputato non imputabile per vizio totale di mente. La consulenza psichiatrica disposta dal Pubblico Ministero e accuratamente svolta dal dott. Da.Be. ha messo in chiara evidenza la situazione di compromissione delle facoltà psichiche dell'imputato all'epoca dei fatti. Secondo quanto accuratamente e diffusamente argomentato dal consulente la documentazione studiata, oltre che l'osservazione clinica, hanno messo in evidenza la presenza in Le.Gi. -all'epoca dei fatti e ad oggi-di un Disturbo Schizoaffettivo il quale rende ipotizzabile che, al momento dei fatti di causa l'imputato fosse -per infermità- in stato di mente tale da escludere, in modo assoluto, la capacità di intendere e volere ("Ad avviso dello scrivente è attendibile sostenere che, nel caso osservato, il diagnosticato scompenso psicopatologico in ambito di disturbo schizoaffettivo abbia alterato il rapporto tra l'individuo e la realtà non permettendo al soggetto di controllare appieno i propri impulsi e dare il giusto significato alle azioni da lui compiute generando una perdita, totale, dell'esame di realtà. L'agito lesivo presumibilmente posto in essere ai danni della persona offesa potrebbe essere spiegato, come detto, da uno stato di iper-eccitamento (esacerbato dalla presenza di uno stimolo sessuale) e da un quadro di disinibizione comportamentale con discontrollo degli impulsi, in ambito di scompenso psicopatologico meritevole di ospedalizzazione. Pertanto è possibile affermare che, in merito ai fatti di causa, Le.Gi. presentasse un funzionamento cognitivo e volitivo compromesso in misura totale." cfr. relazione del 9.3.2023 in atti). In definitiva, facendo proprie le argomentazioni del consulente, non vi è dubbio che Le.Gi., al momento dei fatti di causa, non fosse in grado di comprendere il significato del suo comportamento all'interno della realtà che lo circondava né, a maggior ragione, appariva capace di contenere i propri impulsi, di differire il soddisfacimento dei propri bisogni e di agire azioni filtrate da una analisi critica e consapevole. Concludeva il dott. B. invece positivamente sulla capacità di stare in giudizio dell'imputato. Pertanto, alla luce delle valutazioni espresse dal consulente, Le.Gi. deve essere assolto dal reato lui ascritto per difetto di imputabilità per vizio totale di mente. 3. Quanto alla pericolosità sociale dell'imputato, il consulente tecnico del p.m. ne ha affermato con fermezza la ricorrenza, seppur riconoscendola di grado attenuato ("A parere dello scrivente, Le.Gi. attualmente è da intendersi come persona socialmente pericolosa. La pericolosità sociale è di grado attenuato" - cfr. pagg. 23 e 30 relazione del 9.3.2022). Il soggetto risulta già preso in carico dal CSM e le cure intraprese - a detta del consulente- ne hanno permesso un miglioramento anche sotto il profilo della capacità di intendere e di volere. Inoltre, la valutazione positiva del progetto terapeutico già posto in essere dal CSM permette di reputarlo -a parere del c.t.- valido e adeguato presidio di contenimento della riscontrata pericolosità sociale, in abbinamento ad una congrua presa in carico anche da parte del S. territorialmente competente allo scopo di fronteggiare la reiterata tendenza del L. ad abusare di alcolici e sostanze psicotrope. Come evidenziato dal dott. B., manca, per completezza trattamentale, il fatto che lo stesso accetti di recarsi al S. e di fronteggiare le sue condotte di abuso: "una misura giuridica che lo vincolasse a questo potrebbe essere di sicuro aiuto" (cfr. pag. 25 relazione). Dunque, considerata l'estrema gravità dei fatti e la personalità del soggetto, si ritiene che il L., se non controllato e sottoposto a regolare cura, continui a commettere reati analoghi a quelli per cui si procede. Tuttavia, se non può essere ancora formulato un giudizio rassicurante di cessazione di pericolosità sociale, sembra del tutto inadeguata ed anzi potenzialmente dannosa per l'interessato la misura di sicurezza detentiva del ricovero ospedaliero presso R.E.M.S. Del resto, giova ricordare come l'automatica applicazione della misura di sicurezza detentiva del ricovero in R.E.M.S. in caso di proscioglimento per infermità di mente di soggetto socialmente pericoloso è stata prima oggetto di censure da parte della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 253 del 2-18 luglio 2003, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 222 c.p. proprio nella parte in cui non consentiva al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell'infermo di mente e far fronte alla sua pericolosità sociale e successivamente, dallo stesso legislatore, con la L. n. 81 del 30 maggio 2014 (di conversione del D.L. n. 52 del 31 marzo 2014) che ha di fatto ridotto l'ambito applicativo della più restrittiva misura di sicurezza alle ipotesi di estrema ratio. Appare, invece, senz'altro più idonea al caso di specie, anche alla luce del miglioramento delle condizioni attestato già in sede di consulenza e della prosecuzione del percorso intrapreso con il CSM di competenza - comprendente non solo una regolare presa in carico psichiatrica e farmacologica ma anche un supporto al domicilio- la misura non segregante della "libertà vigilata", con affidamento al CSM territorialmente competente, che attualmente lo ha in cura, con ulteriore presa in carico da parte del S. allo scopo di fronteggiare la reiterata tendenza ad abusare di alcolici e sostanze psicotrope. Per queste ragioni si dispone nei confronti di Le.Gi. la misura di sicurezza della libertà vigilata, accompagnata dalle anzidette prescrizioni, ai sensi del combinato disposto degli artt. 202 ss. e 228 c.p. per il tempo di anni uno, termine ritenuto allo stato congruo in ragione dell'attenuarsi della pericolosità sociale nel tempo. P.Q.M. visti gli artt. 442, 530 c.p.p. e 88 c.p. assolve Le.Gi. dal reato ascritto per difetto di imputabilità al momento dei fatti per vizio totale di mente visti gli artt. 205, 228 c.p. e 530 c.4 c.p.p. applica a Le.Gi. la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anni uno con le seguenti prescrizioni: - prendere immediati contatti o continuare quelli già esistenti con il Dipartimento di Salute Mentale territorialmente competente; - frequentare regolarmente la struttura sanitaria competente, ossia il Centro di Salute Mentale territorialmente competente in relazione alla residenza e/o domicilio dell'imputato e seguire il programma terapeutico dallo stesso imposto con presa in carico psichiatrica e farmacologica nonchè supporto al domicilio; - prendere immediati contatti o continuare quelli già esistenti con il S. territorialmente competente, al fine di fronteggiare le problematiche legate all'abuso di alcolici e sostanze psicotrope; - sottoporsi ai programmi prescritti e seguirli secondo le modalità indicate, anche in sinergia, dai due servizi (in modo da garantire un percorso terapeutico coerente e prevedere un affiancamento psicoeducazionale che possa lavorare con il paziente sulla coscienza di malattia e sulla consapevolezza del disvalore dei suoi comportamenti). Così deciso in Torino il 21 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8407 del 2023, proposto dal signor -OMISSIS-, quale tutore del signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro la ASL Salerno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Va. Ca., Lu. Fi. e Cl. Vu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sezione staccata di Salerno, Sezione Seconda, -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della ASL Salerno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 18 gennaio 2024, il Cons. Ezio Fedullo e uditi per le parti gli avvocati come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO 1. Il sig. -OMISSIS-, nella qualità di tutore del sig. -OMISSIS-, ha adito il T.A.R. per la Campania, Sezione staccata di Salerno (riassumendo il giudizio inizialmente introdotto dinanzi al G.O. a seguito della pronuncia con la quale quest'ultimo aveva declinato la giurisdizione) per dolersi della illegittimità del provvedimento prot. -OMISSIS- del 4 aprile 2022, con il quale l'ASL Salerno aveva negato il rinnovo, in favore del tutelato, dell'erogazione del trattamento riabilitativo ex art. 26 l. n. 833/1978 a carico del Sistema Sanitario Regionale con decorrenza dal 1° giugno 2022. Premetteva il ricorrente che il sig. -OMISSIS-, affetto da gravi patologie invalidanti e riconosciuto disabile grave a norma dell'art. 3 l. n. 104/1992, risiedeva -OMISSIS- presso la struttura -OMISSIS-, dove godeva del livello assistenziale medio, sulla scorta dei piani riabilitativi individuali (P.R.I.) via via redatti dalla struttura e autorizzati dalla ASL. Precisava il ricorrente che, sebbene il piano riabilitativo non potesse avere una durata superiore ai 240 giorni, come previsto dalla D.G.R.C. n. 92/2021, erano fatte salve le ipotesi eccezionali di cui alla D.G.R.C. n. 482/2004, concernenti i pazienti affetti da patologie a carattere involutivo, alcune patologie congenite su base genetica, con gravi danni cerebrali o disturbi psichici, nonché per i pluriminorati anche sensoriali, per i quali il trattamento poteva estendersi oltre il suddetto periodo e "senza limitazioni": situazione che era stata appunto riconosciuta a favore di -OMISSIS-, che aveva goduto dell'assistenza riabilitativa residenziale fino al 31 dicembre 2021. Deduceva altresì il ricorrente che, in sede di rivalutazione degli assistiti, il Distretto Sanitario di -OMISSIS- aveva autorizzato a favore del sig. -OMISSIS- un P.R.I. con validità dal 1° gennaio 2022 fino al 31 marzo 2022 e che un ulteriore P.R.I. era stato autorizzato dal 1° aprile 2022 fino al 30 maggio 2022, mentre per il periodo successivo l'Amministrazione aveva negato la rivalutazione in ambito U.V.R.I. (Unità Valutazione Bisogno Riabilitativo) e disposto l'avvio d'ufficio delle rivalutazioni in ambito U.V.I. (Unità Valutazione Integrata), ai fini dell'inserimento del predetto in una struttura socio-sanitaria. Paventando che dalla mancata prosecuzione del trattamento riabilitativo residenziale sarebbe derivato un peggioramento delle condizioni cliniche di -OMISSIS-, la parte ricorrente chiedeva quindi l'annullamento del provvedimento impugnato, lamentando l'ingiusta incisione che esso determinava a carico del diritto alla salute del malato, la finalizzazione dello stesso al mero abbattimento dei costi e la contraddittorietà del diniego rispetto alla diagnosi effettuata dalla stessa ASL ed alla necessità di prosecuzione del trattamento riabilitativo da questa stessa riconosciuta. 2. Il T.A.R. adito, con la sentenza -OMISSIS- del 15 marzo 2023, ha respinto il ricorso, ritenendo che "l'avversata decisione dell'ASL", costituente "il risultato di una valutazione integrata cui prendono parte figure multidisciplinari quali medici specialisti, infermieri, fisioterapisti, ecc., diretta a rilevare sotto ogni profilo le condizioni cliniche dell'assistito", non risultasse affetta da profili di manifesta irragionevolezza, avendo l'Amministrazione tenuto adeguatamente conto "della valutazione sanitaria, cognitiva e funzionale attestante le condizioni dell'assistito, così come risulta dalle schede allegate". Ha altresì rilevato il T.A.R. che "risulta condivisibile quanto sostenuto dall'amministrazione resistente circa l'oggettiva impossibilità della prosecuzione del trattamento in regime residenziale ex art. 26 l. 833/78 presso la struttura -OMISSIS- per le ragioni rappresentate nella memoria difensiva e legate all'assenza di accreditamento per le prestazioni del tipo di quelle richieste e, dunque, alla non remunerabilità delle stesse in mancanza della stipula dei relativi accordi". 3. La sentenza costituisce, relativamente al predetto passaggio motivazionale di segno integrativo, l'oggetto dell'appello proposto dall'originaria parte ricorrente. Essa premette che la Regione Campania, con delibera di G.R. -OMISSIS-, ha disposto la proroga del termine per lasciare la struttura, dove il sig. -OMISSIS- attualmente risiede, con il conseguente venir meno dell'interesse a contestare la sentenza suindicata nella parte in cui il T.A.R. ha ritenuto corretto il giudizio tecnico operato dalla P.A. ai fini del diniego della prosecuzione del rapporto: ciò sul presupposto che, all'esito del termine di proroga, si renderebbe comunque necessaria un'attività di rivalutazione aggiornata delle condizioni cliniche dell'assistito. Essa contesta invece l'assunto secondo cui non sarebbe comunque possibile proseguire il trattamento presso il centro di riabilitazione ove il ricorrente risiede -OMISSIS-, in quanto le prestazioni sanitarie da erogare da parte della struttura richiederebbero un diverso accreditamento (non in regime di riabilitazione, ma in regime socio-sanitario), deducendo, in senso contrario, che il punto 2.2 delle "Linee Guida per le attività di riabilitazione in Regione Campania" approvate dalla G.R. della Campania con la deliberazione n. 482/2004 ammettono la prosecuzione dei programmi riabilitativi individuali oltre il termine di 240 giorni, entro cui devono essere "di norma contenuti", e che l'art. 4 del contratto sottoscritto tra la struttura riabilitativa e l'A.S.L. dispone che "per le prestazioni residenziali e semiresidenziali che superano i 240 giorni di degenza per il medesimo paziente, sono applicate le tariffe sociosanitarie approvate con la DGRC 531/2021 fatti salvi i casi previsti dalle linee guida regionali approvate con D.G.R.C. n. 482 del 2004 laddove sia verificato che le esigenze riabilitative non possono essere sodisfate in RR.SS.AA....", con la conseguenza che, per i pazienti per i quali è necessario estendere la terapia riabilitativa oltre il termine di 240 giorni, si applica il contratto previsto per il trattamento in regime residenziale ex art. 26 l. n. 833/1978 e non, come ritenuto dalla P.A. prima e dal T.A.R. poi, quello previsto per le R.S.A.. Deduce ancora la parte appellante che un centro di riabilitazione, in quanto autorizzato per quest'attività, non può erogare prestazioni da R.S.A., con la conseguente erroneità della decisione del giudice di prime cure nella parte in cui ha ritenuto: - impossibile proseguire il trattamento in regime residenziale in virtù dell'asserita necessità di erogare al ricorrente prestazioni da R.S.A.; - le prestazioni non remunerabili poiché relative a quelle di R.S.A. ovvero diverse rispetto a quelle per le quali la struttura ove risiede l'appellante risulta accreditata (ex art. 26 l. n. 833/1978). 4. Si è costituita in giudizio, per resistere all'appello, l'Azienda Sanitaria Locale di Salerno. 5. Prima di esaminare le censure di parte appellante, occorre operare la precisa ricognizione del contenuto della statuizione impugnata della sentenza di primo grado e del relativo effetto lesivo per l'originario ricorrente, sia in sé che alla luce delle difese della ASL che il T.A.R. ha affermato di condividere. Come si è visto, mentre la prima parte (par. 6.2) della trama motivazionale della sentenza di primo grado è intesa ad escludere la proseguibilità del trattamento riabilitativo in regime residenziale a favore del ricorrente sulla scorta di considerazioni attinenti alla oggettiva non censurabilità della relativa decisione amministrativa, siccome non inficiata da evidenti profili di illogicità e/o travisamento di fatto, la seconda (par. 6.3), esclusivamente investita dall'odierna impugnativa, trae la conclusione reiettiva, a titolo integrativo, da valutazioni di carattere soggettivo relative alla affermata assenza, in capo al -OMISSIS-, dove quel trattamento viene attualmente erogato a favore dell'assistito, di "accreditamento per le prestazioni del tipo di quelle richieste e, dunque, alla non remunerabilità delle stesse in mancanza della stipula dei relativi accordi". Come accennato, tale profilo ostativo viene (dichiaratamente) ricavato dal T.A.R. dalle deduzioni difensive della ASL, formulate al punto A.3 della memoria del 2 settembre 2022, con la quale si evidenziava che -OMISSIS- non era "accreditato per l'erogazione di prestazioni di natura socio-sanitaria" e che, in base al DCA n. 6/2010, dovevano essere remunerate applicando le tariffe così come rimodulate nel medesimo decreto le prestazioni socio-sanitarie rese dai centri accreditati ex art. 26 l. n. 833/1978 se avessero presentato istanza di riconversione in RSA e/o Centro Diurno o, in mancanza, se assistessero utenti che avevano superato i 240 gg. di permanenza, entro i quali il trattamento riabilitativo, ai sensi della D.G.R. n. 482/2004, doveva essere contenuto. Deduceva altresì la difesa aziendale che -OMISSIS- de quo pretendeva di essere remunerato secondo le tariffe previste per la riabilitazione, sebbene potesse vantare solo la remunerazione prevista per le prestazioni socio-sanitarie, e che lo stesso contratto con lo stesso stipulato stabiliva, all'art. 2, che le prestazioni che superavano i 240 giorni di trattamento potevano essere remunerate con le tariffe socio-sanitarie, sempre che -OMISSIS- fosse accreditato per tale tipo di prestazioni. Concludeva quindi la ASL evidenziando che la permanenza nel setting riabilitativo del sig. -OMISSIS- presso -OMISSIS- accreditato ex art. 26 l. n. 833/1978 trovava il duplice ostacolo relativo alla non appropriatezza di tale tipologia di prestazioni ed alla non remunerabilità delle stesse al costo dei trattamenti socio-sanitari, non essendo -OMISSIS- in possesso dei requisiti minimi neppure transitori per la remunerazione di tali prestazioni. 6. Ciò premesso, va in primo luogo rilevato uno scarto tra la statuizione censurata e la memoria aziendale alla quale essa dichiaratamente si ispira: mentre infatti il T.A.R. ha individuato un ostacolo alla permanenza del trattamento riabilitativo a favore del sig. -OMISSIS- nel fatto che la struttura presso la quale il medesimo risiede ed aspira a permanere sarebbe priva di accreditamento per le prestazioni riabilitative (con la conseguenza della non remunerabilità di tali prestazioni), la ASL Salerno sosteneva, con la memoria citata, che -OMISSIS- sarebbe stato privo di accreditamento per le (diverse) prestazioni socio-sanitarie, le uniche ritenute appropriate in relazione alle condizioni cliniche dell'interessato. 7. La statuizione appellata, intesa conformemente al suo tenore testuale, non risulta attinta da specifiche censure della parte appellante: essa, peraltro, non risulta foriera di un concreto ed autonomo pregiudizio per il ricorrente, non avendo la ASL mai contestato che il centro suindicato fosse titolare di accreditamento ex art. 26 l. n. 833/1978 né opposto tale ipotetica carenza alla erogabilità a suo carico di prestazioni riabilitative a favore dell'assistito. 8. Ove, invece, si intendesse interpretare la statuizione appellata in modo da restituirle coerenza con la memoria difensiva aziendale da essa richiamata, ovvero nel senso della non erogabilità di prestazioni socio-sanitarie da parte del -OMISSIS-, occorre preliminarmente precisare che la parte appellante non risulta titolare di alcun effettivo interesse alla rimozione della stessa, anche per gli effetti che potrebbe riverberare pro futuro, mirando la sua iniziativa processuale alla affermazione della spettanza al sig. -OMISSIS- del diverso trattamento riabilitativo (e non di quello socio-sanitario). 9. Per quanto concerne invece il profilo remunerativo, va in primo luogo osservato che non emerge chiaramente l'interesse della parte appellante alla sua definizione (nel senso della applicazione delle tariffe riabilitative e non di quelle socio-sanitarie), attenendo direttamente ai rapporti tra struttura e S.S.R.. 10. Esso, inoltre, è privo di effettiva autonomia nell'ambito della struttura motivazionale della statuizione impugnata, in quanto la non applicabilità delle tariffe riabilitative è fatta discendere dal T.A.R. dal presupposto (erroneo) della carenza in capo alla struttura dell'accreditamento per le prestazioni riabilitative. 11. In ogni caso, la tesi della parte appellante, secondo cui le prestazioni (riabilitative) rese oltre il termine di 240 giorni dovrebbero essere comunque remunerate sulla base delle tariffe previste per i trattamenti ex art. 26 l. n. 833/1978, incentrata sulla clausola contrattuale che prevede tale profilo tariffario "laddove sia verificato che le esigenze riabilitative non possono essere soddisfatte in RR.SS.AA.", presuppone che sia riscontrato il ricorrere di tale eccezionale condizione derogatrice (legittimante l'estensione del trattamento riabilitativo oltre gli iniziali 240 giorni), la quale nella specie non può ritenersi (almeno processualmente) accertata, avendo il giudice di primo grado respinto espressamente le censure attoree intese a contestare il giudizio di non appropriatezza del trattamento riabilitativo residenziale formulato dall'Amministrazione ed avendo il ricorrente espressamente rinunciato ad impugnare siffatta statuizione. Peraltro, non può sottacersi che tale profilo non risulta innovato dalla D.G.R.C. -OMISSIS-, in forza della quale, secondo le affermazioni della parte appellante, il sig. -OMISSIS- starebbe tuttora beneficiando del trattamento riabilitativo estensivo presso -OMISSIS-, in quanto la proroga del trattamento riabilitativo da essa disposta scaturisce dalla mera "difficoltà di individuare nell'immediato strutture idonee per accogliere pazienti dimessi dalle strutture di riabilitazione ex art. 26 legge 833/78 dopo i 180 giorni previsti dalla normativa, anche in considerazione delle procedure di accreditamento in itinere" ed è finalizzata a "dare continuità assistenziale agli utenti già in carico presso strutture di riabilitazione estensiva che hanno completato l'adeguamento ai requisiti di cui alla DGRC 164 del 6/04/2022, come unità di cura estensiva RD1", consentendo ai "pazienti che hanno ultimato il percorso riabilitativo, previsto in max 180 giorni", di "permanere nella medesima struttura oltre tale il termine e fino ad un massimo di un anno, nel caso in cui l'ASL territorialmente competente non trovi soluzioni alternative per la collocazione in un setting più appropriato". 12. Né può omettersi di osservare che, come si evince dai riportati passaggi della D.G.R. -OMISSIS-, la delibera n. 482/2004 (laddove, in particolare, prevede che il trattamento riabilitativo duri al massimo 240 giorni, salvo il ricorrere della richiamata condizione derogatrice) risulta superata dalla citata D.G.R. n. 164 del 6 aprile 2022, il cui Allegato 2, concernente "Tipologia degli interventi di riabilitazione extraospedaliera, criteri di eleggibilità e di accesso", prevede: "2. Riabilitazione estensiva residenziale. Gli interventi di riabilitazione estensiva, in regime residenziale, sono rivolti a persone non autosufficienti con disabilità complesse, con potenzialità di recupero funzionale, che richiedono un intervento riabilitativo pari ad almeno 90 minuti giornalieri di trattamento specifico e un medio impegno assistenziale riferibile alla presenza di personale socio-sanitario sulle 24 ore. Tali attività sono erogabili nell'Unità di cura residenziale di riabilitazione estensiva (RD1 estensiva). La durata dei trattamenti non supera, di norma, i 60 giorni, a meno che la rivalutazione multidimensionale non rilevi il persistere del bisogno riabilitativo estensivo, vale a dire il persistere di potenziale di recupero e la necessità di implementare il progetto riabilitativo per la realizzazione di programmi riabilitativi strutturati per precisi obiettivi funzionali in un ambiente favorente il recupero per 24 ore. In ogni caso la durata massima dei trattamenti in riabilitazione estensiva non deve essere superiore a 180 giorni. Il permanere in tale setting oltre i 180 giorni costituisce inappropriatezza clinica per cui si procederà alle dimissioni o alla collocazione del paziente in altro setting assistenziale più appropriato". 13. Infine, va evidenziato che il profilo tariffario delle prestazioni riabilitative rese in forza della D.G.R. -OMISSIS- esula dal presente giudizio e non può quindi costituire oggetto di statuizioni del Collegio giudicante. 14. L'appello in conclusione, in conseguenza della non ravvisabilità di un concreto ed attuale interesse in capo alla parte appellante alla sua proposizione, deve essere dichiarato inammissibile, mentre l'originalità dell'oggetto della controversia giustifica la compensazione delle spese del giudizio di appello. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, lo dichiara inammissibile. Spese del giudizio di appello compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all'articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati: Raffaele Greco - Presidente Nicola D'Angelo - Consigliere Ezio Fedullo - Consigliere, Estensore Antonio Massimo Marra - Consigliere Angelo Roberto Cerroni - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. COSTANZO Angelo - Relatore Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Da.Ma., nato a I il (Omissis) Ca.Bo., nato a I il (Omissis) Fe.Fe., nato a V il (Omissis) avverso l'ordinanza emessa il 7/07/23 dal Tribunale della libertà di Torino; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Angelo Costanzo; sentito il Sostituto Procuratore generale Silvia Salvadori, che richiama la memoria depositata e conclude per l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza limitatamente al capo A e con rinvio limitatamente al capo B; udito l'avvocato En. Gr., difensore di fiducia dei ricorrenti, che si riporta ai motivi di ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con provvedimento del 9 maggio 2023 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ivrea ha disposto il sequestro preventivo ex cirt. 321 cod. proc. pen. della Fondazione Casa di Riposo (...) ritenendo che operasse come Residenza Sanitaria Assistenziale senza averne i titoli autorizzativi, priva di un direttore sanitario e con la somministrazione di farmaci da parte di personale non abilitato. Su queste basi, ravvisando gravi indizi di reità in relazione ai reati ex art. 193 r.d. n. 1265 del 27 luglio 1934, per essere stata mantenuta in esercizio una struttura non autorizzata né autorizzabile (capo a), ex art. 328 cod. pen., per l'omessa nomina di un direttore sanitario della struttura (capo B), e ex art. 348 cod. pen., per essere stata consentita la somministrazione di medicinali anche a personale non infermieristico, non dotato delle necessarie abilitazioni (capo C). Con ordinanza del 13 luglio 2023, decidendo sulla richiesta di riesame di Da.Ma., Ca.Bo. e Fe.Fe., il Tribunale di Torino ha annullato il provvedimento di sequestro preventivo limitatamente al capo B ma lo ha confermato relativamente ai capi A e C. 2. Nei ricorsi congiunti presentati dal difensore di Da.Ma., quale presidente e legale rappresentante della Fondazione Casa di Riposo (...), e da Ca.Bo. e Fe.Fe., quali persone sottoposte a indagini nel procedimento penale n. 4447/2022 RGNR e 1489/2023 Reg. G.i.p. pendente presso il Tribunale di Ivrea si chiede l'annullamento dell'ordinanza. 2.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce erronea applicazione della legge relativamente al capo A, assumendo che il Tribunale ha ravvisato l'illecito esercizio di una residenza sanitaria in assenza della necessaria autorizzazione (capo A) sulla base di una erronea interpretazione della normativa della Regione Piemonte relativa alla autorizzazione prevista per la struttura sequestrata. Si osserva che, a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, l'autorizzazione non soltanto è stata richiesta ma anche è stata rilasciata e più volte prorogata dalla Regione Piemonte: infatti, la Casa di Riposo (...) era e tuttora è abilitata a proseguire la sua attività in regime di "mantenimento autorizzativo" fino alla conclusione di un percorso di "classificazione entro il termine del 31/12/2013, prorogato con successive delibere della Giunta della Regione Piemonte e non ancora scaduto, sulla base del Delibera della Giunta Regionale del 14/09/2009, n. 25-12129, lettera 23/B, potendo nel frattempo operare senza obbligo di conformarsi alle tipologie previste perché l'inserimento in una di queste avverrà soltanto alla fine del percorso di adeguamento. Si aggiunge che la Casa di Riposo (...) non è una Residenza Sanitaria Assistenziale, ma opera sulla base della stessa Delibera della Giunta Regionale che costituiva e continua (per le sue successive proroghe) a costituire un (provvisorio) valido titolo autorizzativo e ha conseguito tutti i "requisiti compensativi" che consentono alle piccole strutture montane di ospitare un limitato numero massimo di ospiti. Si rimarca che infondatamente il Tribunale assume che il regime di "mantenimento autorizzativo" sia subordinato alla presenza nella strutture di meno di 5 ospiti non autosufficienti e che l'unico parametro di riferimento per valutare la compatibilità fra il numero di anziani non autosufficienti e i servizi erogati è il livello di assistenza da calcolare secondo l'algoritmo indicato nella normativa e che nella fattispecie risulta pienamente rispettato. Si conclude che su queste basi il reato descritto nel capo A delle imputazioni provvisorie non doveva essere contestato. 2.2. Con il secondo motivo ricorso si deduce erronea applicazione della legge perché il Tribunale ha ritenuto che la mera somministrazione di un qualunque farmaco, già preparato e dosato dagli infermieri, da parte di un soggetto non abilitato possa integrare il reato ex art. 348 cod. pen. (capo C). Si rileva che nel caso in esame neanche vi è prova che tale attività sia stata svolto in modo non occasionale ma continuativo. Si aggiunge che la normativa regionale espressamente autorizza gli operatori sociosanitari a somministrare materialmente farmaci sotto la supervisione degli infermieri, perché è consentito, tranne che nei pochi presidi di grandi dimensioni, che gli infermieri non siano presenti per l'intero arco delle 24 ore e analoga previsione sta nell'art. 1, comma 3, lettere f), d.m. 14 settembre 1994, n. 739,, sicché il reato descritto nel capo C delle imputazioni provvisorie non doveva essere contestato. 2.3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce che erroneamente è stato ravvisato il coinvolgimento nella presente vicenda di Da.Ma., legale rappresentante legale della Fondazione Casa di Riposo (...), e come tale terzo estraneo interessato alla restituzione. Si evidenzia che la Fondazione è la proprietaria dell'immobile sequestrato, ma né essa né il suo legale rappresentante sono coinvolti nei fatti oggetto del procedimento penale e che l'ordinanza impugnata risulta del tutto priva di motivazione su questo profilo. Si rappresenta che la posizione di Da.Ma. è quella di un terzo non indagato e in buona fede, legittimato ex art. 322 cod. proc. pen. a proporre riesame perché titolare di un interesse concreto e attuale alla restituzione del bene. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Relativamente al primo motivo di ricorso deve rilevarsi che la documentazione che lo correda mostra che la Casa di riposo in esame, già rientrante nel regime di "mantenimento autorizzativo" previsto dalla Delibera Giunta Regionale 25-12129 del 2009 per i presidi non ancora classificati, ma operanti al momento dell'adozione del DGR n. 38-16335 del 1992, ha fruito delle proroghe previste per tale regime, stabilite dai successivi provvedimenti della Giunta Regionale. Anche nella comunicazione inoltrata dall'Azienda sanitaria locale il 7 dicembre 2022 ai Nucleo antisofisticazioni e sanità dei Carabinieri NAS si ribadisce che la struttura opera ancora in regime transitorio in attesa di operare secondo la classificazione definitiva sulla base del titolo autorizzativo prorogato in vista dell'adeguamento. 2. Relativamente al secondo motivo di ricorso, si osserva che l'art. 1, comma 3, lettere f), d.m. 14 settembre 1994, n. 739 (Regolamento concernente l'individuazione della figura e dei relativo profilo professionale dell'infermiere) prevede che l'infermiere "per l'espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell'opera del personale di supporto" e che nella Regione Piemonte il punto 4.8. la deliberazione della Giunta Regionale 21 gennaio 2022 n. 22-46557 disciplina specificamente lo "Aiuto all'assunzione della terapia da parte dell'OSS su indicazione dell'infermiere". Vale ribadire che non integra il reato di esercizio abusivo della professione, il compimento di atti strumentalmente connessi agli atti tipici della professione, in assenza dei caratteri della continuità e della professionalità, quando la qualità del farmaco e le modalità di somministrazione non necessita di particolari abilità infermieristiche, come nel caso della somministrazione di farmaci e la pratica di iniezioni sottocutanee in una casa di riposo, perché tali operazioni non richiedono specifiche nozioni o particolari abilità o conoscenze specifiche (Sez. 6, n. 26829 del 05/07/2006, Russo, Rv. 234420). Nel caso in esame, nella stessa ordinanza si dà atto che al momento del sopralluogo del 30/1172021) da parte dei carabinieri l'infermiere operante nella struttura era impegnato nella somministrazione dei farmaci a alcuni ospiti e aveva predisposto le terapie da somministrare nel pomeriggio a alcuni anziani da parte degli operatori sociosanitari dalle 16 alle 20 (orario non rientrante nella fascia di presenza degli infermieri). Né l'ordinanza impugnata adduce elementi per almeno ipotizzare che i farmaci che gli operatori sociosanitari dovevano somministrare fossero di competenza specifica della abilitazione infermieristica o che le modalità della loro somministrazione fosse tale da creare l'apparenza di una attività professionale di tipo infermieristico. 3. Da quanto precede deriva che entrambi i motivi di ricorso sono fondati, sicché che l'ordinanza impugnata va annullata senza rinvio. P.Q.M. Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata e dispone la restituzione della struttura in sequestro, Fondazione Casa di Riposo (...), al legittimo proprietario. Manda alla cancelleria per le comunicazioni di cui all'art. 626 cod. proc. pen. Così deciso il 28 novembre 2023. Depositato in Cancelleria il 6 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE PENALE Composta da Dott. VERGA Giovanna - Presidente - Dott. DE SANTIS Anna Maria – relatore - Dott. PARDO Ignazio – Consigliere - Dott. FLORIT Francesco – Consigliere - Dott. CERSOSIMO Emanuele – Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA Sul ricorso proposto da Tr.An. n. a S G R (Omissis) avverso la sentenza della Corte di Appello di Brescia in data 20/12/2022 visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso ; udita la relazione svolta dalla Consigliera Anna Maria De Santis; udita la requisitoria del Sost. Proc.Gen. Pasquale Serrao d'Aquino, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; udito il difensore, Avv. Em. Oc., che ha illustrato i motivi chiedendone l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'impugnata sentenza la Corte di Appello di Brescia confermava la decisione del Gup del locale Tribunale che, in data 28/11/2018, aveva riconosciuto l'imputato colpevole del delitto di circonvenzione d'incapace aggravato, condannandolo alla pena di anni due, mesi otto di reclusione ed euro 800,00 di multa e al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite. 2. Ha proposto ricorso per Cassazione il difensore del Tr.An., Avv. Em. Oc., il quale ha dedotto: 2.1 la violazione dell'art. 643 cod. pen.; la carenza, la manifesta illogicità della motivazione e il travisamento della prova. La nullità della sentenza impugnata ex art. 522 cod. proc. pen. per mancata correlazione con l'imputazione in cui non viene contestato l'art. 81 cod. pen. Il difensore sostiene che il primo giudice ha ridimensionato la condotta ascritta in via diretta all'imputato, limitandola alla ricezione di tre assegni bancari emessi in suo favore dalla p.o. nei mesi di agosto e settembre 2016, ovvero in un periodo in cui non risulta provato lo stato di decadimento psichico della vittima, la quale nello stesso periodo aveva stipulato un atto notarile e sporto presso i Carabinieri due distinte denunzie senza che alcuno si avvedesse di una condizione di menomazione sicché deve ritenersi che la stessa, ove esistente, non fosse all'epoca riconoscibile. Secondo il ricorrente la Corte di merito ha rigettato le censure difensive sul punto con motivazione illogica senza tener conto della natura istantanea del reato contestato e della necessità di correlare la valutazione circa la capacità psichica dell'offeso alla consumazione del reato. Aggiunge che la sentenza impugnata ha, altresì, ritenuto di applicare l'istituto della continuazione tra i vari episodi delittuosi nonostante il difetto di contestazione dell'art. 81 cod. pen. con conseguente violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. Ad avviso del difensore la Corte territoriale ha reso una motivazione manifestamente illogica anche laddove ha escluso che la dazione dei tre assegni nei mesi di agosto-settembre 2016 trovasse giustificazione nell'attività di giardiniere prestata dall'imputato in favore della vittima e nel saldo di fatture alla stessa intestate, nonostante la produzione difensiva al riguardo; 2.2 la violazione dell'art. 110 cod. pen. e il vizio di motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per i fatti reato contestati in concorso con Fe.Pa. e De.An nonché il travisamento della prova e l'omessa motivazione in relazione alla responsabilità concursuale. Il difensore sostiene che la Corte territoriale non ha fornito congrua risposta alle doglianze in ordine al concorso del prevenuto nella condotta induttiva sfociata in atti dispositivi a favore del Fe.Pa. e della De.An. Infatti, la sentenza impugnata non ha precisato quali siano state le condotte positive di approfittamento della vulnerabilità della vittima ed ha giustificato l'affermata responsabilità concorsuale sulla base di ragionamenti congetturali e sul travisamento delle prove, affermando, ad esempio, che il ricorrente avrebbe scortato l'offeso in banca, pur avendo il primo giudice escluso la circostanza, trascurando, inoltre, che non risultano elementi attestanti la conoscenza da parte dell'imputato della De.An.; che il Tr.An. era sicuramente estraneo alla consegna dei titoli ai predetti; che non risulta acquisita la prova di una retrocessione in suo favore di parte delle somme in questione. l. II primo motivo è inammissibile in quanto prospetta censure in parte riproduttive di doglianze congruamente scrutinate dai giudici d'appello e disattese con motivazione priva di aporie e illogicità manifeste, in parte non devolute in sede di gravame. 1.1 Per quel che concerne la sussistenza del decadimento psichico della vittima al momento dell'emissione dei tre assegni incriminati nell'agosto-settembre 2016 deve rilevarsi che i giudici territoriali hanno disatteso i rilievi difensivi ( pag. 7) evidenziando che la diagnosi clinica dei geriatra Dott. Rozzini del 4/3/2017, attestante una importante "compromissione cognitiva" in un soggetto "disattento, disorientato e confabulante", si salda sotto il profilo ricostruttivo alle concordi dichiarazioni della moglie della p.o., Ge.Ad., e della figlia Da.Pa., le quali hanno collocato il palesarsi della situazione di disagio psicocomportamentale del congiunto in occasione del sinistro stradale verificatosi nell'estate del 2016, in esito al quale lo stesso era stato ricoverato in ospedale e successivamente aveva trascorso una lunga convalescenza a casa, privo della capacità di gestire autonomamente le proprie primarie esigenze di vita. In detto contesto il Da.Pa. era stato assistito dal Tr.An., che si era fatto affiancare dapprima dal Fe.Pa. e successivamente anche da badanti ed infermieri scelti da entrambi, prendendo progressivamente il controllo dell'abitazione e degli affari della anziana coppia. La sentenza impugnata ha, inoltre, dato conto delle ragioni che impediscono di ritenere altri atti compiuti nel lasso temporale in esame dalla p.o. e reputati dal ricorrente esemplificativi della piena capacità del Da.Pa., utili a riscontrare la tesi difensiva, illustrando le circostanze che rendono sospette le denunzie di furto di una pluralità di armi e dell'autovettura VW Tiguan di proprietà della vittima, come pure il rogito avente ad oggetto l'assegnazione alla stessa, quale socio unico della Da. s.r.l., di ben nove immobili in assenza di qualsiasi plausibile giustificazione economica (pag. 8). CONSIDERATO IN DIRITTO A fronte della trama giustificativa della sentenza impugnata appaiono, dunque, privi di fondamento i rilievi in ordine ad una illegittima retrodatazione della condizione di minorazione della p.o. 1.2 Preclusa dalla mancata devoluzione in appello e, comunque, manifestamente infondata risulta la censura in punto di asserita applicazione della continuazione interna ex art. 81 cod. pen. in difetto di contestazione da parte della pubblica accusa. La condotta per cui è intervenuta condanna, in conformità all'imputazione, è stata reputata unitaria dai giudici di merito che hanno stimato i plurimi atti dispositivi, frutto di approfittamento della condizione di vulnerabilità della vittima a beneficio dell'odierno ricorrente, del Fe.Pa. e della compagna, quale portato di un'attività induttiva realizzata concorsualmente. Questa Corte ha condivisibilmente chiarito in tema di circonvenzione di persone incapaci che, nell'ipotesi in cui ad un unico atto di induzione conseguano plurime condotte appropriative, il momento di consumazione del delitto va individuato nell'ultima apprensione in ordine cronologico, diversamente, nell'ipotesi in cui la pluralità di condotte appropriative derivi da plurimi atti di induzione, ciascuno dei quali con un obiettivo di approfittamento, ancorché originati dalla stessa circonvenibilità della vittima, il reato deve ritenersi reiterato e consumato al momento del conseguimento di ciascun singolo profitto (Sez. 2, n. 31425 del 14/09/2020, Rv. 280030-01). Nella specie la sentenza impugnata non si è discostata dal richiamato principio e non è stata operata alcuna illegittima applicazione dell'istituto della continuazione, avuto riguardo al computo della pena esplicitato dal primo giudice a pag. 32 della sentenza. 1.3 Quanto all'asserita assenza di profitto, il difensore reitera censure che la Corte territoriale ha adeguatamente scrutinato e motivatamente disatteso con argomenti che non palesano criticità giustificative. I giudici d'appello, infatti, hanno rimarcato, oltre la mancata corrispondenza tra le voci di credito allegate dal ricorrente e l'importo degli assegni rilasciati dal Da.Pa., che i titoli in contestazione risultano emessi nei mesi di agosto e settembre 2016 mentre le fatture del Tr.An. per la pretesa attività di giardiniere risalgono all'aprile 2017, ovvero a distanza di oltre sette mesi dalla formazione e dall'incasso degli assegni controversi. 2. Destituite di fondamento risultano, infine, le censure che assumono il difetto di prova circa il concorso del ricorrente in relazione agli atti dispositivi in favore del coimputato e della moglie. La Corte distrettuale ha confutato il gravame difensivo alle pagg 9 e 10, richiamando un contesto ambientale in cui i due imputati agivano sinergicamente, accentrando sulle loro persone la gestione della casa e degli affari della vittima, isolando i due anziani coniugi e creando negli stessi una dipendenza patologica, alimentata dalle compromesse condizioni psichiche del disponente, circostanze idonee a riscontrare l'ipotesi d'accusa di una congiunta e condivisa attività induttiva. Questa Corte, con riferimento alla prova dell'induzione, ha precisato che essa non deve necessariamente essere desunta da episodi specifici di suggestione e pressione morale, ben potendo il convincimento sul punto essere fondato su elementi indiretti e indiziari o su prove logiche, tratte dal complessivo contesto dei rapporti tra le parti e dagli accadimenti più strettamente connessi al compimento dell'atto pregiudizievole (Sez. 2, n. 44869 del 08/10/2004, Rv. 230285 - 01). 3. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria precisata in dispositivo, non ravvisandosi ragioni d'esonero. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, 21 Novembre 2023. Depositata in cancelleria il 21 gennaio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3516 del 2019, proposto dalla signora -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato Ma. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...), contro il Ministero della Salute, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...), nei confronti per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Salute; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 23 novembre 2023, il Cons. Antonio Massimo Marra e sentiti i difensori delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sede di Roma, con sentenza n. -OMISSIS- ha respinto il ricorso proposto dalla signora -OMISSIS-, cittadina serba ed odierna appellante, per l'annullamento del provvedimento prot. n. -OMISSIS-, a mezzo del quale il Ministero della Salute, in data 23 ottobre 2017, aveva rigettato l'istanza dell'interessata volta ad ottenere il riconoscimento del titolo professionale di infermiera tecnica, conseguito in Serbia. 2. La signora -OMISSIS-ha appellato l'indicata sentenza, ritenendola erronea sotto distinti profili. 2.1. L'appellante ha ricordato di essersi diplomata alla Scuola di Me. "Du. dr. Vo." di Po. (Repubblica di Serbia) nel 1991, conseguendo il predetto titolo di infermiere-tecnico; di avere ottenuto l'abilitazione, dopo aver superato l'esame di Stato, mediante la frequenza di n. 6367 ore d'insegnamento; di avere, pertanto, esercitato la professione di infermiera per 11 anni, 2 mesi e 23 giorni, per un totale di 23.449 ore di attività . 2.2. Ha soggiunto l'interessata di essersi trasferita in Italia richiedendo al Ministero della Salute, con la vista istanza, il riconoscimento del titolo professionale di infermiera tecnica, rilasciatole dall'Autorità serba. 2.3. Il Ministero della Salute, con il gravato preavviso negativo ha, tuttavia, respinto la richiesta, facendo richiamo all'art. 38, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 206/2007, che prevede ai fini del riconoscimento del titolo de quo una scolarizzazione di almeno dieci anni; laddove, la signora la -OMISSIS-ne avrebbe comprovati soltanto otto. 2.4. A detta comunicazione l'interessata ha replicato, sostanzialmente, di avere maturato una scolarizzazione di oltre dodici anni, utile dunque al riconoscimento dell'invocato titolo. 2.5. Il Ministero della Salute si è costituito in giudizio. 3. Nella udienza del 23 novembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. 4. Prima di passare all'esame dei motivi dell'appello, si deve ricordare che i cittadini stranieri in possesso di un titolo professionale conseguito in un paese non appartenente all'Unione Europea possono presentare, al fine di esercitare la corrispondente professione in Italia, una domanda di riconoscimento del titolo, ai sensi degli articoli 49 e 50 del D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286). 4.1. A mente dell'art. 2, comma 2 del d.lgs. n. 206/2007 poi per i cittadini in possesso di titoli conseguiti in uno Stato non membro della Comunità Europea le disposizioni del detto decreto non si applicano e continuano ad applicarsi quelle previgenti, dal momento che come è dato rilevare dalla risposta negativa impugnata la domanda è stata esaminata secondo la procedura prevista dal menzionato d.P.R. n. 394 del 31 agosto 1999, previgente appunto al d.lgs. n. 206 del 2007. 4.2. Questo, all'art. 48 prescrive le modalità del riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all'estero e la detta norma fa riferimento all'art. 387 del d.lgs. n. 297 del 1994, recante il Testo Unico sull'istruzione e che a sua volta fa riferimento ad una apposita norma da adottarsi in conformità con la normativa comunitaria, ai fini del riconoscimento dei titoli di studio e professionali, nonché delle qualifiche di mestiere acquisite dai cittadini extracomunitari nei paesi di origine, istituendosi altresì gli eventuali corsi di adeguamento e di integrazione da svolgersi presso istituti scolastici italiani. 4.3. E detta "normativa comunitaria" è sopraggiunta con la Direttiva CE 2005/36, in attuazione della quale è stato appunto adottato il d.lgs. n. 206/2007 al quale dunque occorre far riferimento in attuazione delle disposizioni sull'istruzione sopra citate, anche perché all'art. 60 esso recava esplicitamente l'abrogazione del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 115, e del d.lgs. 2 maggio 1992, n. 319, che regolavano il riconoscimento dei titoli conseguiti in Paesi extracomunitari in virtù dell'art. 49, comma 2, del d.P.R. n. 394/1999, di cui parte ricorrente invoca pure l'applicazione. 4.4. A completamento del quadro normativo l'appellante insiste sul rilievo che, a mente dell'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 206/2007 alla sua posizione si sarebbe dovuto applicare l'art. 38, comma 1, lett. b), perché riferito ai requisiti per la formazione dell'infermiere professionale e non per il riconoscimento del titolo. 4.5. Tanto premesso va rilevato che tali disposizioni trovano la propria giustificazione, in un ordinamento caratterizzato dal principio della libertà economica, ma nel quale l'esercizio di determinate professioni è subordinato all'acquisizione di specifici titoli e all'iscrizione in appositi albi, nell'interesse pubblico volto a garantire un livello di qualità adeguato nell'esercizio di determinate attività . Ciò vale, in particolare, per l'esercizio delle attività sanitarie che è reso possibile solo a chi è in possesso di adeguato titolo professionale, al fine di evitare possibili danni a diritti fondamentali, come quello della salute. 4.6. Spetta, dunque, al competente Ministero della Salute il compito di verificare l'attitudine del titolo conseguito dallo straniero all'estero all'esercizio dell'attività sanitaria. Tale compito comporta una prudente valutazione, di natura tecnico-discrezionale, sull'idoneità del titolo conseguito all'estero a fornire un grado di preparazione culturale e tecnica adeguato e almeno corrispondente alla preparazione richiesta dall'ordinamento nazionale ed a quello comunitario per l'esercizio della professione sanitaria. 4.7. Così ricostruito il quadro normativo non è possibile, perciò, prescindere da quanto stabilito dall'art. 38, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 206/2007, stante il quale è necessario "il completamento di una formazione scolastica generale di almeno dieci anni sancita da un diploma, attestato o altro titolo rilasciato da autorità od organi competenti di uno Stato membro, o da un certificato attestante il superamento di un esame di livello equivalente che dia accesso alle scuole professionali o ai programmi di formazione professionale per infermieri". 4.8. Sulla base di tali elementi, come si rileva dagli atti, il Ministero della Salute, vista la domanda presentata dalla signora -OMISSIS-, ha ritenuto di non poter riconoscere il titolo professionale di infermiera tecnica, conseguito in Serbia essendo carente il requisito della "scolarizzazione" richiesto dall'articolo 39, comma 1, lettera b). 5. L'appello non risulta fondato. 5.1. Osserva, anzitutto, il Collegio che la formazione scolastica generale di dieci anni non è, invero, dimostrata dalla ricorrente, né detto requisito è possibile integrarlo nella valutazione del prosieguo della carriera formativa effettuata signora -OMISSIS-nel campo infermieristico. 5.2. Si tratta infatti, contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, di un requisito che la normativa richiamata ricollega espressamente al percorso scolastico dell'interessato e non già alla sua formazione professionale. 5.3. Né a conclusioni diverse ed opposte può poi pervenirsi, valorizzando il rilievo che nella specie non si è fatto luogo neanche alla conferenza di servizi prevista dal visto decreto n. 206, intesa a valutare la specifica posizione del richiedente, dovendosi in proposito rilevare che, nella specie, sono carenti in radice gli stessi presupposti per ottenere l'invocato riconoscimento del titolo abilitativo di infermiere tecnico. 5.4. Nemmeno si può condividere la tesi dell'appellante quando afferma la disparità di trattamento con altri connazionali, poiché l'istruttoria eseguita dall'Amministrazione appellata su ordine della Sezione ha escluso la sussistenza delle disparità di trattamento ipotizzate dalla ricorrente, essendo emerso che le posizioni, a suo dire, difformemente valutate avevano riguardato domande di riconoscimento proposte anteriormente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 206/2007 e, quindi, vagliate ai sensi della disciplina previgente. 5.5. Deve essere, infine, respinta - per violazione del divieto di nova di cui all'articolo 104, comma 1, c.p.a. - la censura circa l'allegata violazione dell'articolo 32 del medesimo d.lgs. n. 206/2007 (in tema di "diritti acquisiti"), posto che la relativa doglianza non era contenuta nel ricorso di primo grado, essendo stata introdotta dalla istante con semplice memoria e, quindi, correttamente non esaminata dal primo giudice. 6. In conclusione l'appello deve essere respinto. 7. Le spese del presente grado del giudizio, attesa la complessità delle questioni di fatto e dei principi di diritto, sin qui esposti, che hanno richiesto a questo Collegio una integrazione motivazionale della sentenza impugnata, possono essere interamente compensate tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, lo respinge e per l'effetto conferma, anche ai sensi di cui in motivazione, la sentenza impugnata. Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 novembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Raffaele Greco - Presidente Paolo Carpentieri - Consigliere Giovanni Pescatore - Consigliere Antonio Massimo Marra - Consigliere, Estensore Luca Di Raimondo - Consigliere

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