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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PETRUZZELLIS Anna - Presidente Dott. MESSINI D'AGOSTINI Piero - Rel. Consigliere Dott. BORSELLINO Maria Daniela - Consigliere Dott. PARDO Ignazio - Consigliere Dott. CERSOSIMO Emanuele - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: 1. Am.Ma. nato a F il (Omissis) 2. Be.Ni. nato a C il (Omissis) 3. Ca.Ma. nato a L il (Omissis) 4. Ca.Al. nato a S il (Omissis) 5. Fo.Sa. nato a V il (Omissis) 6. Gi.An. nato a S il (Omissis) 7. Li.Ma. nata a R il (Omissis) 8. Ma.Fr. nato a P il (Omissis) 9. Ol.Ro. nato a R il (Omissis) 10. Pe.Sa. nato a C il (Omissis) 11. Pe.Al. nato a C il (Omissis) 12. Po.An. nato a L il (Omissis) 13. Ri.Fi. nato a M il (Omissis) 14. Sa.Do. nato a C il (Omissis) 15. Bi.Lo. nato a L il (Omissis) avverso la sentenza del 25/10/2022 della CORTE DI APPELLO DI ANCONA visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere Piero Messini D'Agostini; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro Gaeta, che ha concluso per l'annullamento con rinvio con rideterminazione del trattamento sanzionatorio e inammissibilità nel resto del ricorso di Pe.Al., per il rigetto del ricorso di Ri.Fi. e per la inammissibilità dei residui ricorsi; uditi i difensori avv. Di.Me. per Ca.Al., avv. Da.To. e avv. Pi.Po. per Am.Ma., avv. Fr.Ta. per Pe.Sa. e - in sostituzione dell'avv. Gi.Gi. - per Pe.Al., avv. Ma.Gi. per Ol.Ro. e - in sostituzione dell'avv. Ga.Co. - per Pe.Sa., avv. Ma.Me. per Ri.Fi., avv. Ma.Ca. per Ri.Fi. e - in sostituzione dell'avv. De.Ma. - per Gi.An., avv. Sa.Pi. - in sostituzione dell'avv. De.Mi. - per Be.Ni., avv. Ma.Sq. per Li.Ma., avv. Be.In. per Ma.Fr. e Po.An., avv. An.No. per Sa.Do. e - in sostituzione dell'avv. Fr.Pe. - per Fo.Sa. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 25 ottobre 2022 la Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della pronuncia di primo grado emessa il 23 gennaio 2018 dal Tribunale di Macerata ad esito del giudizio ordinario, per quanto qui rileva, così provvedeva: - quanto a Am.Ma., confermava la pena inflitta dal Tribunale (sei anni, sette mesi di reclusione e 1.400 Euro di multa) per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo (capi 1, 2 e 3 dell'imputazione); - quanto a Be.Ni., dichiarava non doversi procedere in relazione al reato di cui al capo 39 - bis (violazione di una misura di prevenzione) perché estinto per prescrizione; rideterminava la pena in dieci anni, tre mesi di reclusione e 2.150 Euro di multa in relazione ai residui reati di cui ai capi 19 (estorsione consumata), 20 e 22 (estorsioni tentate), 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso); - quanto a Ca.Ma., confermava la pena inflitta dal Tribunale (sei anni, sette mesi di reclusione e 1.400 Euro di multa) per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo, contestati ai capi 1, 2 e 3 dell'imputazione; - quanto ad Ca.Al., dichiarava non doversi procedere in relazione al reato di cui agli artt. 56 cod. pen. e 74, comma 4, D.P.R. n. 309/1990 (capo 45) perché estinto per prescrizione e per l'effetto rideterminava la pena in otto anni, otto mesi di reclusione e 4.300 Euro di multa in relazione ai residui reati di cui ai capi 1, 2, 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo), 19, 21, 22, 24, 25, 26, 28, 32 e 44 (estorsioni consumate o tentate), 31 (violazione di domicilio), 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso), 41, 42 e 43 (detenzione e cessione di sostanza stupefacente); - quanto a Fo.Sa., confermava la pena inflitta dal Tribunale (sei anni di reclusione e 750 Euro di multa) per il reato di cessione in concorso di un'arma con munizionamento, contestato al capo 6; - quanto ad Gi.An., confermava la condanna per il reato di tentata estorsione in concorso contestato al capo 20, ma escludeva le aggravanti ex artt. 416 - bis.1 e 628, terzo comma, n. 3, cod. pen., rideterminando così la pena in due anni di reclusione e 350 Euro di multa; - quanto a Li.Ma., confermava la pena inflitta dal Tribunale (quattro anni e un mese di reclusione) per il reato, pluriaggravato, di incendio in concorso, contestato al capo 27; - quanto a Ma.Fr., confermava la pena inflitta dal Tribunale (dieci anni, quattro mesi di reclusione e 2.400 Euro di multa) per i reati di cui ai capi 2 (detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo), 20 (tentata estorsione), 25 e 33 (estorsioni consumate) e 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso); - quanto a Ol.Ro., confermava la pena inflitta dal Tribunale (sette anni di reclusione e 1.500 Euro di multa) per i reati di estorsione aggravata in concorso, contestati ai capi 33 e 38; - quanto a Pe.Sa., dichiarava non doversi procedere in relazione al reato contestato al capo 37 (violazione di una misura di prevenzione) perché estinto per prescrizione e per l'effetto rideterminava la pena in quattordici anni, sette mesi di reclusione e 5.550 Euro di multa in relazione ai residui reati di cui ai capi ai capi 1, 2, 3, 9 e 11 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra e comuni da sparo, munizioni ed esplosivo), 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 28, 32, 33, 35, 38 (estorsioni consumate o tentate), 27 (incendio), 31 (violazione di domicilio), 40 (direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso); - quanto ad Pe.Al., dichiarava non doversi procedere in relazione al reato di cui agli artt. 56 cod. pen. e 74, comma 4, D.P.R. n. 309/1990 (capo 45) perché estinto per prescrizione e per l'effetto rideterminava la pena in undici anni, sei mesi, quindici giorni di reclusione e 4.100 Euro di multa in relazione ai residui reati di cui ai capi 2, 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo), 17, 19, 20, 21, 22, 23, 25, 28, 32, 33, 35, 44 (estorsioni consumate o tentate), 31 (violazione di domicilio), 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso); - quanto ad Po.An., confermava la pena inflitta dal Tribunale (nove anni e dieci mesi di reclusione) per i reati di cui ai capi 1 e 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di un'arma da guerra e di esplosivo), 27 (incendio) e 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso); - quanto a Ri.Fi., assolveva l'imputato dal reato di estorsione in concorso di cui al capo 23 e per l'effetto rideterminava la pena in otto anni e un mese di reclusione per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra e di armi comuni da sparo, due delle quali con matricola abrasa (capi 11, 12, 13 e 14), e per il reato di partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso (capo 40); - quanto a Sa.Do., confermava la condanna per il reato di cessione in concorso di un'arma con munizionamento, contestato al capo 6, ma escludeva l'applicazione della recidiva, rideterminando così la pena in quattro anni di reclusione e 500 Euro di multa; - quanto a Bi.Lo., confermava la pena inflitta dal Tribunale (tre anni di reclusione e 750 Euro di multa) per i reati di concorso in detenzione illegale e porto in luogo pubblico di esplosivo (capo 3). In ordine alla esistenza dell'associazione mafiosa, la Corte di appello ha osservato che "il sodalizio sarebbe sorto tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009, operante, dapprima nelle province del maceratese e, successivamente, dalla primavera del 2009 per l'effetto dell'incrementazione del gruppo criminale capeggiato da Ma.Sc. e Sa.Pe. con i componenti di quello retto da Ga.Ab., anche nel territorio dell'ascolano. Il consorzio, dedito alle estorsioni, si avvaleva della forza di intimidazione del gruppo (derivante dal sistematico ricorso ad aggressioni fisiche ed alle minacce - anche attraverso l'impiego di armi -, al danneggiamento dei locali - anche per il tramite di azioni incendiarie -, alla scelta dei partecipi di mostrarsi alle loro vittime sempre in gruppo e senza travisamenti) nonché della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivava" (pag. 19). 2. Hanno proposto ricorso per cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori, i suddetti imputati, chiedendo l'annullamento della sentenza. 3. Il ricorso proposto nell'interesse di Am.Ma. è articolato in due motivi, riguardanti i reati di cui ai capi 1, 2 e 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo). 3.1. Mancanza e illogicità della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità. La sentenza riconosce che Pe. ha appreso i fatti dall'altro dichiarante Ma.Sc., cosicché il contributo del primo, soggetto intrinsecamente inattendibile, sfugge alla regola secondo cui nella categoria dei riscontri possono rientrare soltanto gli elementi di prova estranei alla chiamata stessa, in modo da evitare il cosiddetto fenomeno della circolarità. Dalle dichiarazioni spontanee rese dal coimputato Ca. dinanzi alla Corte di appello, completamente trascurate nella sentenza impugnata, è emerso che gli contatti di Am. furono con Sc. e che egli non incontrò mai Pe.. Non esiste alcun riscontro individualizzante alle dichiarazioni accusatorie di Sc.; il metodo seguito in entrambe le pronunce di merito proietta il risultato probatorio ottenuto per il coimputato Ca. sulla persona di Am. anche se questi viene chiamato in causa solo da Sc.. 3.2. Violazione di legge e mancanza della motivazione in relazione all'assenza del dolo specifico richiesto per l'applicazione dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa. 3.3. Con motivi nuovi, tempestivamente depositati, la difesa ha ripreso e ampliato le argomentazioni svolte con il ricorso, denunziando la violazione dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., quanto al primo motivo, e la mancanza e illogicità della motivazione, quanto al secondo, avuto riguardo anche alla inesistenza del sodalizio mafioso, presupposto necessario per l'applicazione della suddetta circostanza aggravante. 4. Il ricorso presentato nell'interesse di Be.Ni. è articolato in due motivi, relativi ai reati di cui ai capi 19 (estorsione consumata), 20 e 22 (estorsioni tentate), 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso). 4.1. Violazione di legge, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine ai requisiti che determinano la "mafiosità" dell'associazione. Gli accertamenti in fatto dei giudizi di merito indicano che ci si trova al cospetto di una organizzazione in fase embrionale priva di una fama criminale propria, incapace di esprimere una forza intimidatrice autonoma e di produrre una condizione di assoggettamento diffuso e radicato diversa dalla semplice accondiscendenza alle richieste che caratterizza i reati - fine, incapace altresì di indurre le vittime all'omertà quale effetto diretto del metus esercitato dal sodalizio e non quale scelta di convenienza. L'assenza di una fama criminale del gruppo è dimostrata da una serie di elementi, fra i quali la brevissima durata del sodalizio, i cui capi sono stati arrestati dopo sei mesi in ragione delle dichiarazioni rese dalle persone offese Ro. e Me.. Il gruppo non era ancora pienamente formato e coeso e soprattutto non veniva identificato dalle vittime, che conoscevano solo la fama criminale di Sc. e aderivano alle richieste degli estorsori, pur se rivolte in forma collettiva, non perché percepissero la fama dell'associazione ma solo a causa del contingente atto di minaccia o violenza che stavano subendo. Conseguentemente il sodalizio non esercitava alcuna forza intimidatrice promanante da una fama criminale inesistente. La sentenza, tra gli indici di "mafiosità" riscontrabili nel caso di specie, ha indicato una serie di elementi non rilevanti ai fini della qualificazione dell'associazione ai sensi dell'art. 416 - bis cod. pen., quali la presenza numerica dei partecipanti alle spedizioni punitive, l'accresciuta disponibilità di armi, il mancato travisamento del volto nel corso delle operazioni, il ricorso non solo a condotte violente ma anche a minacce talvolta subdole, l'omessa denuncia da parte delle vittime. Non vi era neppure un ambito territoriale di diretto controllo da parte del sodalizio: le condotte del gruppo, per lo più estorsive, ricadevano su pochi locali, individuati sulla base di pregressi rapporti tra i rispettivi titolari e la famiglia Sc.; i singoli reati - fine non evidenziano affatto logiche territoriali o settoriali; le vecchie conoscenze continuavano a pagare sulla base del rapporto personale con alcuni degli estorsori, le nuove conoscenze iniziavano a pagare sulla spinta di quello specifico atto di violenza o minaccia posto in essere dagli esecutori materiali. Le risultanze processuali dimostrano il difetto anche delle condizioni di assoggettamento e di omertà. Vari soggetti (As., Ca., Me. e Ro.) beneficiavano del compimento, da parte dell'associazione, di atti che comportavano vantaggi per le loro attività; contro ogni senso logico, coloro che commissionavano al gruppo azioni di recupero crediti o di eliminazione dei concorrenti, invece di concorrere con gli esecutori, sono stati considerati vittime, ancor più delle altre, quando invece l'accondiscendenza alle richieste di pagamento provenienti dal sodalizio rappresentava il prezzo per le azioni commissionate o comunque per gli stessi vantaggiose. Vi era poi una categoria di coloro che operavano in contesti illeciti (Pa., Ne., La., Ce. e Ri.) verso i quali l'associazione riscuoteva debiti scaturenti da attività illecita o quote di proventi di dette attività: pertanto si tratta di soggetti che non amavano rapportarsi con le forze di polizia, indipendentemente dalla esistenza di un metus rilevante nei confronti del gruppo. Quanto alle finalità perseguite, il sodalizio, lungi dal volere affermare un polo di potere alternativo a quello statale, obiettivo tipico dell'associazione mafiosa, operava per lo più per conto terzi per il recupero crediti ovvero proseguiva nel compimento di attività estorsive già in atto da parte dei singoli associati. 4.2. Erronea applicazione dell'art. 416 - bis.1 cod. pen., contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alle modalità e agli scopi perseguiti nell'esecuzione delle condotte estorsive di cui ai capi 19, 20 e 22 dell'imputazione. In assenza di un'associazione riconducibile alla fattispecie prevista dall'art. 416 - bis cod. pen., va esclusa la sussistenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa, mentre le modalità operative dei suddetti episodi, in danno di As., Pa. e Ne., non erano connotate dal metodo mafioso, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello sulla base di elementi inconferenti. 5. Il ricorso proposto nell'interesse di Ca.Ma. denuncia erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 133 cod. pen., e vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena che la Corte avrebbe dovuto determinare nel minimo edittale al fine di renderla proporzionata al fatto e congrua rispetto alla personalità dell'agente. 6. Il ricorso proposto nell'interesse di Ca.Al. è articolato in quattro motivi. 6.1. Violazione di legge per la mancata applicazione della circostanza attenuante prevista dall'art. 416 - bis.1, terzo comma, cod. pen., prevista per i collaboratori di giustizia. Le dichiarazioni del ricorrente, anche se intervenute quando il processo di primo grado era in corso, sono state fondamentali per la pronuncia di una sentenza di condanna. Egli ha riferito dettagli importanti su ciascuno degli imputati, indicando i capi dell'organizzazione e i ruoli svolti dai vari partecipi, svelando anche particolari di rilievo inerenti alle attività illecite dell'associazione criminale, dalla quale il collaboratore si è definitivamente allontanato. 6.2. Violazione di legge per l'eccessivo trattamento sanzionatorio, non avendo i giudici di merito motivato in ordine "alla scelta del calcolo dell'aumento di pena in relazione al reato satellite". 6.3. "Mancata continuazione tra la impugnata sentenza e quella già irrevocabile emessa dalla Corte di Appello di Ancona in data 29.05.2017": la difesa aveva prodotto l'ordine di esecuzione della relativa pena, avendo così dimostrato l'irrevocabilità della sentenza (depositata dal difensore all'odierna udienza con l'attestazione del passaggio in giudicato). 6.4. "Impugnazione dell'applicazione della misura della libertà vigilata all'esito della fine della pena detentiva irrogata", misura "illegittima ed ingiusta". 7. Il ricorso proposto nell'interesse di Fo.Sa. denuncia "omessa, contraddittoria e illogica valutazione degli elementi di riscontro alla chiamata in correità" e "travisamento dei fatti per errata valutazione delle prove" in ordine all'affermazione di responsabilità per il reato di cessione in concorso di un'arma contestato al capo 6. La motivazione è illogica a fronte dell'assoluzione per il reato di detenzione di sostanza stupefacente di cui al capo 7, considerato che il tema probatorio essenziale delle due imputazioni era unico e inscindibile: secondo il racconto di Sc., la vendita della mitraglietta sarebbe stato il mezzo utilizzato per procurarsi la cocaina, che avrebbe rappresentato parte del prezzo pagato da Pe. e Sc. per concludere la trattativa. In violazione dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., l'imputato è stato condannato nonostante la mancanza di riscontri alle dichiarazioni di Sc., in forza della quale vi è stata assoluzione per il reato di detenzione della sostanza stupefacente. La Corte d'appello ha erroneamente ritenuto quali riscontri esterni: una conversazione ambientale intercettata tra Ca. e Pe., la cui lettura, però, "non è la sola logicamente resistente a critiche"; la testimonianza dell'ispettore Di Clemente, priva di carattere individualizzante; i tabulati telefonici, peraltro non presenti nel fascicolo, che non sono in grado di confermare il coinvolgimento di Fo. nella vicenda della cessione della mitraglietta. 8. Il ricorso proposto nell'interesse di Gi.An., condannato per il reato di cui al capo 20, è articolato in due motivi. 8.1. Violazione di legge e vizio motivazionale in ordine alla ritenuta responsabilità per la partecipazione con altri alla tentata estorsione. L'imputato non è mai stato riconosciuto dalla persona offesa e a suo carico non vi è alcuna intercettazione. La sentenza impugnata attribuisce erroneamente un solido valore probatorio al riconoscimento postumo effettuato dalla ispettrice Ma., mancando fondamentali riscontri sulla individuazione di Gi. a Fano, luogo del presunto delitto, e sul suo ipotetico ritorno a San Benedetto del Tronto. Vi sono incongruenze sul veicolo usato e sulla collocazione temporale dell'evento. La chiamata in correità del collaboratore di giustizia Ab. è stata connotata da inesattezze e contraddizioni ed è pertanto inattendibile. 8.2. Violazione di legge e vizio motivazionale in relazione alla ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato in capo all'imputato, del tutto all'oscuro della condotta che gli altri avrebbero tenuto e dell'ingiusto profitto perseguito. 9. Il ricorso proposto nell'interesse di Li.Ma., condannata per il reato di incendio contestato al capo 27, denuncia violazione di legge e vizio di motivazione sotto due diversi profili. 9.1. In primo luogo, quanto alla circostanza aggravante ex art. 416 - bis.1 cod. pen., i giudici di merito non hanno verificato la presenza in capo all'imputata del dolo specifico di agevolare l'associazione mafiosa "come soggetto singolo e non come compagna del Po."; la stessa sentenza impugnata riconosce che la Li. nulla aveva mai saputo del nascondiglio delle armi. Quanto al metodo mafioso, nessun testimone ha dichiarato di avere visto la ricorrente intenta ad appiccare il fuoco nel locale: "pertanto, alla stessa non può nemmeno essere contestata l'aggravante" prevista dal citato articolo. 9.2. In secondo luogo, ritenuta infondata l'eccezione di nullità proposta ex art. 195, comma 7, cod. proc. pen. in ordine alla deposizione del teste Bu., la Corte non ha considerato che lo stesso ha riferito di avere appreso da una persona rimasta ignota che dopo l'incendio si erano allontanati quattro "giovani", vale a dire persone di sesso maschile, a conferma che l'imputata non prese parte all'episodio contestato. 10. Il ricorso presentato nell'interesse di Ma.Fr. propone tre questioni preliminari e lamenta violazione di legge in ordine all'affermazione di responsabilità per i reati fine per i quali vi è stata condanna, contestati ai capi 2 (detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo), 20 (tentata estorsione), 25 e 33 (estorsioni consumate). 10.1. La Corte di appello ha erroneamente disatteso: la richiesta di perizia sull'esplosivo volta ad accertarne la provenienza e l'efficienza; l'eccezione relativa alla illegittima revoca di testi della difesa da parte del Tribunale; la richiesta di trascrizione di "alcune intercettazioni telefoniche". 10.2. In ordine al reato di detenzione dell'esplosivo (capo 2) Pe. ha scagionato Ma., all'oscuro sia dell'acquisto che della detenzione, circostanza non smentita neppure dalla conversazione ambientale in carcere fra i due, valorizzata dai giudici di merito, dalla quale non si evince il contributo causale apportato dal ricorrente. 10.3. Sul tentativo di estorsione in danno di Ma.Pa. (capo 20) l'istruttoria dibattimentale "ha mostrato una dinamica istruttoria completamente diversa dalla ipotesi accusatoria". Il teste Gu. ha reso dichiarazioni divergenti da quelle di Pa., dalla deposizione del quale, comunque, risulta che egli non si sentì in alcun modo coartato a seguito della condotta di Pe., cui nei giorni successivi chiese un incontro. Sono contraddittorie e inattendibili le dichiarazioni di Sc. sulla vicenda, nella quale è tuttalpiù ravvisabile il reato di percosse, ascrivibile solo a Pe.; Ma. non fornì alcun contributo morale o materiale, essendo stato per gran parte del tempo all'interno della propria autovettura ed essendo intervenuto solo dopo l'aggressione di Pe. a Pa., rimanendo fermo, come dichiarato dal collaboratore Ga.Ab.. Ritenuta la responsabilità anche di Ma., la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscere la circostanza attenuante prevista dall'art. 114 cod. pen.. 10.4. Anche per l'episodio relativo alla contestata estorsione ai danni di En.Ge. e @32.Gi.Ri. (capo 25) "l'istruttoria dibattimentale ed in particolare gli esiti delle attività tecniche hanno tuttavia mostrato fatti diversi da quelli sostenuti dall'accusa". Le dichiarazioni di Sc. in merito non hanno alcun rilievo, mentre dalle intercettazioni è risultato che Ca. cercò Ce. e Ri. per ottenere il pagamento di un debito che questi avevano nei confronti di tale Ta.Sm., detenuto, la cui natura era ignorata da Ma.. Dalla deposizione di Ri. è emerso che, in occasione dell'incontro del 15 settembre 2009, vi fu non già una premeditata aggressione bensì una discussione relativa al pagamento di una somma di denaro, poi degenerata, con la conseguenza che tuttalpiù potrebbero ravvisarsi i reati di lesione personale e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, improcedibili per difetto di querela. Dalle dichiarazioni di Pe. e dalle intercettazioni si evince un coinvolgimento marginale di Ma., al quale andrebbe in ogni caso riconosciuta la circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza. 10.5. Quanto alla estorsione in danno di Ro. (capo 33), l'aggressione e le minacce furono poste in essere da Pe., Sc. e Ab., mentre Ma. e Pe. si recarono a casa della vittima a bordo di un'altra autovettura e non parteciparono in alcun modo all'azione intimidatoria e alla richiesta di denaro. Ma. non fornì alcun contributo morale o materiale; diversamente opinando, la Corte di appello avrebbe dovuto comunque riconoscere la circostanza attenuante prevista dall'art. 114 cod. pen.. 10.6. In generale, "la sola circostanza che il Ma., così come altri correi, fosse, secondo l'ipotesi accusatoria, partecipe della associazione contestata al capo 40 non è sufficiente per ritenere lo stesso responsabile anche dei singoli reati - fine che si assume commessi dall'organizzazione criminale". Quanto ai tre collaboratori di giustizia, Ma.Sc., condannato all'ergastolo (come il padre Gi.) per una strage, ha compiuto una scelta opportunistica che comporta propalazioni "mendaci, fantasiose, più colorite". Egli consumava droghe e psicofarmaci, sostanze che lo rendevano instabile, schizofrenico, incapace di rapportarsi con la realtà circostante. Anche l'altro collaboratore Ga.Ab. era assuntore di sostanze psicotrope; egli appartiene a una famiglia di pentiti e aveva a disposizione un telefono cellulare quando era detenuto nel carcere di Pesaro, ove ebbe un colloquio con Ma.Sc., circostanza rilevante al fine di valutarne l'attendibilità. 11. Il ricorso presentato nell'interesse di Ol.Ro., condannato per due estorsioni aggravate in concorso (capi 33 e 38), è articolato in sei motivi. 11.1. Erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione quanto all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione in concorso di cui al capo 33: Ol. era del tutto estraneo alle dinamiche operative del gruppo delinquenziale che costituì la precondizione per la richiesta estorsiva ad Ar.; inoltre egli intervenne quando il reato in danno della persona offesa era già stato consumato. 11.2. Erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione in concorso contestato al capo 38: il fatto costituisce una mera duplicazione di quello contestato al capo 33, riferendosi alla imposizione rivolta da Pe. a Gi.Ro. di non porre all'incasso gli assegni postdatati consegnatigli dal ricorrente quale pagamento differito delle tre autovetture affidategli in conto vendita da quest'ultimo. 11.3. Erronea applicazione della legge penale là dove la sentenza non ha riqualificato in tentativo di estorsione il fatto di cui al capo 33: gli stessi elementi di prova illustrati nelle pronunce di merito smentiscono che si sia trattato di una estorsione consumata. 11.4. Erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante ex art. 628, terzo comma, n. 3, cod. pen.. 11.5. Erronea applicazione della legge penale e mancanza della motivazione in relazione alla sussistenza dell'aggravante ex art. 416 - bis.1. cod. pen.. 11.6. Erronea applicazione della legge penale e mancanza della motivazione in ordine alla richiesta difensiva di una rideterminazione in melius della pena. 12. Il ricorso presentato nell'interesse di Pe.Sa. è articolato in ventitré motivi, riguardanti - quelli specifici in punto di affermazione di responsabilità - i reati di cui ai capi ai capi 1, 2, 3, 9 e 11 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra e comuni da sparo, munizioni ed esplosivo), 20, 21, 22, 23, 24, 25, 33, 35, 38 (estorsioni consumate o tentate), 27 (incendio), 40 (direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso). 12.1. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (art. 178, comma 1, lett. c), del codice di rito), in relazione all'art. 420 - ter cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per avere il Tribunale illegittimamente rigettato le richieste di rinvio delle udienze del 29 settembre 2014 e del 6 giugno 2016 per legittimo impedimento a comparire, rispettivamente, di Pe. e del suo difensore. Nel primo caso l'imputato era affetto da una patologia che ne impediva la cosciente partecipazione all'udienza; nel secondo è irrilevante la circostanza che l'impedimento del difensore fosse preesistente alla sua nomina, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale. 12.2. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (art. 178, comma 1, lett. c), del codice di rito), in relazione all'art. 494 cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, essendo stato precluso a Pe. di rendere spontanee dichiarazioni sulla base di un'aprioristica e infondata valutazione del Tribunale sul fatto che l'imputato avrebbe intralciato l'istruzione dibattimentale in corso, ripresa poi nella sentenza impugnata. 12.3. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (art. 178, comma 1, lett. c), del codice di rito), in relazione all'art. 438 cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. La Corte di appello, reiterando l'errore del Tribunale, ha ritenuto inidonea la richiesta di rito abbreviato condizionato riproposta al giudice dibattimentale mediante l'allegazione alla lista testimoniale di quella originaria, respinta dal G.u.p., e ha poi ritenuto insussistenti le condizioni per la celebrazione del processo con detto rito senza alcuna valutazione né ex ante relativamente alla verifica della ricorrenza dei requisiti di novità e decisività delle prove richieste dall'imputato in sede di udienza preliminare né ex post alla luce dell'istruzione dibattimentale svolta. 12.4. Inosservanza ed erronea applicazione "della legge penale" per la mancata assunzione di una prova decisiva nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. La sentenza impugnata ha condiviso le argomentazioni della prima pronuncia nonostante vi fosse una serie di prove decisive che avrebbero determinato una decisione diversa da quella adottata, la cui assunzione era stata chiesta al primo giudice e da questi negata: l'escussione di alcuni testi a discarico, la trascrizione delle intercettazioni, l'espletamento della perizia sul materiale esplosivo, l'acquisizione per estratto dei registri tenuti dai direttori delle carceri ove erano detenuti i collaboratori di giustizia. 12.5. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (art. 191 del codice di rito), in relazione all'art. 493, comma 3, cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al rigetto della eccezione proposta in appello sulla utilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali rese dai collaboratori di giustizia in assenza del consenso prestato dalla difesa. 12.6. Mancanza della motivazione in ordine alla omessa pronuncia della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ex art. 603 cod. proc. pen.. La Corte non ha valutato la richiesta di uno dei difensori intesa a ottenere il nuovo esame del collaboratore Ab., che aveva manifestato l'intenzione di precisare alcune circostanze. 12.7. Inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 416 - bis cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di associazione di tipo mafioso (capo 40). Avuto riguardo al giudizio di attendibilità di Ma.Sc. e Ga.Ab., sulle dichiarazioni dei quali si è in sostanza fondato il giudizio di responsabilità, è illogico e congetturale il passaggio della motivazione là dove si è tentato di giustificare i numerosi errori in cui sono incorsi i due collaboratori, facendo leva sulla mole considerevole degli argomenti trattati e sulla distanza temporale tra i fatti e l'esame degli stessi in dibattimento. La Corte di appello ha omesso di svolgere un'approfondita indagine sulla credibilità di Sc. e di Ab., specie in ragione di una serie di circostanze evidenziate dalla difesa: i collaboratori si erano incontrati in due occasioni all'interno del carcere ove erano ristretti; Ab. aveva avuto a disposizione un telefono cellulare, in concomitanza con i primi due interrogatori, che gli aveva permesso di parlare anche con il cognato Ri. dell'intento di collaborare; i due avevano forti ragioni di contrasto con gli altri membri del presunto sodalizio e in particolare con Pe. che avevano deciso di uccidere. La sentenza impugnata ha poi valorizzato elementi per nulla idonei a caratterizzare un sodalizio mafioso, in contrasto con i principi affermati dalla Corte di cassazione, anche a Sezioni Unite. La forza di intimidazione deve provenire non dalla fama criminale del singolo, ma da quella dell'associazione e sul punto la Corte di appello ha operato un travisamento della deposizione della persona offesa Me., che si era riferita alla sola posizione di Sc., lasciando sullo sfondo quella di Pe., senza fare alcun cenno a una eventuale intimidazione subita da un gruppo criminale; la circostanza che Sc. si fosse raccomandato con Me. di non consegnare alcuna somma di denaro a Pe., se questi gliela avesse chiesta, dimostra che la persona offesa non poteva certo immaginare che i due facessero parte della stessa associazione. Parimenti illogico è il richiamo della sentenza alla estorsione commessa in danno di Ca. là dove ha confuso le minacce provenienti dal solo Sc. con la forza di intimidazione del sodalizio; la circostanza che Sc. avesse dovuto minacciare la persona offesa mostrando una pistola è la negazione stessa della sussistenza di detta forza. Anche in relazione alla estorsione in danno di Ro. la Corte territoriale ha illogicamente valorizzato solo la pericolosità intrinseca degli atti compiuti in danno della persona offesa e la presenza numerica di più soggetti, non integrante una modalità operativa propria di un sodalizio mafioso, senza considerare che la condotta delittuosa nei suoi confronti era nata da una illecita richiesta rivolta dallo stesso Ro. ad alcuni degli odierni imputati per liberare un suo immobile occupato abusivamente da tale Ar.. La circostanza che gli estorsori si presentassero a volto scoperto alle persone offese è la conferma che all'esterno non era percepita la sussistenza di alcuna associazione mafiosa, certamente insussistente quando, in una conversazione intercettata il 2 agosto 2009, Pe. si immaginava la possibilità di "formare un bel gruppo". Anche la preoccupazione espressa dal ricorrente circa una eventuale collaborazione di Po., all'indomani del suo arresto, è la prova dell'assenza di un forte vincolo associativo, diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata, silente su una specifica deduzione difensiva: le vittime non ipotizzavano la sussistenza di un unico sodalizio, avendo fatto riferimento solo ad alcuni degli imputati, taluni a Sc., altri ad Ab. e Pe., altri ancora non ai capi ma a diversi soggetti che gravitavano in quell'ambiente. Quanto al tema della condizione di assoggettamento e di omertà che sarebbe stata causata dall'esercizio della forza di intimidazione, la Corte di appello ha trascurato il fatto, evidenziato dal G.i.p. nell'ordinanza di custodia cautelare, che le asserite vittime del sodalizio mafioso erano legate "a filo doppio con gli estorsori, spesso ricavando vantaggi anche di natura illecita, quale controprestazione (diretta o indiretta) del "pizzo" versato o richiesto" e, pertanto, che l'atteggiamento omertoso a volte palesato derivava dalla volontà di evitare contatti con le forze dell'ordine, rischiosi per loro stesse. Si risolve in una mera congettura, dunque, il riferimento della sentenza alla mancata denuncia da parte di Ca. e di Me., essendo stata trascurata la circostanza che furono gli stessi a commissionare l'incendio di un locale notturno concorrente; agli imputati si erano rivolti anche Ce. e Ri., i quali dovevano onorare un precedente debito per l'acquisto di sostanza stupefacente, e Ro., che poi aveva sporto denuncia alle forze dell'ordine, così come Di. e Ri.. La sentenza ha distorto il concetto stesso di omertà, avendo anche dato atto che molte vittime si erano ribellate alle pretese degli imputati reagendo alle aggressioni subite (Ne., Ri. e Ce.) o rispondendo in modo strafottente (La.) o canzonatorio (Pa.) ovvero non avevano esaudito le richieste estorsive (Me. e So.). Pertanto, la Corte di appello non ha fatto corretta applicazione di quei principi giurisprudenziali che richiedono la prova di una estrinsecazione oggettiva del metodo mafioso, tanto più necessario nella ipotesi, quale quella di cui si tratta, in cui l'associazione ha avuto una vita brevissima. 12.8. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per i reati di detenzione e porto di armi ed esplosivo di cui ai capi 1, 2 e 3. Quanto al delitto contestato al capo 1, le molteplici critiche alla sentenza di primo grado avanzate nell'atto di appello, nel quale si erano indicati numerosi elementi che contraddicevano le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, sono rimaste senza risposta. La Corte territoriale ha omesso qualsiasi motivazione in ordine al reato di cui al capo 3, non avendo adeguatamente considerato l'unico profilo probatorio decisivo della vicenda, rilevante anche per il delitto di cui al capo 2, costituito dalla micidialità dell'esplosivo. 12.9. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per i reati di detenzione e porto di armi di cui al capo 9. La motivazione è carente e congetturale là dove ha ritenuto Pe. responsabile della detenzione di due pistole presso un'abitazione di Civitanova Marche sulla base della inconferente circostanza del rinvenimento, ivi, di suoi documenti falsi nonché di una conversazione intervenuta con Sc. che non dimostra la consapevolezza in capo al ricorrente della presenza delle armi e della sua volontà di concorrere nella detenzione. 12.10. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per i reati di detenzione e porto di armi di cui al capo 11. La Corte ha valorizzato le convergenti dichiarazioni di Ab. e Sc., riscontrate da quelle di Ri., nonostante il primo non avesse in realtà coinvolto Pe. nella detenzione della bomba a mano e Ri. avesse poi ritrattato in dibattimento l'iniziale accusa. 12.11. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di tentata estorsione aggravata di cui al capo 20. La sentenza ha erroneamente riconosciuto la sussistenza del tentativo punibile, difettando invece i requisiti della idoneità e della univocità della condotta minacciosa posta in essere in danno di Pa., che reagì sfidando apertamente Pe. e minacciandolo a propria volta. Inoltre, il coinvolgimento di Pe. è stato affermato sulla base di poche conversazioni dal contenuto generico ed equivoco intercorse con Pe. e Ab., a fronte del decisivo rilievo rivestito da quella avuta con Sc., nella quale quest'ultimo aveva espressamente detto che fortunatamente lui e il ricorrente non erano stati coinvolti nella vicenda. 12.12. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di tentata estorsione aggravata di cui al capo 21. La sentenza ha tratto la prova della condotta minacciosa e violenta in danno dei due gestori del ristorante di Martinsicuro, nonché dell'effettivo stato di costrizione di questi ultimi, da poche frasi di una conversazione ambientale tra Pe. e Ca., con una motivazione carente e apodittica che non ha spiegato per quali ragioni sono state ritenute inattendibili le due persone offese, sentite in dibattimento, le quali hanno negato di essere mai state minacciate. 12.13. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di tentata estorsione aggravata di cui al capo 22. Analoghe considerazioni valgono per la tentata estorsione in danno di Ne., la cui prova è stata desunta da una conversazione intercettata dal contenuto fumoso e dalle dichiarazioni dei due collaboratori che hanno riferito di una pronta reazione di Ne. la cui volontà, dunque, non era stata coartata. 12.14. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di estorsione aggravata di cui al capo 23 nonché in relazione alla mancata riqualificazione del fatto nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La sentenza non ha risposto alle censure proposte in appello sulla ritenuta inattendibilità della persona offesa Ri., a fronte della credibilità accordata ai due collaboratori, e non ha considerato che il ricorrente si era sostituito a Fa. nella richiesta di pagamento del credito che quest'ultimo aveva maturato nei confronti di Ri. in quanto Fa. era a sua volta debitore di Pe.. 12.15. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di estorsione aggravata di cui al capo 24. La Corte di appello ha evocato il tema della "mafia silente" ricorrendo a clausole di stile avulse dal caso concreto e omettendo altresì di considerare le deposizioni rese dai due gestori del night club Me. e So., che hanno dichiarato di non essere stati per nulla intimoriti dalla offerta di protezione, poi respinta, loro prospettata dagli imputati. 12.16. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di estorsione aggravata di cui al capo 25, desunta dalla circostanza che i tre imputati (Ca., Ma. e Pe.) accusati di avere aggredito Ce. e Ri. si sarebbero recati presso l'abitazione del ricorrente e avrebbero poi con lui commentato l'accaduto in una conversazione dalla quale, però, non risultava affatto il coinvolgimento di Pe. nella vicenda e tantomeno il suo ruolo di mandante. 12.17. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di incendio di cui al capo 27, non risultando comprensibile quale sarebbe stato il contributo apportato da Pe. all'evento. Inoltre, la natura colposa dell'evento non solo era stata riferita dalla persona offesa Ma., ma era stata anche confermata da una perizia dallo stesso richiesta al fine di verificare l'eventuale copertura assicurativa. 12.18. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata applicazione dell'attenuante ex art. 114 cod. pen. per il reato di estorsione di cui al capo 28. 12.19. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per i reati di estorsione aggravata di cui ai capi 33, 35 e 38, dei quali uno tentato, commessi in danno di Ro.. Anche a fronte della eccepita inattendibilità di Ab. e Sc., la Corte territoriale ha superato il dato obiettivo dell'assenza di telefonate tra la persona offesa e Pe., desumendo la sua responsabilità da quelle intercorse tra quest'ultimo e i correi senza neppure illustrarne il contenuto. 12.20. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell'aggravante ex art. 416 - bis.1 cod. pen.. La circostanza dell'agevolazione mafiosa è stata erroneamente applicata per i reati di estorsione e per quelli concernenti le armi, nonostante detta aggravante sia destinata a colpire le condotte degli estranei e non già degli intranei all'associazione. Quanto al metodo mafioso, la Corte di appello ha confuso gli elementi tipici del reato estorsivo con quelli dell'utilizzo del suddetto metodo, indicando una serie di elementi inconferenti. 12.21. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine all'applicazione dell'aggravante dell'avere commesso il fatto durante la sottoposizione del ricorrente alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale. La sentenza ha omesso di motivare sulla contestata sussistenza dell'aggravante, ritenendo erroneamente che l'onere motivazionale fosse venuto meno a seguito del riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di equivalenza. 12.22. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle aggravanti, giudizio espresso invece per Ca., il cui contributo alle indagini era stato nella sostanza il medesimo di quello apportato da Pe.. 12.23. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla entità della pena inflitta. La Corte territoriale avrebbe dovuto valorizzare il comportamento collaborativo del ricorrente e il suo ottimo comportamento processuale, avendo egli ammesso la propria responsabilità per molti reati contestati. La sentenza non ha in alcun modo motivato in ordine alla quantificazione dei singoli aumenti, dovuti alla continuazione, e alla entità della pena decurtata per i reati di cui ai capi 37 (estinto per prescrizione), 31 e 32 (stralciati). 13. Il ricorso presentato nell'interesse di Pe.Al. è articolato in dodici motivi, riguardanti - quelli specifici in punto di affermazione di responsabilità - i reati di cui ai capi 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo), 19, 21, 22, 23, 35, 44 (estorsioni consumate o tentate), 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso). 13.1. Nullità dell'ordinanza dibattimentale di rigetto dell'istanza di rinvio per legittimo impedimento del difensore emessa dal Tribunale di Macerata all'udienza del 20 giugno 2016; vizio motivazionale sul punto. Il difensore aveva indicato l'impossibilità di nominare sostituti processuali e comunque non aveva neppure l'onere di farlo, in presenza di motivi di salute, come statuito dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione. 13.2. Violazione della legge penale (art. 110 cod. pen.), mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo (capo 3). Mentre per la prima partita di esplosivo consegnata (capo 2) risulta dimostrato il coinvolgimento del ricorrente nella fase successiva all'acquisto, in relazione alla seconda tranche di esplosivo di circa 7 kg (capo 3) non emerge alcuna sua partecipazione, desunta invece dai giudici di merito sulla base di un travisamento del contenuto di una conversazione intercettata, nella quale Pe. chiedeva a Ca. solo se l'esplosivo acquistato avesse o meno degli inneschi, rendendosi tuttalpiù connivente, non avendo poi apportato alcun contributo al successivo spostamento dell'esplosivo. La sentenza impugnata, inoltre, erroneamente attribuisce a Ma.Sc. una inesistente chiamata in correità di Pe. per questo fatto. 13.3. Violazione di legge (artt. 110 cod. pen. e 192 cod. proc. pen.), mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per l'estorsione in danno della famiglia As. (capo 19). La Corte di appello ha confermato la condanna di Pe. sulla base della chiamata in correità di Sc. e del contenuto di una conversazione tra gli stessi intercorsa nonché di altra conversazione tra il ricorrente e Ca.. Il collaboratore, dopo essersi corretto circa la presenza di Pe., in quel momento in carcere, all'incontro in cui si decise di compiere l'estorsione, ha dichiarato in modo contraddittorio che il ricorrente percepì guadagni dall'attività estorsiva, circostanza rimasta priva di riscontri. Dalle suddette conversazioni, poi, si evince solo che Pe. era a conoscenza delle attività estorsive e tuttalpiù partecipava alla spartizione dei conseguenti guadagni, circostanze che non dimostrano affatto la sua messa a disposizione per il controllo dei locali e delle persone offese, che infatti hanno dichiarato di non conoscerlo neppure. 13.4. Mancanza o contraddittorietà della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per la tentata estorsione contestata al capo 21, in danno di due gestori di un ristorante. Dagli atti non emerge che Pe. abbia partecipato alla organizzazione dell'azione violenta e minacciosa posta in essere all'interno del ristorante né che egli abbia tenuto la condotta indicata in sentenza, impedendo l'intervento o l'accesso di clienti o dipendenti; quella del ricorrente fu solo una connivenza non punibile. 13.5. Violazione di legge (art. 110 cod. pen.), mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per la tentata estorsione in danno di Gi.Ne. (capo 22). La Corte di appello anche in questo caso ha motivato la responsabilità per il reato - fine riportando elementi che al più potrebbero rilevare ai fini della dimostrazione dell'inserimento dell'imputato nel contesto criminale associativo. La responsabilità concorsuale del ricorrente è stata desunta dalla sua mera presenza sul luogo del commesso delitto. 13.6. Mancanza o contraddittorietà della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per la estorsione contestata al capo 23, in danno di An.Ri., supportata solo dalla chiamata in correità di Sc., considerato che la persona offesa ha dichiarato di non conoscere le altre due persone che accompagnavano lo stesso Sc. e Pe. quando fu malmenata. Le due conversazioni intercettate richiamate dai giudici di merito non dimostrano affatto che Pe. fosse stato delegato per riscuotere il denaro estorto. 13.7. Violazione di legge (artt. 81 e 629 cod. pen.) in relazione alla considerazione autonoma del reato contestato al capo 35 rispetto a quello del capo 33; mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per la tentata estorsione in danno di Gi.Ro.. Dalla ricostruzione del fatto da parte dei giudici di merito risulta che Sc. e Ab., dopo le richieste estorsive soddisfatte parzialmente dalla persona offesa con la consegna delle chiavi della sua auto, ripresero a minacciarla per ottenere il pagamento dell'intero preteso con la condotta contestata al capo 33: si tratta, dunque, di una unica azione delittuosa. Diversamente opinando, Pe. sarebbe comunque estraneo al reato contestato al capo 35, poiché il suo concorso è stato affermato solo in base alla partecipazione alle richieste estorsive formulate il 28 agosto 2009 e contestate nel distinto e autonomo capo 33 dell'imputazione. 13.8. Violazione della legge penale (art. 416 - bis cod. pen.), mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza degli elementi tipici previsti dal suddetto articolo (capo 40). In contrasto con i principi enunciati nella sentenza Modaffari delle Sezioni Unite, la Corte di appello ha affermato che "non è necessaria la prova che l'impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dall'art. 416 bis c.p.". A supporto della ritenuta mafiosità dell'associazione, la sentenza impugnata ha indicato una serie di elementi inconferenti in quanto non dimostrativi della concreta ed effettiva radicalizzazione territoriale del sodalizio e, quindi, della sua autonoma e attuale capacità intimidatoria: il numero dei partecipanti alle "spedizioni punitive", la violenza a volte efferata mostrata nella consumazione dei reati - fine, l'agire a volto scoperto. Travisando le risultanze processuali, la sentenza ha richiamato le estorsioni in danno della famiglia As. e di Ca. per affermare che in tali occasioni sarebbero state proferite minacce velate e subdole tipiche della cosiddetta mafia silente. Anche dalla conversazione del 2 agosto 2009 intercorsa tra Ca. e Pe., riportata nella sentenza di primo grado, si evince che gli stessi associati erano ben consapevoli che il gruppo da poco costituito non avesse ancora acquisito una compiuta forza criminale, dato conclamato dal brevissimo periodo in cui operò il sodalizio. Quanto all'altro elemento tipico della fattispecie, la violenza e la minaccia poste in essere da più persone riunite con modalità particolarmente gravi sono state erroneamente elevate a prova della sussistenza di assoggettamento e omertà; in sostanza, la sentenza impugnata non ha spiegato perché la costrizione (assoggettamento e omertà) eventualmente ingeneratasi nelle vittime sia da attribuirsi alla fama criminale del gruppo in sé piuttosto che alle modalità particolarmente violente adottate nella perpetrazione dei vari reati - fine contestati. 13.9. Violazione della legge penale (art. 416 - bis.1 cod. pen.), mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza degli elementi tipici dell'aggravante del metodo mafioso prevista dal suddetto articolo, mentre l'esclusione di quella dell'agevolazione discende dalla inesistenza dell'associazione mafiosa. La sentenza ha indicato nell'episodio dell'estorsione in danno di Ed.As. la tipica esplicazione dei tratti propri della metodologia mafiosa, quando invece i responsabili, per costringere la vittima, si avvalsero non della forza intimidatoria di un'organizzazione criminale bensì di un'arma e della sottrazione delle chiavi della macchina, evocando poi Ma.Sc., ben noto alla persona offesa, quale il soggetto cui rivolgersi. A supporto della ritenuta sussistenza del metodo mafioso la sentenza ha richiamato una serie di circostanze quali l'elevato numero di partecipanti alle azioni criminose, il possesso di armi da parte dell'associazione, il mancato travisamento dei correi nelle operazioni criminose, il fare tracotante e prevaricatore adottato dai medesimi nella commissione dei vari reati - fine: si tratta di elementi inconferenti per le ragioni già esposte per contrastare la ritenuta mafiosità dell'associazione. Il vizio denunciato ha particolare pregnanza in relazione al reato di estorsione contestato al capo 33, in quanto la sussistenza dell'aggravante è stata riconosciuta solo in ragione del fatto che i correi si presentarono "in numero assai superiore rispetto alle reali esigenze del caso concreto". 13.10. Mancanza o contraddittorietà della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per la tentata estorsione contestata al capo 44, in danno di Lo.La., affermata in base al contenuto di intercettazioni ambientali travisato nelle sentenze di merito. Emerge chiaramente dalle intercettazioni che Pe., utilizzando con Ca. una scusa (il denaro gli sarebbe servito in quanto era appena uscito dal carcere), cercò di evitare che l'altro ricorresse alla violenza nei confronti di La.. 13.11. Violazione della legge penale per la illegittima estensione analogica della disposizione di cui al quinto comma dell'art. 628 cod. pen. sulla sottrazione al bilanciamento di alcune circostanze aggravanti (fra le quali quella, applicata nel caso di specie, dell'art. 628, terzo comma, n. 3 cod. pen.) alle ipotesi di cui all'art. 629, secondo comma, cod. pen., norma che non richiama la particolare disciplina prevista per alcune circostanze aggravanti della rapina. 13.12. Mancanza o contraddittorietà della motivazione in punto di determinazione della pena base inflitta all'imputato. Il Tribunale, con un errore non emendato dalla Corte di appello, per un verso ha affermato di dover applicare il minimo edittale del reato satellite di cui all'art. 416 - bis cod. pen., ma per altro verso da detto minimo (sette anni di reclusione) si è discostato in modo rilevante. 14. Il ricorso presentato nell'interesse di Po.An. è articolato in quattro motivi, riguardanti i reati di incendio (capo 27) e di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (capo 40). 14.1. Violazione di legge (in relazione agli artt. 192 e 195, comma 7, cod. proc. pen.), contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità per il reato di incendio in concorso. La deposizione del teste Bu. è inutilizzabile in quanto è rimasta ignota la persona che gli avrebbe riferito dell'allontanamento dal luogo dell'incendio di quattro ragazzi, visti solo salire su un'auto, poi identificata dalle forze dell'ordine in quella di Po. nonostante non fosse stata fermata. Il ricorrente aveva quell'auto dal 2002, cosicché non poteva averla ricevuta come prezzo di un delitto commesso nel 2009, circostanza non valutata dalla Corte di appello, la quale ha poi erroneamente considerato come elemento di riscontro la chiamata in correità di Sc., che ha dichiarato di essere stato il mandante dell'incendio, rendendo però dichiarazioni molto vaghe e "per sentito dire" sugli autori e sulle modalità con le quali esso sarebbe stato commesso. 14.2. Gli stessi vizi, sulla base delle argomentazioni svolte nel primo motivo, vengono denunciati in relazione al riconoscimento dell'aggravante prevista dall'art. 112, primo comma, n. 1, cod. pen.. 14.3. Violazione di legge (art. 192 cod. proc. pen.) e vizio motivazionale in ordine alla sussistenza dell'aggravante del metodo mafioso. Po. avrebbe comunque prestato un contributo solo occasionale per quell'unico incendio ed egli era all'oscuro delle dinamiche associative. 14.4. Violazione di legge (art. 192 cod. proc. pen.) e vizio motivazionale in relazione al reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso. La sentenza non ha indicato prove del contributo causale stabile di Po. all'associazione, essendosi egli limitato a custodire temporaneamente armi ed esplosivo, ricevendo un corrispettivo. Gli associati lo consideravano un "collaboratore esterno" che non faceva domande e in cambio di denaro svolgeva semplici compiti. Inoltre, l'ipotesi accusatoria si fonda in larga parte sulle dichiarazioni del collaboratore Ma.Sc., condannato all'ergastolo (come il padre Gi.) per una strage, che ha compiuto una scelta opportunistica tale da comportare propalazioni "mendaci, fantasiose, più colorite". Egli consumava droghe e psicofarmaci, sostanze che lo rendevano instabile, schizofrenico, incapace di rapportarsi con la realtà circostante. Anche l'altro collaboratore Ga.Ab. era assuntore di sostanze psicotrope; egli appartiene a una famiglia di pentiti e aveva a disposizione un telefono cellulare quando era detenuto nel carcere di Pesaro, ove ebbe un colloquio con Ma.Sc., circostanza rilevante al fine di valutarne l'attendibilità. 15. Il ricorso presentato nell'interesse di Ri.Fi. è articolato in sette motivi, inerenti ai reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra e di armi comuni da sparo (capi 11, 12, 13 e 14) e di partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso (capo 40). 15.1. Violazione della legge penale, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla integrazione della fattispecie delittuosa di cui all'art. 416 - bis cod. pen.. Per ritenere la mafiosità dell'associazione, operante per soli cinque o sei mesi, la Corte di appello ha erroneamente valorizzato la mera "connotazione finalistica", destinata a restare confinata nel foro interiore ovvero nelle criminali aspirazioni degli associati, in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, pure richiamati in motivazione. Gli stessi episodi citati in sentenza (estorsione consumata in danno di Me. e tentata in danno di Pa.) contraddicono l'assunto della Corte territoriale sulla dimostrata mafiosità del sodalizio, che pure va esclusa alla luce dell'incrociarsi dei propositi dichiaratamente omicidiari volti alla reciproca eliminazione fisica tra gli associati. 15.2. Violazione della legge penale processuale (art. 192 cod. proc. pen., con particolare riguardo al comma 3), contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sulla ritenuta partecipazione dell'imputato all'associazione di tipo mafioso, con specifico riferimento alla valutazione delle dichiarazioni rese dai coimputati Ma.Sc. e Ga.Ab., separatamente giudicati. La sentenza ha ritenuto che quella di Ri., mai coinvolto in alcuna interlocuzione con gli altri associati e dagli stessi mai evocato, fosse stata una partecipazione "silente" e, in sostanza, "da remoto", vista la sua permanenza in Sicilia quantomeno nell'agosto del 2009. Il ricorrente è stato assolto con formula piena dall'unico reato - fine, dovendosi escludere, dunque, che egli possa avere fornito un appoggio finanziario e logistico con la propria concessionaria di auto. La prova della sua partecipazione deriva unicamente dalle dichiarazioni dei due collaboratori e la Corte di appello, con affermazioni generiche e apodittiche, non ha considerato che quelle rese dal cognato Ab. sono smentite da una serie di circostanze: quest'ultimo ignorava la disponibilità da parte di Ri. di alcune armi, che il ricorrente fece ritrovare, il cui possesso risaliva ad epoca ampiamente precedente alla nascita del sodalizio; esse non furono mai utilizzate per le attività criminali del gruppo; Ab. in altri processi ha ritrattato le accuse nei confronti di Ri. e plurimi sono i giudizi assolutori favorevoli all'imputato, nei quali le dichiarazioni del collaboratore sono state ritenute inattendibili. La sentenza impugnata ha svilito tali risultanze e ha escluso l'inattendibilità di Ab. ritenendo non pertinente una valutazione "sulle qualità morali della sua persona", quando invece occorreva dare rilievo decisivo a una circostanza dallo stesso riferita: i rapporti con Ri. si erano interrotti dal 2008 in avanti, vale a dire prima della nascita dell'associazione. 15.3. In relazione alla condanna per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra (capi 11 e 12), mancata assunzione di una prova decisiva (perizia sulla natura di arma da guerra e sulla idoneità all'impiego della bomba a mano tipo ananas), supportata da motivazione contraddittoria e manifestamente illogica. Le considerazioni della sentenza impugnata sulla idoneità all'impiego hanno impropriamente sostituito una necessaria verifica tecnica sull'arma, cui già era stata subordinata la richiesta di rito abbreviato respinta dal G.u.p.; l'istanza è poi stata riproposta in dibattimento, ai sensi dell'art. 495, comma 2, cod. proc. pen. e sul rigetto vi è stata una specifica doglianza formulata nell'atto di appello. 15.4. Quanto ai reati in materia di armi (capi 11, 12, 13 e 14), violazione della legge penale, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante ex art. 416 - bis.1 cod. pen. Tutte le armi erano possedute dal ricorrente da epoca largamente precedente alla nascita dell'associazione e la motivazione non indica alcuna prova della sua finalità di agevolare l'associazione mafiosa, evocando poi la disponibilità di un silenziatore che non trova alcun riscontro nei verbali di perquisizione e sequestro delle armi a carico di Ri.. 15.5. In subordine rispetto ai primi due motivi, violazione della legge penale (artt. 42, 43 e 59, secondo comma, cod. pen.), contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto alla ritenuta applicabilità nei confronti del ricorrente dell'aggravante ex art. 416 - bis, quarto comma, cod. pen., in assenza di un accertamento circa la componente psicologica e volontaristica riferibile all'imputato, mai intercettato e - come riconosciuto in sentenza - "mai stato nominato, contattato, visto o soltanto sospettato di aver concorso nei reati commessi dagli altri imputati". 15.6. In ulteriore subordine, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al solo giudizio di equivalenza fra circostanze eterogenee, nonostante l'intervenuta assoluzione in appello dal reato di estorsione pluriaggravata. 15.7. In subordine, violazione della legge penale, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al mancato riconoscimento dell'attenuante ex art. 416 - bis.1, terzo comma, cod. pen., fondato su una erronea interpretazione del concetto di "dissociazione" e sull'assenza del presupposto dell'ammissione di responsabilità non previsto dalla norma. 16. Il ricorso proposto nell'interesse di Sa.Do., condannato per il reato di concorso nella cessione di un'arma con munizionamento (capo 6), è articolato in cinque motivi. 16.1. In primo luogo, si denunciano contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine al disallineamento e all'incongruità delle decisioni sui reati di cui ai capi 6 e 7, intrinsecamente collegati tra loro, anche con riguardo al vaglio di attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dal collaboratore di giustizia Ma.Sc.. La sentenza impugnata ha riconosciuto l'assenza di riscontri alla versione resa dal suddetto collaboratore circa il fatto che fosse stata convenuta una contropartita in stupefacente per la vendita della mitraglietta e ha assolto l'imputato per il reato di detenzione della cocaina in ipotesi acquistata, ma poi, in modo contraddittorio, ha ritenuto dimostrato che Sa. e gli altri presunti venditori dell'arma si sarebbero recati la sera stessa a Civitanova Marche per lamentarsi della qualità della cocaina ricevuta: in questo modo Sc. è stato ritenuto non credibile sulla cessione della droga ma meritevole di apprezzamento su una circostanza derivante proprio dalla dazione dello stupefacente. 16.2. Il ricorrente, poi, con i successivi due motivi, censura la sentenza impugnata per violazione di legge, contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla valutazione della credibilità del collaboratore di giustizia Ma.Sc. e di attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni nonché all'esistenza di riscontri esterni individualizzanti. A fronte delle specifiche contestazioni della difesa sulle contraddizioni presenti nel racconto di Sc., relative a precise circostanze (data di commissione del fatto, individuazione dei fornitori, confezionamento della mitraglietta, richiesta dell'arma e trattative, prezzo della transazione, trasporto e collocamento dell'arma, mezzo utilizzato), la Corte di appello ha risposto in modo generico e superficiale. 16.3. Con il quarto e il quinto motivo il ricorso lamenta violazione di legge, contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla valutazione dei riscontri individualizzanti sul ruolo di Sa.Do., anche con riferimento al vaglio della credibilità di Ma.Sc. e di attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni. La Corte territoriale ha ritenuto utilizzabile la deposizione dell'ispettore Di Clemente nonostante essa fosse riconducibile a un'annotazione ex art. 357 cod. proc. pen. che faceva riferimento a una fonte confidenziale e ha utilizzato quale riscontro alla chiamata in correità una conversazione ambientale tra Ca. e Pe. in forza di una interpretazione basata su motivazioni incongrue e illogiche là dove è stato identificato in Sa. "quell'altro ragazzo". La sentenza ha poi erroneamente osservato che le dichiarazioni rese in interrogatorio da Ca., contestate dalla difesa, non sarebbero state considerate dal primo giudice nel compendio probatorio e ha utilizzato le risultanze dei tabulati telefonici come riscontro individualizzante, spiegando in modo poco plausibile e contrastante con alcune recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità "la non perfetta coincidenza del collocamento temporale e spaziale dei telefoni in uso agli imputati coinvolti". 16.4. Con i successivi due motivi il ricorrente censura il vizio motivazionale e la violazione di legge (artt. 192, comma 3, e 526, comma 1, cod. proc. pen.) in ordine alla valutazione dei tabulati telefonici, non acquisiti, quali riscontro individualizzante alle propalazioni del collaboratore di giustizia. Una serie di dati incontrovertibili contrasta con la ricostruzione dei giudici di merito: il 2 maggio 2009 Fo., Sa. e Pe. sono transitati nei pressi del paese di Moie, dove sarebbe avvenuto lo scambio, ma il pomeriggio dello stesso giorno i tre non erano insieme né si trovavano a Moie. La Corte, poi, non ha valorizzato un dato rilevante, costituito dalla mancata individuazione della posizione del collaboratore, i cui dispositivi mobili non sono stati tracciati. La sentenza impugnata definisce le risultanze dei tabulati "elementi indiziari ambigui" ma poi li considera illegittimamente come riscontro individualizzante, in contrasto con quanto ritenuto dal G.i.p. che respinse la richiesta di misura cautelare proposta nei confronti di Sa.. Fra gli atti del fascicolo, infine, mancano i tabulati, essendo presente solo lo schema redatto dalla teste di P.G. Ma. che non consente un pieno esercizio del diritto di difesa. 17. Il ricorso proposto nell'interesse di Bi.Lo., condannato per i reati di concorso in detenzione illegale e porto in luogo pubblico di esplosivo (capo 3), è articolato in due motivi. 17.1. Manifesta illogicità della motivazione per travisamento della prova con riferimento alla ritenuta consapevolezza dell'imputato circa il contenuto del pacco contenente l'esplosivo, ricevuto nel locale pubblico ove egli lavorava. La Corte di appello ha arbitrariamente interpretato una conversazione oggetto di captazione ambientale intercorsa fra i coimputati Ca. e Sc., dalla quale si evince, invece, che Bi. non sapeva affatto di essere stato "usato" dal suo conoscente per tenere presso di sé dell'esplosivo. La sentenza ha poi omesso di considerare le testimonianze della moglie e dei suoceri del ricorrente, malgrado esse abbiano confermato che si trattava di uno scatolone aperto, che nella cucina del bar era ingombrante, all'interno del quale si vedeva un televisore. 17.2. Omessa motivazione con riferimento alla eccepita prescrizione dei reati. Considerato un errore materiale il riferimento al secondo comma dell'art. 99 cod. pen. nel capo d'imputazione, la prescrizione per entrambi i reati (detenzione illegale e porto illegale di esplosivo) è maturata prima della pronuncia della sentenza impugnata, come eccepito in una memoria difensiva con una deduzione alla quale la Corte di appello non ha dato risposta. CONSIDERATO IN DIRITTO I ricorsi proposti nell'interesse di Pe.Al. e Pe.Sa. vanno accolti limitatamente alla misura della pena inflitta e conseguentemente la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Perugia. Il ricorso di Bi.Lo. è fondato limitatamente al reato di detenzione di esplosivo, estinto per prescrizione già prima della sentenza di appello che pertanto va annullata senza rinvio con eliminazione della relativa pena. Il ricorso di Be.Ni. va rigettato perché proposto con motivi infondati. Sono inammissibili tutti gli altri i ricorsi perché proposti con motivi generici, non consentiti o manifestamente infondati. 1. Alcuni principi di diritto rilevanti. Pare opportuno richiamare preliminarmente alcuni principi di diritto che sono pertinenti ai fini della risoluzione di una serie di questioni poste nei ricorsi di vari imputati, in modo da evitare ripetizioni nell'esame delle singole posizioni. 1.1. In ordine a reiterate censure mosse alla struttura motivazionale della pronuncia impugnata, va evidenziato che dalla stessa si evince chiaramente che la Corte di merito ha puntualmente esaminato le doglianze difensive proposte con gli appelli, con una motivazione solo in parte per relationem, peraltro legittima quando - come nel caso di specie - risulta che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le ha ritenute coerenti con la propria decisione (Sez. U, n. 21/06/2000, Primavera, Rv. 216664; Sez. 1, n. 11168 del 18/02/2019, Caratelli, Rv. 274996; Sez. 2, n. 55199 del 29/05/2018, Salcini, Rv. 274252; Sez. 6, n. 53420 del 04/11/2014, Mairajane, Rv. 261839; Sez. 6, n. 48428 del 08/10/2014, Barone, Rv. 261248). Va poi ricordato che la sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, specie quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate e ampiamente chiarite nella pronuncia di primo grado (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv, 191229; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615). Pertanto, in presenza di una doppia conforme anche nell'iter motivazionale, il giudice di appello non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle partì e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale, egli spieghi in modo logico e adeguato le ragioni del proprio convincimento, dimostrando di aver tenuto presente i fatti decisivi. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le argomentazioni che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez, 6, n. 34532 del 22/06/2021, Depretis, Rv. 281935; Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Cammi, Rv. 277593; Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018, dep. 2019, C., Rv. 275853; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260841). Neppure la mancata enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo all'accertamento dei fatti che si riferiscono all'imputazione, determina la nullità della sentenza di appello per mancanza di motivazione se tali prove non risultano decisive e se il vaglio sulla loro attendibilità possa comunque essere ricavato per relationem dalla lettura della motivazione, circostanza riscontrabile nella sentenza impugnata, che ha esaminato ed espressamente confutato le deduzioni difensive negli aspetti fondamentali. In sede di legittimità, dunque, non è censurabile ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. la sentenza per il silenzio su una specifica doglianza proposta con il gravame, quando il suo rigetto risulti dalla complessiva struttura argomentativa della motivazione (Sez. 4, n. 5396 del 15/11/2022, dep. 2023, Lakrafy, Rv. 284096; Sez. 3, n. 43604 del 08/09/2021, Cincolà, Rv. 282097; Sez. 1, n. 12624 del 12/02/2019, Dulan, Rv. 275057; Sez. 5, n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, Curro, Rv. 275500; Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, Camello, Rv. 256340). Inoltre, la presenza di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nel provvedimento impugnato, qualora le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, non può comportare l'annullamento della decisione per vizio di motivazione, potendo lo stesso essere rilevante solo quando, per effetto di tale critica, all'esito di una verifica sulla completezza e globalità del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l'impianto della decisione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M., Rv. 271227; Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, dep. 2016, Perna, Rv. 267723; Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Reggio, Rv. 254988; Sez. 2, n. 37709 del 26/09/2012, Giarri, Rv. 253445). 1.2. Vari ricorsi hanno denunciato la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen., ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.; tuttavia, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, è inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione della suddetta norma per censurare l'omessa o erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o acquisibile, poiché i limiti all'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) dello stesso articolo nella parte in cui consente di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-04; Sez. 6 n. 4119 del 30/04/2019, dep. 2020, Romeo Gestioni Spa, Rv. 278196; Sez. 4, n. 51525 del 04/10/2018, M., Rv. 274191; Sez. 1, n. 42207 del 20/10/2016, dep. 2017, Pecorelli, Rv. 271294; Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567). Detta violazione, pertanto, può essere fatta valere soltanto nei limiti indicati dalla lettera e) della stessa norma, ossia come mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti specificamente indicati nei motivi di gravame. In vari ricorsi, però, il vizio di motivazione è stato denunciato con una generica deduzione, in contrasto con il principio secondo il quale i vizi della motivazione si pongono "in rapporto di alternatività, ovvero di reciproca esclusione, posto che - all'evidenza - la motivazione, se manca, non può essere, al tempo stesso, né contraddittoria, né manifestamente illogica e, per converso, la motivazione viziata non è motivazione mancante" (così Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518; nello stesso senso v. Sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015, Rugiano, Rv. 264535; Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alota, Rv. 263541; Sez. 6, n. 800 del 06/12/2011, dep. 2012, Bidognetti, Rv. 251528; Sez. 6, n. 32227 del 16/07/2010, T., Rv. 248037). Anche le Sezioni Unite, nella citata sentenza Filardo, hanno ribadito che "il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l'onere - sanzionato a pena di aspecificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso - di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione" (in senso conforme, da ultimo, v. Sez. 4, n. 8294 del 01/02/2024, Della Monica, Rv. 285870). 1.3. Numerosi ricorsi, in più motivi, pur avendo formalmente espresso censure riconducibili alle categorie del vizio di motivazione, non hanno effettivamente denunciato una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica, bensì una decisione erronea, in quanto fondata su una valutazione asseritamente sbagliata del materiale probatorio. Con varie argomentazioni, infatti, sono state proposte doglianze inerenti alla ricostruzione dei fatti, tese a sollecitare una rivalutazione del compendio probatorio in un senso stimato più plausibile; tuttavia, la valutazione dei dati processuali e la scelta, tra i vari risultati di prova, di quelli ritenuti più idonei a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento (Sez. 3, n. 17516 del 30/10/2018, dep. 2019, Di Francesco, Rv. 275596; Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D'Ippedico, Rv. 271623; Sez. 6 n. 13809 del 17/03/2015, O., Rv. 262965; Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362). Va ribadito, dunque, che è preclusa alla Corte di cassazione la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch'essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos, Rv. 283370; Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217). Anche da ultimo questa Corte ha precisato che il controllo sulla motivazione in sede di legittimità è circoscritto, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., alla "verifica di tre requisiti, la cui esistenza rende la decisione insindacabile e, pertanto, intangibile in sede di legittimità: 1) l'esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l'hanno determinata; 2) l'assenza di manifesta illogicità dell'esposizione, ossia la coerenza delle argomentazioni esposte rispetto al fine che le hanno determinate; 3) la non emersione di alcuni dei predetti vizi dal testo dell'atto impugnato o da altri atti del processo, se specificamente indicati nei motivi di gravame" (Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, Chen, Rv. 284556). Inoltre, perché sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione, la ricostruzione contrastante con il procedimento argomentativo del giudice deve essere inconfutabile, ovvia, e non rappresentare soltanto un'ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza, dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto - reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento a dati sostenibili, cioè desunti dai risultati probatori, e non a elementi meramente ipotetici seppur plausibili (Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, P., Rv. 281647; Sez. 2, n. 3817 del 09/10/2019, dep. 2020, Mannile, Rv. 278237; Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, Guernelli, Rv. 259204; Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C., Rv. 260409). 1.4. Diversi ricorsi hanno poi lamentato un travisamento della prova, delle "risultanze processuali" o "dei fatti". Il travisamento della prova, però, introdotto quale ulteriore criterio di giudizio della contraddittorietà estrinseca della motivazione dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, non costituisce il mezzo per valutare nel merito la prova, bensì lo strumento per saggiare la tenuta della motivazione alla luce della sua coerenza logica con i fatti sulla base dei quali si fonda il ragionamento. Ai fini della configurabilità del vizio del travisamento della prova è altresì necessario che la relativa deduzione abbia un oggetto chiaro e definito, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto; va escluso, pertanto, che integri il suddetto difetto un presunto errore nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima (Sez. U, n. 33583 del 26/03/2015, Lo Presti, Rv. 264481, non mass, sul punto; Sez. 1, n. 51171 del 11/06/2018, Piccirillo, Rv. 274478; Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, dep. 2018, Grancini, Rv. 272406; Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702; Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012, dep. 2013, Maggio, Rv. 255087). Detto vizio, inoltre, può avere rilievo solo quando l'errore sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale (Sez. 6, n. 8610 del 05/02/2020, P., Rv. 278457; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774). In caso di doppia conforme, il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo quando il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado ovvero qualora entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite, in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili (ossia in assenza di alcun discrezionale apprezzamento di merito), il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777; Sez. 6, n. 21015 del 17/05/2021, Africano, Rv. 281665; Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, Tassoni, Rv. 280155; Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L., Rv. 272018; Sez. 2, n. 7896 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217). 1.5. In vari ricorsi sono stati proposti motivi riguardanti questioni nuove non oggetto dei motivi di appello. Secondo il diritto vivente, alla luce di quanto disposto dall'art. 609, comma 2, cod. proc. pen., non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione, ad eccezione di quelle rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio e di quelle che non sarebbe stato possibile proporre in precedenza (Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, Tocco, Rv. 280306; Sez. 3, n. 27256 del 23/07/2020, Martorana, Rv. 279903; Sez. 3, n. 57116 del 29/09/2017, B., Rv. 271869; Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, Li Vigni, Rv. 269368). Pertanto, "deve ritenersi sistematicamente non consentita (non soltanto per le violazioni di legge, per le quali cfr. espressamente art. 606, comma 3, c.p.p.) la proponibilità per la prima volta in sede di legittimità, con riferimento ad un capo e ad un punto della decisione già oggetto di appello, di uno dei possibili vizi della motivazione con riferimento ad elementi fattuali richiamabili, ma non richiamati, nell'atto di appello: solo in tal modo è, infatti, possibile porre rimedio al rischio concreto che il giudice di legittimità possa disporre un annullamento del provvedimento impugnato in relazione ad un punto della decisione in ipotesi inficiato dalla mancata/contraddittoria/manifestamente illogica considerazione di elementi idonei a fondare il dedotto vizio di motivazione, ma intenzionalmente sottratti alla cognizione del giudice di appello. Ricorrendo tale situazione, invero, da un lato il giudice della legittimità sarebbe indebitamente chiamato ad operare valutazioni di natura fattuale funzionalmente devolute alla competenza del giudice d'appello, dall'altro, sarebbe facilmente diagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della sentenza d'appello con riguardo al punto della decisione oggetto di appello, in riferimento ad elementi fattuali che in quella sede non avevano costituito oggetto della richiesta di verifica giurisdizionale rivolta alla Corte di appello, ma siano stati richiamati solo ex post a fondamento del ricorso per cassazione" (così Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, Furlan, Rv. 276062, non mass, sul punto). Va poi precisato che la questione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra tra quelle su cui la Suprema Corte può decidere ex art. 609 cod. proc. pen. e, pertanto, può essere dedotta per la prima volta con il ricorso per cassazione purché per la sua soluzione non siano necessari accertamenti di fatto, cosicché il giudice di legittimità può procedere alla riqualificazione giuridica solo quando esso è stato storicamente ricostruito dai giudici di merito (cfr. Sez. 2, n. 1462 del 30/01/2018, Lunardi, Rv. 272091; Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272651; Sez. 5, n. 23391 del 17/03/2017, Alama, Rv. 270144; Sez. 1, n. 3763 del 15/11/2013, dep. 2014, Torrisi, Rv. 258262; Sez. 6, n. 6578 del 25/01/2013, Piacentini, Rv. 254543). 2. Le intercettazioni. Come si vedrà, le risultanze delle molteplici intercettazioni (di conversazioni telefoniche o tra presenti) hanno avuto un rilievo fondamentale nella decisione dei giudici di merito soprattutto quale riscontro alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Ma.Sc. e Ga.Ab., fonti di prova primarie quanto al reato associativo. È opportuno ricordare, allora, che l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia'criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, non può essere sindacata dalla Corte di cassazione se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite. In questa sede, dunque, è possibile prospettare una interpretazione del significato di una intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il contenuto sia stato indicato in modo difforme da quello reale e la difformità risulti decisiva e incontestabile (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715; Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, Rv. 268389; Sez. 3, n. 35593 del 17/05/2016, Folino, Rv. 267650; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258164). È consolidato anche il principio secondo cui gli elementi di prova raccolti nel corso delle intercettazioni di conversazioni alle quali non abbia partecipato l'imputato costituiscono fonte di prova diretta, soggetta al generale criterio valutativo del libero convincimento razionalmente motivato, senza che sia necessario reperire dati di riscontro esterno, con l'avvertenza che, ove tali elementi abbiano natura indiziaria, essi dovranno essere gravi, precisi e concordanti, come disposto dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 5224 del 02/10/2019, dep. 2020, Acampa, Rv. 278611; Sez. 5, n. 40061 del 12/07/2019, Valorosi, Rv. 278314; Sez. 5, n. 4572 del 17/07/2015, dep. 2016, Ambroggio, Rv. 265747; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260842). Il medesimo principio è stato affermato anche in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso (Sez. 6, n. 32373 del 04/06/2019, Aiello, Rv. 276831, non mass, sul punto; Sez. 5, n. 48286 del 12/07/2016, Cigliola, Rv. 268414; Sez. 5, n. 42981 del 28/06/2016, Modica, Rv. 268042; Sez. 1, n. 40006 del 11/04/2013, Vetro, Rv. 257398). Avuto specifico riguardo al reato ex art. 416 - bis cod. pen., la Corte di cassazione ha affermato che "i contenuti informativi provenienti da soggetti intranei all'associazione mafiosa, frutto di un patrimonio conoscitivo condiviso derivante dalla circolazione all'interno del sodalizio di informazioni e notizie relative a fatti di interesse comune degli associati (...) sono utilizzabili in modo diretto, e non come mere dichiarazioni de relato soggette a verifica di attendibilità della fonte primaria" (così Sez. 2, n. 10366 del 06/03/2020, Muià, Rv. 278590; da ultimo, in senso esattamente conforme, v. Sez. 2, n. 48448 del 31/10/2023, Genovese, Rv. 285587), con la precisazione che, qualora gli associati abbiano evocato dati appresi da altre persone, il giudice, pur non essendo tenuto ad applicare la disciplina di cui all'art. 195 ccd. proc. pen., deve valutare rigorosamente la genuinità delle affermazioni captate e, laddove persistano dubbi, deve individuare elementi di riscontro (Sez. 2, n. 32569 del 16/06/2023, Aguì, Rv. 284980). Nel caso di specie, a fronte della chiarezza delle espressioni utilizzate nelle conversazioni intercettate, in vari ricorsi si è proposta una lettura del loro significato alternativa a quella dei giudici di merito, inammissibile in assenza di una interpretazione manifestamente illogica o irragionevole. 3. Le chiamate in correità. Il tema delle chiamate in correità di Ma.Sc. e Ga.Ab. è stato affrontato ampiamente nelle sentenze del Tribunale (pagg. 39 - 46) e della Corte d'appello (pagg. 173 - 182), che hanno richiamato principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità applicandoli al caso concreto, a partire da quello statuito dalle Sezioni Unite Marino (n. 1653 del 21/10/1992, dep. 1993, Rv. 192465) circa la valutazione "a tre tempi" del giudice di merito, chiamato a verificare: la credibilità del dichiarante, desunta dalla sua personalità, dalle sue condizioni socio - economiche e familiari, dal suo passato, dai rapporti con il chiamato, dalla genesi remota e prossima delle ragioni che lo hanno indotto all'accusa nei confronti del chiamato; l'attendibilità intrinseca della chiamata, in base ai criteri della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; la presenza di elementi estrinseci di riscontro alla stessa. Quanto al primo aspetto, il tentativo di minare la credibilità dei due dichiaranti alla luce del loro pregresso percorso criminale e dell'assenza di una effettiva resipiscenza si scontra con il principio, pure richiamato nella sentenza impugnata, secondo il quale, in tema di dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, il cosiddetto pentimento, collegato nella maggior parte dei casi a motivazioni utilitaristiche e all'intento di conseguire vantaggi di vario genere, non presuppone una metamorfosi morale del soggetto già dedito al crimine, capace di fondare un'intrinseca attendibilità delle sue propalazioni: ne consegue che l'indagine sulla credibilità del collaboratore deve essere compiuta dal giudice non tanto facendo leva sulle qualità morali della persona - e quindi sulla genuinità del suo pentimento - quanto sulle ragioni che possono averlo indotto alla collaborazione e sulla valutazione dei suoi rapporti con i chiamati in correità, oltre che sulla precisione, coerenza, costanza e spontaneità delle sue dichiarazioni (Sez. 1, n. 5438 del 07/11/2019, dep. 2020, Birra, Rv. 278470; Sez. 6, n. 46483 del 30/10/2013, Scognamiglio, Rv. 257389; Sez. 5, n. 50589 del 30/09/2013, Martinelli, Rv. 257832; Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012, Ritorto, Rv. 253709). Laddove sia emerso un interesse concreto a rendere dichiarazioni etero - accusatorie inquinate, per malanimo, astio, rancore o intese collusive, tale da rendere legittimo il sospetto concreto di inattendibilità delle propalazioni accusatorie, il giudice deve usare maggiore cautela e applicare con criterio di rigore gli ulteriori parametri valutativi offerti dall'esperienza e dalla logica (Sez. 6, n. 48320 del 12/04/2022, Manna, Rv. 284074), compito al quale il Tribunale e la Corte di appello si sono comunque attenuti, pur avendo radicalmente escluso la presenza di indici sintomatici di un intento calunnioso in capo a Sc. e ad Ab., non desumibili neppure dal loro pregresso contrasto con Pe. "in ragione dell'iniziale mancata spartizione dei guadagni relativi alla vicenda As.", poi risoltosi, a dire degli stessi collaboratori, "come peraltro attestato dalla prosecuzione dell'attività criminale in comune, nel rispetto dei patti" (pagg. 43 - 44 della sentenza di primo grado). Logicamente i giudici di merito hanno evidenziato che i due dichiaranti hanno in primo luogo accusato sé stessi, confessando anche reati del tutto ignoti all'autorità giudiziaria: per i fatti per cui è processo Sc. ed Ab., ad esito del giudizio abbreviato, sono stati condannati alle pene, rispettivamente, di sei anni e sei mesi di reclusione e di cinque anni, cinque mesi e dieci giorni di reclusione, con sentenza divenuta irrevocabile il 15 maggio 2015 (Sez. 6, n. 31304 del 2015). Quanto all'attendibilità intrinseca, è incensurabile la valutazione espressa nelle due sentenze circa la costanza e la precisione delle dichiarazioni rese dai due collaboratori, l'assenza di sostanziali modifiche nel loro nucleo essenziale, le fisiologiche incertezze o contraddizioni su aspetti marginali in ragione del tempo trascorso e della mole di episodi riferiti da Sc. e da Ab. nel corso dell'esame dibattimentale, protrattosi rispettivamente per otto e per tre udienze. La sentenza impugnata ha ribadito la inesistenza di una intesa fraudolenta fra i due dichiaranti, finalizzata ad accusare terzi, e di una contaminazione fra le loro dichiarazioni, evidenziando i tempi diversi dell'inizio della loro collaborazione e le modalità dei due contatti avuti nel carcere di Pesaro ove vennero ristretti nell'ottobre del 2009, dopo il loro arresto: i colloqui furono appositamente favoriti e intercettati dagli inquirenti per captare i primi commenti dopo l'esecuzione delle misure cautelari; agli atti vi sono le relative trascrizioni, dalle quali, evidentemente, non è emersa alcuna collusione fra i due, considerato che le difese, per ipotizzare un accordo, hanno evocato solo il dato storico degli incontri fra Sc. ed Ab. e non già il contenuto dei colloqui. Risulta pertinente, dunque, il principio secondo il quale le dichiarazioni accusatorie rese da imputati dello stesso reato, per costituire prova, possono anche riscontrarsi reciprocamente, quando esse siano dotate di intrinseca attendibilità, soggettiva e oggettiva, e - in assenza di specifici elementi di sospetto di accordi fraudolenti o reciproche suggestioni - siano concordanti nel loro nucleo essenziale, essendo irrilevanti eventuali divergenze relative solo a elementi circostanziali del fatto (Sez. 1, n. 10561 del 28/10/2020, dep. 2021, Scicchitano, Rv. 280741). Peraltro - come si vedrà - per numerosi episodi le dichiarazioni di Sc., promotore e capo del sodalizio, sono riscontrate non dalle dichiarazioni di Ab., agli stessi estraneo, ma da riscontri di diversa natura. Proprio il tema dei riscontri è stato enfatizzato nella sentenza impugnata, che ne ha sottolineato la molteplicità e rilevanza, avuto riguardo soprattutto alla mole di conversazioni intercettate all'oscuro degli interlocutori, oltre che, in alcuni casi, alle dichiarazioni delle persone offese, alle ammissioni degli imputati (non ricorrenti in relazione all'affermazione di responsabilità per diversi reati), all'attività di osservazione della polizia giudiziaria, all'esito di perquisizioni, alle risultanze dei tabulati telefonici. In proposito va ricordato che le Sezioni Unite, nella sentenza Aquilina (n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Rv. 255145), richiamando la valutazione "a tre tempi" del giudice di merito richiesta nella sentenza Marino, hanno precisato che "detta sequenza non deve essere - per così dire - rigorosamente rigida, nel senso cioè che il percorso valutativo dei vari passaggi non deve muoversi lungo linee separate. In particolare, la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto, influenzandosi reciprocamente, al pari di quanto accade per ogni altra prova dichiarativa, devono essere valutate unitariamente, "discendendo ciò dai generali criteri epistemologici e non indicando l'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., sotto tale profilo, alcuna specifica regola derogatoria" (...) In sostanza, devono essere superate eventuali riserve circa l'attendibilità del narrato, vagliandone la valenza probatoria anche alla luce di tutti gli altri elementi di informazione legittimamente acquisiti" (in senso conforme, successivamente, cfr. Sez. 1, n. 22633 del 05/02/2014, Pagnozzi, Rv. 262348 nonché Sez. 4, n. 34413 del 18/06/2019, Khess, Rv. 276676). Inoltre, le dichiarazioni accusatorie che non costituiscono la prova principale della penale responsabilità degli accusati, bensì mera integrazione e conferma di altre prove di diversa ed autonoma natura, richiedono una verifica meno rigorosa e non esigono riscontri esterni ulteriori (Sez. 6, n. 40144 del 11/07/2019, Vadacca, Rv. 277368; Sez. 1, n. 48421 del 19/06/2013, Strano, Rv. 257972). I giudici di merito hanno applicato con rigore questi principi; già il Tribunale, ad esempio, è pervenuto all'assoluzione degli imputati chiamati in correità da Sc. per i tentativi di incendio del night club "Eden" (capi 29 e 30) e per la detenzione di cocaina (capo 7), dopo avere ritenuto le dichiarazioni del collaboratore del tutto genuine, ma riscontrato l'assenza di riscontri esterni individualizzanti. 4. L'associazione di tipo mafioso. Per il reato associativo, contestato al capo 40, sono stati condannati Pe., con ruolo apicale, Be., Ca., Ma., Pe., Po. e Ri., quali partecipi. I ricorsi di Ca. e Ma. non hanno ad oggetto il suddetto capo, mentre Po. ha contestato soltanto la ritenuta sua partecipazione all'associazione e Ri. ha proposto solo con il ricorso il motivo sulla insussistenza della mafiosità della stessa, cosicché i motivi scrutinabili in questa sede in ordine alla esistenza di un sodalizio ex art. 416 - bis cod. pen. sono esclusivamente quelli proposti negli altri tre ricorsi (Be., Pe. e Pe.), peraltro in buona parte comuni, circostanza che consente una trattazione unitaria del tema. La sentenza impugnata, riassunta la motivazione sul punto del Tribunale, ha svolto ampie argomentazioni per disattendere le censure svolte negli atti di appello (pagg. 183 - 209), in larga parte riproposte nei ricorsi, senza incorrere in violazione di legge o in una motivazione illogica o contraddittoria. Alcuni ricorsi hanno evocato la sentenza Modaffari delle Sezioni Unite (n. 36958 del 27/05/2021, Rv. 281889) là dove si è ribadito che il cardine della fattispecie di cui si tratta "è la forza di intimidazione: ciò che viene in rilievo non è, dunque, un qualunque atteggiamento, pur se sistematico, di sopraffazione o di prevaricazione, ma una vis che, promanante dal vincolo associativo, è capace di generare una condizione di assoggettamento e di omertà (....). Si tratta, in altre parole, di una carica intimidatoria, spesso identificata come "fama criminale", che rappresenta una sorta di "avviamento" grazie al quale l'organizzazione mafiosa proietta le sue attività nel futuro. Geneticamente, quindi, la forza deve essere riferita all'associazione in quanto tale e deve connotare la struttura in sé, diventandone una qualità ineludibile, in grado di imporsi autonomamente (...). La consorteria deve, infatti, potersi avvalere della pressione derivante dal vincolo associativo, nel senso che è l'associazione e soltanto essa, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei singoli associati, ad esprimere il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione che rappresenta l'elemento strumentale tipico del quale gli associati si servono in vista degli scopi propri dell'associazione (...). L'assoggettamento e l'omertà, pur essendo in concreto difficilmente scindibili in quanto il primo costituisce la naturale premessa della seconda, assumono in astratto una precisa autonomia concettuale: per assoggettamento, infatti, deve intendersi lo stato di sottomissione alla volontà del gruppo e al suo potere; per omertà, invece, il rifiuto, dettato essenzialmente dal timore di vendette e di ritorsioni, a collaborare con gli organi dello Stato in situazioni che non necessariamente devono assumere i caratteri dell'assolutezza e dell'invincibilità". La Corte di appello ha ben considerato detti principi, calandoli nella situazione specifica, contrassegnata dalla presenza di una "mafia atipica". La giurisprudenza di legittimità è da tempo consolidata nel senso che il reato previsto dall'art. 416 - bis cod. pen. è configurabile non solo in relazione alle mafie cosiddette tradizionali, consistenti in grandi associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti e in grado di assicurare l'assoggettamento e l'omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma anche con riguardo alle cosiddette mafie atipiche, costituite da piccole organizzazioni con un basso numero di appartenenti, non necessariamente armate, che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività avvalendosi del metodo mafioso da cui derivano assoggettamento ed omertà. Non è necessaria, dunque, la prova che la forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento, essendo sufficiente, invece, che l'organizzazione abbia conseguito fama criminale, utilizzando metodologie proprie di sodalizi di stampo mafioso, e che abbia manifestato una concreta e reale capacità di intimidazione effettivamente percepita come tale, così producendo un assoggettamento omertoso nell'ambito oggettivo e soggettivo, pur eventualmente circoscritto, in cui opera (Sez. 2, n. 10255 del 29/11/2019, dep. 2020, Fasciani, Rv. 278745; Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555; Sez. 1, n. 51489 del 29/11/2019, Albanese, Rv. 277913; Sez. 5, n. 26427 del 20/05/2019, Forieri, Rv. 276894; Sez. 5, n. 44156 del 13/06/2018, S., Rv. 274120). Anche in recentissime pronunce, questa Corte, aderendo ai suddetti principi, ha ribadito che, ai fini della qualificazione ai sensi dell'art. 416 - bis cod. pen. di una nuova e autonoma formazione criminale con tali caratteristiche, è necessario accertare se il sodalizio: a) abbia conseguito fama e prestigio criminale autonomi e distinti da quelli personali dei singoli partecipi, in guisa da esser capace di conservarli anche nel caso in cui questi ultimi fossero resi innocui; b) abbia in concreto manifestato capacità di intimidazione, ancorché non necessariamente attraverso atti di violenza o di minaccia, nell'ambito oggettivo e soggettivo, pur eventualmente circoscritto, di sua effettiva operatività; c) abbia manifestato una capacità di intimidazione effettivamente percepita come tale e abbia conseguentemente prodotto un assoggettamento omertoso nel territorio in cui l'associazione è attiva (cfr. Sez. 2, n. 2159 del 24/11/2023, dep. 2024, Casamonica, Rv. 285908; Sez. 6, n. 14444 del 21/02/2023, P., Rv. 284579; Sez. 2, n. 11118 del 20/12/2022, dep. 2023, Casamonica, Rv. 284339: con questa ultima pronuncia la Corte ha annullato la decisione con cui si era ritenuta necessaria, per ravvisare la mafiosità del sodalizio, l'esistenza di una condizione di assoluta omertà nel territorio di riferimento). I giudici di merito hanno evidenziato che le vittime delle estorsioni e degli altri fatti delittuosi, pur consapevoli - alcuni di loro - della fama criminale di Sc. e Pe., con i quali in passato avevano avuto rapporti di vario genere, colsero la presenza e subirono la forza di intimidazione di un gruppo più vasto, organizzato, determinato, armato, in ragione dapprima dell'ingresso di vari altri soggetti (Ca., Po., Ri., Pe. e Ma.) e poi della fusione con il sodalizio capeggiato da Ab.. In questo senso la sentenza impugnata ha legittimamente inquadrato la partecipazione di più componenti dell'unico sodalizio alle "spedizioni punitive" (magari in presenza anche di un affiliato di un gruppo potenzialmente rivale, come nel caso del pestaggio di Da.) come elemento confermativo del fatto che le persone offese, in larga parte gravitanti nel medesimo o in affini settori imprenditoriali, percepivano le intimidazioni e le violenze come provenienti da un gruppo criminale che faceva ricorso sistematico al metodo mafioso, analizzato dai giudici di merito alla luce delle concrete emergenze e dello specifico atteggiarsi dell'associazione in quel determinato ambito sociale e territoriale. Proprio l'utilizzo costante di detto metodo, riscontrato nella commissione dei reati - fine con motivazione incensurabile (come si vedrà), è stato l'elemento dirimente per i giudici di merito al fine di riconoscere il carattere mafioso dell'associazione: "a qualificarla in tal senso non è la "mafiosità" del singolo o dei singoli, ma è il "modo di essere e di fare" che individua il tratto che rende quella associazione "speciale" rispetto alla comune associazione per delinquere e che rappresenta il coefficiente di disvalore aggiunto che giustifica il più grave trattamento sanzionatorio" (pag. 198 della sentenza impugnata). Risultano infondate, dunque, le censure difensive volte a evidenziare l'ambito territoriale ristretto in cui avrebbe operato il sodalizio, che pure - come già evidenziato dal Tribunale e ribadito nella sentenza impugnata (pag. 188) -rivolse "le proprie mire a danno dei componenti di una certa collettività", quali i titolari di locali notturni, ristoranti, stabilimenti balneari ovvero commercianti di autovetture, commettendo i più rilevanti reati - fine (estorsioni o incendi per ottenere il "pizzo" per la protezione ai locali o per beneficiare dei proventi dell'attività illecita altrui ovvero per recuperare dei crediti) che sono quelli tipici di un sodalizio mafioso. Tutti i ricorrenti che hanno trattato questo tema hanno enfatizzato la circostanza della breve durata del sodalizio, ma ciò hanno fatto come se tutto fosse nato in occasione del più volte evocato incontro alla "Tazza d'oro", nella primavera del 2009, che suggellò l'unione del gruppo capeggiato da Ma.Sc. e Pe.Sa. (la cui alleanza risaliva ad un periodo precedente, tra la fine del 2008 e gli inizi del 2009) con quello sambenedettese di Ga.Ab.. Si trattò, evidentemente, di un "salto di qualità" - come già sottolineato dal Tribunale (pag. 378) - ma l'associazione poteva in quel momento già contare su uomini, mezzi e organizzazione. In proposito si è da ultimo affermato che la finalità di "commettere delitti" ex art. 416 - bis cod. pen. coincide con lo "scopo di commettere più delitti" di cui al precedente art. 416, cosicché "la sola sussistenza, anche sopravvenuta, del metodo mafioso di cui si avvalgono strumentalmente i sodali per la perpetrazione dei reati - fine vale, già di per sé, a qualificare come mafiosa un'associazione, anche preesistente" (così Sez. 2, n. 2159 del 24/11/2023, dep. 2024, cit.). L'interruzione dell'attività del gruppo criminale fu poi causata solo dall'arresto o dal fermo dei capi e di alcuni partecipi (Sc., Pe., Pe., Ab. e Ma.), avvenuti fra il 30 settembre e il 9 ottobre 2009, dopo che Po. era stato arrestato all'inizio di agosto, e ovviamente non era stata preventivata dagli imputati, che pure avevano ipotizzato azioni eclatanti dimostrative della forza dell'associazione con l'utilizzo dell'armamento a disposizione (armi da guerra e da fuoco, chili di esplosivo, una granata) al fine di rimarcare il proprio predominio criminale nella zona, come risulta dalle coerenti e precise dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia, rilevanti per comprendere la effettiva natura del sodalizio. La difesa di Pe., sulla base di una lettura solo parziale di una conversazione intercettata il 2 agosto 2009, ha evidenziato che l'imputato si immaginava soltanto la possibilità di "formare un bel gruppo"; da essa, invece, con logica e incensurabile interpretazione, i giudici di merito hanno tratto ben diverse conclusioni: "Pe. afferma: "ci conoscono" con ciò dando ad intendere che il gruppo aveva acquisito una notorietà criminale tale da incutere notevole timore nei settori operativi di interesse e dal dissuadere le vittime a denunciare i misfatti, soggetti com'erano alle ritorsioni degli altri sodali dell'associazione, se il denunciato fosse stato tolto di mezzo perché arrestato; detta risultanza è indicativa dell'esteriorizzazione della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà derivatane. In secondo luogo Pe. fornisce la dimostrazione della continuità dell'associazione criminale e della persistenza del vincolo associativo, a prescindere dalle pause di operatività a cui fosse stato costretto il singolo associato tratto in arresto" (nota 35 a pag. 185 della sentenza impugnata). Altrettanto parziale è stata la lettura della deposizione resa in dibattimento da Me. là dove si è richiamata la sola circostanza, riferita dal teste, che Sc. si fosse raccomandato con lui di non consegnare alcuna somma di denaro a Pe., se questi gliela avesse chiesta: ciò avrebbe dimostrato che la persona offesa non poteva certo immaginare che i due facessero parte della stessa associazione. La Corte di appello, però, ha ricordato che Me. ha dichiarato che dalla primavera del 2009 Sc. cominciò ad accompagnarsi con Pe., presentatogli come "un suo nuovo socio in affari", facendogli capire che l'altro "era in affari con lui per estorcere denaro; la circostanza che Pe. i soldi non glieli avesse mai chiesti non dipendeva dal fatto che non avesse "titolo" per farlo (un titolo ovviamente contrario all'ordine pubblico per illiceità della causa), perché Me., se del caso, avrebbe dovuto semplicemente rispondere a Pe. che non aveva i soldi, non che non avesse l'autorità per pretenderli" (pag. 199). Il fatto che Sc. intendesse garantirsi anche profitti esclusivamente personali (come successo pure nella vicenda della estorsione in danno degli As.) non è di per sé incompatibile con la sussistenza del sodalizio mafioso. A fronte di elementi dimostrativi della forza di intimidazione del gruppo, specificamente indicati nella sentenza impugnata, è privo di rilievo il riferimento anche a elementi neutri, quali l'entità della violenza ovvero l'avere agito gli autori dei delitti a volto scoperto. La Corte territoriale, a proposito della condizione di assoggettamento e di omertà delle vittime, ha poi confermato "come la scelta di non denunciare non dipendesse dalla pochezza del torto ricevuto, ma dal notevole timore delle conseguenze a cui sarebbero andati incontro, convincimento viepiù desumibile dalle giustificazioni pretestuose rese da molte vittime sul perché non si fossero rivolte alle forze dell'ordine: Ri. precisava che la richiesta di intervento delle ff.oo. sarebbe stata una scelta che mal avrebbe influito sulla sua attività economica; Ce. minimizzava perché la vicenda si era limitata alla "rottura di un paio d'occhiali"; Ar. chiariva di essere persona che "desidera stare tranquilla" e di non volere seccature; Ri., pur avendo dichiarato di conoscere le potenzialità criminali dei suoi aguzzini, si giustificava affermando di sapere di essere "in difetto"; Me., il quale, di fronte alla minaccia di ricevere lo stesso trattamento del "Co.", si apprestò a saldare le sue pendenze, senza nemmeno pensare di rivolgersi alla polizia; Ca. dichiarava di aver pagato senza praticamente ricevere alcuna minaccia da parte di Sc. (e quando mai un soggetto si decide a farlo se non ha un debito verso il pretendente?); Da. perfino negava di essere stato anche solo colpito, circostanza risultante dalle dichiarazioni di buona parte degli odierni imputati a cui è contestato il delitto di cui al capo 21" (pag. 202). I ricorsi di Be., Pe. e Pe. sono sul punto reiterativi di doglianze già disattese con adeguate argomentazioni dalla Corte territoriale, che ha ben evidenziato le tipiche modalità mafiose con le quali agirono gli associati nei confronti delle vittime, quasi tutte piegatesi alle richieste estorsive. Ro., dopo avere subito un delicato intervento chirurgico, si decise a denunciare le minacce e violenze ricevute solo perché sottoposto a continue e pressanti richieste di denaro, proseguite incessantemente dopo l'episodio del 28 agosto 2009, mentre Me. non si rivolse alle forze dell'ordine, ma si limitò a rispondere a domande degli inquirenti che lo sentirono a sommarie informazioni testimoniali dopo le indicazioni ricevute da una fonte confidenziale. Il fatto che qualche persona offesa gestisse affari illeciti o potesse avere tratto vantaggio dai delitti commessi dagli associati non inficia affatto - ha logicamente affermato la sentenza impugnata - la valutazione sulla condizione di assoggettamento e omertà delle vittime, che in alcuni casi si rivolsero loro per recuperare crediti nei confronti di debitori insolventi o per ottenere la liberazione di un immobile di proprietà: ciò "non faceva che incrementare la pericolosità del gruppo e la sua forza di intimidazione perché l'esecuzione degli incarichi delittuosi (quali incendi ed aggressioni) su mandato dell'estorto costituisce un'arma di ricatto da parte dell'associazione, da usare nei confronti del mandante per richieste estorsive sempre maggiori". Emblematico il caso dell'aumento del "pizzo" mensile preteso dal gruppo dopo l'esecuzione di incendi, quando Me. comprese che, se non avesse pagato, avrebbe "fatto la stessa fine del Co.. Questa contiguità di interessi illeciti tra estorti ed estorsori finisce per rinsaldare il legame perverso tra persecutori e vittime, indotte ad assecondare le richieste estorsive, ben sapendo a cosa sarebbero andate incontro se avessero resistito ed essendo ormai prive della libertà morale di denunciare i soprusi" (pag. 205). Anche la isolata reazione di Pa., il quale, sfuggito all'agguato del 1 settembre 2009 (preparato dal gruppo, che intendeva recuperare un credito vantato da Eg.Te.), si scontrò duramente con Pe. in una conversazione telefonica, è stata dai giudici di merito collocata nel particolare contesto di uno scontro fra uno dei capi del sodalizio e un soggetto che voleva mantenere la fama di un "duro" dei quartieri spagnoli di Napoli. Numerose, infine, sono le conversazioni intercettate valorizzate nelle due sentenze di merito a conforto della valutazione sulla condizione di assoggettamento delle vittime e sulla omertà loro e degli stessi associati, come dimostrato - ha evidenziato la Corte di appello - anche dalla conversazione tra Ca. e la fidanzata quando il primo si disse sicuro che Po., arrestato il 5 agosto 2009 per la detenzione di una pistola mitragliatrice, non avrebbe parlato né fatto i nomi dei complici perché aveva "troppa paura" (pag. 208). In effetti Po. si avvalse della facoltà di non rispondere (pag. 58 della sentenza di primo grado). 5. Le aggravanti ex art. 416 - bis.1 cod. pen.. In relazione ai reati indicati nei capi attinti dai ricorsi sono state riconosciute le due circostanze aggravanti del metodo mafioso e dell'agevolazione mafiosa per le estorsioni e l'incendio e soltanto la seconda per i delitti in materia di armi. Va premesso che il primo comma dell'art. 416 - bis.1 cod. pen., secondo il quale la pena è aumentata da un terzo alla metà per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo "commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo", prevede indubbiamente due distinte circostanze aggravanti, erroneamente considerate, invece, dai giudici di merito quali una unica aggravante, rilevante sotto il profilo oggettivo e per quello finalistico. La precisazione è importante perché nel trattamento sanzionatorio il Tribunale ha considerato una unica circostanza, cosicché risultano privi di interesse i motivi di ricorso che censurano l'applicazione di una sola delle due aggravanti, quando contestate e applicate entrambe. Secondo giurisprudenza consolidata (di recente v. Sez. 4, n. 5136 del 02/02/2022, Arlotta, Rv. 282602), l'aggravante del metodo mafioso, in quanto riferita alle modalità di realizzazione dell'azione criminosa, ha natura oggettiva ed è valutabile a carico di tutti i concorrenti che siano stati a conoscenza dell'impiego del metodo mafioso ovvero l'abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa, alla luce di quanto disposto dall'art. 59, secondo comma, cod. pen. (per il medesimo principio affermato con riferimento alla circostanza aggravante di cui all'art. 416 - bis, sesto comma, cod. pen. v. Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, Rv. 259589). Le Sezioni Unite hanno statuito che, a differenza di quella del metodo mafioso, l'aggravante dell'agevolazione ha natura soggettiva e richiede la sussistenza del dolo specifico di agevolare l'organizzazione criminale di riferimento, finalità che però non presuppone necessariamente l'intento del consolidamento o rafforzamento del sodalizio criminoso; l'agente deve quindi deliberare l'attività illecita nella convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa, fondando tale rappresentazione su elementi concreti, inerenti, in via principale, all'esistenza di un gruppo associativo avente le caratteristiche di cui all'art. 416 - bis cod. pen. e all'effettiva possibilità che l'azione illecita si inscriva tra le possibili utilità ricavabili da tale compagine, anche se non essenziali, secondo la valutazione del soggetto agente, non necessariamente coordinata con i componenti dell'associazione (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, Chioccini, Rv. 278734). Entrambe le circostanze sono configurabili anche con riferimento ai reati - fine commessi dagli appartenenti all'associazione mafiosa, come affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, Cinalli, Rv. 218377; Sez. 6, n. 46007 del 06/07/2018, D'Ambrosca, Rv. 274280; Sez. 2, n. 20935 del 07/04/2017, Ariostini, Rv. 269642; Sez. 6, n. 9956 del 17/06/2016, dep. 2017, Accurso, Rv. 269717; Sez. 1, n. 3137 del 19/12/2014, dep. 2015, Terracchio, Rv. 262486). Sono infondati, evidentemente, i motivi con i quali è stata contestata la ritenuta sussistenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa laddove proposti sulla base della inesistenza del sodalizio mafioso. In ordine a quella del metodo mafioso, riservata all'esame dei motivi riguardanti il punto la valutazione specifica delle singole censure, può sin d'ora essere ricordato il principio secondo il quale detta aggravante è configurabile quando si ponga in essere un comportamento minaccioso tale da richiamare alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio mafioso e da esercitare sulle vittime del reato una particolare coartazione psicologica (v. Sez. 5, n. 14867 del 26/01/2021, Marciano, Rv. 281027; Sez. 5, n. 22554 del 09/03/2018, Marando, Rv. 273190; Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, Rv. 271102; Sez. 2, n. 45321 del 14/10/2015, Capuozzo, Rv. 264900). In generale, la motivazione della sentenza impugnata è stata dettagliata là dove ha evidenziato le plurime circostanze che consentono di ricondurre le modalità delle azioni del sodalizio a un protocollo operativo tipico delle organizzazioni mafiose, "circostanze idonee ad esercitare quella maggiore incisività che la condotta intimidatoria, posta in essere con metodo mafioso, ha nei confronti della libera determinazione della vittima" (pag. 215). 6. Ricorso Am.. L'imputato è stato condannato per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo, contestati ai capi 1, 2 e 3. 6.1. Senza alcun fondamento il ricorrente ha denunciato la mancanza e illogicità della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità. Nelle ampie argomentazioni della sentenza impugnata (pagg. 215 - 220) non sono riscontrabili i suddetti vizi. Per contro, il ricorso in larga parte non si è confrontato con la motivazione, risultando generico: va ribadito che sono inammissibili i motivi che riproducono le censure dedotte in appello e che contestino, in termini meramente assertivi e apodittici, la correttezza della sentenza impugnata, laddove difettino di una critica puntuale al provvedimento e non prendano in considerazione, per confutarle in fatto e in diritto, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non sono stati accolti (v., ad es., Sez. 6, n. 23014 del 29/04/2021, B., Rv. 281521; Sez. 6, n. 17372 del 08/04/2021, Cipolletta, Rv. 281112; Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Ro., Rv. 276970; Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710). La difesa non ha censurato la valutazione della Corte di appello sull'attendibilità di Sc., le cui dichiarazioni sono state particolarmente puntuali anche in ordine al ruolo svolto da Am. nella cessione della mitraglietta (capo 1) e nella detenzione dell'esplosivo (capi 2 e 3), ma ha sostenuto che le stesse non sarebbero riscontrate (per il primo episodio) ovvero lo sarebbero apparentemente (per gli altri due), stante la circolarità del riscontro costituito dalle dichiarazioni di Pe.. Il ricorrente, però, ha del tutto obliterato i diversi riscontri specificamente indicati nella sentenza impugnata, costituiti dalle risultanze delle intercettazioni e dei tabulati telefonici, che hanno confermato pienamente l'attendibilità delle dichiarazioni auto - accusatorie ed etero - accusatorie del collaboratore, secondo la puntuale valutazione dei giudici di merito. La sentenza non ha considerato espressamente le dichiarazioni spontanee rese in appello dal coimputato Ca., ma le ha implicitamente ritenute ininfluenti, come si evince dalla complessiva struttura argomentativa della motivazione (sul punto v. quanto detto sub par. 1.1.). Peraltro, le dichiarazioni rese tardivamente da un soggetto sottrattosi all'esame in contraddittorio non sono idonee a svalutare ed alterare il quadro probatorio complessivamente considerato e, in particolare, l'efficacia probatoria di una chiamata in correità purché sorretta - come nel caso di specie - da ampi e pregnanti riscontri (v. Sez. 2, n. 30653 del 24/09/2020, Capasso, Rv. 279911 nonché Sez. 1, n. 25239 del 20/05/2001, Mitici, Rv. 219432). 6.2. Il motivo inerente alla circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa non era stato proposto in appello e quindi non era consentito, come osservato in precedenza (sub par. 1.5.). 6.3. Il ricorso, pertanto, è inammissibile. La inammissibilità della impugnazione si estende ai motivi nuovi, ai sensi dell'art. 585, comma 4, del codice di rito. 7. Ricorso Be.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo (capo 40), per l'estorsione consumata in danno di Ezio As. e di Ed.As., gestori del locale "Babaloo" e di molti altri (capo 19) e per le tentate estorsioni nei confronti di Ma.Pa. (capo 20) e di Gi.Ne. (capo 22). 7.1. Della infondatezza del motivo inerente alla mafiosità dell'associazione si è trattato in precedenza (sub par. 4.). 7.2. Il motivo inerente all'applicazione della circostanza aggravante del metodo mafioso per le tre estorsioni è assai generico, a fronte delle specifiche argomentazioni svolte nella sentenza impugnata (pagg. 227 - 229). Inoltre, la erronea applicazione dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa è stata sostenuta solo sul rilievo (infondato) della insussistenza del reato ex art. 416 - bis cod. pen., cosicché - come si è detto (sub par. 5.) - anche l'esclusione del metodo mafioso non avrebbe avuto alcun effetto concreto. 7.3. Il ricorso, pertanto, va rigettato. 8. Ricorso Ca.. L'imputato è stato condannato per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo, contestati ai capi 1, 2 e 3. Con un unico motivo la difesa ha lamentato la mancata determinazione della pena nel minimo edittale. Il ricorso è palesemente inammissibile per la estrema genericità del motivo, nel quale sono state del tutto obliterate le argomentazioni della Corte di appello (pag. 235) a sostegno della correttezza della pena inflitta a Ca. dal primo giudice, peraltro determinata, quanto alla pena base per il reato ex art. 4 della legge n. 895 del 1967 (capo 3), in misura ampiamente inferiore al medio edittale, prima dell'aumento minimo di un terzo per l'aggravante dell'agevolazione mafiosa e di un solo mese di reclusione per la circostanza ex art. 112 cod. pen.. 9. Ricorso Ca.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo, per reati in materia di armi e di stupefacenti, per una serie di estorsioni (consumate o tentate) e per violazione di domicilio. I motivi di ricorso non riguardano l'affermazione di responsabilità. 9.1. È del tutto generica la prima censura, inerente al mancato riconoscimento della circostanza attenuante ex art. 416 - bis.1, terzo comma, cod. pen., poiché ha omesso di confrontarsi con le argomentazioni in ragione delle quali la Corte d'appello ha disatteso il motivo di gravame (pag. 236), considerata la irrilevanza, ai fini di cui si tratta, della collaborazione offerta in altro procedimento e delle dichiarazioni rese nel presente processo a distanza di sei anni dai fatti, "nel momento in cui era in corso l'audizione dei testi a discarico, quando ormai il quadro probatorio a suo carico era ampiamente delineato". La Corte di merito, infatti, si è attenuta ai principi affermati dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale per un verso l'esame del giudice sulla ricorrenza dei presupposti della speciale attenuante della dissociazione non può che essere limitato a quanto riferito dall'imputato nel singolo procedimento in ordine ai reati oggetto dello stesso (di recente v. Sez. 2, n. 46385 del 15/10/2021, Zizzo, Rv. 282439) e per altro verso l'applicazione della suddetta circostanza richiede una concreta e fattiva attività di collaborazione dell'imputato, volta a evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori e a coadiuvare gli organi inquirenti nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e la cattura degli autori dei delitti (cfr., ad es., Sez. 1, n. 52513 del 14/06/2018, L., Rv. 274190 nonché Sez. n. 48646 del 19/06/2015, Marti, Rv. 265851). 9.2. Anche il secondo motivo è del tutto generico, essendosi lamentato un inesistente difetto di motivazione sull'aumento per la continuazione "in relazione al reato satellite" (senza alcuna specificazione, pur in presenza di una condanna per quattordici reati), a fronte di una specifica motivazione presente nella sentenza impugnata (pag. 237). 9.3. La richiesta di applicazione della disciplina della continuazione esterna, respinta dalla Corte territoriale per il dato formale della carenza di prova sulla irrevocabilità della sentenza che ha definito l'altro processo, era in radice inammissibile perché proposta solo nel corso del giudizio di appello e non con i motivi di gravame. Infatti, la richiesta di applicazione della continuazione criminosa in relazione a un reato oggetto di sentenza di condanna è ammissibile, con la presentazione dei motivi nuovi di appello, solo qualora la stessa sia divenuta irrevocabile dopo la scadenza del termine per proporre impugnazione (Sez. 2, n. 7132 del 11/01/2024, D'Antoni, Rv. 285991; Sez. 1, n. 6348 del 14/10/2022, dep. 2023, Cantone, Rv. 284409; Sez. 2, n. 33098 del 01/07/2021, De Mitri, Rv. 281915; Sez. 2, n. 37379 del 18/11/2020, Arcadu, Rv. 280424). Nel caso di specie la sentenza della Corte di appello di Ancona in relazione alla quale è stata richiesta la continuazione esterna è divenuta irrevocabile il 17 aprile 2018, ancor prima del deposito della motivazione della sentenza del Tribunale di Macerata. Pertanto, il ricorrente avrebbe potuto e dovuto avanzare la richiesta con l'atto di appello. A Ca. non sarà comunque precluso chiedere in sede esecutiva, ai sensi dell'art. 671 del codice di rito, l'applicazione della disciplina del reato continuato, in quanto in sede di cognizione la continuazione non è stata riconosciuta solo per un motivo formale (la mancata dimostrazione della irrevocabilità della pronuncia della suddetta sentenza). 9.4. Il motivo relativo all'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata non era stato proposto in appello e quindi non era consentito, come osservato in precedenza (sub par. 1.5.). 9.5. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 10. Ricorso Fo.. L'imputato è stato condannato per il reato di cessione in concorso di un'arma con munizionamento, contestato al capo 6. Il ricorso denuncia "omessa, contraddittoria e illogica valutazione degli elementi di riscontro alla chiamata in correità" e "travisamento dei fatti per errata valutazione delle prove", disvelando così la natura delle censure proposte, volte a ottenere una inammissibile diversa valutazione delle prove, ed evocando solo formalmente un vizio della motivazione, peraltro indicato cumulativamente, in contrasto con i principi enunciati nella parte generale (sub par. 1.2. e 1.3.). La sentenza impugnata, con ampie argomentazioni (pagg. 238 - 245), conformi a quelle del primo giudice, ha evidenziato gli elementi di riscontro alle dichiarazioni di Sc., estremamente precise, in relazione alla cessione della mitraglietta avvenuta il 2 maggio 2009, giorno in cui effettivamente il collaboratore fu avvistato insieme a Pe., come riferito dall'ispettore Di Clemente. Le risultanze dei tabulati telefonici, sulle quali ha riferito in dibattimento l'ispettrice Ma., sono state esaminate analiticamente dai giudici di merito, che hanno ben spiegato le ragioni per le quali si è accertato che anche Fo., chiamato in correità da Sc., si trovasse quel giorno in zone compatibili con gli incontri descritti dal collaboratore, avvenuti prima a Moie e poi a Civitanova. Il ricorrente ha lamentato la mancata acquisizione agli atti di copia dei tabulati dei quali ha riferito l'ispettrice (la cui relazione è stata prodotta), ma non risulta - né la difesa lo ha dedotto - che le parti ne abbiano chiesto la produzione. Inoltre, il ricorso riporta una lunghissima serie di dati (interlocutori, celle, orari) dai quali si evince che detti tabulati sono stati nella disponibilità delle parti. Anche in quésto caso si è proposta una rilettura delle risultanze dei tabulati, in assenza di travisamenti del dato probatorio, così come per una conversazione tra Ca. e Pe., intercettata il 2 agosto 2009, ritenuta dai giudici di merito un altro fondamentale riscontro individualizzante a carico di Fo. là dove gli interlocutori parlano di un viaggio fatto a Moie per un affare concluso con "dei siciliani", nel corso della quale vengono fatti anche i nomi di battesimo di Fo. (Sa.) e di Ar. (Ro.), quest'ultimo non ricorrente contro la sentenza di appello che ne ha confermato la condanna. La deduzione difensiva secondo la quale l'interpretazione della conversazione "non è la sola logicamente resistente a critiche", essendovene un'altra "opposta e altrettanto solida", contrasta con i principi enunciati sub par. 2. La motivazione della sentenza impugnata è incensurabile anche là dove evidenzia che il primo giudice ha creduto alla versione di Sc. sulla cocaina come parziale contropartita della vendita della mitraglietta,, ma ha ritenuto di assolvere Fo., Sa. e Ar. in mancanza di un riscontro specifico sulla detenzione della droga, contestata al capo 7, osservando anche che comunque si sarebbe trattato di uso personale o di consumo di gruppo (pag. 85 della sentenza di primo grado). La Corte di appello ha ribadito che è "del tutto credibile la versione di Sc. sull'incontro, sollecitato dai venditori, avvenuto nella serata del 2.05.2009, a causa della cattiva qualità della merce (cocaina) ricevuta in pagamento per la mitraglietta" (pag. 239) e ha correttamente osservato che l'assoluzione dei tre imputati per il reato ex art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990 non pregiudica in alcun modo l'affermazione di responsabilità per la cessione dell'arma, in presenza di un solido quadro probatorio. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 11. Ricorso Gi.. L'imputato è stato condannato per il concorso nella tentata estorsione in danno di Ma.Pa., contestato al capo 20. 11.1. È del tutto generica la censura proposta in ordine alla valutazione, da parte dei giudici di merito, dell'attendibilità della chiamata in correità proveniente da Ga.Ab., che sarebbe "costellata di numerose inesattezze e destituita di ogni fondamento fattuale, come emerso dalle numerose contraddizioni che hanno contraddistinto la deposizione del medesimo collaboratore di giustizia". Nel ricorso, infatti, non vi è neppure alcuna indicazione delle presunte contraddizioni. La sentenza impugnata ha poi ricordato i precisi riscontri costituiti dall'attività di osservazione del personale della Polizia di Stato, svolta il 1 settembre 2009, che consentì di riconoscere con certezza in Gi. il conducente dell'autovettura, già dallo stesso utilizzata in passato, fermatasi in un autogrill lungo l'autostrada A14, dopo il casello di Civitanova Marche, prima di proseguire per Fano ove avvenne l'agguato al quale Pa. riuscì a sottrarsi; anche in occasione della fuga alla guida dell'Audi 80, che ripartì a forte velocità e a fari spenti, fu visto Gi.. A fronte della precisa ricostruzione del fatto (pagg. 246 - 248) il ricorrente ha proposto censure generiche e di merito. 11.2. È inammissibile il secondo motivo di ricorso con cui si è dedotta la insussistenza del dolo in capo all'imputato, che sarebbe stato del tutto all'oscuro della condotta che gli altri avrebbero tenuto e dell'ingiusto profitto perseguito. Il motivo non era stato proposto in appello, nel quale si erano solo contestate la partecipazione dell'imputato all'evento e comunque l'assenza di un suo apporto causale. La Corte di appello, non investita sul punto dal gravame, non ha trattato il profilo del dolo, che non può essere introdotto per la prima volta in questa sede, come si è visto (sub par. 1.5.). In particolare, nel giudizio di legittimità non può essere contestata la carenza dell'elemento psicologico qualora in appello sia stata dedotta la insussistenza della condotta sotto il profilo oggettivo e viceversa (v. Sez. 2, n. 6131 del 29/01/2016, Menna, Rv. 266202 nonché, da ultimo, Sez. 3, n. 15116 del 28/03/2024, Iannacone, non mass.). 11.3. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 12. Ricorso Li.. L'imputata è stata condannata per il concorso nel reato di incendio dello stabilimento balneare "Co.", contestato al capo 27. I due motivi possono essere congiuntamente esaminati, premesso che il ricorso, pur deducendo in rubrica la insussistenza delle aggravanti ex art. 416 - bis.1 cod. pen., censura poi la motivazione (peraltro con una generica denuncia del vizio) anche là dove è stata riconosciuta la responsabilità concorsuale dell'imputata per l'incendio. Non sussiste la denunciata violazione di legge, in relazione al disposto dell'art. 195, comma 7, cod. proc. pen., avuto riguardo alla deposizione del teste Bu., che ha riferito di avere ricevuto da un ragazzo, poi allontanatosi, un biglietto con l'indicazione del numero di targa dell'autovettura a bordo della quale erano fuggite quattro persone subito dopo aver appiccato il fuoco. Secondo la giurisprudenza di legittimità di gran lunga prevalente, condivisa dal Collegio, il divieto di utilizzazione di cui all'art. 195, comma 7, cod. proc. pen. non opera allorquando il teste indiretto non sia in grado di indicare, al di là del solo nome di battesimo, la persona da cui abbia appreso la notizia dei fatti illeciti, giacché tale indicazione non va intesa come informazione completa sui dati anagrafici e sull'indirizzo della fonte, bensì come dato oggettivo in forza del quale risulti indubitabile la sua reale esistenza quale soggetto costituente fonte originaria e diretta della notizia (Sez. 6, n. 12982 del 2:0/02/2020, L., Rv. 279259; Sez. 5, n. 29177 del 15/02/2016, De Blasi, Rv. 267698; Sez. 2, n. 13927 del 04/03/2015, Amaddio, Rv. 264015; Sez. 6, n. 37370 del 14/05/2014, Romeo, Rv. 260251; Sez. 1, n. 32963 del 11/05/2010, Guerrisi, Rv. 248235). È priva di ogni fondamento la deduzione secondo la quale, poiché il testimone oculare ha riferito che si era trattato di quattro "giovani", si dovrebbe escludere la presenza di una persona di sesso femminile. L'autovettura, peraltro, era di proprietà della Li. e la sentenza dà anche atto della sua individuazione da parte di una pattuglia di Carabinieri mentre viaggiava verso nord, in orario perfettamente compatibile con il tragitto percorso dal luogo dell'incendio (Porto San Giorgio) e anche con l'abitazione dell'imputata e di Po.: si tratta di rilevanti elementi di riscontro alla chiamata in correità di Sc. richiamati con specifiche argomentazioni dalla Corte d'appello (pagg. 252 - 254), in larga parte obliterate dalla ricorrente. L'incendio dello stabilimento balneare - hanno evidenziato i giudici di merito - è stata espressione del tipico metodo mafioso; peraltro, la sussistenza dell'aggravante, sotto questo profilo, è stata contestata nel ricorso solo sul presupposto della estraneità dell'imputata all'episodio contestato. Senza fondamento, infine, la difesa ha sostenuto che l'aggravante dell'agevolazione mafiosa sarebbe stata riconosciuta in quanto l'imputata era la compagna di Po., avendo i giudici di merito evidenziato, invece, che dopo l'arresto di quest'ultimo ella tenne contatti con alcuni appartenenti al gruppo e avrebbe dovuto fungere da intermediaria per il recupero dell'esplosivo, rinvenuto dalla Polizia proprio grazie alla sua conversazione in carcere con il fidanzato intercettata in data 11 agosto 2009. Si è poi detto (sub par. 5.) che l'esclusione di una sola delle aggravanti previste dall'art. 416 - bis.1 cod. pen. non avrebbe avuto alcun rilievo. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 13. Ricorso Ma.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo (capo 40) e per il concorso nella detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo (capo 2), nella tentata estorsione in danno di Ma.Pa. (capo 20), nelle estorsioni consumate in danno degli impresari locali En.Ge. e @32.Gi.Ri. (capo 25) e del commerciante Gi.Ro. (capo 33). 13.1. Sono prive di fondamento le deduzioni proposte in via preliminare nel ricorso. La sentenza impugnata ha escluso la necessità di disporre la perizia sull'esplosivo ritenendo già acquisita una prova certa della consistenza esplosiva di quanto rinvenuto, ricavata sulla base di molteplici elementi, specificamente indicati (pagg. 168 - 170), obliterati nel ricorso, ciò anche a prescindere dal rilievo, anch'esso ignorato dalla difesa, secondo il quale "il materiale sequestrato aveva una precisa data di scadenza, ampiamente decorsa", per cui la perizia non avrebbe apportato alcun risultato utile. È manifestamente infondata la censura in ordine alla revoca dell'ammissione di alcune testimonianze, ritenute superflue, disposta dal primo giudice, che sul punto aveva reso un'ampia motivazione a sostegno della decisione adottata (pagg. 26-29), confermata e rafforzata da quella della Corte di appello (pagg. 160-165), la quale ha evidenziato il pieno rispetto dei diritti delle difese, che hanno potuto esaminare sessantacinque testimoni indicati nelle proprie liste nel corso di quattordici udienze. Il Tribunale non aveva affatto ritenuto "assolutamente indispensabili" tutti i testimoni indicati da Ma., Pe. e Pe., ma ne aveva disposto l'esame, non ritenendo, in sede di ammissione delle prove, che queste fossero manifestamente superflue o irrilevanti (art. 190, comma 1, cod. proc. pen., richiamato dall'art. 495, comma 1, dello stesso codice). Ad esito dell'esame dei numerosissimi testi indicati dalle parti il Collegio ha revocato l'ammissione di alcune testimonianze, ai sensi dell'art. 495, comma 4, cod. proc. pen., con ordinanza adeguatamente motivata assunta in contraddittorio. La stessa censura è anche generica perché il ricorrente non ha indicato i nomi dei testimoni ritenuti decisivi e neppure il motivo per il quale sarebbe stato ancora rilevante assumere la loro deposizione. È del tutto generica, poi, la deduzione secondo la quale sarebbe stato assolutamente necessario "trascrivere alcune intercettazioni telefoniche". Peraltro, in tema di intercettazioni, non è necessaria la trascrizione delle registrazioni nelle forme della perizia: in primo luogo, la prova è costituita dalla bobina o dalla cassetta; in secondo luogo, l'art. 271, comma 1, cod. proc. pen. non richiama la previsione dell'art. 268, comma 7, cod. proc. pen. tra le disposizioni la cui inosservanza determina l'inutilizzabilità; infine, la mancata trascrizione non è espressamente prevista né come causa di nullità né è riconducibile alle ipotesi di nullità di ordine generale tipizzate dall'art. 178 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 2507 del 28/10/2021, dep. 2022, Schiariti, Rv. 282696; Sez. 5, n. 12737 del 17/02/2020, Rv. 278863; Sez. 1 n. 41632 del 03/05/2019, Chan, Rv. 277139; Sez. 6, n. 25806 del 20/02/2014, Caia, Rv. 259675; Sez. 2, n. 13463 del 26/02/2013, Lagano, Rv. 254910; da ultimo cfr. Sez. 1, n. 10907 del 17/01/2024, Lacalaprice, non mass.). 13.2. Il ricorrente non ha proposto un motivo relativamente all'affermazione di responsabilità per la partecipazione all'associazione mafiosa, ma ha censurato la doppia conforme di condanna per i quattro reati - fine; tuttavia, per un verso ha denunciato l'inosservanza dell'art. 192 cod. proc. pen. come violazione di legge e per altro verso ha sollecitato una rilettura delle prove, in contrasto con i principi ricordati nella parte generale sub par. 1.2. e 1.3., circostanze che rendono il motivo inammissibile. In ogni caso, i motivi proposti involgono tutti il merito, proponendo una diversa ricostruzione dei fatti, alternativa a quella conforme dei giudici di merito, e sono anche reiterativi di censure già vagliate e disattese dalla Corte territoriale (pagg. 256 - 258) con motivazione immune da vizi, neppure indicati dal ricorrente. Con deduzioni svolte nella parte finale del ricorso, ma non oggetto di uno specifico motivo, la difesa ha contestato l'attendibilità delle dichiarazioni di Sc. e di Ab., in ordine alla quale si richiama quanto osservato in precedenza sub par. 3. Quanto alla prima parte di esplosivo consegnata da Am. e Ca. a Pe. e a Sc., la chiamata in correità di quest'ultimo nei confronti di Ma., incaricato insieme a Pe. di trovare un nascondiglio sicuro dopo che la seconda tranche era stata sequestrata nell'abitazione di Po. il 12 agosto 2009, è stata riscontrata da una conversazione intercettata in carcere tra gli stessi Ma. e Pe., nella quale - ha evidenziato la sentenza impugnata - il riferimento criptico alle "salsicce" alludeva all'esplosivo, confezionato proprio in tale forma, nella comune e condivisa consapevolezza della sua esistenza e del suo occultamento. La Corte di appello ha poi motivato anche sulla inattendibilità manifesta delle versioni rese dagli stessi due imputati. 13.3. In ordine alla tentata estorsione di cui al capo 20, la difesa ha riproposto una tesi, peraltro tutta in fatto, ritenuta infondata nella sentenza impugnata: "non risponde alle risultanze istruttorie l'assunto secondo cui Ma. sarebbe rimasto fermo, all'interno della propria autovettura; piuttosto, nel momento in cui Pa. sfuggiva alla presa del Pe., anche Ma. fuoriusciva dall'auto cercando di dare manforte al Pe., salvo poi desistere entrambi dall'inseguimento una volta resisi conto che Pa. si era rifugiato all'interno dell'Intralotto chiedendo aiuto al gestore del bar. Ed è evidente il notevole contributo fornito dal Ma. anche perché, oltre ad essersi posto alla guida della BMW, aveva parcheggiato l'auto "di muso" per uria pronta ripartenza ed aveva fatto da "esca" per Pa., distraendolo per consentire al Pe. di prenderlo di sorpresa. Fungendo da "esca", colloquiando con Pa. per distrarlo in modo tale che Pe. potesse catturarlo, il contributo è particolarmente rilevante anche sul piano morale, per l'intensità del dolo che la complessiva condotta rivela" (pag. 257). 13.4. La formulazione della doglianza inerente alla estorsione contestata al capo 25 ("l'istruttoria dibattimentale ed in particolare gli esiti delle attività tecniche hanno tuttavia mostrato fatti diversi da quelli sostenuti dall'accusa") rende palese la radicale inammissibilità del motivo. Peraltro, i giudici di merito hanno richiamato come riscontri esterni alle dichiarazioni accusatorie di Sc. varie conversazioni intercettate dalle quali risulta che Ma. era ben a conoscenza del motivo della "spedizione punitiva" nei confronti di Ce. e Ri. (il ritardo nei pagamenti di crediti illecitamente pretesi), concordata con Ca. e Pe. per il giorno 15 settembre 2019, e che ciascuno dei tre, successivamente, "vantava la propria attiva partecipazione nel pestaggio delle vittime" (pag. 258). 13.5. Quanto alla estorsione in danno di Ro. (capo 33), il ricorso, in palese contrasto con la ricostruzione dei giudici di merito, effettuata sulla scorta delle concordi dichiarazioni della persona offesa e dei due collaboratori di giustizia, cerca di sminuire il ruolo di Ma. a quello di semplice autista di una delle due autovetture che si recarono a casa di Ro. per riscuotere il denaro, quando invece è pacifico che egli fu presente anche all'aggressione avvenuta in precedenza a Civitanova, facendo parte del numeroso gruppo organizzato per l'agguato del 28 agosto 2009. In violazione del principio di autosufficienza, il ricorrente ha solo trascritto un estratto dell'esame dibattimentale di Ab., obliterando, ad esempio, che quest'ultimo ha dichiarato che Ma. e Pe., diretti a casa di Ro. dopo l'aggressione, "dovevano fungere da supporto; qualora avessero incontrato una pattuglia o un posto di blocco, loro avrebbero dovuto cercare di farsi fermare ed evitare che venisse bloccata la Mercedes sulla quale viaggiavano Ab. e Sc., assieme a Ro.", che durante il tragitto era stato minacciato di morte da Sc. (pag. 299 della sentenza di primo grado). 13.6. La incensurabile ricostruzione dei tre episodi estorsivi da parte dei giudici di merito rende evidente l'infondatezza della doglianza circa il mancato riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall'art. 114 cod. pen., configurabile solo quando l'apporto del concorrente abbia assunto una importanza obiettivamente minima e marginale ossia di efficacia causale così lieve rispetto all'evento da risultare trascurabile nell'economia generale dell'iter criminoso (Sez. 4, n. 35950 del 25/11/2020, Indelicato, Rv. 280081; Sez. 3, n. 9844 del 17/11/2015, dep. 2016, Barbato, Rv. 266461; Sez. 3, n. 34985 del 16/07/2015, Caradonna, Rv. 264455; Sez. 1, n. 26031 del 09/05/2013, Di Domenico, Rv. 256035; Sez. 2, n. 9743 del 22/11/2012, dep. 2013, Cannavacciuolo, Rv. 255356). 13.7. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. nonostante un legittimo impedimento dell'imputato o del difensore, non determina una nullità ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. qualora in quella udienza non sia stata svolta alcuna attività processuale (Sez. 6, n. 33261 del 03/06/2016, Lombardo, Rv. 267670; Sez. 1, n. 479 del 17/11/2015, dep. 2016, Iero, Rv. 265854; Sez. 3, n. 30466 del 13/05/2015, Calvaruso, Rv. 264158; Sez. 5, n. 8365 del 26/09/2013, dep. 2014, Piscioneri, Rv. 259033; da ultimo v. Sez. 4, n. 35287 del 15/06/2023, Micera, non mass.). Anche in ordine all'omesso rinvio dell'udienza del 6 giugno 2016 per legittimo impedimento del difensore la decisione del Tribunale, condivisa dalla Corte di appello, risulta incensurabile, alla luce del principio, costante nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, nel caso di istanza di rinvio del difensore per impedimento professionale, a questi già noto all'atto dell'accettazione della nomina finalizzata all'espletamento dell'incarico in relazione al quale si richiede il rinvio, non può ritenersi operante la disposizione dell'art. 420 - ter, comma 5, cod. proc. pen., perché tale norma, per come è formulata, intende dare rilevanza e apprestare tutela solo agli impedimenti che sopravvengono all'atto di nomina e all'accettazione del mandato difensivo (Sez. 3, n. 38193 del 27/04/2017, U., Rv. 270951; Sez. 5, n. 41000 del 23/05/2014, Eleuteri, Rv. 261252; Sez. 2, n. 25754 del 11/06/2008, Staibano, Rv. 241457; Sez. 5, n. 174 del 10/11/2005, dep. 2006, Bonini, Rv. 23387; più di recente v. Sez. 3, n. 13259 del 27/01/2019, Todorovic, non mass.). 15.2. È priva di ogni fondamento la doglianza inerente alle dichiarazioni spontanee dell'imputato, che intendeva parlare ancor prima di rispondere se intendesse o meno sottoporsi all'esame, esame che comunque iniziò in quella stessa udienza, dopo quello di alcuni coimputati (v. pagg. 15 - 16 sentenza di primo grado). Non si verificò, dunque, alcuna lesione del diritto di difesa, in quanto Pe. fu nelle condizioni di rendere (anche) spontanee dichiarazioni in qualsiasi momento. 15.3. É altrettanto infondata la deduzione difensiva in ordine alla mancata ammissione del rito abbreviato condizionato. La Corte ha correttamente osservato che la richiesta risultava allegata solo alla prima lista testimoniale depositata e non era di agevole individuazione; in ogni caso essa andava riproposta in udienza dall'imputato personalmente o dal difensore munito di procura speciale, nel contraddittorio delle parti, prima dell'apertura del dibattimento. Risulta pure condivisibile il riferimento alla manifesta incompatibilità della escussione di quaranta testimoni "con le finalità di economia processuale proprie del procedimento" (art. 438, comma 5, cod. proc. pen., nella formulazione all'epoca vigente), considerato anche che la prova sollecitata dall'imputato con la gli ulteriori atti di disposizione necessari per ottenere la realizzazione della pretesa nella sua integralità (Sez. 2, n. 6569 del 10/11/2020, dep. 2021, Raffone, Rv. 280655). L'estorsione fu consumata, risultando la condotta di Ol. di quel giorno inserita nel contesto complessivo, non potendosi avere riguardo, dunque, solo alle sue richieste personali. Per questa ragione è privo di fondamento il motivo inteso a ottenere la riqualificazione giuridica del fatto nella ipotesi tentata, peraltro anch'esso proposto per la prima volta con il ricorso. 14.2. Neppure i motivi concernenti la sussistenza delle circostanze aggravanti ex artt. 416 - bis.1 e 628, terzo comma, n. 3 cod. pen. erano stati proposti in appello. In questo caso si è al di fuori della qualificazione giuridica del fatto propriamente intesa, cosicché si tratta di motivi non consentiti in questa sede (v. sub par. 1.5.). 14.3. In appello, invece, era stato proposto un motivo inerente alla dosimetria della pena, formulato, però, in termini del tutto generici ("era indispensabile una rivalutazione della dosimetria della pena"), considerato anche che il primo giudice (pag. 403) aveva determinato, quanto a quella detentiva, nel minimo la pena base per il più grave reato sub 33, in un mese di reclusione l'aumento per l'aggravante ex art. 112 cod. pen. e in tre mesi l'aumento per la continuazione con il reato sub 38, previa la non applicazione della recidiva e in assenza di aumento per la seconda aggravante a effetto speciale. Il motivo, dunque, era inammissibile per genericità, cosicché l'omessa risposta della sentenza impugnata resta priva di rilievo. 14.4. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 15. Ricorso Pe.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo, quale promotore e organizzatore (capo 40), per i reati in materia di armi (capi 1, 2, 3, 9 e 11) nonché per estorsione consumata o tentata (capi 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 28, 32, 33, 35, 38), incendio (capo 27) e violazione di domicilio (capo 31). Per i delitti di cui ai capi 19, 26, 28, 31 e 32 non è stato proposto uno specifico motivo di ricorso. Con i primi sei motivi sono state proposte eccezioni processuali. 15.1. In ordine all'omesso rinvio dell'udienza del 29 settembre 2014 in presenza di un legittimo impedimento dell'imputato risulta dirimente il rilievo che in detta udienza non venne svolta alcuna attività processuale (data l'ora tarda, poiché il Tribunale aveva disposto una visita fiscale), non essendosi così prodotta alcuna lesione al diritto di difesa, come osservato dalla Corte di appello. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l'omesso rinvio dell'udienza. 14. Ricorso Ol.. L'imputato è stato condannato per le estorsioni in danno di Gi.Ro., contestate ai capi 33 e 38. 14.1. È manifestamente infondato (e non consentito là dove presuppone una diversa ricostruzione del fatto) il motivo riguardante il concorso di Ol. nella estorsione consumata il 28 agosto 2009. La Corte di appello ha logicamente osservato che "poco importa che nello sviluppo temporale della vicenda del giardino pubblico di Civitanova Marche Ol. fosse comparso alla fine, dopo che Ro. era già stato più che abbondantemente "pressato"; Ol., sfruttando la condotta intimidatrice già espressa dagli altri, facendosi "forte" di quella condotta accerchiatrice, dopo avergli precisato che non doveva avere più nulla a pretendere, aveva personalmente intimato a Ro. di non azzardarsi ad incassare gli assegni in sospeso, che avrebbe dovuto richiamare uno dei titoli ricevuti da Ol. che già era stato portato in banca da Ro. (cfr. pure pagg. 58 - 59 fono - registrazione ud. 24.04.2012 e pag. 295 sentenza gravata) e che non gli avrebbe più pagato nemmeno l'Audi Cabrio". L'imputato, dunque, apportò "il proprio personale contributo nella coartazione della volontà della p.o. Ro., rincarando la "dose" delle pretese economiche oggetto delle richieste estorsive, facendogli presente che non avrebbe pagato nemmeno l'Audi, intendendo così trarre notevole profitto economico dalla condotta estorsiva, dell'ordine di decine di migliaia di Euro" (pagg. 259 - 260). Il ricorrente ha nella sostanza obliterato le argomentazioni della sentenza impugnata, riproponendo senza fondamento la tesi della mancanza di un contributo concorsuale e deducendo per la prima volta in sede di legittimità che le condotte contestate ai capi 33 e 38 dovrebbero essere sussunte in un unico reato. Il motivo, pur riguardando in senso lato la qualificazione giuridica del fatto, non può essere scrutinato in quanto richiederebbe accertamenti in fatto (v. sub par. 1.5.), non risultando dall'imputazione né dalla ricostruzione dei giudici di merito se le molteplici richieste intimidatorie di cui al capo 38 fossero semplicemente reiterative, quanto all'oggetto della illecita pretesa, di quelle fatte a Ro. in occasione dell'aggressione del 28 agosto 2009, cui seguì, quella sera stessa, la consegna di due assegni dell'importo di 12.500 Euro ciascuno e dell'autovettura Mercedes intestata alla moglie. Infatti, può dirsi integrato un unico delitto di estorsione solo nel caso in cui l'agente, dopo la realizzazione parziale dell'illecito profitto, ponga in essere nuove violenze o minacce allo scopo di costringere la persona offesa a eseguire richiesta di giudizio abbreviato condizionato deve essere integrativa e non sostitutiva rispetto al materiale già raccolto e può considerarsi "necessaria" solo quando risulti indispensabile ai fini di un solido e decisivo supporto logico - valutativo per la deliberazione (Sez. U, n. 44711 del 27/10/2004, Wajib, Rv. 229175; Sez. 1, n. 10016 del 13/07/2018, dep. 2019, Maxim, Rv. 274920; Sez. 4, n. 39492 del 18/06/2013, A., Rv. 256833). La difesa, poi, ha evocato il criterio integrativo costituito dalle indicazioni sopravvenute all'assunzione delle prove, richiamandolo solo genericamente senza alcuno specifico riferimento al caso di cui si tratta. 15.4. È manifestamente infondato anche il motivo riguardante la mancata assunzione di prove decisive. In ordine alla revoca dei testi, alla trascrizione delle intercettazioni e alla perizia sull'esplosivo si richiama quanto osservato in precedenza, trattando del ricorso di Ma. (sub par. 13.1.). Quanto all'omesso confronto fra i due collaboratori di giustizia e Pe., correttamente la Corte di appello ha ricordato che il mezzo di prova del confronto non costituisce adempimento imposto obbligatoriamente, atteso che, a fronte della insanabile divergenza tra le contrastanti versioni fornite dai dichiaranti, spetta al giudice apprezzare, secondo il proprio libero convincimento, il grado di attendibilità dell'una piuttosto che dell'altra dichiarazione (Sez. 6, n. 37691 del 16/08/2022, B., Rv. 283935; Sez. 6, n. 20269 del 20/04/2016, S., Rv. 266747; Sez. 1, n. 40290 del 26/06/2013, Giannizzari, Rv. 257247). La difesa, poi, ha lamentato la mancata acquisizione per estratto dei registri tenuti dai direttori delle carceri ove erano detenuti i due collaboratori di giustizia, ai sensi dell'art. 16 - sexies, comma 2, del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8 (convertito nella legge 15 marzo 1991, n. 82), secondo il quale "il giudice, a richiesta di parte, dispone altresì l'acquisizione di copia per estratto del registro tenuto dal direttore del carcere in cui sono annotati il nominativo del detenuto o internato, il nominativo di chi ha svolto il colloquio a fini investigativi, la data e l'ora di inizio e di fine dello stesso, nonché di copia per estratto del registro di cui al comma 3 dell'articolo 18 - bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, per la parte relativa ai colloqui a fini investigativi intervenuti con il collaboratore". È evidente, però, in ragione del limitato contenuto del documento, che detta acquisizione non avrebbe avuto alcun rilievo al fine di verificare "con quali soggetti i collaboratori sono venuti a contatto durante i 180 giorni" nonché "la loro genuinità, la loro spontaneità e la veridicità delle dichiarazioni", scopo cui mirava la richiesta difensiva. 15.5. È generico e manifestamente infondato il motivo riguardante la presunta utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali rese dai collaboratori di giustizia in assenza del consenso prestato dalla difesa. Alla eccezione proposta la Corte di appello ha risposto osservando che "la prova si è formata nel dibattimento, nella pienezza del contraddittorio delle parti, con la possibilità per il giudice di primo grado (ed indirettamente per lo stesso giudice di appello) di saggiare la credibilità soggettiva e l'attendibilità intrinseca dei collaboratori di giustizia attraverso l'ascolto della loro diretta narrazione, nel corso delle plurime udienze nelle quali si svolgevano l'esame del P.M. ed il controesame delle difese" (pag. 155), escludendo così implicitamente che le dichiarazioni predibattimentali dei collaboratori fossero state dal Tribunale utilizzate a fini probatori e non già solo, a seguito delle contestazioni, per la valutazione della credibilità del teste, come espressamente previsto dall'art. 500, comma 2, del codice di rito (Sez. 2, n. 35428 del 08/05/2018, Caia, Rv. 273455; Sez. 2, n. 13910 del 17/03/2016, Migliaro, Rv. 266445; Sez. 3, n. 20388 del 17/02/2015, Q.H., Rv. 264035). Il ricorrente neppure ha indicato in quali parti della decisione dette dichiarazioni, invece, sarebbero state utilizzate a fini di prova. 15.6. È del tutto generica la doglianza con la quale si lamenta l'omessa rinnovazione della istruzione dibattimentale con il nuovo esame del collaboratore Ga.Ab., sentito lungamente in primo grado, il quale "aveva manifestato l'intenzione di precisare alcune vicende del procedimento". Va ribadito, inoltre, che l'istituto previsto dall'art. 603 del codice di rito -come affermato dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266820) - ha carattere eccezionale e ad esso "può farsi ricorso, in deroga alla presunzione di completezza dell'istruttoria espletata in primo grado, esclusivamente allorché il giudice ritiene, nella sua discrezionalità, indispensabile la integrazione, nel senso che non è altrimenti in grado di decidere sulla base del solo materiale già a sua disposizione". Anche successivamente le Sezioni Unite hanno ribadito che in detta norma sono previste evenienze procedimentali "che si traducono nella previsione di poteri, non già di doveri, di rinnovazione in capo al giudice d'appello, valorizzando il metodo dell'oralità nelle specifiche ipotesi della non decidibilità allo stato degli atti (comma 1), ovvero della assoluta necessità di provvedere ex officio all'integrazione del quadro probatorio (comma 3)" (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, non mass, sul punto). 15.7. Della infondatezza del motivo di ricorso riguardante l'attendibilità delle chiamate in correità e il carattere mafioso dell'associazione si è trattato in precedenza (sub par. 3. e 4.). Tutti i motivi successivi (dall'ottavo al ventitreesimo), che pure verranno esaminati, scontano in partenza un profilo di inammissibilità - come si è detto sub par. 1.2. - là dove hanno denunciato cumulativamente la "mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione". 15.8. Quanto ai reati in materia di armi contestati nei primi tre capi d'imputazione, risulta del tutto generico il motivo inerente alla motivazione sul delitto relativo all'acquisto della mitragliatrice (capo 1), avendo la difesa omesso di indicare le presunte contraddizioni nelle dichiarazioni di Sc., asseritamente ignorate dalla Corte di merito, e obliterato i riscontri costituiti "dalla convergente lettura dei tabulati e dagli altri elementi evidenziati dal giudice di prime cure" (pagg. 73 - 83), richiamati per relationem nella sentenza impugnata (pag. 268). In ordine ai reati di cui al capo 3, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, la sentenza impugnata ha richiamato non solo la confessione dell'imputato per i reati sub 2, relativi alla detenzione e al porto della prima tranche di esplosivo, ma anche, sia pure sinteticamente, gli elementi di prova (dichiarazioni di Sc. e risultanze delle intercettazioni) inerenti ai reati di detenzione e porto della seconda tranche di esplosivo che - come ricordato in motivazione - Pe. e Sc. decisero di affidare a Po., presso l'abitazione del quale fu poi rinvenuta e sequestrata il 12 agosto 2009. Il ricorrente neppure ha specificato quali doglianze difensive la Corte di appello avrebbe trascurato di esaminare, a fronte di una motivazione della prima sentenza che ha indicato plurimi elementi dimostrativi della responsabilità di Pe. (riassuntivamente indicati alle pagg. 107 - 108). È priva di fondamento anche la deduzione secondo cui la questione della "micidialità dell'esplosivo" non sarebbe stata "minimamente presa in considerazione" nella motivazione: la sentenza, infatti, ha esaminato ampiamente il tema (pagg. 168 - 170) là dove ha spiegato le ragioni per le quali non è stata disposta una perizia sull'esplosivo. 15.9. Non è affatto illogica la motivazione con la quale la Corte territoriale ha confermato la condanna di Pe. per il concorso, insieme a Sc., nella detenzione e nel porto di due armi comuni da sparo, reati contestati al capo 9, rinvenute in un appartamento di Civitanova Marche (il cosiddetto bunkerino), nel quale fu sequestrato un documento falsificato con la fotografia di Pe.. Da questa ultima circostanza e dal tenore di una conversazione tra Sc. e Pe., intercettata in carcere il 30 settembre 2009, la sentenza impugnata ha tratto ulteriori elementi dimostrativi del fatto che l'abitazione fosse nella disponibilità di entrambi e che le due armi (una pistola calibro 38 e una 7.65) -che il ricorrente, peraltro, ammise di avere visto nel "bunkerino" - fossero anch'esse detenute da entrambi, come riferito in modo circostanziato da Sc., la cui chiamata in correità è stata del tutto obliterata nel ricorso. 15.10. È immune dai vizi (cumulativamente) denunciati anche la motivazione con la quale la Corte territoriale ha confermato la condanna dì Pe. per il concorso, insieme a Sc. e Ri., nella detenzione e nel porto della bomba a mano tipo ananas, reati contestati al capo 11, valorizzando le coerenti chiamate in correità di Sc. e Ab. e quella iniziale di Ri.. Il ricorrente sostiene che Ab. non avrebbe coinvolto Pe. ma la deduzione è contrastante con quanto risulta chiaramente esposto già dal primo giudice (pag. 129) e il motivo è generico nel momento in cui non è indicato e dimostrato un travisamento della prova "per invenzione" del dato probatorio. I giudici di merito, poi, hanno indicato le ragioni per le quali hanno ritenuto inattendibile la ritrattazione di Ri., con motivazione specifica e immune da vizi (pagg. 130 - 131 della sentenza di primo grado e pag. 270 di quella impugnata). 15.11. È manifestamente infondato anche l'undicesimo motivo, relativo alla condanna per il concorso nella tentata estorsione in danno di Ma.Pa. (capo 20). Quest'ultimo riuscì a sfuggire all'aggressione organizzata dal gruppo al fine di riscuotere il suo debito nei confronti di Te. dandosi a una precipitosa fuga e rifugiandosi in un bar, dopo essersi divincolato dalla presa di Pe., scena che fu osservata dagli operanti della polizia giudiziaria: le deduzioni circa la inidoneità della minaccia e la non univocità degli atti sono chiaramente prive di ogni fondamento; non rileva, evidentemente, il fatto che nella successiva telefonata fra Pa. e Pe., dopo il fallito agguato, le frasi minacciose e di sfida vennero pronunciate da entrambi. In ordine al coinvolgimento di Pe. la chiamata in correità di Ab. -ha osservato la Corte di merito (pagg. 271 - 272) - è stata riscontrata da varie conversazioni telefoniche intercorse fra il ricorrente e Pe., indicative del coinvolgimento del primo nella fase organizzativa e preparatoria, non smentito da quella fra Sc. e Pe., indicata nel ricorso, pure considerata dal primo giudice, che però ha richiamato una serie di altre telefonate, subito successive al fatto, tra Pe., Sc. e Pe. (pagg. 168 - 170). La sera stessa, peraltro, gli operanti della polizia giudiziaria videro che Pe. e Ma. si recarono a casa di Pe. per spiegare il fallimento dell'azione (pag. 178). Con questi dati il ricorso non si è confrontato e dunque sul punto risulta anche generico. 15.12. Sono manifestamente infondate le censure alla motivazione con la quale è stata confermata la condanna per il tentativo di estorsione in danno dei due gestori del ristorante "Il braciere", sito in Martinsicuro (capo 21), ove pacificamente si recarono, la mattina del 3 agosto 2009, Pe., Ca., Sc., Pe. e Ab., circostanza non contestata nel ricorso. La difesa, però, ha censurato la valutazione della sentenza là dove si è dato credito alla chiamata in correità da parte dei due collaboratori di giustizia e non alle deposizioni rese in dibattimento dalle due persone offese, le quali "avevano espressamente negato di essere mai state minacciate e di aver mai pagato alcunché a Pe. o agli altri correi". Questa seconda circostanza non è in discussione, tant'è che gli imputati sono stati condannati per estorsione tentata e non consumata, mentre la prima -ha osservato la Corte di appello (pag. 274) - è smentita da una conversazione tra Pe. e Ca., intercettata dopo il fatto, dalla quale si desume chiaramente la violenza dell'azione commessa nei confronti di Da. e Io. (al primo - secondo quanto dichiarato da Sc. - venne rotto il naso, essendo stato "massacrato" da Ca. e Pe., come riportato a pag. 192 della sentenza di primo grado). 15.13. Generico e privo di ogni fondamento è il tredicesimo motivo, relativo all'altro tentativo di estorsione (capo 22) commesso in danno di Gi.Ne. sempre il 3 agosto 2009 dai medesimi soggetti che si erano recati al ristorante "Il braciere", ai quali si aggiunse Be.. La difesa sostiene che i due collaboratori "avevano affermato che Ne. non si era fatto per nulla intimidire, ma aveva prontamente reagito", cosicché non vi sarebbe stata alcuna minaccia "idonea a ingenerare una effettiva coartazione della vittima". La Corte di appello, però, ha richiamato espressamente (pag. 275) l'ampia descrizione dell'episodio da parte del Tribunale (pagg. 185 - 187) per come riferito da Ab. e Sc.: il primo ha dichiarato che Ne. "fu presso a pugni e schiaffi" proprio da Pe., il secondo che "fu massacrato di botte da S.R. Pe., il quale lo pestò in maniera barbara" (pag. 192 della sentenza di primo grado). La brutalità della violenza risulta in modo evidente dai dialoghi intercettati all'interno dell'autovettura sulla quale, dopo l'aggressione, erano risaliti Ca. e Pe., dialoghi richiamati dal Tribunale (pagg. 186-187) a riscontro delle due chiamate in correità. 15.14. É generico e manifestamente infondato anche il successivo motivo, riguardante l'estorsione consumata in danno di An.Ri. (capo 23). La difesa ha contestato l'omessa risposta della sentenza alla deduzione svolta in appello circa le contraddizioni in cui sarebbero incorsi i due collaboratori di giustizia, senza indicarle nel ricorso, in contrasto con il principio secondo il quale la censura di omessa valutazione da parte del giudice di appello dei motivi articolati con l'atto di gravame onera il ricorrente della necessità di specificare il contenuto dell'impugnazione e la decisività del motivo negletto al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono non risolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l'atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018, dep. 2019, C., Rv. 275853; Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 264879; Sez. 2, n. 13951 del 05/02/2014, Caruso, Rv. 259704; Sez. 2, n. 9029 del 05/11/2013, dep. 2014, Rv. 258962; più di recente v. Sez. 3, n. 37726 del 28/09/2022, Proietti, non mass.). Il ricorso evoca (genericamente) a discarico le dichiarazioni della persona offesa, che però ha affermato di avere subito violenza, circostanza ammessa dallo stesso Pe., come ricordato dalla difesa. Il motivo è generico in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, avendo la Corte di appello escluso la integrazione del meno grave reato previsto dall'art. 393 cod. pen., configurabile solo quando l'agente sia animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente: pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, essa non può essere del tutto arbitraria ovvero sfornita di una possibile base legale, come ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027), in conformità alla precedente costante giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362; Sez. 2, n. 8096 del 04/02/2016, Anglisani, Rv. 266203; Sez. 5, n. 2819 del 24/11/2014, dep. 2015, Angelotti, Rv. 263589). La sentenza impugnata ha evidenziato la manifesta sproporzione fra l'entità del credito di Fa. azionato da Pe. e quanto da quest'ultimo preteso e ottenuto (la consegna di 6.000 Euro e di due autovetture del valore di 73.000 Euro): con questa argomentazione dirimente il ricorso non si è confrontato. 15.15. Sono manifestamente infondate e generiche le censure alla motivazione con la quale è stata confermata la condanna per il tentativo di estorsione in danno dei due gestori del night club "Sesto Senso" (capo 24). I giudici di merito (più diffusamente il Tribunale a pagg. 216 - 223) hanno richiamato la chiamata in correità di Sc., le dichiarazioni parzialmente confessore di Ca. e le ammissioni dello stesso Pe., che "ha dichiarato di aver voluto estorcere del denaro al "Sesto Senso", precisando di non aver avuto tempo per portare a conclusione quel proposito" (pag. 221), in contrasto, però, con le precise dichiarazioni di Me. al quale nell'occasione fu fornito il numero di cellulare proprio di Pe., che si recò nel locale insieme a Sc. e a Ca., come anche da questi ultimi ricordato. Dalla ricostruzione del fatto effettuata nelle due sentenze risulta chiara la carica intimidatoria sottesa all'azione dei tre associati, dovendosi ribadire che la minaccia costitutiva del delitto di estorsione, oltre che essere esplicita, palese e determinata, può essere manifestata anche in maniera indiretta, ovvero implicita e indeterminata, purché sia idonea a incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell'agente, alle condizioni soggettive della vittima ed alle condizioni ambientali in cui opera (cfr., ad es., Sez. 2, n. 3724 del 29/10/2021, dep. 2022, Zaccardi, Rv. 282521; Sez. 2, n. 11107 del 14/02/2017, Tessitore, Rv. 269905; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261553; Sez. 2, n. 11922 del 12/12/2012, dep. 2013, Lavitola, Rv. 254797) e che l'idoneità degli atti deve essere valutata con giudizio operato ex ante, essendo priva di rilievo la capacità di resistenza dimostrata dalla vittima dopo la formulazione della minaccia (Sez. 2, n. 24166 del 20/03/2019, Maggiorelli, Rv. 276537; Sez. 2, n. 3934 del 12/01/2017, Liotta, Rv. 269309; Sez. 2, n. 41167 del 02/07/2013, Tammaro, Rv. 256728; Sez. 2, n. 12568 del 05/02/2013, Aiello, Rv. 255538). La difesa ha contestato la valutazione della sentenza impugnata evocando le deposizioni delle due persone offese, richiamate "puntualmente alle pagine 200 e 201 dei motivi di gravame", incorrendo così nel vizio di cui si è detto nel paragrafo precedente. 15.16. La motivazione della sentenza non è affatto illogica (né contraddittoria né tantomeno mancante) là dove ha confermato la condanna di Pe. anche per il concorso nella estorsione consumata in danno degli impresari Ce. e Ri. (capo 25). Il coinvolgimento di Pe. è stato affermato dai giudici di merito sulla base della chiamata in correità di Sc. (il quale "ha ricordato che si trattò di un'azione dimostrativa decisa da lui e da S.R. Pe. in quanto Ce. e Ri. facevano gli impresari all'interno di locali che appartenevano al loro "giro", per cui dovevano corrispondere una "quota" sui loro guadagni" - pag. 236 della sentenza di primo grado), riscontrata dall'incontro svoltosi presso l'abitazione del ricorrente con Ca., Ma. e Pe. poco prima della violenta aggressione da parte dei tre, nonché dal tenore della conversazione fra Ca. e Pe. intercettata dopo il fatto: con logica e, pertanto, insindacabile interpretazione le sentenze di merito hanno desunto anche da questa telefonata il pieno concorso del ricorrente nel fatto delittuoso. 15.17. É manifestamente infondato anche il diciassettesimo motivo, inerente alla condanna per l'incendio dello stabilimento balneare "Co." (capo 27), fondata in primo luogo sulla chiamata in correità di Sc., che ha dichiarato di avere ideato l'azione insieme a Pe.Sa., incaricando dell'esecuzione Po. e la Li.. Trattando degli appelli proposti dai due esecutori materiali, la sentenza impugnata ha spiegato (come si è già visto sub par. 12.) le ragioni per le quali si deve ritenere che l'incendio fu certamente doloso, cosicché, esaminando il gravame di Pe., legittimamente la Corte di merito si è limitata a escludere il rilievo delle dichiarazioni della persona offesa circa la natura colposa dell'evento. I giudici di merito hanno logicamente valutato quale riscontro al coinvolgimento del ricorrente le chiarissime espressioni che furono rivolte a Me. - secondo quanto riferito dal teste - durante un incontro successivo al fatto avuto con Sc. e Pe., ad esito del quale la persona offesa capì che gli stessi erano responsabili dell'incendio del vicino stabilimento balneare e che avrebbero incendiato anche il suo locale se non avesse continuato a versare il "pizzo". II Tribunale ha evidenziato che Pe., peraltro, "non ha mai negato il proprio coinvolgimento diretto nella vicenda estorsiva ai danni di Me." (pag. 252), tant'è che la relativa condanna (per il reato contestato al capo 26) non ha formato oggetto del ricorso in esame, ciò a conferma della genuinità delle dichiarazioni dello stesso Me., richiamate quale riscontro nella sentenza impugnata (pag. 279). 15.18. É manifestamente infondato il motivo con il quale la difesa lamenta la mancata applicazione dell'attenuante ex art. 114 cod. pen. per il reato di estorsione consumata in danno di Ma.Ca., gestore di un locale notturno (capo 28). La sentenza ha richiamato la ricostruzione del fatto operata dal Tribunale, neppure contestata nel ricorso, e ha logicamente escluso che l'avere accompagnato Sc. a riscuotere mensilmente il "pizzo" costituisse una condotta di importanza obiettivamente minima e marginale, in conformità al principio giurisprudenziale richiamato in precedenza (sub par. 13.6.). 15.19. È generico e privo di fondamento il motivo relativo alla ritenuta responsabilità per i reati di estorsione aggravata, dei quali uno tentato, commessi in danno di Gi.Ro. (capi 33, 35 e 38). Anche in questo caso il ricorrente ha fatto generico riferimento a doglianze proposte nei motivi di appello, pure in relazione alla presunta inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie di Ab. e Sc., riscontrate da plurime conversazioni intercettate fra gli imputati, alcune delle quali richiamate dalla Corte di appello (pag. 280), che ha poi logicamente osservato che l'assenza di telefonate fra Pe. e Ro. non esclude affatto il coinvolgimento del primo nella vicenda estorsiva, aliunde dimostrato. 15.20. È privo di fondamento e generico anche il ventesimo motivo, riguardante l'applicazione delle aggravanti ex art. 416 - bis.1 cod. pen.. Si è già ricordato (sub par. 5.) che entrambe le circostanze sono configurabili anche con riferimento ai reati - fine commessi dagli appartenenti all'associazione mafiosa, come affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite; è infondata, pertanto, la deduzione difensiva secondo la quale l'aggravante dell'agevolazione mafiosa non può essere applicata per i reati commessi dagli associati. È generica, poi, la doglianza inerente all'applicazione della circostanza del metodo mafioso, neppure riferita ai singoli reati; peraltro si è visto (sub par. 5.) che anche l'esclusione di una sola delle aggravanti previste dall'art. 416 - bis.1 cod. pen. non avrebbe avuto alcun effetto concreto. 15.21. È generico anche il motivo successivo, relativo all'applicazione della circostanza aggravante dell'avere commesso il fatto durante la sottoposizione del ricorrente alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale (art. 9 della legge n. 575 del 1965). La difesa ha censurato la motivazione della sentenza impugnata sulla ritenuta irrilevanza in concreto dell'applicazione di detta circostanza, ma neppure ha specificato nel ricorso per quali reati detta circostanza sarebbe insussistente, essendosi limitata ad affermare che il giudice di appello l'avrebbe dovuta escludere "per molte delle fattispecie delittuose per cui Pe. è stato condannato". 15.22. È manifestamente infondata la doglianza difensiva in ordine al giudizio di equivalenza fra attenuanti generiche e aggravanti. Secondo il diritto vivente, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che, per giustificare la soluzione dell'equivalenza, si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto" (Sez. U, n. 10713 del 25/2/2010, Contaldo, Rv. 245931; Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, Pennelli, Rv. 270450; nel medesimo senso, da ultimo, v. Sez. 4, n. 13380 del 14/02/2023, Caponio, non mass.). Il Tribunale ha spiegato puntualmente le ragioni per le quali ha ritenuto di riconoscere le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza al solo Ca. e non a Pe., Bi., Pe. e Ri. (pagg. 396-397), con motivazione espressamente condivisa dalla Corte di appello, che ha poi sottolineato la "notevolissima caratura criminale dell'imputato, quale rivelatasi nella presente vicenda, per il ruolo di protagonista della vita dell'associazione, per la immanente presenza in ogni azione anche senza parteciparvi direttamente, costituendo Pe. un punto di riferimento costante per gli altri sodali che lo contattavano di continuo" (pag. 280). Peraltro, un giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti (quanto a quelle "bilanciabili") sarebbe stato comunque precluso dal disposto dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., essendo stata contestata e applicata al ricorrente la recidiva reiterata (specifica e infraquinquennale). 15.23. In ordine alla (sola) determinazione della pena inflitta la sentenza deve essere annullata con rinvio, risultando fondato il motivo proposto nel ricorso di Pe. (l'undicesimo) sulla illegittima estensione analogica della disposizione di cui al quinto comma dell'art. 628 cod. pen. alle ipotesi di cui all'art. 629, secondo comma, cod. pen. e, quindi, sulla sottrazione al bilanciamento della circostanza aggravante dell'art. 628, terzo comma, n. 3 cod. pen., applicata nel caso di specie. L'impugnazione di Pe. giova anche a Pe., concorrente nel reato di estorsione contestato al capo 33 dell'imputazione (il più grave sul quale per entrambi è stata determinata la pena base con applicazione anche della suddetta circostanza), non essendo fondata su motivi esclusivamente personali (art. 587, comma 1, cod. proc. pen.). Nella parte dedicata al trattamento sanzionatorio il Tribunale, richiamando la posizione di alcuni imputati colpevoli di estorsione pluriaggravata e del reato associativo (fra i quali proprio Pe. e Pe.), correttamente ha individuato il delitto più grave nella estorsione pluriaggravata contestata al capo 33, punito con pena edittale più alta nel massimo, specificando però che la pena irrogata in concreto non poteva essere inferiore a quella minima prevista all'epoca dei fatti per il reato associativo (pag. 399), in conformità al principio secondo il quale, in caso di concorso di reati puniti con sanzioni omogenee sia nel genere che nella specie per i quali sia riconosciuto il vincolo della continuazione, l'individuazione del concreto trattamento sanzionatorio per il reato ritenuto dal giudice più grave non può comportare l'irrogazione dì una pena inferiore nel minimo a quella prevista per uno dei reati-satellite (Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347; Sez. 3, n. 18099 del 15/11/2019, dep. 2020, Niang, Rv. 279275). Il Tribunale ha riconosciuto le attenuanti generiche a Pe. e Pe. con giudizio di equivalenza rispetto alle aggravanti ritenute "bilanciabili" (quelle della recidiva e del fatto commesso con armi e da più persone riunite e - per il primo - da persona sottoposta alla misura della sorveglianza speciale), sottraendo espressamente dal giudizio di comparazione, sia in dispositivo sia in motivazione, "l'aggravante di cui all'art. 628, co. 3 n. 3), richiamata dall'art. 629 c.p., nonché la circostanza di cui all'art. 7 della L. n. 203/1991" (ora art. 416 - bis.1 cod. pen.), in quanto appartenenti "al genus delle cosiddette "aggravanti blindate", non potendo essere poste in bilanciamento con le attenuanti" (pagg. 398-399). Con l'atto di appello Pe. aveva lamentato che erroneamente il primo giudice avesse ritenuto che il divieto di bilanciamento previsto dall'art. 628, quinto comma, cod. pen. per alcune aggravanti della rapina operasse anche per il reato di estorsione aggravato dalle medesime circostanze. Come lamentato dalla difesa, la Corte di appello non ha ben colto (o comunque esaminato a fondo) il senso della censura, avendo osservato che "il rinvio operato dal secondo comma dell'art. 629 cod. pen. all'ultimo capoverso dell'art. 628 cod. pen., quanto alle circostanze aggravanti applicabili al delitto di estorsione, deve infatti intendersi comprensivo di quelle nuove ipotesi aggravate per le quali la stessa novella n. 94 prevede il divieto di bilanciamento, consistendo la 'ratio legis' nell'esigenza di creare nuove ipotesi aggravate, ferme restando le aggravanti già codificate in precedenza" (pag. 292). È pacifico, infatti, che il rinvio operato dal secondo comma dell'art. 629 cod. pen. all'ultimo comma dell'art. 628 cod. pen., quanto alle circostanze aggravanti applicabili al delitto di estorsione, sia da qualificare di natura formale o dinamica, e deve intendersi riferito, dopo le modifiche apportate dalla legge n. 94 del 15 luglio 2009, all'attuale terzo comma della disposizione normativa prevista per il delitto di rapina (Sez. 2, n. 13239 del 23/03/2016, Ciancimino, Rv. 266662; Sez. 2, n. 18742 del 17/01/2014, Zubcic, Rv. 259651; Sez. 5, n. 2907 del 23/10/2013, dep. 2014, Cammarota, Rv. 258463; di recente v. Sez. 7, n. 38951 del 27/09/2022, Coppola, non mass.); la questione proposta nell'appello (e ora nel ricorso) era diversa, attenendo - come detto - alla sottrazione o meno al giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen. delle aggravanti indicate nell'ultimo comma dell'art. 628 cod. pen. non solo per il reato di rapina ma anche per quello di estorsione. Da ultimo questa Corte, con valutazione condivisa dal Collegio, ha affermato che il rinvio operato, quanto alle aggravanti applicabili al delitto di estorsione, dall'art. 629, comma secondo, cod. pen. all'art. 628, ultimo comma, cod. pen. deve intendersi riferito, a seguito delle modifiche apportate dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, all'attuale comma terzo dell'art. 628 cod. pen. ma non al comma quinto, che sottrae al giudizio di comparazione le aggravanti di cui ai numeri 3, 3 - bis, 3 - ter e 3 - quater di tale disposizione: nel silenzio normativo, non può ritenersi esteso in malam partem al delitto di estorsione il peculiare regime previsto per il bilanciamento tra circostanze nel delitto di rapina (Sez. 2, n. 49940 del 10/10/2023, P., Rv. 285464). Nella determinazione della pena per il più grave reato di estorsione di cui al capo 33, il Tribunale ha espressamente ribadito che a Pe. venivano riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, "fatta eccezione per le circostanze di cui all'art. 7 della L. n. 203/1991 e 628, co. 3, n. 3), 629 c.p." (pag. 404). Il primo giudice, dunque, nel determinare la pena per il più grave reato di estorsione commesso in danno di Ro. (otto anni, nove mesi di reclusione e 1.700 Euro di multa), ha tenuto conto della presenza di due aggravanti ritenute privilegiate, entrambe a effetto speciale, erroneamente per quella prevista dall'art. 628, terzo comma, n. 3 cod. pen.: i vari passaggi nel calcolo della pena non sono specificati, ma in precedenza si era precisato che in presenza di più circostanze aggravanti a effetto speciale si sarebbe fatto ricorso al disposto dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. (pag. 398). Qualora si fosse correttamente sottoposta al giudizio di bilanciamento con le attenuanti anche la suddetta aggravante della violenza commessa da un associato la pena per il reato di cui al capo 33 sarebbe stata inferiore in una misura che non può essere determinata in questa sede, non essendovi alcun elemento indicativo del peso che, nella valutazione del giudice di merito, ha rivestito la seconda circostanza a effetto speciale erroneamente ritenuta privilegiata. La posizione di Pe., però, presenta una particolarità rispetto a quella di Pe., al quale, per il più grave delitto di estorsione sub 33, è stata inflitta la pena di sette anni, dieci mesi, quindici giorni di reclusione e 1.700 Euro di multa, superiore al minimo edittale di sette anni di reclusione previsto all'epoca per il partecipe all'associazione mafiosa (art. 416 - bis, primo comma, cod. pen.), risultando l'aggravante "bilanciabile" dell'associazione armata elisa dal riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di equivalenza. Il Tribunale, infatti, non ha considerato che per Pe., organizzatore e promotore del sodalizio, la pena minima all'epoca prevista per il reato ex art. 416 - bis, secondo comma, cod. pen. era di nove anni di reclusione, superiore, dunque, a quella inflitta per il più grave reato di estorsione. L'errore commesso dal primo giudice, peraltro in contrasto con le corrette premesse esposte in linea generale, non può tuttavia essere "compensato" in assenza di impugnazione dell'accusa, superandosi così la violazione di legge denunciata nel ricorso del concorrente Pe.. In questo senso si sono di recente espresse le Sezioni Unite di questa Corte, statuendo che l'accoglimento dell'impugnazione del solo imputato in ordine a una delle componenti del trattamento sanzionatorio non può essere neutralizzato da improprie forme di "compensazione" con altro punto ad esso inerente, quale l'erronea individuazione della pena in violazione dei minimi edittali, non devoluto alla cognizione del giudice (Sez. U, n. 7578 del 17/12/2020, dep. 2021, Acquistapace, Rv. 280539: nel caso di specie si è affermato che il giudice di appello, investito dell'impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l'illegittima riduzione della pena ai sensi dell'art. 442 cod. proc. pen. nella misura di un terzo anziché della metà, deve applicare detta diminuente nella misura di legge, pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado sia inferiore al minimo edittale e, dunque, di favore per l'imputato). 15.24. La sentenza impugnata, pertanto, va annullata con rinvio limitatamente alla determinazione della pena, restando assorbite le doglianze espresse nell'ultimo motivo sul medesimo punto. 16. Ricorso Pe.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo, quale partecipe (capo 40), e per i delitti di cui ai capi 2, 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo), 17, 19, 20, 21, 22, 23, 25,, 28, 32, 33, 35, 44 (estorsioni consumate o tentate), 31 (violazione di domicilio). Specifici motivi di ricorso sono stati proposti per i reati contestati ai capi 3, 19, 21, 22, 23, 35, 40 e 44. 16.1. È generico, e quindi inammissibile, il motivo riguardante l'omesso rinvio da parte del Tribunale dell'udienza del 20 giugno 2016 per legittimo impedimento del difensore per motivi di salute. La Corte ha espressamente richiamato, condividendole, le argomentazioni espresse sul punto nell'ordinanza del primo giudice (trascritta nella nota 20 di pagina 17) che, prima ancora di rilevare la mancata indicazione della impossibilità di nominare sostituti processuali (irrilevante in ragione di quanto statuito da Sez. U, n. 41432 del 21/07/2016, Sarrapochiello, Rv. 267747), aveva osservato che il certificato medico prodotto dal difensore era del tutto generico, prescrivendo solo un periodo di "riposo e cure", non consentendo così di apprezzare la persistenza di una patologia tale da determinare l'assoluta impossibilità per il difensore di comparire in udienza. In proposito va ricordato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'assoluto impedimento a comparire dell'imputato o del difensore, conseguente a una patologia, deve risolversi in una situazione tale da precludere all'interessato di partecipare all'udienza se non a prezzo di un grave rischio per la propria salute, potendo fare il giudice ricorso, per la valutazione di tali requisiti, anche a nozioni di comune esperienza, indipendentemente da una verifica medico - fiscale (Sez. 5, n. 15407 del 24/02/2020, Stretti, Rv. 279088; Sez. 3, n. 48270 del 07/06/2018, P., 274699; Sez. 5, n. 3558 del 19/11/2014, dep. 2015, Margherita, Rv. 262846; Sez. 4, n. 7979 del 28/01/2014, Basile, Rv. 259287; Sez. 6, n. 4284 del 10/01/2013, G., Rv. 254896; da ultimo v. Sez. 4, n. 7207 del 23/01/2024, Benazzi, non mass.). In ogni caso, con la dirimente osservazione del primo giudice, richiamata nella sentenza impugnata, il ricorso non si è confrontato. 16.2. È generico e infondato il motivo inerente all'affermazione di responsabilità per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo di cui al capo 3, nel quale, peraltro, come in quelli successivi, la motivazione è stata genericamente - e in modo perplesso - censurata per "mancanza o contraddittorietà". La difesa, ricordato che Pe. è reo confesso per la detenzione e il porto della prima tranche di esplosivo che egli stesso fece ritrovare (capo 2), ha riproposto la tesi della connivenza non punibile, disattesa nella sentenza impugnata con lineare motivazione (pag. 281). Il riferimento alla chiamata in correità di Sc. va riferito non già alle sue dichiarazioni bensì al contenuto della conversazione intercettata fra lo stesso e Ca., richiamata dal Tribunale (pag. 106), dove il primo indicò Pe. quale possibile nuovo custode dell'esplosivo. Il dato è stato ignorato dalla difesa, che ha poi proposto una inammissibile lettura alternativa della telefonata tra Ca. e Pe. intercettata nella notte tra il 3 ed il 4 agosto 2009, nel corso della quale il secondo, senza che l'altro dicesse alcunché, si informò subito sugli inneschi e - nella logica e incensurabile interpretazione dei giudici di merito - rivelò la sua piena adesione all'acquisto anche della seconda parte dell'esplosivo, necessario, come la precedente, per la commissione di atti intimidatori del sodalizio. 16.3. È infondato il motivo inerente alla condanna per il concorso nella estorsione in danno della famiglia As. (capo 19). Entrambe le sentenze hanno evidenziato, senza incorrere in alcun vizio motivazionale, che Pe. non solo partecipava alla suddivisione dei proventi dell'attività estorsiva, ma che egli, pur quando si trovava in carcere (fino alla fine di luglio del 2009) aveva preventivamente aderito al piano criminoso, realizzatosi sino al settembre dello stesso anno. La chiamata in correità di Sc. è stata riscontrata da una serie di conversazioni intercettate, indicate anche dalla Corte d'appello (pagg. 283-284), delle quali, anche in questo caso, il ricorrente ha proposto una interpretazione alternativa, non consentita. 16.4. È privo di ogni fondamento il motivo relativo alla condanna per il tentativo di estorsione in danno dei due gestori del ristorante "Il braciere" (capo 21), del quale si è già trattato (sub par. 15.12.) ricordando le intercettazioni richiamate dai giudici di merito attestanti la violenza dell'azione posta in essere la mattina del 3 agosto 2009 da Pe., Ca., Sc., Pe. e Ab., ideata e organizzata da tutti, secondo quanto dichiarato da Sc.. Il compito specifico svolto nell'occasione da Pe. ("sorvegliava la porta d'ingresso") è stato ricordato da Ab., secondo quanto riportato nella sentenza di primo grado (pag. 190). 16.5. È manifestamente infondato anche il motivo relativo all'affermazione di responsabilità per la tentata estorsione in danno di Gi.Ne. (capo 22), episodio già esaminato (sub par. 15.13.), verificatosi anch'esso il 3 agosto 2009: le dichiarazioni di Ab. e Sc. e le conversazioni intercettate nell'immediatezza sono state richiamate dai giudici di merito a dimostrazione del pestaggio subito dalla persona offesa, organizzato e realizzato dallo stesso gruppo protagonista dell'aggressione ai gestori del ristorante, cui si aggiunse Be.. Il contributo anche materiale apportato da Pe. anche a questa spedizione, ricordato nella sentenza impugnata (pag. 287), è stato obliterato dalla difesa, restando ovviamente irrilevante il fatto che fu Pe. a malmenare violentemente la vittima. 16.6. È privo di ogni fondamento anche il motivo riguardante la conferma della condanna per la estorsione in danno di Ri. (capo 23). La circostanza che la persona offesa, quando fu aggredita a Civitanova Marche, non conoscesse i due uomini che accompagnarono Sc. e Pe. non vale certamente a smentire l'attendibilità della chiamata in correità da parte del primo, corroborata da una serie di conversazioni intercettate tra Ri. e Pe., il quale chiamò in causa direttamente Pe., indicandolo come suo referente per la riscossione del denaro. Va ribadito sul punto che l'accordo preventivo fra ideatore del reato e il suo rappresentante incaricato della riscossione e il contributo fornito da quest'ultimo, essenziale al fine del conseguimento della somma estorta, consentono di valorizzare l'apporto dato dal delegato all'incasso del provento del delitto quale condotta concorsuale nel reato di estorsione, a prescindere dal fatto che il suo ausilio si sia limitato alla fase finale dell'attività delittuosa (Sez. 2, n. 36115 del 27/06/2017, Pacilli, Rv. 271005; Sez. 1, n. 41177 del 24/11/2006, Del Vecchio, Rv. 235997; Sez. 2, n. 10778 del 25/01/2002, Curto, Rv. 221123; di recente v. Sez. 6, n. 39152 del 31/05/2023, La Rosa, non mass.). Anche in questo caso il ricorrente ha proposto una non consentita rilettura del fatto e delle intercettazioni. 16.7. È generico il motivo con il quale la difesa ha contestato l'affermazione di responsabilità per la tentata estorsione in danno di Ro. di cui al capo 35, successiva alla estorsione consumata nei confronti della stessa persona offesa, verificatasi il 28 agosto 2009 (capo 33), in relazione alla quale non vi è stato motivo di ricorso. I giudici di merito hanno indicato una serie di conversazioni intercettate, precedenti e successive all'aggressione svoltasi in un giardino pubblico di Civitanova, da cui, con logica motivazione, è stata tratta la prova di un coinvolgimento di Pe. non limitato alle richieste estorsive espresse in occasione dell'agguato, dopo il quale, in una telefonata fra Sc. e Pe., quest'ultimo disse all'altro "che la vicenda non era chiusa, anzi occorreva terminare con calma il lavoro" (pag. 302 della sentenza di primo grado). Solo con il ricorso per cassazione la difesa ha sostenuto che quelle contestate ai capi 33 e 35 avrebbero integrato una unica azione delittuosa. Si tratta di una deduzione analoga a quella esaminata nel ricorso di Ol. (sub par. 14.1.) a proposito delle estorsioni contestate ai capi 33 e 38 e anche in questo caso il motivo non può essere scrutinato in quanto richiederebbe accertamenti in fatto (v. sub par. 1.5.), non risultando dall'imputazione né dalla ricostruzione dei giudici di merito se le successive richieste intimidatorie di cui al capo 35 fossero semplicemente reiterative, quanto all'oggetto della illecita pretesa, di quelle fatte a Ro. in occasione dell'aggressione del 28 agosto 2009, cui seguì, quella sera stessa, la consegna di due assegni dell'importo di 12.500 Euro ciascuno e dell'autovettura Mercedes intestata alla moglie. 16.8. Della infondatezza del motivo di ricorso riguardante il carattere mafioso dell'associazione si è trattato in precedenza (sub par. 4). 16.9. In ordine all'applicazione delle aggravanti ex art. 416 - bis.1 cod. pen., si è già osservato (sub par. 5.) che è infondato il motivo con il quale - come nel caso di Pe. - è stata contestata la sussistenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa sulla base solo della dedotta inesistenza del sodalizio mafioso, considerata la incensurabilità della decisione con la quale i giudici di merito, invece, hanno riconosciuto integrato il reato ex art. 416 - bis cod. pen.. È generica e non consentita la doglianza relativa al metodo mafioso, con la quale si è censurata la "mancanza o contraddittorietà della motivazione con le risultanze processuali"; peraltro si è detto che anche l'esclusione di una sola delle aggravanti previste dall'art. 416 - bis.1 cod. pen. non avrebbe avuto alcun rilievo, poiché il Tribunale, nel determinare il trattamento sanzionatorio, ha considerato quale unica circostanza le due diverse aggravanti indicate nel citato articolo. 16.10. È manifestamente infondato il motivo inerente al concorso di Pe. nella tentata estorsione in danno di Lo.La. (capo 44), debitore di Ca. per una fornitura di sostanza stupefacente, in quanto fondato sulla lettura alternativa di una serie di conversazioni intercettate fra Ca. e Pe. che, con logica e incensurabile motivazione, i giudici di merito hanno interpretato come indicative del preventivo sostegno fornito dal ricorrente al correo. Dalla conversazione ambientale intercettata all'interno dell'auto è poi emerso - come evidenziato nelle sentenze di primo grado (pag. 339) e di appello (pag. 291) - che Ca. minacciò e malmenò La. alla presenza di Pe. e che quest'ultimo disse al debitore che i soldi richiesti servivano a lui in quanto era appena uscito dal carcere. 16.11. È fondato - come si è visto trattando del ricorso di Pe. (sub par. 15.23.) - il motivo con il quale la difesa ha dedotto la violazione di legge per la illegittima estensione analogica della disposizione di cui al quinto comma dell'art. 628 cod. pen. sulla sottrazione al bilanciamento di alcune circostanze aggravanti (fra le quali quella, applicata nel caso di specie, dell'art. 628,, terzo comma, n. 3 cod. pen.) alle ipotesi di cui all'art. 629, secondo comma, cod. pen. 16.12. La sentenza impugnata, pertanto, va annullata con rinvio quanto alla determinazione della pena, restando assorbite le altre doglianze espresse nell'ultimo motivo di ricorso sul medesimo punto. 17. Ricorso Po.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo, quale partecipe (capo 40), e per quello di incendio (capo 27), oltre che per la detenzione e porto in luogo pubblico di un'arma da guerra con munizionamento e di esplosivo (capi 1 e 3), delitti non oggetto dei motivi di ricorso. 17.1. È manifestamente infondato il motivo inerente alla responsabilità di Po. per il concorso nell'incendio, episodio del quale si è trattato esaminando il ricorso della Li. (sub par. 12.). Si è già detto, dunque, della infondatezza della eccezione circa la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal teste Bu., che costituiscono un riscontro assai rilevante alla chiamata in correità di Sc., il quale di quell'incendio fu il mandante e non riferì affatto "per sentito dire". I giudici di merito hanno osservato che - diversamente da quanto sostenuto nel ricorso - Bu. ha dichiarato di avere ricevuto dal teste il biglietto con l'indicazione della targa della Golf fuggita dal luogo dell'incendio (risultata di proprietà prima dello stesso Po. e poi della convivente) dopo che quel giovane aveva visto le quattro persone appiccare il fuoco prima di salire in macchina. Anche l'attività di osservazione svolta quella sera da una pattuglia di Carabinieri, che notò l'autovettura mentre viaggiava verso nord, in orario perfettamente compatibile con il tragitto percorso dal luogo dell'incendio e anche con l'abitazione dell'imputata e di Po., costituisce un ulteriore, rilevante elemento di riscontro alle precise dichiarazioni di Sc.. 17.2. Non è consentito il motivo inerente all'omesso riconoscimento della circostanza attenuante ex art. 112 cod. pen. perché non proposto in appello (v. sub par. 1.5.). 17.3. L'incendio dello stabilimento balneare il cui gestore si rifiutava di pagare il "pizzo" - hanno evidenziato i giudici di merito - è stata espressione del tipico metodo mafioso; l'avvertimento fu ben compreso da Me., gestore anche di un locale vicino, il quale si rese conto che, se non avesse continuato a pagare, avrebbe "fatto la stessa fine del Co." (Me. fu inizialmente indagato per concorso nell'incendio, ma nei suoi confronti fu poi emesso decreto di archiviazione). L'episodio delittuoso, dunque, fu chiaramente volto ad agevolare l'associazione mafiosa, della quale Po. non era affatto all'oscuro, essendo stato considerato un partecipe. 17.4. È incensurabile, infatti, la motivazione della sentenza impugnata, adesiva alle argomentazioni del Tribunale, la quale ha ben indicato le prove del contributo causale fornito stabilmente all'associazione da Po., uomo di fiducia di Pe. e custode di armi ed esplosivo. I giudici di merito hanno anche richiamato conversazioni intercettate a conferma della intraneità di Po. al sodalizio, in relazione alla quale risulta decisiva la doppia chiamata in correità di Sc. e Ab., la cui attendibilità è stata censurata nel ricorso con argomentazioni che - come visto in precedenza (sub par. 3.) - risultano infondate. 18. Ricorso Ri.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo (capo 40) e per i delitti di detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra e di armi comuni da sparo contestati ai capi 11, 12, 13 e 14. 18.1. Si è già detto (sub par. 4.) della infondatezza del motivo sul carattere mafioso dell'associazione, peraltro proposto inammissibilmente da Ri. per la prima volta con il ricorso (in appello si era contestata la sussistenza di un'associazione, essendosi sostenuto che nel caso di specie sarebbe stato ravvisabile solo un concorso di persone nella commissione di più delitti). 18.2. Anche in ordine alla partecipazione del ricorrente al sodalizio mafioso risultano decisive le chiamate in correità di Sc. e del cognato Ab., secondo il quale - ha ricordato la Corte territoriale (pag. 300) - Ri., pur non partecipando personalmente alle singole azioni delittuose, "era disponibile" per l'associazione, "dava appoggio finanziario ed anche logistico" con la sua concessionaria di auto e custodiva le armi per conto della stessa. La ritrattazione delle accuse da parte di Ab. in altri processi è risultata generica e incerta e sul punto la sentenza impugnata ha fornito adeguata e incensurabile motivazione (pagg. 180-182), in conformità al principio secondo il quale la ritrattazione di dichiarazioni accusatorie rese in precedenza da parte di un collaboratore di giustizia non costituisce elemento in grado di escluderne l'attendibilità, potendo il giudice legittimamente riconoscere valore probatorio alle stesse, a condizione che eserciti su di esse un controllo più incisivo, esteso ai motivi della variazione del dichiarato, potendo anche ritenere che la ritrattazione si traduca in un ulteriore elemento di conferma delle originarie accuse (Sez. 6, n. 35680 del 30/05/2019, Caggiano, Rv. 276693; Sez. 1, n. 41585 del 20/06/2017, Maggi, Rv. 271252; di recente v. Sez. 2, n. 7809 del 10/01/2023, Cormaci, non mass.). Il ricorso, poi, nulla osserva in ordine alle dichiarazioni accusatorie di Sc. nei confronti di Ri., il cui allontanamento dalle Marche durante il solo mese di agosto del 2009 (come riferito dall'ispettrice Ma.) non è elemento ostativo alla sua ritenuta partecipazione all'associazione. 18.3. È inammissibile il motivo con il quale si è lamentata, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., la mancata assunzione di una prova decisiva (perizia sulla natura di arma da guerra e sulla idoneità all'impiego della bomba a mano tipo ananas), quanto ai reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra (capi 11 e 12). Le Sezioni Unite di questa Corte, infatti, hanno statuito che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova neutro, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, mentre l'articolo citato, attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A., Rv. 270936). 18.4. È privo di fondamento anche il motivo riguardante la sussistenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa per i reati in materia di armi (capi 11, 12, 13 e 14). La sentenza ha puntualmente spiegato (pagg. 302-305) le ragioni per le quali, sulla scorta delle dichiarazioni dei due collaboratori, si debba ritenere che il ricorrente detenesse le armi per conto del sodalizio mafioso: "autonomia del possesso di armi da parte di Ri. non significa esclusività del possesso, tanto che Ab. sapeva dove erano le pistole" (quelle da lui fatte ritrovare nascoste nell'intercapedine di un muro della stanza da bagno dell'abitazione del ricorrente). I giudici di merito hanno poi ricordato le puntuali e conformi dichiarazioni di Sc. e di Ab. in ordine al coinvolgimento di Ri. nella detenzione della bomba a mano tipo ananas, prima detenuta per il tramite di Sabini e poi custodita per conto di Pe. e dello stesso Sc., il quale pure gli disse che l'ordigno, successivamente rinvenuto all'interno di un'autovettura del ricorrente, sarebbe servito per un attentato incendiario in danno di un locale. 18.5. Ritenuta immune da vizi la decisione dei giudici di merito sulla partecipazione di Ri. all'associazione mafiosa e sulla custodia delle armi per conto della stessa, risulta manifestamente infondato il successivo motivo relativo all'applicabilità nei confronti del ricorrente dell'aggravante ex art. 416 - bis, quarto comma, cod. pen., con il quale si è dedotto un presunto difetto di accertamento circa la componente psicologica. 18.6. Il Tribunale ha spiegato puntualmente le ragioni per le quali ha ritenuto di riconoscere le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza al solo Ca. e non a Pe., Bi., Pe. e Ri. (pagg. 396 - 397). La Corte di appello ha condiviso la motivazione del primo giudice e ha mantenuto il giudizio di equivalenza pur a seguito della modifica del reato più grave (stante l'assoluzione per l'estorsione di cui al capo 20), determinando la pena nel minimo edittale, con un "trattamento sanzionatorio congruo ed adeguato ai concreti aspetti della vicenda criminosa ed alla personalità del reo": si tratta di una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito. 18.7. È priva di ogni fondamento anche l'ultima censura, relativa al mancato riconoscimento dell'attenuante ex art. 416 - bis.1, terzo comma, cod. pen.: la sentenza impugnata ha osservato che Ri. "si è ben guardato in dibattimento dall'offrire un contributo che potesse nuocere ai coimputati, in particolare a Pe. S.R., cercando di riversare le responsabilità a carico di Ab.Ga., svalutandone la personalità" (pag. 307) e che è mancata una fattiva attività di collaborazione dell'imputato, volta ad evitare che l'attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori e a coadiuvare gli organi inquirenti nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e la cattura degli autori dei delitti. 18.8. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 19. Ricorso Sa.. L'imputato è stato condannato per il reato di cessione in concorso di un'arma con munizionamento, contestato al capo 6. Vari motivi sono sovrapponibili a quelli proposti nel ricorso di Fo. e le osservazioni svolte in precedenza (sub par. 10.) sono pertinenti sotto vari profili: quanto alla compatibilità fra la condanna per la cessione della mitraglietta e l'assoluzione per la detenzione dello stupefacente, non derivante da un giudizio di inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie di Sc.; quanto alla dedotta assenza in atti dei tabulati e alla inammissibilità della lettura alternativa proposta; quanto alla inammissibilità di una diversa interpretazione di conversazioni intercettate. La difesa, poi, ha censurato la ritenuta attendibilità delle dichiarazioni di Sc., ritenendo la motivazione superficiale e generica; tuttavia, la Corte territoriale, così come già il Tribunale (pagg. 75 - 76), ha affrontato il problema delle presunte contraddizioni (pagg. 239 - 240) e il ricorso è esso stesso generico in quanto ha richiamato semplicemente l'oggetto delle ipotetiche divergenze segnalate in appello senza confrontarsi con le risposte della Corte. Quanto alla testimonianza resa in dibattimento dall'ispettore Di Clemente, riscontro alle dichiarazioni di Sc. (che neppure conosceva i venditori dell'arma), la sentenza ha osservato che nessun difensore, nel corso dell'esame, ha mai chiesto al teste di indicare la fonte dell'informazione, ammesso che si trattasse di una fonte confidenziale (pag. 241): ne consegue la piena utilizzabilità della deposizione. Anche le risultanze dei tabulati telefonici sono state correttamente utilizzate come riscontro, atteso che i contatti tra le utenze intercettate consentono di trarre dati obiettivi quali la frequenza e loro collocazione temporale e di luogo (Sez. 6, n. 45933 del 22/10/2015, Sorgente, Rv. 265067; Sez. 1, n. 34658 del 13/03/2015, Gagliardi, Rv. 264599; Sez. 1, n. 29383 del 24/06/2009, Sergi, Rv. 244303; di recente v. Sez. 1, n. 34894 del 29/03/2022, Cubeddu, Rv. 283498, non mass, sul punto). La difesa ha evidenziato che la sentenza, con riferimento ai tabulati, ha parlato di "elementi indiziari ambigui" (pag. 244); tuttavia, dal séguito della motivazione si comprende che con quella espressione la Corte intendesse evidenziare che non si trattava "di una prova autosufficiente", quale non è un riscontro a una chiamata di correo, perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correità (Sez. 2, n. 35923 del 11/07/2019, Campo, Rv. 276744; Sez. 6, n. 38994 del 06/06/2017, Giacino, Rv. 271081; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260607; da ultimo v. Sez. 5, n. 10873 del 15/02/2024, Runci, non mass.). Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 20. Ricorso Bi.. L'imputato è stato condannato per i reati di concorso in detenzione illegale e porto in luogo pubblico di esplosivo (capo 3). 20.1. È non consentito e comunque manifestamente infondato il motivo in tema di responsabilità con il quale si censura una "errata interpretazione delle risultanze probatorie" e una "arbitraria interpretazione" di una intercettazione di una conversazione ambientale, in contrasto con i principi ricordati nella parte generale sub par. 1.3. e 2. La sentenza impugnata (pag. 311), aderendo alla motivazione di quella di primo grado (pagg. 105 - 106), ha dato valore decisivo, al fine di ritenere la piena consapevolezza di Bi. circa il contenuto del pacco contenente l'esplosivo, ricevuto nel locale pubblico ove egli lavorava, al dialogo tra Ca. e Sc., durante il quale il primo, ignaro di essere intercettato, rappresentava all'altro tutta la preoccupazione di Bi., persona fidata, che evidentemente aveva accettato di custodire la partita di esplosivo ricevuta da Ca.Ma., sia pure per breve tempo e con l'intenzione di liberarsene quanto prima. Già il Tribunale aveva chiaramente motivato in ordine alla evidente inattendibilità delle dichiarazioni rese dai familiari di Bi.. 20.2. È parzialmente fondato il motivo inerente alla prescrizione dei reati. Considerato un mero errore materiale il riferimento al secondo comma dell'art. 99 cod. pen. nel capo d'imputazione, trattandosi di recidiva semplice (come confermato anche dal certificato del casellario giudiziale), in assenza di aggravanti a effetto speciale applicate all'imputato, i calcoli dei termini di prescrizione effettuati dalla difesa sono corretti: ai sensi degli artt. 157, primo comma, e 160, secondo comma, cod. pen., il tempo necessario a prescrivere va quantificato in dieci anni per il reato di detenzione illegale (punito ex art. 2 della legge n. 895 del 1967 con pena massima di otto anni) e in dodici anni e sei mesi per quello di porto illegale (punito ex art. 4, primo comma, della stessa legge con pena massima di dieci anni). Il ricorrente, tuttavia, ha ignorato tutte le cause di sospensione della prescrizione, previste dall'art. 159 cod. pen., risultanti dalla analitica e lunga parte relativa allo svolgimento del processo della prima sentenza, per complessivi 602 giorni, come specificato dalla Corte di appello (pag. 226). In base a questa precisa indicazione, non censurata, la prescrizione è maturata per il reato di detenzione illegale nell'aprile 2021 e per quello di porto nell'ottobre 2023, quindi per il primo delitto ampiamente prima della sentenza di appello, emessa il 25 ottobre 2022, per il secondo ampiamente dopo. Il motivo, dunque, è fondato limitatamente alla prescrizione del reato di detenzione illegale dell'esplosivo, per il quale il Tribunale, con statuizione confermata in appello, ha determinato la pena in mesi tre di reclusione ed Euro 250 di multa, che conseguentemente va eliminata con annullamento senza rinvio, ai sensi dell'art. 620, comma 1, lett. l), del codice di rito. Resta ferma la determinazione della pena (di anni due, mesi nove di reclusione ed Euro 500 di multa) per il residuo e più grave reato di porto illegale, contestato nello stesso capo 3, in relazione al quale il ricorso è inammissibile. Ciò in applicazione del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo il quale, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Sez. U, n. 6903 del 27/5/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966). Si è poi precisato che detto principio va applicato solo nei casi in cui il ricorso - come nella fattispecie - sia ritenuto inammissibile in relazione al capo avente ad oggetto il reato considerato dai giudici di merito come il più grave, per il quale sia determinata la pena base (Sez. 2, n. 16022 del 22/03/2023, Sili, Rv. 284524). 21. Annullamenti e condanna alle spese. La sentenza impugnata, pertanto, viene annullata, nei ristretti limiti di cui si è detto, soltanto nei confronti di Bi. (senza rinvio), di Pe. e Pe. (con rinvio). Al rigetto della impugnazione proposta da Be. segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Alla inammissibilità delle altre impugnazioni proposte segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di Euro tremila ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Bi.Lo., limitatamente al reato di detenzione di esplosivo contestato al capo 3) perché estinto per prescrizione ed elimina la relativa pena di mesi tre di reclusione ed Euro 250 di multa. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Ridetermina la pena per il residuo reato di cui al capo 3) in anni due, mesi nove di reclusione ed Euro 500 di multa. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Pe.Sa. e Pe.Al., limitatamente alla misura della pena, e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte d'appello di Perugia. Rigetta nel resto i ricorsi. Rigetta il ricorso di Be.Ni., che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibili i ricorsi di Am.Ma., Ca.Mi., Ca.Al., Fo.Sa., Gi.An., Li.Ma., Ma.Fr., Ol.Ro., Po.An., Ri.Fi., Sa.Do., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 ciascuno in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 10 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI NAPOLI SESTA SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, in persona del Giudice, Salvatore Di Lonardo, ha pronunziato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 36103/2018 del ruolo generale degli affari contenziosi dell'anno 2018; avente ad OGGETTO: "impugnazione delibera assembleare condominiale"; vertente TRA (...) entrambi rappresentati e difensi dall'Avv. (...); E (...), in persona del proprio amministratore, ing. (...), rappresentato e difeso dall'Avv. (...); CONCLUSIONI Come in atti. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE (...) premesso di essere proprietari dell'unità (...), hanno impugnato la delibera assunta in seconda convocazione dall'assemblea condomini ile in data 15.10.2018, limitatamente all'approvazione del progetto per l'installazione dell'impianto ascensore ed al conseguente affidamento dell'appalto alla ditta (...). Tale deliberato è stato approvato da venti condomini (su ventiquattro), per un totale di 833,64 millesimi, con voto contrario degli attori. Nel processo si è costituito il convenuto (...), il quale - con istanza reiterata nella propria comparsa conclusionale depositata il 5 dicembre 2023 - ha chiesto, in via pregiudiziale, di dichiarare "l'improcedibilità della domanda giudiziale per genericità ed indeterminatezza della domanda formulata con l'esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, per l'asimmetria e la diversa causa petendi tra dette domande". La questione è stata già decisa con ordinanza del 3 maggio 2019, nella quale si legge testualmente: "ritenuta infondata l'eccezione del Condominio convenuto relativa alla improcedibilità della domanda per l'asserita genericità ed asimmetria della stessa rispetto alla domanda oggetto dell'esperito tentativo obbligatorio di mediazione, in quanto, il verbale di chiusura della seconda procedura di mediazione, recante la data del 7.12.2018, indica espressamente l'oggetto della procedura de qua, "Impugnativa delibera assembleare", nonché le ragioni della pretesa, richiamando proprio il punto 1 dell'ODG relativo alla convocazione della assemblea condominiale del 15/10/2018, in cui si decideva e si votava a favore della installazione dell'impianto elevatore della quale discutono gli odierni attori, agendo in giudizio con la impugnazione della relativa delibera ("Impugnativa delibera assembleare del 15.10.2018 in quanto il punto 1 dell'odg che prevede l'installazione dell'ascensore viola le norme del c.c. e del regolamento condominiale che regolano la proprietà privata dei condomini"). Pur a prescindere dal valore sostanziale, di ordinanza o di sentenza, che si voglia riconoscere al suindicato provvedimento, lo stesso merita di essere qui integralmente condiviso, non avendo la parte, peraltro, prospettato argomentazioni che possano indurre a defletterne. Per ciò che concerne, invece, il merito del processo, il primo motivo di impugnazione attiene alla violazione degli artt. 3 e 17 del regolamento condominiale, i quali, però, non assumono nessuna rilevanza rispetto all'oggetto del deliberato: l'art. 3 si limita ad indicare le cose di proprietà comune; l'art. 17, invece, indica divieti del tutto estranei alla fattispecie in esame. In realtà, le disposizioni del regolamento condominiale sono richiamate perché gli attori ritengono violata la procedura prevista dall'art. 1117 ter c.c. Si legge in citazione: "Il (...) ha violato gli artt. 3 e 17 del predetto regolamento dove rispettivamente vengono individuate le parti comuni e posti i divieto al loro ingombro. Questo poiché l'art. 1117 ter c.c. al comma terzo prevede, a pena di nullità, che nella convocazione devono indicarsi le parti comuni oggetto dell'installazione ovvero del progetto esecutivo dell'impianto e la convocazione di tutti coloro che hanno diritti su quelle parti indivise". Ritiene questo Giudice che l'art. 1117 ter del codice civile è norma non applicabile nella fattispecie in esame; considerato, peraltro, che l'installazione dell'ascensore all'interno del (...), è opera favorita dal legislatore (arg. sulla base della legge n. 13/89). Nella piena consapevolezza delle difficoltà interpretative poste dalla summenzionata norma - in rapporto con la diversa disciplina dettata dal successivo art. 1120 per le innovazioni - deve ritenersi che, così come sostenutosi da una parte della dottrina, l'art. 1117 ter "riguarda particolari e complesse fattispecie condominiali di modifiche di destinazione d'uso che impongono, per soddisfare esigenze di interesse condominiale, all'assemblea di adottare delibere con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quinti del valore dell'edificio. Ad un primo esame del nuovo art. 1117 ter si possono, quindi, configurare limitate ipotesi di applicazione (ad esempio, installazione di una piscina, di un campo di tennis o di calcio nell'area comune, modifica della destinazione pertinenziale dei locali adibiti ad alloggio del portiere, accorpamento di più edifici in un unico condominio). Non possono certamente farsi rientrare nella ipotesi di modificazione delle destinazioni d'uso da approvare con la maggioranza (quasi bulgara) dei quattro quinti le delibere di installazione ... di un ascensore...". Per vero, altra diversa opinione dottrinale individua in maniera precisa le differenze tra le "modifiche alla destinazione d'uso", di cui si occupa l'art. 1117 ter cit., e le "innovazioni tradizionali" disciplinate dall' art. 1120, le quali si distinguono, non solo per un aspetto formale (le differenti maggioranze prescritte), ma per il loro contenuto, "vale a dire per la possibilità di incidere sul godimento delle cose comune da parte dei singoli": "mentre le innovazioni tradizionali incontrano la barriera insuperabile della intangibilità del godimento da parte dei singoli, la circostanza che le modifiche alla destinazione d'uso possano privare dell'uso alcuni condomini si spiega con il contenuto di questi mutamenti, che non alterano la morfologia delle cose: vale a dire, che non alterano la struttura (materiale) di esse, ma afferiscono al solo godimento. L'ammissibilità delle modifiche alla destinazione d'uso, che rendono inservibili le parti comuni a taluni condomini, non raffigura una svista, o una contraddizione. Inserito nel sistema, il nuovo assetto si presenta come una scelta non irrazionale". La dottrina in esame, per meglio esplicitare il proprio pensiero, propone il seguente esempio: "la trasformazione del cortile in parcheggio per assegnare i posti auto ai condomini; oppure, con la stessa finalità, lo scavo del sottosuolo nel cortile per ricavare i box per le auto. Nel primo caso, la maggioranza qualificata può validamente deliberare, anche se la delibera rende impossibile l'uso di taluni condomini, perché i posti auto non risultano sufficienti, trattandosi di decisione che non incide sulla sostanza della cosa comune e che, pertanto, può essere rivista con diversa assegnazione dei posti auto, per sorteggio o con uso turnario. Nel secondo caso, invece, poiché l'entità materiale della res viene ad essere alterata in modo conclusivo, quando alcuni partecipanti vengono esclusi le innovazioni non possono essere approvate dalla maggioranza". All'evidenza, a prescindere dall'adesione all'uno o all'altro degli indirizzi suesposti, l'art. 1117 ter c.c. è norma estranea al caso in esame, rispetto al quale trova applicazione il regime delle innovazioni tradizionali e, pertanto, salvo quanto previsto con riferimento alle maggioranze contemplate dalla legge speciale, l'installazione di un ascensore a servizio di un edificio che in precedenza ne era sprovvisto deve essere astrattamente deliberata dall'assemblea con le maggioranze di cui agli artt. 1120, co. 1, e 1136, co. 5, c.c.; dunque, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio. Peraltro, si è evidenziato come alla stregua di una lettura costituzionalmente orientata e in applicazione sia del principio di solidarietà condominiale che della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità 13 dicembre 2006, ratificata con l. 3 marzo 2009 n. 18, la deliberazione di installazione di ascensore con una maggioranza inferiore a quella prescritta dall'art. 1120, comma 1, c.c. è valida anche in mancanza di specificazione del fine di eliminazione delle barriere architettoniche ai sensi dell'art. 2 l. n. 13 del 1989 e, altresì, in assenza di disabili nell'edificio, in quanto nella stessa è immanente la finalità legittima di consentire l'accesso ai portatori di handicap senza difficoltà in tutti gli edifici e non solo presso la propria abitazione, essendo ostativo non il mero disagio bensì solo l'inservibilità della cosa comune al godimento e uso anche di un solo condomino, intesa come concreta inutilizzabilità secondo la sua naturale fruibilità, con la salvaguardia comunque del decoro architettonico e la sicurezza da valutare, però, nella loro essenzialità ed incidenza negativa non minimale (Cass. 18334/2012). Vieppiù, trattandosi di impianto suscettibile di utilizzazione separata, lo stesso può essere attuato anche a cura e spese di uno o di taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all'articolo 1102), salvo il diritto degli altri di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi della innovazione, contribuente (...) settembre 2017 n. 2071). Ulteriore motivo di impugnazione attiene alla mancanza del quorum richiesto dall'art. 1120 del codice civile. Trattasi, però, di motivo inammissibile, in quanto così genericamente dedotto: "è bene precisare che venivano conteggiati nella votazione anche condomini non interessati all'installazione ed esclusi dalla relativa ripartizione della spesa per la quota di pagamento. In effetti, il totale dei millesimi a favore dell'installazione dell'ascensore e paganti sono 606,58 per quindici condòmini su ventiquattro, salvo errori ed omissioni. Ordunque, ai fini del quorum necessario per votare tale innovazione mancano i millesimi richiesti dall'art. 1120 c.c. relativo alle innovazioni". Tale affermazione non consente - in difetto di ulteriori precisazioni - di smentire il diverso quorum di 861,29/1000 indicato nella delibera. Infine, gli attori si dolgono della lesione che il progetto del nuovo ascensore arreca alla loro proprietà. Nello specifico, l'impianto di cui trattasi, così come deliberato dall'assemblea, deve essere realizzato all'esterno, sul prospetto Nord - Ovest, nel retro dell'edificio (...) sull'area attualmente adibita a giardino, come meglio si evince dalla foto che segue. (...) e (...) denunciano la violazione delle distanze, in ragione della contiguità dell'ascensore alla finestra della loro cucina, e si lamentano della conseguente perdita di luce che ne seguirebbe, laddove venisse realizzato l'impianto, oltre che delle inevitabili immissisioni rumorose. Peraltro, considerato il punto di primo imbarco dell'ascensore, gli attori lamentano la violazione della loro privacy "il vano ascensore sarebbe prospeciente alla finestra dell'appartamento e, dunque, condomini e visitatori, nell'uso dell'ascensore, potrebbero guardare direttamente all'interno della abitazione, determinando un'invasione della privacy della famiglia (...) e condizionando così la libera vivibilità della loro quotidianità domestica". Infine, si legge in citazione che "i sigg. (...) ..., vedrebbero decrescere il valore economico del loro appartamento a causa dell'installazione dell'ascensore, oltre che per immissioni di rumori, vibrazioni, cattivi odori, problematiche termiche e onde elettromagnetiche, anche per il fatto che la loro proprietà è sita al pianterreno dello stabile". In alternativa, (...) e (...) hanno proposto una diversa collocazione dell'ascensore, sul lato Sud -Est del fabbricato, ove si trova l'ingresso della scala I. Rispetto a tali specifiche doglianze è stato nominato un CTU, al quale, tra gli altri accertamenti, è stato dato l'incarico di "verificare se il progetto alternativo prospettato dagli attori rappresenti valida alternativa sotto tutti i punti di vista anche in merito alle doglianze articolate rispetto al progetto del condominio". Sul punto, l'odierno giudicante ritiene di dover condividere quanto affermato dal (...): non è consentito in tal sede sindacare il merito della scelta tra l'uno o l'altro progetto, potendosi solo verificare la legittimità della volontà assembleare; per il che deve senz'altro escludersi che sia ravvisabile il vizio di eccesso di potere denunciato in citazione. Venendo all'impianto ascensore deliberato dall'assemblea, il CTU ha accertato che: - a) "la distanza tra la parete esterna della cabina ascensore e il filo esterno parete del vano finestra dell'ambiente cucina asservito all'appartamento posto al piano ammezzato di proprietà (...) è pari a ml = 2,92"; - b) "l'impianto ascensore previsto, del tipo panoramico con castelletto metallico e pannellature in cristallo di sicurezza trasparente, produce una minore luminosità sull'apertura del vano finestra "fi" dell'ambiente cucina asservito all'appartamento dei ricorrenti come segue: Sulla finestra "fi" la proiezione dell'impianto elevatore su tale vano incide per una larghezza pari a ml = 0,30 e, considerando la larghezza di apertura del vano, pari a ml 1,30, si ha una luminosità ridotta pari al 23%". Infine, il CTU ha verificato che l'impianto non rispetta le condizioni di accessibilità e di imbarco diretto per i disabili previste dalla legge 13/89. Orbene, poiché il nuovo ascensore deve essere realizzato all'esterno del fabbricato, con una struttura avente una propria consistenza, lo stesso non può essere considerato - come vorrebbe parte convenuta - un "volume tecnico" sottratto al rispetto delle distanze legali (si veda, Cass. 34461/2023, che ha ritenuto di dover correggere la motivazione della decisione impugnata ex art. 384 c.p.c., u.c., in quanto il dispositivo adottato era giustificato non in ragione della qualificazione dell'ascensore e della sua struttura prefabbricata di metallo e vetro come volume tecnico, ma in base alla normativa in tema di abbattimento delle barriere architettoniche). Conseguentemente, alla luce delle verifiche compiute dal CTU, può dirsi accertato che l'ascensore oggetto del deliberato assembleare, in quanto collocato a distanza inferiore a tre metri rispetto alla finestra del vano cucina degli attori, viola l'art. 907 c.c., quale norma applicabile anche nei rapporti tra condomini di un edificio (Cass. n. 10563 del 2001 e Cass. n. 23023 del 2000). Né, tale violazione può dirsi giustificata dalla normativa in materia di abbattimento delle barriere architettoniche, non risultando rispettate le relative condizioni di legge (non rilevano, rispetto alla decisione da assumere in questa sede, le eventuali conseguenze derivanti dagli incentivi del superbonus di cui fa menzione il convenuto nei propri atti difensivi). Orbene, non essendo l'impianto ascensore destinato all'abbattimento delle barriere architettoniche, la violazione della distanza prevista dall'art. 907 c.c. determina l'illegittimità della delibera assembleare, posto che se non possono essere lesi da delibere dell'assemblea condominiale, adottate a maggioranza, i diritti dei condomini attinenti alle cose comuni, a maggior ragione non possono essere lesi, da delibere non adottate all'unanimità, i diritti di ciascun condomino sulla porzione di proprietà esclusiva, indipendentemente da qualsiasi considerazione di eventuali utilità compensative. Né l'ascensore può essere considerato impianto indispensabile per un'effettiva abitabilità dell'appartamento, non avendo la medesima funzione degli impianti di luce, acqua, riscaldamento e similari, rispetto ai quali pure si ammette - in determinati limiti - la possibilità di derogare alla normativa sulle distanze. La delibera assembleare deve, per tale ragione, essere dichiarata nulla. In considerazione del fatto che non tutti i motivi di impugnazione si sono rivelati fondati, le spese di lite, ivi comprese quelle afferenti alla doppia fase cautelare, possono essere parzialmente compensate tra le parti. La compensazione va disposta nella misura del 30%, anche con riguardo all'espletata CTU, il cui costo risulta interamente anticipato in via provvisoria dagli attori nella misura di euro 3.924,63. Tra le spese di lite da liquidarsi in tal sede rientrano certamente quelle afferenti alla fase cautelare della sospensione della delibera (da determinare tenendo conto del risultato complessivo della causa, indipendentemente dalle ragioni specifiche del subprocedimento), ma non possono considerarsi quelle relative alla mediazione svoltasi con riguardo ad altra e diversa delibera assembleare. Devono essere riconosciute, invece, le spese inerenti alla seconda procedura di mediazione, recante la data del 7.12.2018, strumentalmente collegata al presente giudizio. P.Q.M. Il Tribunale di Napoli, in composizione monocratica, in persona del Giudice, Salvatore Di Lonardo, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione disattesa, così provvede: - a) dichiara la nullità della delibera impugnata; - b) compensa per il 30% le spese di lite e pone il rimanente 70% a carico del convenuto, (...), che in tal parte liquida nella misura di euro 3.215,96 per esborsi (ivi comprese le spese di CTU) ed euro 7.700,00 per compenso professionale (di cui: euro 4.900,00 per il giudizio di merito; euro 1.050,00 per la fase di mediazione; euro 1.750,00 per la fase cautelare), oltre rimborso spese generali (15%), IVA e CPA come per legge. Così deciso il 23 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA In Nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE composta dagli Ill.mi Magistrati: Felice Manna - Presidente - Patrizia Papa - Consigliere - R.G.N. 3806/2018 Giuseppe Fortunato - Consigliere Rel. - P.U. – 23.4.2024. Mauro Criscuolo - Consigliere - Riccardo Guida - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 3806/2018 R.G. proposto da CHINCARINI MONICA, rappresentata e difesa dall'avv. Marco Busti e dall’avv. Maurizio Vinci, con domicilio in Roma alla Via Lusena N. 9. -RICORRENTE– contro BENAMATI MARISA E CHINCARINI CARLO FRANCESCO, rappresentati e difesi dall’avv. Alberto Rinaldi e dall’avv. Cristina Zen, con domicilio in Verona, via Rubele n. 30. – CONTRORICORRENTI avverso la sentenza n. 2617/2017 della Corte d'appello di Venezia, depositata il 15.11.20217. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23.4.2024 dal Consigliere Giuseppe Fortunato. Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Rosa Maria Dell’Erba, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Uditi gli avv.ti. Alberto Rinaldi e Cristina Zen. FATTI DI CAUSA 1.Monica Chincarini ha convenuto in giudizio la cugina Marisa Benamati e il coniuge di quest'ultima, Carlo Francesco Chincarini, per ottenere lo scioglimento delle due diverse masse ereditarie del nonno Giuseppe Chincarini, deceduto il 28 marzo 2007, e della nonna Augusta Andreoli, deceduta il 21 luglio 2009, agendo in qualità di erede per rappresentazione dei genitori premorti. Ha esposto che con atto del 18.4.1997 Giuseppe Chincarini aveva venduto a Marisa Benamati e a Francesco Chincarini l’abitazione familiare, con riserva a sé e alla moglie dell’usufrutto vitalizio, e che con lo stesso atto Augusta Andreoli aveva trasferito ai convenuti la piena proprietà di un terreno per il prezzo di £. 1.500.000, atti che – secondo l’attrice - integravano vere e proprie donazioni o negozi misti con donazione, di cui ha chiesto la riduzione per lesione di legittima, instando infine per il risarcimento dei danni conseguenti all'utilizzo esclusivo dell'intero compendio caduto in successione da parte dei convenuti. Marisa Benamati e Francesco Chincarini hanno resistito, proponendo riconvenzionale per il rimborso delle spese funebri o, in subordine, per ottenere il controvalore delle migliorie apportate agli immobili comuni. Esaurita la trattazione, il Tribunale di Verona ha stabilito che entrambe le vendite del 18.4.1997 costituivano negozi misti con donazione, ha dichiarato inammissibile l'azione di riduzione proposta nei confronti di Carlo Francesco Chincarini relativamente alla massa di Giuseppe Chincarini, non avendo l’attrice accettato l’eredità del nonno paterno con beneficio di inventario, e ha respinto nel merito la domanda di riduzione verso Marisa Beneamati; ha accolto la domanda di riduzione relativamente all’eredità di Augusta Andreoli, condannando i convenuti, a tale titolo, al pagamento di € 69.000,00; ha infine diviso l’asse ereditario di Giuseppe Chincarini e ha assegnato le porzioni, con previsione di un conguaglio di €. 15880,00 a carico dell’attrice, respingendo ogni altra domanda e compensando le spese di giudizio. Su appello di Monica Chincarini, la Corte distrettuale di Venezia ha confermato la decisione. Anche a parere del Giudice distrettuale le due compravendite del 18 aprile del 1997 integravano negozi misti con donazione, evidenziando che i venditori aveva rilasciato quietanza e che non vi era prova del mancato pagamento del prezzo, avendo l’attrice allegato quale unico elemento presuntivo contrario la presenza di due testimoni al momento del rogito, insufficiente a provare la sussistenza di una vera e propria donazione del compendio immobiliare. Dopo aver stabilito che il valore della donazione indiretta relativamente alla vendita effettuata dal Giuseppe Chincarini era pari ad € 85.718,00, corrispondente alla metà del valore del nuda proprietà, detratta la metà del prezzo pagato (data l’impossibilità di ridurre la disposizione in favore di Francesco Chincarini), la sentenza ha escluso che la suddetta donazione indiretta, di cui era stata beneficiaria Marisa Beneamati, avesse leso la quota di riserva spettante all’attrice, confermando la riduzione della sola donazione effettuata dalla Andreoli ai due convenuti. Riguardo al valore dell’abitazione in località Dunes nel Comune di Malcesine, la Corte territoriale ha condiviso la stima dei beni effettuata dal c.t.u., affermando di non poter tener conto della vocazione edificatoria dell'immobile poiché, a suo parere, i beni ricadenti nell’asse dovevano essere valutati con riferimento alla situazione esistente al momento del perfezionamento dell’atto lesivo della legittima. Ha esonerato Francesco Carlo Chincarini dalla collazione dei beni ricevuti in donazione, sul rilievo che l'art. 737 c.c. si applica non a tutti i donatari ma solo ai coeredi, e ha stabilito che la riduzione doveva avvenire per equivalente, poiché la lesione era effetto di una donazione indiretta. Ha ritenuto infondate le doglianze dell’appellante in merito al criterio di assegnazione dei restanti beni in natura, evidenziando che la decisione del Tribunale – che aveva disatteso il progetto elaborato dal c.t.u. e che aveva attribuito all’attrice dei lotti 1 e 2 e i restanti tre lotti alla convenuta, con previsione di un conguaglio – consentiva di evitare la costituzione di servitù mentre la soluzione proposta dall’appellante finiva per attribuire a ciascun coerede beni di valore non proporzionato alle singole quote. Ha infine respinto la domanda di pagamento dei frutti dei beni, rilevando che nulla poteva pretendere l’attrice rispetto agli immobili oggetto delle vendite del 18.4.1997, trasferiti in proprietà agli acquirenti, e che non vi era prova, per le altre consistenze, del possesso esclusivo da parte dei convenuti. Per la cassazione della sentenza Monica Chincarini ha proposto ricorso affidato ad 8 motivi; Marisa Benamati e Carlo Francesco Chincarini resistono con controricorso. Le parti hanno depositato memorie illustrative. Il Procuratore generale ha fatto pervenire le proprie conclusioni scritte. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.Sono infondate le eccezioni d’inammissibilità del ricorso. Non risulta indispensabile l’indicazione degli atti su cui si fonda l’impugnazione, atti il cui contenuto è illustrato in ricorso con la dovuta specificità, unitamente alle vicende di causa, alle difese proposte dalle parti e ai rilievi mossi alla decisione di appello. L’impugnazione propone, poi, anche quesiti in diritto scrutinabili in cassazione (quanto, in particolare, agli elementi che vengono in considerazione ai fini del calcolo della quota di riserva e alla necessità di computare nell’asse anche le donazioni fatte a terzi, ove non suscettibili di riduzione, e riguardo ai criteri di accertamento del carattere simulato degli atti dispositivi impugnati), non solo deduzioni precluse ai sensi di cui all’art. 348, commi IV e V c.p.c.. Sussiste, infine, l’interesse ad impugnare da parte di Monica Chincarini per le conseguenze che la decisione è suscettibile di produrre ai fini del calcolo della legittima. 2.Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 1414, comma secondo, 2727, 2729, comma primo e secondo c.c., 115,100 16,132 c.p.c., e l’omesso ed insufficiente esame di un fatto decisivo per il giudizio, per aver la Corte d'appello escluso che le due compravendite costituissero vere e proprie donazioni per mancanza di prova della simulazione della quietanza e del mancato versamento del prezzo, in tal modo trascurando una pluralità di elementi convergenti. Sostiene la ricorrente che al momento della morte dei nonni non era stata rinvenuta alcuna somma, che i venditori non erano titolari di rapporti bancari o postali, che nessuna prova delle modalità di pagamento del prezzo era stata fornita dagli attori e che, inoltre, le due compravendite erano state stipulate con la presenza di due testimoni a riprova di una chiara volontà donativa dei disponenti. Il motivo è inammissibile. Deve premettersi che, agli effetti della prova della simulazione di atti posti in essere da de cuius, bisogna distinguere fra la situazione del legittimario che agisce a tutela della quota di riserva e quella del legittimario che propone una mera istanza di collazione. Nel primo caso questi, anche se chiamato a una quota di eredità, ha la veste di terzo, purché, congiuntamente con la domanda di simulazione, proponga, nello stesso giudizio, un'azione diretta a far dichiarare che il bene fa parte dell'asse ereditario e che la quota a lui spettante va calcolata tenendo conto di detto cespite. Nel secondo caso egli agisce come successore a titolo universale del de cuius per l'acquisizione al patrimonio ereditario del bene oggetto del contratto simulato e, rivestendo la medesima posizione del dante causa, soggiace ai limiti imposti ai contraenti per la prova della simulazione (Cass. 2093/2000; Cass. 7134/2001; Cass. 4021/2007; Cass. 3932/2016; Cass. 7237/2017). In definitiva, il legittimario ha la veste di terzo ai fini delle agevolazioni probatorie della simulazione purché la lesione della quota di riserva assurga a causa petendi, accanto al fatto della simulazione, e che condizioni l'esercizio del diritto alla reintegra (Cass. 5947/1986; Cass. 24134/2009; Cass. 12317/2019; Cass. 11659/2023). Giova poi ribadire, in dissenso con quanto sostenuto in ricorso, che non competeva ai convenuti provare di aver versato il prezzo o le modalità solutorie adottate, essendo onere della parte che agisce in riduzione dimostrare il carattere simulato della vendita, facendo ricorso ad ogni mezzo di prova, incluse le presunzioni, e dimostrare la sussistenza della lesione, quali fatti costitutivi della chiesta riduzione; solo ove fosse stata assolta tale prova, i convenuti avrebbero dovuto dar prova del contrario. Posti tali principi e ritenuta in astratto ammissibile (diversamente da quanto dedotto dai resistenti), la prova per presunzioni del carattere simulato degli atti di vendita, il motivo appare comunque inammissibile, non essendo specificato dove e quando gli elementi presuntivi da cui dovrebbe desumersi il carattere simulato delle compravendite e la natura di veri e propri atti donativi siano stati allegati in giudizio, avendo la Corte d'appello, per contro, specificato che l'unico elemento addotto a riprova del carattere simulato della quietanza era la presenza di testimoni, compatibile con il perfezionamento di un negozio misto con donazione. Né potrebbe comunque contestarsi alla Corte d’appello di non aver fatto ricorso al ragionamento presuntivo sulla base di fatti noti emersi in istruttoria, violazione che non è denunciabile ai sensi dell’art. 2729 c.c. (secondo le istruzioni della sentenza delle S.U. n. 8053/2014), ma che può integrare l’omesso esame di un fatto secondario ove sussistano i requisiti che ne condizionano lo scrutinio ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 5 c.p.c. (Cass. 17720/2018; Cass. 7861/2022; Cass. 2546/2024), occorrendo considerare che, nel caso di specie, la deducibilità di tale vizio in cassazione è comunque preclusa ai sensi dell’art. 348 ter, comma IV e V, c.p.c., poiché la sentenza impugnata appare fondata in proposito sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione di primo grado (Cass. 17720/2018; Cass. 34415/2022; Cass. 31323/2023; Cass. 35718/2023; Cass. 706/2024). 3. Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 115, 116, 132, 196 c.p.c., l'erronea valutazione delle risultanze probatorie in punto di stima dei beni oggetti di causa, nonché l'omesso insufficiente esame di un fatto decisivo per il giudizio, sostenendo che il CTU, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d'appello, si era limitato ad elencare gli elementi presi in considerazione per la stima, ossia fonti, parametri e statistiche da cui aveva tratto i prezzi unitari, elementi che sarebbero stati solo apparentemente esaminati, mentre né nella bozza, né nell'elaborato definitivo il c.t.u. avrebbe dato conto delle conclusioni assunte o anche solo preso in esame la documentazione esibita dalla ricorrente, tanto da stimare una villa con ampio terreno pertinenziale situato in una pregiatissima area turistica, in €. 1200,00 mq., a fonte di valori accertati dalle reti commerciali di intermediazione immobiliare per oltre 3.000 €/mq.. La pronuncia sarebbe inoltre viziata per aver negato rilievo alla vocazione edificatoria del terreno ricadente nell’asse, di cui si doveva tener conto per correttamente stimarne il valore con riferimento al momento dell'apertura della successione. Il motivo è parzialmente fondato. La censura difetta nuovamente di specificità nel punto in cui è diretta ad affermare che nessun elemento valutativo avrebbe, in realtà, preso in considerazione il CTU nelle operazioni di stima del compendio ereditario, non essendo riprodotto il contenuto della relazione nelle parti rilevanti per la decisione, considerato che anzi il giudice distrettuale ha espressamente affermato che il consulente aveva valutato i beni con metodo analitico, ne aveva comparato i valori con quelli di immobili similari, aveva acquisito informazioni presso agenzie e dall’OMI, ed aveva tenuto conto dell'ubicazione, dell’epoca di costruzione, della tipologia costruttiva e soprattutto dello stato di manutenzione degli immobili e dell'obsolescenza degli impianti. E’ principio pacifico che, in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che lamenti l'acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l'operato, ma, in ossequio al principio di specificità del ricorso per cassazione e al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l'onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche sollevate, al fine di consentire l'apprezzamento dell'incidenza causale del difetto di motivazione.” (Cass. 7078/2006; Cass. 13845/2007; Cass. 3224/2014; Cass. 16638/2014; Cass. 19989/2021; Cass. 15733/2022). La pronuncia è invece errata nella parte in cui ha ritenuto di non poter considerare la potenzialità edificatoria del terreno rientrante nell’asse, sull'assunto che, per accertare la lesione di legittima, debba guardarsi esclusivamente alla situazione esistente al momento del negozio impugnato e valutare il rapporto di proporzione tra il valore di mercato ed il prezzo pagato. Occorre obiettare che, per accertare la lesione della quota di riserva, va determinato il valore della massa ereditaria, quello della quota disponibile e della quota di legittima e che, a tal fine, occorre procedere alla formazione del compendio dei beni relitti e alla determinazione del loro valore al momento dell'apertura della successione quindi, alla detrazione dal "relictum" dei debiti, da valutare con riferimento alla stessa data e, ancora, alla riunione fittizia, cioè meramente contabile, tra attivo netto e "donatum", costituito dai beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione, da stimare, in relazione ai beni immobili ed ai beni mobili, ugualmente secondo il loro valore al momento dell'apertura della successione (artt. 747 e 750 c.c.) e, con riferimento al valore nominale, quanto alle donazioni in denaro (Cass. 12919/2012; Cass. 27352/2014; Cass. 24755/2015; Cass. 8174/2022; Cass. 35738/2023). Le descritte operazioni valutative andavano compiute avendo riguardo alla situazione dei beni al momento dell’apertura della successione e non a quello delle vendite, includendo nella valutazione anche il fattore costituito dall’eventuale vocazione edificatoria del terreno, potenzialmente incidente, in misura significativa, sul valore dei terreni e dell’asse nel suo complesso, specie in considerazione della zona di pregio in cui detti immobili sono ubicati. 4. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 553, 554,555, 556,559 e 560 c.c., lamentando che la Corte d'appello abbia escluso dalla valutazione dall'asse il valore della quota immobiliare donata a Carlo Chincarini e non abbia correttamente stabilito il valore dell’asse e quello della quota di riserva sulla base del patrimonio risultante dalla unione tra relictum e donatum, comprese le donazioni ricevute da soggetti diversi dai coeredi. Anche tale motivo è meritevole di accoglimento. 4.1. La censura non è preclusa dal giudicato interno per non aver la ricorrente appellato la pronuncia di primo grado nel punto in cui ha affermato l’intangibilità dell’acquisto siccome caduto in comunione legale (come si sostiene nel controricorso), argomentazione – quest’ultima - illustrata sinteticamente e in via puramente ipotetica dal Tribunale e che non è apprezzabile quale automa ratio decidendi suscettibile di giudicato interno, avendo il primo giudice respinto l’azione di riduzione per la dichiarata insussistenza della lesione di legittima ai danni della ricorrente (cfr. sentenza di primo grado, pag. 13). 4.2. La Corte di merito ha escluso che la donazione ricevuta da Francesco Chincarini dovesse essere conteggiata per il calcolo del valore dell’asse e della quota di riserva, poiché quest’ultimo non rientrava nel novero dei soggetti tenuti alla collazione ai sensi dell’art. 737 c.c.. Tale assunto è errato in diritto, poiché, pur non essendo Francesco Chincarini figlio o discendente di Giuseppe Chincarini e pur non essendo tenuto alla collazione, occorreva comunque considerare il valore delle suddette donazioni per stabilire il valore del patrimonio relitto al momento dell'apertura della successione, valore che deve essere pari a quello dei beni che si rinvengono nel patrimonio del defunto e quelli che ne siano usciti per effetto di tutte le donazioni, a favore di chiunque effettuate, come Monica Chincarini aveva correttamente sostenuto nell’atto di appello (cfr. pag. 9-11), dove, pur evocando impropriamente un obbligo di collazione, aveva però chiaramente chiesto di determinare il valore della massa ereditaria, ricomprendendovi quanto ricevuto da Francesco Chincarini per effetto della vendita del 18.4.1997, integrante una donazione indiretta. La riunione fittizia, quale operazione meramente contabile di sommatoria tra attivo netto e "donatum", cioè tra il valore dei beni relitti al tempo dell'apertura della successione, detratti i debiti, ed il valore dei beni donati, sempre al momento dell'apertura della successione, è finalizzata alla determinazione della quota disponibile e di quella di legittima, per accertare l'eventuale lesione della quota riservata al legittimario; ne deriva che l'inammissibilità della domanda di riduzione proposta (nei confronti del donatario non coerede) dal legittimario che non abbia accettato l'eredità con il beneficio d'inventario, è – a tale scopo - del tutto ininfluente (Cass. 8174/2022; Cass. 12919/2012). L'art. 556 c.c. dispone, infatti, che sono incluse nel calcolo tutte le donazioni, chiunque ne sia il beneficiario, indipendentemente dal fatto che si tratti di congiunto, di erede o di estraneo (Cass. 14193/2022). E’ opportuno, invece, puntualizzare che l’attrice non poteva certamente ottenere la riduzione della donazione ricevuta dal Chincarini, non avendo accettato l’eredità del nonno paterno con beneficio di inventario, e che del valore di tale disposizione dovrà tenersi conto, oltre per le operazioni di stima dell’eredità, anche per la quantificazione della riduzione da compiersi ai danni della Benamati. In linea generale le donazioni si riducono secondo l’ordine cronologico inderogabile fissato dall’art. 559 c.c., partendo dalle ultime effettuiate e risalendo a quelle anteriori; se coeve, esse vanno ridotte proporzionalmente. In virtù di tale preclusione, la scelta del legittimario di ridurre una donazione anteriore senza previamente aggredire quella più recente incontra il limite rappresentato dall'onere di scomputare dal valore della riduzione richiesta quello della riduzione che il legittimario avrebbe potuto richiedere al donatario posteriore, giacché egli non può recuperare, a scapito di un donatario anteriore, quanto potrebbe conseguire agendo in riduzione nei confronti del donatario più recente. Tale principio vale anche quando l’azione di riduzione verso un donatario sia preclusa per mancata accettazione del beneficio di inventario: in tal caso, il legittimario non può aggredire la donazione meno recente a favore del coerede se non nei limiti in cui risulti dimostrata l'insufficienza della donazione più recente, sebbene resa intangibile ai sensi dell’art. 564 c.c., a reintegrare la quota di riserva (Cass. 3500/19775; Cass. 22632/2013). Analogo principio trova applicazione nel caso in cui le donazioni da ridurre siano contestuali o coeve, dovendosi tenersi conto, ove si proceda alla riduzione di una di esse di quanto il legittimario avrebbe potuto ottenere dalla riduzione proporzionale di quella non riducibile per mancata accettazione dell’eredità con beneficio di inventario. In conclusione, la Corte di merito avrebbe dovuto computare nell’asse di Giuseppe Chincarini anche il valore della donazione indiretta ricevuta da Francesco Chincarini e stabilire, all’esito della riunione di relictum e donatum, il valore della legittima e della disponibile, procedendo all’eventuale riduzione tenendo conto di quanto la ricorrente avrebbe potuto ottenere dalla riduzione della donazione indiretta ricevuta sempre da Francesco Chincarini ove l’eredità di cui si discute fosse stata accettata con beneficio di inventario, accertando inoltre se le donazioni lesive siano o meno coeve. 5. Il quarto motivo denuncia la violazione dell'art. 560 c.c., per aver la Corte d'appello respinto la richiesta di reintegrazione della quota di riserva in natura sull’errato presupposto che gli atti di vendita del 18 aprile 1997 costituissero negozi misti con donazione, anziché donazioni vere e proprie. Il motivo è infondato, poiché, come si è già precisato nell’esame del primo motivo di ricorso, è incensurabile l'accertamento in fatto svolto dalla Corte d'appello riguardo alla natura delle due vendite immobiliari del 18 aprile 1997. Resta da evidenziare che il "negotium mixtum cum donatione" costituisce una donazione indiretta attuata attraverso l'utilizzazione della compravendita al fine di arricchire il compratore della differenza tra il prezzo pattuito e quello effettivo (Cass. 1214/1997; Cass. 642/2000; Cass. 19601/2004; Cass. 23297/2009 n. 23297). In tal caso la riduzione si attua per equivalente e non in natura, poiché l'azione di riduzione non mette in discussione la titolarità del bene e l'acquisizione alla massa è circoscritta al loro controvalore mediante il metodo dell'imputazione (cfr., in tema di donazione indiretta immobiliare mediante dazione della provvista: Cass. 12563/2000; Cass. 11496/2010). 5. Il quinto motivo denuncia la violazione degli artt. 718,720 e 727 c.c.. Assume la ricorrente che, nell'assegnare i beni relitti del patrimonio di Giuseppe Chincarini, costituiti dai terreni adiacenti all'abitazione della resistente e da due ulteriori terreni montani, su uno sui quali insisteva un piccolo fabbricato rurale per l'allevamento del bestiame, la Corte d'appello abbia assegnato alla ricorrente una parte dei terreni di Dunes adiacenti al fabbricato e i restanti fondi alla Benamati, in violazione dei criteri di assegnazione di beni omogenei, che avrebbero consigliato di ricomporre in un'unica proprietà il complesso edificato e scoperto di Dunes e di assegnare alla Benamati i terreni ivi ubicati e alla ricorrente gli altri terreni con il sovrastante rustico, costituenti corpi del tutto staccati ed autonomi rispetto all'abitazione, tenendo anche conto delle prescrizioni della normativa urbanistica locale. Il motivo è assorbito poiché il giudice del rinvio dovrà procedere alla nuova stima anche dei terreni, valutandone le potenzialità edificatoria al momento della apertura della successione e dovrà eventualmente procedere ad un nuovo progetto di divisione, tenendo conto anche delle donazioni effettuate a favore di Francesco Chincarini. 6. Il sesto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per aver la Corte d'appello respinto la domanda di pagamento dei frutti, ritenendo indimostrato il possesso esclusivo dei beni in capo ai coniugi Chincarini e Benamati. Espone la ricorrente che il suddetto possesso esclusivo degli immobili da parte dei convenuti era pacifico, avendone essi goduto ancor prima della morte dei nonni, con i quali vivevano come un’unica famiglia. Il motivo non merita di essere condiviso. Riguardo agli immobili venduti, essendo oggetto di negozi misti con donazione, la riduzione poteva aver luogo per equivalente, non in natura, sicché su tali beni non si era affatto costituita, neppure parzialmente, una situazione di comunione tra i legittimari, non essendo posto nel nulla o reso inefficace il trasferimento attuato con le vendite. Di conseguenza nessuna pretesa poteva coltivare la ricorrente per l’utilizzo esclusivo dei beni da parte degli acquirenti, né poteva pretendere il pagamento dei frutti in assenza di una comunione scaturita dalla riduzione delle donazioni immobiliari. Se la riduzione avviene per equivalente è invece necessario, per assicurare al legittimario l'esatto equivalente del bene che avrebbe avuto il diritto di conseguire, liquidare a suo favore una somma di danaro pari al valore di detto bene, la cui stima deve essere eseguita con riguardo alla data della pronuncia giudiziaria, senza che da ciò derivi una violazione dell'art. 557 cod. civ. (Cass. 13003/2001). Quanto ai terreni non oggetto delle vendite, il motivo, che finisce per sollevare questioni in fatto circa l’esistenza di un possesso esclusivo dopo l’apertura della decisione, non illustra il contenuto delle difese formulate nei gradi di merito e non consente di valutare se effettivamente l’esercizio di un possesso esclusivo fosse circostanza pacifica, conclusione - quest’ultima – negata esplicitamente dalla pronuncia impugnata, dovendo osservare che, qualora con il ricorso per cassazione si ascriva al giudice di merito di non avere tenuto conto di una circostanza di fatto che si assume essere stata "pacifica" tra le parti, è onere del ricorrente, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., indicare in quale atto sia stata allegata la suddetta circostanza, ed in quale sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica (Cass. 15961/2007; Cass. 10853/2012; Cass. 17474/2018; Cass. 24062/2017; Cass. 10761/2022). 7. Il settimo motivo denuncia la violazione dell’art. 92 c.p.c. lamentando che la Corte distrettuale abbia confermato la compensazione delle spese di primo grado, non considerando il pressoché integrale accoglimento delle domande e l’ingiusta resistenza dei convenuti, che avevano dato causa al processo. L’ottavo motivo denuncia l’erroneità della condanna e la violazione dell’art. 91 c.p.c. con riferimento alla condanna al pagamento delle spese di appello. I due motivi sono assorbiti, dovendo il giudice riesaminare gli atti di causa e rivalutare l’entità della lesione, statuendo nuovamente sulle spese di entrambi i gradi di causa. Sono, quindi, accolti il secondo ed il terzo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, sono respinti il primo, il quarto e il sesto motivo, sono assorbiti il quinto, il settimo e l’ottavo. La sentenza è cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio della causa alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, che provvederà a regolare le spese di legittimità. P.Q.M. accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, respinge il primo, il quarto e il sesto motivo e dichiara assorbiti il quinto, il settimo e l’ottavo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, che provvederà a regolare le spese di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, in data 23.4.2024. IL CONSIGLIERE ESTENSORE IL PRESIDENTE Giuseppe Fortunato Felice Manna
REPUBBLICA ITALIANA In Nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE composta dagli Ill.mi Magistrati: Felice Manna - Presidente - Patrizia Papa - Consigliere - R.G.N. 18315/2018 Giuseppe Fortunato - Consigliere Rel. - P.U. – 23.4.2024. Mauro Criscuolo - Consigliere - Riccardo Guida - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 18315/2018 R.G. proposto da PIPIA CATERINA, rappresentata e difesa dall'avv. Giuseppe Torre, con domicilio in Roma, Via Circonvallazione Clodia n. 145/A, presso l’avv. Leonardo Zipoli. -RICORRENTE– contro PIPIA MARIA, elettivamente domiciliata in Roma, Corso Trieste n. 199, presso lo studio dell'avv. Antonietta Giannuzzi, rappresentata e difesa dall'avv. Giovanni Valentino. – CONTRORICORRENTE- PIPIA MICHELE. -INTIMATO- avverso la sentenza n. 848/2017 della Corte d'appello di Palermo, depositata il 10/05/2017. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 24.10.2023 dal Consigliere Giuseppe Fortunato. Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Maria Rosaria Dell’Erba, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Uditi gli avv.ti Giuseppe Torre e Francesca Falachi. FATTI DI CAUSA 1.Con citazione notificata il 14 aprile 2003, Maria Pipia ha evocato in giudizio la sorella Caterina Pipia, esponendo che la propria madre Angela di Giacinto - deceduta il 30.9.2002- in data 11.5.2001 aveva donato alla convenuta un appezzamento di terreno sito nel territorio del Comune di Casteldaccia, contrada Nutricato, meglio identificato in atti, e che detta disposizione era lesiva dei diritti di legittima. Ha chiesto la riduzione della donazione in natura, con la resa del conto e il pagamento dei frutti. Instaurato il contraddittorio, Caterina Pipia ha sostenuto che l'attrice aveva ricevuto dalla madre €. 61.814,85 quale controvalore dell'usufrutto, riservato alla Di Giacinto, sull'immobile che l’attrice aveva ricevuto in nuda proprietà dal padre, sito in Bagheria, alla via Ruggero Settimo n. 5, nonché l'ulteriore somma di €. 24.647,91 ricavato dalla vendita di alcuni terreni e taluni gioielli dal valore complessivo di €. 20.658,28, mentre il fratello Michele non aveva mai versato alla madre, trattenendone l’importo, il controvalore dell'usufrutto spettante alla de cuius sull'appartamento sito in Bagheria alla via Ruggiero Settimo n. 4, per l’importo di € 61.814,85, oltre ad €. 24.647,91 menzionati nella scrittura del 25 settembre 2002 a firma della de cuius ed il controvalore di taluni gioielli, pari ad €. 10.000. Ha eccepito che il terreno ricevuto dalla madre aveva il valore di € 167.848,42 mentre Michele Pipia aveva incamerato beni e somme di denaro per €. 91.627,13 e l’attrice Maria Pipia un controvalore complessivo di €. 107.111,04, come risultava dal testamento pubblico del 23 aprile 2001. Espletata consulenza tecnica grafologica sulla scrittura del 25.9.2002 e consulenza tecnica d'ufficio per la valutazione del complesso ereditario, il Tribunale, con sentenza non definitiva n. 1482 del 2010, ha ritenuto sussistente la lesione della quota di legittima spettante a Maria Pipia, per un importo di €. 53.198,05, sostenendo che il valore dell’usufrutto la de cuius aveva donato all’attrice era pari ad €. 3870,00 e non ad €. 61.335,00, poiché l'appartamento di via Ruggero Settimo n. 5 di Bagheria, gravato di usufrutto, era stato locato solo per il periodo aprile\settembre 2002. Con successiva sentenza definitiva n. 875/2012, ha disposto la riduzione della donazione del 23.4.2001, ordinando la retrocessione del bene alla comunione e la divisione del patrimonio ereditario. La sentenza non definitiva n. 1482/2010 è stata impugnata in via principale da Caterina Pipia, lamentando che il Tribunale non aveva conteggiato nella divisione l'intero importo che Maria Pipia aveva ricevuto dalla madre, pari ad €. 82.472,28; Maria Pipia ha proposto appello incidentale, chiedendo di dichiarare che la quota di riserva assommava ad € 78.566,23, chiedendo di respingere la domanda di riduzione. Con sentenza n. 848/2017, la Corte distrettuale ha dichiarato inammissibile l’appello principale ed inefficace quello incidentale, affermando che Caterina Pipia si era limitata ad esporre lo svolgimento del giudizio di primo grado ed aveva riproposto gli argomenti già sviluppati in primo grado, mancando il gravame di una parte argomentativa specificamente diretta a confutare i punti fondamentali della motivazione del Tribunale nella parte in cui era accertata la lesione di legittima ai danni di Maria Pipia. Per la cassazione della sentenza Caterina Pipia ha proposto ricorso affidato a due motivi, cui Maria Pipia ha resistito con controricorso. Michele Pipia non ha proposto difese. La causa, inizialmente avviata alla trattazione camerale dinanzi alla Sesta sezione civile, è stata rimessa in pubblica udienza con ordinanza interlocutoria n. 16473/2019. Le parti hanno depositato memorie illustrative. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo di ricorso denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, sostenendo che la Corte distrettuale non avrebbe dato conto in motivazione delle ragioni per cui ha ritenuto non specifici i motivi di appello, pur avendo l’appellante illustrato in modo argomentato le critiche alla pronuncia di primo grado, evidenziando che il Tribunale aveva erroneamente quantificato in € 3870,00 il controvalore della donazione dell’usufrutto sulla casa paterna ricevuta in vita da Maria Pipia, poiché il testamento del 23.8.1991, dichiarati autentico, risultava che il valore dell’usufrutto sull’immobile assommava ad €. 61.814,00 e che le dichiarazioni del teste escusso, che aveva riferito di aver condotto in locazione l’immobile dall’aprile 2003 al settembre 2003, non erano rilevanti, riguardando un periodo successivo alla morte di Angela Di Giacinto. Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per aver la Corte di merito ritenuto che il valore dell’usufrutto sulla casa paterna oggetto di donazione in favore della resistente ascendesse ad € 3870,00, in contrasto con le risultanze documentali. 2.Deve dichiararsi l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 340, comma secondo, c.p.c.. E’ evidenziato nel controricorso e trova riscontro nell’esame degli atti di causa che la ricorrente aveva dichiarato nell’atto di appello di aver formulato riserva di impugnazione avverso la sentenza non definitiva n. 1482/2010 all’udienza del 19.4.2010 (cfr. atto di appello pag. 9 e controricorso, pag. 9). Nonostante la suddetta riserva di impugnazione, che la ricorrente ha esplicitamente ammesso di aver formulato, quest’ultima ha proposto appello immediato avverso la sentenza non definitiva di primo grado con atto notificato in data 13.9.2010, mentre la successiva sentenza definitiva n. 875/2012 è stata pubblicata solo il 22.2.2012. La natura non definitiva della sentenza oggetto di appello immediato discendeva dalla esplicita qualificazione in tal senso operata dal Tribunale (cfr. Cass. s.u. 10242/2021), e peraltro il primo giudice aveva rinviato alla pronuncia definitiva anche la regolazione delle spese (cfr. sentenza di primo grado, pag. 9), limitandosi a dichiarare la sussistenza della lesione di legittima, disponendo con ordinanza per l’individuazione delle porzione da retrocedere alla massa ereditaria, per la formazione delle quote e per le operazioni divisionali (cfr., per la natura non definitiva delle pronunce adottate nel corso del giudizio di divisione, eccettuata l'ultima che provvede, ai sensi degli artt. 789 e 791 c.p.c., alla formazione definitiva dei lotti, anche quanto rimetta alla fase successiva le operazioni relative al sorteggio delle quote: Cass. 29829/2011; Cass. 15446/2016; Cass. 24300/2023). Deve ribadirsi che l'impugnazione immediata di una sentenza non definitiva di cui la parte si sia riservata l'impugnazione differita è inammissibile, pur non precludendo, dopo la sentenza definitiva, l'esercizio del potere di impugnare anche quella non definitiva (Cass. 18498/2015; Cass. 17233/2010; Cass. 1200/2003), essendo – in tal caso - inefficace anche l’impugnazione incidentale tardiva (Cass. 21173/2021). In conclusione, decidendo sul ricorso, va dichiarata l’inammissibilità dell’appello proposto da Caterina Pipia avverso la sentenza non definitiva n. 1482/2010 del Tribunale di Palermo, confermando l’inefficacia dell’impugnazione incidentale tardiva; la sentenza impugnata è cassata senza rinvio, perché il giudizio di appello non poteva essere proposto, con regolazione delle spese in dispositivo. Si dà atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto. P.Q.M. decidendo sul ricorso, dichiara inammissibile l’appello proposto da Caterina Pipia avverso la sentenza del Tribunale di Palermo n. 1482/2010, cassa senza rinvio la sentenza impugnata e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di appello, liquidate in €. 2700,00 per compenso ed € 150,00 per esborsi, nonché al pagamento delle spese di legittimità, liquidate in €. 7500,00 per compenso ed €. 200,00 per esborsi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali, in misura del 15%. Dà atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, in data 23.4.2024. IL CONSIGLIERE ESTENSORE IL PRESIDENTE Giuseppe Fortunato Felice Manna
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 475 del 2024, proposto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocato Ma.Ce., con domicilio eletto presso il suo studio in Firenze, via (...); contro Comune di Omissis, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocato Gi.Mi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti La.Ca. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, L’A. Soc. Coop., in persona del legale rappresentante pro tempore, Lido Or.Mi. di Sc.An., rappresentati e difesi dall’Avvocato Da.Lo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Bl. s.p.a. unipersonale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocato An.St.Da., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; E.T.Ed. e Tu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, Lido Za. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, Su.Pl. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocato Is.Lo. e dall’Avvocato Fe.Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Po. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocato Ni.Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Circolo Unione di Bari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocato Al.Lo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; S.I.B. - Sindacato Italiano Balneari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso, sia congiuntamente che disgiuntamente, dall’Avvocato Ma.Al.Sa., dall’Avvocato Gu.Al.Gi., dall’Avvocato An.Ca. e dall’Avvocato St.Fr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Pe.dello Jo. s.r.l., non costituita nel presente grado del giudizio; Lido Ce.Pi. Soc. Coop. a r.l., non costituito nel presente grado del giudizio; Bagno Ce. Società a r.l.s., non costituita nel presente grado del giudizio; Lido Fr. di Ti. Lu. & C. s.n. c., non costituita nel presente grado del giudizio; Associazione Pro Loco “Lu.St.”, non costituita nel presente grado del giudizio; Co.An., non costituito nel presente grado del giudizio; M2.Ra.Ma. s.p.a., non costituita nel presente grado del giudizio; Gi.Pi., non costituito nel presente grado del giudizio; Dm. di Ma.Gi. & C. s.n. c., non costituita nel presente grado del giudizio; Lg. s.r.l.s., non costituita nel presente grado del giudizio; R. Ma. di Ra.Ma. & Co. s.n. c. (Lido il Ga.), non costituito nel presente grado del giudizio; Vi.Gi. Quale Titolare della Ditta Individuale “Vi.Gi.”, non costituito nel presente grado del giudizio; Al.Ca.Bi. di Cl.Vi., non costituito nel presente grado del giudizio; Federazione Imprese Demaniali, non costituita nel presente grado del giudizio; Po.Gi. s.a.s. An.Os. di Ra.Ma. & C., non costituita nel presente grado del giudizio; Ri.Vi. subentrante nella Titolarità della Concessione Demaniale n. 02/2008 intestata a Vi.Gi., non costituito nel presente grado del giudizio; per la riforma della sentenza n. 1223 del 2 novembre 2023 del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sez. I, resa tra le parti, che ha dichiarato improcedibile il ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto dall’Autorità, odierna appellante principale, per l’annullamento della deliberazione della Giunta Comunale del 24 dicembre 2020, n. 225, approvata dal Comune di Omissis, avente ad oggetto "Legge n. 145/2018 art. 1, commi 682 e 683 - D.L. n. 34/2020 conv. nella Legge n. 77/2020 art. 182, comma 2 e s.m.i. - Richieste di proroga concessioni demaniali marittime. Atto di indirizzo" e, per quanto occorrer possa, della bozza di comunicazione e del modello di istanza, entrambe allegate alla deliberazione medesima, che ne formano parte integrante nonché di ogni altro atto connesso, presupposto e conseguente, ancorché non conosciuto. visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Omissis e di L’A. Soc. Coop. e di Lido Or.Mi. di Sc.Gi. e di Bl. s.p.a. unipersonale e di E.T.Ed. e Tu. s.r.l. e di Lido Za. s.r.l. e di Po. s.r.l. e di Su.Pl. s.r.l. e di Circolo Unione di Bari e di Lido Or.Mi. di Sc.An.; visto l’atto di costituzione in giudizio e l’appello incidentale proposto dagli appellanti incidentali La.Ca. s.r.l., L’A. soc. coop. e Lido Or.Mi. di Sc.An. visto l’atto di costituzione in giudizio e l’appello incidentale proposto da S.I.B. Sindacato Italiano Balneari; visti tutti gli atti della causa; relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 maggio 2024 il Consigliere Massimiliano Noccelli e uditi per l’odierna appellante principale, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, l’Avvocato Ma.Ce., per l’appellato Comune di Omissis l’Avvocato Gi.Mi., per l’interventore ad opponendum nonché appellante incidentale S.I.B. - Sindacato Italiano Balneari l’Avvocato An.Ca., l’Avvocato Ba.Ra., l’Avvocato Ma.Al.Sa., l’Avvocato St.Fr., l’Avvocato Gu.Al.Gi., La.Ca. s.r.l., L’A. soc. coop. e Lido Or.Mi. di Sc.An., appellanti incidentali, l’Avvocato Da.Lo., per Bl. s.p.a. unipersonale l’Avvocato Ug.De.Lu. per delega dell’Avvocato An.St.Da. e per E.T. Ed.Tu. s.r.l., Lido Za. s.r.l. e Su.Pl. s.r.l. l’Avvocato Is.Lo. in proprio e per delega dell’Avvocato Fe.Ma.; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO E DIRITTO Con la delibera di Giunta comunale del 24 dicembre 2020, n. 225, il Comune di Omissis, odierno appellato, ha deliberato, da una parte, di tenere conto "del complesso quadro normativo e giurisprudenziale formatosi intorno alla tematica della proroga/rinnovo delle concessioni demaniali esistenti nonché della facoltà di utilizzo introdotta dall’art. 182, comma 2, del D.L. 5 n. 34/2020, convertito nella legge n. 77/2020 e s.m.i.", dall’altra, e conseguentemente - "considerato che allo stato attuale non vi sono le condizioni ed i tempi necessari per avviare, dopo la scadenza del 31.12.2020, le procedure ad evidenza pubblica per l’assegnazione in concessione della aree demaniali di che trattasi" - di adottare apposito atto di indirizzo e, quindi, "di approvare l’allegata comunicazione da inviare a tutti i concessionari ed inerente alla ricognizione delle concessioni demaniali marittime attive e scadenti al 31.12.2020 finalizzata all’emissione del provvedimento amministrativo di prolungamento della durata delle concessioni demaniali marittime fino al 31.12.2020, ai sensi della legge n. 145/2018 art. 1 commi 682 e 683 e dell’art. 182, comma 2, del D.L. n. 34/2020 convertito con modificazioni nella legge n. 77/2020 e s.m.i. [...]". 1.1. Ritenendo che la suddetta delibera presentasse criticità concorrenziali e si ponesse in contrasto con gli articoli 49 e 56 del TFUE, nonché con le norme unionali in materia di affidamenti pubblici, l’Autorità odierna appellante, nell’adunanza del 16 febbraio 2021, ha deliberato di esprimere un parere motivato ai sensi dell’art. 21-bis della l. n. 287 del 1990, relativamente al contenuto dell’atto in questione attraverso il quale ha ritenuto che il Comune di Omissis avrebbe dovuto disapplicare la normativa posta a fondamento della Delibera di Giunta Comunale n. 225/2020 per contrarietà della stessa ai principi e alla disciplina eurounitaria sopra richiamata. 1.2. Ciò in quanto, secondo l’Autorità, "le disposizioni relative alla proroga delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative contenute in tale delibera integrano, infatti, specifiche violazioni dei principi concorrenziali nella misura in cui impediscono il confronto competitivo che dovrebbe essere garantito in sede di affidamento dei servizi incidenti su risorse demaniali di carattere scarso, in un contesto di mercato nel quale le dinamiche concorrenziali sono già particolarmente affievolite a causa della lunga durata delle concessioni attualmente in essere". 1.3. Per tali ragioni, l’Autorità ha concluso che la delibera di Giunta comunale in questione si poneva in contrasto con gli articoli 49 e 56 del TFUE, essendo suscettibile di limitare ingiustificatamente la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi nel mercato interno, nonché con le disposizioni normative unionali in materia di affidamenti pubblici. 1.4. Nel parere veniva, altresì, indicato che, ai sensi dell’articolo 21-bis, comma 2, della l. n. 287 del 1990, il Comune avrebbe dovuto comunicare all’Autorità, entro il termine di sessanta giorni dalla ricezione del parere motivato, le iniziative adottate per rimuovere le violazioni della concorrenza sopra esposte. 1.5. In data 5 marzo 2021, il Comune di Omissis ha fatto pervenire le proprie osservazioni al parere, informando che "dopo adeguata istruttoria, [il Comune] adotterà i provvedimenti di proroga previsti dalla Legge 145/2018 e s.m.i. e secondo gli indirizzi impartiti dalla Giunta Comunale con i provvedimenti su riportati". 1.6. Preso atto del mancato adeguamento del Comune di Omissis al parere ricevuto e ritenendo non condivisibili le motivazioni dallo stesso addotte a giustificazione del proprio operato, nell’adunanza del 16 marzo 2021, l’Autorità ha deliberato di proporre ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce (qui di seguito, per brevità, il Tribunale) nei confronti del Comune di Omissis, ai sensi dell’art. 21-bis, comma 2, della l. n. 287 del 1990, avverso la citata delibera di Giunta comunale del 24 dicembre 2020, n. 225. 1.7. A seguito di notifica e del successivo deposito, il ricorso è stato iscritto al R.G. n. 599/2021 avanti al Tribunale. Con la delibera di Giunta n. 19 del 17 febbraio 2021, adottata il giorno successivo all’adunanza dell’Autorità nella quale era stato deliberato l’invio del citato parere motivato, il Comune di Omissis, da un lato, ha “confermato” "quanto stabilito con la Deliberazione della Giunta Comunale n. 225 del 24.12.2020" (punto 3 del deliberato) e, dall’altro, ha disposto di "precisare/rettificare il punto 3 della Deliberazione della G.C. n. 225/2020, nel rispetto della normativa comunitaria, statale e regionale vigenti e senza compromettere il futuro sviluppo della fascia costiera del Comune di Omissis, stabilendo che la proroga [delle concessioni demaniali, n. d.r.] potrà essere concessa come per legge fino al 31.12.2033 e che comunque tutti i concessionari legittimi dovranno adeguare le strutture balneari oggetto di concessione, alle previsioni dello strumento comunale di pianificazione costiera 7 (Piano Comunale delle Coste) all’atto della sua definitiva approvazione ed entrata in vigore, senza alcuna pretesa di carattere economico nei confronti del Comune di Omissis". 2.1. La delibera in parola costituisce un ulteriore atto di impulso procedimentale (rispetto alla precedente delibera n. 225 del 2020) teso ad attuare le disposizioni normative di rango primario concernenti la proroga delle concessioni sino al 2033 (e, in particolare, i commi da 682 a 684 dell’art. 1 della legge 30 dicembre 2018, n. 145, il comma 2 dell’art. 182 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, e il comma 1 dell’art. 100 del d.l. 14 agosto 2020, n. 104), nonché a “regolarizzare” la posizione di alcuni concessionari, proprio nell’ottica di tale proroga. 2.2. Con riferimento a quest’ultima delibera n. 19 del 2021, l’Autorità odierna appellante (nella predetta adunanza del 16 marzo 2021) ha ritenuto, coerentemente con il proprio precedente orientamento, di adottare un nuovo parere motivato che è stato comunicato al Comune secondo le formalità prescritte dall’art. 21-bis della l. n. 287 del 1990 il successivo 19 marzo, e con il quale veniva ribadito come la proroga delle concessioni, disposta e/o confermata dalla delibera predetta, si ponesse in contrasto diretto con il diritto europeo, e in specie con gli artt. 49 e 56 del T.F.U.E. e con l’art. 12 della Dir. 2006/123/CE, il quale ultimo pone, da un lato, il principio della durata necessariamente limitata delle autorizzazioni (concessioni), dall’altro, un esplicito divieto di rinnovo delle medesime. 2.3. Ribadita la necessità di provvedere, considerato il descritto contrasto, alla disapplicazione della normativa statale di cui la citata seconda delibera comunale costituiva attuazione, il Comune è stato dall’Autorità invitato ad assumere le necessarie iniziative volte a rimuovere gli effetti anticoncorrenziali prodotti dalla delibera medesima. 2.4. Il termine indicato nel parere motivato è decorso senza che pervenisse alcun tipo di riscontro, sicché, ritenendo che permanessero le criticità concorrenziali di cui si è detto in precedenza, l’Autorità ha presentato un nuovo autonomo ricorso, a valere anche quale atto di motivi aggiunti, ai sensi dell’art. 21-bis della L. n. 287 del 1990, con atto notificato il 7 giugno 2021. Nel primo grado del giudizio si sono costituiti in resistenza il Comune di Omissis e diversi soggetti, titolari di concessioni demaniali marittime nel Comune di Omissis, e sono intervenute ad opponendum anche alcune associazioni esponenziali di interessi collettivi, come l’odierna appellante incidentale S.I.B. - Sindacato Italiano Balneari. 3.1. Nelle more del giudizio, a seguito dei depositi documentali effettuati dalla controinteressata Po. s.r.l., l’Autorità è venuta a conoscenza della data e degli estremi dell’atto di proroga adottato dal Comune di Omissis e avente a oggetto l’estensione ex lege della durata della concessione demaniale marittima n. 06/2016 (intestata alla controinteressata Po. s.r.l.) al 31 dicembre 2033, ai sensi dell’art. 1, comma 682, della l. n. 145 del 2018. 3.2. Avverso tale atto, pertanto, nella riunione del 30 settembre 2021, l’Autorità ha deliberato di proporre un nuovo ricorso per motivi aggiunti, ai sensi dell’art. 21-bis della l. n. 287 del 1990. 3.3. Successivamente, a seguito di ulteriori e più recenti depositi documentali effettuati da altri controinteressati, costituitisi nel primo grado del giudizio, l’Autorità è venuta a conoscenza della data e degli estremi di altri atti di proroga adottati dal Comune di Omissis e aventi a oggetto l’estensione ex lege della durata delle concessioni demaniali marittime nn. 06/2007, 07/2012, 12/2012 e 04/2013 al 31 dicembre 2033, ai sensi dell’art. 1, comma 682, della l. n. 145 del 2018. 3.4. Anche avverso i suddetti atti, pertanto, nella riunione del 15 marzo 2022, l’Autorità ha deliberato di proporre ricorso per motivi aggiunti, ai sensi dell’art. 21-bis della l. n. 287 del 1990, per contestarne la illegittimità in via derivata dalla illegittimità dei provvedimenti in precedenza impugnati. Con ordinanza collegiale n. 743/2022 dell’11 maggio 2022 il Tribunale ha disposto la sospensione del giudizio e la contestuale trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia UE in sede di rinvio pregiudiziale, formulando alcuni quesiti in ordine alla validità e alla interpretazione della Dir. 2006/123/CE. Con la sentenza 20 aprile 2023 in C-348/22, la Corte di Giustizia UE si è espressa sulle questioni sollevate dal Tribunale. Sinteticamente, per quanto qui interessa, la Corte di Giustizia ha rilevato che l’art. 12 della Dir. 2006/123/CE si applica a tutte le concessioni demaniali, anche a quelle prive di interesse transfrontaliero certo; ha l’effetto diretto di obbligare gli Stati a svoLg.ere una procedura di selezione per affidare le nuove concessioni e di vietare conseguentemente i rinnovi automatici (o le proroghe) degli affidamenti in essere; obbliga tutti i giudici nazionali e le singole pubbliche amministrazioni nazionali e comunali a disapplicare eventuali disposizioni nazionali con esso incompatibili; con riferimento alla scarsità della risorsa, secondo il giudice europeo gli Stati membri dispongono di un certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili a tale valutazione, che può essere svolta in base a un mero approccio generale e astratto valido per tutto il nazionale, o a un approccio caso per caso che ponga l’accento sulla situazione esistente nel territorio costiero di un comune o dell’autorità amministrativa competente, o addirittura a combinare tali due approcci. Successivamente alla pubblicazione della sentenza della Corte di Giustizia europea, il giudizio R.G. n. 599/2021 è stato riassunto avanti al primo giudice con atto di impulso della odierna appellante principale e, in esito all’udienza pubblica del 27 settembre 2023, è stato trattenuto in decisione. Il Tribunale, con la sentenza n. 1223 del 2 novembre 2023, ha dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse il ricorso proposto dall’Autorità, affermando in estrema sintesi: 1) che gli atti impugnati dall’Autorità risultano caducati e privi di efficacia già per effetto della normativa sopravvenuta (nella specie, la legge n. 118 del 2022 che ha abrogato tutte le norme di cui alla legge n. 145 del 2018 e ha disposto il nuovo termine di scadenza delle concessioni demaniali marittime in essere al 31 dicembre 2023, nonché la successiva legge n. 14 del 2023 che ha differito il predetto termine al 31 dicembre 2024) e che, comunque, risulta mutato il contesto giuridico e fattuale di riferimento; 2) di non condividere "l’ipotesi di cessazione dell’efficacia delle CDM alla data del 31 dicembre 2023, che si supporta alla specifica statuizione in tal senso contenuta nelle sentenze A.P. 17 e 18 del 2021 (punto n. 48 di AP 17-18/2021), temporalmente antecedenti sia rispetto alla sentenza della C.G.U.E. del 20 aprile 2023, sia rispetto alla normativa di cui alla L. 14/2023"; 3) che, pertanto, tutte le concessioni demaniali marittime in essere verranno a scadere alla data del 31 dicembre 2024; 4) che la fissazione del termine delle concessione demaniali marittime al 31 dicembre 2023 deriva dalla corrispondente statuizione contenuta nelle sentenze dell’Adunanza plenaria del 2021 (poi recepita e trasfusa nel testo originario della l. n. 118 del 2022), la quale costituisce "la logica conseguenza della pretermessione - nella motivazione delle AA.PP. 17 e 18/2021 - di un significativo step, quale quello relativo alla scarsità della risorsa, condizionato alla tempistica connessa all’attività istruttoria e connotato di ampia discrezionalità, step individuato come centrale e preliminare adempimento nella direttiva come interpretata dalla C.G.U.E. con la sentenza del 20/04/2023 [...] siffatta statuizione del termine di cessazione di efficacia al 31.12.2023, a prescindere da ogni altra considerazione, non può ritenersi pertanto prevalente sulla norma successiva, che peraltro risulta invece del tutto coerente con le precisazioni innovative contenute nella sentenza della CGUE e non integra quindi gli estremi di una mera ed ingiustificata proroga automatica, vietata dall’art. 12 par. 1 e 2 della direttiva". Avverso la sentenza ha proposto appello principale l’Autorità, assumendone l’erroneità per i quattro motivi che di seguito saranno esaminati, e ne ha chiesto, previa sospensione dell’esecutività, la riforma. 9.1. Si è costituita il 26 gennaio 2024 Bl. s.p.a., titolare del “To.Vi.”, villaggio turistico insistente in località Marina di Omissis (Taranto), per chiedere la reiezione dell’appello. 9.2. Si sono il 27 gennaio 2024 costituiti per opporsi all’appello principale La.Ca. s.r.l., L’A. soc. coop. e Lido Or.Mi. di Sc.An., che hanno proposto appello incidentale, di cui si dirà successivamente. 9.3. È intervenuto ad opponendum il 29 gennaio 2024 il S.I.B. - Sindacato Italiano Balneari, già intervenuto ad opponendum in primo grado, per chiedere la reiezione dell’appello principale e, a sua volta, ha proposto appello incidentale. 9.4. Si è costituita il 29 gennaio 2024 Po. s.r.l per chiedere la reiezione dell’appello principale. 9.5. Si sono costituiti il 30 gennaio 2024 Lido Za., E.T.Ed. e Tu. s.r.l. e Su.Pl. s.r.l. sempre per chiedere la reiezione dell’appello principale. 9.6. Sempre il 30 gennaio 2024 è intervenuto ad opponendum Circolo Unione di Bari per chiedere la reiezione dell’appello principale. 9.7. Nella camera di consiglio del 30 gennaio 2024, fissata per l’esame della domanda cautelare, il Collegio, sull’accordo dei difensori delle parti, ha rinviato la causa all’udienza pubblica del 26 marzo 2024. 9.8. Si è costituito il 31 gennaio 2024 il Comune di Omissis, appellato, per eccepire l’irricevibilità e, comunque, l’infondatezza dell’appello principale. 9.9. All’esito dell’udienza pubblica del 26 marzo 2024, con l’ordinanza n. 2889 del 27 marzo 2024 il Collegio, rilevato, anche in seguito all’eccezione rispettivamente formulata dal Comune di Omissis e da La.Ca. s.r.l. e gli altri concessionari con essa costituiti, che non risultano rispettati i termini di cui all’art. 73, comma 1, c.p.a., ancorché dimidiati, per la eventuale difesa delle altre parti in ordine alla proposizione degli appelli incidentali notificati il 14 febbraio 2024, ha fissato una nuova udienza per garantire il rispetto del diritto di difesa e rinviato la causa all’udienza del 7 maggio 2024. 9.10. Infine, nell’udienza del 7 maggio 2024, il Collegio, sentiti i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in decisione. L’appello principale dell’Autorità è fondato. In via preliminare, in relazione agli interventi svolti nel presente giudizio e ritenuti implicitamente ammissibili dal giudice di primo grado, l’Autorità appellante ha proposto un motivo di appello (IV motivo), deducendo l’inammissibilità degli interventi ad opponendum della Po.Gi. s.a.s. e del Circolo Unione di Bari. 11.1. Al riguardo, il Collegio, in applicazione del criterio della “ragione più liquida” e della fondatezza dell’appello dell’Autorità, ritiene di prescindere dall’esame di ogni eccezione, anche d’ufficio, sulle parti intervenienti e di assorbire il quarto motivo dell’appello dell’Autorità, potendo la controversia essere decisa, tenuto conto di tutte le difese svolte e senza estromettere alcuna parte dal giudizio, sulla base dei principi che verranno di seguito esposti e fermo restando che non si intende in questa sede affrontare né la questione della interpretazione particolarmente ampia dell’istituto dell’intervento nel processo amministrativo, oltre che dei motivi inerenti alla giurisdizione, fornita dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 32559 del 23 novembre 2023 (v., sul punto, le condivisibili considerazioni di Cons. St., sez. VII, 19 febbraio 2024, n. 1653, in relazione anche alle ricadute applicative sull’art. 105 c.p.a.), né i profili relativi ai principi che regolano il processo amministrativo e che precludono la possibilità di spiegare l’intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris. 11.2. Sempre in via preliminare, ancora, l’appello principale dell’Autorità deve ritenersi procedibile, nonostante l’impugnativa in separato giudizio, da parte dell’Autorità stessa, della delibera n. 314 del 29 dicembre 2023, che ha deliberato "di prendere atto che le concessioni demaniali marittime rilasciate dal Comune di Omissis e tuttora vigenti, prorogate con diversi atti dirigenziali al 31/12/2033, hanno effettiva scadenza al 31/12/2024 come stabilito dalle norme Statali vigenti, fatte salve eventuali nuove disposizioni di legge stante la materia in continua evoluzione legislativa e regolamentare, e di incaricare il Responsabile del VII Settore - Servizio Demanio Marittimo della predisposizione del Bando - tipo per l’affidamento delle nuove concessioni". 11.3. L’interesse fatto valere dall’Autorità nel presente giudizio, infatti, è quello di ottenere l’annullamento delle delibere, impugnate in primo grado, che hanno prorogato le concessioni in forza di disposizioni normative contrastanti con il diritto unionale e che, prevedendo il prolungamento di queste concessioni fino al 2033, hanno prodotto effetti e in ogni caso potrebbero mantenere tutta l’attualità della lesione all’interesse pubblico, difeso dall’Autorità, anche in seguito all’eventuale annullamento, in altra sede, della nuova delibera di indirizzo di cui alla delibera n. 314 del 29 dicembre 2023, dato che il nuovo atto - al di là della questione della sua capacità di produrre effetti ancora una volta contrastanti con quelli del diritto europeo, come del resto tutti gli atti precedenti - è ben lontano dal potersi ritenersi consolidato proprio per la sua contestazione in sede giudiziale. 11.4. Al riguardo, infatti, si deve rammentare che, come questo Consiglio di Stato ha chiarito in analoga controversia (v., sul punto, Cons. St., sez. VI, 1° marzo 2023, n. 2192), l’interesse sostanziale, a tutela del quale l’AGCM può ricorrere ai sensi dell’art. 21-bis della citata l. n. 287 del 1990, assume i connotati dell’interesse a un bene della vita, nella specie quello al corretto funzionamento del mercato, che trova tutela a livello unionale e costituzionale, e del quale l’AGCM, secondo la l. n. 287 del 1990, è, istituzionalmente, portatrice. 11.5. L’Autorità quindi, in base alla menzionata normativa, è preposta alla salvaguardia di un interesse che si soggettivizza in capo ad essa come posizione qualificata e differenziata rispetto a quella degli altri attori del libero mercato, circostanza, questa, idonea a fondare la legittimazione processuale di cui all’art. 21-bis citato. 11.6. La scelta del legislatore di attribuire all’Autorità un potere di agire a tutela di tale interesse costituisce un’opzione di stretto diritto positivo che, lungi dall’essere contraria al vigente quadro costituzionale, si inserisce, anzi, nell’ambito degli strumenti di garanzia di effettività del corrispondente valore costituzionale, garantendone una tutela completa. 11.7. L’art. 21-bis della l. n. 287 del 1990 assegna all’Autorità una legittimazione straordinaria, che si inserisce in un sistema nel quale rileva il principio di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico (Cons. St., sez. VI, 1° marzo 2023, n. 2192, Cons. St., sez. VI, 30 aprile 2018, n. 2583, Cons. St., sez. VI, 15 maggio 2017, n. 2294) del tutto coerente con i parametri costituzionali di cui agli artt. 103 e 113 Cost. 11.8. Ne segue che permane a tutt’oggi l’interesse dell’Autorità a far valere l’illegittimità delle due delibere, impugnate in primo grado (con il ricorso e con i primi motivi aggiunti), nella misura in cui esse, con un atto di indirizzo a valenza generale, prolungano la durata dei rapporti concessori fino al 2033 in applicazione di una disposizione - quella dell’art. 1, commi 682 e 683, della l. n. 145 del 2018 ora abrogato - palesemente illegittima e, come si vedrà, suscettibile di disapplicazione, ancorché abrogata dall’art. 3, comma 5, della l. n. 118 del 2022. 11.9. Quest’effetto non può considerarsi esaurito, rendendo improcedibile l’appello, poiché tale proroga “generalizzata” originariamente prevista negli atti di indirizzo impugnati in primo grado, come quella del 29 dicembre 2023 ora impugnata in altro giudizio, è solo la conseguenza di previsioni legislative, via via succedutesi, che continuano sistematicamente e reiteratamente a violare le previsioni della Dir. 2006/123/CE e dell’art. 49 T.F.U.E., previsioni tutte, come ora si dirà, che devono essere disapplicate non solo dal giudice nazionale, ma anche dalle stesse pubbliche amministrazioni, in ragione di quanto ha chiarito da ultimo la Corte di Giustizia UE in C-348/22 (Comune di Omissis) proprio nel presente giudizio. 11.10. Alla luce di tali considerazioni, dunque, possono essere in sintesi respinte anche le eccezioni sollevate in via preliminare da Bl. s.p.a. unipersonale in quanto: a) la legittimazione dell’Autorità non viola, in nessun modo, la natura di giurisdizione soggettiva riconosciuta pacificamente alla giurisdizione amministrativa ed è pienamente compatibile con il vigente assetto costituzionale, anche ai sensi degli artt. 103 e 113 Cost.; b) la carenza di interesse dell’Autorità in riferimento al tratto di costa assegnato alla controinteressata in concessione non dipende dalla asserita - e mai dimostrata - assenza di interesse transfrontaliero di tale tratto, per le sue specifiche caratteristiche, ma solo dal fatto che anche la proroga di detta concessione, al pari delle altre, costituisce la mera applicazione di disposizioni normative contenute in leggi del tutto prive di effetto perché frontalmente contrastanti con il diritto dell’Unione; c) l’omessa notificazione del ricorso alla Regione Puglia e l’omessa impugnazione delle circolari regionali contenenti "Indicazioni operative ai Comuni costieri per l’applicazione ex lege della durata delle concessioni demaniali marittime vigenti" sono del tutto irrilevanti perché appare evidente, anche solo leggendo l’oggetto di tali circolari, come le stesse concretizzino mere indicazioni procedurali, prive di qualunque valore provvedimentale, riconducibili tutt’al più a meri ordini di servizio di carattere interno alle strutture destinatarie delle singole amministrazioni, ove esauriscono la loro efficacia, peraltro non vincolante e, in ogni caso, "le circolari amministrative sono atti diretti agli organi ed uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti estranei all’amministrazione, con la conseguenza che una circolare amministrativa contra legem può essere disapplicata anche d’ufficio dal giudice investito dell’impugnazione dell’atto che ne fa applicazione" (v., ex multis, Cons. St., sez. IV, 21 giugno 2010, n. 3877). Sussiste e permane dunque l’interesse dell’Autorità a fare valere l’illegittimità degli atti impugnati in primo grado, lesivi del diritto alla concorrenza, mentre può ritenersi l’improcedibilità, come si dirà, di tutte le singole proroghe via via adottate nei confronti dei singoli concessionari e impugnate in primo grado con i motivi aggiunti. Sempre in via preliminare deve essere respinta la richiesta di rimessione all’Adunanza plenaria formulata il 25 marzo 2024 dalla controinteressata Po. s.r.l. dopo l’annullamento della sentenza n. 18 del 9 novembre 2021 da parte delle Sezioni Unite della Cassazione nella già citata sentenza n. 32559 del 23 novembre 2023 (peraltro solo per ragioni attinenti agli interventi delle associazioni esponenziali di interessi collettivi e della Regione Abruzzo), in quanto priva di fondamento perché, come pure ha rammentato la stessa Po. s.r.l., la coeva e gemella sentenza n. 17 del 9 novembre 2021 dell’Adunanza plenaria mantiene ad oggi per le ragioni che ora si diranno tutta la sua efficacia sul piano nomofilattico, nonostante la proposizione “postuma” di un ulteriore ricorso per cassazione anche contro tale sentenza da parte di molti concessionari - che non furono parti di quel giudizio - nel marzo di quest’anno. 13.1. L’art. 99 c.p.a. prevede due sole modalità di deferimento alla Adunanza plenaria: mediante ordinanza della sezione cui è assegnato il ricorso (comma 1) o con deferimento da parte del Presidente del Consiglio di Stato (comma 2) ed è pacifico che dopo i due interventi delle Sezioni unite non vi sia stato alcun deferimento del presente giudizio alla Adunanza plenaria da parte del Presidente del Consiglio di Stato ai sensi dell’art. 99, comma 2, c.p.a., sicché solo questa Sezione può provvedere a un nuovo deferimento in presenza dei presupposti di cui al comma 1 dello stesso citato art. 99 ("se rileva che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali"). 13.2. E questi presupposti anche dopo l’annullamento (per ragioni che esulano dal merito dei principi allora affermati) della sentenza n. 18 del novembre 2021 non sussistono perché la giurisprudenza del Consiglio di Stato è pacifica nell’affermare i principi di cui si dirà oltre senza che vi sia alcun contrasto tra sezioni o all’interno di questa sezione e, inoltre, né le sopravvenienze normative né la sentenza della Corte di Giustizia del 20 aprile 2023 in C-348/22 (Comune di Omissis) hanno inciso sulla rilevante attualità di quei principi, a tutt’oggi validi, che devono condurre all’immediata disapplicazione delle proroghe in favore dei concessionari, anche laddove esse si fondino sulle illegittime e disapplicabili sopravvenienze normative di cui al d.l. n. 198 del 2022, conv. in l. n. 14 del 2023, e all’altrettanto immediata indizione delle gare. 13.3. La permanente efficacia della coeva sentenza n. 17 del 9 novembre 2021 dell’Adunanza plenaria costituisce, quindi, solo uno degli elementi che confermano l’assenza dei presupposti per un deferimento della presente controversia all’Adunanza plenaria, al quale si aggiungono le numerose sentenze che proprio con riferimento alle sopravvenienze normative richiamate dalla Cassazione hanno in modo granitico confermato la necessità di disapplicare le varie proroghe e di procedere all’indizione delle gare, come verrà meglio precisato oltre (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 1° marzo 2023, n. 2192, Cons. St., sez. VI, 28 agosto 2023, n. 7992, Cons. St., sez. VII, 3 novembre 2023, n. 9493 e, ancor più di recente, Cons. St., sez. VI, 27 dicembre 2023, n. 11200, C.G.A.R.S., sez. giurisd., 21 febbraio 2024, n. 119, Cons. St., sez. VII, 19 marzo 2024, n. 2679 e Cons. St., sez. VII, 30 aprile 2024, n. 3940, Cons. St., sez. VII, 2 maggio 2023, n. 3963). 13.4. Si tratta peraltro di sentenze che hanno tutte affrontato le modifiche normative sopravvenute rispetto alle decisioni dell’Adunanza plenaria e in relazione alle quali, oltre a non sussistere alcun vincolo derivante dal contenuto delle due sentenze dell’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 3, c.p.a., non si è formato alcun contrasto giurisprudenziale, essendo stata sempre seguita la tesi della disapplicazione delle proroghe anche sopravvenute. Egualmente, e in estrema sintesi, ritiene anche questo Collegio che non sussistano i presupposti per il rinvio della causa né alla Corte di Giustizia UE né alla Corte costituzionale. Quanto alla prima richiesta di rinvio per questione pregiudiziale formulata da S.I.B., nell’appello incidentale depositato il 28 febbraio 2024, si rileva che non sussistono i presupposti per un nuovo rinvio in quanto la questione della applicabilità della Dir. 2006/123/CE e della incompatibilità delle proroghe automatiche disposte dal legislatore nazionale è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte di Giustizia UE con più decisioni - non ultima proprio quella rimessa dal Tribunale in primo grado e pronunciata nel presente giudizio - che hanno indicato la corretta interpretazione del diritto dell’Unione senza che residuino ulteriori dubbi. 15.1. Infatti, la Corte di Giustizia UE, dapprima con la sentenza del 14 luglio 2016 (C-458/14 e C-67/15, Pr.) e, più di recente, con la sentenza del 20 aprile 2023 (C-348/22, Comune di Omissis) proprio nel presente giudizio ha già dissipato in maniera chiara ogni ulteriore dubbio o perplessità sull’applicazione dell’art. 12 della Dir. 2006/123/CE alle concessioni demaniali marittime, senza che sia necessario, a fronte di una giurisprudenza europea ormai chiara, uniforme e puntuale, sollevare nuovamente ulteriori questioni interpretative, che sarebbero dilatorie prima ancor che superflue. 15.2. Chiarita dalla Corte di Giustizia la corretta interpretazione del diritto dell’Unione europea sulle questioni che costituiscono l’oggetto del presente giudizio, spetta a questo Collegio, quale giudice nazionale, dare applicazione al diritto dell’Unione europea, come interpretato dalla Corte di Giustizia, alla fattispecie in esame. Parimenti non sussistono i presupposti per un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE, pure invocato sotto ulteriori profili dall’appellante incidentale. 16.1. Va ricordato che la Corte di Giustizia ha in più occasioni chiarito che l’articolo 267 T.F.U.E. deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale di ultima istanza deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi (v. Corte Giust. 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit e 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management). 16.2. In applicazione di tali principi si rileva, anzitutto, che la questione relativa agli indennizzi e, in particolare, alla compatibilità dell’art. 49 cod. nav. con l’ordinamento unionale non assume rilievo nel presente giudizio perché, proprio in relazione al presente giudizio con la già richiamata sentenza della Corte di Giustizia UE del 20 aprile 2023, Comune di Omissis, in C-348/22, punto 83, ha chiarito che "la controversia di cui trattasi nel procedimento principale riguarda la proroga delle concessioni e non già la questione del diritto, in capo a un concessionario, di ottenere, alla scadenza della concessione, un qualsivoglia compenso per le opere inamovibili che esso abbia costruito sul terreno affidatogli in concessione". 16.3. In ogni caso questa stessa Sezione, con l’ordinanza n. 8010 del 15 settembre del 2022 (a cui ha fatto seguito, dopo i chiarimenti richiesti dalla Corte di Giustizia UE, anche l’ordinanza 8184 del 6 settembre 2023), resa nel giudizio R.G. n. 8915 del 2021, ha già sollevato innanzi alla Corte di Giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 del T.F.U.E., la questione pregiudiziale di interpretazione "se gli artt. 49 e 56 TFUE ed i principi desumibili dalla sentenza Laezza (C- 375/14) ove ritenuti applicabili, ostino all’interpretazione di una disposizione nazionale quale l’art. 49 cod. nav. nel senso di determinare la cessione a titolo non oneroso e senza indennizzo da parte del concessionario alla scadenza della concessione quando questa venga rinnovata, senza soluzione di continuità, pure in forza di un nuovo provvedimento, delle opere edilizie realizzate sull’area demaniale facenti parte del complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa balneare, potendo configurare tale effetto di immediato incameramento una restrizione eccedente quanto necessario al conseguimento dell'obiettivo effettivamente perseguito dal legislatore nazionale e dunque sproporzionato allo scopo" e, conseguentemente, risulta incardinata presso la Corte di Giustizia UE la causa C-598/22, tuttora pendente (v., da ultimo, Cons. St., sez. VII, 30 aprile 2024, n. 3943, ord., ma v. anche, per analoga questione, Cons. St., sez. VII, 6 novembre 2023, n. 9570, ord. nonché, per la portata estensiva del principio relativo agli indennizzi, Cons. St., sez. VII, 17 gennaio 2024, n. 138, ord.). 16.4. Tale questione - si ripete - è del tutto estranea all’oggetto del presente giudizio e quindi non è rilevante, con la conseguenza che nessun rilievo pregiudiziale potrà avere la sentenza della Corte di Giustizia UE, risultando in tal modo infondate anche le richieste di attendere tale decisione, eventualmente con un provvedimento di c.d. sospensione impropria. Quanto alla seconda richiesta di sollevare l’incidente di costituzionalità, sempre formulata dal S.I.B. nell’appello incidentale depositato il 28 febbraio 2024 ma anche dalle altre appellanti incidentali La.Ca. s.r.l., L’A. soc. coop. e Lido Or.Mi. di Sc.An., anzitutto, si deve qui osservare che l’interpretazione da questo Consiglio di Stato nella propria consolidata giurisprudenza consente un recepimento interno della Dir. 2006/123/CE non solo compatibile con principi fondamentali e irrinunciabili della Costituzione italiana quali il diritto di proprietà, l’impresa e il lavoro nelle imprese familiari, ma anzi costituzionalmente imposto dalla necessità di esercitare la potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea (art. 117, comma primo, Cost.). Né può essere invocata una tutela costituzionale del legittimo affidamento degli attuali concessionari, dato che, come ora si dirà, l’applicazione della Dir. 2006/123/CE e/o dell’art. 49 T.F.U.E. al settore delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative impone l’immediata apertura del mercato, laddove la risorsa risulti scarsa o laddove, quando pure la risorsa non sia scarsa, la singola concessione presenti un interesse transfrontaliero certo, e ogni esigenza correlata all’affidamento degli attuali concessionari non può certo giustificare proroghe automatiche o il rinvio delle procedure di gara, ma al massimo può essere valutata al momento di fissare le regole per la procedura di gara ai sensi del paragrafo 3 dell’art. 12 della stessa Dir. 2006/123/CE (v. Corte di Giustizia UE, 14 luglio 2016, nelle cause C-458/14 e C-67/15, Pr., par. 52-56). Nel merito, venendo proprio al caso in esame, l’appello dell’Autorità è fondato quanto ai primi tre motivi. Con il primo motivo (pp. 11-16 del ricorso), anzitutto, l’Autorità lamenta che essa aveva chiesto al primo giudice di annullare le determinazioni comunali impugnate, procedendo all’applicazione della norma europea dotata di efficacia diretta e alla speculare “in-applicazione” della norma interna contrastante, assicurando che l’ente comunale, nel prendere atto della scadenza delle concessioni demaniali (ovviamente di quelle che avevano beneficiato della predetta proroga legale), procedesse con l’esperimento immediato delle procedure di gara finalizzate ai nuovi affidamenti delle concessioni venute a scadenza. 20.1. Il primo giudice, anziché limitarsi a prendere atto dell’intervenuta caducazione, in forza della l. n. 118 del 2022, dei provvedimenti impugnati in primo grado e della conseguente scadenza al 31 dicembre 2020 delle concessioni demaniali ivi contemplate (affermazione che avrebbe rimesso pienamente nella disponibilità del Comune di Omissis ogni determinazione conseguente, consentendogli anche di indire immediatamente le gare per l’affidamento delle concessioni scadute), avrebbe del tutto illegittimamente e ingiustamente ritenuto di precisare - con ciò, peraltro, modificando radicalmente gli effetti di mero rito che la pronuncia impugnata avrebbe dovuto assumere in coerenza con il suo dispositivo - che la nuova scadenza delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative è fissata al 31 dicembre 2024, alla luce dell’entrata in vigore della l. n. 14 del 2023, normativa che, tuttavia, disponendo (anch’essa), come deduce l’Autorità, la proroga automatica e generalizzata delle concessioni demaniali marittime, non avrebbe potuto/dovuto essere applicata dal Tribunale. 20.2. Sarebbe innegabile, quindi, l’ingiustizia della sentenza gravata nella parte in cui ha disposto l’improcedibilità del ricorso promosso dall’Autorità odierna appellante principale e, al contempo, ha riconosciuto la conformità rispetto ai principi unionali della proroga al 31 dicembre 2024 disposta dal legislatore statale con la l. n. 14 del 2023, affermazione quest’ultima idonea a pregiudicare, al pari delle corrispondenti e abrogate disposizioni contenute della l. n. 145 del 2018, il “bene della vita” cui aspirava l’interesse fatto valere dall’AGCM con la proposizione del giudizio di primo grado e, cioè, la concorrenzialità del mercato delle concessioni demaniali marittime. 20.3. Di qui, sotto un primo profilo, la palese erroneità della pronuncia gravata di cui si chiede la riforma. 20.4. Con il secondo motivo (pp. 16-25 del ricorso) e il terzo motivo (pp. 25-28 del ricorso), ancora, l’Autorità appellante principale comunque contesta anche le motivazioni della sentenza impugnata laddove, nel dichiarare erroneamente l’improcedibilità dell’originario ricorso, ha ritenuto che l’applicazione della Dir. 2006/123/CE anche alla nuova proroga di cui alla l. n. 118 del 2022, come modificata dalla legge n. 14 del 2023, sarebbe soggetta alla previa valutazione, da parte dell’autorità nazionale, della scarsità della risorsa e, altresì, comunque, laddove non ha tenuto conto che, anche assumendo che la risorsa non sia scarsa, sarebbe comunque applicabile alla controversia l’art. 49 del T.F.U.E. sulla libertà di stabilimento. 20.5. Per completezza espositiva l’Autorità appellante principale ha evidenziato che, successivamente alla pubblicazione della sentenza in questa sede impugnata, la Commissione europea, con il parere motivato del 16 novembre 2023, ha affermato - in estrema sintesi - che "mantenendo le proroghe indiscriminate ed ex lege delle autorizzazioni per l’utilizzo di proprietà demaniali marittime lacuali e fluviali per attività ricreative e turistiche, previste all’art. 3, paragrafo 2, della legge 118/2022, come modificato dalla Legge n. 14/2023, e dal combinato disposto dell’art. 4, comma 4-bis della legge n. 118/2022, inserito dalla Legge n. 14/2023, che fa “divieto agli Enti concedenti di procedere all’emanazione dei bandi di assegnazione delle concessioni e dei rapporti di cui all’art. 3, comma 1, lett. a) e b)” fino all’adozione dei decreti legislativi di cui allo stesso art. 4 della legge 118/2022 e dell’art. 10- quater del decreto-legge 29 dicembre 2022, n. 198, inserito dalla Legge 14/2023... e tenendo conto del fatto che la delega al Governo per l’adozione di tali decreti legislativi... risulta scaduta e non è contemplata alcuna indicazione circa una eventuale nuova delega al Governo, la Repubblica italiana ha riprodotto le proroghe precedentemente previste dall’art. 1, paragrafo 18, del decreto-legge n. 194/2009, all’art. 24, comma 3-septies, del decreto-legge 24 giugno 2016, n. 113, all’art. 1, commi 682 e 683 della Legge di bilancio e al decreto-legge n. 104/2020, nonché le previsioni dell’art. 182, paragrafo 2, del decreto-legge n. 34/2020... ed è dunque venuta meno agli obblighi imposti dall’art. 12 della Direttiva sui servizi e dell’art. 49 TFUE nonché dell’art. 4, paragrafo 3, TUE". I tre motivi sono tutti fondati. Si deve osservare anzitutto che, come questo Consiglio di Stato ha più volte affermato nella propria consolidata giurisprudenza (v., da ultimo, Cons. St., sez. VI, 27 dicembre 2023, n. 11200), i provvedimenti sopravvenuti determinano l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse qualora attuino un assetto di interessi inoppugnabile, ostativo alla realizzazione dell’interesse sostanziale sotteso al ricorso, rendendo inutile la prosecuzione del giudizio. 22.1. Questo Consiglio ha già precisato che l’inutilità di una pronuncia di merito sulla domanda articolata dalla parte può affermarsi solo all’esito di una indagine "condotta con il massimo rigore, onde evitare che la declaratoria in oggetto si risolva in un’ipotesi di denegata giustizia e quindi nella violazione di un diritto costituzionalmente garantito" (Cons. St., sez. VII, 10 agosto 2022, n. 7076, ma v. anche Cons. St., sez. VI, 12 settembre 2022, n. 7895). 22.2. In particolare, "la dichiarazione di improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse presuppone che, per eventi successivi alla instaurazione del giudizio, debba essere esclusa l’utilità dell’atto impugnato, ancorché meramente strumentale o morale, ovvero che sia chiara e certa l’inutilità di una pronuncia di annullamento dell’atto impugnato" (C.G.A.R.S., sez. giurisd., 3 luglio 2020, n. 536). 22.3. Il primo giudice non ha evidentemente fatto buon governo di tali consolidati principi perché, nel dichiarare l’improcedibilità del ricorso, ha ritenuto impossibile che il peculiare interesse dell’Autorità all’annullamento degli atti venisse soddisfatto sulla base di atti sopravvenuti che, si badi, reiteravano lo stesso vizio che inficiava gli atti impugnati - la proroga illegittima del rapporto concessorio stabilita dal legislatore - e peraltro, dopo avere egli stesso dubitato dell’applicabilità della normativa unionale alla legislazione italiana sulle proroghe delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative e avere sollevato la questione pregiudiziale avanti alla Corte UE, anche dopo la pronuncia della Corte, che ha affermato l’illegittimità delle proroghe generalizzate da parte del legislatore, ha omesso di disapplicare tanto la normativa applicabile ratione temporis quanto quella sopravvenuta sulla base di una lettura della sentenza della Corte non rispondente al suo contenuto e quindi non condivisibile. 22.4. La pronuncia di improcedibilità non è stata condotta con quel massimo rigore sull’attualità dell’interesse, richiesto dalla giurisprudenza, ma ledendo l’interesse concorrenziale fatto valere dall’Autorità che, lungi dall’essere ormai venuto meno, avrebbe dovuto invece condurre il Tribunale, soprattutto una volta intervenuta la sentenza della Corte UE del 20 aprile 2023 in C-348/22, ad annullare gli atti di indirizzo impugnati in primo grado anziché affermare, erroneamente, la prevalenza del diritto nazionale sul diritto dell’Unione per via della pretesa, ancora una volta, non applicabilità di quest’ultimo in ragione di una fuorviante lettura della sentenza della Corte europea. 22.5. L’improcedibilità del ricorso, dunque, costituisce in questo caso una pronuncia in rito solo apparente (falsa improcedibilità), che di fatto mortifica l’interesse azionato dall’Autorità in primo grado e disvela il contenuto reiettivo nel merito della pronuncia qui azionata, integrando una ipotesi di denegata giustizia (Cons. St., sez. VII, 10 agosto 2022, n. 1076). 22.6. Né si opponga che l’Autorità, nel non avere formalmente formulato in questa sede la propria domanda di annullamento, richiederebbe a questo giudice una pronuncia ultra petita, lamentando solo l’erroneità di tale pronuncia in rito e chiedendo di riformarne le motivazioni con la disapplicazione di una normativa sopravvenuta che non sarebbe nemmeno applicabile agli atti impugnati in prime cure, perché è proprio sulla base di tale ultima normativa sopravvenuta, erroneamente non disapplicata dal primo giudice, che si è pervenuti all’effetto perverso di dichiarare improcedibile il ricorso, frustrando l’interesse dell’Autorità che, diversamente, dovrebbe subire una pronuncia, apparentemente in rito, che le nega il bene della vita alla corretta applicazione del principio concorrenziale in questa materia per effetto, si badi, di una normativa nazionale che reitera il vizio già lamentato dall’Autorità, costretta in aeternum ad impugnare in ripetuti giudizi i nuovi atti applicativi della normativa illegittima sopravvenuta e sempre costretta, in un circolo vizioso, a subire poi all’esito del giudizio la declaratoria di improcedibilità. 22.7. L’accoglimento dell’appello principale non può che condurre dunque, similmente a quanto avvenuto già in altra pronuncia di questo Consiglio, all’annullamento degli atti gravati in prime cure, in quanto l’odierna appellante principale, come nel caso definito da tale pronuncia, aveva dedotto il contrasto dell’art. 1, commi 682 e 683, della l. n. 145 del 2018 con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE "e ciò era sufficiente a far sorgere il dovere del giudice di prime cure di pronunciare nel merito della prospettata questione di compatibilità della norma interna e della delibera comunale che ne ha fatto applicazione, col diritto unionale" (Cons. St., sez. VII, 1° marzo 2023, n. 2192). 22.8. La fondatezza dell’azione di annullamento proposta dalla Autorità rende irrilevante ogni questione su una azione di accertamento, non esercitabile per la prima volta in appello e che, di conseguenza, non viene esaminata. Nemmeno, del resto, sono condivisibili, in ciò dovendosi accogliere anche il secondo e il terzo motivo dell’appello principale, le ragioni per cui il primo giudice ha ritenuto non applicabile la Dir. 2006/123/CE e non ha considerato, comunque, la doverosa applicazione dell’art. 49 del T.F.U.E. 23.1. Diversamente da quanto ha ritenuto il primo giudice, infatti, la Dir. 2006/123/CE ha effetti diretti, è self-executing ed è immediatamente applicabile, come aveva chiarito la Corte di Giustizia UE nella sentenza Pr. del 14 luglio 2016, in C-458/14 e in C-67/15 - e, sulla sua scia, la sentenza n. 17 del 2021 dell’Adunanza plenaria e le altre già menzionate sentenze del Consiglio di Stato - e come la stessa Corte ha riconfermato decisamente, laddove ve ne fosse stato bisogno (e non ve ne era), proprio nella sentenza Comune di Omissis del 20 aprile 2023, in C-348/22. 23.2. Questo Consiglio non può che ribadire, sulla scia della giurisprudenza della Corte di Giustizia, dell’Adunanza plenaria nella sentenza n. 17 del 2021 e di tutta la menzionata giurisprudenza successiva, che tutte le proroghe delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative - anche quelle in favore di concessionari che avessero ottenuto il titolo in ragione di una precedente procedura selettiva laddove il rapporto abbia esaurito la propria efficacia per la scadenza del relativo termine di durata (Cons. St, sez. VII, 19 marzo 2024, n. 2679) - sono illegittime e devono essere disapplicate dalle amministrazioni ad ogni livello, anche comunale, imponendosi, anche in tal caso, l’indizione di una trasparente, imparziale e non discriminatoria procedura selettiva. 23.3. La Corte di Giustizia nella sentenza del 20 aprile 2023 in C-348/22 (Comune di Omissis) ha (ri)affermato che risulta dallo stesso tenore letterale dell’articolo 12, paragrafo 1, della Dir. 2006/123/CE che, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali, gli Stati membri devono applicare una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svoLg.imento e completamento. 23.4. Quanto all’art. 12, paragrafo 2, di tale direttiva, esso dispone in particolare che un’autorizzazione, quale una concessione di occupazione del demanio marittimo, sia rilasciata per una durata limitata adeguata e non possa prevedere la procedura di rinnovo automatico. 23.5. Tale disposizione, ha precisato ancora la Corte di Giustizia UE nella citata sentenza, ha effetto diretto in quanto vieta, "in termini inequivocabili", agli Stati membri, senza che questi ultimi dispongano di un qualsivoglia margine di discrezionalità o possano subordinare tale divieto a una qualsivoglia condizione e senza che sia necessaria l’adozione di un atto dell’Unione o degli Stati membri, di prevedere proroghe automatiche e generalizzate di siffatte concessioni. 23.6. Dalla giurisprudenza della Corte risulta peraltro che un rinnovo automatico di queste ultime è escluso dai termini stessi dell’art. 12, paragrafo 2, della Dir. 2006/123/CE (v., in tal senso, la sentenza del 14 luglio 2016, Pr., nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15, punto 50). 23.7. L’art. 12, paragrafi 1 e 2, di tale direttiva impone quindi agli Stati membri l’obbligo di applicare una procedura di selezione imparziale e trasparente tra i candidati potenziali e vieta loro di rinnovare automaticamente un’autorizzazione rilasciata per una determinata attività, in termini incondizionati e sufficientemente precisi. 23.8. Nel punto 71 della sentenza del 20 aprile 2023 in C-348/22 ancora la Corte di Giustizia ha precisato, a chiare lettere, che "la circostanza che tale obbligo e tale divieto si applichino solo nel caso in cui il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali utilizzabili, le quali devono essere determinate in relazione ad una situazione di fatto valutata dall’amministrazione competente sotto il controllo di un giudice nazionale, non può rimettere in discussione l’effetto diretto connesso a tale articolo 12, paragrafi 1 e 2". 23.9. Di conseguenza, ogni questione sulla scarsità delle risorse e sugli eventuali criteri fissati per accertare tale scarsità non può costituire ragione, come sostenuto da alcune parti del presente giudizio, per determinare la non applicabilità della Dir. 2006/123/CE nelle more della fissazione dei menzionati criteri. Come chiarito dalla Corte di Giustizia, la valutazione dell’effetto diretto connesso all’obbligo e al divieto previsti dall’art. 12, paragrafi 1 e 2, della Dir. 2006/123/CE e l’obbligo di disapplicare le disposizioni nazionali contrarie incombono ai giudici nazionali e alle autorità amministrative, comprese quelle comunali, senza che ciò possa essere condizionato o impedito da interventi del legislatore. 24.1. Devono, quindi, essere disapplicate perché contrastanti con l’art. 12 della Dir. 2006/123/CE e comunque con l’art. 49 del T.F.U.E., tutte le disposizioni nazionali che hanno introdotto e continuano ad introdurre, con una sistematica violazione del diritto dell’Unione, le proroghe delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative e in particolare: a) le disposizioni di proroga previste in via generalizzata e automatica, e ormai abrogate dall’art. 3, comma 5, della l. n. 118 del 2002 (art. 1, commi 682 e 683, della l. n. 145 del 2018; art. 182, comma 2, del d.l. n. 34 del 2020, conv. in l. n. 77 del 2020; art. 100, comma 1, del d.l. n. 104 del 2020, conv. in l. n. 126 del 2020); b) le più recenti proroghe introdotte dagli articoli 10-quater, comma 3 e 12, comma 6-sexies, del d.l. n. 198 del 2022, inseriti dalla legge di conversione n. 14 del 2023 e dall’art. 1, comma 8, della stessa l. n. 14 del 2023, che ha introdotto il comma 4-bis all’art. 4 della l. n. 118 del 2022. 24.2. Con riferimento a tali ultime disposizioni, che - unitamente agli artt. 3 e 4 della legge 5 agosto 2022 n. 118 - costituiscono le sopravvenienze legislative menzionate dalle citate decisioni delle Sezioni unite, si osserva che anche esse si pongono in palese contrasto con il diritto unionale, come già riconosciuto dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 1° marzo 2023, n. 2192, Cons. St., sez. VI, 28 agosto 2023, n. 7992, Cons. St., sez. VII, 3 novembre 2023, n. 9493 e, ancor più di recente, Cons. St., sez. VI, 27 dicembre 2023, n. 11200, C.G.A.R.S., sez. giurisd., 21 febbraio 2024, n. 119, Cons. St., sez. VII, 19 marzo 2024, n. 2679 e Cons. St., sez. VII, 30 aprile 2024, n. 3940, Cons. St., sez. VII, 2 maggio 2024, n. 3963; v. anche per l’analoga questione della applicazione dell’art. 12 della Dir. 2006/123/CE alle concessioni per l’esercizio del commercio su aree pubbliche, Cons. St., sez. VII, 19 ottobre 2023, n. 9104). 24.3. Infatti, mentre l’originaria versione dell’art. 3 della l. n. 118 del 2022, nell’abrogare le precedenti e già disapplicate disposizioni di proroga, aveva previsto in via transitoria il termine del 31 dicembre 2023 con possibilità di differimento con atto motivato fino al 31 dicembre 2024 "in presenza di ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva", le modifiche apportate dalla l. n. 14 del 2023 di conversione del d.l. n. 198 del 2022 hanno nuovamente stravolto il quadro normativo con nuove proroghe rese indeterminate da una serie di disposizioni palesemente contrastanti con i descritti principi dell’ordinamento dell’U.E. 24.4. La l. n. 14 del 2023, oltre a spostare in avanti di un anno i due termini sopraindicati (al 31 dicembre 2024 quello di efficacia delle concessioni e al 31 dicembre 2025 la possibilità di differimento), ha previsto che: a) "le concessioni e i rapporti di cui all'articolo 3, comma 1, lettere a) e b), della legge 5 agosto 2022, n. 118, continuano in ogni caso ad avere efficacia sino alla data di rilascio dei nuovi provvedimenti concessori" (art. 10-quater, comma 3, del d.l. n. 198 del 2022); b) "fino all’adozione dei decreti legislativi di cui al presente articolo, è fatto divieto agli enti concedenti di procedere all’emanazione dei bandi di assegnazione delle concessioni e dei rapporti di cui all'articolo 3, comma 1, lettere a) e b)" (comma 4-bis dell’art. 4 della l. n. 118 del 2022, introdotto dall’art. 1, comma 8 della l. n. 14 del 2023). 24.5. Il complesso delle disposizioni introdotte dalla l. n. 14 del 2023 determina una nuova proroga automatica e generalizzata delle concessioni balneari, non più funzionale alle (non più) imminenti gare (come previsto dalla originaria versione degli artt. 3 e 4 della l. n. 118 del 2022), ma anzi resa indeterminata e potenzialmente illimitata nella durata dal contestuale divieto di procedere all’emanazione dei bandi di gara posto fino all’adozione dei decreti legislativi di cui all’art. 4 della l. n. 118 del 2022 (adozione non più possibile perché la delega è scaduta il 27 febbraio 2023, solo qualche giorno dopo l’entrata in vigore della l. n. 14 del 2023). 24.6. Se a ciò si aggiunge che le concessioni mantengono efficacia sino alla data di rilascio dei nuovi provvedimenti concessori, il quadro che ne deriva è del mantenimento delle attuali concessioni balneari italiane senza termine in contrasto con i più volte richiamati principi dell’Unione, nella costante interpretazione datane dalla Corte di Giustizia. 24.7. Ciò impone al giudice nazionale e alle amministrazioni di disapplicare tali disposizioni nella loro interezza, costituita da tutte le modifiche apportate alla l. n. 118 del 2022 dalla l. n. 14 del 2023, comprese quelle di cui all’art. 10-quater, comma 3, e all’art. 12, comma 6-sexies, del d.l. n. 198 del 2022, che hanno spostato in avanti i termini previsti dalla originaria versione dell’art. 3 della l. n. 118 del 2022. Tale disapplicazione si impone prima e a prescindere dall’esame della questione della scarsità delle risorse, che verrà trattata nei paragrafi successivi, in quanto, anche qualora si dimostrasse che in alcuni casi specifici non vi sia scarsità di risorse naturali, le suddette disposizioni, essendo di natura generale e assoluta, paralizzano senza giustificazione alcuna l’applicazione della Dir. 2003/126/CE e precludono in assoluto lo svoLg.imento delle gare. Può ora essere affrontato il tema della scarsità delle risorse, sul quale tanto insistono sia il Comune di Omissis che gli appellanti incidentali. 26.1. La Corte di Giustizia UE nella già citata sentenza Pr. del 14 luglio 2016 ha affermato che "per quanto riguarda, più specificamente, la questione se dette concessioni debbano essere oggetto di un numero limitato di autorizzazioni per via della scarsità delle risorse naturali, spetta al giudice nazionale verificare se tale requisito sia soddisfatto" (punto 43) e con la anche più volte citata sentenza del 20 aprile 2023, Comune di Omissis, in C-348/22 ha rilevato che l’art. 12, paragrafo 1, della Dir. 2006/123/CE conferisce agli Stati membri un certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali e che "tale margine di discrezionalità può condurli a preferire una valutazione generale e astratta, valida per tutto il territorio nazionale, ma anche, al contrario, a privilegiare un approccio caso per caso, che ponga l’accento sulla situazione esistente nel territorio costiero di un comune o dell’autorità amministrativa competente, o addirittura a combinare tali due approcci" (punto 46). Tale più recente sentenza non si è posta in contraddizione o comunque non ha voluto superare i principi espressi nella precedente sentenza Pr., che anzi viene più volte richiamata a conferma del rapporto di continuità tra le due decisioni della Corte. Proprio nel caso Comune di Omissis, nel rispondere a uno specifico quesito posto dal giudice del rinvio, la Corte ha evidenziato che, nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali, il legislatore nazionale può preferire una valutazione generale e astratta valida sull’intero territorio nazionale oppure un approccio di tipo locale caso per caso o una combinazione dei due approcci che anche può risultare equilibrata, concludendo che l’approccio definito combinato, così come le altre due opzioni, non sono incompatibili con il diritto dell’Unione europea. In ogni caso, è necessario che i criteri adottati da uno Stato membro per valutare la scarsità delle risorse naturali utilizzabili si basino su criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati (punto 48 della stessa sentenza), fermo restando che - come già detto - la valutazione sulla scarsità delle risorse in alcun modo può ritenersi pregiudiziale o comunque non può rimettere in discussione l’effetto diretto connesso all’art. 12, paragrafi 1 e 2, della Dir. 2006/123/CE. È evidente che la valutazione che ha ad oggetto la scarsità delle risorse naturali, per basarsi su criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati, postula una ricognizione del territorio costiero, o a livello nazionale o a livello locale (anche eventualmente nella combinazione dei due approcci, generale e caso per caso), che deve essere non solo quantitativa, ma anzitutto qualitativa, come ha già chiarito l’Adunanza plenaria e la più recente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, perché deve avere riguardo ad un concetto funzionale di scarsità e, cioè, ad un concetto che tiene conto della funzione economica della risorsa pubblica in questione, dovendo valutarsi, in concreto, la collocazione geografica, le caratteristiche morfologiche, il pregio ambientale e paesaggistico, il valore “commerciale”, il pregio di quella particolare tipologia di concessione in rapporto al bene pubblico (il tratto di costa) oggetto di sfruttamento economico e non tutto il tratto costiero in ipotesi balneabile come se fosse un unico eguale ed indifferenziato, non potendo ritenersi non discriminatorio un criterio che tratti e consideri e calcoli in modo eguale situazioni costiere estremamente diverse sul territorio nazionale. In questa prospettiva l’Autorità odierna appellante principale ha richiamato il parere motivato della Commissione europea del 16 novembre 2023, in cui è stato evidenziato che non possono essere prese in considerazione le risultanze, peraltro ancora parziali e incomplete, del Tavolo tecnico istituito dall’art. 10-quater del d.l. n. 198 del 2022 secondo cui, in sintesi, "la quota di aree occupate dalle concessioni demaniali equivale, attualmente, al 33 per cento delle aree disponibili", perché: 1) non riflettono una valutazione qualitativa delle aree in cui è effettivamente possibile fornire servizi di ‘concessione balnearé, dato che prendono in considerazione, ad esempio, tutte le parti di costa rocciosa, dove è ben difficile, se non impossibile, insediare uno stabilimento balneare e, addirittura, inseriscono nel calcolo per la stima della percentuale "il totale delle aviosuperfici, il totale dei porti con funzioni commerciali, il totale delle aree industriali relative ad impianti petroliferi, industriali e di produzione di energia, le aree marine protette e parchi nazionali"; 2) non tengono conto delle situazioni specifiche a livello regionale e comunale. A prescindere da ogni considerazione sul valore (certamente in alcun modo vincolante) di quanto affermato dalla Commissione nel prodotto parere motivato, sulle successive interlocuzioni tra Governo e Commissione (del tutto estranee al presente giudizio) e sull’esito dei lavori del menzionato Tavolo tecnico, di cui si dirà oltre, si osserva che, sulla scorta di quanto già statuito da questo Consiglio di Stato, in molte Regioni è previsto un limite quantitativo massimo di costa che può essere oggetto di concessione, che nella maggior parte dei casi - a conferma del carattere scarso della risorsa - coincide o consuma ampiamente la percentuale già assentita, come ad esempio, proprio nella Regione Puglia, come verrà illustrato oltre. Tale inequivocabile elemento non può essere superato offrendo in concessione aree necessariamente rientranti nelle percentuali di spiagge libere e sarebbe del resto in contrasto con i principi costituzionali di solidarietà economica e sociale e di tutela dell’ambiente e del paesaggio consumare in modo non proporzionato i già ormai limitati tratti di spiaggia libera, rendendo le coste italiane sempre più difficilmente accessibili in modo libero e gratuito anche ai soggetti meno abbienti. Va aggiunto che l’art. 10-quater, comma 2, del d.l. n. 198 del 2023 ha previsto che il predetto Tavolo tecnico definisca i criteri tecnici per la sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile, tenuto conto anche della “rilevanza economica transfrontaliera” e, al riguardo, tale elemento non può essere rilevante ai fini della valutazione della scarsità dato che, secondo la costante giurisprudenza della Corte europea, il capo III della Dir. 2006/123/CE - compreso, dunque, anche il suo articolo 12 - si applica anche a situazioni puramente nazionali, senza che sia necessaria una valutazione della rilevanza transfrontaliera come quella suggerita dalla disposizione in questione (Corte di Giustizia UE, 30 gennaio 2018, Visser Vastgoed Beleggingen, nelle C-360/15 e C-31/16, punti 98 e segg.; nonché la già citata sentenza del 20 aprile 2023 in C-348/22, Comune di Omissis, punto 40), avendo la Corte chiarito che l’art. 12, paragrafi 1 e 2, di detta direttiva deve essere interpretato nel senso che "esso non si applica unicamente alle concessioni di occupazione del demanio marittimo che presentano un interesse transfrontaliero certo", applicandosi le disposizioni del capo III della Dir. 2006/123/CE "non solo al prestatore che intende stabilirsi in un altro Stato membro, ma anche a quello che intende stabilirsi nel proprio Stato membro". In questa prospettiva, dunque, deve essere disapplicato anche l’art. 10-quater, comma 2, del d.l. n. 198 del 2022, laddove, nel prevedere che "il tavolo tecnico di cui al comma 1, acquisiti i dati relativi a tutti i rapporti concessori in essere delle aree demaniali marittime, lacuali e fluviali, elaborati ai sensi all'articolo 2 della legge 5 agosto 2022, n. 118, definisce i criteri tecnici per la determinazione della sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile, tenuto conto sia del dato complessivo nazionale che di quello disaggregato a livello regionale, e della rilevanza economica transfrontaliera", dispone che nella determinazione della scarsità della risorsa debba considerarsi la rilevanza economica transfontaliera della concessione, che non è un presupposto per l’applicazione dell’art. 12 della Dir. 2006/123/CE ma semmai, laddove non si applichi l’art. 12 della Dir. 2006/123/CE, del solo art. 49 del T.F.U.E. In assenza di risultati, ancorché parziali e provvisori, che dimostrino in modo serio e attendibile, tanto a livello nazionale che a livello locale, che le concessioni non siano una risorsa scarsa, secondo i criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati, indicati dalla Corte, e in forza di una valutazione che deve essere anzitutto necessariamente qualitativa della risorsa, questo Consiglio di Stato, a cui compete nell’ordinamento italiano il controllo giurisdizionale sulla valutazione della scarsità delle risorse (che devono "essere determinate in relazione ad una situazione di fatto valutata dall’amministrazione competente sotto il controllo di un giudice nazionale": Corte di Giustizia UE, 20 aprile 2023, Comune di Omissis, in C-348/22, punto 71), non può che riaffermare, allo stato, la sicura scarsità della risorsa (v., da ultimo, Cons. St., sez. VII, 30 aprile 2024, n. 3940 nonché Cons. St., sez. VII, 19 marzo 2024, n. 2679 nonché Cons. St., sez. VII, 6 settembre 2023, n. 8184, ord., secondo cui "la risorsa materiale è scarsa"), dovendo concordarsi con quelle tesi secondo cui, ove all’operazione di mappatura fosse associata la finalità di eludere l’assoggettamento alle procedure competitive ad evidenza pubblica, si riesumerebbe un diritto di insistenza per gli attuali concessionari, non più esistente, come si dirà, nemmeno nell’ordinamento interno. D’altro canto, diversamente da quanto assumono il Comune di Omissis e gli appellanti incidentali, l’applicabilità dell’art. 12 della Dir. 2006/123/CE è piena, diretta, incondizionata e non è né può essere subordinata dal legislatore in nessun modo alla mappatura, in sede nazionale, della “scarsità” della risorsa o a qualsiasi riordino, pur atteso, dell’intera materia, pena il frontale contrasto di questa subordinazione con il diritto dell’Unione e la conseguente disapplicazione delle norme che ciò prevedano (come, ad esempio, il già citato divieto di bandire le gare fino all’entrata in vigore di tale riordino: art. 4, comma 4-bis, della l. n. 118 del 2022, introdotto dall’art. 1, comma 8, lett. b), della l. n. 14 del 2023), dato che tale scarsità, in riferimento alle caratteristiche stesse delle concessioni, è evidente, per le ragioni già bene illustrate dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 17 del 2021 e dalle già richiamate ulteriori decisioni del Consiglio di Stato, e si presume finché dall’autorità amministrativa competente (a cominciare dai Comuni) non venga acclarato invece, sulla base di apposita istruttoria, e illustrato, con specifica motivazione, che il territorio costiero di interesse presenti una quantità di risorsa adeguata e sufficiente, nel rispetto dei fondamentali valori quali la tutela dell’ambiente e del paesaggio (v. Corte cost., 23 aprile 2024, n. 70), all’obiettivo dello sfruttamento economico della costa per le finalità turistico-ricreative proprie di queste concessioni. Per tali ragioni risultano prive di fondamento le tesi che conferiscono natura pregiudiziale rispetto all’oggetto del presente giudizio e alla stessa indizione delle gare le conclusioni del Tavolo tecnico, le quali, oltre al già rilevato profilo di incompatibilità con il diritto dell’Unione, in alcun modo possono condizionare o sospendere l’effetto diretto dell’art. 12 della Dir. 2006/123/CE; per le medesime considerazioni non può essere accolta la richiesta istruttoria, formulata dagli appellanti incidentali, di acquisire l’esito dei lavori, anche parziali, del Tavolo tecnico. Nemmeno può ritenersi condivisibile l’assunto del Comune, secondo cui nella sostanza dalla relazione istruttoria depositata dal Comune di Omissis nell’ambito del giudizio di primo grado (nota prot. n. 25648 del 05 settembre 2023 e nota prot. n. 10948 dell’11 maggio 2020) risulterebbe che la risorsa non sia scarsa e come, più esattamente, nella fattispecie concreta, tenuto conto dei dati riportati negli elaborati del redatto Piano Comunale delle Coste, "i metri lineari di costa fronte mare, tutti accessibili, ammontano, complessivamente, a 5.145 ml (totale linea costa)" e "di detti 5.145 ml risultano oggetto di concessioni balneari marittime 1.492 ml., pari ad una percentuale del 29% del totale linea costa” (nota prot. n. 25648 cit.)". Questi dati, nel loro nudo e anonimo significato numerico, scontano anche essi le medesime criticità sopra evidenziate e, cioè, sia il fatto che nulla dicano, sul piano qualitativo, circa il tratto di bene costiero effettivamente destinabile agli stabilimenti balneari nel rispetto dell’ambiente marino e del paesaggio e, soprattutto, non considerano che, proprio nella Regione Puglia, con la legge regionale 23 giugno 2006, n. 17 (“Disciplina della tutela e dell’uso della costa”), la Regione, nell’attribuire ai Comuni l’esercizio di tutte le funzioni amministrative relative alla materia del demanio marittimo, ha stabilito le aree in cui il rilascio, il rinnovo e la variazione di concessione demaniale sono vietati (art. 16, comma 1) nonché ha predisposto che "allo scopo di garantire il corretto utilizzo delle aree demaniali marittime per le finalità turistico-ricreative, una quota non inferiore al 60 per cento del territorio demaniale marittimo di ogni singolo comune costiero è riservata a uso pubblico e alla libera balneazione" (art. 16, comma 4). In ogni caso, rileva ancora il Collegio, quando pure l’autorità amministrativa competente, sulla scorta di quanto appena precisato al § 30. e sotto il controllo dell’autorità giurisdizionale, ritenga non applicabile l’art. 12 della Dir. 2006/123/CE che, come ha ricordato la Corte, già provvede a un’armonizzazione esaustiva concernente i servizi che rientrano nel suo campo di applicazione (Corte di Giustizia UE, 14 luglio 2016, Pr., nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15, punto 61), deve comunque trovare applicazione l’art. 49 del T.F.U.E. sulla libertà di stabilimento, laddove la singola concessione presenti un interesse transfrontaliero certo. A tale riguardo, infatti, non può sottacersi che, qualora siffatta concessione riguardi in alcuni limitati e circoscritti casi una risorsa legittimamente ritenuta non scarsa ma presenti un interesse transfrontaliero certo, la sua assegnazione in totale assenza di trasparenza ad un’impresa con sede nello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice costituisce una disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate alla suddetta concessione e una siffatta disparità di trattamento è, in linea di principio, vietata dall’articolo 49 del T.F.U.E. Per quanto riguarda, anzitutto, l’esistenza di un interesse transfrontaliero certo, occorre ricordare che, secondo la Corte, quest’ultimo deve essere valutato sulla base di tutti i criteri rilevanti, quali l’importanza economica dell’appalto, il luogo della sua esecuzione o le sue caratteristiche tecniche, tenendo conto delle caratteristiche proprie dell’appalto in questione (Corte di Giustizia UE, 14 luglio 2016, Pr., nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15, punto 66). Ebbene, l’autorità amministrativa, quando pure ritenga che la risorsa naturale destinabile alla concessione per lo sfruttamento economico a fini turistico-ricreativi non sia scarsa, deve valutare comunque, per rispettare la libertà di stabilimento, se la singola concessione abbia o meno interesse transfrontaliero e, nel fare ciò, deve avere riguardo alle caratteristiche specifiche del singolo stabilimento che, anche solo per le sue caratteristiche (storiche, geografiche, ecc.), può esercitare una attrattiva per gli operatori economici stranieri, interessati a concorrere. Compete dunque alla singola autorità amministrativa un’attenta valutazione, anch’essa soggetta all’indefettibile controllo giurisdizionale, di questo interesse, che anche in questo caso non può essere solo quantitativa - in termini, qui, di sola importanza economica - ma deve essere anzitutto qualitativa, dato che le concessioni come quella in esame, come ha rilevato la Corte, in linea di principio "riguardano un diritto di stabilimento nell’area demaniale finalizzato a uno sfruttamento economico per fini turistico-ricreativi, di modo che le situazioni considerate nei procedimenti principali rientrano, per loro stessa natura, nell’ambito dell’articolo 49 TFUE" (Corte di Giustizia UE, 14 luglio 2016, Pr., nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15, punto 63, ma v. anche le considerazioni, espresse in termini generali, dell’Adunanza plenaria nella sentenza n. 17 del 9 novembre 2021 sulla "eccezionale capacità attrattiva che da sempre esercita il patrimonio costiero nazionale, il quale per conformazione, ubicazione geografica, condizioni climatiche e vocazione turistica è certamente oggetto di interesse transfrontaliero, esercitando una indiscutibile capacità attrattiva verso le imprese di altri Stati membri" nonché, da ultimo, Cons. St., sez. VII, 6 settembre 2023, n. 8184, ord., resa in seguito ai chiarimenti richiesti dalla Corte di Giustizia, con la quale è stato evidenziato che il mercato di riferimento "attrae gli investimenti sia degli operatori economici nazionali, sia di quelli degli altri Stati membri"). Dalla consolidata giurisprudenza della Corte si traggono dunque i seguenti principi, che sono vincolanti non solo per ogni giudice nazionale - a cominciare dai giudici amministrativi, che non devono seguire eccentriche o arbitrarie interpretazioni delle norme in materia che hanno l’effetto di non applicare il diritto dell’Unione - ma anche per tutte le autorità amministrative, non ultime, in ragione della prossimità territoriale, quelle comunali: a) le pubbliche amministrazioni, al fine di assegnare le concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, devono applicare l’art. 12 della Dir. 2006/123/CE, costituendo la procedura competitiva, in questa materia, la regola, salvo che non risulti, sulla base di una adeguata istruttoria e alla luce di una esaustiva motivazione, che la risorsa naturale della costa destinabile a tale di tipo di concessioni non sia scarsa, secondo quanto sopra si è precisato in base ad un approccio che può essere anche combinato e deve, comunque, essere qualitativo (v. supra 30); b) anche quando non ritengano applicabile l’art. 12 della Dir. 2006/123/CE, esse devono comunque applicare l’art. 49 del T.F.U.E. e procedere all’indizione della gara, laddove la concessione presenti un interesse transfrontaliero certo, da presumersi finché non venga accertato che la concessione difetti di tale interesse, sulla scorta di una valutazione completa della singola concessione. Pertanto, l’obbligo di applicare l’art. 12 della Dir. 2006/123/CE o l’art. 49 del T.F.U.E. potrebbe in ipotesi ritenersi insussistente soltanto in assenza di entrambe tali imprescindibili condizioni: la scarsità della risorsa e l’interesse transfrontaliero della concessione, la cui valutazione è comunque soggetta al controllo del giudice, che ha già rilevato come sia in concreto difficilmente riscontrabile la contemporanea assenza delle due condizioni, tenuto anche conto dell’importanza e della potenzialità economica del patrimonio costiero nazionale. In ogni caso e per completezza va precisato che i commi 1 e 3 dell’art. 3 della l. n. 118 del 2022 nella originaria versione - disapplicate le modifiche apportate dalla l. n. 14 del 2023 che prorogano le scadenze di un ulteriore anno - prevedono, come meglio chiarito oltre, che la scadenza delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per l’esercizio delle attività turistico-ricreative e sportive, disposta al 31 dicembre 2023, possa essere differita fino al 31 dicembre 2024 solo "in presenza di ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva" e, dunque, presuppongono e impongono per tutte le concessioni scadute l’obbligo di assegnarle con gara in applicazione dei sovraesposti principi dell’Unione europea e dei principi del diritto nazionale di cui al successivo § 52 e senza quindi richiedere alle autorità amministrative alcuna ulteriore valutazione. Inoltre, secondo il successivo comma 2 dell’art. 3 della l. n. 118 del 2022 nella originaria versione (disapplicate le modifiche apportate dalla l. n. 14 del 2023), a parte le concessioni il cui titolo originario, assegnato o prorogato in base a procedura competitiva, non è ancora scaduto, l’altra sola eccezione era costituita dalle concessioni, "affidat[e] o rinnovat[e] mediante procedura selettiva con adeguate garanzie di imparzialità e di trasparenza e, in particolare, con adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svoLg.imento e completamento", le quali "continuano ad avere efficacia sino al termine previsto dal relativo titolo e comunque fino al 31 dicembre 2023 se il termine previsto è anteriore a tale data". Per escludere la scadenza e il correlato obbligo di procedere con gara si doveva trattare, quindi, di concessioni affidate con una procedura selettiva che prevedeva la durata della concessione stessa, non rientrando in tale ipotesi il caso delle concessioni affidate con gara e alla scadenza del relativo termine di durata prorogate in modo automatico o comunque senza adeguate garanzie di imparzialità e di trasparenza e, in particolare, senza adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svoLg.imento e completamento. Mentre il citato comma 2 resta efficace per la parte in cui stabilisce che le concessioni affidate con gara continuano ad avere efficacia sino al termine previsto dal relativo titolo, che ha formato oggetto della procedura selettiva, l’eccezione in parola ha ormai esaurito la propria efficacia con lo spirare del 31 dicembre 2023, dopo il quale torna a riprendere vigore la regola della necessaria procedura competitiva inderogabile (salvo quanto si dirà per la proroga tecnica proprio in funzione della gara), una volta scaduto il precedente titolo concessorio anche se assegnato o prorogato all’esito di precedente procedura selettiva, non solo in base al diritto europeo, ma anche secondo il diritto nazionale. Sempre per completezza va infatti sottolineato che non esiste, nemmeno nell’ordinamento interno, il c.d. diritto di insistenza, essendo le concessioni, comunque, provvedimenti per loro natura limitati nel tempo, soggetti a scadenza, e comunque non automaticamente rinnovabili in favore al concessionario uscente, ma da assegnarsi, anche secondo le norme nazionali, secondo procedura comparativa ispirata ai fondamentali principî di imparzialità, trasparenza e concorrenza, dando prevalenza alla proposta di gestione privata del bene che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e risponda a un più rilevante interesse pubblico, anche sotto il profilo economico (Cons. St., sez. VI, 10 luglio 2017, n. 3377). Non è fuor di luogo ricordare infatti che, anche prescindendo dall’applicabilità del diritto europeo, la giurisprudenza costante di questo Consiglio aveva chiarito che il concessionario di un bene demaniale non può vantare alcuna aspettativa al rinnovo del rapporto, sicché il relativo diniego, comunque esplicitato, nei limiti ordinari della ragionevolezza e della logicità dell’agire amministrativo, non necessita di ulteriore motivazione e non implica alcun “diritto d’insistenza” allorché la pubblica amministrazione intenda procedere a un nuovo sistema d’affidamento mediante gara pubblica o comunque procedura comparativa. Pertanto, in sede di rinnovo, il precedente concessionario va posto sullo stesso piano di qualsiasi altro soggetto richiedente lo stesso titolo, con possibilità di indizione di una gara al riguardo senza necessità di particolare motivazione con riferimento al diniego della richiesta di rinnovo (Cons. St., sez. V, 25 luglio 2014, n. 3960, Cons. St., sez. V, 21 novembre 2011, n. 6132; Cons. St., sez. VI, 21 maggio 2009, n. 3145). In conclusione, anche nelle eccezionali ipotesi di risorsa non scarsa e di contestuale assenza dell’interesse transfrontaliero certo, da provarsi in modo rigoroso, il diritto nazionale impone in ogni caso di procedere con procedura selettiva comparativa ispirata ai fondamentali principi di imparzialità, trasparenza e concorrenza e preclude l’affidamento o la proroga della concessione in via diretta ai concessionari uscenti. Sulla base delle considerazioni sin qui svolte, previa disapplicazione delle disposizioni nazionali che hanno introdotto le proroghe delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative (richiamate al precedente § 24.1.) e precisato quanto sopra circa l’elemento della scarsità delle risorse naturali, la pretesa di alcune parti intervenienti di ottenere l’accertamento della spettanza della proroga della durata della concessione demaniale marittima fino al 2033 è priva di fondamento e non può essere invocata la normativa sopravvenuta per le ragioni sopra esposte. Si può ritenere compatibile con il diritto dell’Unione la sola proroga “tecnica” - funzionale allo svoLg.imento della gara - prevista dall’art. 3, commi 1 e 3, della l. n. 118 del 2022 nella sua originaria formulazione, prima delle modifiche dei termini apportate dal d.l. n. 198 del 2022, laddove essa fissa come termine di efficacia delle concessioni il 31 dicembre 2023 e consente alle autorità amministrative competenti di prolungare la durata della concessione, con atto motivato, per il tempo strettamente necessario alla conclusione della procedura competitiva e, comunque, non oltre il termine del 31 dicembre 2024 "in presenza di ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva entro il 31 dicembre 2023, connesse, a titolo esemplificativo, alla pendenza di un contenzioso o a difficoltà oggettive legate all’espletamento della procedura stessa". 57.1. Affinché possano legittimamente giovarsi di tale proroga tecnica senza violare o eludere il diritto dell’Unione e la stessa legge n. 118/2022, però, le autorità amministrative competenti - e, in particolare, quelle comunali - devono avere già indetto la procedura selettiva o comunque avere deliberato di indirla in tempi brevissimi, emanando atti di indirizzo in tal senso e avviando senza indugio l’iter per la predisposizione dei bandi. 57.2. L’art. 3, comma 3, della l. n. 118 del 2022 - lo si ricorda - consente infatti la proroga tecnica, testualmente, solo per il tempo strettamente necessario "alla conclusione della procedura", che deve essere stata avviata e può ritenersi avviata, secondo una interpretazione ispirata a ragionevolezza, in presenza quantomeno di un atto di indirizzo volto ad indire, finalmente, le gare, non essendo consentito comunque, sul piano logico prima ancor che cronologico, disporre una proroga tecnica finalizzata alla conclusione di una procedura di gara che nemmeno sia stata avviata, quantomeno a livello programmatico, pur di fronte a vicende contenziose o a difficoltà legate all’espletamento della procedura stessa, nell’assenza, ad oggi, di un più volte auspicato riordino sistematico dell’intera materia, dove confluiscono e trovano composizione, come ha ricordato la Corte costituzionale, molteplici e rilevanti interessi, pubblici e privati. 57.3. Tale soluzione consente di evitare le incertezze prospettate dalle parti in relazione all’imminente avvio della stagione balneare e richiede una decisione dell’ente competente in favore della indizione delle gare con conseguente possibilità di differimento del termine di scadenza delle concessioni con atto motivato, in virtù del quale fino alla data sopra indicata - il 31 dicembre 2024 - l’occupazione dell’area demaniale da parte del concessionario uscente, laddove prorogata alle condizioni appena chiarite, è comunque legittima anche in relazione all’art. 1161 cod. nav., come chiarisce lo stesso art. 3, comma 3, della l. n. 118 del 2022. È compito - e ragion stessa d’essere - di questo Consiglio di Stato, quale giudice chiamato dalla Costituzione ad assicurare la tutela nei confronti della pubblica amministrazione (Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204), garantire, in relazione ai giudizi amministrativi, la piena attuazione, da parte di tutte le pubbliche amministrazioni coinvolte (a cominciare da quelle comunali) nell’esercizio dei loro poteri, dei principi sin qui sanciti, che sono alla base sia del diritto europeo che dell’ordinamento costituzionale, non solo annullando gli atti illegittimi da queste poste in essere, ma anche disapplicando la normativa nazionale contrastante con il diritto dell’Unione, mentre compete al legislatore fissare le regole che presiedono allo svoLg.imento delle procedure competitive nel generale riordino della materia al crocevia, come di recente ha chiarito la stessa Corte costituzionale, di fondamentali valori e di molteplici "interessi [...], che sono legati non solo alla valorizzazione dei beni demaniali, al fine di ricavare da essi una maggiore redditività (in tesi corrispondente a quella ritraibile sul libero mercato), ma anche alla tutela di tali beni pubblici, in ambiti che incrociano altri delicati interessi di rilievo costituzionale, quali la tutela del paesaggio e dell’ambiente marino" (Corte cost., 23 aprile 2024, n. 70). Questa materia infatti non può essere sottratta all’applicazione dei principi e delle regole immediatamente applicabili nell’ordinamento interno fissate dal legislatore europeo nemmeno per il tempo necessario all’indizione delle gare e alla predisposizione delle relative regole, attinenti alla materia della concorrenza, da parte del legislatore nazionale (con conseguente disapplicazione, come detto, anche dell’art. 4, comma 4-bis, della l. n. 118 del 2022, considerato, peraltro, che la delega è ormai scaduta), salva l’adozione nell’immediato, come detto, della c.d. proroga tecnica per la stagione balneare ormai avviata e, comunque, nei limiti sopra precisati. Stante la necessità non più procrastinabile di procedere alle gare, nell’attesa di questo riordino, non sono solo le singole previsioni delle leggi regionali a poter fornire un’utile cornice normativa, ma soccorrono certamente per una disciplina uniforme delle procedure selettive di affidamento delle concessioni, al fine di indirizzare nell’esercizio delle rispettive competenze l’attività amministrativa delle Regioni e dei Comuni, i principi e i criteri della delega di cui all’art. 4, comma 2 della l. n. 118 del 2022, anche se poi essi non hanno trovato attuazione essendo la delega scaduta senza esercizio. Si deve infatti considerare che, allorché la legge di delega li abbia posti, i principi e i criteri della stessa entrano senz’altro a comporre il quadro dei referenti assiologici che permeano l’ordinamento vigente e concorrono pure essi a disciplinare direttamente la materia alla quale afferiscono, se il loro contenuto prescrittivo possegga i necessari requisiti, anche quando il Governo abbia infruttuosamente lasciato scadere la delega e fino a che, ovviamente, il legislatore non provveda direttamente ad abrogarli e/o a disciplinare diversamente la materia. Tali principi e criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori per una disciplina uniforme della concorrenza in questa materia - tra i quali, ad esempio, si possono qui ricordare l’adeguata considerazione degli investimenti, del valore aziendale dell’impresa e dei beni materiali e immateriali, della professionalità acquisita anche da parte di imprese titolari di strutture turistico-ricettive che gestiscono concessioni demaniali (lett. c), l’individuazione di requisiti di ammissione che favoriscano la massima partecipazione di imprese, anche di piccole dimensioni (lett. d), la considerazione della posizione dei soggetti che, nei cinque anni antecedenti l’avvio della procedura selettiva, hanno utilizzato una concessione quale prevalente fonte di reddito per sé e per il proprio nucleo familiare, nei limiti definiti anche tenendo conto della titolarità, alla data di avvio della procedura selettiva, in via diretta o indiretta, di altra concessione o di altre attività d’impresa o di tipo professionale del settore (lett. e), 5.2.), la definizione di criteri per la quantificazione dell’indennizzo da riconoscere al concessionario uscente, posto a carico del concessionario subentrante (lett. i), ma v. anche Corte di Giustizia UE, 14 luglio 2016, Pr., nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15, punto 54, in riferimento all’art. 12, paragrafo 3, della Dir. 2006/123/CE - saranno presi in considerazione dai Comuni, in particolare, nella predisposizione dei bandi per l’affidamento delle concessioni "sulla base di procedure selettive, nel rispetto dei princìpi di imparzialità, non discriminazione, parità di trattamento, massima partecipazione, trasparenza e adeguata pubblicità, da avviare con adeguato anticipo rispetto alla loro scadenza" (art. 4, comma 2, lett. b), l. n. 118 del 2022). Dalle ragioni, sin qui esposte, discende l’accoglimento dell’appello principale nei tre primi motivi, mentre può assorbirsi il quarto motivo relativo all’intervento, in primo grado, di Po.Gi. s.a.s. e di Circolo Unione Bari (pp. 28-29 del ricorso), dato che l’odierna appellante principale è del tutto priva di interesse alla eventuale estromissione di tali parti, alla luce delle ragioni sin qui esposte. Sempre per le ragioni esposte, poi, devono essere respinti gli appelli incidentali proposti da La.Ca. s.r.l., L’A. soc. coop. e Lido Or.Mi. che da S.I.B. (tralasciando qui ogni eventuale rilievo circa la legittimazione dell’interveniente ad opponendum a proporre appello incidentale ai sensi dell’art. 102, comma 2, c.p.a.), non potendo trovare applicazione né la l. 145 del 2018, come pretendono i primi assumendo che l’abrogazione della l. n. 145 del 2018 da parte dell’art. 3, comma 5, della l. n. 118 del 2022 sarebbe illegittima, con l’effetto già definito per analoga pretesa da questa Sezione (v. Cons. St., sez. VII, 30 aprile 2024, n. 3940) “paradossale” e ancor più contrario al diritto europeo, di far rivivere le illegittime previsioni della l. n. 145 del 2018, dato che non esiste alcun presunto legittimo affidamento dei concessionari sulla proroga della concessione al 2033, come ha chiarito la Corte di Giustizia nel negare qualsivoglia affidamento dei concessionari sulle proroghe dopo l’entrata in vigore quantomeno dell’art. 49 del T.F.U.E. se non dello stesso art. 12 della Dir. 2006/123/CE, né potendo ritenersi, come assume il secondo, che le proroghe del legislatore sarebbero soggette alla preventiva condizione della c.d. mappatura a livello nazionale, mentre esse, come detto, devono tutte immediatamente disapplicarsi, non potendo quindi essere individuato il termine del 31 dicembre 2025 come scadenza delle concessioni in ragione della disapplicazione delle modifiche alla l. n. 118 del 2022 introdotte dalla l. n. 14 del 2023. Facendo riferimento agli effetti verticali diretti inversi, gli appellanti incidentali lamentano che il c.d. “effetto diretto verticale” delle direttive è invero invocabile soltanto da parte degli amministrati nei confronti dello Stato inadempiente o erroneamente adempiente, ma non, all’inverso, da questo (o dai suoi organi/istituzioni) a danno dei singoli, che non hanno alcuna responsabilità di tale comportamento. 65.1. Ma, come ha correttamente eccepito l’Autorità, nel caso di specie è del tutto evidente che dell’attuazione dell’art. 12 della Dir. 2006/2003/CE devono ritenersi responsabili i soli organi e apparati titolari di potestà normativa in senso proprio e che l’Autorità appellante principale, appartenente - come noto - alle c.d. Autorità amministrative indipendenti che si caratterizzano specificamente per la sottrazione delle loro principali funzioni al circuito dell’indirizzo politico che si forma nei rapporti tra Parlamento e Governo, non può certo essere assimilata alla stregua di un organo riconducibile allo “Stato inadempiente”, essendo del tutto priva di qualunque potere decisorio in ordine alle concrete modalità di attuazione della direttiva in questione nell’ordinamento italiano. 65.2. Tra l’altro, anche se si volesse prescindere dall’applicabilità dell’art. 12 della più volte citata direttiva nel presente contenzioso, è indiscutibile l’applicazione diretta dell’art. 49 del T.F.U.E. - come del resto di tutto il diritto primario europeo laddove le relative disposizioni abbiano carattere incondizionato - in presenza di un interesse transfrontaliero, la cui assenza nel caso di specie nemmeno è stata allegata prima ancor che dimostrata dal Comune di Omissis o dagli appellanti incidentali (o da altri controinteressati nel presente giudizio), senza che a tale riguardo possa lamentarsi, dunque, l’applicazione di un effetto verticale diretto c.d. inverso, sicché non può negarsi che l’invocazione della libertà di stabilimento, fatta valere dall’Autorità, e la necessità di indire la gara possano (e anzi debbano) applicarsi anche ai soggetti le cui concessioni siano state illegittimamente prorogate dal legislatore. Entrambi gli appelli incidentali, dunque, devono essere respinti. In conclusione, per tutte le ragioni esposte, l’appello principale dell’Autorità deve essere accolto in tutti e tre i citati motivi (assorbito, come detto, il quarto), con la conseguente riforma della sentenza impugnata, che ha dichiarato improcedibile il ricorso proposto in primo grado e il primo ricorso per motivi aggiunti proposto in primo grado, mentre vanno respinti gli appelli incidentali. Devono dunque essere annullate, in accoglimento del ricorso e dei primi motivi aggiunti in primo grado, la deliberazione n. 225 del 24 dicembre 2020 e la delibera n. 19 del 17 febbraio 2021 della Giunta comunale di Omissis, che provvederà ad adeguarsi sul piano conformativo ai principi sopra chiariti, mentre va confermata l’improcedibilità degli altri motivi aggiunti, proposti in primo grado dall’Autorità contro i singoli atti di proroga e dichiarata dal primo giudice, ma per la sola e ben diversa considerazione che tali atti devono considerarsi privi di effetti, non solo perché atti costituenti la mera attuazione, appunto, di disposizioni nazionali direttamente disapplicabili anche dall’autorità amministrativa nazionale, prima ancora che dal giudice, ma anche perché resi tali dall’art. 3, comma 1, della l. n. 118 del 2022 nella sua originaria versione, disapplicate le modifiche introdotte con la l. n. 14 del 2023. Le spese del doppio grado del giudizio, per la complessità delle questioni trattate, possono essere compensate tra le parti. 69.1. Il Comune di Omissis deve essere condannato a rimborsare in favore dell’Autorità il contributo unificato richiesto per la proposizione del ricorso e dei motivi aggiunti in primo grado nonché dell’appello principale. 69.2. Rimane definitivamente a carico degli appellanti incidentali il contributo unificato richiesto per la proposizione dei rispettivi gravami. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull’appello principale, proposto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, e sugli appelli incidentali, rispettivamente proposti da S.I.B. - Sindacato Italiano Balneari e da La.Ca. s.r.l., L’A. società cooperativa, Lido Or.Mi., accoglie il primo e respinge i secondi e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso e i primi motivi aggiunti proposti in primo grado dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e annulla la deliberazione n. 225 del 24 dicembre 2020 e la delibera n. 19 del 17 febbraio 2021 della Giunta comunale di Omissis, mentre conferma con diversa motivazione l’improcedibilità degli altri motivi aggiunti, proposti in primo grado dall’Autorità contro i singoli atti di proroga. Compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado del giudizio. Condanna il Comune di Omissis a rimborsare in favore dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato il contributo unificato versato per la proposizione del ricorso e dei motivi aggiunti in primo grado nonché per la proposizione dell’appello principale. Pone definitivamente a carico di S.I.B. - Sindacato Italiano Balneari il contributo unificato richiesto per la proposizione dell’appello incidentale. Pone definitivamente a carico di La.Ca. s.r.l., L’A. società cooperativa, Lido Or.Mi. il contributo unificato richiesto per la proposizione dell’appello incidentale. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2024, con l’intervento dei magistrati: Roberto Chieppa - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere, Estensore Daniela Di Carlo - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere L'ESTENSORE IL PRESIDENTE Massimiliano Noccelli Roberto Chieppa
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA SEZIONE SESTA CIVILE composta dai magistrati: dott. (...) Presidente dott. (...) (...) relatore dott. (...) (...) all'udienza del 15 maggio 2024 ha pronunciato ai sensi dell'art. 281sexies c.p.c. la seguente SENTENZA definitiva nella causa civile in grado di appello iscritta al n. (...) del registro generale degli affari contenziosi dell'anno 2018, vertente tra (...) (c.f. (...)), nata a (...) il (...), (...) (c.f. (...)), nato a (...) il (...), (...) (c.f. (...)), nato a (...) il (...), tutti in proprio e quali eredi di (...) elettivamente domiciliati in (...) Via (...) n. (...), presso lo studio dell'avv. (...) che li rappresenta e difende unitamente all'avv. (...) giusta procura in atti appellanti principali ed appellati incidentali e (...) s.p.a. (p.iva (...)), elettivamente domiciliat (...), presso lo studio dell'avv. (...) che la rappresenta e difende giusta procura in atti appellata principale ed appellante incidentale e (...) appellati contumaci e (...) s.r.l. (p.iva (...)), elettivamente domiciliat (...), presso lo studio dell'avv. (...) che la rappresenta e difende giusta procura in atti appellata e MINISTERO DELL'INTERNO DIPARTIMENTO DEI VIGILI DEL FUOCO, DEL SOCCORSO PUBBLICO E DELLA DIFESA CIVILE (c.f.: (...)), rappresentato e difeso e(...) lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in (...) Via dei (...) n. 12 è domiciliato appellato Motivi di fatto e di diritto della decisione Con atto di citazione notificato in data (...), (...) e (...) in proprio ed in qualità di eredi di (...) hanno proposto appello avverso la sentenza n. (...)/2017 emessa dal Tribunale ordinario di (...) e pubblicata il (...), resa nel giudizio di primo grado promosso dall'odierna parte appellante nei confronti di (...) della (...) dei (...) s.r.l. e di (...) s.p.a. Nel corso del giudizio di primo grado è stata autorizzata la chiamata in causa del Ministero dell'(...) (...) dei (...) del (...) del soccorso pubblico e della Difesa Civile e (...) dei (...) del (...) di (...) Par. 1.1 I fatti di causa sono esposti nella sentenza impugnata come di seguito riportato. " Con atto di citazione ritualmente notificato, (...) e (...) rispettivamente madre e fratelli del deceduto (...) in proprio e nella qualità di eredi della vittima, chiedevano dichiararsi l'esclusiva responsabilità di (...) (quale conducente della vettura di proprietà della (...) dei (...) s.r.l.) nella causazione del sinistro che aveva cagionato la morte di (...) nonché la condanna, in solido tra loro, dello stesso (...) della (...) dei (...) s.r.l. e di (...) s.p.a. quest'ultima anche con responsabilità ultramassimale al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subìti, con vittoria di spese. Gli attori esponevano a sostegno della domanda che il 19 luglio 2011, intorno alle ore 19,50, (...) era stato investito dalla vettura di proprietà della (...) dei (...) s.r.l., condotta dal (...) mentre la vittima era alla guida del suo motociclo, rimanendo poi incastrata tra le ruote dell'auto e decedendo per insufficienza respiratoria acuta da compressione del torace. La responsabilità esclusiva del (...) nel decesso del (...) emergeva dalla sentenza di applicazione della pena resa dal Tribunale penale di (...) divenuta irrevocabile, con la quale al (...) era stata applicata la pena di mesi dodici di reclusione per il reato di omicidio colposo, nonché dalla consulenza tecnica sulla dinamica del sinistro e da quella medico legale sulle cause del decesso effettuate su incarico del (...) oltre che dalle sommarie informazioni assunte nel corso delle indagini preliminari. Veniva chiesto il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, sia iure hereditario (danno da perdita della vita), sia iure proprio, assumendosi che la sig.ra (...) soffriva, a seguito della morte del figlio, di un grave stato depressivo con attacchi di panico e che aveva perso gli apporti economici che la vittima le avrebbe assicurato "durevolmente e spontaneamente". Si costituiva in giudizio l'(...) s.p.a. non contestando la responsabilità del (...) nel tamponamento del motociclo del (...) ma deducendo che erano intervenuti fattori interruttivi del nesso causale tra la condotta del conducente della vettura e il decesso della vittima (ritardo con cui erano giunti i soccorsi, vigili del fuoco intervenuti con le bombole di gas scariche e quindi impossibilitati a sollevare il veicolo investitore, allontanamento degli intervenuti che stavano azionando il cric per sollevare il veicolo da parte delle forze di polizia). Contestava inoltre il quantum debeatur e l'esistenza di un danno patrimoniale, deduceva di aver corrisposto alcune somme in favore degli attori e precisava che la polizza prevedeva un massimale di euro 2.500.000,00. Concludeva chiedendo dichiararsi la nullità della citazione per incertezza del petitum, accertarsi che la compagnia aveva già corrisposto euro 200.000,00 in favore di (...) ed euro 63.000,00 per ciascun fratello della vittima e rigettarsi la domanda con vittoria di spese. Si costituivano altresì il (...) e la (...) dei (...) s.r.l. non contestando la dinamica del sinistro ma negando la responsabilità del (...) nella causazione del decesso del (...) in quanto l'investimento non ne aveva provocato la morte, cagionata piuttosto da una serie di fatti (quelli stessi indicati dalla compagnia assicurativa) atipici, anomali ed eccezionali (la circostanza che le bombole di gas necessarie per il sollevamento del veicolo fossero scariche), che avevano determinato l'interruzione del nesso causale. Chiedevano pertanto la chiamata in causa del (...) dell'(...) del (...) e del (...) dei (...) del (...) di (...) e la condanna degli stessi, in via solidale, al risarcimento dei danni in favore degli attori, con rigetto della domanda attorea nei confronti di essi convenuti. In subordine chiedevano accertarsi la concorrente responsabilità del (...) e del (...) nella determinazione del decesso della vittima e la loro condanna al risarcimento per quanto di loro responsabilità, con vittoria di spese. A seguito della chiamata di terzo si costituiva il (...) dell'(...) Dipartimento dei (...) del (...) del (...) e della Difesa Civile e (...) dei (...) del (...) di (...) eccependo preliminarmente l'inammissibilità sia della domanda principale che di quella subordinata proposta dal convenuto (...) e dall'(...) dei (...) in quanto domanda risarcitoria riservata all'iniziativa esclusiva di parte attrice. Eccepiva altresì la nullità della citazione introduttiva per assoluta incertezza del petitum in difetto di specificazione del quantum debeatur richiesto e la prescrizione del diritto risarcitorio essendo decorso il biennio tra l'epoca del sinistro e la notifica dell'atto di citazione avversario. Nel merito assumeva la responsabilità esclusiva del (...) nella causazione del decesso del (...) e negava qualunque profilo di colpa nella condotta dei vigili del fuoco intervenuti, attesa la tempestività dell'intervento ancora precedente all'arrivo dell'ambulanza e stante l'avvenuto utilizzo, per il sollevamento della vettura, della pinza divaricatrice. Contestava inoltre il profilo dell'entità del danno, rilevando come non fosse risarcibile né il danno da perdita della vita, né quello biologico temporaneo, difettando la prova dello stato cosciente della vittima nel periodo antecedente il decesso, né quello patrimoniale, non godendo il (...) di reddito stabile e versando in condizioni di difficoltà economica. Concludeva quindi per il rigetto della domanda con vittoria di spese di lite. All'udienza del 18.12.2014 il procuratore degli attori, alla luce delle difese dei convenuti, dichiarava di voler estendere la domanda nei confronti del (...) chiedendone la condanna in solido con i convenuti al risarcimento del danno subìto. Con ordinanze in data (...) e 29.4.2016 venivano respinte le richieste di provvisionale avanzate dagli attori. La causa, istruita mediante produzioni documentali, assunzione di prova per testi e consulenza tecnica medico legale, perveniva alla fase decisoria con assegnazione alle parti dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e repliche". Par. 1.2 (...) Tribunale, con detta sentenza, ha così deciso: "rigetta le eccezioni preliminari sollevate dal (...) dell'(...) dichiara che il sinistro stradale verificatosi in (...) il 19 luglio 2011, intorno alle ore 19,50 sulla rampa di uscita per via (...) GRA tra la vettura (...) 307 SW condotta da (...) e di proprietà della (...) dei (...) s.r.l., ed il ciclomotore (...) condotto da (...) è ascrivibile in via esclusiva alla responsabilità di (...) per l'effetto condanna (...) dei (...) s.r.l. ed (...) spa, in solido tra loro, già detratti gli acconti in precedenza corrisposti, al pagamento in favore di (...) e (...) rispettivamente madre e fratelli del deceduto (...) delle seguenti somme; euro 91.862,29 in favore di (...) ed euro 80.701,00 ciascuno in favore di (...) e (...) oltre interessi e rivalutazione come da parte motiva, nonché interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza all'effettivo soddisfo; rigetta la domanda risarcitoria proposta dagli attori, nonché dal (...) e dalla (...) dei (...) s.r.l. nei confronti del (...) dell'(...) (...) dei (...) del (...) del soccorso pubblico e della Difesa Civile e (...) dei (...) del (...) di (...) condanna (...) dei (...) s.r.l. ed (...) spa, in solido tra loro, a rifondere agli attori le spese del presente grado di giudizio che liquida, in applicazione del D.M. n. 55/2014, in euro 18.000,00 per compensi professionali, oltre euro 450,00 per spese di contributo unificato, euro 600,00 di consulenza di parte, spese generali (15%), IVA e (...) le spese di CTU vengono poste definitivamente a carico di (...) dei (...) s.r.l. ed (...) s.p.a., in solido tra loro". Par. 1.3 La sentenza è motivata come di seguito riportato. "1. le eccezioni preliminari. Va respinta l'eccezione di nullità dell'atto di citazione sollevata dal (...) sull'assunto della assoluta genericità del petitum per non essere stata quantificata la somma richiesta a titolo risarcitorio. (...) l'orientamento della S.C., dal quale non vi è motivo di discostarsi, la nullità della citazione per omessa od incerta determinazione del petitum, inteso sotto il profilo formale come il provvedimento giurisdizionale richiesto dall'attore, e sotto quello sostanziale come il bene della vita del quale si chiede il riconoscimento, non sussiste qualora nell'atto introduttivo del giudizio non sia stata esattamente quantificata monetariamente la pretesa, se l'attore abbia indicato i titoli dai quali la stessa trae fondamento, permettendo in tal modo al convenuto di formulare in via immediata ed esauriente le proprie difese (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7074 del 05/04/2005; (...) 3, Sentenza n. 12567 del 28/05/2009). Nel caso di specie gli attori, pur non quantificando l'importo richiesto a titolo risarcitorio, hanno esattamente indicato i danni di cui chiedono il ristoro (danno da perdita della vita del congiunto, danno da perdita del rapporto parentale, danno biologico iure proprio, danno patrimoniale ecc.), sicché i convenuti sono stati posti in grado di esercitare le loro difese sia in punto di an che di quantum (tanto che sia il (...) che l'(...) nonché il (...) hanno dedotto sul punto). Va poi disattesa anche l'eccezione, sempre sollevata dal (...) di inammissibilità della chiamata di terzo del (...) Ha affermato infatti il (...) che quest'ultimo non avrebbe potuto avanzare nei suoi confronti una domanda risarcitoria riservata esclusivamente agli attori (né quella formulata in via principale, né quella subordinata di condanna del (...) al risarcimento del danno per la sua quota di responsabilità). Ebbene, la giurisprudenza della S.C. è orientata nel senso che qualora il convenuto effettui una chiamata di terzo indicando quest'ultimo come l'unico obbligato nei confronti dell'attore, la domanda attorea si estende automaticamente al terzo, purché il titolo in base al quale il convenuto ritiene la responsabilità del terzo non sia diverso da quello della domanda attorea. Si è infatti affermato che il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore al chiamato in causa da parte del convenuto trova applicazione allorquando la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell'attore, in ragione del fatto che il terzo s'individui come unico obbligato nei confronti dell'attore ed in vece dello stesso convenuto, realizzandosi in tal caso un ampliamento della controversia in senso soggettivo (divenendo il chiamato parte del giudizio in posizione alternativa con il convenuto) ed oggettivo (inserendosi l'obbligazione del terzo dedotta dal convenuto verso l'attore in alternativa rispetto a quella individuata dall'attore), ma ferma restando, tuttavia, in ragione di detta duplice alternatività, l'unicità del complessivo rapporto controverso. Il suddetto principio, invece, non opera, allorquando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall'attore come "causa petendi" ed in particolare, ove l'azione dell'attore sia di natura risarcitoria, qualora venga dedotto un titolo di responsabilità del terzo verso l'attore diverso da quello da lui invocato, al fine non già dell'affermazione della responsabilità diretta ed esclusiva del terzo verso l'attore sulla base del rapporto dedotto dal medesimo, bensì allo scopo di ottenere, sulla base del diverso rapporto di responsabilità dedotto, il rilievo dalla responsabilità invocata dall'attore con la domanda introduttiva della lite; e in questo secondo caso resta ferma l'autonomia sostanziale dei due rapporti confluiti nello stesso processo (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1748 del 28/01/2005). Nel caso di specie, la domanda fatta valere dal convenuto (...) nei riguardi del (...) non si richiama ad un titolo diverso ma alla stessa causa petendi fatta valere da parte attrice, ovvero la responsabilità aquiliana per il decesso del (...) nel sinistro di cui trattasi, sebbene in conseguenza di due diverse condotte poste in essere in contiguità temporale (l'investimento della vittima da parte del (...) e l'omesso tempestivo intervento di soccorso da parte dei vigili del fuoco). Giova ancora sottolineare che "in ipotesi di intervento di terzo su istanza di parte, posto che in virtù della chiamata in causa la domanda attorea si estende automaticamente nei confronti del terzo indicato quale unico responsabile, per escludere la volontà dell'attore di estendere la domanda nei confronti del terzo chiamato non bisogna aver riguardo al momento della proposizione della domanda nei confronti del convenuto, bensì a quello, successivo, della chiamata in causa, che può indurre l'attore medesimo a modificare la strategia processuale in un primo tempo scelta" (Cass. sez. 2, Sentenza n. 3643 del 24/02/2004). Ora, all'udienza del 18.12.2014, a seguito delle difese del convenuto (...) gli attori hanno inteso estendere la domanda anche al (...) chiedendone la condanna al risarcimento dei danni in solido col conducente, col proprietario della vettura e la compagnia assicuratrice, per cui non vi è dubbio che la domanda risarcitoria sia stata estesa al (...) Peraltro, si è anche ritenuto che qualora il convenuto, nel dedurre il difetto della propria legittimazione passiva, chiami un terzo, indicandolo come il vero legittimato, si verifica l'estensione automatica della domanda al terzo medesimo, onde il giudice può direttamente emettere nei suoi confronti una pronuncia di condanna anche se l'attore non ne abbia fatto richiesta, senza incorrere nel vizio di e(...)trapetizione (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13165 del 05/06/2007). Va ancora respinta l'eccezione preliminare di prescrizione sollevata dalla difesa del (...) E' noto che se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, essa si applica anche all'azione civile (art. 2947). Se è intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, il diritto al risarcimento si prescrive nel termine biennale con decorrenza dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. Nel caso di specie è intervenuta sentenza di patteggiamento passata in giudicato il (...), data dalla quale decorre il termine di prescrizione biennale (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25042 del 07/11/2013, secondo cui in tema di prescrizione del risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli, dal disposto del terzo comma dell'art. 2947 cod. civ. emerge, per l'ipotesi in cui il fatto costituisce anche reato, che il risarcimento del danno si prescrive in due anni quando sia intervenuta una sentenza irrevocabile nel procedimento penale, rientrando tra queste anche la sentenza emessa ai sensi degli artt. 444 e 445 cod. proc. pen. c.d. patteggiamento perché essa non ha, nel giudizio civile, l'efficacia di una sentenza di condanna, alla quale è invece applicabile, e(...) art. 2953 cod. civ., il termine di prescrizione di dieci anni). Nel caso di specie l'atto di citazione è stato notificato al (...) il (...), quindi prima che maturasse la prescrizione biennale, sicché l'eccezione è priva di pregio. 2. ricostruzione della dinamica del sinistro. La relazione conclusiva redatta dalla polizia municipale ricostruisce la dinamica del sinistro nei termini seguenti. Il sinistro si era verificato in (...) intorno alle ore 19:55 del 19.7.2011, sulla rampa di uscita per via (...) (...) in presenza di luce solare (atteso il periodo estivo), in condizioni di tempo sereno e con strada in discesa a senso unico di marcia e con curva destrorsa, in tratto con limite di velocità di 40 km/h. (...), giunto intorno alle ore 20:52 (circa 57 minuti dopo il verificarsi del sinistro) quando già era stato constatato il decesso del (...) dava atto della posizione statica assunta dai veicoli coinvolti nell'incidente. In particolare, la vettura (...) 307 SW condotta dal (...) si trovava quasi al centro della rampa, parallela all'asse della carreggiata, con la parte anteriore rivolta verso via (...) mentre il ciclomotore (...) era riverso a terra sul lato destro alcuni metri prima della (...) con la ruota anteriore a ridosso del guardrail. (...) poteva essere ricostruito come segue: entrambi i veicoli (il ciclomotore marciando davanti alla (...), provenienti da via del (...) percorrevano la circonvallazione (...) in direzione S. (...) e imboccavano la rampa di uscita per via (...) in direzione (...) nell'affrontare la curva destrorsa la (...) tamponava con la parte anteriore destra la parte posteriore del ciclomotore (come risulta dall'abrasione e dall'impronta di forma circolare presente sul paraurti anteriore lato destro della vettura); il ciclomotore cadeva sul fianco destro per effetto dell'urto scivolando sull'asfalto (dove lasciava tracce di abrasione) per poi fermarsi sul margine sinistro della carreggiata; la vettura proseguiva la marcia nonostante la collisione passando verosimilmente con la ruota anteriore sinistra sul corpo del motociclista e trascinandolo con il casco ancora indossato per circa 24 metri. Sempre dalla relazione della polizia municipale risulta che delle persone presenti in loco, nessuna era stata in grado di fornire chiarimenti sulla dinamica del sinistro, ma solo sui successivi soccorsi. (...) riferiva oralmente agli operanti della municipale di essere stato sorpassato sulla sinistra dal ciclomotore, che dopo essersi spostato sulla destra della carreggiata avrebbe poi rallentato improvvisamente la marcia, mentre il coniuge del (...) ((...) riferiva di non aver assistito alla dinamica del sinistro in quanto intento a guardare il display del cellulare. In definitiva la polizia municipale riteneva inattendibile la versione del (...) reputando di contro che esso avesse tenuto una condotta di guida distratta in quanto, nonostante la velocità moderata, non era stato in grado di arrestare immediatamente la marcia dopo l'urto e non si era avveduto della caduta del motociclista e del trascinamento del corpo sotto la propria autovettura. A conclusioni conformi giunge anche la consulenza cinematica eseguita su disposizione del PM. Rilevava infatti il consulente come dall'esame della posizione dei veicoli emergesse che al momento dell'urto essi si trovavano a marciare su linee perfettamente parallele, dovendosi quindi escludere che nell'immediatezza fosse stata effettuata una manovra di sorpasso da parte del ciclomotore. Dall'esame delle tracce rilevate sulla pavimentazione stradale appariva altamente probabile che il ciclomotore marciasse al centro dello svincolo e che la vettura lo seguisse spostata verso sinistra. La velocità della (...) al momento dell'urto era stata stimata 1520 km/h superiore a quella del ciclomotore, sicché appariva possibile che il motociclista avesse sensibilmente ridotto la velocità nell'ingresso in curva e fosse stato raggiunto dalla vettura in velocità libera. Appariva infine indubbio che la vettura avesse tamponato con la sua parte anteriore il parafango posteriore del ciclomotore in posizione eretta e su traiettorie parallele. Dall'autopsia effettuata nella fase delle indagini preliminare emerge che la morte del (...) è stata constatata in sede clinica alle ore 20:40 del 18.7.2011, che il decesso è riconducibile al sinistro stradale per cui è causa e che esso appare compatibile con una insufficienza respiratoria acuta da compressione del torace. E' importante sottolineare, anche tenuto conto delle eccezioni sollevate dalle parti e che verranno trattate infra, la circostanza che il (...) in conseguenza dell'urto, non ebbe a riportare una lesività fisica rilevante ai fini del determinismo della morte, in quanto l'esame necroscopico ha evidenziato l'assenza di alterazioni rilevanti a carico di pressoché tutti gli organi ed apparati del corpo. Dunque, il consulente del PM ha ritenuto che il decesso sia riconducibile al fatto che il corpo della vittima è rimasto compresso sotto il veicolo, così da impedire la normale dinamica respiratoria attraverso una pressione esercitata a livello toracico. Va a questo punto rilevato che il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all'ammissione e all'assunzione della prova: cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 840 del 20/01/2015; n. 4652 del 2011; n. 5440 del 2010; n. 11555 del 2013; (...) n. 9040 del 2008). (...) canto, nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice, potendo porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, è legittimato ad avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, così come delle dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali (Cass. Sentenza n. 1593 del 20/01/2017). Ancora, la sentenza penale di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi degli artt. 444 e 445 cod. proc. pen. (cd. "patteggiamento") non ha, nel giudizio civile, l'efficacia di una sentenza di condanna (cfr. art. 445 co. 2 c.p.p.), sicché il giudice civile deve decidere accertando i fatti illeciti e le relative responsabilità autonomamente, pur non essendogli precluso di valutare, unitamente ad altre risultanze, anche la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10847 del 11/05/2007; n. 6863 del 2003), la quale costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (Cass. Sez. L, Sentenza n. 9358 del 05/05/2005). Ciò premesso, deve anzitutto rilevarsi che il (...) ha patteggiato la pena per il reato di omicidio colposo e che, pur non contestando in questa sede la propria responsabilità nell'investimento del motociclista, si è difeso sostenendo che il nesso causale tra la propria condotta di guida e il decesso del (...) sarebbe stato interrotto da un elemento assolutamente atipico ed eccezionale costituito dal mancato tempestivo sollevamento del veicolo da parte dei vigili del fuoco intervenuti. Ora, riservando al prosieguo l'analisi più approfondita di questo aspetto della vicenda, deve rilevarsi che tale strategia difensiva si pone in palese conflitto con la richiesta di applicazione della pena da parte del (...) atteso che ove quest'ultimo avesse ritenuto effettivamente interrotto il nesso causale tra la propria condotta di guida e il decesso della vittima, non avrebbe dovuto chiedere di patteggiare la pena (ponendosi la questione relativa all'interruzione del nesso causale in termini omologhi sia nel processo penale che in quello civile). Né d'altro canto egli ha fornito una spiegazione plausibile del motivo per il quale si sarebbe appunto deciso a patteggiare la pena pur nella convinzione di non aver cagionato la morte del (...) In ogni caso, le risultanze della relazione della polizia municipale intervenuta sul luogo del sinistro e della CT modale del P.M. appaiono assolutamente persuasive e condivisibili. Può quindi ritenersi che la (...) abbia tamponato il ciclomotore guidato dal (...) (come emerge dalle tracce di urto tra la zona anteriore della vettura e quella posteriore del ciclomotore) per poi trascinarlo sotto l'auto per diversi metri prima di fermarsi. Che vi sia stata una condotta gravemente negligente del (...) nella guida del veicolo emerge poi in maniera eclatante sia dal fatto che l'urto si è verificato da tergo (ciò che denota il mancato rispetto della distanza di sicurezza tra i veicoli), sia dal trascinamento del corpo della vittima incastrata sotto la scocca dell'auto investitrice per ben 24 metri senza che il (...) se ne rendesse conto. 3. il nesso causale tra la condotta di guida imprudente del (...) e il decesso del (...) la questione dell'eccepita interruzione del nesso causale. Giova a questo punto soffermarsi sulla questione dell'eccepita interruzione del nesso causale, la quale impone anzitutto di far luce su quanto accaduto dopo l'investimento e sui soccorsi intervenuti. Dall'annotazione di servizio del (...) del 20.7.2011 risulta che all'arrivo della polizia (tra le ore 20:00 e le 20.10) alcune persone avevano già posto un cric sul lato destro della (...) allo scopo di tentare di sollevare il mezzo (si rammenta che il sinistro si è verificato intorno alle ore 19:55). Sempre secondo detta annotazione, alle ore 20:10 giungeva la (...) dei (...) del (...) che mediante un martinetto idraulico sollevava l'auto ed estraeva il corpo della vittima, mentre alle 20:26 il personale del 118 constatava il decesso del (...) Occorre poi esaminare le sommarie informazioni testimoniali rese alla polizia municipale da (...) e (...) giunto sul posto subito dopo il sinistro (e quindi verosimilmente intorno alle ore 20:00 o poco prima), dichiarava di aver verificato che la persona investita era ancora in vita, poiché a circa 10 minuti dal suo arrivo aveva notato che il (...) da lui sollecitato in tal senso aveva mosso leggermente un piede. Un motociclista intervenuto prima di lui aveva sollevato la parte anteriore destra della vettura mediante un cric, ma in tale frangente era intervenuta una pattuglia della (...) che aveva fatto allontanare gli astanti. Verso le 20:15 era giunto sul posto il primo mezzo dei (...) del (...) che aveva approntato le operazioni per il sollevamento del mezzo. Tuttavia, il teste aveva udito uno dei (...) affermare che le bombole erano scariche e che occorreva trovare una soluzione alternativa. Immediatamente dopo però i (...) del (...) avevano interrotto ogni operazione a seguito della constatazione del decesso della vittima, sulla quale era stato steso un telo bianco. Era poi sopraggiunto un secondo mezzo dei (...) del (...) che aveva rimosso la vettura liberando il corpo del ragazzo. (...) ha riferito di essere giunto anch'egli poco dopo il sinistro e di aver notato che la vittima muoveva lentamente il braccio destro e respirava ancora muovendo in maniera accelerata il torace. Reperito un cric, lo aveva azionato, ma appena sollevata la vettura era stato fatto allontanare dai (...) del (...) nel frattempo sopraggiunti. Tuttavia, costoro non erano riusciti a sollevare l'auto in quanto, pur avendo posizionato l'attrezzatura gonfiabile, si erano resi conto che le bombole in dotazione erano scariche. La fase del tentativo di sollevamento della vettura con il cric è stata meglio chiarita nel corso dell'escussione dei due testi in fase istruttoria. (...) ha specificato che il (...) aveva sì sollevato la parte anteriore della vettura con un cric, ma che l'azione non era stata sufficiente a liberare il giovane. Ha inoltre precisato che qualcuno dei presenti voleva sollevare l'auto di forza, mentre altri temevano che ciò potesse peggiorare la situazione, sicché alla fine non se ne era fatto nulla in attesa dell'arrivo della polizia. (...) dal canto suo, ha dichiarato di essere riuscito a sollevare il veicolo con il cric solo di qualche centimetro. Entrambi i testi hanno poi confermato la circostanza che le bombole erano scariche e quindi l'esito negativo del primo tentativo di sollevamento del mezzo da parte dei (...) del (...) Occorre ora prendere in considerazione il materiale prodotto dal (...) Dal rapporto di intervento dei (...) del (...) in data (...) risulta che il primo mezzo è giunto in loco alle ore 20.11 e che l'intervento medesimo è consistito nel sollevare la vettura tramite martinetto idraulico manuale con l'ausilio del carro sollevamenti al fine di liberare il corpo del (...) La relazione redatta il (...) dal responsabile del reparto che operò l'intervento ((...) dà atto che all'arrivo sul posto la vittima si trovava incastrata sotto la vettura e si presentava in stato di incoscienza, dato che ad un controllo ravvicinato "non si scorgeva alcun segno vitale quale respirazione e polso carotideo". La squadra aveva quindi proceduto all'allestimento della manovra di sollevamento del veicolo tramite impiego di cuscini pneumatici di sollevamento che però "al momento della messa in pressione risultavano inefficaci per un mal funzionamento della centralina di comando", per cui si era proceduto immediatamente all'uso della pinza divaricatrice oleodinamica in dotazione. La durata complessiva delle manovre di allestimento delle attrezzature aveva richiesto circa due minuti. Poiché tuttavia la pinza divaricatrice a parità di capacità di sollevamento presentava minore stabilità e sicurezza per il personale operante, era stato richiesto l'intervento di un (...) sollevamenti dei (...) che con l'impiego di un martinetto idraulico manuale aveva messo definitivamente in sicurezza la vettura. Giova a questo punto precisare che in tema di responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di equivalenza di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano ad una valutazione "e(...) ante" del tutto inverosimili (Cass. Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008). In particolare, il principio dell'equivalenza delle cause (se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale) trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente desumibile dall'art. 41 c.p., comma 2, in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268). Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità causale (e(...) multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass.27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962). Per quanto attiene più da vicino la fattispecie in esame, si è osservato che il concetto di causalità sopravvenuta da sola sufficiente ad escludere il rapporto causale a norma dell'art. 41, comma secondo, cod. pen. (norma pacificamente applicabile anche in sede (...)postula necessariamente la completa autonomia del fattore causale prossimo rispetto a quello più remoto, esige comunque che il primo non sia strettamente dipendente dall'altro e che si ponga al di fuori di ogni prevedibile linea di sviluppo dello stesso, di talché la mancata eliminazione di una situazione di pericolo (derivante da fatto commissivo od omissivo dell'agente) ad opera di terzi non rappresenta una distinta causa che si innesti nella prima, ma solo una ovvia condizione negativa perché quella continui ad essere efficiente e operante. (Fattispecie in tema di colpevole omissione della corretta diagnosi che, se tempestivamente formulata, avrebbe consentito di salvare la vita del malato) (Cass. Pen. Sez. 1, Sentenza n. 11024 del 10/06/1998). Nello stesso senso, in ambito propriamente civilistico, la S.C. ha affermato che si ha interruzione del nesso di causalità per effetto del comportamento sopravvenuto di altro soggetto (che può identificarsi anche con lo stesso danneggiato) quando il fatto di costui si ponga, ai sensi dell'art. 41, comma secondo, cod. pen., come unica ed esclusiva causa dell'evento di danno, sì da privare dell'efficienza causale e rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell'autore dell'illecito, ma non quando, essendo ancora in atto ed in fase di sviluppo il processo produttivo del danno avviato dal fatto illecito dell'agente, nella situazione di potenzialità dannosa da questi determinata si inserisca una condotta di altro soggetto (ed eventualmente dello stesso danneggiato) che sia preordinata proprio al fine di fronteggiare e, se possibile, di neutralizzare le conseguenze di quell'illecito. In tal caso lo stesso illecito resta unico fatto generatore sia della situazione di pericolo sia del danno derivante dall'adozione di misure difensive o reattive a quella situazione (sempreché rispetto ad essa coerenti ed adeguate). (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18094 del 12/09/2005; n. 11087 del 1993, n. 11386 del 1997, n. 6640 del 1998). Ora, alla luce dei principi sopra riportati e che questo giudice condivide, non è chi non veda come non sia ravvisabile nel caso che occupa alcuna interruzione del nesso causale. In primo luogo, non sussiste prova sufficiente del fatto asseritamente interruttivo allegato dal (...) e dalla compagnia assicuratrice secondo cui la condotta omissiva dei (...) intervenuti rectius il ritardo nell'intervento di sollevamento del veicolo investitore abbia cagionato (o meglio non evitato) il decesso del (...) poiché non è possibile stabilire con sicurezza che il giovane, al momento del sopraggiungere dei (...) fosse ancora vivo. Indubbiamente può affermarsi che egli desse ancora deboli segni di vita al momento in cui si sono avvicinati i primi soccorritori (cfr. deposizioni (...) e (...), ma non si può invece ritenere con certezza che lo stesso non fosse deceduto all'arrivo del primo mezzo dei (...) del (...) (secondo la relazione del capo squadra, come si è visto, il (...) non respirava e non aveva polso). Inoltre, dal rapporto del capo squadra dei (...) emerge che una volta constatato che i cuscinetti di sollevamento non potevano funzionare (per un addotto malfunzionamento della centralina), fu tempestivamente azionata una pinza idraulica che sollevò il veicolo investitore, così raggiungendosi il medesimo risultato ottenibile mediante i cuscini pneumatici, mentre l'intervento del secondo mezzo ((...) sollevamento) fu richiesto solo per maggior sicurezza degli operanti. In secondo luogo, anche a voler ipotizzare che i (...) del (...) avrebbero potuto eseguire un intervento più tempestivo, così impedendo il decesso del (...) per soffocamento, ciò comporterebbe, per il principio dell'equivalenza causale, un concorso di cause efficienti nella determinazione del decesso della vittima e non già una interruzione del nesso causale tra la condotta di guida del (...) e la morte del giovane. Invero, un eventuale (ma come si è detto non provato) ritardo nelle operazioni di soccorso in caso di sinistro stradale non costituisce affatto una serie causale atipica ed eccezionale, ben potendosi prevedere, in base alla migliore scienza ed esperienza, che in caso di incidente molteplici e talora imponderabili siano i fattori che condizionano un tempestivo intervento di soccorso (condizioni del traffico, distanza e raggiungibilità del luogo del sinistro da parte dei mezzi di soccorso, disponibilità di tali mezzi ove non altrimenti impegnati in altre operazioni ecc.). Di tale ovvia constatazione è espressione il principio più volte affermato dalla giurisprudenza e sopra riportato secondo cui quando il processo produttivo del danno avviato dal fatto illecito dell'agente sia ancora in atto ed in fase di sviluppo e nella situazione di potenzialità dannosa da questi determinata si inserisca una condotta di altro soggetto che sia preordinata proprio al fine di fronteggiare e, se possibile, neutralizzare le conseguenze di quell'illecito, lo stesso illecito resta unico fatto generatore sia della situazione di pericolo sia del danno derivante dall'adozione di misure difensive o reattive purché congrue e adeguate a quella situazione. Nella fattispecie non occorre spendere ulteriori parole per rilevare che il sinistro e le conseguenze del medesimo, che hanno condotto il (...) al decesso, sono pienamente riconducibili alla distratta e negligente condotta di guida del (...) che non solo ha investito il motociclista, ma nemmeno si è reso conto di averlo trascinato per diversi metri sotto la propria autovettura prima di fermarsi. Dunque, non solo non sussiste la dedotta interruzione del nesso causale, ma nemmeno è ravvisabile un concorso di cause efficienti (condotta del conducente del veicolo, ritardo nel sollevamento del veicolo da parte dei (...) per i motivi che sopra sono stati illustrati. Per completezza deve anche sottolinearsi come il pur meritorio e lodevole intervento posto in essere dai primi soccorritori non si sia rivelato decisivo per liberare il corpo del (...) atteso che come precisato dai testi escussi in fase istruttoria il cric aveva sollevato il veicolo di soli pochi centimetri (insufficienti per liberare il giovane) e che la successiva proposta di sollevamento manuale non aveva trovato sufficienti adesioni tra i presenti, avendo alcuni temuto che lo stesso potesse cagionare un ulteriore danno alla vittima. 4. risarcimento del danno. Si esaminano qui di seguito le varie voci di danno richieste dagli attori. a) Danno tanatologico o da perdita della vita b) (...) catastrofale Va respinta la domanda di risarcimento del danno biologico derivante dalla perdita della vita della vittima richiesto dagli attori iure hereditatis. Invero la lesione dell'integrità fisica con esito letale (cd. danno tanatologico), intervenuto immediatamente o a breve distanza di tempo dall'evento lesivo, non è configurabile quale danno biologico, dal momento che la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute ma incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento trasferibile agli eredi, non rilevando in contrario la mancanza di tutela privatistica del diritto alla vita (peraltro protetto con lo strumento della sanzione penale), attesa la funzione non sanzionatoria ma di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi svolta dal risarcimento del danno, e la conseguente impossibilità che, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, esso operi quando tale persona abbia cessato di esistere (Cass. Sentenza n. 6404 del 1998; n. 8970 del 1998; n. 12083 del 1998; n. 491 del 20/01/1999; n. 3760 del 19/02/2007). Invece, nel caso in cui tra le lesioni e il decesso intercorra un apprezzabile lasso di tempo, è configurabile un danno nel quale sono ricompresi da un lato il danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale, e dall'altro una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico o catastrofale) costituita dalla lucida percezione dell'approssimarsi della propria morte, che va liquidato in relazione all'effettiva menomazione dell'integrità psicofisica subita sino al decesso (e quindi con riferimento al periodo di tempo compreso tra il verificarsi dell'illecito e la morte), con commisurazione all'inabilità temporanea da adeguare alle circostanze del caso concreto, tenuto conto del fatto che detto danno, se pure temporaneo, ha raggiunto la massima entità ed intensità, senza possibilità di recupero, atteso l'esito mortale (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18163/2007; n. 22228/2014; n. 23183/2014). Tale diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli eredi che potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante "jure hereditatis" (Cass. n. 13066/2004; n. 24/2002; n. 3728/2002; n. 1131/1999). Da ultimo le (...) componendo un precedente contrasto emerso con la sentenza n. 1361 del 23/01/2014 (che aveva riconosciuto la risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita della vita anche in caso di morte istantanea o dopo un breve lasso di tempo, a prescindere dalla consapevolezza che la vittima avesse avuto dell'approssimarsi imminente del proprio decesso), hanno ribadito l'indirizzo tradizionale secondo cui in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità "iure hereditatis" di tale pregiudizio, in ragione nel primo caso dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero nel secondo della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo ((...) U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015). In altri termini, sotto il profilo della quantificazione del risarcimento, posto che trattasi di un danno alla salute che, seppur temporaneo, riveste massima intensità (tanto da aver condotto la vittima al decesso in un limitato arco di tempo), non appare ragionevole applicare sic et simpliciter i medesimi criteri tabellari che sono predisposti per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all'evento dannoso, essendo invece necessario, in un'ottica di personalizzazione e tenuto conto della maggiore intensità della sofferenza, adottare un criterio equitativo puro. Nel caso di specie si è visto trattando della dinamica del sinistro e delle successive operazioni di soccorso che il (...) nei minuti immediatamente successivi all'urto, ebbe a dare seppur deboli segnali di vita, come riferito dai testimoni (...) e (...) (tra i primi ad intervenire). Si può anche ritenere che nel breve arco temporale tra l'urto con la vettura e il decesso, quantificabile tra i 15 e i 45 minuti (la morte è stata accertata clinicamente alle 20:40 ma secondo i (...) del (...) il (...) non dava segni di vita già al momento del loro intervento, avvenuto intorno alle ore 20:10), vi sia stato qualche minuto in cui il giovane è rimasto cosciente della sua condizione e dell'approssimarsi del decesso, come dimostra il fatto che egli abbia mosso leggermente il piede su sollecitazione del (...) Si può quindi riconoscere agli attori, in qualità di eredi, il risarcimento del danno catastrofale, liquidabile in via equitativa tenuto conto della brevità del periodo intercorrente tra sinistro e decesso, ma anche dell'elevatissima intensità della sofferenza fisica e morale della vittima in euro 50.000,00. Tale somma va ripartita tra gli eredi secondo le norme della successione legittima, non essendo stata dedotta l'esistenza di un titolo testamentario, e quindi in base all'art. 571 c.c. (concorso di genitori con fratelli o sorelle) in euro 25.000,00 in favore di (...) ed euro 12.500,00 per ciascun fratello. c) danno da perdita del rapporto parentale. E' ormai consolidato il riconoscimento del danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto parentale in favore dei congiunti di persona che in conseguenza di un fatto illecito abbia subìto gravi lesioni o sia deceduto, costituendo dato di comune esperienza che eventi di siffatta portata incidano sul diritto all'intangibilità della sfera degli affetti e sulla reciproca solidarietà familiare. Quanto ai soggetti legittimati, devono considerarsi senz'altro aventi diritto al risarcimento i componenti della cd. famiglia nucleare (coniuge, figli, genitori, fratelli) mentre avuto riguardo ai parenti meno stretti (nonni, nipoti, zii, cugini, suocero e nuora, cognati), occorre fornire la prova della qualità e intensità del rapporto affettivo e quindi della perdita che la lesione o il decesso hanno comportato in termini di sostegno morale. Trattasi di danno che trova collocazione nella previsione dell'art. 2059 c.c. e che, sfuggendo ad una valutazione economica vera e propria, deve essere liquidato in via equitativa ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c., facendo ricorso ai criteri enucleati nelle tabelle del Tribunale di (...) predisposte per evitare disparità di pronunce all'interno dell'ufficio giudiziario. Non ignora questo giudicante che con sentenza n. 12408/2011 la Suprema Corte ha riconosciuto alle tabelle milanesi la valenza di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni contenute negli artt. 1226 e 2056 c.c., salva la sussistenza in concreto di circostanze idonee a giustificare il ricorso ad un diverso criterio, nell'ottica di assicurare una uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi. Tuttavia, si ritiene che l'esigenza di garantire la parità di trattamento di casi analoghi possa essere del pari soddisfatta attraverso l'utilizzo dei parametri contenuti nella tabella uniformemente utilizzata dal Tribunale di (...) elaborata in relazione alla media dei risarcimenti liquidati in loco, secondo un sistema di risarcimento non standardizzato (come quello milanese, che offre limitati spazi di personalizzazione). (...) parte, non sussiste il diritto del danneggiato a pretendere la liquidazione del danno mediante l'applicazione di una tabella in uso a un determinato ufficio giudiziario piuttosto che in un altro (Cass. n. 1524/2010) e qualora il giudice si discosti dall'applicazione delle tabelle in uso nel proprio ufficio è tenuto a dare ragione della diversa scelta (Cass. n. 13130/2006). Le tabelle romane, nel caso di danno da perdita del rapporto parentale, prevedono un sistema di attribuzione di un punteggio numerico che varia in ragione della presumibile entità del danno, sulla base di cinque parametri di riferimento, ovvero la relazione di parentela con il de cuius (dovendo presumersi che il danno sarà tanto maggiore quanto più stretto è tale rapporto), l'età della vittima e l'età del congiunto (il danno sarà tanto maggiore quanto minore è l'età di vittima e congiunto, siccome il pregiudizio è destinato a protrarsi per un tempo maggiore), l'eventuale convivenza e la composizione del nucleo familiare. Si è dunque ritenuto di fare ricorso ad un sistema di calcolo non fondato su un'entità risarcitoria di base da variare in più o in meno, ma sul modello "a punto", vale a dire attribuendo un certo numero di punti per ciascuno dei parametri di riferimento sopra considerati e moltiplicando il punteggio finale per una somma di denaro (valore del punto) che costituisce il valore ideale di ogni punto di danno non patrimoniale. Per adeguare ulteriormente l'entità risarcitoria alla fattispecie concreta si è inoltre prevista la possibilità di applicare una riduzione (dal 2011 fino alla metà del punteggio complessivo) in caso di assenza di convivenza con la vittima, anche allo scopo di diversificare la posizione dei non conviventi. Il valore a punto (da moltiplicarsi, come si è detto, per un'entità numerica variabile a seconda dei cinque parametri sopra menzionati), è convenzionalmente stabilita in via equitativa, sulla base della media di un campione di decisioni adottate dal Tribunale di (...) nell'importo di euro 9.443,50. Orbene, nel procedere all'esame della fattispecie concreta sottoposta all'esame del Tribunale occorre considerare l'età della vittima (anni 28 al momento del decesso) e di quella dei congiunti ((...) anni 69; (...) anni 44; (...) anni 46), al momento dell'evento. Devesi altresì tener conto della circostanza che, come risulta dalle deposizioni testimoniali di (...) e (...) coniugi dei fratelli della vittima, quest'ultima abitava da solo pur mantenendo stretti rapporti sia con la madre che con i germani. Pertanto, alla luce dei criteri sopra menzionati appare equo liquidare: in favore di (...) la somma complessiva di euro 245.531,00 (Euro 9.443,50 quale valore del punto moltiplicato per 26, ovvero punti 20 per il rapporto di parentela, punti 4 per l'età della vittima, punti 2 per l'età del congiunto superstite); in favore di (...) la somma complessiva di euro 132.209,00 (Euro 9.443,50 quale valore del punto moltiplicato per 14, ovvero punti 7 per il rapporto di parentela, punti 4 per l'età della vittima, punti 3 per l'età del congiunto superstite); in favore di (...) la somma complessiva di euro 132.209,00 (Euro 9.443,50 quale valore del punto moltiplicato per 14, ovvero punti 7 per il rapporto di parentela, punti 4 per l'età della vittima, punti 3 per l'età del congiunto superstite). Occorre altresì precisare che in detto importo, così liquidato, è già ricompreso il danno esistenziale, atteso che le tabelle romane per la liquidazione del danno da morte tengono in considerazione le conseguenze pregiudizievoli di natura esistenziale che discendono dalla perdita del congiunto, sicché il riconoscimento di ulteriori importi darebbe luogo ad una indebita duplicazione risarcitoria. Non sono state dimostrate particolari peculiarità del caso concreto suscettive di richiedere una ulteriore personalizzazione nel risarcimento del danno. d) danno patrimoniale da perdita di futuro contributo economico. (...) chiede inoltre il danno conseguente agli aiuti economici "che sicuramente il figlio le avrebbe assicurato durevolmente e spontaneamente", compreso quello inerente alla promessa di regalarle una casa. In realtà dall'istruttoria di causa non emergono elementi, nemmeno indiziari, che possano far ritenere che il figlio in futuro avrebbe destinato parte dei propri risparmi alla madre. In primo luogo, per la precarietà dei vari lavori che egli saltuariamente svolgeva (molti dei quali allegati ma non provati) e che fanno emergere una situazione economica del medesimo ancora tutta da definirsi, anche in considerazione della giovane età e del campo lavorativo prescelto (spettacolo, doppiaggio). In secondo luogo, perché non è stato provato che già in precedenza il de cuius avesse elargito del denaro o altre prestazioni in favore della madre (la quale presta attività lavorativa e convive con altro uomo, come indicato nell'atto introduttivo del giudizio). La domanda sotto tale profilo deve quindi essere disattesa. e) danno psichico iure proprio di (...) la relazione peritale svolta in fase istruttoria, adeguatamente motivata e priva di errori o vizi logici e che quindi si condivide pienamente, la sig.ra (...) ha sviluppato una sindrome depressiva con sicure caratteristiche di consistenza e di persistenza a causa dell'esperienza di lutto sofferta a seguito della prematura scomparsa del figlio (...) presentando dunque una sindrome depressiva cronica che per caratteristiche ed entità costituisce stabile menomazione della integrità psicofisica riconducibile ad un danno biologico parziale permanente del 15% (quindici per cento). Sempre applicando le tabelle romane predisposte per la liquidazione del danno biologico, tenuto conto dell'età della (...) all'epoca in cui presumibilmente la patologia ha avuto origine e quindi con riferimento all'epoca del decesso del figlio (anni 69), nonché considerando il grado di invalidità permanente (15%), si giunge alla liquidazione dell'importo, ai valori attuali, di euro 24.347,29. f) riepilogo degli importi dovuti. Riassuntivamente avremo quindi i seguenti importi risarcitori: (...) la somma complessiva di euro 295.062,29 (245.531,00 + 24.531,29 + 25.000,00); (...) la somma complessiva di euro 144.709,00 (132.209,00 + 12.500,00); (...) la somma complessiva di euro 144.709,00 (132.209,00 + 12.500,00). Gli importi così liquidati non superano il massimale di polizza, sicché non si pone un problema di riduzione del risarcimento e ripartizione del massimale tra gli aventi diritto. g) detrazione degli acconti ricevuti e liquidazione finale. Costituisce dato pacifico che la compagnia ha già corrisposto in data 30 ottobre 2012 euro 200.000,00 in favore di (...) ed euro 63.000,00 per ciascun fratello della vittima, somme da costoro trattenute a titolo di acconto sul maggior avere. La Suprema Corte (Cass. n. 1163 del 5.2.1998) ha stabilito che in materia di risarcimento del danno da illecito civile, qualora il responsabile (od il suo assicuratore), nelle more tra l'illecito e la definizione del giudizio di risarcimento, corrisponda al danneggiato un acconto sul risarcimento dovuto, il giudice deve: a) o sottrarre l'acconto dall'ammontare del risarcimento calcolato con riferimento al momento del sinistro, e quindi rivalutare la differenza; b) oppure rivalutare l'acconto già pagato e sottrarlo dall'ammontare del risarcimento liquidato in moneta attuale (Cass. n. 1163/98). Più di recente, confermandosi tale orientamento, si è precisato che "qualora, prima della liquidazione definitiva del danno da fatto illecito, il responsabile versi un acconto al danneggiato, tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio attraverso un'operazione che consiste, preliminarmente, nel rendere omogenei entrambi (devalutandoli, alla data dell'illecito ovvero rivalutandoli alla data della liquidazione), per poi detrarre l'acconto dal credito e, infine, calcolando, gli interessi compensativi finalizzati a risarcire il danno da ritardato adempimento sull'intero capitale, per il periodo che va dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto, solo sulla somma che residua dopo la detrazione dell'acconto rivalutato, per il periodo che va dal suo pagamento fino alla liquidazione definitiva" (Cass. n. 6347 del 19/03/2014). Ciò posto, rivalutando l'acconto di Euro 200.000,00 corrisposto alla (...) all'attualità si ottiene l'importo di Euro 203.200,00 mentre rivalutando quello corrisposto a ciascuno dei fratelli del de cuius si ottiene l'importo di euro 64.008,00. Tali importi vanno dunque detratti alle somme sopra indicate a titolo di liquidazione del danno, pervenendosi infine all'importo da liquidarsi, sempre ai valori attuali, in Euro 91.862,29 per la (...) e di euro 80.701,00 per ciascun germano. Per quanto concerne gli interessi dovuti per il ritardo nel pagamento (ovvero per il lucro cessante conseguente al mancato godimento della somma dalla data del fatto illecito alla liquidazione del danno), escludendosi la possibilità di porre a base del calcolo la somma già rivalutata all'attualità, occorre procedere come segue: a) gli interessi vanno computati sulla sorte capitale come sopra liquidata e svalutata all'epoca del fatto illecito, quindi rivalutata anno per anno secondo gli indici (...) b) il tasso di interesse da applicare (non sussistendo elementi che consentano di presumere un impiego maggiormente remunerativo delle somme in questione) è pari al rendimento medio degli interessi legali per il periodo di indisponibilità della somma; c) gli interessi vanno calcolati sull'intero capitale per il periodo intercorrente tra la data del fatto al pagamento dell'acconto e quindi solo sulla somma residua dopo detratto l'acconto per il periodo successivo fino alla liquidazione definitiva. Poiché l'entità risarcitoria, una volta liquidata, assume natura di debito di valuta, dalla data della pubblicazione della presente sentenza a quella dell'effettivo pagamento decorrono gli interessi legali sulla somma complessiva come sopra liquidata. Le spese di giudizio sostenute dagli attori vanno poste a carico dei convenuti (...) dei (...) s.r.l. e della (...) in ossequio al principio di soccombenza, mentre appare opportuno disporne l'integrale compensazione tra le parti quanto ai rapporti con il (...) stante l'oggettiva complessità delle questioni affrontate. Le spese di CTU vanno poste definitivamente a carico dei convenuti (...) dei (...) s.r.l. e (...)". Par. 2.1 Con l'atto di appello (...) in proprio e quali eredi di (...) hanno formulato le seguenti conclusioni: " Piaccia all'(...)ma Corte di Appello di (...) ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, confermate le parti della sentenza impugnata non censurate, accogliere per tutti i motivi dedotti in narrativa l'appello proposto e, per l'effetto, in parziale riforma nei punti indicati nella parte motiva della sentenza n. (...)/2017, emessa dal Tribunale di (...) all'esito del giudizio r.g. n. 20990/2014, pubblicata il (...) e non notificata, accogliere le conclusioni avanzate in prime cure all'udienza di precisazione delle conclusioni del 20.7.2017, che si riportano: in via istruttoria, per l'ammissione di tutte le richieste istruttorie di cui al verbale di udienza del 21.10.2015; nel merito, chiedendo l'applicazione delle (...) di liquidazione del danno del Tribunale di Milano: ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, accertata e dichiarata la esclusiva responsabilità del sig. (...) conducente l'autovettura di proprietà dell'(...) dei (...) S.r.l., nel verificarsi del sinistro che ha provocato in data 19 luglio 2011 la morte di (...) condannare i convenuti in solido, e con riferimento all'(...) S.p.a. Div. RAS anche ultra massimale, all'integrale risarcimento agli attori di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali da costoro subiti in seguito ai fatti di causa, sia iure proprio che iure hereditatis ivi compresi i danni per la perdita delle chances evidenziate nell'atto introduttivo , sotto tutti gli aspetti risarcibili, nella misura che sarà accertata e quantificata in corso di causa e comunque nella misura ritenuta di giustizia in esito agli accertamenti istruttori; per l'ipotesi che venga accertato che il sinistro non è causa unica o esclusiva della morte di (...) e che la stessa sia attribuibile in tutto o in parte alla responsabilità del (...) chiamato in causa, condannare lo stesso (...) in solido con i convenuti, all'integrale risarcimento agli attori di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali da costoro subiti in seguito ai fatti di causa, sia iure proprio che iure hereditatis ivi compresi i danni per la perdita delle chances evidenziate nell'atto introduttivo , sotto tutti gli aspetti risarcibili, nella misura che sarà accertata e quantificata in corso di causa e comunque nella misura ritenuta di giustizia in esito agli accertamenti istruttori; in ogni caso, oltre a tutti i danni da quantificarsi utilizzando il valore dei beni perduti al momento del fatto illecito espresso poi in termini monetari tenendo conto della svalutazione intervenuta al momento dell'emissione della sentenza definitiva , condannare in solido i convenuti e il terzo chiamato in causa al pagamento degli interessi compensativi del mancato godimento della somma liquidata, interessi da calcolarsi, secondo i principi della richiamata sentenza n.21396/2014 Cass., nella misura scelta in via equitativa dal Giudice e da applicarsi sulla semisomma tra il credito rivalutato alla data della liquidazione e il credito espresso in moneta dell'epoca dell'illecito, ovvero da calcolarsi nella diversa somma ritenuta di giustizia, a decorrere dalla data in cui si sono verificati i danni a quella di liquidazione, oltre interessi legali sull'intera somma così liquidata dalla data di liquidazione al saldo. In ogni caso, con vittoria dei compensi e delle spese di causa, ivi comprese quelle di CTU e di (...) Con vittoria dei compensi e delle spese anche del presente grado di giudizio". Par. 2.2 (...) s.p.a., costituitasi con comparsa di risposta depositata il (...), ha resistito all'impugnazione e ha chiesto il rigetto dell'appello. Ha inoltre proposto appello incidentale formulando le seguenti conclusioni: "1) disattesa ogni contraria istanza: 2) in via principale e nel merito: rigettare l'appello come proposto siccome infondato in fatto ed in diritto oltre che non provato; 3) in accoglimento dell'appello incidentale qui svolto da (...) accertare e dichiarare il concorrente contributo causale nella determinazione dell'e(...)itus da parte degli agenti del (...) dell'(...) ((...) e (...) del (...), con determinazione della rispettiva quota di responsabilità e, conseguentemente, condannare il (...) in persona del ministro pro tempore: al risarcimento del danno per quanto di responsabilità dei suoi dipendenti (in ciò tenendo conto del grado di colpa che sarà affermato); a manlevare i convenuti per il loro, residuo grado responsabilità; al conseguente versamento in favore di (...) pro quota, delle somme che saranno ritenute dovute in considerazione dell'accertato concorso di colpa, tenendo conto che la deducente ha già provveduto al pagamento, in favore degli appellanti, della complessiva somma di euro 631.833,00 (di cui euro 326.000,00 ante causam, ed euro 305.833,07 post sentenza di prime cure); ovvero, in via alternativa, con condanna degli appellanti alla restituzione delle somme percepite in eccesso rispetto a quanto risulterà provato e dovuto in considerazione del richiamato concorso di colpa; 4) con vittoria di spese, competenze ed onorari di giudizio, oltre accessori di legge". Par. 2.3 (...) dei (...) s.r.l., costituitasi con comparsa di risposta depositata il (...), ha formulato le seguenti conclusioni: "in rito in via principale, accertare e dichiarare che l'avverso atto di appello è privo dei requisiti di forma previsti e richiesti a pena di inammissibilità dell'art. 342 c.p.c. e per l'effetto dichiararne la inammissibilità; con vittoria di spese e compenso professionale; in rito in via subordinata, ove non fosse accolta la eccezione che precede, accertare e dichiarare che l'avverso atto di appello è privo di una ragionevole probabilità di essere accolto e(...) art. 348 bis c.p.c. e per l'effetto dichiararne la inammissibilità; con vittoria di spese e compenso professionale; nel merito, accertare e dichiarare la infondatezza dei motivi di appello proposti dagli odierni appellanti, (...) ed (...) ed (...) e per l'effetto respingere in toto l'avverso atto di appello e di gravame; con vittoria di spese e compenso professionale. (...) l'obbligo di manleva della compagnia (...) s.p.a. nei riguardi della odierna comparente e con riguardo a qualsiasi somma che a qualsiasi titolo quest'ultima fosse condannata ad esborsare in relazione al giudizio de quo". Par. 2.4 (...) dell'(...) (...) dei (...) del (...) del (...) e della Difesa Civile e (...) dei (...) del (...) di (...) costituitosi con comparsa di risposta depositata il (...), ha resistito all'impugnazione e ha chiesto il rigetto dell'appello formulando le seguenti conclusioni: " Voglia Codesta Corte di Appello: dichiarare l'inammissibilità dell'appello principale proposto dai (...)ri (...) e (...) e (...) e dell'appello incidentale proposto dalla (...) in subordine, rigettare, perché infondati, l'appello principale proposto dai (...)ri (...) e (...) e l'appello incidentale proposto dalla (...) Con vittoria delle spese di lite". Par. 2.5 All'udienza del 25/09/2018 è stata dichiarata l'interruzione del processo per l'intervenuto decesso di (...) Par. 2.6 Con ricorso e(...) art. 303 c.p.c. (...) in proprio e quali eredi di (...) hanno riassunto il giudizio, notificando detto ricorso ed il pedissequo decreto di fissazione dell'udienza anche impersonalmente agli eredi del (...) che non si sono costituiti in giudizio. Par. 2.7 All'odierna udienza i difensori delle parti hanno precisato le conclusioni, riportandosi ai rispettivi scritti, e hanno discusso oralmente la causa. Par. 3.1 Con il primo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando "omessa pronuncia sui danni da perdita di chance per (...) e per (...)". In particolare, quanto alla vittima, si deduce che si sarebbe trovato in un momento particolarmente propizio della sua carriera, caratterizzato da importante crescita professionale; per lui, dunque, si sarebbero avverati i presupposti per ottenere i risultati professionali da tempo attesi, impediti dalla condotta illecita che lo ha portato alla morte. Così come quest'ultima condotta avrebbe comportato la perdita delle chance di sopravvivenza, atteso il mancato approntamento di strumenti immediati ed idonei per salvarlo. Quanto alla madre della vittima ci si duole della perdita, a seguito del decesso del figlio, di concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire nel prossimo futuro consistenti apporti economici da costui. La censura è infondata. La risarcibilità del danno da perdita di chance richiede, come noto, i consueti presupposti di serietà, apprezzabilità, concretezza e certa riferibilità eziologica della suddetta perdita alla condotta in rilievo. Orbene, il consulente tecnico del P.M. ha precisato che il decesso di (...) non è stato causalmente riconducibile all'urto patito, che non ebbe a determinare lesività fisiche ai fini del determinismo della morte; bensì da insufficienza respiratoria acuta da compressione del torace causata dalla autovettura guidata dal (...) che, investitolo, lo aveva bloccato sotto di sé; ciò posto deducono gli appellanti principali che la vittima avrebbe certamente potuto salvarsi se i soccorsi non fossero arrivati in ritardo e se, una volta giunti, non si fossero presentati con le bombole del gas per azionare i gonfiabili scariche, sicché il sollevamento della autovettura investitrice, con conseguente liberazione del corpo della vittima, sarebbe avvenuto troppo tardi, con l'arrivo del secondo mezzo dei vigili del fuoco, quando il (...) bloccato ormai da tempo in stato di respirazione fortemente dispnoica, era infine ormai deceduto. Invero, alcun ritardo o negligenza appare addebitabile ai soccorsi, atteso che, come risulta dal rapporto di intervento n. 26292/1 del 19 luglio 2011, i vigili del fuoco, chiamati alle 20,05 e partiti alle 20,06, giunsero sul luogo del sinistro, distante 7 Km, alle ore 20,11 e procedettero immediatamente a sollevare l'autovettura mediante l'uso di un martinetto idraulico manuale. Premesso che tale rapporto già di per sé integra gli estremi dell'atto pubblico, condividendone pertanto l'efficacia probatoria privilegiata (cfr. Cass. sez. III, n. 13223 del 27 giugno 2016; Cass. civ., sez. III, n. 8999 del 6 maggio 2015), la tempestività dell'intervento e la sua efficacia è comunque confermata dalla relazione conclusiva delle indagini di polizia giudiziaria eseguite dalla (...) prot. n. 3249 del 18 gennaio 2012. In essa, infatti, si precisa, nel paragrafo rubricato "(...) esperiti in sede di sopralluogo", che la prima squadra dei vigili del fuoco arrivò, per l'appunto, "verso le ore 20,10" e che fu essa "a sollevare l'autovettura con apposita attrezzatura". Quanto alla lamentata perdita di chance di carriera, in tal caso, piuttosto che il difetto di riferibilità eziologica, appare rilevante l'assenza dei presupposti di serietà, apprezzabilità e concretezza. Infatti, la carriera di doppiatore di (...) era appena cominciata da due anni, sicché nonostante i lusinghieri commenti rilasciati dai colleghi con dichiarazioni scritte versate in atti (doc. 16 24 fascicolo attoreo), essa appariva ancora del tutto in nuce, come comprovato dalle dichiarazioni dei redditi, le quali se pur migliori rispetto agli anni passati, erano comunque contenute, evidenziando introiti di poco superiori ai 20.000,00 euro annui (doc. 12 fascicolo attoreo). Del resto nelle suddette dichiarazioni scritte dei colleghi, al di là di generiche affermazioni al riguardo, non si specificano quali sarebbero state le attività di doppiatore effettivamente in corso in quel momento o che comunque la vittima si sarebbe accinta a compiere; a riprova che, per quanto talentuoso, il suo lavoro era ancora saltuario. Sicché prendere a parametro i guadagni di professionisti già affermati nel campo (v. doc. 43, 44 e 45 fascicolo attoreo) appare incongruo, ed asserire che la vittima avesse "davanti una vita non comune, con il successo alle porte" risulta eccessivo. Dal rigetto della asserita perdita di chance di carriera per (...) deriva di riflesso anche quella della asserita perdita di chance economiche della madre (...) atteso che quest'ultima chance secondo la stessa prospettazione degli appellanti principali non sarebbe stata altro che la conseguenza della prima. Tanto più che non vi è prova che il defunto aiutasse la madre, la quale aveva comunque una vita autonoma ed un compagno. Par. 3.2 Con il secondo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando la carente personalizzazione del danno non patrimoniale, atteso che il giudice di prime cure non avrebbe adeguatamente valorizzato la peculiarità del caso concreto. La censura, per come formulata, è infondata (...) al riguardo gli appellanti principali che "avere del tutto trascurato l'esame delle circostanze che sostanziano i danni per le perdite di chance" renderebbe evidente che non sarebbero state "considerate tutte le eccezionali circostanze del caso concreto e che non sia stata quindi valutata l'effettiva consistenza di tutti i danni subiti dagli attori". In particolare, si deduce che "non solo della morte di un ragazzo di 28 anni in ottima salute si tratta, ma di questa morte, in questo modo e in questo momento della sua vita anche professionale. E proprio queste peculiarità hanno reso enormi le sue sofferenze e insuperabili le sofferenze di chi lo ha amato". Orbene, appare evidente che l'asserito difetto di personalizzazione del danno non patrimoniale non può essere trattato autonomamente, pena una indebita duplicazione delle voci risarcitorie, ma che dovrà essere affrontato, piuttosto, nella disamina dei diversi aspetti di tale danno riconosciuti dal giudice di prime cure, ossia il c.d. danno catastrofale, il danno da perdita di rapporto parentale ed, infine il danno psichico, su cui gli appellanti principali hanno formulato specifici motivi di doglianza lamentando la loro liquidazione, ritenuta, per l'appunto, del tutto riduttiva. Par. 3.3 Con il terzo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando "il mancato riconoscimento del danno da perdita della vita". Si deduce al riguardo che l'irrisarcibilità del danno da perdita della vita immediatamente conseguente come nel presente caso alle lesioni di un fatto illecito appare superato dal dibattito dottrinario, nel quale: sono state considerate interne al sistema anche la funzione sanzionatoria e di deterrenza della responsabilità civile; è stato considerato che comunque nel rispetto della funzione compensativa del risarcimento del danno da perdita della vita, tale diritto accrescerebbe il patrimonio ereditario della vittima; è stato considerato che la lesione mortale interviene quando la vittima è in vita e può quindi soffrire il danno ingiusto provocatole da tale lesione, il cui processo causale si concluderebbe proprio con la morte; è stato considerato che nell'illecito che abbia provocato il decesso verrebbe menomata una capacità dell'individuo, ossia la sua attitudine alla sopravvivenza e, così configurato il pregiudizio per la lesione del diritto alla vita, si rimarrebbe nella dimensione tipica del danno conseguenza. La censura è infondata. Come noto, a seguito della morte sopraggiunta dopo lesioni personali e da esse provocata, la vittima può acquisire un diritto al risarcimento del danno da perdita di vita (rectius, danno biologico terminale), trasmissibile agli eredi, soltanto se sia sopravvissuta per un tempo apprezzabile, anche se incosciente. E ciò perché in tal caso si risarcisce la oggettiva forzosa rinuncia alle attività quotidiane durante il periodo della invalidità. Sicché per un verso quel che rileva è la perdita in sé, e non anche la consapevolezza di essa; e per l'altro è necessario che la vita, sia pur menomata, prosegua quel tanto da determinare che la lesione si possa riflettere in una concreta perdita delle attività realizzatrici dell'individuo nel suo ambiente di vita. In particolare, la durata apprezzabile minima della sopravvivenza è ritenuta essere 24 ore, atteso che per risalente convenzione medicolegale il danno alla salute da invalidità temporanea si apprezza in giorni e non in frazioni di esso; infatti, sarebbe un esercizio meramente teorico pretendere di dare un peso monetario alle attività di cui la vittima è stata privata durante un periodo di sopravvivenza protrattosi per poche ore o per pochi minuti (in particolare, v. Cass. civ., sez. III, ord. n. 18056 del 5 luglio 2019; da ultimo, Cass. civ., sez. III, ord. 1627 dell'8 giugno 2023). Pertanto, atteso che nel presente caso la sopravvivenza della vittima si è protratta per pochi minuti (sul punto v. amplius il seguente paragrafo Par. 3.4), non può ritenersi integrato l'invocato danno "da perdita della vita". Par. 3.4 Con il quarto motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando una inadeguata quantificazione del c.d. danno morale catastrofale, atteso che il primo giudice avrebbe sia sottostimato l'intensità della lucida agonia, che, per un soggetto che soffriva da anni dell'emergere di angosce ipocondriache innescate talvolta da ansia somatizzata con difficoltà respiratorie, sarebbe stata, per le modalità del fatto, "la massima (...) concepibile"; sia sottostimato il periodo di lucida agonia, atteso che a fronte di un incidente verificatosi poco prima delle ore 20.00 l'unico dato sicuro è che la morte è stata ufficialmente constatata soltanto alle ore 20.40. La censura è infondata. Nella relazione prot. n. (...) del 20 novembre 2014 redatta da (...) responsabile della squadra dei vigili del fuoco che operò l'intervento di soccorso, ritualmente prodotta dall'Avvocatura dello Stato, è precisato che all'arrivo la vittima, che si trovava incastrata sotto la vettura, non presentava " alcun segno vitale quale respirazione e polso carotideo". E' ben vero che trattasi di relazione redatta a chiarimenti a processo in corso e dopo oltre tre anni dallo svolgimento dei fatti, sicché ad essa non può attribuirsi la forza probatoria privilegiata del verbale di intervento, ove tale specificazione non era contenuta. Tuttavia, premesso che il suddetto verbale è costituito da un formulario standard che non appare consentire una siffatta specificazione (sicché tale assenza non è di per sé incompatibile con la veridicità delle successive dichiarazioni scritte), deve essere evidenziato che in effetti già poco prima dell'intervento dei vigili del fuoco un passante presente sul posto non aveva più rinvenuto segni vitali sul (...) (v. sommarie informazioni testimoniali rese e(...) art. 351 c.p.p. da (...) "mi sono preoccupato di fare qualcosa per la persona sotto la macchina, che, nonostante gli parlassi, non dava segni di vita"). Ciò rende plausibile ritenere che i segni di vita percepiti dai privati cittadini per primi intervenuti, ed in particolare da (...) (v. s.i.t. del 4 ottobre 2011) e da (...) (v. s.i.t. del 29 settembre 2011), siano da circoscrivere ai momenti immediatamente successivi al sinistro, verificatosi qualche minuto prima delle 20.00; e che in poco tempo, e comunque prima dell'arrivo dei vigili del fuoco alle 20.11, fossero già scomparsi come riferito dal (...) così corroborando la dichiarazione scritta del capo squadra dei soccorritori. Peraltro, premesso che la data formale di constatazione della morte non coincide necessariamente con il momento effettivo della stessa tanto più nel presente caso ove è circostanza pacifica in atti che l'autoambulanza con il personale medico giunse sul posto soltanto successivamente alle 20.30 , deve altresì essere evidenziato che tra coloro che percepirono segni di vita del (...) fu soltanto il (...) ad aver ottenuto una risposta cosciente della vittima ("avvicinandomi a lui lo sollecitavo a muovere un piede, cosa che faceva, anche se in maniera lieve"); ma già il (...) non percepì risposte del genere ("il predetto, però, non rispondeva alle mie domande"). In conclusione, appare ragionevole desumere, sulla scorta delle circostanze suddette, che la sopravvivenza si sia protratta al massimo poco più di 10 minuti, ossia tra qualche minuto prima delle 20.00 e l'arrivo dei vigili del fuoco verso le 20.10; e che durante questo lasso temporale la vittima ha manifestato segni di coscienza assai labili. Pertanto, pur sussistendo gli estremi per il riconoscimento del danno morale catastrofale, la liquidazione del primo giudice pari ad Euro 50.000,00 appare congrua rispetto al tempo minimo di sopravvivenza ed alla limitata caratterizzazione dei segni di coscienza e consapevolezza. Par. 3.5 Con il quinto motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza per una riduttiva liquidazione del danno da perdita di rapporto parentale, sia per una sua inadeguata personalizzazione, conseguenza della mancata ammissione delle prove testimoniali richieste; sia per l'utilizzazione delle tabelle previste dal Tribunale di (...) anziché di quelle del Tribunale di Milano. La censura è infondata. Quanto alla mancata ammissione delle prove testimoniali, che avrebbe impedito, fra l'altro, di far emergere le eccezionali conseguenze subite dagli attori/odierni appellanti principali, si rinvia al successivo paragrafo Par. 3.8, ove si tratta lo specifico motivo di doglianza. Quanto all'uso delle tabelle del Tribunale di (...) si osserva che in merito al criterio equitativo da utilizzarsi per la liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di rapporto parentale, la S.C. ha affermato il seguente consolidato principio di diritto: "al fine di garantire non solo un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l'adozione del criterio a punto, l'estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l'elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l'indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull'importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l'eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella" (Cass. civ., sez. III, n. 10579 del 21 aprile 2021). Orbene, al tempo della decisione impugnata (e fino al giugno 2022) le tabelle del Tribunale di Milano per il danno da perdita di relazione parentale non seguivano ancora il meccanismo del punto variabile, bensì quello a forbice; e pertanto all'epoca della aestimatio dei danni in questione erano maggiormente conformi al predetto principio di diritto le (...) del Tribunale di (...) la cui applicazione nel caso specifico, pertanto, non è in alcun modo censurabile (Cass. civ., sez. III, n. 11689 dell'11 aprile 2022). Par. 3.6 Con il sesto motivo di impugnazione, l'appellante principale (...) censura la gravata sentenza per l'omesso riconoscimento in suo favore del danno patrimoniale futuro da perdita del contributo economico che le avrebbe garantito il figlio (...) Al riguardo ci si duole della mancata ammissione delle prove testimoniali volte a dimostrare l'esistenza tra madre e figlio di un ménage familiare di reciproco scambio e sostegno nonché il momento particolarmente propizio per la carriera della vittima e le connesse importanti possibilità anche economiche, peraltro avendo il primo giudice erroneamente omesso di valorizzare le prove documentali già presenti e rilevanti in tal senso. La censura è infondata. Quanto alla mancata ammissione delle prove orali, si rinvia al prossimo Par. 3.8, specifico sul punto. Relativamente alle prove documentali che sarebbero state ingiustamente disattese, invero gli appellanti principali richiamano quelle già invocate in materia di danno da asserita perdita di chance di cui al primo motivo di appello, la cui limitata valenza euristica invero è già stata vagliata nella seconda parte del precedente Par. 3.1., a cui anche in tal caso si rinvia. Par. 3.7 Con il settimo motivo di impugnazione, l'appellante principale (...) censura la gravata sentenza, lamentando, a seguito di un acritico recepimento da parte del primo giudice delle conclusioni del (...) una riduttiva liquidazione del danno psichico, atteso che l'ausiliario del giudice non avrebbe tenuto in alcun conto dei risvolti pregiudizievoli di carattere esistenziale. La censura è infondata. Il danno psichico è quella forma di danno biologico che consiste in una alterazione delle funzioni psichiche accertabile mediante criteri medicolegali. Ciò posto, come qualsiasi danno biologico esso è rilevante soltanto se implica una riduzione delle potenzialità realizzatrici della persona, sia rispetto al suo ambiente di vita che ai rapporti interpersonali; infatti, sono proprio tali conseguenze pregiudizievoli il necessario presupposto per la risarcibilità dell'evento lesivo della salute. Ne consegue che la liquidazione secondo il valore monetario base, espressione di una valutazione media uniforme, già ingloba quelle conseguenze negative sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamicorelazionali della vita del danneggiato che secondo l'id quod plerumque accidit sono da ritenersi normali ed indefettibili, ossia quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire (Cass. civ., sez. III, n. 8127 del 23 aprile 2020). Ai fini dell'aumento per la personalizzazione, la vittima avrebbe dovuto dimostrare, dunque, di aver subito conseguenze anomale o del tutto peculiari, eccedenti tale ordinarietà (cfr. Cass. civ., sez. VI 3, ord. n. 5865 del 4 marzo 2021). In tal senso l'appellante principale rinvia alla (...) ove viene evidenziato che insieme alla sindrome depressiva scaturita dall'incapacità di elaborazione del lutto coesistono "spunti ansiosi e ossessivi", tali da determinare "importanti risvolti negativi (...) non solo come sofferenza individuale, ma anche come sofferenza sociale". Tuttavia, trattasi di aspetto che il CTU non ha omesso di valutare ("il contenuto sintomatologico è di tipo prevalentemente depressivo con qualche spunto di tipo ansioso ed ossessivo, come non infrequente in siffatti profili psicopatologici"), e che, pertanto, deve ritenersi essere già stato preso in considerazione dal medesimo ai fini della quantificazione, a monte, dello stesso grado di invalidità nella misura del 15%. Par. 3.8 Con l'ottavo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando la mancata ammissione di prove testimoniali da ritenersi invece rilevanti per dimostrare compiutamente, anche in termini di personalizzazione, tutte le componenti dei danni patrimoniale e non patrimoniale per cui essi hanno agito in giudizio. La censura è infondata. Nell'atto di appello, al riguardo, si insta "per l'ammissione di tutte le richieste istruttorie di cui al verbale di udienza del 21.10.2015". Orbene, le richieste di prove orali, articolate con mero rinvio alle circostanze così come capitolate negli atti di causa e non specificamente riprodotte in questa sede (...)possono essere accolte, atteso che "In osservanza del principio di specificità dei motivi di appello, anche la riproposizione delle istanze istruttorie, non accolte dal giudice di primo grado, deve essere specifica, sicché è inammissibile il mero rinvio agli atti del giudizio di primo grado" (Cass. civ., sez. III, ord. n. 16420 del 9 giugno 2023). Par. 3.9 Con il nono motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando una omessa pronuncia sulla richiesta di condanna ultramassimale della compagnia assicuratrice per asserita mala gestio impropria. La censura è inammissibile; infatti, in ragione del rigetto dei precedenti motivi di gravame, l'entità risarcitoria riconosciuta è ampiamente contenuta nel massimale assicurato, sicché ne consegue la sopravvenuta carenza di interesse ad impugnare in parte qua. Par. 3.10 Con il decimo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando il mancato riconoscimento di alcune spese, quantificate complessivamente in Euro 7.750,67. In particolare, il dettaglio delle somme richieste è contenuto nelle note difensive conclusionali autorizzate, depositate il 7 gennaio 2022, di seguito ritrascritto: "Euro 3.500,67 per spese funebri (fattura n. 443 del 20.08.2011 doc. 36 fascicolo di primo grado): Euro 2.420,00 per spese del (...) (fattura n. 19 del 20.1.2016 doc. 35 fascicolo di primo grado); Euro 610,00 per anticipo spese al (...) (fattura n. 19 del 20.1.2016 doc. 56 fascicolo di primo grado); Euro 1.220,00 per spese del (...) (fattura n. 31 dell'1.3.2016 doc. 55 fascicolo di primo grado)". La censura è infondata. Orbene, come risulta dal suddetto dettaglio, trattasi di fatture, le quali non comprovano anche l'effettivo esborso. Invero, con specifico riferimento alle (...) la S.C. ha statuito che "la condanna del soccombente alle spese di consulenza tecnica di parte sopportate dalla controparte non presuppone la prova dell'avvenuto pagamento, ma presuppone, comunque, la prova dell'effettività delle stesse, ossia che la parte vittoriosa abbia quantomeno assunto la relativa obbligazione" (Cass. civ., sez. I, n. 4357 del 25 marzo 2003). Al riguardo occorre allora ulteriormente precisare che la fattura n. 91 del 21 maggio 2012 non può essere rimborsata, attenendo non al presente procedimento civile, bensì al procedimento penale nei confronti del (...) Mentre le spese di cui alla fattura n. 31 del 1° marzo 2016, che attengono al presente procedimento, sono state comunque liquidate dal primo giudice, anche se in maniera ridotta (Euro 600,00 anziché Euro 1.226,00), ma ciò in base all'esercizio di un potere del tutto legittimo del giudicante, che è quello di verificare la congruità dell'importo (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 3380 del 20 febbraio 2015). Par. 3.11 Con l'undicesimo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando una liquidazione eccessivamente ridotta delle spese di lite, che sarebbero inferiori ai minimi tabellari. La censura è infondata. Tenuto conto del decisum, ossia Euro 91.862,29 in favore di (...) ed Euro 80.701,00 ciascuno in favore di (...) e (...) oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, doveva applicarsi il sesto scaglione (superiore ad Euro 260.000,00); secondo le tabelle del D.M. n. 55/2014, all'epoca non ancora aggiornate, i minimi ammontavano ad Euro 12.678,00. Conseguentemente, pur computando l'aumento, comunque non obbligatorio ("il compenso unico può di regola essere aumentato"), del 20% per ogni soggetto ulteriore al primo avente la medesima posizione processuale (art. 4, comma 2, D.M. cit.), il compenso finale di Euro 18.000,00 riconosciuto dal primo giudice, anche se per poco, non è inferiore ai predetti minimi comprensivi di siffatto aumento. Laddove tale quantificazione appare congrua tenuto conto, per un verso, della notevole divergenza tra quanto richiesto (Euro 2.600.000,00) ed il decisum e, per l'altro, della circoscritta entità del superamento del precedente quinto scaglione. Par. 4 Con unico motivo di impugnazione, l'appellante incidentale (...) s.p.a. censura la gravata sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto "la corresponsabilità del (...) per il fatto e la colpa, anche omissiva, dei propri dipendenti, nella causazione del decesso di (...) e/o nell'aggravamento delle sue conseguenze". Preliminarmente debbono essere rigettate le eccezioni di inammissibilità formulate dall'Avvocatura di Stato. Quanto alla prima, ossia al non essere stato l'appello incidentale notificato al (...) dell'(...) devesi evidenziare che dal verbale della prima udienza del 26 settembre 2018 non risulta alcuna declaratoria di contumacia di tale ente, bensì esclusivamente la pronuncia di sospensione del giudizio per sopravvenuta comunicazione del decesso della parte (...) mentre nella successiva udienza del 25 giugno 2019 il (...) risulta regolarmente costituito. Tanto più che nella comparsa di costituzione l'Avvocatura dello Stato ha comunque ampiamente preso posizione contro tale gravame, sicché qualsivoglia eventuale irregolarità deve comunque ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo e(...) art. 156 c.p.c. Quanto alla seconda eccezione, anche se il primo giudice nell'escludere il concorso causale dell'(...) ha pronunciato su domanda proposta da soggetti diversi dalla (...) s.p.a., la legittimazione di quest'ultima ad impugnare la sentenza di primo grado in parte qua deriva dalla circostanza che essa potrebbe subire un aggravamento della propria responsabilità indennitaria dall'accoglimento dell'appello principale (cfr. Cass. civ., sez. III, ord. n. 10477 del 17 aprile 2024). Tanto premesso in rito, nel merito la censura è infondata. Al riguardo può rinviarsi a quanto già argomentato nella prima parte del Par. 3.1 sulla assenza in capo alla vittima del danno da asserita perdita della chance di sopravvivenza. Par. 5 In conclusione, debbono essere rigettati tanto l'appello principale quanto l'appello incidentale. Par. 6 Le spese di lite del grado vanno integralmente compensate tra le parti, in ragione della generale complessità degli accertamenti oggetto di causa. Ai sensi dell'art. 13, comma 1quater, d.P.R. n. 115/2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte degli appellanti principali e dell'appellante incidentale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per le rispettive impugnazioni integralmente rigettata, a norma del comma 1bis, medesimo art. 13. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello principale proposto da (...) e (...) nonché sull'appello incidentale proposto da (...) s.p.a., avverso la sentenza n. (...)/2017 emessa dal Tribunale ordinario di (...) e pubblicata il (...), così provvede: a) rigetta l'appello principale; b) rigetta l'appello incidentale; c) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese di lite del grado; d) dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115 del 2002 a carico sia degli appellanti principali (...) e (...) sia dell'appellante incidentale (...) s.p.a.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERTUZZI Mario - Presidente Dott. PICARO Vincenzo - Consigliere Dott. VARRONE Luca - Consigliere Dott. OLIVA Stefano - Consigliere Dott. TRAPUZZANO Cesare - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso (iscritto al N.R.G. 5701/2019) proposto da: Fr.An.(C.F.: omissis), in proprio e quale erede di Fr.Os., rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dall'Avv. Ra.Ri. e, giusta procura in calce alla comparsa di costituzione di nuovo difensore in aggiunta del precedente, dall'Avv. Ba.Se., elettivamente domiciliata ex lege in Roma, piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di cassazione; - ricorrente - contro Ro.Ma. (C.F.: omissis), rappresentata e difesa, giusta procura in calce al controricorso, dall'Avv. Gi.Ai., elettivamente domiciliata ex lege in Roma, piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di cassazione; - controricorrente - nonché Fr.Pi. (C.F.: omissis), Fr.Gi.(C.F.: omissis) e Fr.Da.(C.F.: omissis); - intimati - avverso la sentenza della Corte d'appello di Napoli n. 3896/2018, pubblicata il 1° agosto 2018, notificata il 5 dicembre 2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 9 aprile 2024 dal Consigliere relatore Cesare Trapuzzano; viste le conclusioni rassegnate nella memoria depositata dal P.M., in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Carmelo Celentano, che ha chiesto il rigetto del ricorso, seppure con diversa motivazione; conclusioni ribadite nel corso dell'udienza pubblica; lette le memorie illustrative depositate nell'interesse della controricorrente, in ragione dell'originaria fissazione dell'adunanza camerale non partecipata, ai sensi dell'art. 380-bis, secondo comma, c.p.c. vigente ratione temporis, e nell'interesse della ricorrente, in ragione della successiva fissazione dell'udienza pubblica, ai sensi dell'art. 378, secondo comma, c.p.c.; richiamata la precedente ordinanza interlocutoria n. 2995/2020, depositata il 7 febbraio 2020, all'esito della camera di consiglio non partecipata del 16 gennaio 2020, di rimessione alla pubblica udienza; sentiti, in sede di discussione orale all'udienza pubblica, gli Avv.ti Ba.Se. per la ricorrente e Gi.Ai. per la controricorrente. FATTI DI CAUSA 1.- Co.Al., Co.Eg., Co.Ri., Co.Ir., Co.Pi. e Co.Ad., con atto di riassunzione proposto a seguito della cancellazione della causa dal ruolo, convenivano, davanti al Tribunale di Napoli, Fr.Os. e Ro.Ma., al fine di sentire dichiarare che Fr.Os. aveva impedito agli attori l'accesso nell'unità immobiliare sita in N, via Mon n. (omissis), identificata come unità B, con la conseguente condanna a consentire l'accesso, oltre al risarcimento dei danni per il mancato godimento, nonché allo scopo di accertare che il medesimo Fr.Os., alienando l'immobile in favore di Ro.Ma., aveva violato la disposizione sul retratto successorio. Il giudizio era interrotto a seguito della morte di Fr.Os. ed era riassunto da Ro.Ma. Nel medesimo giudizio spiegavano intervento volontario Fr.An.e Mi.An., per sentire dichiarare la simulazione dell'atto pubblico del 9 luglio 2004, con cui Fr.Os. aveva venduto, in favore della nipote Ro.Ma., la proprietà dell'immobile sito in via Mo n. (omissis). Con separato atto di citazione notificato il 7 aprile 2010, Fr.An.conveniva, davanti al Tribunale di Napoli, Ro.Ma., Fr.Pi., Fr.Gi.e Fr.Da., chiedendo che fosse dichiarata la nullità della vendita dell'immobile conclusa il 9 luglio 2004 per l'incommerciabilità del bene o, comunque, che fosse dichiarata la sua simulazione assoluta o relativa, con la conseguente riduzione per lesione di legittima della donazione dissimulata. I due giudizi erano riuniti e, all'esito, erano assunte le prove costituende ammesse. Quindi, il Tribunale adito, con sentenza n. 10883/2014, depositata l'11 luglio 2014, rigettava le domande proposte dai Co., rigettava le domande proposte da Fr.An.in via principale e con l'intervento volontario spiegato unitamente a Mi.An., dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale proposta da Fr.Pi., Fr.Gi.e Fr.Da.nei confronti di Fr.An.e ordinava al conservatore di procedere alla cancellazione della trascrizione della domanda. 2.- Proponeva appello Fr.An., chiedendo, in via principale, che fosse dichiarata la nullità dell'atto pubblico di vendita per l'incommerciabilità del bene ovvero che fosse accertata la sua simulazione assoluta, con la conseguente condanna di Ro.Ma. al rilascio immediato dell'immobile oggetto dell'atto traslativo in favore degli eredi di Fr.Os.; in via subordinata, che - all'esito dell'accertamento della simulazione relativa, con la dissimulazione di una donazione -fosse dichiarato che tale donazione aveva determinato la lesione della quota di legittima cui l'istante aveva diritto e, per l'effetto, che fosse disposta la riduzione della donazione per il valore accertato, con la condanna di Ro.Ma. alla restituzione del compendio immobiliare o di una frazione di esso o al pagamento delle somme necessarie alla reintegrazione della quota riservata alla legittimaria istante. Si costituiva nel giudizio di impugnazione Ro.Ma., la quale concludeva per il rigetto del gravame. All'esito dell'integrazione del contraddittorio si costituiva altresì Mi.An., il quale aderiva alle conclusioni rassegnate dall'appellante. Rimanevano contumaci, invece, Co.Al., Co.Eg., Co.Ri., Co.Ir., Co.Pi. e Co.Ad. nonché Fr.Pi., Fr.Gi.e Fr.Da. Decidendo sul gravame interposto, la Corte d'appello di Napoli, con la sentenza di cui in epigrafe, rigettava l'appello proposto da Fr.An.contro Ro.Ma. mentre accoglieva l'appello proposto contro Fr.Pi., Fr.Gi.e Fr.Da., compensando interamente tra tali parti le spese del giudizio di prime cure. A sostegno dell'adottata pronuncia la Corte di merito rilevava per quanto di interesse in questa sede: a) che, secondo la ricostruzione del Tribunale, Fr.An., con la scrittura non disconosciuta del 12 ottobre 2004, sottoscritta a distanza di pochi mesi dalla compravendita contestata, aveva dichiarato testualmente di approvare la vendita incondizionatamente, rinunciando a qualsiasi opposizione sia alla vendita degli immobili che alle condizioni ivi stabilite, sicché tale dichiarazione integrava una palese e preventiva rinuncia alla pretesa in questa sede azionata con la proposizione dell'azione di simulazione, intendendo l'istante così abdicare al diritto che le derivava dalla qualità di potenziale successore dell'alienante in ordine alla contestazione dell'atto dispositivo; b) che nulla vietava a Fr.Os. di vendere i propri beni monetizzandone il controvalore, sicché l'interesse di Fr.An., figlia e quindi potenziale successore dell'alienante, era insorto per effetto della stipulazione dell'atto di cui si richiedeva l'accertamento della simulazione assoluta e non già all'esito del decesso dell'alienante; c) che, d'altronde, l'art. 557 c.c. si riferiva alla diversa ipotesi delle donazioni e delle altre disposizioni aventi carattere di liberalità, quali atti che giustificavano la proposizione dell'azione di riduzione da parte dei legittimari pretermessi o pregiudicati o dei loro eredi o aventi causa, regolando un'ipotesi affatto diversa da quella della vendita del bene e, quindi, della contestazione dell'effettiva esistenza di quella vendita; d) che doveva essere condiviso l'assunto del Tribunale secondo cui l'atto di disposizione era percepito come effettivamente voluto dall'alienante ed, inoltre, la circostanza che le parti avessero avvertito l'esigenza di consacrare per iscritto il loro impegno a non contestare in futuro il negozio si spiegava, non già come indice sintomatico del carattere simulato dell'atto stesso, ma, con ogni probabilità, in considerazione dei numerosi contrasti insorti nel contesto familiare circa la gestione dei beni di Fr.Os. e dei debiti in capo allo stesso maturati; e) che il riferimento ad una vendita solo fittizia era assolutamente non dimostrato e prima ancora frutto di allegazioni tutt'altro che perspicue, oltre che non illustrate compiutamente negli elementi atti a suffragarle; f) che Fr.An.aveva rinunciato a far valere contestazioni sulle condizioni ivi previste in merito al valore assegnato ai beni, anche sulla base delle valutazioni espresse in quel contesto e nel precedente contratto preliminare del 17 giugno 2004 nonché delle ragioni diffusamente precisate, per le quali, a fronte di un valore complessivo del compendio indicato in un miliardo e mezzo di vecchie lire, le parti erano giunte a quantificare il corrispettivo nella minor somma pari ad euro 416.000,00, poi riportata nel rogito notarile; g) che, in conseguenza, doveva ritenersi che l'effetto di trasmettere la proprietà in capo a Ro.Ma. era effettivamente voluto; h) che neanche poteva essere accolta la domanda subordinata di accertamento della simulazione relativa, ai fini di dichiarare che l'atto di vendita dissimulasse una donazione lesiva dei diritti di legittimaria dell'appellante e, quindi, ai fini della riduzione, in quanto, a mente dell'art. 564 c.c., occorreva che la Fr.An. avesse accettato l'eredità con beneficio d'inventario, circostanza che non era stata provata, avendo la medesima Fr.An. prodotto documentazione che dimostrava solo l'accettazione con beneficio d'inventario della sorella Fr.Pi.; i) che doveva essere esclusa l'efficacia estensiva automatica dell'accettazione con beneficio d'inventario, né poteva richiamarsi l'art. 564 c.c., posto che la Ro.Ma. non era chiamata come erede, se non in via potenziale; l) che, peraltro, il legittimario che avesse inteso chiedere la riduzione delle donazioni lesive aveva l'onere di allegare e provare gli elementi occorrenti per stabilire la lesione, circostanza insussistente nel caso in esame. 3.- Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, Fr.An. Ha resistito con controricorso Ro.Ma. Sono rimasti intimati Fr.Pi., Fr.Gi.e Fr.Da. 4.- La controricorrente ha presentato memoria illustrativa in ragione della fissazione dell'adunanza camerale. Con ordinanza interlocutoria n. 2995/2020, depositata il 7 febbraio 2020, all'esito della camera di consiglio non partecipata del 16 gennaio 2020, la causa è stata rimessa alla pubblica udienza. Il Pubblico Ministero ha depositato memoria ex art. 378, primo comma, c.p.c., in cui ha rassegnato le conclusioni trascritte in epigrafe. All'esito, la ricorrente ha depositato memoria illustrativa, ai sensi dell'art. 378, secondo comma, c.p.c. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 557 c.c., per avere la Corte di merito disatteso l'accertamento della simulazione assoluta dell'atto di vendita del 9 luglio 2004 esclusivamente in ragione del documento sottoscritto dalla Fr.An. in data 12 ottobre 2004, con la quale la stessa dichiarava di approvare la vendita incondizionatamente, rinunciando preventivamente al proprio diritto sull'immobile trasferito dal padre alla Ro.Ma., benché i legittimari non potessero rinunciare al diritto di riduzione delle donazioni e delle disposizioni lesive della quota di legittima finché fosse rimasto in vita il donante, né con dichiarazione espressa, né prestando il loro assenso alla donazione. Al riguardo, l'istante obietta che la norma evocata avrebbe trovato applicazione, oltre che alle donazioni, anche a tutte le altre disposizioni lesive della porzione di legittima, non prevedendo dunque alcuna clausola di esclusività a favore degli atti di liberalità. 1.1.- Il motivo è infondato. E ciò perché l'approvazione incondizionata della vendita del 9 luglio 2004 (stipulata in attuazione dell'obbligo assunto con il preliminare del 17 giugno 2004), come da scrittura privata del 12 ottobre 2004, non integra un patto successorio e, in specie, non implica una rinuncia preventiva alla riduzione delle donazioni. Ora, è nulla, per contrasto con il divieto di cui agli artt. 458 e 557 c.c., la transazione conclusa da uno dei futuri eredi, allorquando sia ancora in vita il de cuius, con la quale egli rinunci ai diritti vantati, anche quale legittimario, sulla futura successione, ivi incluso il diritto a fare accertare la natura simulata degli atti di alienazione posti in essere dall'ereditando perché idonei a dissimulare una donazione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 366 del 05/01/2024; Sez. 6-2, Ordinanza n. 15919 del 15/06/2018). Sicché l'art. 557, secondo comma, c.c. vieta la rinuncia da parte del coerede al diritto a che la donazione effettuata dal de cuius all'altro coerede (o in favore di un terzo) sia sottoposta alla riunione fittizia ed alla eventuale successiva riduzione in caso di lesione di legittima, finché viva il donante (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2327 del 16/08/1963; Sez. 2, Sentenza n. 1913 del 18/07/1962). Secondo la ricostruzione della sentenza impugnata, nella fattispecie, invece, Fr.An., con la scrittura non disconosciuta del 12 ottobre 2004, sottoscritta a distanza di pochi mesi dalla compravendita contestata del 9 luglio 2004, aveva dichiarato testualmente di approvare la vendita incondizionatamente, rinunciando a qualsiasi opposizione sia alla vendita degli immobili che alle condizioni ivi stabilite, sicché tale dichiarazione avrebbe determinato una palese e preventiva rinuncia alla pretesa azionata con la proposizione dell'azione di simulazione. Si è trattato, pertanto, dell'approvazione di una vendita, con lo scambio tra l'immobile emarginato e il corrispettivo pattuito, e non già di una donazione lesiva della quota di legittima. La Corte territoriale ha altresì aggiunto che l'istante aveva inteso così abdicare al diritto che le derivava dalla qualità di "potenziale successore" dell'alienante in ordine alla contestazione dell'atto dispositivo e, in particolare, all'uscita del cespite dal patrimonio immobiliare dell'alienante all'esito di un atto traslativo a titolo oneroso. Orbene, il divieto di rinuncia preventiva - a cura dei legittimari o dei loro eredi o aventi causa -, di cui all'art. 557, secondo comma, c.c., si riferisce al solo diritto alla riduzione delle donazioni e delle disposizioni lesive della porzione di legittima e non già delle vendite. Nella specie, è stato invero accertato che Fr.Os. e Ro.Ma. avevano effettivamente concluso un atto di vendita del bene sito in via Mo n. (omissis), in ordine al quale le parti erano giunte a quantificare il corrispettivo nella minor somma (rispetto al valore stimato di vecchie lire un miliardo) pari ad euro 416.000,00, poi riportata nel rogito notarile (valore approvato con la citata scrittura privata a cura delle figlie dell'alienante Fr.An.e Fr.Pi.e della nuora Io.Ma., moglie del figlio premorto Fr.Br.), in quanto effettivamente versato (come da richiamo agli assegni versati e alla lista movimenti sul conto corrente intestato all'alienante). In conseguenza, la Corte di merito ha ritenuto che l'effetto consistente nella trasmissione della proprietà in capo a Ro.Ma. fosse stato realmente voluto. Né la menzionata approvazione postuma dell'atto di vendita può essere qualificata, a rigore, come una rinuncia preventiva a far valere la simulazione assoluta del negozio, posto che la sentenza impugnata non ha utilizzato tale dato documentale ai fini di ritenere a priori inammissibile la domanda simulatoria proposta, bensì quale elemento probatorio rafforzativo dell'effettiva ricorrenza dell'operazione negoziale (e, dunque, dello scambio tra il trasferimento dell'immobile e la corresponsione del prezzo) e non già della sua natura fittizia. E questo benché sia stato impropriamente evidenziato che l'interesse di Fr.An., figlia e quindi potenziale successore dell'alienante, fosse insorto per effetto della stipulazione dell'atto medesimo di cui si richiedeva l'accertamento della simulazione assoluta e non già all'esito del decesso dell'alienante (e nella fattispecie, in effetti, l'azione di simulazione è stata proposta dopo il decesso di Fr.Os.). Per contro, la legittimazione del terzo ex art. 1415, secondo comma, c.c. è indissolubilmente legata al pregiudizio di un diritto conseguente alla simulazione (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 19149 del 14/06/2022; Sez. 2, Sentenza n. 29923 del 30/12/2020; Sez. 2, Sentenza n. 4023 del 21/02/2007; Sez. 2, Sentenza n. 6651 del 30/03/2005). Pertanto, poiché al figlio non spetta alcun diritto sul patrimonio del genitore prima della morte e della accettazione dell'eredità dello stesso neppure in quanto legittimario, data la non configurabilità di una lesione di legittima in ordine ad un patrimonio non ancora relitto, deve escludersi la legittimazione del figlio a far valere la simulazione di una compravendita intercorsa tra il genitore, tuttora in vita, ed un altro soggetto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2968 del 27/03/1987). 2.- Con il secondo motivo la ricorrente contesta, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 510 c.c. e 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale rigettato la domanda di simulazione relativa dell'atto di vendita, con la conseguente azione di riduzione della donazione, sulla base della mancata accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario da parte della ricorrente, senza tenere in considerazione la dichiarazione di accettazione dell'eredità con il beneficio a cura della sorella Fr.Pi., di cui avrebbe beneficiato anche l'istante, partecipando alle successive operazioni di inventario. Osserva, sul punto, l'istante che la volontà di giovarsi di tale forma di accettazione non esigeva il rispetto delle forme indicate dall'art. 484 c.c., tanto più che la circostanza era stata ammessa dalla stessa Ro.Ma. nella propria comparsa conclusionale, senza alcuna contestazione. 2.1.- Il motivo è inammissibile. Esso, infatti, non attacca la ratio decidendi in ragione della quale l'atto di vendita era stato effettivamente voluto, con la relativa corresponsione di un prezzo. Segnatamente la sentenza impugnata ha rilevato che non vi era alcuna prova della simulazione assoluta della vendita, di cui era stata approvata anche la misura del corrispettivo pattuito ed effettivamente versato. Sicché è esclusa la facoltà di riduzione per lesione della quota di legittima a fronte di una vendita effettiva (che, appunto, non dissimuli una donazione: Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2200 del 09/07/1971; Sez. 2, Sentenza n. 3468 del 24/10/1968), essendo la reintegrazione della quota riservata ai legittimari limitata alle disposizioni testamentarie e alle donazioni ex artt. 554 e 555 c.c. Il richiamo alla mancata accettazione con beneficio d'inventario è stato evocato a fortiori solo per escludere la legittimazione della ricorrente (non totalmente pretermessa: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24836 del 17/08/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 2914 del 07/02/2020; Sez. 6-2, Ordinanza n. 25441 del 26/10/2017; Sez. 2, Sentenza n. 16635 del 03/07/2013) a far valere la simulazione relativa dell'atto verso il terzo. Questo in forza del combinato disposto degli artt. 564, primo comma, e 510 c.c. - secondo cui possono giovarsi dell'inventario anche chiamati diversi da quello che ha fatto la dichiarazione -, il quale deve essere interpretato nel senso che i beneficiari non sono quelli che hanno accettato l'eredità puramente e semplicemente, né quelli decaduti dal beneficio, perché la redazione dell'inventario non può attribuire agli altri coeredi una posizione giuridica che essi non siano più in grado di acquistare (Cass. Sez. L, Ordinanza n. 35708 del 21/12/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 5100 del 17/02/2023; Sez. 6-2, Ordinanza n. 15659 del 23/07/2020; Sez. 5, Sentenza n. 11150 del 10/05/2013; Sez. U, Ordinanza interlocutoria n. 10531 del 07/05/2013; Sez. L, Sentenza n. 22286 del 04/09/2008; Sez. 2, Sentenza n. 2532 del 19/03/1999; Sez. 2, Sentenza n. 8034 del 19/07/1993; Sez. 2, Sentenza n. 782 del 09/02/1982; Sez. 2, Sentenza n. 1679 del 22/06/1963). Orbene, l'effetto espansivo previsto dall'art. 510 c.c. opera fino a quando gli altri eredi non abbiano manifestato una accettazione pura e semplice ovvero siano decaduti dal beneficio, salva la facoltà di accettare avvalendosi espressamente del beneficio, ovvero di rinunciare all'eredità. 3.- Con il terzo motivo la ricorrente si duole, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., della violazione e falsa applicazione degli artt. 183, sesto comma, e 184 c.p.c. vigenti ratione temporis, per avere la Corte distrettuale posto a fondamento del rigetto della domanda di simulazione dell'atto di compravendita delle prove documentali depositate oltre i termini di rito e che, dunque, avrebbero dovuto essere dichiarate inammissibili, senza alcuna possibilità per il giudice di tenerne conto ai fini della decisione. A tale approdo si perviene per il fatto che la pronuncia impugnata si era riferita al deposito della copia di 19 assegni bancari che Ro.Ma. aveva dichiarato di aver consegnato a Fr.Os. e della lista movimenti di un conto intestato allo stesso Fr.An., dai quali si evinceva che tre assegni sarebbero stati effettivamente versati, al fine di ritenere comprovato il pagamento del prezzo dell'immobile, benché la loro produzione fosse stata tardiva, con la conseguente utilizzazione di tali documenti in spregio del diritto di difesa e di regolarità del processo. 3.1.- Il motivo è inammissibile. Infatti, tali documenti sono stati utilizzati nella decisione del Tribunale ai fini di ritenere che il prezzo fosse stato effettivamente corrisposto e non già dalla Corte d'appello (che si è limitata a ribadirne le conclusioni), sicché l'allegazione del loro tardivo deposito avrebbe dovuto essere effettuata in sede di impugnativa della sentenza di primo grado. Conclusione, questa, avvalorata dall'applicazione del principio secondo cui l'utilizzazione a fini decisori della prova dedotta oltre i termini perentori per la proposizione integra un vizio di nullità della sentenza, che può essere fatto valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie dei relativi mezzi di impugnazione (principio di conversione dei vizi sia della sentenza in sé considerata sia degli atti processuali antecedenti in motivi di gravame) ex art. 161, primo comma, c.p.c., il che prescinde dalla distinzione fra nullità relative e nullità assolute (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 14434 del 27/05/2019; Sez. 6-1, Ordinanza n. 17834 del 22/07/2013; Sez. 2, Sentenza n. 12965 del 31/05/2006). Tanto più che la sentenza impugnata, nel richiamare le argomentazioni della sentenza di prime cure, ha rilevato che tali documenti erano stati evocati solo come uno fra i plurimi elementi (id est testimonianze assunte) per ritenere che il prezzo fosse stato effettivamente pagato (vedi pag. 5). Ed inoltre, sempre riportando le argomentazioni della sentenza del Tribunale, è stato precisato che la Ro.Ma., nel riassumere la causa, si era limitata a produrre i documenti già depositati da Fr.An.nella causa originariamente introdotta e poi cancellata dal ruolo. 4.- Con il quarto motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte del gravame tralasciato di rilevare che nell'atto di compravendita era stato dichiarato espressamente che, alla data della stipulazione, il prezzo fosse stato già interamente pagato, mentre dagli estratti conto del Fr.An. emergeva che gli unici versamenti di cui era stata fornita prova risalivano ad epoca successiva. Sicché Ro.Ma. non avrebbe mai comprovato in alcun modo l'avvenuto pagamento del prezzo, nonostante gravasse sull'acquirente l'onere di provare detto fatto, potendosi, in mancanza, trarre elementi di valutazione circa il carattere apparente del contratto, carenza che avrebbe potuto essere dipanata con un ordine di esibizione degli estratti conto. E ciò con la precisazione che le ragioni della decisione di rigetto in primo grado e in appello sarebbero state eterogenee, essendosi fondata la decisione di primo grado sulle deposizioni testimoniali raccolte e la sentenza d'appello sull'impossibilità di procedere all'applicazione dell'art. 510 c.c. e sulla inapplicabilità dell'art. 557 c.c. 4.1.- Il motivo è inammissibile. Ed invero, a fronte di una "doppia conforme" (quanto al rigetto delle domande di accertamento della nullità o della simulazione, assoluta o relativa, della vendita), con instaurazione del giudizio di gravame successivamente all'11 settembre 2012, come nella specie, ai sensi dell'art. 348-ter, quinto comma, c.p.c., vigente ratione temporis, la doglianza di omesso esame di fatti decisivi, formulata ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., non può essere proposta (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 8775 del 03/04/2024; Sez. 2, Sentenza n. 5074 del 26/02/2024; Sez. 5, Ordinanza n. 11439 del 11/05/2018; Sez. 1, Sentenza n. 26774 del 22/12/2016; Sez. 5, Sentenza n. 26860 del 18/12/2014). Ciò vale non solo quando la decisione di secondo grado sia interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass. Sez. 6-L, Ordinanza n. 19828 del 20/06/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 17449 del 30/05/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 16736 del 24/05/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 7724 del 09/03/2022; Sez. 6-3, Ordinanza n. 2506 del 27/01/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 33483 del 11/11/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 29222 del 12/11/2019). Contrariamente all'assunto della ricorrente, in ordine al rigetto delle citate domande, la sentenza impugnata ha convalidato gli argomenti già sviluppati dalla sentenza di prime cure, integrando la motivazione con altre considerazioni rafforzative della ricostruzione del Tribunale (con precipuo riferimento all'inapplicabilità del dettato normativo di cui agli artt. 510 e 557, secondo comma, c.c.). 5.- In conseguenza delle considerazioni esposte, il ricorso deve essere respinto. Le spese e compensi di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Sussistono i presupposti processuali per il versamento - ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l'impugnazione, se dovuto. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla refusione, in favore della controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 10.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 9 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7453 del 2021, proposto da Gi. Ve., rappresentato e difeso dall'avvocato Lu. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis) (MO), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ga. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Ca. Mi., rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Lu. Della Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna, Sezione Seconda, n. 167 del 1° marzo 2021. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e del sig. Ca. Mi.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 marzo 2024 il Cons. Roberto Caponigro; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Al Comune di (omissis) (Provincia di Modena), in data 27 aprile 2015, è pervenuta, da parte del Corpo Polizia Municipale, Nucleo Edilizia Ambiente, dell'Unione Terre di Castelli, una segnalazione di presunta violazione urbanistico - edilizia, relativamente a "intervento di nuova costruzione in difformità sia dal titolo edilizio presentato in variante che da quanto disposto e previsto dalla L. 122 del 24/03/89 (Legge Tognoli) in relazione al mancato interramento della struttura ed in assenza di deposito per le opere in cemento armato in quanto variate", relativamente all'edificio sito in via (omissis). Il signor Mi., proprietario dell'area, ha presentato richiesta di scia in sanatoria in data 22 luglio 2015. L'Amministrazione comunale, con atto del 5 febbraio 2016, ha trasmesso ai signori Ca. Mi. e Gi. Ve. la relazione tecnica di valutazione dell'Ufficio Tecnico, Settore Urbanistica, Edilizia Privata e Ambiente nonché la conclusione del procedimento avviato con la segnalazione del 27 aprile 2015, nel senso che le opere realizzate possono ritenersi conformi alla normativa vigente, per cui è stata accolta la scia in sanatoria, con prescrizione dell'interramento dell'autorimessa, come indicato negli elaborati grafici, ed aumento del livello del terreno come era in origine, nel rispetto della Legge Tognoli. Il sig. Ve., proprietario di un immobile posto a confine con il fabbricato di proprietà Mi., ha impugnato tale atto del 5 febbraio 2016, unitamente all'autorizzazione sismica in sanatoria del 24 dicembre 2015, dinanzi al Tar per l'Emilia Romagna che, con la sentenza della Sezione Seconda n. 167 del 1° marzo 2021, ha dichiarato improcedibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. Il soccombente ha interposto il presente appello, articolando i seguenti motivi: Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione di legge per errata interpretazione e/o applicazione della legge n. 122 del 1989 (c.d. legge Tognoli). Violazione di legge per errata interpretazione e applicazione della legge n. 765 del 1967 (c.d. legge ponte). La dichiarata improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione non sarebbe legittima, in quanto l'ordinanza n. 39/2018, per stessa ammissione dell'amministrazione comunale, non è satisfattiva delle richieste del ricorrente. L'ordinanza di demolizione n. 39 del 2018 riguarderebbe esclusivamente la porzione edificata sulla proprietà del sig. Ve., ma nulla direbbe in merito al rilascio della scia in sanatoria del 5 febbraio 2016 che sarebbe stata concessa in violazione delle normative vigenti. L'illegittimità della dichiarazione di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse renderebbe illegittimo anche il diniego del risarcimento del danno. La domanda risarcitoria era stata proposta nel ricorso introduttivo del giudizio e nel corso del processo ne sarebbe stata dimostrata la relativa quantificazione. Stante l'insussistenza dell'improcedibilità per carenza d'interesse, l'appellante ha riproposto le censure di merito già dedotte nel giudizio di primo grado, innanzitutto evidenziando quali siano le circostanze, afferenti l'intervento edificatorio realizzato sulla proprietà Mi. - Ba., che sono oggetto delle doglianze da parte del ricorrente, poiché incidenti direttamente sulla proprietà del medesimo e come tali costituenti le censure di legittimità alla sanatoria rilasciata dal Comune di (omissis): 1) insussistenza dei requisiti per l'applicazione della legge Tognoli e norme del P.R.G. e ora P.S.C. per la realizzazione del garage interrato n. 1; 2) insanabilità del garage identificato nei titoli abilitativi con l'autorimessa n. 2 (si trattava di una tettoia in legno a copertura di una cisterna successivamente trasformata e sanata in garage in cemento armato in assenza di deposito strutturale sostenendo che non fossero opere strutturali); 3) la mancanza del parere della Commissione Qualità Architettonica e Paesaggio per la sanatoria (l'unico parere è stato rilasciato nel 2008 prima dell'intervento edificatorio PdC 32/2008 e PRG come parere preventivo e poi più nulla con strumento PSC); 4) l'utilizzazione impropria e strumentale di una scrittura privata del dante causa del signor Ve. per legittimare la deroga alle distanze regolatrici e per far coincidere l'allineamento del muro di confine preesistente (ante intervento edificatorio, poi oggetto di sanatoria) con l'attuale collocazione del muro di confine, difforme rispetto all'origine, che, a ben vedere, prevede la costruzione in aderenza di un secondo muro, mentre in realtà ne è stato realizzato uno solo; 5) omesso rispetto delle distanze regolamentari dai confini con la proprietà Ve.. Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione di legge per errata interpretazione e/o applicazione della legge n. 122/1989 (c.d. Legge Tognoli). Invocando l'applicazione della L. n. 122/1989 (c.d. legge Tognoli), i signori Mi. avrebbero realizzato circa 150 mq di nuovi garage e trasformato lo spazio adibito a garage - sito all'interno dell'abitazione di loro proprietà - in tavernetta, cambiando anche la destinazione d'uso al fabbricato originale, da deposito ad abitazione. L'art. 9 si applicherebbe solo all'ipotesi di fabbricati già esistenti all'epoca dell'entrata in vigore della legge e non potrebbe riguardare le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi per i quali provvede, invece, il precedente art. 2, comma 2, della L. n. 122/1989, il quale, nel sostituire l'art. 41 sexies L. 17 agosto 1942 n. 1150, stabilisce l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc di costruzione. Tale assunto troverebbe la sua giustificazione nella considerazione che gli edifici costruiti dopo la legge Tognoli nascono già forniti di parcheggio per effetto della c.d. legge ponte. Ne conseguirebbe l'inapplicabilità, nella specie, del suddetto articolo 9 l.n. 122/1989, poiché il parcheggio in discorso verrebbe realizzato a servizio di un edificio assentito con titolo abilitativo del 2008, che già era fornito di locali ad uso autorimessa. Sempre con riferimento ai presupposti per applicare la legge Tognoli, sebbene nel caso di specie la stessa non sia applicabile, occorrerebbe considerare che i garage devono essere completamente interrati, laddove, nella fattispecie, il garage sarebbe stato realizzato al piano terra. L'avere imposto, ex post, in sede di sanatoria, che il garage sia ricoperto di terreno - e ad una quota superiore di ben 60 cm rispetto alla reale quota di campagna originaria, per farlo rientrare entro l'ambito operativo della legge Tognoli - non solo costituirebbe un evidente contrasto con la finalità propria della legge (costruire al di sotto della quota di campagna per evitare ulteriore consumo del suolo nei centri urbani), ma determinerebbe una evidente alterazione dello stato dei luoghi tale da delegittimare il titolo abilitativo in sanatoria. Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione di legge per errata interpretazione e applicazione della legge 6 agosto 1967 n. 765 (c.d. "legge-ponte"). La sanatoria del manufatto identificato nei titoli abilitativi come garage n. 2, sarebbe illegittima poiché rilasciata sulla base del presupposto che l'edificio sia stato realizzato in un periodo antecedente al 1967. Eccesso di potere, sotto altro profilo, per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione delle normative in materia di distanze legali disposte dalle norme di piano e dai regolamenti del comune di (omissis). L'amministrazione comunale, al fine di convalidare la deroga alle distanze regolamentari invocata dalla proprietà Mi., avrebbe assunto come valida ed efficace una scrittura privata datata 5 aprile 2015, in cui la dante causa del sig Ve. avrebbe autorizzato la edificazione di un manufatto oggetto di sanatoria in deroga alle distanze regolamentari (autorimessa n. 1). Ora, evidenziato che le convenzioni in deroga alle distanze previste dal codice, poiché arrecano una menomazione per l'immobile il cui proprietario avrebbe diritto alla distanza legale, concretano veri e propri atti costitutivi di servitù, e in quanto tali sono assoggettati alla forma scritta ad substantiam ex art. 1350 c.c. - cioè atto pubblico a pena di nullità - occorre rilevare che la scrittura privata fornita dai signori Mi. non potrebbe comunque assurgere al rango di atto costitutivo di una servitù (non v'è una data certa della sua sottoscrizione né una certificazione dell'autenticità della firma né l'ubicazione degli immobili); inoltre, se il garage fosse stato interrato non sarebbe servita la sottoscrizione di una scrittura in deroga alle distanze legali. Le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell'interesse generale al mantenimento di un prefigurato modello urbanistico, non tollererebbero deroghe convenzionali da parte dei privati; tali deroghe, se concordate, sarebbero invalide, né tale invalidità potrebbe venire meno per l'avvenuto rilascio di un titolo edilizio, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli strumenti urbanistici. Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione delle normative in materia di distanze legali. Violazione dell'art. 97 della Costituzione. Prima della realizzazione dell'abuso edilizio oggetto della sanatoria il confine era raffigurato come una linea retta, mentre attualmente, ad abuso realizzato, non è più lineare presentando un dente di circa 50 cm, come sostenuto dal verbale dei vigili urbani e un disallineamento che parte da 39 cm. fino a 109 cm. come rilevato dal CTU in sede di ATP per rilevare che lo sconfinamento è evidente. Dalla disamina degli elaborati grafici di variante/sanatoria presentati dai signori Mi., emergerebbe che i confini della proprietà Ve. non sarebbero stati rispettati (sono state redatte tavole grafiche che erroneamente rappresentano opere mai realizzate al sol fine di rendere accettabile la presenza di un addentellato che modifica la linea di confine preesistente), come anche la realizzazione dell'autorimessa indicata con il n. 2 inciderebbe sulla linea di confine preesistente violandola. La lesione alle distanze regolamentari, invocata dal ricorrente, sussisterebbe poiché il dente originato dalla creazione di una difforme linea di confine rispetto alla situazione preesistente, invade la proprietà Ve. per circa 50/60 cm, secondo i rilievi dei vigili urbani, mente i rilievi del CTU indicano uno sconfinamento di 39 cm e 109 cm; ciò avviene con una traslazione del muro di confine tale da inglobare entro la proprietà Mi. un'area del ricorrente. Al proprietario confinante che lamenti la violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, competerebbe sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l'effetto, certo ed indiscutibile, dell'abusiva impostazione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria. L'appellante, per mero tuziorismo difensivo, ha riportato anche le controdeduzioni alle argomentazioni dedotte dalle difese avversarie nell'ambito del giudizio di primo grado ed afferenti il merito del contenzioso. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio svolgendo analitiche difese sia in rito che nel merito, ed ha formulato le seguenti conclusioni: In via principale: rigettare l'appello proposto per essere lo stesso infondato sia in fatto che in diritto, per tutti i motivi dedotti, confermando integralmente la sentenza del TAR di Bologna n. 176/2021 pubblicata in data 01/03/2021. In via subordinata: nell'ipotesi in cui il Collegio accolga il presente appello e riformi l'impugnata sentenza, accertare e dichiarare la tardività della impugnazione della SCIA in sanatoria del 22/07/2015 prot. n. 5432, dell'autorizzazione sismica in sanatoria del 24/12/2015 prot. n. 8764 rilasciata dall'ufficio sismica. In via ulteriormente subordinata: accertare e dichiarare l'inammissibilità della originaria impugnazione della SCIA in sanatoria del 22/07/2015 prot. n. 5432 ai sensi dell'art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/90, per la quale poteva essere esperita esclusivamente l'azione di cui all'articolo 31, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. In via estremamente subordinata: nel merito rigettare l'appello proposto per essere lo stesso infondato sia in fatto che in diritto, per tutti i motivi dedotti, confermando la legittimità degli atti impugnati, in accoglimento dei motivi esposti. In tutti i casi: accertare e dichiarare che l'appellante non ha alcun diritto al risarcimento del danno per effetto dei provvedimenti impugnati. Il sig. Ca. Mi., in rito, ha formulato una serie di eccezioni di inammissibilità . In particolare: - la scia in sanatoria presentata in data 22 luglio 2015 e la relazione tecnica prot. n. 734 del 5 febbraio 2016, così come la nota di trasmissione prot. 735 di pari data, non costituirebbero provvedimenti amministrativi impugnabili; - l'impugnazione della scia presentata in data 22 luglio 2015, nello specifico, sarebbe inammissibile, in quanto, ai sensi dell'art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, la scia non sarebbe un provvedimento tacito direttamente impugnabile; - tutte le censure avrebbero ad oggetto interventi edilizi previsti e autorizzati dal permesso di costruire prot. n. 6415 rilasciato in data 24 settembre 2008, per cui, non avendo impugnato il detto permesso di costruire, il sig. Ve. non avrebbe alcun interesse ad impugnare la scia in sanatoria (nonché gli atti del Comune in data 5 febbraio 2016) avente ad oggetto opere minori non costituenti varianti essenziali, atteso che, in caso di inoppugnabilità del permesso di costruire, non sarebbe autonomamente impugnabile il titolo edilizio in variante con il quale sono autorizzate variazioni non essenziali del progetto; - l'appellante non avrebbe dedotto, né provato, alcun pregiudizio derivante dalla realizzazione delle due autorimesse e della tavernetta e, soprattutto, dalla realizzazione dell'autorimessa n. 2, che si trova sul lato opposto rispetto al confine con la sua proprietà, con conseguente inammissibilità, anche sotto tale profilo, almeno dei primi due motivi di ricorso; - il sig. Ve., con istanza del 21 aprile 2017, ha chiesto al Comune di (omissis) l'immediato annullamento della scia, ma, nel termine di un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento, non ha esperito alcuna azione ex art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a.; - l'impugnazione dell'autorizzazione sismica sarebbe inammissibile, in quanto avverso detto atto l'appellante non ha proposto alcuna censura. Il sig. Mi., nel merito, ha analiticamente contestato la fondatezza delle doglianze contenute nel ricorso in appello. Le parti hanno prodotto altre analitiche memorie a sostegno delle rispettive difese. Il sig. Mi., in particolare, ha eccepito anche il difetto di interesse al ricorso di primo grado non essendo sufficiente il solo requisito della vicinitas. All'udienza pubblica del 21 marzo 2024, la causa è stata trattenuta per la decisione. 2. Il giudice di primo grado ha così motivato la declaratoria di improcedibilità del gravame per sopravvenuta carenza di interesse: "L'ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 aveva un contenuto satisfattorio degli interessi del ricorrente. Tale provvedimento accoglieva le richieste da lui formulate con la sopra richiamata nota del 21 giugno 2018. Alla data di adozione della sopra richiamata ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 si determinava pertanto la sopravvenuta carenza d'interesse al ricorso. Successivamente tale ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 veniva annullata dalla stessa amministrazione comunale con provvedimento in data 14 settembre 2018. Era dunque onere di parte ricorrente impugnare in giudizio il sopra richiamato provvedimento del 14 settembre 2018 di annullamento in autotutela dell'ordinanza n. 39/2018, ove tale provvedimento fosse ritenuto lesivo del proprio interesse alla demolizione delle opere costruite dal controinteressato. Il provvedimento del 14 settembre 2018 è un provvedimento produttivo di effetti giuridici novativi riguardo le determinazioni comunali circa l'abusività o meno delle costruzioni contestate da parte ricorrente, avendo ad oggetto l'annullamento dell'ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 Ne consegue che, non essendo stato impugnato in giudizio tale provvedimento del 14 settembre 2018, l'assetto di interessi sulla vicenda è definitivamente disciplinato da esso. Ne consegue altresì che il ricorso è divenuto improcedibile per sopravvenuta carenza d'interesse". 3. Il motivo con cui l'appellante ha contestato la statuizione di improcedibilità del ricorso è fondato. 3.1. Il sig. Ve. contesta che, invocando l'applicazione della legge n. 122 del 1989, i signori Mi. hanno realizzato circa 150 mq di nuovi garage (al piano terra) e trasformato lo spazio adibito a garage - sito all'interno dell'abitazione di loro proprietà - in tavernetta, cambiando la destinazione d'uso dell'immobile da deposito ad abitazione. Le doglianze proposte dall'interessato concernono: - la violazione dell'art. 9 della c.d. Legge Tognoli per la costruzione di una prima autorimessa (autorimessa 1); - la costruzione di altro garage (autorimessa 2) su immobile privo di titolo abilitativo in quanto edificato successivamente al 1967 e, comunque, rientrante nel centro storico, per cui necessitava della concessione edilizia; - la violazione delle distanze legali derivante dal posizionamento del muro di confine tra le due proprietà . Il Tar ha dichiarato improcedibile l'appello per sopravvenuta carenza di interesse essendo ora il rapporto disciplinato definitivamente dall'annullamento in autotutela dell'ordine di demolizione del 14 settembre 2018, provvedimento non impugnato. 3.2. La statuizione del giudice di primo grado non può essere condivisa. Con l'ordinanza di demolizione n. 39 del 6 luglio 2018, avente ad oggetto il ripristino di opere abusive relativamente al muro di confine sito in via (omissis), il Comune di (omissis) ha ingiunto ai signori Ca. Mi. ed An. Ba., in qualità di realizzatori dell'opera, di agire in modo tale da ripristinare la legalità violata, ai sensi dell'art. 13 della L.R. n. 23/04, attraverso la demolizione e il ripristino delle opere non conformi alle normative vigenti, pertanto mediante lo spostamento del tratto del muro di confine realizzato all'interno della proprietà Ve., pari ad un'area trapezoidale di 0,39 e 1,09 (basi) x 9,93 (altezza), di 7,35 mq. L'ordine demolitorio, successivamente annullato in sede di autotutela con provvedimento del 14 settembre 2018, è stato adottato, evidenziato che, in data 22 giugno 2018, è pervenuta una comunicazione, per conto del sig. Ve., con cui si richiama lo sconfinamento rilevato dal tecnico nominato dal Tribunale di Modena, relativamente all'edificio sito in via (omissis), con diffida ad immediata attivazione affinché si disponga l'ordine di ripristino dello stato dei luoghi nonché richiamata la relazione tecnica d'ufficio, redatta il 15 dicembre 2016, a firma del CTU, nella quale è stato definito lo sconfinamento del muro di confine all'interno della proprietà Ve., per un'area trapezoidale di 0,39 e 1,09 (basi) x 9,93 (altezza), pari ad un'area di 7,35 mq nonché richiamati anche i titoli edilizi relativi all'edificio di proprietà e al muro di confine, costituiti dal permesso di costruire prot. 6415 del 24 settembre 2008 e scia del 24 settembre 2012, annullata in autotutela in data 9 maggio 2015. Il provvedimento con cui l'Amministrazione comunale ha annullato, in autotutela, ai sensi dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l'ordinanza n. 39 del 6 luglio 2018, è stato adottato rilevato, tra l'altro, che, in relazione al manufatto oggetto dell'ordinanza di demolizione n. 39 del 2018, era stata depositata, oltre ai titoli citati nel detto atto, anche la scia in sanatoria del 22 luglio 2015 prot. n. 5432, per cui l'immobile non sarebbe privo di titolo abilitativo e considerato, tra l'altro che pende dinanzi al Tar per l'Emilia Romagna un ricorso presentato dal sig. Ve., con il quale è stato chiesto l'annullamento del provvedimento del Comune di (omissis) del 5 febbraio 2016 prot. 735 e prot. 734 (atti confermativi dell'efficacia della scia in sanatoria presentata in data 22 luglio 2015 prot. n. 5432 dal sig. Ca. Mi. ed anche dell'autorizzazione sismica in sanatoria del 24 dicembre 2015 prot. 8764 rilasciata dall'Ufficio sismica). In particolare, per quanto maggiormente interessa in questa sede, nella motivazione del provvedimento di autotutela è indicato "considerato che nel giudizio amministrativo promosso dal Geom. G. Ve. (TAR - Bologna RG n. 267/2016) risultano essere costituiti sia il Comune che il sig. Ca. Mi., pertanto la verifica della legittimità amministrativa, degli atti richiamati al punto precedente, sarà svolta nell'ambito del giudizio amministrativo, mentre rimane nella libera ed autonoma disponibilità delle parti private ogni diversa questione relativa alla controversia sui reciproci diritti che riguardano la sfera privatistica, azionabile avanti la giustizia ordinaria, come correttamente indicato da entrambe le parti private (sig. Ve. e sig. Mi.) nelle osservazioni/diffide già presentate" ed ancora "tenuto conto che le questioni poco prima esposte, nonché le altre alle stesse connesse e già espresse in precedenti atti e provvedimenti sempre relativi alla stessa fattispecie oggetto dell'ordinanza n. 39/2018, nonché la presenza di un contenzioso amministrativo in essere e di un suo pronunciamento in merito, impongono un esame più approfondito ed una più adeguata ponderazione dei presupposti di fatto e di diritto, al fine anche di evitare che l'esecuzione del provvedimento produca conseguenze pregiudizievoli". Dai descritti passaggi motivazionali emerge con evidenza che il provvedimento di annullamento in autotutela dell'ordinanza di demolizione n. 39/2018 non ha disciplinato nuovamente il rapporto, avendo espressamente evidenziato che "la verifica della legittimità " dell'atto del 5 febbraio 2016 "sarà svolta nell'ambito del giudizio amministrativo", sicché non può sussistere alcun dubbio sulla persistenza dell'interesse alla definizione del presente giudizio di appello, pur a seguito dell'adozione degli atti nel 2018 (ordine di demolizione e annullamento di autotutela). 4. Il provvedimento impugnato, del 5 febbraio 2016, ha trasmesso agli interessati la relazione tecnica di valutazione dell'Ufficio tecnico comunale, Settore urbanistica, edilizia privata ed ambiente che ha così concluso: "L'ufficio Tecnico del Comune di (omissis) ritiene che le opere realizzate possano ritenersi conformi alla normativa vigente, e pertanto ritiene di poter accogliere la scia in sanatoria, prescrivendo l'interramento dell'autorimessa come indicato negli elaborati grafici, pertanto aumentando il livello del terreno come era in origine, nel rispetto della Legge Tognoli. Vengono inoltre provvisoriamente accolte le autorizzazioni del precedente confinante e la dichiarazione di esistenza ante 1967 della seconda autorimessa (prima locale cisterna) fatto salvo eventuali diritti di terzi, o fatto salvo i risultati di eventuali tracciamenti di confini secondo le normative vigenti". Nella motivazione della relazione tecnica è espressamente indicato, nel punto n. 4 della "Ispezione immobile di nuova realizzazione ad uso di autorimessa", che "Non rientra nell'attività istruttoria del presente procedimento di abuso edilizio, il posizionamento del muro di confine tra le due proprietà, dato atto che il Comune rilascia i titoli edilizi "fatto salvo i diritti di terzi", e non entra in merito a discussioni relative a confini di proprietà (a meno che non venga prodotta una relazione da un tecnico terzo, che abbia provveduto al tracciamento dei confini con le procedure previste dalla normativa vigente, e abbia rilevato uno sconfinamento da parte di una delle due parti, procedura che non è stata effettuata dalle parti)". Parimenti, al punto 1 delle "Precisazioni relativamente alla relazione presentata dal Geom. Ve. Gi. in data 21/07/15", l'Ufficio tecnico ha ribadito, relativamente alle distanze dal confine, quanto indicato precedentemente, vale a dire che "il Comune rilascia i titoli edilizi "fatto salvo i diritti di terzi", e non entra in merito a discussioni relative a confini di proprietà, (a meno che non venga prodotta una relazione da un tecnico terzo, che abbia provveduto al tracciamento dei confini con le procedure previste dalla normativa vigente, e abbia rilevato uno sconfinamento da parte di una delle due parti, procedura che non è stata effettuata dalle parti)". Di talché, il provvedimento impugnato non ha preso posizione sul prospettato sconfinamento del muro nella proprietà Ve., sebbene in altre parti del testo abbia richiamato la dichiarazione del 5 aprile 2015, a firma della precedente confinante, secondo cui "il muro è stato realizzato nella posizione esatta in cui si trovava quello originario, e confermo di aver, a suo tempo, autorizzato verbalmente il sig. Mi. Ca. a costruire l'autorimessa a ridosso del muro, senza alcun vincolo di distanza". La relazione tecnica trasmessa ha peraltro evidenziato che "tale problema non sussiste in quanto il muro di confine risulta di altezza superiore ai 3 metri, pertanto da ciò che prevede il codice civile, (art. 878) "... tale manufatto non ha le caratteristiche del muro di confine (altezza max 3 m.) ma viene equiparato in tutto e per tutto a muri di fabbrica, ad una costruzione, e quindi deve rispettare le distanze legali per le costruzioni (3 metri ecc.). Quindi se tale opera originariamente è stata realizzata sul confine di proprietà, in accordo tra le due parti, ambedue le proprietà hanno diritto di costruire nuove opere in adiacenza fatti salvi eventuali diritti dovuti a luci e vedute; (identico al caso in cui un confinante realizza un immobile sul confine, e il vicino acquisisce il diritto di costruirvi in aderenza, fatte salve le eventuali aperture, luci ecc.). Si precisa inoltre che nel tratto dove il muro arretra, (dove è presente la deviazione), il codice civile prevede che "... il vicino può costruirvi in comunione o aderenza se mantiene una distanza massima di 1,5 metri dal confine...". Ne consegue che il provvedimento avversato del 5 febbraio 2016, pur recando precisazioni relative alla relazione presentata dal sig. Ve. il 21 luglio 2015, ha testualmente escluso che nell'attività istruttoria che ha dato luogo all'adozione dell'atto sia rientrato il posizionamento del muro di confine tra le due proprietà, per cui le doglianze proposte in relazione al dedotto spostamento del muro di confine, non avendo costituito oggetto dell'attività istruttoria che ha condotto all'adozione del provvedimento impugnato, devono ritenersi inammissibili. Ad ogni buon conto, le argomentazioni relative alla dichiarazione prodotta dal precedente confinante sono state ritenute irrilevanti, in quanto l'Amministrazione ha formulato osservazioni sulla applicabilità al caso di specie del disposto di cui all'art. 878 c.c., con conseguente non considerazione del muro di cinta per il computo della distanza di cui all'art. 873 c.c. e tali precisazioni non sono state censurate dalla parte. In definitiva, le doglianze relative al posizionamento del muro di confine ed alla violazione delle distanze legali non sono improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse, perché l'annullamento in autotutela dell'ordine di demolizione non è stato impugnato, ma sono ab origine inammissibili, come anche indicato a verbale, ai sensi dell'art. 73, comma 3, all'udienza pubblica del 21 marzo 2024, perché non hanno costituito oggetto dell'esame istruttorio che ha condotto all'adozione del provvedimento impugnato. 5. Parimenti inammissibili sono le doglianze proposte avverso la realizzazione dell'autorimessa n. 2, trasformata in tavernetta, in quanto, se la legittimazione ad agire è indubbia e discende alla vicinitas, l'interesse al ricorso non è stato dimostrato. L'Adunanza Plenaria n. 22 del 2021 ha affermato il seguente principio di diritto: "Nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l'autonomia tra la legittimazione e l'interesse al ricorso quali condizioni dell'azione, è necessario che il giudice accerti, anche d'ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo ed in automatico a dimostrare la sussistenza dell'interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall'atto impugnato". L'eccezione di inammissibilità è stata formulata dal controinteressato sig. Mi., il quale ha evidenziato come il sito sia dalla parte opposta rispetto alla proprietà Ve.. Tale circostanza non è stata smentita dalla parte, sicché deve ritenersi carente l'interesse alla proposizione delle relative doglianze. 6. Viceversa, le doglianze proposte avverso la realizzazione dell'autorimessa 1 sono ammissibili, in quanto, oltre alla legittimazione ad agire, data dalla vicinitas, sussiste la prova dell'interesse al ricorso, dato dal prospettato sconfinamento, consistito nel modificare la linea del preesistente muro di confine con la creazione di una rientranza per realizzare il nuovo locale ad uso garage. 6.1. Anche in tal caso, sovvengono gli ulteriori principi di diritto affermati nell'Adunanza Plenaria n. 22 del 2021, secondo cui: "L'interesse al ricorso correlato allo specifico pregiudizio derivante dall'intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio che si assume illegittimo può comunque ricavarsi dall'insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso; l'interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o la questione rilevata d'ufficio dal giudicante, nel rispetto dell'art. 73, comma 3, c.p.a. Nelle cause in cui si lamenti l'illegittimità del titolo autorizzatorio edilizio per contrasto con le norme sulle distanze tra le costruzioni imposte da leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, non solo la violazione della distanza legale con l'immobile confinante con quello del ricorrente, ma anche quella tra detto immobile e una terza costruzione può essere rilevante ai fini dell'accertamento dell'interesse al ricorso, tutte le volte in cui da tale violazione possa discendere con l'annullamento del titolo edilizio un effetto di ripristino concretamente utile, per il ricorrente, e non meramente emulativo". 6.2. Nel merito, le doglianze, incentrate sull'inosservanza della Legge Tognoli, si rivelano tuttavia infondate, anche perché è verosimile ritenere che il fabbricato sia preesistente al 1989. L'art. 9 della legge n. 122 del 1989 dispone che "I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti". L'art. 41-sexies, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, aggiunto dall'art. 17 della legge n. 765 del 1967 e, successivamente, sostituito dall'art. 2, comma 2, della legge n. 122 del 1989, stabilisce che "Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione". La relazione tecnica allegata al permesso di costruire n. 6415 del 24 settembre 2008, provvedimento non impugnato, è stata richiamata nello stesso atto di appello e, nella dettagliata descrizione dei lavori oggetto di intervento, ha specificato che le opere in progetto riguardano la "ristrutturazione" di un fabbricato, con cambio di destinazione d'uso da deposito ad ufficio ad uso prevalentemente residenziale; tra i lavori, inoltre, è prevista la realizzazione di 2 autorimesse coperte per complessivi sei posti auto ed anche la eliminazione della cisterna interrata. L'oggetto dell'istanza, infatti, ha riguardato la richiesta di permesso di costruire per realizzazione di autorimesse di pertinenza da realizzare ai sensi della legge n. 122 del 1989 e ristrutturazione con cambio di destinazione d'uso di fabbricato in via (omissis). Tali interventi non possono più essere messi in discussione essendosi evidentemente consolidato il permesso di costruire del 2008. Tale permesso, inoltre, trattandosi di ristrutturazione e non di nuova costruzione, riguarda un fabbricato già esistente e non un nuovo fabbricato, per cui, in primo luogo, in assenza di ulteriori elementi sulla collocazione temporale della realizzazione del manufatto, deve ritenersi applicabile l'art. 9 della L. 122 del 1989, che, come descritto, da un lato, consente il non interramento, dall'altro, consente la realizzabilità dei garage anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. In ogni caso, l'intervento appare compatibile con l'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942. Peraltro, occorre rilevare che il provvedimento del 5 febbraio 2016 ha prescritto l'interramento dell'autorimessa, come indicato negli elaborati grafici, aumentando il livello del terreno "come era in origine", nel rispetto della legge Tognoli. Ne consegue che nessun nuovo interramento è stato previsto, ma è stato imposto il ripristino del livello del terreno iniziale. 7. L'impugnativa dell'autorizzazione sismica in sanatoria del 24 dicembre 2015 è inammissibile, in quanto nessuna censura è stata specificamente dedotta avverso la stessa. 8. Analogamente, la mancanza del parere della Commissione Qualità Architettonica e Paesaggio per la sanatoria, pur enunciata all'inizio dell'atto di appello, non è assistita da ulteriori censure e comunque la contestazione è inammissibile per il c.d. divieto dei nova in appello sancito dall'art. 104 c.p.a., in quanto il motivo d'impugnativa non è stato formulato in primo grado. 9. Le doglianze afferenti la domanda risarcitoria devono essere conseguentemente respinte, in assenza dell'elemento costitutivo fondamentale dell'illecito aquiliano della pubblica amministrazione, vale a dire l'accertamento dell'illegittimità dell'azione amministrativa in ipotesi causativa del danno di cui è chiesto il risarcimento. 10. In conclusione, sulla base di tutto quanto esposto, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado deve essere dichiarato in parte inammissibile (per quanto attiene alle doglianze sul prospettato sconfinamento del muro di confine ed alle doglianze relative alla trasformazione dell'autorimessa 2 in tavernetta) ed in parte deve essere respinto (per quanto attiene alle doglianze relative alla realizzazione dell'autorimessa 1). 11. Va da sé che, in relazione alle molteplici specificazioni e puntualizzazioni delle doglianze contenute nel ricorso in appello e nelle successive memorie, nonché alle molteplici precisazioni contenute negli scritti delle controparti, il Collegio ha preso in considerazione, nella motivazione della presente sentenza, solo quelle ritenute astrattamente rilevanti ai fini della definizione del giudizio, per cui i profili eventualmente non menzionati si intendono ritenuti privi di sostanziale interesse. 12. Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza e, liquidate complessivamente in Euro 10.000,00 (diecimila/00), oltre accessori di legge, sono poste a carico dell'appellante sig. Ve. ed a favore, in parti uguali (ciascuno per Euro 5.000,00), del Comune di (omissis) e del controinteressato sig. Mi.. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe (R.G. n. 7453 del 2021), in riforma della sentenza impugnata, in parte dichiara inammissibile ed in parte respinge il ricorso proposto in primo grado. Condanna l'appellante sig. Ve. al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate complessivamente in Euro 10.000,00 (diecimila/00), oltre accessori di legge, in favore, in parti uguali (ciascuno per Euro 5.000,00), del Comune di (omissis) e del controinteressato sig. Mi.. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 21 marzo 2024, con l'intervento dei magistrati: Carmine Volpe - Presidente Roberto Caponigro - Consigliere, Estensore Lorenzo Cordà - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Thomas Mathà - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: FELICE MANNAPresidente ALDO CARRATOConsigliere VINCENZO PICAROConsigliere-Rel. GIUSEPPE FORTUNATOConsigliere MAURO CRISCUOLOConsigliere Oggetto: SUCCESSIONI Ud.21/03/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 1419/2019 R.G. proposto da: SINIGAGLIA MARIA ROSA, elett.te domiciliata in ROMA, VIA CAPPELLETTA DELLA GIUSTINIANA N. 68, presso lo studio dell’avvocato GIANNI CECCARELLI, (CCCGNN71D24M082J), che la rappresenta e difende per procura in calce al ricorso, -ricorrente- contro MARCHETTI ANTONINO e MARCHETTI ALDO, quali eredi di SORGE ANGELA, elett.te domiciliati in MESSINA, VIALE SAN MARTINO N. 116, presso lo studio dell’avvocato MARIA RUGGERI (RGGMRA65P59F158X), che li rappresenta e difende per procura in calce al controricorso, -controricorrenti e ricorrenti incidentali- nonché contro SORGE BARBARA e DE ANGELIS SILVIO, -intimati- avverso la SENTENZA della CORTE D'APPELLO di ROMA n.3735/2018 depositata l’1.6.2018. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21.3.2024 dal Consigliere VINCENZO PICARO. FATTI DI CAUSA 1) Con atto di citazione notificato il 27.6.2003 Sorge Angela conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma la seconda moglie del padre, Sinigaglia Maria Rosa, e la sorella Sorge Barbara, con quest’ultima convivente nell'abitazione familiare di Roma, via dell'Isola Farnese n. 121, con annesso terreno, box e cantina- grotta costituenti pertinenze del villino, per quanto ancora rileva, ai fini dello scioglimento dei beni relitti dal padre Sorge Giacomo, deceduto ab intestato il 17.12.2001. 2) Il Tribunale di Roma, espletata CTU per la stima del compendio, con la sentenza n. 12920/2012, per quanto ancora rileva, detraeva dal valore del compendio le spese di € 30.000,00 preventivate per la regolarizzazione delle pertinenze del villino, riconosceva il diritto di abitazione sul villino in favore del coniuge superstite, facendolo gravare sulla quota spettante a Sinigaglia Maria Rosa, anziché in aggiunta alla sua quota legittima ex art. 540 comma 2° cod. civ., attribuiva l'immobile, ritenuto indivisibile, alla Sinigaglia, con obbligo per quest'ultima di versare un conguaglio in denaro a favore di Sorge Angela e Sorge Barbara di € 263.000,00 ciascuna, dichiarava compensate le spese processuali tra Sorge Barbara e Sinigaglia Maria Rosa e compensate per metà le spese tra quest'ultima e Sorge Angela. 3) Proposto appello da Sinigaglia Maria Rosa, che contestava la stima del CTU e chiedeva che il suo diritto di abitazione fosse detratto dal valore dell'asse ereditario, ricomprendendo in esso solo la nuda proprietà del villino nel quale abitava, Sorge Barbara si associava alla richiesta di rinnovazione della CTU ai fini della modifica dei conguagli, mentre Sorge Angela chiedeva il rigetto dell'appello, ed interveniva volontariamente l'avv. Silvio De Angelis, che aveva patrocinato la Sinigaglia nella fase stragiudiziale civile e penale connessa ed in primo grado per tutta l'attività istruttoria fino alla revoca del mandato e chiedeva quale legale distrattario, che in caso di accoglimento del gravame della Sinigaglia, quest'ultima e le altre parti processuali fossero condannate in solido al pagamento in suo favore dei compensi e delle spese a lui spettanti, per il patrocinio svolto nel giudizio di primo grado, e delle spese processuali per l'intervento in secondo grado. 4) La Corte d'Appello di Roma con la sentenza n. 3735/2018 del 15.12.2017/1.6.2018 accoglieva parzialmente l'appello della Sinigaglia, confermava il diritto di abitazione vitalizio di quest'ultima sul villino e sulle pertinenze, comprendendo nell'asse ereditario solo la nuda proprietà degli stessi, condannava la Sinigaglia al pagamento in favore di Sorge Angela e Sorge Barbara, entro quattro mesi dal passaggio in giudicato della sentenza, del conguaglio in denaro di € 160.000,00 ciascuna, con la rivalutazione monetaria da giugno 2010 alla data della sentenza, con gli interessi legali da calcolarsi secondo i criteri della sentenza n. 1712/1995 della Corte di Cassazione, condannava Sorge Angela e Sorge Barbara al pagamento in favore della Sinigaglia della somma di €16.647,33 ciascuna (comprensiva delle spese di condono del villino già versate dalla Sinigaglia a titolo di oblazione ed oneri concessori, pari ad € 4.841,00, delle spese di condono da integrare pari ad €2.442,33, delle spese preventivate dal CTU per il condono delle pertinenze e per la spesa dei professionisti da incaricare per la relativa pratica di €10.000,00, nonché della metà del pignoramento gravante sul compendio immobiliare a favore della Sinigaglia e contro il de cuius, pari per ciascuna ad € 4.205,00), escludendo invece la rimborsabilità delle spese della ristrutturazione effettuata dalla Sinigaglia nel 2001 in funzione del diritto di abitazione, dichiarava inammissibile l'intervento in appello dell'avv. Silvio De Angelis e compensava le spese processuali tra tutte le parti in causa. 5) Avverso tale sentenza, non notificata, ha proposto ricorso alla Suprema Corte Sinigaglia Maria Rosa, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, con due motivi, ricorso notificato il 27.12.2018 a tutte le altre parti del giudizio di secondo grado, depositando però ex art. 369 c.p.c. solo le copie analogiche del ricorso notificato a Sorge Angela e De Angelis Silvio, delle ricevute di consegna ed accettazione e della relata di notifica a mezzo pec personalmente compiuta dall'avv. Gianni Ceccarelli (legale della Sinigaglia) ai sensi della L. 21.1.1994 n. 53 al legale domiciliatario di Sorge Angela, avvocato Guido Battiato, ed al legale domiciliatario di De Angelis Silvio, avv. Augusto Vito, senza l'attestazione di conformità agli originali telematici in suo possesso. 6) Avverso la stessa sentenza, hanno notificato a mezzo pec ai sensi della L.21.1.1994 n. 53 controricorso con ricorso incidentale a tutti i legali domiciliatari delle altre parti del giudizio di appello, Marchetti Antonino e Marchetti Aldo, quali eredi di Sorge Angela (deceduta il 13.8.2018), facendo valere un unico motivo e depositando ex art. 369 c.p.c. copia analogica del controricorso notificato con la relata di notifica, le ricevute di consegna ed accettazione e l'attestazione di conformità di tali copie cartacee agli originali digitali, ai sensi e per gli effetti degli articoli 9 comma 1 bis e 6 comma 1 della L. n. 53/1994, come modificata dall'art. 16 quater comma 1 lettera d) del D.Lgs. 7.3.2005 n. 82 e successive modificazioni. 7) Avviata la causa alla trattazione in camera di consiglio non partecipata della sesta sezione del 16.1.2020 dal Consigliere delegato Giuseppe Tedesco per manifesta fondatezza del primo motivo del ricorso principale relativo all'inammissibilità della divisione per l'abusività degli immobili del compendio, con assorbimento del secondo motivo dello stesso e del ricorso incidentale, e depositata memoria dagli eredi di Sorge Angela, con ordinanza interlocutoria della sesta sezione del 16.1/7.2.2020 la causa veniva rinviata a nuovo ruolo per la discussione in pubblica udienza, in quanto veniva rilevata la mancanza di prova della notificazione del ricorso principale a Sorge Barbara, per cui veniva concesso il termine di sessanta giorni dalla comunicazione per la produzione della prova di tale notificazione, o per provvedere alla relativa rinnovazione, ed in quanto non risultava acquisito il fascicolo della causa di merito ed in particolare la CTU espletata, occorrenti per valutare la portata degli abusi edilizi perpetrati, che sembravano limitati alle pertinenze, con conseguente applicabilità in tale ipotesi dei principi enunciati dalle sezioni unite della Corte di Cassazione con le sentenze n. 25021 del 2019 e n. 8230 del 2019, ed in quanto l'esito del ricorso principale poteva giustificare l'esame del ricorso incidentale, col quale era stata denunciata la contrarietà della soluzione fatta propria dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione n.4847/2013, applicata dalla decisione impugnata per detrarre preventivamente dalla massa ereditaria il diritto di abitazione, all'art. 540 comma 2° cod. civ., che richiedeva invece che tale diritto gravasse anzitutto sulla disponibile, poi sulla quota riservata al coniuge superstite, e solo in caso di insufficienza di quest'ultima, sulla quota riservata ai figli. 8) Comunicata il 7.2.2020 l'ordinanza interlocutoria, il legale della ricorrente in data 18.5.2020 depositava la relata della notifica a mezzo pec del ricorso effettuata il 27.12.2018 all'indirizzo pec dell'ordine degli avvocati di Roma dell'avv. Francesca Barbaro, legale domiciliatario costituito in secondo grado per Sorge Barbara, con le ricevute di consegna ed accettazione e copia dell'attestazione ora per allora (datata 18.5.2020) della conformità agli originali telematici delle copie analogiche depositate. 9) La Procura Generale, pur rilevando che la ricorrente ha prodotto le copie analogiche delle ricevute di accettazione e consegna della notifica a mezzo pec del ricorso a Sorge Barbara senza l'attestazione di conformità agli originali telematici, e che non é stato acquisito il fascicolo d'ufficio, ma solo la CTU espletata, ha concluso per la cassazione senza rinvio dell'impugnata sentenza in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, ritenendo impossibile giuridicamente la divisione del compendio ereditario abusivo (in tal senso Cass. n. 9255/2023; Cass. n. 26563/2021; Cass. n. 16537/2020; Cass. sez. un. n.25021/2019) per il mancato completamento della seconda procedura di condono del villino (inerente alla chiusura del patio ed alla realizzazione di un secondo bagno) col rilascio della concessione in sanatoria, ed in quanto per le pertinenze (cantina-grotta e box auto), a servizio del villino, ed essenziali al suo completamento perché concorrenti alla sua utilizzazione funzionale in relazione alla destinazione dello stesso (Cass. n. 1998/2016 e Cass. n. 16283/2018), non é stata neppure presentata domanda di sanatoria, nel contempo evidenziando che nessuna delle parti ha avanzato domanda di divisione parziale del compendio ereditario, e sottolineando l'assorbimento del secondo motivo del ricorso principale e del ricorso incidentale. I soli eredi di Sorge Angela hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.. RAGIONI DELLA DECISIONE 10) Preliminarmente va dichiarata l'improcedibilità del ricorso principale di Sinigaglia Maria Rosa ex art. 369 c.p.c. per non avere il legale della stessa depositato entro il termine di venti giorni dall'ultima notificazione a mezzo pec del ricorso alla Suprema Corte (27.12.2018) le copie analogiche del ricorso notificato a tutte le parti del giudizio di secondo grado (Sorge Angela, Sorge Barbara e De Angelis Silvio), con la relata di notifica, le ricevute di consegna ed accettazione per ciascuna di esse e l'attestazione di conformità agli originali digitali delle copie cartacee depositate ex artt. 9 commi 1 bis e 1 ter della L.n.53/1994. Nel termine di venti giorni dall'ultima notifica del ricorso il legale della Sinigaglia, avv. Gianni Ceccarelli, ha infatti depositato solo copia cartacea del ricorso da lui notificato ex L. 21.1.1994 n. 53 il 27.12.2018 al legale domiciliatario in secondo grado di Sorge Angela, avv. Guido Battiato, ed al legale domiciliatario in secondo grado di De Angelis Silvio, avv. Augusto Vito, con la relata di notifica a mezzo pec riferita anche a Sorge Barbara, con la procura speciale e con le ricevute di consegna ed accettazione delle sole notifiche a Sorge Angela e De Angelis Silvio, senza l'attestazione di conformità di tali copie analogiche agli originali telematici in suo possesso ex artt. 9 commi 1 bis e 1 ter della L. n. 53/1994. Soltanto dopo l'adunanza della camera di consiglio della sesta sezione del 16.1.2020 l'avv. Gianni Ceccarelli per la ricorrente Sinigaglia, il 18.5.2020, ha depositato la copia delle ricevute di consegna ed accettazione della notifica in data 27.12.2018 a mezzo pec del ricorso inviata all'avv. Francesca Barbaro, legale domiciliataria nel giudizio di secondo grado di Sorge Barbara, con l'attestazione ora per allora, datata 18.5.2020, della conformità delle suddette copie analogiche agli originali digitali in suo possesso. La notifica a mezzo PEC del ricorso per cassazione predisposto in originale telematico, da ritenersi perfezionata nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione e di consegna del messaggio nella casella del destinatario, comporta la decorrenza del termine di giorni venti stabilito, a pena di improcedibilità, dall'art. 369 c.p.c., comma 1°, entro il quale il ricorrente deve procedere al deposito in cancelleria di copia analogica del ricorso, munito di attestazione di conformità del difensore ex art. 9 commi 1 bis e 1 ter della L. n. 53 del 1994 per tutte le notifiche effettuate alle controparti nel termine d'impugnazione della sentenza, salvo che per eventuali notifiche successivamente compiute per integrazione del contraddittorio in ipotesi di litisconsorzio necessario (vedi in tal senso Cass. 27.12.2022 n. 37829 e Cass. 20.1.1995 n. 623, che peraltro hanno sottolineato come l'improcedibilità ex art. 369 c.p.c. per mancato tempestivo deposito delle notifiche del ricorso compiute nei confronti delle controparti entro il termine d'impugnazione, non sia influenzata dall'eventuale successiva integrazione del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte pretermesso). Il rigore del principio dell'improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c. nei casi di notificazione a mezzo pec del ricorso non seguita nei venti giorni dal deposito di copia analogica del ricorso notificato alle altre parti, della relata di notifica, delle ricevute di consegna ed accettazione, della procura, della sentenza impugnata con relazione di notifica e dell'attestazione di conformità del difensore delle copie analogiche agli originali telematici ex art. 9 commi 1 bis e 1 ter della L. n. 53/1994 della L. n. 53 del 1994, o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, é stato attenuato dalla giurisprudenza della Suprema Corte più recente. In particolare si é esclusa l'improcedibilità ove il controricorrente (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica del ricorso ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all'originale notificatogli anche sulla base della previsione dell'art. 23 comma 2° del D.Lgs. n. 82 del 2005, avendo egli la possibilità di verificare telematicamente la presenza della firma digitale del ricorso notificatogli; viceversa, ove il destinatario della notificazione a mezzo PEC del ricorso nativo digitale rimanga solo intimato (così come nel caso in cui non tutti i destinatari della notifica depositino controricorso) ovvero disconosca la conformità all'originale della copia analogica non autenticata del ricorso tempestivamente depositata, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità sarà onere del ricorrente depositare l'asseverazione di conformità all'originale della copia analogica sino all'udienza di discussione o all'adunanza in camera di consiglio (Cass. 23.9.2022 n. 27929; Cass. ord. 12.2.2021 n. 3727; Cass. sez. un. 25.3.2019 n. 8312; Cass. sez. un. 24.9.2018 n. 22438; Cass. ord. 30.10.2018 n. 27480). Applicando questi principi nel caso di specie, pertanto, si può ritenere che non avendo gli eredi di Sorge Angela, Marchetti Antonino e Marchetti Aldo, controricorrenti e ricorrenti incidentali, disconosciuto la conformità all'originale della copia analogica del ricorso notificato al legale domiciliatario di Sorge Angela, della relata di notificazione del ricorso e delle relative ricevute di consegna ed accettazione che la ricorrente aveva depositato entro i venti giorni dalla notifica del ricorso principale ex art. 369 comma 2° c.p.c., il vizio d'improcedibilità nei loro confronti sia stato sanato per raggiungimento dello scopo, ma non può dirsi altrettanto per De Angelis Silvio, che é rimasto intimato e per il quale non é stata prodotta l'attestazione di conformità delle copie analogiche agli originali telematici, né per il vizio d'improcedibilità scaturente dal mancato deposito entro venti giorni dalla notifica del ricorso principale del 27.12.2018 della copia delle ricevute di consegna ed accettazione relative alla notifica effettuata in tale data al legale domiciliatario di Sorge Barbara con l'attestazione di conformità ex art. 9 commi 1 bis e 1 ter della L. n. 53/1994 della L. n. 53 del 1994, dal momento che anche Sorge Barbara é rimasta intimata, e che la copia analogica delle ricevute di consegna ed accettazione della notifica del ricorso a Sorge Barbara, avv. Francesca Barbaro, avvenuta il 27.12.2018, con l'attestazione di conformità ora per allora agli originali telematici, sono state depositate dal legale di Sinigaglia Maria Rosa solo in data 18.5.2020, e quindi non solo oltre il termine di venti giorni dalla notifica stabilito dall'art. 369 comma 2° c.p.c., ma anche dopo l'adunanza in camera di consiglio della sesta sezione del 16.1.2020. 11) Va tuttavia esclusa l'improcedibilità ex art. 369 comma 2° c.p.c. del controricorso e ricorso incidentale di Marchetti Antonino e Marchetti Aldo quali eredi di Sorge Angela, notificato il 4.2.2019 ai legali domiciliatari di tutte le controparti di quest'ultima nel giudizio di secondo grado, in quanto i controricorrenti entro 20 giorni dal 4.2.2019 hanno provveduto a depositare copia del controricorso e ricorso incidentale notificato a tutte le controparti, con la relazione di notificazione, con la procura speciale, con le ricevute di consegna ed accettazione e con l'asseverazione di conformità delle copie analogiche agli originali digitali ex art. 9 commi 1 bis e 1 ter della L. n.53/1994 della L. n. 53 del 1994. 12) Col ricorso incidentale si lamenta, in relazione all'art. 360 comma primo n.3) c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli articoli 542 comma 2°, 581 e 582 cod. civ.. I ricorrenti incidentali si dolgono che l'impugnata sentenza, uniformandosi ai principi espressi dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione n. 4847/2013, abbia riconosciuto al coniuge superstite del de cuius, Sinigaglia Maria Rosa, i diritti di abitazione nella casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili della stessa in aggiunta alla quota legittima di 1/3 attribuitale dall'art. 581 cod. civ., detraendone il valore dalla massa ereditaria e facendovi rientrare quindi solo la nuda proprietà del villino e delle sue pertinenze, anziché far gravare tale legato ex lege, come espressamente indicato dall'art. 540 comma 2° cod. civ. anzitutto sulla porzione disponibile, in secondo luogo sulla quota di riserva del coniuge, e solo in caso di insufficienza delle stesse, limitatamente all'eccedenza, sulle quote riservate ai figli. Evidenziano i ricorrenti incidentali che già altre sentenze della Suprema Corte (Cass. 19.4.2013 n. 9651) anziché seguire la menzionata pronuncia delle sezioni unite, determinante la lesione delle quote riservate ai figli del defunto attraverso una tutela eccessiva del coniuge superstite, hanno preferito applicare l'art. 553 cod. civ., che sia pure in relazione ai lasciti testamentari, stabilisce il principio che nel concorso tra successione legittima e necessaria gli eredi legittimi debbano subire la riduzione proporzionale delle loro porzioni nei limiti necessari ad integrare la quota riservata ai legittimari, che devono però imputare alla loro quota riservata quanto hanno già ricevuto dal defunto in virtù di donazioni, o di legati (tra i quali rientra il diritto di abitazione nella casa adibita a residenza familiare e di uso dei beni mobili della stessa). La procedibilità ed ammissibilità del ricorso incidentale degli eredi di Sorge Angela, notificato entro i 40 giorni dalla notifica del ricorso principale ed entro un anno dalla pubblicazione della sentenza impugnata, fa ritenereevitata la formazione del giudicato circa la questione della divisibilità del compendio ereditario sotto il profilo della presenza in esso di manufatti abusivi, che va esaminata con priorità rispetto alla questione dei conguagli in denaro posta dal ricorso incidentale. Da un lato tale questione era stata posta col primo motivo del ricorso principale ritenuto improcedibile e non era stata minimamente affrontata dalla sentenza impugnata, né da quella di primo grado, ed anche la questione dei conguagli in denaro connessa alle metodologie di calcolo del diritto di abitazione del coniuge superstite assegnatario per violazione dell'art. 540 comma 2° cod. civ. oggetto del ricorso incidentale involge a monte la questione dell'assoggettabilità del compendio a divisione, e dall'altro deve comunque ritenersi rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, salvo i limiti del giudicato qui non formatosi, in quanto attinente all'oggetto della divisione, poiché le norme volte a contrastare gli abusi edilizi sono poste a tutela di un unteresse pubblico ed il difetto di regolarità urbanistico-edilizia é difetto di una condizione dell'azione (vedi in tal senso Cass. sez. un. 7.10.2019 n. 25021; Cass. 11.11.2009 n.23825). Occorre quindi tener conto della sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione n. 25021 del 7.10.2019, con cui, superandosi il precedente orientamento contrario all'applicazione delle norme sulle nullità testuali degli atti di trasferimento della proprietà di immobili abusivi agli scioglimenti di comunione, non espressamente contemplati dall'art. 40 comma 2° della L. n.47/1985, al contrario di quanto previsto dall'art. 46 comma 1° del D.P.R. n.380/2001, che espressamente li contempla, sono stati enunciati i seguenti principi di diritto (vincolanti ai sensi dell'art. 374 comma 3° c.p.c.): a) "Quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46 e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell'azione ex art. 713 c.c., sotto il profilo della "possibilità giuridica", e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell'ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell'edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio"; b) "Gli atti di scioglimento della comunione ereditaria sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità, prevista dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46, comma 1, (già L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 17) e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, per gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici o a loro parti dai quali non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria". Nel caso di specie dalla CTU dell'ing. Raoul Avizzano che é stata espletata nel giudizio di primo grado, e che risulta ora acquisita agli atti, emerge che il villino oggetto di causa, costruito nel 1958 ed oggetto della concessione in sanatoria n. 230951 del 19.5.2000, prot. n. 67437, del Comune di Roma, é stato sottoposto ad un ampliamento di 25 mq nel 2003 con la chiusura del portico verso via dell'Isola Farnese e la realizzazione di due stanzette, e nel 2007, in occasione dei lavori di ristrutturazione con la creazione di un secondo servizio igienico, e per tale ampliamento la Sinigaglia il 23.1.2004 ha presentato domanda di condono edilizio ex L.n.326/2003, ma non ha ottenuto alcun provvedimento di concessione in sanatoria. Quanto alle pertinenze, rappresentate dalla cantina/grotta e dal box auto, che insistono sul terreno circostante il villino da data anteriore al 1984 e non sono censite in catasto, non risultano presentate domande di regolarizzazione urbanistica di alcun tipo. Ne deriva che allo stato il villino con le sue pertinenze, inequivocamente a servizio del primo per la sua destinazione abitativa e per la loro ubicazione all'interno del terreno che circonda il villino, che ne rende inipotizzabile un uso separato rispetto al villino medesimo, é privo della regolarità urbanistico- edilizia. Relativamente agli ampliamenti di superficie del 2003 e del 2007 sopra indicati non risulta prodotta la concessione in sanatoria del Comune di Roma, richiesta a pena di nullità dall'art. 46 comma 1° del D.P.R. n.380/2001, ed anzi l'ente pubblico ha richiesto un'integrazione documentale ed un versamento integrativo senza ottenerli. Relativamente alle pertinenze, realizzate prima dell'entrata in vigore dell'art. 40 comma 2 della L. n. 47/1985, non risultano prodotte la domanda di concessione edilizia in sanatoria col versamento delle prime due rate dell'oblazione,ed anzi non risulta essere stata avviata alcuna pratica di regolarizzazione urbanistico-edilizia, essendovi stata solo una stima del rilevante costo di tale pratica. Non sussiste, quindi, allo stato, la condizione dell'azione della possibilità giuridica della divisione del compendio ereditario nella sua interezza (villino più pertinenze più terreno circostante), e l'eventuale ammissibilità di una divisione parziale, da ritenersi comunque ricompresa come restrizione nell'originaria domanda di divisione dell'intero compendio, ed eventuali sopravvenuti sviluppi della condizione urbanistico-edilizia del villino e delle pertinenze, dovranno essere valutati nel giudizio di rinvio. L'impugnata sentenza va quindi cassata con rinvio alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche per le spese del giudizio di legittimità. Sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dei presupposti processuali dell'obbligo di versamento, da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato se dovuto. P.Q.M. La Corte di Cassazione dichiara improcedibile il ricorso principale di Sinigaglia Maria Rosa, e pronunciando sul controricorso e ricorso incidentale di Marchetti Antonino e Marchetti Aldo, quali eredi di Sorge Angela, cassa l'impugnata sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche per le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali dell'obbligo di versamento, da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato se dovuto. Così deciso nella camera di consiglio del 21.3.2024 Il Consigliere estensore Il Presidente Vincenzo Picaro Felice Manna
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici: Franco MODUGNO, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) e L. V., con ordinanza del 5 aprile 2023, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 2023. Visti gli atti di costituzione dell'INAIL e di L. V., nonché gli atti di intervento della Federazione legali del parastato (FLEPAR) e del Presidente del Consiglio dei ministri; udita nell'udienza pubblica del 6 febbraio 2024 la Giudice relatrice Maria Rosaria San Giorgio; uditi gli avvocati Marcello Cecchetti per FLEPAR, Massimo Luciani e Antonio Pileggi per L. V., Gioia Vaccari per INAIL e l'avvocato dello Stato Fabrizio Urbani Neri per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 7 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 5 aprile 2023, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2023, il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), nella parte in cui, nell'interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità assurta a diritto vivente, non consente che la quota delle competenze e degli onorari giudizialmente liquidati in favore degli enti pubblici non economici e attribuita, ai sensi dell'art. 26, quarto comma, della stessa legge, agli appartenenti al ruolo professionale legale da essi dipendenti, sia computata, neanche in parte, nel calcolo dell'indennità di anzianità a costoro spettante. 1.1.- Il rimettente riferisce che nel giudizio pendente dinnanzi a sé l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) ha chiesto condannarsi un proprio dipendente dell'area professionale legale collocato a riposo alla restituzione di una parte di quanto allo stesso corrisposto a titolo di indennità di anzianità, sul presupposto che nel calcolo di tale trattamento erano state indebitamente considerate le competenze e gli onorari giudizialmente liquidati a favore dell'Istituto e attribuiti all'avvocato ai sensi dell'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975. A sostegno della domanda di ripetizione di indebito - prosegue il giudice a quo - l'INAIL ha dedotto che, dopo la liquidazione dell'indennità di anzianità, effettuata, peraltro con riserva, nei termini suddetti, «aveva dovuto prendere atto» che la Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza 25 marzo 2010, n. 7158, aveva affermato che dalla base di calcolo del trattamento di fine servizio per i dipendenti degli enti pubblici non economici (cosiddetto parastato) dovessero escludersi le voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari e dovevano ritenersi abrogate o illegittime, e comunque non applicabili, le disposizioni dei regolamenti che prevedevano, ai fini del trattamento di fine rapporto o di quiescenza comunque denominato, il computo delle competenze a carattere fisso e continuativo. Il rimettente ha, quindi, ricostruito con dovizia di riferimenti l'evoluzione della normativa e della cornice giurisprudenziale nella quale si è inserita la citata pronuncia nomofilattica, ricordando che, anteriormente alla riforma sulla privatizzazione del pubblico impiego, il giudice amministrativo, cui spettava la giurisdizione sui trattamenti di fine servizio in questione, riteneva che la nozione di stipendio complessivo in godimento comprendesse anche gli onorari e le competenze di cui all'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975, intravedendo in tali spettanze il corrispettivo naturale e continuativo dell'attività di patrocinio svolta dal dipendente in favore dell'ente e, dunque, una componente ordinaria della retribuzione. Il giudice a quo ha, quindi, osservato che l'interpretazione della normativa in esame è «radicalmente mutat[a]» allorquando la giurisdizione in materia è stata attribuita al giudice ordinario, ricordando, in particolare, che nella giurisprudenza di legittimità formatasi sulla base di calcolo dell'indennità di anzianità per i dipendenti degli enti pubblici non economici si sono delineati orientamenti contrapposti. Secondo un primo indirizzo interpretativo, ai dipendenti in servizio alla data di entrata in vigore della legge n. 70 del 1975 continuava ad applicarsi la disciplina prevista dagli artt. 5 e 31 del previgente decreto ministeriale 30 maggio 1969 di approvazione del «Regolamento per il trattamento di previdenza e di quiescenza del personale a rapporto d'impiego», a condizione che assicurasse un trattamento di maggior favore. Le stesse pronunce affermavano che la nozione di retribuzione contemplata dalle citate disposizioni regolamentari coincidesse con quella onnicomprensiva recepita dall'art. 2121 del codice civile, nella quale rientravano tutte le voci fisse e continuative, dovendosi intendere per tali tutte le componenti retributive non meramente contingenti, non caratterizzate, cioè, da occasionalità, transitorietà o saltuarietà. Un diverso orientamento osservava che, in seguito all'entrata in vigore dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, normativa con la quale si era inteso razionalizzare ed omogeneizzare il trattamento economico e normativo del parastato, la nozione di stipendio annuo complessivo in godimento, assunta dalla citata previsione a base di calcolo dell'indennità di anzianità, doveva intendersi nel senso di paga tabellare, non comprensiva, cioè, di tutti gli altri emolumenti erogati con continuità e a scadenza fissa. Doveva, inoltre, escludersi la perdurante operatività della previgente disciplina regolamentare, né poteva ritenersi applicabile quella dettata dall'art. 2120 cod. civ., la quale, per i dipendenti in servizio al 31 dicembre 1995, era condizionata, ai sensi dell'art. 69, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), all'intervento, non ancora realizzato, della contrattazione collettiva nazionale, restando ferma, in mancanza, la normativa in materia di trattamento di fine servizio vigente al momento della cessazione del rapporto. Il Tribunale di Roma ha, quindi, ricordato che il contrasto interpretativo è stato composto dalla richiamata sentenza delle sezioni unite civili n. 7158 del 2010, alle cui enunciazioni - con particolare riguardo alla puntualizzazione secondo la quale l'art. 13 della legge n. 70 del 1975 pone una disciplina inderogabile da interpretarsi restrittivamente, anche con riferimento al concetto di «stipendio complessivo» dalla stessa menzionato - la giurisprudenza successiva ha dato continuità. Tanto premesso, il giudice rimettente ritiene «del tutto acquisito al cd. diritto vivente» che nella base di calcolo dell'indennità di anzianità spettante ai dipendenti del parastato vadano considerati soltanto lo stipendio base e gli scatti o incrementi strettamente dipendenti dall'anzianità di servizio, senza che possa invocarsi la diversa disciplina dettata dai regolamenti o dai contratti collettivi, e che, quindi, tra le voci retributive computabili non può essere inclusa la “quota onorari” solo perché tale componente dipende anche dall'anzianità di servizio. Inoltre, detto compenso, pur essendo presumibilmente continuativo, non è fisso. Il giudice a quo ritiene che, in presenza di un orientamento ermeneutico assurto a diritto vivente, una diversa ricostruzione dell'istituto, anche se sorretta da una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina rilevante, si rivelerebbe inutile, anche in considerazione della tendenza del giudice di legittimità ad evitare, a garanzia del legittimo affidamento, mutamenti di indirizzo non prevedibili. Il rimettente passa, quindi, in rassegna una serie di possibili argomentazioni di segno contrario, per porne in rilievo l'inidoneità a sostenere una soluzione ermeneutica diversa da quella costruita dalla giurisprudenza di legittimità su «solide e non superabili basi testuali e sistemiche». Lo stesso giudice a quo reputa, invece, impossibile superare in via interpretativa il contrasto di tale diritto vivente con la Costituzione, specie «sul piano della razionalità/ragionevolezza giuridica». 1.2.- La nozione restrittiva di stipendio, argomenta il giudice a quo, «pur plausibilmente tratta dalla prassi normativa del settore», si rivelerebbe, infatti, irragionevolmente formalistica, specie in relazione alla disciplina del parastato, in base alla quale l'indennità di anzianità non ha struttura contributiva, ma è a carico dell'ente datore di lavoro, né si rinviene, rispetto a tale trattamento, una regola espressa di tassatività legale analoga a quella posta dagli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), per l'indennità di buonuscita, e dagli artt. 4 e 11 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali), per l'indennità premio di servizio. Osserva, al riguardo, il rimettente, che, nel contesto normativo in cui si è inserita la legge n. 70 del 1975, da un lato, i trattamenti economici del personale erano stabiliti in via regolamentare dagli stessi enti pubblici datori di lavoro e il concetto di stipendio «non era ancorabile ad una predefinita prassi di tipizzazione legale delle voci computabili» e, dall'altro, con l'art. 26 della legge citata, anticipando un sistema che sarebbe stato generalizzato dapprima con la legge 29 marzo 1983, n. 93 (Legge quadro sul pubblico impiego) e, in seguito, con «la riforma del pubblico impiego degli anni '90», l'assetto dei trattamenti economici era rimesso, nella sostanza, alla contrattazione collettiva. Assume, ancora, il giudice a quo che una lettura restrittiva come quella accolta dalla giurisprudenza di legittimità avrebbe potuto comprendersi in un «sistema di tassatività legale» delle voci computabili ai fini della determinazione dei trattamenti di fine servizio, ma non certo in un ambito normativo in cui, al contrario, tali trattamenti «non sono mai stati stabili e qualificati dalla legge». La disciplina censurata, continuando ad agganciare la base di calcolo dell'indennità di anzianità «ad un dato formale del 1975», così escludendo che su di essa possa incidere la contrattazione collettiva - alla quale, tuttavia, nell'attuale contesto la stessa legge attribuisce «il dominio […] sugli assetti dei trattamenti economici» -, rivelerebbe una intrinseca irrazionalità. 1.3.- Il giudice a quo ritiene che gli onorari in esame non costituiscano una componente retributiva accessoria o secondaria. Di ciò si avrebbe conferma attraverso l'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975, il quale dimostra «in modo unico ed eccezionale» che ai legali degli enti parastatali spetta una percentuale delle competenze e degli onorari, quale «naturale corrispettivo» «del tipo di attività» svolta, spettanze che non potrebbero essere introitate integralmente dall'ente datore di lavoro per il solo fatto che il difensore che lo rappresenta in giudizio percepisca uno stipendio, poiché per tale patrocinio lo stesso ente non sopporta alcun esborso. Il rimettente evidenzia, ancora, che la “quota onorari” maturata dalla parte resistente nell'ultimo anno di servizio rappresenta il sessantacinque per cento del suo trattamento economico parametrico di attività, con la conseguenza che, in caso di mancato computo della stessa ai fini dell'indennità di anzianità, risulterebbe più conveniente l'opzione per il trattamento di fine rapporto, opzione che, tuttavia, lo stesso resistente «evidentemente non ha esercitato perché quando è cessato dal servizio era del tutto pacifico, in base alla giurisprudenza amministrativa all'epoca formatasi, ed anche per l'Inail, che la “quota onorari” fosse computabile nell'indennità di anzianità, e per intero». Il giudice a quo ricorda, quindi, che, come confermato dalla giurisprudenza costituzionale, i trattamenti di fine servizio, costituendo una forma di retribuzione differita, sono presidiati dall'art. 36 Cost., con la conseguenza che nel relativo computo deve essere osservato un ragionevole criterio di proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato e, «per esso, pare implicarsi, al trattamento di attività». Lo stesso rimettente osserva, quindi, che, sebbene una ricorrente enunciazione della giurisprudenza costituzionale precisi che il rispetto dell'art. 36 Cost. debba essere valutato in rapporto al trattamento nel suo complesso, nella sentenza n. 243 del 1993 questa Corte ha desunto la illegittimità costituzionale della mancata considerazione, nel calcolo della indennità di anzianità, dell'indennità integrativa speciale dalla notevole incidenza assunta da tale componente rispetto al trattamento economico complessivo. Viene, quindi, ricordata la sentenza n. 159 del 2019, con la quale questa Corte ha chiarito che la natura di retribuzione differita dei trattamenti di fine servizio è avvalorata dalla correlazione della misura delle prestazioni alla durata del servizio e alla retribuzione di carattere continuativo percepita in costanza di rapporto e che, anche per tale emolumento, deve essere osservato il canone di proporzionalità imposto dall'art. 36 Cost., anche mediante una tendenziale, progressiva assimilazione alle regole del lavoro privato, nella quale un ruolo fondamentale assume la contrattazione collettiva. 1.4.- Ad avviso del giudice a quo, sarebbe violato anche il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in quanto risulterebbe ingiustificata la diversità della posizione di un dipendente dell'INAIL appartenente al ruolo professionale legale rispetto a quella di un altro dipendente di livello superiore, come ad esempio un dirigente, il quale, pur godendo di un trattamento economico pari a quello accordato al primo, percepisce un'indennità di anzianità maggiore soltanto perché, non svolgendo funzioni legali, non percepisce una quota delle competenze di cui all'art. 26 della legge n. 70 del 1975 e «tutto il suo trattamento economico consiste in stipendio e scatti» e «la contrattazione collettiva continua a non regolare la materia nel suo complesso, né si è mai curata […] di chiamare “stipendio a percentuale” la “quota onorari”». 1.5.- In ultimo, il giudice rimettente, a sostegno della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, deduce che, in assenza di «un intervento modificativo da parte della Corte costituzionale», la domanda restitutoria avanzata dall'INAIL sarebbe «meritevole di accoglimento», posto che l'ulteriore tema dedotto nel giudizio principale - coincidente con la lesione del legittimo affidamento ingenerato nel resistente dall'interpretazione della disposizione in esame seguita anteriormente all'arresto nomofilattico del 2010 - risulterebbe supportato da argomentazioni non decisive alla luce delle enunciazioni contenute nella sentenza n. 8 del 2023 di questa Corte. 2.- Nel presente giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi l'inammissibilità e comunque la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. 2.1.- La difesa statale eccepisce, anzitutto, che le censure di illegittimità costituzionale investono non tanto il contenuto della disposizione in scrutinio, quanto l'interpretazione datane dal diritto vivente e segnatamente da una serie di pronunce di legittimità dalle quali il rimettente potrebbe discostarsi con adeguata motivazione. Inoltre, l'Avvocatura ritiene che le questioni sollevate siano formulate genericamente. Sebbene la “quota onorari” di cui viene denunciata la mancata considerazione, da parte dell'art. 13 della legge n. 75 del 1970, ai fini del calcolo dell'indennità di anzianità, costituisca solo una delle componenti del «variegato genus delle indennità integrative e/o accessorie, riconosciute in attività ai dipendenti degli enti pubblici non economici», le censure del rimettente non investirebbero la nozione di retribuzione complessiva, comprensiva, cioè, di tutte le diverse indennità. 2.2.- Nel merito, la difesa dello Stato assume la non fondatezza della questione sollevata in riferimento all'art. 36 Cost., osservando che la nozione di «stipendio complessivamente in godimento» che l'art. 13 della legge n. 70 del 1975 pone a base del computo dell'indennità di anzianità costituisce una misura proporzionale al lavoro svolto e sufficiente al mantenimento dignitoso del lavoratore e della sua famiglia, a prescindere dai criteri di computo e dall'ammontare delle singole voci. Sarebbe destituita di fondamento anche la censura con la quale è denunciato il vulnus all'art. 3 Cost. per la disparità di trattamento tra i professionisti legali dell'INAIL e i dirigenti dello stesso ente, non essendo le due categorie poste a confronto sottoposte alla medesima disciplina. 3.- Nel presente giudizio si è costituito anche l'INAIL, ricorrente nel processo principale, chiedendo dichiararsi l'inammissibilità e comunque la non fondatezza delle questioni. 3.1.- L'Istituto imputa, anzitutto, al giudice rimettente di non avere optato per l'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in scrutinio, dallo stesso ritenuta plausibile, ma non percorribile in quanto in contrasto con il principio di diritto espresso dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione nella ricordata sentenza n. 7158 del 2010. A tal fine, la parte osserva che una questione di legittimità costituzionale può ritenersi ammissibile soltanto laddove una soluzione ermeneutica costituzionalmente compatibile risulti impossibile o comunque ardua da sostenere. Le odierne censure sarebbero inammissibili anche perché il giudice a quo avrebbe omesso ogni deduzione in ordine al profilo della provenienza da terzi delle somme spettanti agli avvocati degli enti pubblici non economici a titolo di onorari. L'esborso di tali spettanze è effettuato dalle parti soccombenti nelle cause in cui è parte l'ente parastatale e, per quanto riguarda l'INAIL, il relativo ammontare è attribuito al Fondo previsto dalla deliberazione del Commissario straordinario di tale istituto 25 settembre 2003, n. 788, recante il «Regolamento per la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati», dal quale sono tratti gli importi da versare ai singoli avvocati. Per converso, l'indennità di anzianità è a totale carico dell'ente datore di lavoro. L'INAIL ravvisa un ulteriore profilo di inammissibilità nell'avere il giudice a quo richiesto un intervento di questa Corte «di modifica» dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, in forza del quale il termine “stipendio”, ivi previsto come base di calcolo dell'indennità di anzianità, sia sostituito con quello di “retribuzione” complessivamente in godimento, comprensiva, quindi, degli emolumenti versati agli avvocati per onorari professionali, senza, tuttavia, considerare i compensi professionali agli stessi erogati mediante esborsi a carico dell'ente pubblico per le transazioni successive alle sentenze favorevoli o alla compensazione delle spese di lite, come stabilito dalla citata deliberazione dell'INAIL n. 788 del 2003. L'intervento modificativo auspicato dal rimettente sarebbe inammissibile anche perché determinerebbe effetti che travalicano i limiti delle censure in scrutinio, in quanto coinvolgerebbe l'intero genus degli emolumenti integrativi o accessori riconosciuti in attività ai dipendenti degli enti pubblici non economici. 3.2.- Nel merito, l'INAIL argomenta la non fondatezza della questione sollevata in riferimento all'art. 36 Cost. richiamando la giurisprudenza costituzionale secondo la quale i criteri di sufficienza e di proporzionalità desumibili da tale precetto costituzionale sono inscindibilmente connessi, di modo che la relativa verifica esige una valutazione globale e di sintesi dell'intero assetto retributivo garantito al lavoratore, a prescindere dai criteri di computo dell'ammontare delle singole voci. Ad avviso dell'Istituto, la nozione di stipendio complessivo in godimento - e non quella di retribuzione, comprensiva di elementi aggiuntivi e accessori -, sulla quale la disposizione in esame basa il calcolo dell'indennità di anzianità, da un lato, sarebbe coerente con il potere del legislatore di tenere conto delle esigenze di finanza pubblica e, dall'altro, non inciderebbe sulla sufficienza e sulla proporzionalità della retribuzione rispetto al lavoro svolto, dovendo la verifica di tali canoni investire il trattamento economico nella sua complessità e non le singole voci di cui si compone. Quanto alla questione relativa alla dedotta violazione dell'art. 3 Cost., l'INAIL rileva l'assenza di adeguata motivazione a sostegno sia della censura di irragionevolezza e di irrazionalità della disposizione in scrutinio, sia della denunciata disparità di trattamento. 3.3.- Nell'imminenza dell'udienza pubblica l'INAIL ha depositato una memoria illustrativa con la quale ha confermato le conclusioni assunte nell'atto di costituzione, precisandole e corroborandole con ulteriori richiami giurisprudenziali. 4.- Si è costituito in giudizio anche L. V., resistente nel processo principale, chiedendo l'accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. 4.1.- La parte, dopo aver dettagliatamente descritto i termini del giudizio principale e ricomposto il quadro normativo di riferimento, ha svolto diffuse argomentazioni a sostegno dell'ammissibilità delle questioni sollevate. 4.2.- Nel merito, la parte ripercorre, prestandovi adesione, le ragioni addotte nell'ordinanza di rimessione a sostegno delle violazioni prospettate. Quanto alla censura formulata in riferimento all'art. 36 Cost., L. V. ricorda come questa Corte abbia ricondotto le indennità di fine servizio nel «paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale», costituendo detti trattamenti «una componente del compenso conquistato “attraverso la prestazione dell'attività lavorativa e come frutto di essa” (sentenza n. 106 del 1996)» (vengono citate, in particolare, le sentenze n. 159 del 2019 e n. 130 del 2023). Alla luce di tale inquadramento, la disciplina dei trattamenti di fine servizio, per essere rispettosa dei principi enunciati dall'art. 36 Cost., dovrebbe garantire la proporzionalità tra detti emolumenti e la retribuzione di carattere continuativo percepita dall'avente diritto in costanza di rapporto di lavoro. L'esclusione della “quota onorari” dalla base di calcolo dell'indennità di anzianità sancita dall'interpretazione dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975 invalsa nel diritto vivente, sarebbe, pertanto, «assolutamente incomprensibile». Gli onorari - argomenta la parte - sono parte della retribuzione ordinariamente spettante agli avvocati dell'INAIL (viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 33 del 2009) e costituiscono una componente del loro trattamento economico complessivo fissa nell'an e variabile soltanto nel quantum. Il contrasto con l'art. 36 Cost. della esclusione degli stessi operata dal diritto vivente si manifesterebbe con particolare evidenza nel caso in scrutinio, nel quale la “quota onorari” spettante a L. V. rappresenta oltre il cinquanta per cento del totale della retribuzione dallo stesso percepita in costanza di rapporto. Pertanto, prosegue la parte, la mancanza di proporzionalità tra retribuzione e trattamento di fine servizio risulterebbe, nella specie, palese, avuto riguardo alle precisazioni fornite da questa Corte nella sentenza n. 243 del 1993 nel dichiarare la illegittimità costituzionale della mancata inclusione dell'indennità integrativa speciale nel computo dei trattamenti di fine servizio. La citata pronuncia - ricorda L. V. - ha rilevato che tale voce retributiva è divenuta nel tempo sempre più consistente, così che la sua esclusione dal computo dell'indennità di fine rapporto ha provocato effetti di depauperamento di tali trattamenti sempre più significativi. La parte ha, quindi, ripercorso le motivazioni addotte dal giudice rimettente a sostegno delle censure di irragionevolezza e irrazionalità della disposizione in scrutinio e di disparità di trattamento, corroborandole con ulteriori argomenti di segno adesivo. Viene, infine, evidenziato che l'interpretazione nomofilattica oggetto di censura ha anche determinato la lesione, in contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., della legittima aspettativa della parte resistente nel giudizio a quo, la quale è oggi chiamata a restituire all'INAIL una somma (euro 272.527,70), pari a circa il settanta per cento del trattamento di fine servizio originariamente percepito, a fronte della scelta, che anteriormente alla citata pronuncia della Corte di cassazione, n. 7158 del 2010, appariva la più vantaggiosa, di non esercitare l'opzione per il trattamento di fine rapporto. 4.3.- In vista dell'udienza pubblica, L. V. ha depositato una memoria illustrativa con la quale ha confermato le conclusioni assunte nell'atto di costituzione e ha replicato alle deduzioni svolte dalla difesa statale e dall'INAIL. 5.- Nel giudizio di legittimità costituzionale ha spiegato intervento adesivo la Federazione legali del parastato - FLEPAR. 5.1.- L'interveniente ha premesso di essere un'associazione federale senza fine di lucro a carattere sindacale il cui scopo è quello di tutelare la dignità, l'autonomia professionale, lo stato giuridico, nonché i diritti economici dei legali delle associazioni aderenti, di essere costantemente presente nello svolgimento delle trattative con l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e di aver sottoscritto diversi contratti collettivi nazionali. A fondamento della propria legittimazione a intervenire, FLEPAR ha dedotto di essere titolare di un interesse, diverso da quello legato alla rappresentanza sindacale, «profondamente conformato» dalla disposizione in esame e inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto nel giudizio principale. A parere dell'associazione, le questioni in scrutinio involgerebbero la definizione dell'ambito riservato all'autonomia collettiva in materia di trattamento economico dei dipendenti degli enti pubblici non economici e, in particolare, la questione se, alla stregua dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, i contratti collettivi possano disciplinare la sola retribuzione di attività, ovvero se agli stessi sia demandata anche la regolamentazione del trattamento di fine servizio. Dal che deriverebbe, a parere dell'associazione interveniente, che, per effetto di una eventuale decisione di accoglimento, gli accordi sindacali dalla stessa sottoscritti in attuazione dell'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 e dell'art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, «concorrerebbero a determinare anche la retribuzione differita degli avvocati dipendenti degli enti del c.d. “parastato”». Inoltre, secondo FLEPAR, una pronuncia di accoglimento inciderebbe, al contempo, sulla contrattazione collettiva futura e, in particolare, sul modo in cui l'associazione interveniente, così come le altre organizzazioni sindacali, «dovranno modulare la propria attività per il tempo a venire». 5.2.- Nel merito, l'interveniente ha chiesto accogliersi le questioni di legittimità costituzionale sollevate, svolgendo articolate argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili, dal punto di vista contenutistico, a quelle sviluppate dalla parte resistente nel giudizio a quo. 5.3.- Tali deduzioni sono state ulteriormente precisate mediante la memoria illustrativa depositata nell'imminenza dell'udienza pubblica. 6.- In ultimo, il 20 luglio 2023 l'Associazione nazionale avvocati e procuratori Inps - FLEPAR INPS ha depositato un'opinione scritta quale amicus curiae di segno adesivo alle censure svolte dal giudice rimettente. 6.1.- L'associazione ha premesso di aderire alla Confederazione di dirigenti della Repubblica - CODIRP, che rappresenta i dirigenti delle funzioni centrali, dell'Area di istruzione e ricerca e della sanità, di non perseguire fini di lucro e di avere carattere apartitico e sindacale. L'amicus curiae ha fatto, inoltre, rilevare che tra gli scopi istituzionali consacrati nel proprio statuto vi è quello di tutelare e garantire il carattere, le prerogative e le funzioni professionali dell'avvocatura istituzionale, nonché di salvaguardare gli interessi morali ed economici degli avvocati dell'INPS. 6.2.- L'associazione ha, quindi, svolto argomentazioni a sostegno sia dell'ammissibilità sia della fondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, soffermandosi, in particolare, sulla natura di retribuzione differita dell'indennità di anzianità di cui al censurato art. 13 della legge n. 70 del 1975 e sulla contrarietà al principio di proporzionalità ex art. 36 Cost. e irragionevolezza della mancata inclusione della “quota onorari” nel calcolo di tale trattamento. 6.3.- L'opinione è stata ammessa con decreto del Presidente della Corte del 27 dicembre 2023. Considerato in diritto 1.- Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975 - nell'interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, costituente diritto vivente -, nella parte in cui non consente che la quota delle competenze e degli onorari giudizialmente liquidati in favore degli enti pubblici non economici, attribuita dall'art. 26, quarto comma, della stessa legge agli appartenenti al ruolo professionale legale da essi dipendenti, sia computata, neanche in parte, nel calcolo dell'indennità di anzianità a costoro spettante. Alla stregua del principio di diritto enunciato dalla sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione n. 7158 del 2010, infatti, la nozione di retribuzione che la disposizione in scrutinio pone a base del computo della suddetta indennità coincide con il solo stipendio tabellare e la sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari, con esclusione di ogni altro emolumento accessorio, e non è derogabile dalla fonte regolamentare, né dall'autonomia collettiva. 1.1.- A giudizio del rimettente, così restrittivamente interpretata, la previsione censurata presenta, anzitutto, un difetto di ragionevolezza e di razionalità, in contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto pone una disciplina irragionevolmente formalistica e non modificabile dalla contrattazione collettiva, nonostante la stessa legge n. 70 del 1975 riservi proprio alla fonte negoziale la regolamentazione del trattamento economico di attività. 1.2.- L'interpretazione dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975 cristallizzata dal diritto vivente realizzerebbe, altresì, una ingiustificata disparità di trattamento tra la posizione del dipendente di un ente pubblico non economico - nella specie l'INAIL - appartenente al ruolo professionale legale e quella di un altro dipendente dello stesso ente di livello superiore, come un dirigente, il quale, pur godendo di una retribuzione pari a quella riconosciuta al primo, percepisce un'indennità di anzianità più elevata, soltanto perché, non svolgendo funzioni legali, non riceve una quota delle competenze di cui all'art. 26 della legge citata e «tutto il suo trattamento economico consiste in stipendio e scatti». 1.3.- La disciplina censurata, come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, confliggerebbe, infine, con l'art. 36 Cost., in quanto escluderebbe «ogni ragionevole proporzione» tra l'indennità di anzianità spettante al dipendente parastatale appartenente al ruolo professionale legale e il trattamento economico di attività dallo stesso percepito nel corso e al termine della sua carriera. 2.? Preliminarmente, va ribadita la inammissibilità dell'intervento ad adiuvandum spiegato da FLEPAR, per le ragioni illustrate nell'ordinanza di cui è stata data lettura in udienza, allegata alla presente pronuncia. 3.- Ancora in via preliminare, deve escludersi la fondatezza delle eccezioni di inammissibilità formulate, in termini pressoché coincidenti, dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, e dall'INAIL, ricorrente nel giudizio principale costituitasi nel processo costituzionale. 3.1.- La difesa statale e l'INAIL rilevano, in primo luogo, che le censure di illegittimità costituzionale non investono il contenuto della disposizione in scrutinio, ma l'interpretazione datane dal diritto vivente, dalla quale, tuttavia, il giudice rimettente avrebbe potuto discostarsi con adeguata motivazione. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in presenza di uno stabile approdo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità, il giudice a quo, pur essendo libero di non uniformarvisi e di proporre una sua diversa ricostruzione (sentenza n. 95 del 2020), ha, in alternativa, la facoltà di assumere l'interpretazione censurata in termini di diritto vivente e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (sentenza n. 243 del 2022), senza che gli si possa imputare di non aver seguito una diversa interpretazione, più aderente ai parametri stessi (sentenza n. 180 del 2021), poiché la norma vive ormai nell'ordinamento in modo così radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l'intervento del legislatore o di questa Corte (sentenze n. 141 del 2019 e n. 191 del 2016). Nel caso di specie, l'esistenza di un diritto vivente è da ritenersi incontestabile - posto che il significato della disposizione qui censurato è stato indicato dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione mediante un'interpretazione poi stabilizzatasi nella giurisprudenza di legittimità -, così che del tutto plausibilmente il rimettente ha ritenuto inutile proporre una diversa esegesi con esso incompatibile. 3.2.- Non è fondata neppure l'eccezione con la quale l'Avvocatura generale dello Stato e l'INAIL imputano al giudice a quo di avere comunque prospettato una soluzione ermeneutica diversa da quella nomofilattica, senza, tuttavia, farla propria, ma chiedendo a questa Corte, alternativamente, di avallarla attraverso una pronuncia di rigetto ovvero di dichiarare l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata, ove interpretata secondo il diritto vivente. Il rimettente mostra, al contrario, di condividere, «sul piano delle tecniche dell'esegesi ordinaria», la ricostruzione assurta a diritto vivente, ritenendola sorretta da «solide e non superabili basi testuali e sistemiche», e tuttavia dubita che il significato dalla stessa attribuito alla previsione in scrutinio sia compatibile con i precetti costituzionali evocati. 3.3.- Non merita accoglimento neanche il rilievo di inammissibilità a sostegno del quale il Presidente del Consiglio dei ministri e l'INAIL deducono che il giudice a quo non avrebbe considerato che l'emolumento di cui auspica l'inclusione nella base di calcolo dell'indennità di anzianità costituisce soltanto una delle componenti del «variegato genus delle indennità integrative e/o accessorie, riconosciute in attività ai dipendenti degli enti pubblici non economici». La limitazione della richiesta additiva agli onorari ex art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 risulta, invece, coerente con il thema decidendum del giudizio principale, in cui oggetto di discussione è la mancata considerazione di tale specifica componente retributiva ai fini del computo dell'indennità di anzianità liquidata ad un dipendente del ruolo professionale legale dell'INAIL collocato a riposo. 3.4.- Deve essere, ancora, disattesa l'eccezione con la quale l'INAIL contesta l'incompletezza del petitum additivo, sul rilievo che nella integrazione normativa auspicata dal rimettente non sarebbero compresi i compensi professionali per le transazioni successive alle sentenze favorevoli o alla compensazione delle spese di lite previsti dalla richiamata deliberazione del Commissario straordinario dell'INAIL n. 788 del 2003. La circostanza che nell'atto di promovimento la “quota onorari” sia stata individuata mediante il riferimento al solo art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 non implica che il giudice a quo abbia limitato il richiesto intervento additivo alle sole competenze e agli onorari liquidati giudizialmente in favore dell'ente ivi contemplati, senza implicitamente considerare anche le successive modifiche normative che hanno ampliato l'emolumento in esame, aggiungendovi le competenze legate alle cause nelle quali l'amministrazione non sia rimasta soccombente e che siano definite con compensazione o transatte senza spese a carico della controparte. 3.5.- Da ultimo, contrariamente a quanto sostenuto dall'INAIL, il mancato sviluppo, nell'ordinanza di rimessione, di specifiche deduzioni sulla provenienza da terzi delle competenze e degli onorari di cui si tratta, investendo un aspetto di rilevanza non decisiva ai fini dell'inquadramento dell'indennità di anzianità ex art. 13 della legge n. 70 del 1975, non si traduce in un deficit motivazionale tale da comportare l'inammissibilità delle questioni sollevate. 4.- Passando all'esame del merito, allo scrutinio delle questioni di legittimità costituzionale è opportuno premettere la ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inscrive la disciplina oggetto di censura. 4.1.- La legge n. 70 del 1975 detta una riforma organica dell'ordinamento degli enti pubblici non economici, cosiddetti parastatali, ridefinendo, tra l'altro, gli ambiti della disciplina del personale rispettivamente riservati alla legge, alla contrattazione collettiva ed ai regolamenti dei singoli enti. 4.1.1.- Per quanto riguarda il trattamento di fine servizio, le previsioni che la legge n. 70 del 1975 dedica all'indennità di anzianità per i dipendenti del parastato sono compendiate nell'art. 13, qui in scrutinio, mentre alla fonte regolamentare è rimessa la definizione di soli aspetti marginali e, in particolare, del riscatto di anni di servizio ai fini del computo dell'emolumento. Il richiamato articolo, al primo comma, prevede che l'indennità di anzianità, che è a totale carico dell'ente pubblico non economico, spetta al personale da questo dipendente - nel quale vanno inclusi, ai sensi del terzo comma dello stesso articolo, anche i dipendenti a contratto e, proporzionalmente alla durata del servizio, il personale straordinario assunto temporaneamente per le esigenze di carattere eccezionale indicate all'art. 6 della medesima legge - «[a]ll'atto della cessazione dal servizio». Lo stesso terzo comma dispone, inoltre, che l'indennità è determinata in misura «pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo complessivo in godimento, qualunque sia il numero di mensilità in cui esso è ripartito, quanti sono gli anni di servizio prestato», per tale intendendosi, ai sensi del comma successivo, «quello effettivamente prestato senza interruzione presso l'ente di appartenenza, nonché i periodi la cui valutazione ai fini stessi è ammessa esplicitamente dalle leggi vigenti, nonché i periodi di cui il regolamento del singolo ente ammetta il riscatto a carico totale del dipendente». 4.1.2.- Tale indennità compete al personale degli enti pubblici non economici non soggetti, ratione temporis, alla riforma del pubblico impiego avviata con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e, segnatamente, ai dipendenti, già occupati alla data del 31 dicembre 1995, che non abbiano optato per la trasformazione della suddetta indennità nel trattamento di fine rapporto proprio dei lavoratori del settore privato, esercitando la facoltà loro riconosciuta dall'art. 59, comma 56, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica). L'indennità di anzianità, al pari dell'indennità di buonuscita per i dipendenti civili e militari dello Stato disciplinata dal d.P.R. n. 1032 del 1973, e l'indennità premio di servizio per i dipendenti degli enti locali di cui alla legge n. 152 del 1968, si inscrive, pertanto, nel novero dei trattamenti di fine servizio per i dipendenti pubblici - come il resistente nel giudizio principale - soggetti alla disciplina, di matrice pubblicistica, anteriore alla privatizzazione del pubblico impiego. 4.2.- Anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 70 del 1975, il trattamento di fine servizio per i dipendenti del parastato era disciplinato dai regolamenti dei singoli enti. Per quanto concerne l'INAIL, il regolamento per il trattamento di previdenza e di quiescenza del personale a rapporto d'impiego, approvato con d.m. 30 maggio 1969, all'art. 31, primo comma, prevedeva che «[a]ll'impiegato che cessa dal servizio con diritto alla pensione è corrisposta in aggiunta alla pensione, a carico dell'Istituto, una indennità di buonuscita di importo pari a tanti dodicesimi dell'ultima retribuzione annua spettante per quanti sono gli anni di servizio utile ai fini del trattamento di quiescenza». La nozione di retribuzione rilevante ai fini del calcolo della buonuscita era definita dall'art. 5 nei seguenti termini: «[a]gli effetti del presente Regolamento si intende per “retribuzione” la somma delle seguenti competenze: - stipendio lordo calcolato per 15 mensilità annue; - eventuali assegni personali pensionabili, nonché altre eventuali competenze di carattere fisso e continuativo che siano riconosciuti utili ai fini del trattamento di previdenza e di quiescenza con delibera del Consiglio di amministrazione da assoggettarsi all'approvazione del Ministero del lavoro e della previdenza sociale di concerto con quello del tesoro». 4.3.- In tale cornice normativa la giurisprudenza amministrativa, alla quale, all'epoca, era devoluta la giurisdizione in materia di pubblico impiego - in seguito attribuita al giudice ordinario - affermava che le somme corrisposte ai legali dipendenti dell'INAIL «a titolo di riparto del fondo competenze di procuratore ed onorari di avvocato» dovessero essere considerate nella base di calcolo dell'indennità di buonuscita (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 5 giugno 1979, n. 433). 4.3.1.- Dopo la riforma del parastato, i giudici amministrativi, riconoscendo alla nozione di «stipendio annuo complessivo in godimento» recepita dall'art. 13 della legge n. 70 del 1975 una significativa ampiezza contenutistica, hanno continuato ad includere la cosiddetta “quota onorari” di cui all'art. 26, quarto comma, della stessa legge nella base di calcolo dell'indennità di anzianità. Si osservava che gli onorari e le competenze liquidate giudizialmente in favore dell'ente costituissero una componente ordinaria della retribuzione dei legali degli enti pubblici avente «la sua ragion d'essere nella particolare posizione funzionale dei dipendenti in questione, caratterizzata dalla duplice qualità di impiegato pubblico e di professionista legale, sottoposta in quanto tale ad uno statuto generale» (Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima, sentenza 19 febbraio 1986, n. 234). La giurisprudenza amministrativa intravedeva nella “quota onorari” «la funzione di vero e proprio corrispettivo di prestazioni lavorative e [il] carattere di fissità e continuità» (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 9 marzo 2000, n. 1267) e, quindi, in definitiva, una integrazione dello stipendio (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisioni 12 maggio 1986, n. 379; 23 febbraio 1982, n. 78). 4.4.- Le prime decisioni di legittimità registratesi successivamente alla devoluzione al giudice ordinario della cognizione delle controversie sul pubblico impiego, in continuità con la precedente giurisprudenza amministrativa, hanno affermato che nella base di calcolo dell'indennità di anzianità devono essere considerate, oltre allo stipendio in senso stretto, tutte le voci retributive fisse e continuative e, dunque, per quanto concerne gli appartenenti al ruolo professionale legale, anche le competenze di cui all'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975. Tale orientamento muoveva dalla premessa secondo cui l'indennità di anzianità ha natura retributiva, e non previdenziale, ed esibisce una marcata affinità con l'omonimo istituto privatistico disciplinato dagli artt. 2120 e 2121 cod. civ., nella versione anteriore alle modifiche apportate dalla legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica). Secondo i giudici di legittimità, con l'istituto privatistico l'indennità ex art. 13 della legge n. 70 del 1975 condivideva anche la base di calcolo, coincidente con la nozione onnicomprensiva di retribuzione, accolta dalla giurisprudenza, inclusiva di tutti gli assegni a carattere fisso e continuativo. In tale ampia nozione di retribuzione utile al calcolo del trattamento di fine servizio venivano incluse anche le componenti retributive correlate alla professionalità del lavoratore, non rilevando l'eventuale non definitività dell'attribuzione patrimoniale. In sintesi, ne era esclusa soltanto la retribuzione contingente, caratterizzata, cioè, dalla occasionalità, dalla transitorietà o saltuarietà (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 23 aprile 2007, n. 9551; 13 aprile 2007, n. 8923; 28 marzo 2007, n. 7596 e 20 marzo 2007, n. 6633). 4.4.1.- Successivamente, all'interno della sezione lavoro della Corte di cassazione si è delineato un orientamento di segno contrario. Le pronunce espressive di tale nuovo orientamento sottolineavano che la legge n. 70 del 1975, da un lato, aveva demandato alla contrattazione collettiva la disciplina del trattamento economico di attività, imponendo a ciascun ente di modificare i regolamenti organici vigenti in conformità alle proprie disposizioni entro sei mesi dall'approvazione degli accordi sindacali e vietando, all'art. 26, l'introduzione, in sede di contrattazione collettiva, di emolumenti accessori o integrativi; dall'altro, per quanto concerne il trattamento di quiescenza, aveva dettato essa stessa, all'art. 13, la disciplina applicabile. In tal modo essa aveva determinato l'abolizione delle diverse deliberazioni dei consigli di amministrazione dei singoli enti, posto che la perdurante operatività dei trattamenti ivi previsti si sarebbe posta «in insanabile contrasto con la lettera e la finalità della legge di razionalizzazione ed omogeneizzazione, pena, contrariamente opinando, la completa inutilità della legge medesima» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 9 maggio 2008, n. 11603; in senso conforme, sentenze 14 luglio 2008, n. 19299; 10 luglio 2008, n. 19014; 7 luglio 2008, n. 18587; 9 maggio 2008, n. 11604 e 7 aprile 2008, n. 8984). In aggiunta, con specifico riferimento al trattamento di fine servizio, le pronunce in esame ritenevano che la nozione di «stipendio annuo complessivo in godimento», che l'art. 13 della legge n. 70 del 1975 assume a parametro di calcolo di tale prestazione, includesse soltanto la retribuzione base, o paga tabellare, oltre al trattamento riferito all'anzianità acquisita - come reso evidente dall'uso del termine “complessivo” - con esclusione di ogni altra indennità o emolumento. 4.5.- Il contrasto interpretativo è stato composto dalle Sezioni unite civili con la sentenza n. 7158 del 2010, la quale, aderendo al secondo degli orientamenti di cui si è dato conto, ha enunciato il principio di diritto secondo il quale l'art. 13 della legge n. 70 del 1975 di riordinamento degli enti pubblici non economici e del rapporto di lavoro del relativo personale detta una disciplina del trattamento di quiescenza o di fine rapporto - rimasta in vigore, pur dopo la contrattualizzazione dei rapporti di pubblico impiego, per i dipendenti in servizio alla data del 31 dicembre 1995 che non abbiano optato per il trattamento di fine rapporto di cui all'art. 2120 cod. civ. - non derogabile, neanche in senso più favorevole ai dipendenti, costituita dalla previsione di un'indennità di anzianità pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo in godimento quanti sono gli anni di servizio prestato. Rimane rimessa all'autonomia regolamentare dei singoli enti solo l'eventuale disciplina della facoltà, per il dipendente, di riscattare, a totale suo carico, periodi diversi da quelli di effettivo servizio. Il riferimento, quale base di calcolo, allo stipendio complessivo annuo - hanno, inoltre, chiarito le sezioni unite della Corte di cassazione - ha valenza tecnico-giuridica, sicché deve ritenersi esclusa la computabilità di voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari e devono ritenersi abrogate o illegittime, e comunque non applicabili, le disposizioni di regolamenti dei singoli enti che prevedano, ai fini del trattamento di quiescenza, il computo delle competenze a carattere fisso e continuativo. 4.5.1.- La giurisprudenza successiva ha dato continuità a tali enunciazioni (Corte di cassazione, sezione sesta, sottosezione lavoro, ordinanza 25 febbraio 2011, n. 4749 e sezione lavoro, ordinanza 3 marzo 2020, n. 5892), precisando coerentemente che, nella base di calcolo dell'indennità di anzianità degli appartenenti al ruolo professionale degli enti pubblici non economici, non deve essere inclusa la quota degli onorari e delle competenze agli stessi spettante ai sensi dell'art. 26 della legge n. 70 del 1975 (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 9 marzo 2012, n. 3775). 5.- Tutto ciò premesso, nel merito, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., sotto i diversi profili dedotti, non è fondata. 5.1.- Deve, anzitutto, escludersi che la nozione di stipendio assunta dalla disposizione in esame a parametro di calcolo dell'indennità di anzianità così come ricostruita dalla giurisprudenza di legittimità, continuando ad ancorare la determinazione dell'indennità di anzianità «ad un dato formale del 1975», senza che su di essa possa incidere la contrattazione collettiva, alla quale, tuttavia, nell'attuale contesto la stessa legge attribuisce «il dominio […] sugli assetti dei trattamenti economici», riveli una intrinseca irrazionalità. Il concetto di stipendio utile alla determinazione dell'indennità di anzianità indicato dal diritto vivente è coerente con il contenuto precettivo e con la ratio della disposizione in scrutinio e concorda con la logica di fondo della legge n. 70 del 1975 e, più in generale, dell'ordinamento del pubblico impiego non contrattualizzato in cui essa si inscrive. Parimenti rispondente alle linee sistematiche di tali discipline è l'affermazione di principio secondo la quale la regola espressa dall'art. 13 della legge n. 70 del 1975 non può essere derogata dalla fonte regolamentare, né dall'autonomia collettiva. 5.1.1.- Occorre considerare che, come risulta dalla relazione illustrativa della proposta di legge, presentata alla Camera dei deputati il 24 giugno 1972, la riforma del parastato si prefiggeva di «mettere ordine» in un settore caratterizzato da un elevatissimo numero di enti proliferati per effetto di una legislazione episodica e frammentaria, sopprimendo gli enti superflui o che avevano esaurito la loro funzione, unificando quelli che svolgevano in modo non coordinato le stesse funzioni e ristrutturando gli enti che dovevano adeguare l'organizzazione e il personale alle nuove funzioni. Riguardo agli enti conservati dal riassetto, il legislatore intendeva ricondurre a principi unitari l'ordinamento del personale da essi dipendente, definendone lo stato giuridico e previdenziale e uniformandone il trattamento retributivo. A tal fine, la legge n. 70 del 1975 ha ripartito la disciplina del personale tra la fonte legale, la contrattazione collettiva e i regolamenti dei singoli enti, riconoscendo alla prima un ruolo primario - come reso evidente dal tenore dall'art. 1, primo comma, a mente del quale «[l]o stato giuridico e il trattamento economico d'attività e di fine servizio del personale dipendente dagli enti pubblici individuati ai sensi dei seguenti commi sono regolati in conformità della presente legge» - e lasciando alla fonte regolamentare uno spazio soltanto residuale. Agli accordi sindacali l'art. 26, primo comma, della legge n. 70 del 1975 ha, invece, demandato la regolamentazione del trattamento economico di attività, cui si aggiunge lo stato giuridico per la parte non prevista dalla stessa legge e non affidata ai regolamenti organici degli enti. 5.1.2.- Per quanto riguarda il trattamento di quiescenza, la disciplina dell'indennità di anzianità, come ricordato, è quasi integralmente compendiata nell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, posto che alla fonte regolamentare è rimessa la definizione di soli aspetti marginali - e, in particolare, del riscatto degli anni di servizio ai fini del computo del trattamento -, mentre non viene riconosciuta alcuna competenza alla contrattazione collettiva. Tale scelta legislativa si inscrive coerentemente nella cornice che ha fatto da sfondo alla riforma del 1975, nella quale il processo legislativo che avrebbe condotto alla privatizzazione del pubblico impiego era appena iniziato e, come confermato dalla ricordata relazione illustrativa della proposta di legge, ancora radicata era la concezione pubblicistica del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. La predeterminazione legale delle modalità di calcolo del trattamento di quiescenza risponde ad esigenze di controllo e di prevedibilità della spesa pubblica, tenuto anche conto che l'indennità di anzianità per i dipendenti del parastato, a differenza degli omologhi emolumenti riconosciuti ai dipendenti delle amministrazioni dello Stato e degli enti territoriali, è a totale carico dell'ente datore di lavoro. 5.2.- Ciò posto, la qualificazione giuridica cristallizzatasi nel diritto vivente oggetto di censura valorizza congruamente le specificità connotative del termine «stipendio» impiegato nell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, il quale non può essere considerato come sinonimo di retribuzione, ma deve essere inteso nella sua specifica valenza assunta nel contesto della legge di riforma del parastato e, più in generale, nella disciplina del pubblico impiego. Nonostante il rinvio all'autonomia collettiva, la legge n. 70 del 1975, nella prospettiva di rendere omogenee le condizioni economiche dei dipendenti di tutti gli enti interessati dal riordino, delinea essa stessa i tratti essenziali della struttura della retribuzione. Anzitutto, l'art. 17, primo comma, stabilendo che «[n]ell'ambito di ciascuna qualifica sono previste, oltre ai normali scatti di anzianità, una o più classi di stipendio che vengono raggiunte, in base all'anzianità effettiva di servizio, dai dipendenti che non abbiano subito alcuna delle sanzioni disciplinari di cui all'articolo 11», enuclea una specifica nozione di stipendio, configurandola come una posta retributiva fissa commisurata alla qualifica del dipendente e alla classe dallo stesso raggiunta in base all'anzianità effettiva di servizio e maggiorata degli scatti di anzianità. L'art. 26, secondo comma, prescrive, poi, che la disciplina collettiva del trattamento economico si uniformi a «norme di chiarezza in modo che ai dipendenti degli enti sia assicurata parità di trattamento economico e parità di qualifica indipendentemente dall'amministrazione di appartenenza e in modo da essere finalizzato al perseguimento di una progressiva perequazione delle condizioni giuridiche ed economiche di tutti i dipendenti pubblici». Al medesimo obiettivo di chiarezza, oltre che di prevedibilità della spesa per il personale, risponde anche il successivo terzo comma, il quale vieta l'attribuzione di «trattamenti economici accessori ovvero trattamenti integrativi relativi a singoli enti o di categorie di enti», facendo salve le quote di aggiunta di famiglia e l'indennità integrativa speciale «nella misura e con le forme vigenti per il personale civile dello Stato». Un'ulteriore eccezione al divieto di riconoscimento di emolumenti accessori si rinviene nel quarto comma del medesimo art. 26, ora in esame, il quale riconosce ai dipendenti appartenenti al ruolo professionale legale una quota degli onorari e delle competenze liquidate giudizialmente in favore dell'ente, demandandone la determinazione all'autonomia collettiva. 5.3.- La nozione di stipendio utile ai fini dell'indennità di anzianità elaborata dal diritto vivente collima anche con le esigenze di uniformità e di razionalizzazione che permeano le previsioni che detta legge dedica al trattamento di quiescenza. Essa si concilia, in primo luogo, con la tecnica di computo dell'indennità di anzianità configurata dall'art. 13 della legge n. 70 del 1975. Il trattamento di fine servizio dei dipendenti del parastato, a differenza della buonuscita dei dipendenti civili e militari dello Stato e dell'indennità premio di servizio per il personale degli enti locali, non si basa su una contribuzione del lavoratore e dell'ente datore di lavoro, né sulla sommatoria delle quote di retribuzione annuale e sul loro accantonamento in senso tecnico - come quello che si rinviene nel trattamento di fine rapporto ex art. 2120 cod. civ. -, ma sulla moltiplicazione tra l'importo dello stipendio complessivo, incrementato, cioè, degli scatti di anzianità e degli emolumenti ad essi similari, in godimento al momento della cessazione dall'impiego e il numero degli anni di servizio prestato. Tale sistema di calcolo, essendo ancorato, a vantaggio del lavoratore, allo stipendio dell'ultimo anno di servizio («[a]ll'atto della cessazione dal servizio»), non è compatibile con il conteggio di componenti retributive variabili, posto che tali emolumenti, nell'annualità assunta a parametro, non necessariamente potrebbero essere stati percepiti dall'interessato. 5.4.- Il carattere tassativo che il diritto vivente attribuisce alla base parametrica dell'indennità di anzianità per i dipendenti del parastato trova, inoltre, riscontro in altre discipline sui trattamenti di fine servizio anteriori alla privatizzazione del pubblico impiego. In particolare, a mente dell'art. 38 del d.P.R. n. 1032 del 1973, la base contributiva di calcolo della indennità di buonuscita per i dipendenti statali è costituita «dall'80 per cento dello stipendio, paga o retribuzione annui, considerati al lordo, di cui alle leggi concernenti il trattamento economico del personale iscritto al Fondo», nonché da una serie di assegni nominativamente individuati. A norma dell'art. 11, quinto comma, della legge n. 152 del 1968, l'indennità premio di servizio per il personale degli enti locali va ragguagliata allo «stipendio o salario comprensivo degli aumenti periodici, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura, spettanti per legge o regolamento e formanti parte integrante ed essenziale dello stipendio stesso». 5.4.1.- Gli elementi che, alla stregua della disciplina positiva, accomunano i trattamenti di fine servizio sopra indicati all'indennità di anzianità vanno, dunque, individuati nella predeterminazione legale e nella tassatività delle componenti retributive utili al loro calcolo. A tale riguardo, la giurisprudenza amministrativa afferma costantemente che «[p]er stabilire l'idoneità di un certo compenso a far parte della base contributiva dell'indennità di buonuscita non rileva il carattere sostanziale dello stesso (ossia se abbia o meno natura retributiva), ma esclusivamente il dato formale: vale a dire il regime impresso dalla legge a ciascun emolumento» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 17 maggio 2017, n. 2335; nello stesso senso, ex multis, Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 20 dicembre 2011, n. 6736; TAR Lazio, sezione prima-quater, sentenza 7 aprile 2008, n. 2880). In consonanza con tali enunciazioni, la giurisprudenza di legittimità ha, a propria volta, osservato che «la determinazione della cosiddetta retribuzione-parametro, da porre a base del calcolo di istituti di retribuzione indiretta o differita, è ricavabile esclusivamente dalla specifica disciplina di volta in volta dettata per questi ultimi», disciplina da ritenersi «esaustiva, non concorrente ed incompatibile con deroghe provenienti dalla privata autonomia, in quanto espressione di un regime pubblicistico, improntato alla cura di interessi generali, che si correlano all'onere sopportato dalla finanza pubblica» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 23 agosto 2004, n. 16582; in senso conforme, sentenze, sezione lavoro, 21 gennaio 2014, n. 1156 e sezioni unite civili, 1° aprile 1993, n. 3888). Né va sottaciuto che la giurisprudenza di legittimità in tema di indennità premio di servizio per i dipendenti degli enti locali, ha chiarito che la retribuzione contributiva alla quale si commisura tale trattamento è costituita dai soli emolumenti testualmente considerati dall'art. 11, quinto comma, della legge n. 152 del 1968, la cui elencazione ha carattere tassativo, dovendosi interpretare la dizione «stipendio o salario» in senso restrittivo, alla luce dell'espressa menzione, come componenti di tale voce, degli aumenti periodici di anzianità, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 maggio 2017, n. 11156). 5.5.- È, inoltre, significativo come la scelta della riforma del parastato di riservare alla legge la configurazione del trattamento di fine servizio abbia resistito alla stessa contrattualizzazione del pubblico impiego avviata dal d.lgs. n. 29 del 1993. L'art. 2, commi 5 e 7, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) ha, infatti, previsto che, per i dipendenti assunti dal 1° gennaio 1996, i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, sarebbero stati regolati in base a quanto previsto dall'art. 2120 cod. civ., in materia di trattamento di fine rapporto, mentre per i dipendenti già occupati alla data del 31 dicembre 1995 - termine poi prorogato al 31 dicembre 2000 dall'art. 1, comma 1, lettera b), del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 2 marzo 2001 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi dei pubblici dipendenti) - erano rimesse alla contrattazione collettiva nazionale le sole modalità per l'applicazione della disciplina, di fonte legislativa, del trattamento in materia di fine rapporto. In realtà, l'art. 4 dell'Accordo quadro nazionale in materia di trattamento di fine rapporto e di previdenza complementare per i dipendenti pubblici del 29 luglio 1999 - recepito dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti) -, al comma 1, ha disposto che «[i]l TFR si calcola applicando i criteri previsti dall'art. 2120 del codice civile sulle seguenti voci della retribuzione: a) l'intero stipendio tabellare; b) l'intera indennità integrativa speciale; c) la retribuzione individuale di anzianità; d) la tredicesima mensilità; e) gli altri emolumenti considerati utili ai fini del calcolo dell'indennità di fine servizio comunque denominata ai sensi della preesistente normativa» e, al comma 2, ha previsto che «[u]lteriori voci retributive potranno essere considerate nella contrattazione di comparto, garantendo per la finanza pubblica, con riferimento ai settori interessati, i complessivi andamenti programmati sia della spesa corrente, sia delle condizioni di bilancio degli enti gestori delle relative forme previdenziali». Una disciplina organica sul trattamento di fine rapporto non è, però, fino a questo momento intervenuta, tanto che l'art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 ha riprodotto il contenuto del citato art. 72 del d.lgs. n. 29 del 1993. Sulla scorta di tali previsioni, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che, per il trattamento di fine rapporto ex art. 2120 cod. civ., deve aversi riguardo non agli artt. 2 e 45 del d.lgs. n. 165 del 2001, che demandano alla contrattazione collettiva la disciplina sulla retribuzione del lavoro pubblico contrattualizzato, ma, appunto, all'art. 69, il quale per il trattamento di fine rapporto mantiene ferma la disciplina vigente in attesa di un intervento di sistema, e quindi organico, da parte dell'autonomia contrattuale (Corte di cassazione, sentenza n. 5892 del 2020). La Corte di cassazione ha anche precisato che, in attesa di tale intervento, la disciplina legislativa in vigore rimane non derogabile, neanche dalla fonte collettiva, nel senso che i contratti collettivi non possono prevedere con disposizioni isolate e frammentarie singole voci retributive da computare nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto e, ove ciò accada, la disposizione negoziale deve essere disapplicata. 5.6.- In ogni caso, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, l'opzione interpretativa sottesa alla disposizione censurata non si espone a rilievi di anacronismo soltanto perché, in un contesto ormai ispirato al paradigma privatistico e caratterizzato dal «dominio» della fonte collettiva, per i dipendenti assunti nel vigore del regime anteriore alla contrattualizzazione del lavoro pubblico, continua ad applicarsi una disciplina di natura pubblicistica come quella qui in scrutinio. Questa Corte ha, infatti, chiarito che «il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi» (sentenza n. 244 del 2014). Spetta, infatti, all'apprezzamento discrezionale del legislatore, in coerenza con il generale canone di ragionevolezza, delimitare la sfera di applicazione delle normative che si succedono nel tempo, ne´ contrasta di per se´ con il principio di eguaglianza il trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie in momenti diversi nel tempo (sentenze n. 240 del 2019 e n. 104 del 2018). 6.- Neanche la questione con cui è dedotta la violazione del principio di eguaglianza merita accoglimento. 6.1.- Il giudice rimettente, nel porre a raffronto i dipendenti degli enti pubblici non economici appartenenti al ruolo professionale legale e i dipendenti dei medesimi enti - e, in particolare, i lavoratori con qualifica dirigenziale - che non svolgono funzioni legali, non ha considerato che le posizioni in comparazione sono del tutto eterogenee. Non deve, infatti, trascurarsi che, come osservato da questa Corte, gli avvocati dipendenti degli enti pubblici costituiscono un unicum e pertanto non possono essere paragonati ad altre categorie di dipendenti (sentenza n. 33 del 2009). Non può, al contempo, sottacersi che gli stessi dirigenti, anche nell'assetto delineato dalla legge n. 70 del 1975, sono sottoposti ad un regime giuridico e ad un trattamento economico specifici, come reso evidente dal contenuto dell'art. 18 della legge citata. In definitiva, il diverso status giuridico ed economico delle categorie di lavoratori poste a raffronto inficia il giudizio di comparazione richiesto dal rimettente (sentenza n. 200 del 2023). 7.- È, infine, da escludersi la dedotta violazione del principio di proporzionalità di cui all'art. 36 Cost. 7.1.- Il giudice a quo muove da una corretta premessa ermeneutica nell'affermare che la configurazione dei trattamenti di fine servizio come retribuzione differita, sia pure con concorrente funzione previdenziale, attrae le prestazioni in esame nell'ambito applicativo delle garanzie sancite dall'art. 36 Cost., il quale, come ripetutamente affermato da questa Corte, «prescrive, per ogni forma di trattamento retributivo, la proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e l'idoneità a garantire, in ogni caso, un'esistenza libera e dignitosa» (sentenza n. 159 del 2019; in senso conforme sentenza n. 130 del 2023). Tale affermazione deve, tuttavia, essere coordinata con l'enunciazione, altrettanto sedimentata nella giurisprudenza costituzionale, secondo la quale lo scrutinio sulla conformità di una disciplina sulla retribuzione - e dunque anche sulla retribuzione differita - all'art. 36 Cost. non può essere svolto atomisticamente, dovendo investire il trattamento economico del lavoratore nel suo complesso (ex aliis, sentenze n. 200 del 2023, n. 27 del 2022, n. 71 del 2021, n. 236 del 2017 e n. 96 del 2016) e non i singoli elementi che lo compongono, né le prestazioni accessorie (sentenza n. 164 del 1994). 7.2.- Se, dunque, è innegabile che l'indennità di fine servizio debba essere «rapportata alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro» (sentenza n. 243 del 1993) e, pertanto, trovi nel trattamento economico di attività la sua base parametrica, tuttavia, affinché possano ritenersi rispettati i canoni di sufficienza e di proporzionalità di cui all'art. 36 Cost., non deve sussistere una corrispondenza pedissequa tra la composizione dei due emolumenti, tale per cui ogni singola voce della retribuzione debba essere considerata nel trattamento di quiescenza. 7.2.1.- A tale riguardo, occorre, ancora una volta, ricordare che la disciplina dei trattamenti di fine servizio anteriore alla privatizzazione del pubblico impiego è caratterizzata dalla preminenza della fonte legale, la quale si coniuga con l'indole pubblicistica del rapporto di lavoro non contrattualizzato e risponde ad esigenze di razionalizzazione e di chiarezza, di prevedibilità e di controllabilità della spesa pubblica. Va, inoltre, ribadito che, in tale contesto normativo, spetta alla discrezionalità del legislatore individuare, nel rispetto del principio di eguaglianza e delle garanzie sancite dall'art. 36 Cost., la base retributiva delle singole indennità di fine servizio nonché i modi e la misura delle stesse (sentenze n. 278 del 1995, n. 243 del 1993, n. 151 del 1976 e n. 251 del 1974). In un sistema siffatto, non è, dunque, sufficiente addurre la natura retributiva di un compenso per ritenere che la sua mancata considerazione ai fini del trattamento di fine servizio confligga con la garanzia della proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Tale principio deve, invece, ritenersi osservato allorché detto trattamento esprima, in proporzione, il nucleo del profilo retributivo riconosciuto al dipendente, coincidente con il trattamento economico fondamentale. 7.2.2.- Nel rapporto di lavoro pubblico non contrattualizzato il trattamento fondamentale indica, infatti, il corrispettivo principale dell'attività lavorativa ed è inteso a remunerare la professionalità media del lavoratore. Esso comprende componenti, come lo stipendio tabellare, gli incrementi dipendenti dall'anzianità di servizio, la tredicesima mensilità e l'assegno per il nucleo familiare (oggi, assegno unico), che spettano in modo fisso e continuativo. A detto trattamento possono aggiungersi emolumenti accessori, caratterizzati dalla eventualità e dalla variabilità, come il compenso per lavoro straordinario e le indennità speciali volte a compensare lo svolgimento di attività particolarmente disagiate, pericolose o dannose per la salute, ovvero a premiare la produttività individuale o collettiva. 7.3.- Tanto premesso, l'interpretazione della Corte di cassazione, secondo la quale la “quota onorari”, riconosciuta dall'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 agli avvocati degli enti pubblici non economici, non rientra nella nozione di retribuzione fondamentale, non determina la violazione dell'art. 36 Cost. 7.3.1.- Secondo la giurisprudenza di legittimità, tali competenze costituiscono un'attribuzione di carattere accessorio e variabile che si aggiunge alla retribuzione contrattuale (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 11 dicembre 2018, n. 31989; 5 luglio 2017, n. 16579). 7.3.2.- Il carattere accessorio dei compensi in esame, come già evidenziato, si ricava dall'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975, nel quale il riconoscimento agli appartenenti al ruolo professionale delle competenze e degli onorari liquidati giudizialmente è oggetto di una previsione speciale e derogatoria del divieto di attribuzione di trattamenti economici accessori sancito, al terzo comma, in consonanza con l'obiettivo programmatico di chiarezza e di prevedibilità della spesa per il personale che pervade l'intero testo della riforma del parastato. 7.3.3.- Il carattere variabile degli onorari ex art. 26 della legge n. 70 del 1975 si desume, invece, dallo stesso sistema di erogazione di tale emolumento, il quale è condizionato dall'esito delle controversie in cui è parte l'ente pubblico patrocinato dai funzionari del ruolo professionale. Non si tratta, infatti, di un compenso fisso e predeterminato, ma dipendente dall'elemento aleatorio costituito dal numero delle cause vinte dall'ente e dalle somme che l'ente è riuscito a riscuotere dai terzi soccombenti. Ai sensi dell'art. 30, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 maggio 1976, n. 411 (Disciplina del rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70) - il quale ha recepito il primo accordo sindacale attuativo dell'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 -, ai suddetti funzionari è, infatti, attribuita una quota delle somme «riscosse dall'ente a titolo di competenze di procuratore ed onorari di avvocato». Per quanto concerne l'INAIL, il regolamento per la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati, adottato dal Commissario straordinario dell'INAIL con la deliberazione n. 788 del 2003, ha poi previsto che il bilancio dell'Istituto sia munito di un apposito capitolo di spesa, coperto da un fondo specifico che viene alimentato secondo due differenti ipotesi. In un primo caso, di vittoria in giudizio dell'Istituto, le spese legali, poste a carico della controparte e riscosse dallo stesso ente a seguito di sentenza, ordinanza, decreto, rinuncia o transazione, la “quota onorari” è commisurata all'intera parcella professionale, dedotte le spese vive di procedura e le eventuali competenze spettanti ad avvocati esterni. Diversa è l'ipotesi in cui l'Istituto liquida il cinquanta per cento dei compensi professionali ai propri avvocati, nonostante non abbia riscosso tali compensi o perché e` intervenuta una transazione a seguito di sentenza favorevole o perché e` stata pronunciata compensazione, anche parziale, delle spese in cause nelle quali l'ente non e` rimasto soccombente. Un analogo meccanismo di attribuzione è stato successivamente delineato dagli artt. 4 e 5 della determinazione del Presidente dell'INAIL 21 gennaio 2015, n. 16, con la quale è stato approvato un nuovo «Regolamento per la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati Inail» a decorrere dal 1° gennaio 2015. 7.3.4.- La natura premiale dei compensi in questione si desume anche dalla correlazione dell'importo degli stessi con il numero delle cause in cui l'ente di riferimento risulti vittorioso e con le somme che lo stesso ente sia riuscito a riscuotere dai terzi soccombenti. Essi, infatti, sebbene non vengano accordati soltanto ai legali che hanno patrocinato le cause con esito favorevole, ma vengano ripartiti tra tutti gli avvocati in base a criteri predeterminati e in rate costanti, salvo conguaglio, nel loro ammontare complessivo assumono una funzione remunerativa della complessiva produttività degli appartenenti al ruolo professionale legale dell'ente pubblico. Deve, poi, considerarsi che detta funzione premiale e incentivante degli onorari è stata riconosciuta da un'apposita disciplina, la quale, pur non trovando applicazione nella fattispecie oggetto del giudizio principale, attesta significativamente l'evoluzione di un profilo funzionale che ha sempre connotato l'istituto in esame. Il d.l. n. 90 del 2014, come convertito, all'art. 9, comma 5, ha, infatti, stabilito che i regolamenti dell'Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme recuperate nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, «in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l'altro della puntualità negli adempimenti processuali». In attuazione delle disposizioni introdotte dalla novella del 2014, la ricordata determinazione del Presidente dell'INAIL del 21 gennaio 2015, n. 16, all'art. 7, ha dettato ulteriori criteri speciali di riparto, stabilendo che gli importi degli onorari riscossi a carico delle controparti a seguito di provvedimenti giudiziali sono corrisposti a ciascun avvocato, in base al rendimento individuale rilevato, anche con l'ausilio di strumenti informatici, tenendo conto di una serie di parametri. 7.3.4.1.- Indici rivelatori del carattere premiale degli onorari in disamina si rinvengono anche nella disciplina riguardante i legali degli enti locali, i quali condividono con gli avvocati dipendenti degli altri enti pubblici la matrice normativa. L'art. 3 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, al quarto comma, lettera b), nel sancire la compatibilità dell'esercizio della professione forense nell'ambito di un rapporto di pubblico impiego, faceva, infatti, rinvio agli enti pubblici enumerati al secondo comma della medesima disposizione tra i quali figuravano, oltre allo Stato, anche gli enti locali. Attualmente, l'art. 23, comma 1, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense), nel conformare la peculiare figura del professionista legale incardinato presso una pubblica amministrazione e al quale è affidato lo ius postulandi nell'interesse di quest'ultima, fa riferimento agli avvocati degli uffici legali istituiti presso «enti pubblici», senza ulteriori distinzioni. 7.3.4.2.- Anche nell'ordinamento degli enti locali i compensi professionali liquidati giudizialmente in favore dell'amministrazione sono sempre stati attribuiti agli avvocati da essa dipendenti, dapprima in forza dell'art. 69 del decreto del Presidente della Repubblica 13 maggio 1987, n. 268 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo sindacale, per il triennio 1985-1987, relativo al comparto del personale degli enti locali) e successivamente sulla base delle previsioni dei regolamenti dei singoli enti. La natura premiale di tali emolumenti trova conferma nel decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42), il quale, al punto 5.2. dell'Allegato 4/2, nell'individuare i principi contabili per le «spese relative al trattamento accessorio e premiante», precisa, con riguardo alla spesa nei confronti dei dipendenti addetti all'Avvocatura, che, poiché la normativa prevede la liquidazione dell'incentivo solo in caso di esito del giudizio favorevole all'ente, si è in presenza di una obbligazione passiva condizionata al verificarsi di un evento con riferimento al quale non è possibile impegnare alcuna spesa. Detto carattere si desume anche dalle disposizioni di fonte collettiva che - come l'art. 27 del contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale del comparto delle regioni e delle autonomie locali successivo a quello del 1° aprile 1999, firmato il 14 settembre 2000, e l'art. 37 del contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al comparto regioni-enti locali, Area della dirigenza 1998-2001, sottoscritto il 23 dicembre 1999 - evidenziano l'esigenza di coordinarne l'erogazione con il riconoscimento della retribuzione di risultato spettante agli avvocati che rivestono anche una posizione di coordinamento dell'ufficio legale. 7.4.- All'univocità degli indici normativi di cui si è dato conto si aggiunge la considerazione per la quale il compenso in questione non può essere ricondotto nel trattamento economico fondamentale, perché non compensa la professionalità media dei soggetti che ne beneficiano, a ciò provvedendo la retribuzione contrattuale corrispondente allo status di pubblico dipendente riconosciuto ai legali degli enti pubblici (sentenza n. 928 del 1988). Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, oltre che dalla parte privata e dall'amicus curiae, gli onorari ex art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 non costituiscono la normale retribuzione del patrocinio svolto dai legali del parastato dovuta in aggiunta allo stipendio in ragione della specificità di tale attività. La difesa in giudizio dell'ente rientra tra i compiti riconducibili ai doveri istituzionali degli avvocati degli enti pubblici e per questo non necessita di un'apposita remunerazione. Ciò che distingue i legali dagli altri dipendenti dell'ente pubblico è, invero, soltanto il possesso dell'abilitazione all'esercizio della professione forense, la quale, tuttavia, non assume rilevanza sul piano retributivo, ma sotto il diverso profilo dell'osservanza, da parte del legale pubblico dipendente, degli stessi obblighi deontologici dell'avvocato libero professionista e della soggezione al potere disciplinare del Consiglio dell'ordine (TAR Lazio, sezione terza-quater, sentenza 13 aprile 2011, n. 3222). 7.5.- Il carattere di retribuzione ordinaria dell'emolumento in esame non può trarsi neppure dalla sua pur significativa entità rispetto alla retribuzione complessiva. Non possono, in proposito, essere trasposte nella fattispecie in scrutinio le considerazioni svolte da questa Corte nella sentenza n. 243 del 1993 in merito al contrasto con il principio di proporzionalità ex art. 36 Cost. della mancata inclusione nella base di calcolo dell'indennità di anzianità dell'indennità integrativa speciale e, in particolare, all'incidenza quantitativa di tale componente sulla retribuzione dei dipendenti e quindi del trattamento di fine servizio. Deve, infatti, osservarsi che l'emolumento allora scrutinato da questa Corte non aveva natura accessoria, essendo deputato ad adeguare la stessa retribuzione fondamentale alle variazioni del potere di acquisto della moneta a causa dell'inflazione, tanto che, successivamente alla citata pronuncia costituzionale, è stato inglobato nello stipendio base. Nel caso ora in esame, invece, la valorizzazione del dato quantitativo ai fini della qualificazione dell'emolumento in questione si risolverebbe nell'assimilazione di tale posta accessoria alla retribuzione fondamentale in senso proprio, attraverso un apprezzamento della sua sostanza retributiva che, come confermato tanto dalla giurisprudenza di legittimità, quanto da quella amministrativa, confligge con il limite di sistema costituito dalla tassatività e dalla qualificazione legale delle componenti della base di calcolo dei trattamenti di fine servizio soggetti alla legislazione anteriore alla privatizzazione del pubblico impiego (Consiglio di Stato, sentenza n. 2335 del 2017). 7.6.- Da ultimo, la qualificazione degli onorari ex art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 in termini di remunerazione ordinaria non si concilia neppure con quanto affermato da questa Corte sulla natura delle cosiddette propine spettanti agli avvocati e ai procuratori dello Stato. Queste ultime forme di remunerazione, pur essendo soggette ad una autonoma disciplina, non differiscono, infatti, sotto il profilo morfologico e funzionale, dalle competenze maturate dai dipendenti delle altre avvocature pubbliche in ragione dell'attività difensiva svolta in giudizio, trattandosi pur sempre di una retribuzione accessoria che si aggiunge allo stipendio tabellare e rinviene almeno parte della provvista nelle spese di lite rifuse all'amministrazione in caso di vittoria in giudizio. Questa Corte ha, in particolare, osservato che le cosiddette propine spettanti agli avvocati e ai procuratori dello Stato sono di natura variabile «perché dipendenti dalla sorte del contenzioso» ed hanno carattere premiale (sentenza n. 128 del 2022) e non intaccano lo stipendio tabellare, che costituisce il nucleo del profilo retributivo della categoria interessata (sentenza n. 236 del 2017). 8.- Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni devono, pertanto, essere dichiarate non fondate. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattrice Igor DI BERNARDINI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2024 Il Cancelliere F.to: Igor DI BERNARDINI Allegato: Ordinanza Letta All'udienza Del 6 Febbraio 2024 ORDINANZA Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), «nella parte in cui non consente (in alcun modo) di considerare, nella base di calcolo dell'indennità di anzianità, la cd. "quota onorari" di cui all'art. 26, co.4, della stessa legge», promosso dal Tribunale ordinario di Roma, sezione terza lavoro, con ordinanza del 5 aprile 2023, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 2023. Rilevato che la Federazione legali del parastato - FLEPAR è intervenuta ad adiuvandum per chiedere l'accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale; che l'interveniente premette di essere un'associazione federale senza fine di lucro a carattere sindacale il cui scopo è quello di tutelare la dignità, l'autonomia professionale, lo stato giuridico, nonché i diritti economici dei legali delle associazioni aderenti, di essere costantemente presente nello svolgimento delle trattative con l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e di aver sottoscritto diversi contratti collettivi nazionali; che FLEPAR ricorda che la giurisprudenza costituzionale esclude che l'interesse degli enti rappresentativi di interessi collettivi o di categoria connesso agli scopi statutari di tutela dei propri iscritti possa legittimare alla partecipazione al giudizio di legittimità costituzionale; che la stessa associazione ritiene, tuttavia, di essere legittimata a intervenire in quanto titolare di un interesse, diverso da quello legato alla rappresentanza sindacale, «profondamente conformato» dalla norma in scrutinio e inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto nel giudizio principale; che, infatti, le questioni in scrutinio involgerebbero la definizione dell'ambito riservato all'autonomia collettiva in materia di trattamento economico dei dipendenti degli enti pubblici non economici e, in particolare, la questione se, alla stregua dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, i contratti collettivi possano disciplinare la sola retribuzione di attività, ovvero se agli stessi sia demandata anche la regolamentazione del trattamento di fine servizio; che, pertanto, per effetto di una eventuale decisione di accoglimento, gli accordi sindacali sottoscritti da FLEPAR in attuazione dell'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 e dell'art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, «concorrerebbero a determinare anche la retribuzione differita degli avvocati dipendenti degli enti del c.d. "parastato"»; che, infine, una pronuncia di accoglimento, secondo FLEPAR inciderebbe anche sulla contrattazione collettiva futura e, in particolare, sul modo in cui l'associazione interveniente, così come le altre organizzazioni sindacali, «dovranno modulare la propria attività per il tempo a venire». Considerato che, per giurisprudenza costituzionale costante - recepita dall'art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale -, l'intervento nei giudizi in via incidentale di soggetti diversi dalle parti del processo principale, dal Presidente del Consiglio dei ministri e dal Presidente della Giunta regionale, è ammissibile soltanto in quanto essi si assumano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (ex aliis, ordinanza n. 271 del 2020; sentenze n. 158 del 2020 con allegata ordinanza letta all'udienza del 10 giugno 2020 e n. 119 del 2020); che tale interesse qualificato sussiste allorché si configuri una «posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata immediatamente e irrimediabilmente dall'esito del giudizio incidentale» (sentenze n. 159 del 2019 e n. 194 del 2018 con allegata ordinanza letta all'udienza del 25 settembre 2018; ordinanze n. 191 del 2021 e n. 271 del 2020); che, in particolare, l'incidenza sulla posizione soggettiva dell'interveniente deve essere conseguenza immediata e diretta dell'effetto che la pronuncia di questa Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo (sentenze n. 46 del 2021 e n. 98 del 2019); che l'interesse dedotto da FLEPAR a fondamento della propria legittimazione a intervenire non solo non è direttamente riconducibile al rapporto oggetto del processo principale, ma risulta privo di concretezza e di attualità; che, infatti, secondo l'interveniente, detto interesse deriverebbe dalla possibilità che, qualora questa Corte, nell'accogliere la questione di legittimità costituzionale, affermi che spetta all'autonomia collettiva disciplinare non solo il trattamento economico di attività, ma anche quello di fine servizio, la stessa FLEPAR sarebbe chiamata a partecipare alla stipula degli accordi sindacali a ciò deputati; che parimenti estranea all'oggetto del giudizio a quo, e dunque priva di rilevanza ai fini della legittimazione all'intervento, è la circostanza che, nell'evenienza sopra indicata, i contratti collettivi recanti disposizioni sugli onorari ex art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 già conclusi, ai quali ha preso parte anche l'associazione interveniente, «concorrerebbero a determinare anche la retribuzione differita degli avvocati dipendenti degli enti del c.d. "parastato"»; che, pertanto, l'intervento della FLEPAR deve essere dichiarato inammissibile. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile l'intervento della Federazione legali del parastato - FLEPAR. F.to: Augusto Antonio Barbera, Presidente
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 332 e 774, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025), promosso dalla Regione Liguria con ricorso notificato il 27 febbraio 2023, depositato in cancelleria il 7 marzo 2023, iscritto al n. 12 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 2023. Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 21 febbraio 2024 il Giudice relatore Marco D'Alberti; uditi l'avvocato Pietro Piciocchi per la Regione Liguria e l'avvocato dello Stato Carmela Pluchino per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 21 febbraio 2024. Ritenuto in fatto 1.- La Regione Liguria, con ricorso notificato il 27 febbraio 2023, depositato il 7 marzo 2023 e iscritto al n. 12 del registro ricorsi 2023, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 332 e 774, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025), in riferimento agli artt. 5, 114, 119, primo, terzo e quarto comma, e 120, secondo comma, della Costituzione. 1.1.- Le questioni sono state promosse su proposta del Consiglio delle autonomie locali della Regione Liguria, ai sensi dell'art. 32, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in quanto le suddette disposizioni lederebbero l'autonomia finanziaria dei comuni della Liguria, nonché il principio di leale collaborazione. 2.- La prima disposizione impugnata (art. l, comma 332, della legge n. 197 del 2022), nell'estendere anche ai dipendenti degli enti locali l'emolumento accessorio una tantum previsto per il personale statale dall'art. 1, comma 330, della medesima legge (da corrispondersi per tredici mensilità e determinato nella misura dell'1,5 per cento dello stipendio), ha stabilito che i relativi oneri «sono posti a carico dei rispettivi bilanci ai sensi dell'art. 48, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165». Secondo tale disposizione, infatti, in relazione agli enti locali «gli oneri derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale sono determinati a carico dei rispettivi bilanci nel rispetto dell'articolo 40, comma 3-quinquies». La ricorrente - pur non contestando «il riconoscimento del trattamento una tantum al personale dipendente del comparto, che appare chiaramente orientato alla comprensibile finalità di mitigare le conseguenze negative dell'inflazione sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti» - censura la disposizione statale nella parte in cui ha attribuito il relativo onere (che ammonterebbe «per l'intero settore delle autonomie locali ad euro 150 milioni») a carico del bilancio dei comuni, anziché a carico del bilancio dello Stato, ovvero nella parte in cui non ha disposto alcuna forma di ristoro, né ha previsto alcuna forma di consultazione con le associazioni rappresentative degli enti locali. 2.1.- In primo luogo, viene lamentata la violazione degli artt. 5, 114 e 119, primo comma, Cost., perché la disposizione impugnata - imponendo ai comuni un onere finanziario - verrebbe a limitarne la capacità di spesa, con conseguente violazione dell'autonomia politica e delle competenze finanziarie di tali enti. La disposizione, infatti, impatterebbe «sulla possibilità di questi ultimi di perseguire, con mezzi idonei anche in termini di adeguato numero di risorse umane, il proprio indirizzo politico amministrativo». D'altra parte, poiché la disciplina sulla contrattazione collettiva del comparto degli enti locali è riconducibile alla competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia «ordinamento civile», spetterebbe allo Stato «provvedere alle risorse finanziarie necessarie per farvi fronte» in via diretta o comunque assicurando alle amministrazioni territoriali «forme di adeguato ristoro». 2.2.- In secondo luogo, viene lamentata la lesione dell'art. 119, quarto comma, Cost., poiché la disposizione impugnata, aggravando ulteriormente la spesa corrente degli enti locali per il costo del personale «e senza alcuna previa valutazione d'impatto», impedirebbe agli stessi il regolare esercizio delle funzioni attribuite dall'ordinamento. Ad avviso della ricorrente, infatti, è «del tutto intuitivo» l'effetto che la disposizione produrrà «in termini di riduzione di servizi ovvero di turn over del personale». D'altra parte, poiché il pagamento dell'emolumento accessorio una tantum concorrerà alla determinazione del raggiungimento delle soglie di spesa del personale, verranno ad essere inevitabilmente ridimensionate le capacità assunzionali degli enti locali, con conseguente compromissione dei risultati dell'azione amministrativa. 2.3.- In terzo luogo, la ricorrente denuncia la violazione del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120, secondo comma, Cost., poiché la disposizione statale, pur imponendo un onere finanziario in capo agli enti locali, non ha previsto alcuna intesa, né altra forma di consultazione con gli enti rappresentativi delle autonomie locali. Secondo la Regione, infatti, la disposizione impugnata avrebbe richiamato l'art. 48, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), al solo fine di imputare l'onere finanziario della spesa al bilancio degli enti locali, e non già al fine di rinviare anche alla disciplina che - al successivo periodo del medesimo comma - prevede la consultazione del Governo con le «rappresentanze istituzionali del sistema delle autonomie» per la definizione delle risorse da destinare agli incrementi retributivi derivanti dal rinnovo dei contratti collettivi nazionali dei dipendenti delle amministrazioni locali. In ragione di ciò, risulterebbe violato il principio di leale collaborazione, il quale, in un sistema di decentramento politico e amministrativo fondato sul modello della coesione e della solidarietà, dovrebbe ispirare anche le relazioni tra lo Stato e gli enti locali. 3.- La seconda disposizione impugnata (art. l, comma 774, della legge n. 197 del 2022) interviene sulla disciplina del fondo di solidarietà comunale (FSC), previsto dall'art. 1, comma 380, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)», incrementandone la dotazione finanziaria per l'anno 2023 di 50 milioni di euro rispetto a quanto già previsto dall'art. 1, commi 448 e 449, lettera d-quater), della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019). 3.1.- La ricorrente premette che lo Stato, con la legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), ha disposto la graduale restituzione della quota “verticale” del fondo di solidarietà comunale, che era stata sottratta - a titolo di concorso degli enti locali al risanamento delle finanze pubbliche - dall'art. 47, comma 8, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89. Tale progressiva restituzione - pari a 100 milioni di euro nel 2020, 200 milioni di euro nel 2021, 300 milioni di euro nel 2022, 330 milioni di euro nel 2023 e 560 milioni di euro a decorrere dal 2024 - era destinata «a specifiche esigenze di correzione nel riparto del Fondo di solidarietà comunale, da individuare con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri [...]» (art. 1, comma 449, lettera d-quater, della legge n. 232 del 2016, inserito dall'art. 1, comma 849, della legge n. 160 del 2019). Come ricorda la difesa regionale, l'intervento legislativo mirava anche a sterilizzare gli effetti negativi della progressione della perequazione fondata sulla differenza fra capacità fiscali e fabbisogni standard che era stata disposta, ai fini del riparto delle quote del FSC, dall'art. 57, comma 1, del decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 19 dicembre 2019, n. 157. 3.2.- La ricorrente sottolinea che le somme sin qui stanziate dallo Stato hanno in effetti «consentito fino ad oggi di rendere praticamente nulli gli effetti negativi della perequazione», assicurando l'attribuzione di maggiori risorse ai comuni con minore capacità fiscale, senza che fossero gli altri comuni a sopportarne il peso. Tuttavia, ad avviso della Regione, con il progressivo avanzare della percentuale di perequazione per il riparto delle quote del FSC, l'effetto di neutralizzazione in favore dei comuni non potrebbe «più essere perseguito se non attraverso una nuova iniezione di risorse da parte dello Stato, non essendo a tale scopo più sufficienti gli importi originariamente previsti». In particolare, sulla base delle stime della Fondazione IFEL, la ricorrente sostiene che, al fine di evitare ripercussioni negative sui comuni per l'anno 2023, occorrerebbero - oltre ai menzionati 50 milioni aggiuntivi già previsti dallo Stato con la disposizione impugnata - «ulteriori 36 milioni di euro». Secondo la ricorrente, un simile incremento delle risorse statali permetterebbe di superare i molti profili di criticità che caratterizzano l'attuale modello perequativo e, soprattutto, assicurerebbe un adeguamento di tale modello «alla scelta costituzionale di perequazione verticale» (sono citate le sentenze di questa Corte n. 61 del 2018 e n. 46 del 2013). Ciò, tenuto anche conto della disomogeneità delle risultanze del sistema catastale, nonché del complessivo sottodimensionamento della dotazione finanziaria degli enti locali, come risultante dal rapporto tra il valore delle capacità fiscali e l'ammontare delle risorse necessarie per lo svolgimento delle funzioni fondamentali. 3.3.- Alla luce di tale ricostruzione, la disposizione impugnata violerebbe innanzitutto gli artt. 5 e 119, commi primo, terzo e quarto, Cost. Infatti, l'incremento di 50 milioni previsto da tale disposizione - non essendo sufficiente ad assicurare la piena sterilizzazione degli effetti negativi derivanti dall'adozione del meccanismo perequativo orizzontale - pregiudicherebbe l'autonomia finanziaria dei comuni, impedendo agli stessi di poter esercitare adeguatamente la propria azione, anche in violazione del canone di responsabilità del mandato politico degli amministratori. D'altra parte, la disposizione contrasterebbe con lo stesso «principio di tipicità degli strumenti di perequazione», dal momento che - secondo la ricorrente - il sistema perequativo «voluto dalla Costituzione» avrebbe la «precipua funzione, tipizzata e non derogabile dal legislatore, di supportare i Comuni con minor[e] capacità fiscale per abitante secondo una modalità che non è quella di togliere risorse ad alcuni Comuni per attribuirne ad altri». Pertanto, la mancata previsione di risorse statali adeguate scaricherebbe il costo della perequazione sui comuni, anziché sullo Stato, consolidando un modello di perequazione orizzontale «apertamente in contrasto» con la giurisprudenza costituzionale. 3.4.- In secondo luogo, la Regione lamenta la violazione dell'art. 119, commi primo e quarto, Cost., perché la mancata previsione delle risorse necessarie a neutralizzare gli effetti negativi della perequazione metterebbe a rischio la possibilità per i comuni di provvedere al regolare esercizio delle funzioni attribuite dalla legge. Ad avviso della ricorrente, lo Stato avrebbe l'obbligo e la responsabilità di assicurare il regolare esercizio delle funzioni assegnate agli enti locali: ciò, in coerenza con gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale che avrebbero imposto la temporaneità dei limiti di spesa fissati alle regioni e agli enti locali, anche al fine di scongiurare un possibile vulnus alle funzioni esercitate in ambiti aventi una notevole rilevanza sociale (sono citate, tra l'altro, le sentenze n. 103 del 2018 e n. 10 del 2016). 3.5.- Infine, la Regione lamenta la lesione dell'art. 120, secondo comma, Cost., dal momento che la disposizione impugnata avrebbe dovuto individuare le risorse necessarie a sterilizzare le ripercussioni negative della perequazione sulla base di una preventiva analisi circa la capacità degli enti di assolvere all'esercizio integrale delle funzioni loro attribuite: il che non è avvenuto, con conseguente violazione delle «più elementari regole della leale collaborazione», la quale sarebbe tanto più necessaria in presenza di interventi dello Stato diretti a ridurre le risorse nei confronti degli enti locali. 4.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in giudizio con atto depositato il 31 marzo 2023, chiedendo che le relative questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate. 4.1.- In relazione all'impugnazione dell'art. 1, comma 332, della legge n. 197 del 2022, l'Avvocatura ritiene legittima la scelta del legislatore statale di estendere l'emolumento accessorio una tantum - previsto dal comma 330 del medesimo articolo - anche al personale dipendente degli enti locali: ciò, «allo scopo di evitare disparità di trattamento tra il personale statale e il resto del personale pubblico». Peraltro, la mancata violazione dei parametri costituzionali evocati dalla Regione Liguria sarebbe confermata dallo stesso richiamo operato dalla disposizione impugnata all'art. 48, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale prevede che siano gli enti locali a sopportare gli oneri derivanti dagli aumenti retributivi del proprio personale. Ma soprattutto, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la ricorrente avrebbe dovuto fornire un'adeguata dimostrazione circa gli effetti pregiudizievoli della disposizione impugnata per il regolare svolgimento delle funzioni assegnate ai comuni: ciò alla luce della giurisprudenza costituzionale, la quale ha escluso che l'autonomia finanziaria costituzionalmente riconosciuta agli enti territoriali possa comportare una rigida garanzia quantitativa, essendo comunque ammesse riduzioni di risorse, purché le stesse non rendano impossibile lo svolgimento delle funzioni attribuite agli enti medesimi. La ricorrente, dunque, non avrebbe adeguatamente assolto all'onere di provare l'irreparabilità del pregiudizio derivante dalla disposizione impugnata (è citata la sentenza di questa Corte n. 76 del 2020). 4.2.- Con riferimento all'impugnazione dell'art. 1, comma 774, della legge n. 197 del 2022, l'Avvocatura dello Stato sottolinea la non fondatezza delle censure addotte dalla Regione, alla luce della piena coerenza della disposizione impugnata con la complessiva evoluzione del quadro normativo statale in materia di FSC, la cui legittimità sarebbe stata confermata da questa stessa Corte (è citata la sentenza n. 220 del 2021). 4.2.1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri richiama innanzitutto le ragioni che, negli ultimi anni, hanno condotto il legislatore statale a ricostituire progressivamente la componente verticale del FSC, al fine di compensare i comuni delle minori entrate derivanti dalla riforma della tassazione immobiliare e dalle misure di contenimento della spesa. In un simile contesto - che, come evidenziato da questa Corte, si pone in «netta soluzione di continuità rispetto alla fase dei tagli lineari e inaugura il progressivo ripristino dell'ammontare originario del FSC» (è citata ancora la sentenza n. 220 del 2021) - sarebbe possibile cogliere «la intrinseca ragionevolezza della norma oggetto di specifica censura», la quale, incrementando le risorse statali già previste per il 2023, contribuirebbe a rafforzarne la componente verticale. 4.2.2.- Ad avviso della difesa statale, inoltre, la non fondatezza del ricorso discenderebbe dal fatto che la Regione Liguria - nel lamentare l'insufficiente dotazione del FSC - riproporrebbe censure sostanzialmente analoghe a quelle già rigettate da questa Corte nella citata sentenza n. 220 del 2021, ove si è ribadito, tra l'altro, che gli interventi legislativi che incidono sull'assetto finanziario degli enti territoriali non andrebbero considerati in maniera atomistica, ma nel contesto delle altre disposizioni di carattere finanziario e degli obiettivi di riequilibrio perseguiti dal legislatore statale nell'ambito di manovre di finanza pubblica. In ragione di ciò, la ricorrente avrebbe dovuto considerare - oltre agli stanziamenti statali diretti a finanziare importanti funzioni comunali in materia di servizi sociali, assistenza e servizi educativi - anche gli ulteriori correttivi già adottati dallo Stato per attenuare gli effetti negativi della variazione delle risorse, soprattutto con riferimento ai piccoli comuni (art. 1, comma 449, lettera d-ter, della legge n. 232 del 2016). Ma soprattutto, la ricorrente avrebbe dovuto dimostrare, in maniera puntuale, l'incidenza della disposizione impugnata sull'effettivo svolgimento delle funzioni assegnate ai comuni: invece, sarebbe stata prospettata «in maniera del tutto apodittica e meramente assertiva» l'esigenza di integrare il FSC di ulteriori 36 milioni di euro. 4.2.3.- L'Avvocatura dello Stato contesta, inoltre, la tesi della ricorrente secondo cui la Costituzione avrebbe delineato un unico modello «tipico» di perequazione verticale, risultando invece pienamente legittimo il carattere orizzontale del Fondo di solidarietà comunale. Il modello perequativo verticale sarebbe imposto esclusivamente dall'art. 119, quinto comma, Cost., ove si prevede il necessario intervento dello Stato attraverso la destinazione di «risorse aggiuntive» per il perseguimento di specifiche finalità di rilievo pubblico. Tuttavia, da tale modello andrebbe nettamente distinta la fattispecie delineata all'art. 119, terzo comma, Cost., ove si prevede l'istituzione di un «fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante». 4.2.4.- Infine, con riguardo alla lamentata violazione del principio di leale collaborazione sancito dall'art. 120, secondo comma, Cost., l'Avvocatura dello Stato evidenzia che l'art. 1, comma 380, della legge n. 228 del 2012, istitutivo del FSC, prevede che i criteri di formazione e di riparto dello stesso siano stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'interno, previo accordo da sancire in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali. È quindi proprio nell'ambito di tale Conferenza - ove viene approvato lo schema di decreto di riparto del Fondo - che è garantito il dialogo tra i diversi livelli di governo ed è assicurata un'adeguata rappresentazione delle istanze degli enti locali. 5.- In prossimità dell'udienza, la Regione Liguria ha presentato una memoria in replica alle difese dell'Avvocatura dello Stato. 5.1.- In relazione alla prima disposizione impugnata, la ricorrente ribadisce che il rinvio operato dall'art. l, comma 332, della legge n. 197 del 2022, all'art. 48, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, sarebbe funzionale soltanto a chiarire che l'indennità una tantum è posta totalmente a carico del bilancio degli enti locali, ma non già a richiamare la previsione che dispone la «previa consultazione con le rispettive rappresentanze istituzionali del sistema delle autonomie»: tale consultazione, infatti, «non è mai avvenuta, né avrebbe potuto svolgersi» alla luce della completa quantificazione dell'ammontare dell'emolumento da parte della legge statale. Proprio in ragione della natura «del tutto unilaterale» della decisione statale di riconoscere un simile incremento retributivo, lo Stato «avrebbe dovuto prevedere un congruo ristoro per non mortificare ancora una volta […] il valore dell'autonomia locale presidiato dalla Costituzione e della leale collaborazione». Quanto all'eccezione dell'Avvocatura dello Stato circa la mancata dimostrazione dell'incidenza di tale onere sull'effettiva possibilità di svolgere le funzioni assegnate agli enti locali, la Regione sottolinea innanzitutto che l'ammontare dello stesso è assai significativo e che, in ogni caso, andrebbe considerata l'obiettiva difficoltà di dimostrare il pregiudizio subito dagli enti locali alla luce della mancata definizione dei LEP da parte dello Stato. 5.2.- In relazione alla seconda disposizione impugnata, la Regione innanzitutto evidenzia che - anche in ragione dell'insufficiente stanziamento da parte dello Stato delle «risorse necessarie a neutralizzare gli effetti della perequazione per oltre 4.300 Comuni italiani» - non è stata raggiunta l'intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali sui criteri di riparto del FSC per l'annualità 2023, sebbene ciò non abbia impedito allo Stato di adottare il decreto di formazione e di riparto delle risorse del FSC (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 13 giugno 2023, recante «Criteri di formazione e di riparto delle risorse del Fondo di solidarietà comunale per l'anno 2023»). Quanto alle specifiche difese statali, la ricorrente contesta la tesi dell'Avvocatura, secondo la quale - alla luce dell'art. 119, terzo comma, Cost. - le risorse del FSC andrebbero distribuite «su base interamente perequativa e, quindi, sulla base di fabbisogni standard e capacità fiscali dei singoli enti». Ad avviso della Regione, infatti, la Costituzione non legittimerebbe un sistema perequativo come quello esistente, fondato quasi esclusivamente sul trasferimento orizzontale di risorse da parte dei comuni con maggiori capacità fiscali in favore dei comuni in maggiore sofferenza. Né, d'altra parte, potrebbe sostenersi - come prospettato invece dall'Avvocatura dello Stato - che la giurisprudenza costituzionale abbia espressamente affermato la piena conformità dell'attuale sistema di perequazione all'art. 119, comma terzo, Cost. La stessa sentenza n. 220 del 2021 avrebbe individuato nel «carattere meramente orizzontale» del FSC una delle principali criticità dell'attuale sistema, senza giungere alla declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate solo in ragione della «presa d'atto dell'abbandono della stagione dei tagli lineari» e dell'impegno del legislatore alla «progressiva ricostituzione della componente verticale del fondo di solidarietà comunale». La disposizione impugnata, tuttavia, non avrebbe raggiunto lo scopo di mitigare le conseguenze negative della progressione del criterio perequativo, alla luce dell'insufficiente dotazione di risorse per la ricostituzione della componente verticale del FSC, con conseguente aggravamento del pregiudizio a carico dei comuni con maggiori capacità fiscali. 6.- Ai sensi dell'art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, hanno depositato opinioni scritte, quali amici curiae, l'Associazione nazionale insegnanti e formatori (ANIEF), in data 23 aprile 2023, e l'Associazione nazionale comuni italiani (ANCI), in data 26 aprile 2023, opinioni entrambe ammesse con decreto presidenziale dell'8 gennaio 2024. 6.1.- L'ANIEF ritiene costituzionalmente illegittimo l'art. l, comma 332, della legge n. 197 del 2022, poiché l'incremento retributivo una tantum sarebbe stato unilateralmente deciso dallo Stato, prescindendo dalla consultazione preventiva con le istituzioni rappresentative delle autonomie territoriali, che è invece prevista dall'art. 48, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. 6.2.- L'ANCI, per parte sua, pur condividendo l'opportunità dell'aumento retributivo disposto dall'art. l, comma 332, della legge n. 197 del 2022, sottolinea che tale disposizione si discosterebbe dal modello di determinazione dei trattamenti economici del personale dipendente degli enti locali, il quale è il risultato di un complesso percorso di concertazione, che vede coinvolte anche le relative associazioni rappresentative. Viene altresì sottolineato che la Ragioneria generale dello Stato ha provveduto a comunicare, attraverso la pubblicazione di un'apposita nota, il preciso ammontare dell'indennità una tantum riferibile a tutti i dipendenti degli enti locali, il cui costo complessivo supererebbe i 160 milioni di euro. Tuttavia, di tali oneri si sarebbe dovuto far carico lo Stato, anche alla luce dell'assenza di qualsiasi meccanismo di concertazione preventiva. L'ANCI ritiene costituzionalmente illegittimo, infine, anche l'art. l, comma 774, della legge n. 197 del 2022, posto che l'integrazione delle risorse statali prevista dalla legge di bilancio per il 2023 sarebbe del tutto insufficiente ad assicurare l'invarianza delle risorse per i comuni “finanziatori”, anche alla luce dell'incremento degli oneri energetici e degli effetti strutturali dell'inflazione. Considerato in diritto 1.- Con ricorso iscritto al n. 12 del registro ricorsi 2023, la Regione Liguria ha promosso - su istanza del Consiglio delle autonomie locali - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 332 e 774, della legge n. 197 del 2022, in riferimento agli artt. 5, 114, 119, commi primo, terzo e quarto, e 120, secondo comma, Cost. 2.- L'art. 1, comma 332, della legge n. 197 del 2022 è impugnato nella parte in cui pone a carico del bilancio dei comuni gli oneri derivanti dal riconoscimento - anche in favore dei dipendenti di tali enti - dell'emolumento accessorio una tantum previsto per il personale statale dall'art. 1, comma 330, della medesima legge, da corrispondersi per tredici mensilità e determinato nella misura dell'1,5 per cento dello stipendio. 2.1.- Ad avviso della ricorrente, la disposizione impugnata violerebbe gli artt. 5, 114 e 119, commi primo e quarto, Cost., poiché, venendo ad imporre un onere finanziario ai comuni, ne avrebbe leso l'autonomia politica e finanziaria, ostacolando la possibilità per tali enti di svolgere regolarmente le funzioni loro attribuite dall'ordinamento. Inoltre, è lamentata la violazione del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120, secondo comma, Cost., poiché la disposizione impugnata avrebbe imposto unilateralmente tale onere finanziario ai comuni, senza prevedere alcuna intesa, né altra forma di consultazione con gli enti rappresentativi delle autonomie locali. 2.2.- Le questioni non sono fondate. 2.3.- La legge di bilancio per il 2023 ha posto in essere un intervento straordinario in favore di tutti i dipendenti pubblici, prevedendo il riconoscimento di un «emolumento accessorio una tantum», nella misura dell'1,5 per cento dello stipendio (art. 1, commi 330 e 332, della legge n. 197 del 2022). Si tratta di un aumento retributivo di natura temporanea, perché destinato ad operare nel 2023 esclusivamente «per tredici mensilità», e che rileva ai soli fini del trattamento di quiescenza. Come emerge dai lavori preparatori, l'intervento legislativo è ispirato dalla finalità di contrastare l'impatto dell'inflazione sul personale dell'intero settore pubblico. Proprio in ragione di tale finalità, l'aumento retributivo è stato riconosciuto non solo in favore dei dipendenti statali (per i quali la stessa legge di bilancio ha direttamente stanziato le risorse necessarie), ma anche in favore dei dipendenti degli enti locali e delle amministrazioni regionali. Con riguardo agli oneri finanziari derivanti dal riconoscimento di tale emolumento in favore dei dipendenti non statali, il legislatore si è limitato a richiamare il primo periodo dell'art. 48, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale prevede che «[p]er le amministrazioni di cui all'articolo 41, comma 2» (tra cui rientrano anche i comuni) «gli oneri derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale sono determinati a carico dei rispettivi bilanci nel rispetto dell'articolo 40, comma 3-quinquies». 2.4.- Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, va considerata, nel caso in esame, la natura eccezionale e temporanea della disposizione impugnata. Tale natura consente di escludere il denunciato contrasto con gli artt. 5, 114 e 119, primo comma, Cost., per violazione dell'autonomia politica e finanziaria dei comuni. Questa Corte, infatti, ha in più occasioni sottolineato che lo Stato può imporre limitazioni all'autonomia di spesa degli enti territoriali, purché abbiano, entro i limiti di cui si dirà, portata transitoria (si vedano: sentenze n. 103 del 2018, n. 169 del 2017, n. 43 del 2016, n. 156 del 2015, n. 23 del 2014, n. 236 del 2013, n. 139 del 2012, n. 159 del 2008, n. 417 del 2005 e n. 36 del 2004). Tale orientamento, pur essendosi affermato in relazione a interventi statali riconducibili alla materia del coordinamento della finanza pubblica, esprime un principio generale applicabile anche nell'odierna fattispecie in cui lo Stato, nell'esercizio di una propria competenza legislativa, incide sulla capacità di spesa degli enti territoriali. Nel caso in esame, la natura temporanea dell'obbligo imposto agli enti locali risulta chiaramente confermata dal fatto che l'emolumento aggiuntivo ha trovato applicazione esclusivamente in relazione alle tredici mensilità del 2023 e, quindi, per un periodo di tempo limitato e ben determinato, che non è stato oggetto di interventi di proroga da parte del legislatore statale. 2.5.- Né, d'altra parte, può ritenersi - come sostenuto invece dalla ricorrente - che l'imposizione di tale spesa abbia determinato un vulnus all'autonomia finanziaria degli enti locali con conseguente violazione dell'art. 119, quarto comma, Cost. Come ribadito da questa Corte, l'autonomia finanziaria degli enti territoriali non comporta una rigida garanzia quantitativa, potendo le risorse disponibili subire modifiche, anche in diminuzione, purché simili riduzioni non producano uno «squilibrio incompatibile» con le esigenze complessive della spesa (sentenza n. 143 del 2017); grava sulla parte ricorrente, in ogni caso, «l'onere di provare l'irreparabile pregiudizio lamentato» (tra le tante, sentenze n. 220 del 2021 e n. 76 del 2020): ciò, anche attraverso la produzione di «dati finanziari analitici correlati ai profili disfunzionali censurati» (sentenza n. 246 del 2012). Nel caso in esame, la ricorrente non ha assolto in maniera adeguata a tale onere dimostrativo. La Regione, infatti, si è limitata a riportare alcune stime dell'intero ammontare dell'onere finanziario derivante dal riconoscimento dell'emolumento una tantum per tutti i comuni italiani, senza chiarirne la specifica consistenza e il concreto impatto sul bilancio dei singoli enti per il 2023, ad esempio tenendo in considerazione il numero dei dipendenti in servizio nelle diverse realtà comunali. D'altra parte, una simile ricostruzione sarebbe stata agevolata dal fatto che, come riferito dall'ANCI, a seguito dell'approvazione della disposizione impugnata, la Ragioneria generale dello Stato ha reso noto l'esatto ammontare dell'incremento retributivo mensile da riconoscere a ciascun dipendente degli enti locali, a seconda del diverso livello di inquadramento. Il ricorso proposto dalla Regione Liguria si fonda, invece, su elementi presuntivi e ipotetici, che non dimostrano il concreto impatto economico della misura tanto sulla capacità di spesa degli enti locali, quanto sui relativi limiti assunzionali: il che sarebbe stato ancor più necessario in un contesto che, soprattutto a seguito della crisi pandemica, ha visto un progressivo incremento dei finanziamenti statali in favore degli enti locali. 2.6.- Quanto, infine, alla lamentata violazione del principio di leale collaborazione, va evidenziato che, anche alla luce della straordinarietà dell'intervento posto in essere dalla disposizione impugnata, il legislatore non ha inteso - né avrebbe potuto - richiamare la disciplina prevista dal secondo periodo dell'art. 48, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, la quale stabilisce che il Governo definisca le risorse necessarie «per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali», previa «consultazione» con le «rappresentanze istituzionali del sistema delle autonomie». Tale disciplina, infatti, trova applicazione con riguardo alle ipotesi - diverse da quella in esame - di aumenti retributivi derivanti dal rinnovo dei contratti collettivi. Nel caso di cui si tratta, invece, il legislatore statale - operando nell'ambito di una propria competenza legislativa esclusiva (riferibile alla materia «ordinamento civile») - ha inteso eccezionalmente individuare ex lege uno specifico e temporaneo aumento retributivo, non destinato ad essere recepito in sede di contrattazione collettiva. Proprio alla luce della decisione statale di riconoscere direttamente, a livello legislativo, l'emolumento una tantum per tutti i dipendenti pubblici, non risulta essere stato violato l'art. 120, secondo comma, Cost., per mancato coinvolgimento del sistema delle autonomie. La giurisprudenza costituzionale, infatti, ha escluso l'operatività degli strumenti procedimentali della leale collaborazione in relazione al procedimento legislativo, ancor più in ambiti riconducibili ad una competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 6 del 2023, n. 137 del 2018 e n. 237 del 2017). Pertanto, le censure sollevate dalla Regione Liguria nei confronti dell'art. 1, comma 332, della legge n. 197 del 2022, con riferimento agli artt. 5, 114, 119, commi primo e quarto, e 120, secondo comma, Cost., non sono fondate. 3.- Con un secondo motivo di ricorso, è impugnato l'art. 1, comma 774, della legge n. 197 del 2022, nella parte in cui incrementa - per il 2023 - la dotazione del FSC nella misura di soli 50 milioni di euro, rispetto a quanto già previsto dall'art. 1, commi 448 e 449, lettera d-quater), della legge n. 232 del 2016. Secondo la Regione tale incremento non sarebbe comunque sufficiente ad assicurare la piena sterilizzazione degli effetti negativi che i comuni subiscono per effetto dell'avanzare del criterio perequativo ai fini del riparto del FSC, con conseguente pregiudizio della loro autonomia politica e finanziaria e della stessa possibilità di assicurare il regolare svolgimento delle funzioni attribuite dalla legge. Di qui, la lamentata violazione degli artt. 5 e 119, commi primo, terzo e quarto, Cost., nonché del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120, secondo comma, Cost., poiché la disposizione impugnata non avrebbe previsto alcuna forma di consultazione con gli enti rappresentativi delle autonomie locali. 3.1.- Le questioni non sono fondate. 3.2.- Come già sottolineato da questa Corte nella sentenza n. 220 del 2021, le più recenti modifiche alla disciplina del FSC hanno avviato un percorso di ripristino, con risorse incrementali, della componente verticale del FSC, ossia quella alimentata dallo Stato. In particolare, la legge di bilancio per il 2020 ha inteso reintegrare le somme statali a suo tempo decurtate dal FSC a titolo di concorso degli enti locali al risanamento della finanza pubblica (art. 47 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito), prevedendo lo stanziamento - da parte dello Stato - di 100 milioni di euro per il 2020, di 200 milioni di euro per il 2021, di 300 milioni di euro per il 2022, di 330 milioni di euro per il 2023 e di 560 milioni di euro a decorrere dal 2024, da destinarsi «a specifiche esigenze di correzione nel riparto del Fondo di solidarietà comunale», definite con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (art. 1, comma 449, lettera d-quater, della legge n. 232 del 2016, inserito dall'art. 1, comma 849, della legge n. 160 del 2019). Tale intervento legislativo ha segnato «una netta soluzione di continuità rispetto alla fase dei tagli lineari», avendo inaugurato «il progressivo ripristino dell'ammontare originario del FSC» (sentenza n. 220 del 2021). In effetti, il «progressivo ripristino» della componente verticale del FSC è proseguito in piena coerenza rispetto al “crono-programma” delineato dall'art. 1, comma 849, della legge n. 160 del 2019: il che ha consentito - come riconosciuto dalla stessa Regione Liguria nel ricorso - «di rendere praticamente nulli gli effetti negativi della perequazione», assicurando l'attribuzione di maggiori risorse ai comuni con minore capacità fiscale «senza che fossero gli altri Comuni a doverne fare le spese perché lo sforzo si è concentrato sullo Stato». 3.3.- È proprio in tale contesto di costante e incrementale ricostituzione della componente verticale del Fondo che si inserisce la disposizione impugnata, la quale ha inteso ulteriormente accelerare il “crono-programma” definito dall'art. 1, comma 849, della legge n. 160 del 2019, prevedendo per il 2023 lo stanziamento di ulteriori 50 milioni di euro, che si vanno ad aggiungere ai 330 milioni di euro già stabiliti dal legislatore. Orbene, proprio alla luce di un intervento legislativo che, lungi dall'aver ridotto lo stanziamento statale già previsto per il 2023, lo ha incrementato di ulteriori 50 milioni di euro, la Regione - ai fini della dimostrazione della violazione degli artt. 5 e 119, commi primo, terzo e quarto, Cost. - avrebbe dovuto assolvere in maniera ancor più rigorosa all'onere di provare il pregiudizio finanziario determinato dalla disposizione impugnata. La ricorrente, invece, si è limitata ad affermare che - alla luce delle «prime stime di I.F.E.L.» per il 2023 - il risultato della «neutralizzazione» degli effetti negativi dell'avanzare della percentuale di perequazione per i comuni con maggiore capacità fiscale non potrebbe essere più perseguito «se non attraverso una nuova iniezione di risorse da parte dello Stato», risultando a tal fine necessari «ulteriori 36 milioni di euro», oltre ai 50 milioni già stanziati in aggiunta dalla legge di bilancio. Tuttavia, il ricorso non chiarisce in che modo il mancato stanziamento di ulteriori 36 milioni di euro da parte dello Stato abbia effettivamente menomato - quantomeno per i comuni liguri - l'autonomia finanziaria municipale e contraddetto il «principio di corrispondenza tra risorse e funzioni» (sentenza n. 71 del 2023) di cui all'art. 119, quarto comma, Cost. Né, d'altra parte, è stato precisato l'impatto concreto che tale mancato stanziamento avrebbe determinato nel 2023 sui comuni liguri con più elevata capacità fiscale, in termini di maggiorazione dei trasferimenti “orizzontali” a favore dei comuni in maggiore difficoltà. Peraltro, anche alla luce dell'esigenza - più volte ribadita da questa Corte (tra le altre, sentenze n. 83 del 2019 e n. 205 del 2016) - di non considerare gli interventi legislativi che incidono sull'assetto finanziario degli enti territoriali in maniera atomistica, ma nel contesto delle altre disposizioni di carattere finanziario, la ricorrente avrebbe altresì dovuto tenere conto del complessivo incremento degli stanziamenti che hanno caratterizzato negli ultimi anni il FSC, sia pur attraverso l'introduzione di «una componente perequativa speciale, non più diretta a colmare le differenze di capacità fiscale, ma puntualmente vincolata a raggiungere determinati livelli essenziali e obiettivi di servizio» (come rilevato dalla sentenza n. 71 del 2023). 3.4.- Né può ritenersi che il mancato stanziamento da parte dello Stato delle risorse necessarie ad assicurare la completa sterilizzazione degli effetti negativi dell'avanzare del meccanismo perequativo in base ai fabbisogni standard sia di per sé lesivo dell'autonomia finanziaria degli enti locali perché, ad avviso della ricorrente, contrasterebbe con la «scelta sostanziale per un modello di perequazione di tipo verticale» che sarebbe stata operata dalla Costituzione. Occorre innanzitutto evidenziare che il risultato - auspicato dal ricorso introduttivo - della piena «sterilizzazione» degli effetti derivanti dall'avanzare del criterio perequativo in base ai fabbisogni standard in luogo del criterio della spesa storica, finirebbe per porsi in contraddizione con l'obiettivo, che è sotteso alla stessa riforma del federalismo fiscale, di favorire una maggiore efficienza e una migliore qualità della spesa degli enti locali. In ogni caso, non appare condivisibile l'assunto da cui muove l'intero ricorso regionale, ovvero che l'art. 119, terzo comma, Cost., presupporrebbe un modello di perequazione integralmente verticale, in quanto fondato esclusivamente sullo stanziamento di risorse statali. Un simile modello è infatti espressamente imposto solo dall'art. 119, quinto comma, Cost., il quale attribuisce chiaramente allo «Stato» il compito di destinare «risorse aggiuntive» e di effettuare interventi speciali a favore di «determinati» enti territoriali, quando lo richiedano, tra l'altro, gli obiettivi di promuovere lo sviluppo economico, di coesione e solidarietà sociale, di rimuovere gli squilibri economici e sociali, o infine, di garantire l'effettivo esercizio dei diritti della persona (sulle caratteristiche della perequazione di cui all'art. 119, quinto comma, Cost., da ultimo, sentenze n. 71 del 2023 e n. 123 del 2022). È innegabile che, in passato, il carattere meramente orizzontale del FSC abbia contribuito ad “amplificare” alcune disfunzioni nella distribuzione delle risorse fra i comuni italiani (come rilevato dalle sentenze n. 71 del 2023 e n. 220 del 2021). Tuttavia, tali disfunzioni - pur in un contesto che continua problematicamente a caratterizzarsi per la mancata definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) - appaiono senza dubbio attenuate dalla successiva e progressiva ricostituzione (pur con le nuove criticità evidenziate da questa Corte nella sentenza n. 71 del 2023) della componente verticale del FSC a cui concorre anche la disposizione impugnata. 3.5.- Quanto, infine, alle censure concernenti la violazione dell'art. 120, secondo comma, Cost., non si comprende in che termini e secondo quali modalità lo Stato avrebbe dovuto assicurare il coinvolgimento delle autonomie locali rispetto ad una scelta che è stata effettuata in una sede - quale è quella legislativa - ove non operano gli ordinari meccanismi procedimentali della leale collaborazione. Va in ogni caso evidenziato che la disciplina del FSC ha espressamente previsto il coinvolgimento della Conferenza Stato-città ed autonomie locali, se non sulla definizione del complessivo ammontare degli stanziamenti statali da destinare al FSC (ammontare contestato dalla Regione), in relazione alle scelte sui «criteri di riparto» di tale Fondo, consentendo comunque allo Stato di adottare il d.P.C.m. di riparto dei fondi anche in caso di mancato accordo con le rappresentanze delle autonomie territoriali (art. 1, comma 451, della legge n. 232 del 2016). 3.6.- In ragione di quanto evidenziato, le censure sollevate dalla Regione Liguria nei confronti dell'art. 1, comma 774, della legge n. 197 del 2022, in riferimento agli artt. 5, 119, commi primo, terzo e quarto, e 120, secondo comma, Cost., non sono fondate. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 332, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025), promosse, in riferimento agli artt. 5, 114, 119, commi primo e quarto, e 120, secondo comma, della Costituzione, dalla Regione Liguria con il ricorso indicato in epigrafe; 2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 774, della legge n. 197 del 2022, promosse, in riferimento agli artt. 5, 119, commi primo, terzo e quarto, e 120, secondo comma, Cost., dalla Regione Liguria con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Marco D'ALBERTI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 19 aprile 2024 Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE PRIMA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sig.ri Magistrati: UMBERTO L. C. SCOTTIPresidente GIULIA IOFRIDAConsigliere FRANCESCO TERRUSIConsigliere-Rel. ROSARIO CAIAZZOConsigliere MASSIMO FALABELLAConsigliere Oggetto: SOCIETA' DI CAPITALI – Ilva – commissariamento – d.l. n. 61/2013 Ud.10/04/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 30541/2020 R.G. proposto da: VALBRUNA NEDERLAND B.V., elettivamente domiciliata in ROMA C.SO VITTORIO EMANUELE II 269, presso lo studio dell’avvocato VACCARELLA ROMANO (VCCRMN42M02H501P) che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati PORTALE GIUSEPPE (PRTGPP38E16A841R), POLICE ARISTIDE (PLCRTD68E10F839F), D'ATTORRE GIACOMO (DTTGCM76S30F205V) -ricorrente- contro PRESIDENZA del CONSIGLIO dei MINISTRI, domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che la rappresenta e difende per legge -controricorrente- avverso la SENTENZA della CORTE D'APPELLO di MILANO n. 2456/2020 depositata il 30/09/2020. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 10/04/2024 dal Consigliere FRANCESCO TERRUSI. Udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Giovanni Battista Nardecchia, che ha concluso per il rigetto dei primi quattro motivi di ricorso e per l’accoglimento del quinto. Uditi gli avvocati Vaccarella e Fedeli. Fatti di causa Valbruna Nederland BV, socia di Ilva s.p.a. al l0,05%, ha citato la Presidenza del Consiglio dei ministri dinanzi al tribunale di Milano in relazione al regime di commissariamento dell’Ilva conseguente al d.l. n. 61 del 2013, convertito in l. n. 89 de 2013, lamentando (per quanto ancora interessa) di aver subito un'espropriazione di fatto della partecipazione azionaria, senza riconoscimento di alcun indennizzo (o risarcimento) commisurato al valore della stessa. Nella resistenza della parte convenuta il tribunale ha respinto la pretesa e ha condannato l’attrice alle spese processuali. Ha invero riconosciuto che la partecipazione societaria è in linea generale suscettibile di esproprio, ma ha negato che la compressione dei diritti e facoltà connaturati alla posizione di socio, quale derivante dalle disposizioni del d.l. n. 61 del 2013, avesse integrato la fattispecie. Ad avviso del tribunale i provvedimenti previsti dal citato d.l. erano riconducibili alla categoria dei provvedimenti ablatori di natura preventiva adottati mediante una legge-provvedimento come reazione a un illecito ambientale, e non quindi alla categoria dei provvedimenti espropriativi assunti d'iniziativa dalla p.a. col fine di realizzare un interesse pubblico individuato nel singolo caso concreto. La causa efficiente dell'adozione della disciplina di cui al d.l. n. 61/2013, da individuarsi, pacificamente, nella grave inottemperanza, da pare di Ilva, alle disposizioni dell'a.i.a. (autorizzazione integrata ambientale), aveva condotto all’accertamento ex lege dei danni alla salute e all’ambiente siccome discendenti dall’attività produttiva, unico ed essenziale presupposto del commissariamento e della attribuzione all’organo commissariale dei relativi poteri gestori. Ne era derivata la semplice e conseguente sospensione dell'esercizio dei poteri di disposizione e gestione dei titolari dell'impresa e dei poteri dell'assemblea senza incidenza dei presupposti di un esproprio. In definitiva, a dire del tribunale, l'attività d’impresa dell’Ilva era stata svolta in modo illegale, in grave, prolungata e continua violazione di norme di legge e provvedimenti amministrativi, e i diritti dei soci non erano stati compressi dalla disciplina di cui al d.l. n. 61 del 2013 a fini di tutela della salubrità ambientale e della salute, essendo stati in vero ancor più fortemente limitati con l'adozione degli anteriori provvedimenti di sequestro preventivo penale dell'intero stabilimento e dei suoi prodotti; mentre, da un lato, col d.l. n. 207 del 2012, la società era stata rimessa in possesso dello stabilimento e, dall’altro, col d.l. n. 61 del 2013, a fronte della constatata assoluta incapacità della governance societaria di svolgere l'attività produttiva in adempimento dell’a.i.a, era stato attuato un intervento mirato a garantire la tutela dei diritti alla salute e alla salubrità ambientale, in modo proporzionale alle necessità. Cosa che non aveva comportato una ingiustificata compressione dei diritti amministrativi dei soci, né aveva determinato la sospensione del loro diritto a percepire i dividendi, ma solo una limitata e proporzionata compressione dei diritti sociali, non integrante l’ipotesi di esproprio e non costituente base per l'insorgere di un diritto a un indennizzo, essendosi trattato della normale conseguenza del rischio d’investimento in un’impresa la cui attività produttiva era risultata connotata da illegalità. Decidendo sugli appelli principale della società e incidentale della Presidenza del Consiglio, la corte d’appello di Milano, all’esito di una lunga motivazione ricostruttiva della vicenda nel suo complesso, ha (in estrema sintesi) confermato, per un verso, che il provvedimento di commissariamento di Ilva non fosse equiparabile a un provvedimento di espropriazione che imponesse l'obbligo di pagare un indennizzo, e ha ritenuto, per altro verso, che i soci dell’Ilva, e in particolare Valbruna, non avessero subito nessun pregiudizio patrimoniale, neppure di fatto, come conseguenza del commissariamento in sé, essendo stata l’Ilva semmai insolvente da prima del commissariamento. Ha quindi respinto l’appello principale salvo che per la parte relativa alla quantificazione delle spese del giudizio di primo grado, che ha rideterminato in conformità della domanda della convenuta (33.000,00 EUR). Mentre ha accolto l’appello incidentale nella parte relativa al presupposto per la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni ex art. 96 cod. proc. civ., condanna che ha pronunciato per somma identica. Ha infine liquidato le spese del grado ponendole per il 95 % a carico dell’appellante principale. Valbruna Nederland BV ha proposto ricorso per cassazione in cinque motivi. L’avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei ministri, ha replicato con controricorso. Il Procuratore Generale ha fatto pervenire una requisitoria scritta. Le parti hanno depositato memorie. Ragioni della decisione I. – Col primo motivo la ricorrente denunzia la violazione degli artt. 42 e 117 cost. in relazione agli artt. 17 della Carta dei diritti fondamentali e 1 del Protocollo n. 1 della CEDU, per avere la sentenza negato che al provvedimento di commissariamento dell'Ilva si attagli l'istituto dell'espropriazione sulla base di un concetto “modellato sull'espropriazione di beni immobili di cui al d.lgs. n. 327/2001”; concetto “grossolanamente diverso da quello, ben più complesso e raffinato, adottato dall'art. 42, 3° comma, cost.”. La critica svolta in questo senso è duplice. In primo luogo, si dice che la corte d’appello avrebbe dovuto applicare il concetto di espropriazione adottato dalla Costituzione. Poiché la legge-provvedimento non ha previsto il diritto all'indennizzo che la Costituzione collega inscindibilmente all'espropriazione, la corte territoriale avrebbe dovuto sollevare una questione di legittimità costituzionale, in vero sollecitata dalla società impugnante, sotto il profilo del diretto, frontale contrasto del d.l. n. 61 del2013 con l'art. 42, terzo comma, cost., e sotto il profilo del contrasto - attraverso la norma interposta costituita dall'art. 117, primo comma, cost. - con l'art. 1 del Protocollo CEDU. Da ciò sarebbe integrato il primo errore dell’impugnata sentenza, visto che la violazione dell'art. 1 citato è integrata non soltanto nelle ipotesi in cui l'espropriazione sia stata illegittima, ma anche quando non vi sia stata determinazione dell'indennità, ovvero non vi sia stata un'espropriazione di fatto. In secondo luogo, si aggiunge che la sentenza impugnata non avrebbe potuto negare la responsabilità dello Stato da atto lecito dannoso. Il rigetto della domanda da questo punto di vista sarebbe avvenuto senza considerazione del principio di giustizia distributiva, perché coi provvedimenti di commissariamento dell’Ilva essa ricorrente si era vista privata dei diritti amministrativi e patrimoniali collegati al possesso della partecipazione sociale, o comunque impossibilitata a esercitarli, con ciò avendo subito appunto l’espropriazione di fatto della partecipazione medesima. Sicché, nel bilanciamento tra interessi contrapposti, il d.l. n. 61 del 2013 (e poi anche il d.l. n. 1 del 2015) aveva finito per porre a suo unico carico i costi di una misura prevista a nome della collettività, con sacrificio imposto al singolo nell'interesse generale, da controbilanciare necessariamente con una misura ristoratoria. II. – Col secondo motivo la ricorrente deduce l’omesso esame di fatti decisivi relativamente all'asserita inottemperanza di Ilva alle prescrizioni dell’a.i.a., per l'ipotesi che nella impugnata sentenza sia ravvisato un particolare profilo della ratio decidendi, relativamente a una pretesa peculiarità del provvedimento ablativo giustificativa, in sé, del mancato riconoscimento del diritto all'indennizzo. III. – Col terzo mezzo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2348, 2350 e 2351 cod. civ., e la nullità della sentenza in relazione all'art. 132 n. 4 cod. proc civ. e agli artt. 115 e 116 stesso codice, per avere la corte d’appello dichiarato di non comprendere quale sarebbe stata la perdita concreta di valore della partecipazione sociale di Valbruna, siccome asseritamente determinata da una sospensione, conseguente al commissariamento, del potere di esercitare i diritti sociali per il periodo limitato di circa un anno e mezzo. Anche in tal caso la sentenza viene criticata per due sostanziali ragioni. La prima, di ordine generale, è che ciascuna azione rappresentativa del capitale sociale ha uguale valore e conferisce al suo possessore uguali diritti, i quali spaziano dal profilo economico- patrimoniale ai profili amministrativi; tali diritti sono oltre tutto in gran parte anche autonomamente alienabili a titolo oneroso. La soppressione di uno o più di questi diritti - o, come si dice accaduto nella vicenda in esame, di tutti i diritti incorporati nelle azioni - determina uno svuotamento della funzione e del valore delle azioni medesime. Pertanto, a dire della ricorrente, non si sarebbe potuto dubitare che il sistema giuridico tutela anche i "soci di minoranza", proprio perché una partecipazione di minoranza è di per sé espressiva, pur con le sue strutturali limitazioni, dei diritti amministrativi e patrimoniali incorporati dalle azioni che la costituiscono e del valore pro quota del complessivo patrimonio sociale che rappresenta. A fronte di tutto questo, la tesi è che lo Stato, mediante il commissariamento, avrebbe espropriato le partecipazioni sociali nell'Ilva, divenendo, di fatto, “il socio unico della stessa società, il solo soggetto munito, attraverso i commissari di nomina governativa, dei poteri connessi alle partecipazioni sociali e del potere di gestire ed orientare l'attività sociale, sia nelle sue scelte gestionali operative, sia nelle scelte strategiche generali” (come per esempio, e in concreto, la richiesta di ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria). E sempre il commissariamento avrebbe determinato non la "mera sospensione" temporanea dei diritti sociali, come detto dalla corte d’appello, bensì la loro privazione definitiva e irreversibile. La seconda ragione è specificamente correlata al valore da attribuirsi all'Ilva (e, di riflesso, alla partecipazione di Valbruna in quest'ultima) al momento del commissariamento. La ricorrente ricorda di aver rappresentato che la privazione della sua partecipazione aveva realizzato un fenomeno espropriativo e che il diritto all’indennizzo si sarebbe dovuto parametrare al valore che la partecipazione espropriata aveva alla data del commissariamento. Detto valore era stato stimato e periziato da una consulenza di parte. La corte d’appello, negando il fondamento del diritto all'indennizzo e la sussistenza di un "pregiudizio" a carico di Valbruna, si sarebbe mossa senza alcuna logica e razionale argomentazione, e senza una benché minima motivazione, essendo incontrovertibile che il commissariamento era stato disposto nel mese di giugno del 2013; e la gestione dell’Ilva successiva al medesimo aveva registrato risultati molto negativi, sulla base dei quali, dietro iniziativa degli stessi commissari e senza il coinvolgimento degli organi societari, era stato dichiarato lo stato di insolvenza e attivata la procedura di amministrazione straordinaria. In questo senso la ricorrente lamenta che la corte territoriale abbia argomentato apoditticamente anche a proposito dei nessi con la condizione d’insolvenza, vista la sentenza penale con la quale il g.u.p. di Milano aveva invece ritenuto dimostrato che Ilva, al momento del commissariamento, si trovava in condizione di equilibrio economico- finanziario. IV. – Col quarto motivo la ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 2247, 2325 e 2331 cod. civ., 5 del d.lgs. n. 231 del 2001, per l'ipotesi che nella impugnata sentenza sia ravvisato un ulteriore profilo della ratio decidendi, relativamente a una pretesa legittimità di un'espropriazione senza indennizzo delle quote di partecipazione dei soci di minoranza in ragione di un presunto inadempimento da parte dell’Ilva agli obblighi ambientali. V. – Infine, col quinto motivo, la sentenza d’appello è censurata nella parte relativa alla responsabilità processuale aggravata nel giudizio di primo grado. È dedotta la violazione o falsa applicazione dell'art. 96 cod. proc. civ., perché sarebbe mancata sia la dimostrazione del danno asseritamente patito dalla controparte, da ristorare in base alla norma richiamata, sia e a monte l’elemento psicologico di colpa grave da porre a fondamento della statuizione di condanna. VI. - Il primo e il terzo motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente. I motivi sono da disattendere perché si risolvono in affermazioni astratte; affermazioni in parte anche condivisibili, ma comunque non risolutive a fronte della situazione di specie rapportata al d.l. n. 61 del 2013; e maggiormente non risolutive in esito a quanto stabilito - in fatto - dal giudice del merito a proposito del nesso causale. VII. - La domanda della società ricorrente risulta esser stata associata al sostanziale esproprio della partecipazione subìto – de facto - per il commissariamento dell’Ilva di cui al d.l. n. 61 del 2013. La società ha rivendicato il diritto al ristoro del danno commisurato alla conseguente perdita di valore della partecipazione stessa. In questa sede, essa ha menzionato anche il d.l. n. 1 del 2015. VIII. - Va precisato che tanto il d.l. n. 61 del 2013, quanto il d.l. n. 1 del 2015 si inseriscono nell’annosa vicenda dell’Ilva come profili di ulteriore rilevanza dei presidi di tutela ambientale considerati dall’anteriore d.l. n. 207 del 2012. A tal proposito merita rammentare che il d.l. n. 207 del 2012 aveva a suo tempo previsto che, presso gli stabilimenti dei quali fosse riconosciuto l'interesse strategico nazionale e che occupassero almeno duecento persone, l'esercizio dell'attività di impresa, quando indispensabile per la salvaguardia dell'occupazione e della produzione, potesse continuare per un tempo determinato (massimo trentasei mesi) anche nel caso in cui fosse stato disposto il sequestro degli impianti, purché nel rispetto delle prescrizioni impartite con una autorizzazione integrata ambientale (a.i.a.) rilasciata in sede di riesame, al fine di assicurare la più adeguata tutela dell'ambiente e della salute secondo le migliori tecniche disponibili. Dopodiché aveva stabilito che l'impianto siderurgico Ilva di Taranto costituisse stabilimento di interesse strategico nazionale e che l’a.i.a., rilasciata alla società Ilva il 26-10-2012, producesse gli effetti autorizzatori previsti; per cui la società era stata reimmessa nel possesso degli impianti e dei beni già sottoposti a sequestro, così che i prodotti in giacenza, compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore del decreto- legge, potessero essere commercializzati dall'impresa. IX. - È importante segnalare il livello di continuità tra il d.l. n. 61 del 2013 e il d.l. n. 207 del 2012, perché di questa anteriore normativa, punto iniziale della vicenda che qui interessa, si è occupata la Corte costituzionale riconoscendone la legittimità (v. C. cost. n. 85 del 2013). Tra le censure prospettate dal tribunale remittente, vi era quella per cui il legislatore, col d.l. n. 207 del 2012, aveva dato vita “ad una legge provvedimento (..) con lesione del principio di separazione tra i 10 poteri e violazione dell'obbligo costituzionale di prevenire e reprimere i reati”. A fronte di tanto, la Corte costituzionale ha messo in risalto che la norma ha razionalmente tracciato “un percorso di risanamento ambientale ispirato al bilanciamento tra la tutela dei beni indicati e quella dell'occupazione, cioè tra beni tutti corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti”: ha trovato la sua ratio “nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 cost.), da cui deriva il diritto all'ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 cost.), da cui deriva l'interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso”. Ferma l’impossibilità di individuare, tra i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione in rapporto di integrazione reciproca, uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri (v. già C. cost. n. 264 del 2012 a proposito dell’inconcepibilità di cd. diritti “tiranni”), la Corte costituzionale ha confermato che resta riservata al legislatore l’individuazione del punto di equilibrio tra i valori primari in gioco (l’ambiente, la salute, il lavoro e via dicendo), secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale. E ha concluso, sul punto, dicendo che la combinazione tra un atto amministrativo (l’a.i.a.) e una previsione legislativa (quella contenuta nel d.l. n. 207 del 2012) “determina le condizioni e i limiti della liceità della prosecuzione di un'attività produttiva per un tempo definito, in tutti i casi in cui uno stabilimento - dichiarato, nei modi previsti dalla legge, di interesse strategico nazionale - abbia procurato inquinamento dell'ambiente, al punto da provocare l'intervento cautelare dell'autorità giudiziaria”. In questa prospettiva la Corte costituzionale ha condivisibilmente sottolineato che la normativa allora censurata (il ripetuto d.l. n. 207 del 2012) non ha previsto la continuazione pura e semplice dell'attività 11 dell’Ilva, ma ha imposto nuove condizioni, tutte soggette a nuovi controlli. X. - Essendo ispirata alla finalità di attuare un non irragionevole bilanciamento tra i princìpi della tutela della salute e dell'occupazione, e non al totale annientamento del primo, la normativa dettata dal d.l. n. 207 del 2012, individuando direttamente nell'impianto siderurgico dell’Ilva uno stabilimento di interesse strategico nazionale, ha avuto le caratteristiche della legge-provvedimento. Ma anche qui senza sconfinare sul terreno dell’illegittimità, perché la legge-provvedimento non è incompatibile, in sé e per sé, con l'assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione, in quanto nessuna disposizione costituzionale comporta una riserva agli organi amministrativi o "esecutivi" degli atti a contenuto particolare e concreto (v. già C. cost. n. 143 del 1989). Invero il d.l. n. 207 del 2012 è stato anche da questo punto di vista ritenuto conforme all’impianto costituzionale, perché ragionevole rispetto al fine. Le leggi-provvedimento devono soggiacere allo scrutinio di legittimità costituzionale per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio (v. C. cost. n. 2 del 1997, C. cost. n. 20 del 2012), ma la loro legittimità è insita nel contenuto, ove ne emergano i criteri ispiratori in sintonia col le scelte realizzate e le relative modalità di attuazione (cfr. C. cost. n. 270 del 2010, C. cost. n. 137 del 2009 e, appunto, C. cost. n. 85 del 2013). XI. - Ciò stante, il d.l. n. 61 del 2013, e poi anche il d.l. n. 1 del 2015, hanno completato il percorso normativo innestato sul d.l. n. 207 del 2012 (conv. in l. n. 231 del 2012) in funzione del medesimo ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali tutelabili. In particolare, il d.l. n. 61 del 2013, dopo aver dettato la disciplina generale, ha accertato la permanenza del pericolo ambientale e per la salute derivante dalla inosservanza dell’a.i.a. da parte dell’Ilva e ha 12 disciplinato il commissariamento straordinario dello stabilimento industriale di interesse strategico nazionale. In questo senso l’art. 2 del d.l. ha operato appunto come legge- provvedimento, nel medesimo contesto di legittimità dettato dalle citate decisioni della Corte costituzionale, col fine di preservare e contemperare valori di rilevanza costituzionale tra loro posti in posizione di necessario bilanciamento. Ha quindi razionalmente affidato la gestione dell’Ilva a un organo commissariale, con attribuzione dei poteri e delle funzioni amministrative e con sospensione temporanea di quelli propri dei soggetti titolari delle funzioni gestorie. Un affidamento ragionevole anche per il fatto che la gestione avrebbe dovuto essere improntata alla copertura dei costi necessari per gli interventi a tutela della salute e dell'ambiente. Dopodiché, col successivo d.l. n. 1 del 2015 (conv. in l. n. 20/2015) l’Ilva è stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria. XII. - Ora nella situazione di specie la ricorrente ha lamentato che mediante il d.l. n. 61 del 2013 e il conseguente commissariamento dell’Ilva fosse stata integrata una sostanziale espropriazione della sua quota di partecipazione al capitale, senza risarcimento e senza indennizzo. A tal riguardo ha fatto leva sugli artt. 42 cost. e 1 del Protocollo addizionale della CEDU. In linea generale può convenirsi con la ricorrente sul fatto che l’art. 42 cost., in coordinazione con l’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU, rende il senso di un parametro applicabile anche al caso della partecipazione azionaria. La partecipazione azionaria rientra, dal punto di vista del Protocollo addizionale della CEDU, nella categoria dei "beni" ai quali è dedicata la previsione di salvaguardia dettata dall’art. 1 ("Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle 13 condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale"). E ciò è stato in diverse occasioni ritenuto dalla giurisprudenza della Corte europea (cfr. ex aliis sent. 25-7-2002, Sovtransavto Holding c. Ucraina, sent. 7-11-2002 Olczak c. Polonia). Non ci sono ragioni per porre in dubbio simile enunciato, tenuto conto che il criterio rilevante ai fini specifici resta integrato dal concetto di "valore patrimoniale", con intrinseca estensione – quindi - a tutto ciò che risulti economicamente valutabile in siffatti termini. Può convenirsi pure sul fatto che, ove il titolare di una partecipazione azionaria sia incorso in uno spossessamento a opera della pubblica autorità, per effetto di una legge-provvedimento, possa verificarsi, in astratto, quella medesima condizione di incidenza sul valore patrimoniale anche se l’effetto del provvedimento è limitato nel tempo. Invero anche la privazione temporanea della proprietà o del bene – secondo l’ottica dell’art. 1 del citato Protocollo CEDU – può essere considerata alla stregua di un’interferenza illegittima, se non ragionevole e non proporzionata allo scopo perseguito. Ovvero e comunque legittima, ma da indennizzare in caso di pregiudizio. XIII. - Tutto questo però rimane confinato sul piano di una configurazione astratta. Resta dirimente la circostanza che nel caso concreto la società aveva dedotto di essere stata espropriata di fatto della partecipazione per effetto del commissariamento dell’Ilva determinato in base al d.l. n. 61 del 2013; espropriata di fatto, non semplicemente compressa nell’esercizio di facoltà economicamente valutabili, così da rivendicare il ristoro del danno commisurato alla perdita del valore della partecipazione stessa. Aveva cioè dedotto che il valore della 14 partecipazione avesse risentito in sé del commissariamento fino a risultarne azzerato o di gran lunga menomato, e che fosse indennizzabile, in conformità di codesta diminuzione, il danno determinatosi per effetto della compressione dei diritti sociali. Ma la corte d’appello, con valutazione di pieno merito, motivata e insindacabile in questa sede, ha accertato tutt’altro. Ha stabilito che, in relazione al connotato funzionale del provvedimento, teso a evitare il perpetuarsi di danni alla salute e all’ambiente in conseguenza della prosecuzione dell’attività produttiva dell’Ilva a dispetto delle violazioni dell’a.i.a., era da escludere che una perdita del genere (o una perdita di valore purchessia) si fosse determinata in conseguenza del commissariamento in sé e per sé considerato. Ha accertato, in vero, che una perdita del valore, anche ammettendo che il patrimonio dell’Ilva fosse stimabile, al momento del commissariamento, nella sorte indicata dall’attrice, si sarebbe dovuta ricondurre al semplice “manifestarsi dello stato d’insolvenza della società”; un’insolvenza tuttavia “già presente” al momento del commissariamento e semplicemente evidenziata dall’organo commissariale dopo una gestione di un solo anno e mezzo. XIV. - L’accertamento rileva al fine di escludere il nesso di causalità ed è istituzionalmente riservato al giudice del merito. L’accertata mancanza di prova dell’incidenza della misura commissariale sul valore della partecipazione, risolvendosi in una valutazione in fatto, assume efficacia risolutiva della lite. Deve essere fissato il seguente principio: - ai fini del d.l. n. 61 del 2013, che ha disposto il commissariamento dell’Ilva, è in astratto invocabile dal soggetto titolare di una partecipazione minoritaria il diritto a un indennizzo per lesione del valore patrimoniale della quota ai sensi degli artt. 42 cost. e 1 del Protocollo addizionale della CEDU, rientrando la partecipazione azionaria nella categoria dei "beni" ai quali è dedicata la previsione di salvaguardia 15 dettata dall’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU; spetta però al giudice del merito stabilire se in effetti un pregiudizio di tal genere vi sia stato come diretta conseguenza della legge-provvedimento, e la relativa valutazione, se motivata, resta insindacabile in cassazione. Né può dirsi – come invece la ricorrente persevera nel fare col terzo motivo di ricorso - che la valutazione non sia stata motivata nel caso di specie, secondo l’ottica che sottende all’art. 132 cod. proc. civ. La motivazione emerge dalla ricostruzione dell’intera vicenda, e rende con ciò intelligibile la ratio decidendi (v. Cass. Sez. U n. 8054- 14). Ne segue l’infondatezza, da tal punto di vista, dei motivi primo e terzo e, nel resto dell’argomentazione, la loro inammissibilità per difetto di aderenza alla statuizione concreta. Consequenziale è assorbimento dei motivi secondo e quarto. XV. - Il quinto motivo è inammissibile. La corte d’appello ha accolto il gravame incidentale dell’avvocatura dello Stato quanto alla ricorrenza, per il giudizio di primo grado, dei presupposti dell’art. 96 cod. proc. civ. Contrariamente a quanto obiettato nell’attuale controricorso, la condanna risulta pronunciata ai sensi dell’art. 96, primo comma, non dell’art. 96, terzo comma, per avere la società agito con mala fede o colpa grave. I presupposti sono stati ravvisati in ciò: che la società Valbruna Nederland aveva “chiesto, sulla base di argomenti palesemente infondati la condanna dello Stato al pagamento di una somma ingente”; aveva “preteso di far ricadere sullo Stato le conseguenze negative di circostanze che rientrano, senza alcun dubbio, nella sfera di rischio dell'imprenditore”; era socia dell’Ilva con quota di minoranza, ma comunque significativa, la quale era stata “responsabile di inadempimenti gravissimi”, che aveva danneggiato l'intera collettività, “con gravissime ripercussioni dirette in termini economici proprio sulla Pubblica Amministrazione avverso la quale [era stata] avanzata la 16 pretesa indennitaria”; era titolare di una quota di partecipazione societaria tale da consentirle, invero, quanto meno “la diretta conoscenza delle gravi omissioni in materia ambientale” (..) mai adeguatamente affrontate, ed anzi tenute nascoste tanto da divenire di fatto insanabili”. XVI. - La ricorrente censura la statuizione sulla scorta di due sostanziali argomenti. Perché il presunto danno risarcibile ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ. non sarebbe stato mai provato, né paventato dall’avvocatura. Perché inoltre difettava l'elemento psicologico caratterizzante il contegno illecito riferito all’inammissibilità o all’infondatezza dell’azione temeraria, essendo fuori luogo le argomentazioni incentrate sulla illiceità della condotta dell’Ilva. XVII. - Il motivo è inammissibile, perché introduce una surrettizia critica di merito. Dallo stesso ricorso risulta che l’avvocatura aveva chiesto in primo grado la condanna della società attrice ex art 96 cod. proc. civ. invocando un danno soggetto a valutazione equitativa, sicché è pretestuoso affermare che non fosse stato paventato un danno da lite temeraria. L'art. 96 cod. proc. civ., nel prevedere la responsabilità della parte che ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, postula una condotta processuale qualificata da dolo, consistente nella consapevolezza del proprio torto al momento della proposizione della domanda o dell'eccezione, oppure da colpa grave. La colpa grave è ravvisabile nel fatto che la parte non abbia avvertito l'ingiustizia della propria pretesa con quel minimo di diligenza all’uopo richiesta. Il presupposto per l'applicabilità della norma, implicando l'accertamento dell'elemento soggettivo, involge sempre una indagine di fatto, i cui risultati sono sottratti al sindacato di legittimità se motivati (v. tra le moltissime Cass. Sez. 3 n. 2951-68, Cass. Sez. L n. 2475-95, 17 Cass. Sez. L n. 1619-98, Cass. Sez. 2 n. 73-03, Cass. Sez. L. n. 4052- 03, Cass. Sez. 1 n. 13071-03, Cass. Sez. 1 n. 5337-07, Cass. Sez. 2 n. 327-10, Cass. Sez. 6-2 n. 7222-22). La motivazione è nella specie ravvisabile e non può dirsi palesemente incongruente o illogica. La valutazione resta confinata dal criterio oramai validato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione (v. ancora Cass. Sez. U n. 8053-14). XVIII. – Il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza. p.q.m. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in 90.000,00 EUR oltre le spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso, se dovuto. Deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione civile, addì 10 aprile 2024. Il Presidente Il Consigliere estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), promossi dalla Corte di cassazione, sezione tributaria, con ordinanze del 13 aprile 2023, iscritte ai numeri 84 e 85 del registro ordinanze 2023 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell'anno 2023. Visti gli atti di costituzione di casa di cura Valle Fiorita srl; udito nell'udienza pubblica del 5 marzo 2024 il Giudice relatore Angelo Buscema; udito l'avvocato Rosamaria Nicastro per casa di cura Valle Fiorita srl; deliberato nella camera di consiglio del 5 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.- Con due ordinanze di identico tenore, iscritte ai numeri 84 e 85 del registro ordinanze 2023, la Corte di cassazione, sezione tributaria, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), nella sua formulazione originaria applicabile ratione temporis, nella parte in cui non prevede l'esenzione dal pagamento dell'imposta municipale unica (IMU) nell'ipotesi di occupazione abusiva dell'immobile che non possa essere liberato pur in presenza di denuncia agli organi istituzionali preposti, per violazione degli artt. 3, primo comma, 53, primo comma, e 42, secondo comma, della Costituzione e dell'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 2.- Riferisce il rimettente che la controversia nasce a seguito di due ricorsi della casa di cura Valle Fiorita srl avverso il silenzio rifiuto opposto da Roma Capitale sull'istanza di rimborso del versamento IMU, rispettivamente per le annualità 2013 e 2014, relativo a un immobile di proprietà della suddetta società, occupato abusivamente da terzi a partire dal dicembre 2012. Tale società aveva dimostrato che erano state attivate tutte le necessarie iniziative per prevenire l'occupazione dell'immobile («dalla predisposizione della chiusura a mezzo blocchetti di cemento delle aperture [...] alla attivazione di un servizio di sorveglianza privata ancorché non armata sin dal mese di marzo 2012») e che aveva altresì provveduto a denunciare immediatamente all'autorità preposta l'avvenuta sua occupazione abusiva e tuttavia, benché fosse stato disposto un sequestro preventivo dell'immobile da parte del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Roma nell'agosto 2013, lo stesso non aveva avuto esecuzione per motivi di ordine pubblico. Secondo il giudice a quo, dunque, casa di cura Valle Fiorita srl era proprietaria dell'immobile, ma al contempo ne aveva perduto il possesso, sicché non sussisterebbe il presupposto per l'applicazione dell'imposta di cui era stato chiesto il rimborso, atteso che la predetta società - pur avendo ottenuto un decreto di sequestro preventivo dall'autorità giudiziaria che aveva ipotizzato il reato di occupazione abusiva di immobile sanzionato dall'art. 633 del codice penale - non era riuscita a ripristinare il «contatto materiale con il bene». Dalle indagini giudiziarie risultava infatti che gli occupanti avevano modificato i locali occupati, installando tra l'altro cancellate volte a limitare l'accesso all'immobile. Stante la mancata esecuzione del provvedimento di sequestro, casa di cura Valle Fiorita srl ha proposto, in data 21 ottobre 2013, ricorso innanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo ai sensi dell'art. 34 CEDU; con la sentenza 13 dicembre 2018, Casa di cura Valle Fiorita srl contro Italia, la Corte EDU ha accolto le istanze della società e condannato lo Stato italiano al risarcimento del danno, affermando che la mancata esecuzione del provvedimento di sequestro preventivo era riconducibile alla previsione di cui al primo capoverso del primo comma dell'art. 1 Prot. addiz. CEDU, secondo cui, l'esercizio reale ed effettivo del diritto alla protezione della proprietà, può «esigere delle misure positive di tutela, in particolare laddove sussista un legame diretto tra le misure che un ricorrente potrebbe legittimamente attendersi dalle autorità e il godimento effettivo da parte di quest'ultimo dei suoi beni», rilevando che tale assunto, combinato con il principio della preminenza del diritto, giustifica l'irrogazione di una sanzione a danno dello Stato che non abbia dato esecuzione ovvero che abbia impedito l'esecuzione di una decisione giudiziaria. Secondo il giudice rimettente, casa di cura Valle Fiorita srl avrebbe pertanto potuto trasferire la proprietà dell'immobile ma non il possesso, almeno fino a quando lo sgombero degli occupanti abusivi non fosse stato eseguito. 3.- Ritiene il giudice a quo che non assumerebbe rilevanza l'entrata in vigore, nelle more, dell'art. 1, comma 81, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025), che, a decorrere dal 1° gennaio 2023, modificando l'art. 1, comma 759, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), concernente i casi di esenzione dall'imposta municipale propria, ha previsto che «[s]ono esenti dall'imposta, per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte: [...] g-bis) gli immobili non utilizzabili né disponibili, per i quali sia stata presentata denuncia all'autorità giudiziaria in relazione ai reati di cui agli articoli 614, secondo comma, o 633 del codice penale o per la cui occupazione abusiva sia stata presentata denuncia o iniziata azione giudiziaria penale». Ciò in quanto tale disposizione non potrebbe considerarsi retroattiva, ai sensi dell'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, in mancanza di indicazioni espresse in tal senso, né potrebbe qualificarsi come interpretativa, perché il contenuto precettivo di essa non si ricollegherebbe ad altra norma preesistente da chiarire o da precisare. Il dato normativo su cui si baserebbe l'ente impositore per il diniego dell'istanza di rimborso della società sarebbe dunque costituito dai previgenti artt. 13, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214 - secondo cui «[l]'imposta municipale propria ha per presupposto il possesso di immobili di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504» - e 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, i quali prevedono che «[s]oggetti passivi dell'imposta municipale propria sono il proprietario di immobili, inclusi i terreni e le aree edificabili, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali alla cui produzione o scambio è diretta l'attività di impresa, ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie sugli stessi [...]. Per gli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione, concessi in locazione finanziaria, soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del contratto», applicabili ratione temporis. Da ciò conseguirebbe che, ai fini impositivi, sarebbe rilevante non già il possesso del bene, bensì solo l'esistenza di un titolo. 4.- Il rimettente sostiene che la questione sia rilevante ai fini della decisione dei giudizi a quibus, giacché l'eventuale declaratoria d'illegittimità costituzionale della disposizione censurata inciderebbe sul diritto vivente (favorevole all'ente impositore) ormai consolidatosi. Sussisterebbe, difatti, un effettivo e concreto rapporto di strumentalità tra la definizione del giudizio principale e la risoluzione della questione di legittimità costituzionale in quanto il rimettente, ai fini della decisione dei giudizi a quibus, dovrebbe fare applicazione della disposizione censurata. 5.- Quanto alla non manifesta infondatezza il giudice a quo dubita, anzitutto, della compatibilità della disposizione in esame con gli artt. 53 e 3 Cost. In primo luogo, il rimettente ritiene sussistano elementi di contrasto con il principio di capacità contributiva di cui all'art. 53 Cost. e con il principio di uguaglianza tributaria, in base al quale a situazioni uguali dovrebbero corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse dovrebbe corrispondere un trattamento tributario diseguale. Ritiene il rimettente che, per le annualità d'imposta in cui permane l'occupazione abusiva per scelte degli organi amministrativi preposti allo sgombero degli immobili, il prelievo tributario si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali evocati. Difatti, il possesso legittimante il sorgere della soggettività passiva ai fini IMU, per essere effettivo, presupporrebbe che la cosa rientri materialmente nella disponibilità individuale del possessore, di talché quest'ultimo possa esercitare le prerogative discendenti dal diritto ricadente sul bene. Nella fattispecie in esame, in cui casa di cura Valle Fiorita srl, proprietaria dell'immobile, è stata privata della possibilità di esercitare qualsivoglia diritto sulla cosa, secondo il rimettente l'originaria ricorrente non avrebbe dovuto essere considerata soggetto passivo ai fini IMU, stante l'assenza dei requisiti minimi affinché possa configurarsi una situazione possessoria e, conseguentemente, una capacità contributiva. Ai fini del verificarsi o meno del presupposto impositivo dell'IMU, nei casi come quello in esame, assumerebbe precipuo rilievo la perdita del possesso in relazione alle dichiarazioni degli organi di polizia che attestino l'impossibilità di sgomberare l'immobile. Se infatti gli organi istituzionali preposti non fossero in grado di difendere il diritto di proprietà costituzionalmente sancito, il proprietario, di riflesso, rimarrebbe senza tutela e quindi senza possesso. Innanzi a una condizione «patologica» come quella relativa ai giudizi a quibus, ove un soggetto si trovi nell'impossibilità di recuperare il possesso del proprio immobile per scelta degli organi dello Stato preposti a sgomberare gli immobili occupati abusivamente (e non a causa di comportamento illegittimo del proprietario o per sua inerzia), risulterebbe in contrasto con i principi costituzionali imporre il pagamento dell'imposta per gli esercizi in cui permanga l'occupazione abusiva, difettando la capacità contributiva del proprietario. In secondo luogo, la disposizione censurata sarebbe in conflitto con l'art. 3 Cost. perché sarebbe irragionevole che al proprietario di un immobile inagibile o inabitabile (eventualmente, a causa della sua inerzia) sia riconosciuta, ai sensi dell'art. 13, comma 3, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, una riduzione della base imponibile IMU, mentre, per il proprietario di un immobile occupato abusivamente per causa non dipendente dalla sua volontà e privo di strumenti di tutela giuridica per recuperarne il possesso sia invece prevista una tassazione integrale. 5.1.- La tassazione degli immobili occupati abusivamente, e non «sgomberabili», susciterebbe dubbi di compatibilità costituzionale anche con gli artt. 42, secondo comma, Cost. e 1 Prot. addiz. CEDU, i quali garantiscono e tutelano la proprietà privata. Un'occupazione abusiva dovrebbe permettere, difatti, l'esercizio di azioni a tutela della proprietà o del possesso, cui si accompagni l'intervento della pubblica amministrazione volto allo «sgombero» dell'immobile. Tuttavia, se l'intervento dell'autorità non sia risolutivo, con conseguente permanenza dello stato di illiceità, e il diritto di proprietà non riceva tutela da parte dell'amministrazione pubblica, quest'ultima ne trarrebbe un vantaggio, consistente nella riscossione del tributo pur in presenza di una situazione illecita da essa «tollerata» a detrimento del diritto di proprietà del proprietario dell'immobile. Ciò contrasterebbe con quanto affermato più volte dalla Corte EDU, secondo la quale non è consentito alla pubblica amministrazione trarre vantaggio da propri comportamenti illeciti e, più in generale, da una situazione di illegalità dalla stessa determinata (sono richiamate Corte EDU, sentenze 13 ottobre 2015 [recte: 2005], La Rosa e Alba contro Italia e 6 marzo 2007, Scordino contro Italia). Questo principio avrebbe trovato ingresso anche nella giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze n. 71 del 2015 e n. 293 del 2010). 5.2.- In definitiva, il rimettente ritiene non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 42, secondo comma, e 53, primo comma, Cost., anche in relazione all'art. 1 Prot. addiz. CEDU, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011 (nel testo applicabile ratione temporis), nella parte in cui non prevede l'esenzione d'imposta nell'ipotesi di occupazione abusiva dell'immobile che non possa essere liberato pur in presenza di denuncia agli organi istituzionali preposti. 6.- Si è costituita in giudizio casa di cura Valle Fiorita srl. Sostiene la difesa di parte che l'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011 violerebbe l'art. 53 Cost., poiché, nell'ipotesi in cui un soggetto sia sprovvisto sia della disponibilità materiale del bene, in quanto abusivamente occupato, sia della possibilità di esercitare qualsivoglia diritto sullo stesso e di ricevere dall'ordinamento una adeguata tutela nella fase dell'esercizio del proprio diritto possessorio, difetterebbe l'effettività, la certezza e l'attualità del presupposto d'imposta e, conseguentemente, difetterebbe la capacità contributiva, che quel presupposto dovrebbe esprimere. Una pretesa impositiva potrebbe considerarsi conforme all'art. 53 Cost. soltanto se collegata a fatti espressivi di capacità contributiva. In particolare, in base all'art. 8 del d.lgs. n. 23 del 2011, il presupposto dell'IMU dovrebbe individuarsi nel «possesso di immobili diversi dall'abitazione principale». Tuttavia, il possesso legittimante il sorgere della soggettività passiva ai fini IMU, ex art. 9 del medesimo d.lgs. n. 23 del 2011, per essere effettivo, concreto e attuale, presupporrebbe che il bene da sottoporre a tassazione sia nella disponibilità del possessore di talché quest'ultimo possa esercitare le prerogative discendenti dal diritto ricadente sul bene. Nell'ipotesi in cui il proprietario sia sprovvisto della disponibilità materiale del bene e della possibilità di ripristinare tale disponibilità verrebbe a mancare il presupposto dell'imposta, che si concretizzerebbe nell'effettiva, concreta e attuale possibilità di esercizio dei poteri di disposizione e godimento del bene, in quanto manifestazioni di capacità contributiva. Dunque, non sarebbe configurabile in capo al titolare di un immobile occupato abusivamente, che abbia esperito infruttuosamente tutti i mezzi a tutela del proprio diritto, una situazione possessoria espressiva di capacità contributiva. Pertanto, per gli esercizi in cui permanga l'occupazione abusiva per cause indipendenti dalla volontà del proprietario del bene che abbia esperito i mezzi di tutela approntati dall'ordinamento, mancherebbe il presupposto d'imposta, cosicché l'imposizione si porrebbe in contrasto con il principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost. L'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011 violerebbe anche l'art. 3 Cost., in quanto determinerebbe una ingiustificata lesione del principio di uguaglianza, e si porrebbe in contrasto anche con il criterio di ragionevolezza. Sostiene la difesa di parte che in virtù del principio secondo cui a situazioni uguali debbono corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, situazioni diverse, per propria natura sia giuridica che fattuale, devono avere un diverso trattamento tributario, sarebbe evidente che non potrebbero essere sovrapposte e trattate in modo eguale due situazioni giuridiche strutturalmente diverse che esprimerebbero una diversa capacità contributiva: da un lato, quella del proprietario che abbia il possesso della res e, dall'altro, quella del proprietario che non abbia tale possesso. Inoltre, la disposizione censurata sarebbe in contrasto con il parametro di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., in quanto le scelte legislative sarebbero incoerenti e contraddittorie. In particolare, sarebbe irragionevole che al proprietario di un immobile inagibile o inabitabile sia riconosciuta una riduzione della base imponibile IMU, ex art. 13, comma 3, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, mentre, al proprietario di un immobile occupato abusivamente, e al quale l'ordinamento non offra strumenti di tutela efficaci, sia applicata una tassazione integrale. L'art. 9, comma l, del d.lgs. n. 23 del 2011 (nel testo applicabile ratione temporis) violerebbe altresì l'art. 42, secondo comma, Cost., che sancisce il diritto fondamentale - tutelato erga omnes - della proprietà privata, e l'art. 1 Prot. addiz. CEDU. Sostiene la difesa di parte che, in ipotesi di occupazione abusiva di un immobile, laddove il proprietario abbia posto in essere inutilmente le azioni a tutela della proprietà e del possesso volte al ripristino della legittima situazione possessoria, il diritto di proprietà, pur costituzionalmente garantito, non riceverebbe una tutela effettiva da parte dell'ordinamento. In tali ipotesi, alla luce della disposizione censurata ratione temporis vigente, la pubblica amministrazione avrebbe addirittura un vantaggio, consistente nella riscossione di un tributo, pur in presenza di una situazione illegale in relazione alla quale si è astenuta dall'esercizio dei propri poteri coercitivi. Non sarebbe ammissibile, in uno stato di diritto, che l'ordinamento contempli gli strumenti necessari alla tutela della posizione giuridica soggettiva del privato, imponendo a costui di avvalersene per poter realizzare il proprio interesse secundum ius e poi non faccia in modo che l'interesse del singolo sia soddisfatto in sede esecutiva con la forza che solo lo Stato è autorizzato a dispiegare, ma ritenga, comunque, che quel soggetto venga ritenuto centro di imputazione di obblighi tributari indefettibilmente connessi alla possibilità di esercizio dei titoli possessori. La disposizione censurata sarebbe in contrasto altresì con l'art. l Prot. addiz. CEDU che tutela la proprietà privata, cosicché una restrizione della tutela proprietaria dovrebbe rispondere a un giusto equilibrio tra esigenze pubbliche ed esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell'individuo e non potrebbe essere determinata dall'inerzia totale e prolungata della competente autorità, la quale non potrebbe «trarre vantaggio da propri comportamenti illeciti e, più in generale, da una situazione di illegalità dalla stessa determinata» (sono richiamate le sentenze della Corte EDU, La Rosa e Alba e Scordino). Ritiene dunque la difesa della parte che la disposizione censurata, consentendo alla pubblica amministrazione di riscuotere un tributo sulla base di una situazione di illegalità (occupazione abusiva di un immobile) da essa tollerata e non opposta, a detrimento del diritto di proprietà, sia in contrasto con gli artt. 42, secondo comma, Cost. e l Prot. addiz. CEDU. Considerato in diritto 1.- Con le ordinanze indicate in epigrafe, la Corte di cassazione, sezione tributaria, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, nella sua formulazione originaria applicabile ratione temporis, nella parte in cui non prevede l'esenzione dal pagamento dell'IMU nell'ipotesi di immobile occupato abusivamente nonostante la denuncia agli organi istituzionali preposti, per violazione degli artt. 3, primo comma, 53, primo comma, 42, secondo comma, Cost. e 1 Prot. addiz. CEDU. 2.- Riferisce il giudice a quo che nel dicembre 2012 era stato occupato abusivamente un edificio della casa di cura Valle Fiorita srl e che questa aveva proposto due ricorsi avverso il silenzio rifiuto opposto da Roma Capitale sull'istanza di rimborso del versamento IMU, rispettivamente per le annualità 2013 e 2014. Nei ricorsi venivano evidenziate la perdita del possesso dell'immobile nonché la denuncia immediata del fatto in sede penale, e la mancata esecuzione del sequestro preventivo dell'immobile disposto dall'autorità giudiziaria. Il rimettente afferma che la suddetta società, pur essendo proprietaria dell'immobile, ne aveva al contempo perduto il possesso, sicché non sussisterebbe il presupposto impositivo dell'IMU. Ritiene dunque il giudice a quo che, in virtù della disciplina censurata e del relativo diritto vivente, ai fini impositivi sarebbe rilevante solo l'esistenza di un titolo che attesti un diritto reale sull'immobile o un contratto di leasing, non anche il relativo possesso del bene. La questione sarebbe non manifestamente infondata con riguardo agli artt. 53, primo comma, e 3, primo comma, Cost., perché l'immobile occupato abusivamente non costituirebbe un valido indice di capacità contributiva e si determinerebbe così un trattamento uguale di situazioni diseguali, in quanto verrebbero sottoposti alla stessa imposizione sia gli immobili occupati abusivamente sia quelli che non lo siano. La perdita del possesso assumerebbe un particolare significato alla luce, da un lato, della denuncia agli organi istituzionali da parte del proprietario dell'immobile occupato abusivamente e, dall'altro, dell'inerzia delle autorità preposte al suo sgombero, cosicché sarebbe irragionevole riconoscere al proprietario di un immobile inagibile o inabitabile (eventualmente, a causa della sua inerzia) una riduzione della base imponibile IMU e prevedere, invece, la tassazione integrale a carico del proprietario di un immobile occupato abusivamente per causa non dipendente dalla sua volontà e privo di strumenti di tutela giuridica per recuperarne il possesso. La disposizione censurata sarebbe in contrasto anche con l'art. 42, secondo comma, Cost. e con l'art. 1 Prot. addiz. CEDU, i quali garantiscono e tutelano la proprietà privata, perché quest'ultima dovrebbe attribuire l'esercizio di azioni a tutela della proprietà o del possesso, ivi incluso l'intervento della forza pubblica per lo «sgombero» dell'immobile e per di più non sarebbe consentito alla pubblica amministrazione trarre vantaggio da propri comportamenti illeciti. 3.- I giudizi hanno ad oggetto la stessa disposizione che è censurata con riferimento agli stessi parametri e con le medesime argomentazioni; ponendo, pertanto, identiche questioni, vanno riuniti e decisi con un'unica pronuncia. 4.- La questione è rilevante in quanto la disposizione censurata - pur successivamente abrogata dall'art. 1, comma 780, della legge n. 160 del 2019 a decorrere dal 1° gennaio 2020 - trova effettiva applicazione nei giudizi a quibus, ove, di fronte alla Corte di cassazione, si discute circa la debenza o meno dell'IMU per le annualità d'imposta relative al 2013 e al 2014. 5.- Preliminarmente, è necessaria una breve premessa normativa e giurisprudenziale relativa ai presupposti impositivi dell'IMU. 5.1.- L'IMU è un'imposta che grava sugli immobili, introdotta sulla base degli artt. 8 e 9 del d.lgs. n. 23 del 2011 (disposizioni modificate molte volte nel corso degli anni) e 13 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito (disposizione anch'essa più volte modificata), in sostituzione dell'imposta comunale sugli immobili (ICI), quest'ultima, istituita con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), può essere considerato il tributo precursore dell'IMU. A decorrere dal 2014 e fino al 2019, poi, l'IMU è stata disciplinata dalla legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)» quale imposta facente parte, insieme al tributo per i servizi indivisibili (TASI) e alla tassa sui rifiuti (TARI), dell'imposta unica comunale (IUC). La legge n. 160 del 2019 ha successivamente abolito, a decorrere dall'anno 2020, la IUC e - tra i tributi che ne facevano parte - la TASI. Sono, invece, rimasti in vigore tra quelli che componevano la medesima IUC, la TARI e l'IMU, quest'ultima come disciplinata dalla stessa legge n. 160 del 2019. Secondo l'art. 9 del d.lgs. n. 23 del 2011, nel testo applicabile ratione temporis, e in particolare con riferimento alle annualità d'imposta 2013 e 2014 oggetto delle due ordinanze di rimessione: «1. [s]oggetti passivi dell'imposta municipale propria sono il proprietario di immobili, inclusi i terreni e le aree edificabili, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l'attività dell'impresa, ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie sugli stessi. Nel caso di concessione di aree demaniali, soggetto passivo è il concessionario. Per gli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione, concessi in locazione finanziaria, soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del contratto. 2. L'imposta è dovuta per anni solari proporzionalmente alla quota ed ai mesi dell'anno nei quali si è protratto il possesso; a tal fine il mese durante il quale il possesso si è protratto per almeno quindici giorni è computato per intero. A ciascuno degli anni solari corrisponde un'autonoma obbligazione tributaria». Inoltre, secondo il precedente art. 8, comma 2, «[l]'imposta municipale propria ha per presupposto il possesso di immobili»; negli stessi identici termini si esprime l'art. 13, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, nel testo applicabile ratione temporis. Da ultimo, l'art. 1, comma 81, della legge n. 197 del 2022 ha modificato l'art. 1, comma 759, della legge n. 160 del 2019, il quale, nel testo attualmente in vigore, prevede che, a decorrere dal 1° gennaio 2023, «[s]ono esenti dall'imposta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte […] g-bis) gli immobili non utilizzabili né disponibili, per i quali sia stata presentata denuncia all'autorità giudiziaria in relazione ai reati di cui agli articoli 614, secondo comma, o 633 del codice penale o per la cui occupazione abusiva sia stata presentata denuncia o iniziata azione giudiziaria penale». 6.- Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, nel testo applicabile ratione temporis, sollevata in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 53, primo comma, Cost. è fondata, nei termini che seguono. Indipendentemente dalla nozione di possesso cui debba farsi riferimento a proposito dell'IMU, è irragionevole affermare che sussista la capacità contributiva del proprietario che abbia subito l'occupazione abusiva di un immobile che lo renda inutilizzabile e indisponibile e si sia prontamente attivato per denunciarne penalmente l'accaduto, tanto che il legislatore, come già rilevato, è intervenuto con la legge n. 197 del 2022 per dichiarare non dovuta l'imposta in questione. Emblematico è il caso oggetto dei giudizi a quibus in cui la società proprietaria aveva assunto tutte le necessarie iniziative per prevenire l'occupazione dell'immobile e aveva tempestivamente provveduto a denunciare all'autorità giudiziaria penale l'avvenuta occupazione contro la sua volontà. Benché nell'agosto 2013 fosse stato disposto un sequestro preventivo dell'immobile ex art. 321 del codice di procedura penale da parte del giudice per le indagini preliminari, lo stesso sequestro non aveva avuto esecuzione per ragioni di ordine pubblico. Pertanto, la società proprietaria non era riuscita a tornare nel possesso dell'immobile nonostante l'uso di una diligenza adeguata. Questa Corte ha costantemente affermato che «ogni prelievo tributario deve avere una causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza (ex plurimis, sentenze n. 156 del 2001, n. 111 del 1997, n. 21 del 1996, n. 143 del 1995, n. 179 del 1985 e n. 200 del 1976)» (sentenza n. 10 del 2023) e ha sottolineato che «la sottrazione all'imposizione (o la sua riduzione) è resa necessaria […] dal rilievo di una minore o assente capacità contributiva (che il legislatore può riscontrare in relazione ad alcune circostanze di fatto)» (sentenza n. 120 del 2020). È dunque irragionevole e contrario al principio della capacità contributiva che il proprietario di un immobile occupato abusivamente, il quale abbia sporto tempestiva denuncia all'autorità giudiziaria penale sia, ciò nonostante, tenuto a versare l'IMU per il periodo decorrente dal momento della denuncia a quello in cui l'immobile venga liberato, perché la proprietà di tale immobile non costituisce, per il periodo in cui è abusivamente occupato, un valido indice rivelatore di ricchezza per il proprietario spogliato del possesso. Del resto, questa impostazione è coerente con una ipotesi impositiva per certi versi simile in cui, in caso di perdita della disponibilità del bene per fatto di terzo, l'ordinamento giuridico stabilisce il venir meno dell'obbligo del pagamento dell'imposta. È questo il caso della tassa automobilistica: l'art. 5 del decreto-legge 30 dicembre 1982, n. 953 (Misure in materia tributaria), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1983, n. 53, stabilisce infatti, ai commi trentasettesimo e trentottesimo, che, nonostante il soggetto passivo sia il proprietario del bene, «[l]a perdita del possesso del veicolo o dell'autoscafo per forza maggiore o per fatto di terzo o la indisponibilità conseguente a provvedimento dell'autorità giudiziaria o della pubblica amministrazione, annotate nei registri indicati nel trentaduesimo comma, fanno venir meno l'obbligo del pagamento del tributo per i periodi d'imposta successivi a quello in cui è stata effettuata l'annotazione. L'obbligo del pagamento ricomincia a decorrere dal mese in cui avviene il riacquisto del possesso o la disponibilità del veicolo o dell'autoscafo». 7.- Deve pertanto affermarsi l'illegittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, nel testo applicabile ratione temporis, per violazione degli artt. 3, primo comma, e 53, primo comma, Cost., nella parte in cui non prevede che - sul modello dell'art. 1, comma 81, della legge n. 197 del 2022 citato dal rimettente - non sono soggetti all'imposta municipale propria, per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte, gli immobili non utilizzabili né disponibili, per i quali sia stata presentata denuncia all'autorità giudiziaria in relazione ai reati di cui agli artt. 614, secondo comma, o 633 cod. pen. o per la cui occupazione abusiva sia stata presentata denuncia o iniziata azione giudiziaria penale. 8.- L'accoglimento della questione in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 53, primo comma, Cost. permette di ritenere assorbite le ulteriori censure. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), nel testo applicabile ratione temporis, nella parte in cui non prevede che non siano soggetti all'imposta municipale propria, per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte, gli immobili non utilizzabili né disponibili, per i quali sia stata presentata denuncia all'autorità giudiziaria in relazione ai reati di cui agli artt. 614, secondo comma, o 633 del codice penale o per la cui occupazione abusiva sia stata presentata denuncia o iniziata azione giudiziaria penale. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Angelo BUSCEMA, Redattore Valeria EMMA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 18 aprile 2024 Il Cancelliere F.to: Valeria EMMA
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9489 del 2023, proposto dal Consorzio Stabile Si. S.c.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, in relazione alla procedura CIG 9607502974, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Cr. Le., Mi. Lo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro La Regione Campania, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Ca., Ma. Co., Fa. Ni., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti il costituendo RTI Consorzio Stabile ET. s.c.a.r.l. (mandataria) - R.C. Co. S.r.l. (mandante) - Br. Co. S.p.a. (mandante) - Ci. Im. S.r.l. (mandante), in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dagli avv.ti Lo. Le. e Ar. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio legale Ca. e Partners in Roma, Piazza (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania-Salerno, Sezione I, 31 ottobre 2023, n. 2444, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Campania; Visto l'atto di costituzione in giudizio e il ricorso incidentale proposto dal Consorzio Stabile ET. s.c.a.r.l., R.C. Co. S.r.l., Br. Co. S.p.A., Ci. Im. S.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120 cod. proc. amm.; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 aprile 2024 il Cons. Giovanni Pescatore e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. E' controverso l'esito della procedura aperta indetta dalla Regione Campania - Ufficio Speciale Grandi Opere, ai sensi degli artt. 35 - 58 e 60 decreto legislativo 18 aprile 2016 n. 50, per l'affidamento dei lavori di costruzione del "Nuovo Complesso Ospedaliero Sa. Gi. di Di. e Ru. d'A." di Sa., per un importo a base di asta di oltre 367 milioni di euro. 2. In un primo tempo (verbale n. 9 del 16 giugno 2023) la selezione ha visto prevalere il RTI ET. con il punteggio totale di 82,42 (di cui 63 per l'offerta tecnica, 15 per l'offerta economica e 4,41 per l'offerta tempo) sul secondo classificato Consorzio Sis, premiato con il punteggio totale di 80,21 (di cui 74 punti per l'offerta tecnica, 1,21 per l'offerta economica e 5 per l'offerta tempo). 3. A distanza di venti giorni (verbale n. 10 del 7 luglio 2023) la Commissione si è nuovamente riunita in seduta riservata e ha modificato la graduatoria, attribuendo al RTI ET. il punteggio totale di 78,81 (di cui 63 per l'offerta tecnica, 15 per l'offerta economica e 0,806 per l'offerta tempo) e confermando al Consorzio Si. il punteggio totale 80,21 (di cui 74 punti per l'offerta tecnica, 1,21 per l'offerta economica e 5 per l'offerta tempo). 4. La variazione del punteggio ha riguardato l'offerta tempo (punto E - max punti 5) - per la quale, a fronte dei 1.020 giorni di lavorazione posti a base d'asta, il Consorzio aveva proposto 896 giorni e, dunque, una riduzione di 124 giorni, mentre il RTI ET. aveva offerto 1.000 giorni, vale a dire una riduzione di 20 giorni. Con riguardo a questa voce premiale il conteggio dei punti in un primo tempo (verbale n. 9 del 2023) ha assunto a riferimento il valore "assoluto" del "tempo - offerto", calcolato in giorni naturali e consecutivi; mentre in un secondo momento (verbale n. 10 del 2023) ha considerato - sempre sulla base della medesima formula "Tai/Tmax", prevista dal disciplinare (dove Tai è il valore del tempo offerto del concorrente e Tmax il valore con offerta tempo più conveniente) - il valore del "ribasso" desumibile dal raffronto tra tempo a base d'asta e tempo offerto. Da qui l'abbattimento del punteggio del RTI EE. da 4,41 a 0,806. 5. La Regione Campania, con Decreto Dirigenziale n. 610/2023, ha recepito il nuovo ordine di graduatoria e ha disposto l'aggiudicazione in favore del Consorzio Si.. 6. Il Raggruppamento ET. ha quindi impugnato gli esiti di gara, rivendicando davanti al TAR: - con il ricorso principale e in funzione dell'interesse pretensivo all'aggiudicazione della gara, la corretta interpretazione del disciplinare di gara nel senso del calcolo del punteggio dell'offerta tempo sulla base dei giorni naturali e consecutivi di esecuzione ("valore del tempo offerto") e non del ribasso sul tempo a base d'asta, previa rettifica della formula matematica di cui all'art. 19.4 mediante inversione tra numeratore e denominatore per l'attribuzione dei punti (5) previsti dal Disciplinare (I motivo). Quest'ultima correzione è stata prospettata come necessaria per rispettare la prescrizione disciplinare (19.4) che impone che all'elemento "Tempo" venga attribuito un coefficiente compreso tra zero e uno: solo la formula Tmax/Tai garantisce questo risultato, sicché essa - secondo il RTI ET. - andrebbe sostituita a quella (erroneamente prevista dal disciplinare) Tai/Tmax; - la violazione del Bando di Gara (prevalente sul disciplinare), il quale non assegna alcun punteggio all'"offerta tempo" ma unicamente all'offerta economica per complessivi 20 punti, nei quali non può rientrare il tempo di esecuzione lavori; - con successivi motivi aggiunti e in funzione dell'interesse demolitorio alla caducazione dell'intera procedura, l'insuperabile contrasto, con riferimento all'elemento della "offerta tempo", tra le indicazioni contenute nella parte normativa della lex specialis e quelle riportate nella formula matematica del disciplinare, ove interpretate nel senso fatto proprio dalla Commissione. 7. Con decisione n. 2444 del 2023, il TAR Campania ha respinto il ricorso principale e accolto i motivi aggiunti, disponendo l'annullamento integrale della gara. 8. Il Consorzio Si. e il RTI ET. hanno entrambi proposto appello contro la decisione del TAR, il primo agendo avverso la statuizione di accoglimento dei motivi aggiunti proposti dal RTI ET.; il secondo instando, con appello incidentale autonomo, per la riforma della statuizione di rigetto del ricorso introduttivo e della relativa domanda di aggiudicazione della gara. 9. A seguito dell'accoglimento dell'istanza cautelare (ordinanza n. 120 del 2024), la causa è passata in decisione all'udienza pubblica dell'11 aprile 2024. 10. Con il primo motivo di appello il Consorzio contesta il capo decisorio con il quale il TAR ha affermato la tempestività dei motivi aggiunti al ricorso introduttivo, respingendo il contrario rilievo di irricevibilità sollevato dalla parte resistente. 10.1. L'assunto di tardività è riferito alle censure sollevate avverso le previsioni del disciplinare di gara concernenti l'offerta tempo, censure proposte il 27 settembre 2023, quindi oltre i trenta giorni successivi alla pubblicazione della lex specialis, avvenuta il 27 gennaio 2023. 10.2. L'eccezione è stata respinta dal TAR sul rilievo per cui: -- "parte ricorrente non ha prospettato che il disciplinare, con riferimento all'offerta tempo, contenga disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara, né tantomeno che preveda abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta.. non ha mai sostenuto che le previsioni dettate dal Disciplinare in merito all'offerta tempo le abbiano impedito di formulare la propria offerta, sostenendo al contrario di essersi attenuta alle indicazioni del disciplinare (e che queste anzi sarebbero chiare), tanto da risultare prima graduata all'esito del verbale n. 9 del 2023, e che solo alla luce della diversa interpretazione del disciplinare fornita dalla commissione nel verbale n. 10 del 2023 (e della conseguente aggiudicazione alla parte controinteressata, fondata proprio sugli esiti di quest'ultimo verbale) è sorto l'interesse ad impugnare. Dunque, il RTI ET. non aveva alcun onere di immediata impugnazione della lex specialis poiché essa "è stata (...) in condizione di presentare un'offerta tempestiva e di valutare la convenienza dell'offerta"; -- d'altra parte, l'onere di immediata impugnazione non potrebbe giustificarsi neppure ".. con il richiamo alla giurisprudenza dell'Adunanza Plenaria richiamata dalla parte controinteressata nella memoria depositata in data 14.10.2023, in quanto la richiamata pronuncia del massimo consesso ha circoscritto l'onere di impugnazione immediata solo per le formule matematiche del tutto errate che attribuiscano un punteggio "0" a tutte le offerte, mentre nel caso in esame non si ravvisa che il risultato dell'attribuzione del punteggio sia pari a "0" per tutte le offerte" (cfr. capo 4.1. sentenza n. 2444/2023). 10.3. La parte appellante sottopone a critica la statuizione in esame osservando che: -- ai fini della qualificazione della censura proposta avverso il disciplinare ciò che rileva, al di là del dato estrinseco dell'avvenuta presentazione dell'offerta, è la portata della questione posta, che concerne (secondo la stessa prospettazione argomentativa del RTI ET.) l'effettiva capacità dei concorrenti di presentare un'offerta correttamente elaborata e consapevolmente competitiva, ponendo dunque in rilievo un profilo regolatorio che lo stesso deducente RTI non poteva che avvertire come immediatamente lesivo dei suoi interessi, quindi meritevole di contestazione mediante immediata impugnazione della legge di gara nel termine di 30 giorni dalla sua pubblicazione; -- a ciò non osta l'esemplificazione riportata nella sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 4/2018, trattandosi di enunciazione di casi non tassativa, atta non già a perimetrare un numerus clausus di clausole abnormi di calcolo del punteggio, ma a fornirne una circoscritta caratterizzazione esemplificativa. 10.4. Il motivo è infondato. Il Collegio richiama il principio - già affermato da questa stessa Sezione in altra pronuncia resa su fattispecie analoga (Cons. Stato, sez. III, n. 1804 del 2021) - secondo il quale il criterio di valutazione delle offerte e la formula matematica individuata per scegliere la proposta economicamente più vantaggiosa, ove non escludano in modo assoluto la formulazione dell'offerta stessa, non hanno portata escludente ma impingono sul solo punteggio tecnico-qualitativo, con la conseguenza che la relativa impugnazione è ammessa soltanto nel momento in cui, con l'aggiudicazione della gara ad altro concorrente, venga a concretizzarsi l'effettiva lesione. 10.5. Sotto questo profilo non rileva la ragione posta alla base della dedotta censura del criterio di calcolo dell'offerta, rilevante essendo solo il profilo della non immediata lesione della sfera giuridica del concorrente, verificabile dal fatto che quest'ultimo ha formulato l'offerta e avrebbe potuto aggiudicarsi la commessa anche sulla base delle regole di gara (e della formula di calcolo) contestate, sicché non vi è alcuna evidenza che gli esiti della selezione potessero dirsi già determinabili a priori in un senso a lui sfavorevole o addirittura preclusivo dell'effettiva possibilità di partecipazione. 10.6. Gli alterni esiti della gara, che ha visto il RTI ET. dapprima primeggiare e poi collocarsi in seconda posizione, confermano d'altra parte che l'andamento della procedura non ha lasciato intravedere alcun esito scontato, ma al contrario ha registrato dinamiche tipiche del gioco competitivo, consentendo a ciascuno dei concorrenti di ambire alla vittoria e di posporre ad un secondo momento la disputa sulle previsioni disciplinari. 10.7. La consistenza intrinseca delle clausole contestate, e i rilevati indici controfattuali concernenti l'accesso alla gara e il suo andamento, confermano, dunque, l'infondatezza del motivo. 11. Con il secondo mezzo di gravame, il Consorzio rinnova l'eccezione di inammissibilità dei motivi aggiunti proposti dal RTI ET., stante l'acquiescenza che questi avrebbe prestata alla nota del Presidente della Commissione di gara del 4 settembre 2023. 11.1. Nella nota vengono illustrate le ragioni giuridico-matematiche che hanno condotto, nel corso della seduta del 7 luglio 2023, all'assegnazione al RTI ET. di punti 0,806 per l'offerta tempo: a giudizio del Consorzio, poiché dette ragioni comprovano la totale assenza delle distonie della lex specialis lamentate dal RTI ET., sarebbe stato onere dello stesso RTI contestarle mediante tempestiva impugnazione entro i 30 (trenta) giorni successivi al loro deposito in giudizio, pena l'inammissibilità /improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. 11.2. La sentenza del TAR ha respinto l'eccezione, ritenendo trattarsi di nota "meramente difensiva ed esplicativa, e non (...) provvedimentale" e così rapidamente concludendo per la non sussistenza, a carico del RTI ET., di "alcun interesse alla sua impugnazione" (cfr. capo 4.2. sentenza n. 2444/2023). 11.3. Il Consorzio sostiene, a contrario, che le determinazioni assunte con il documento in parola presenterebbero "le medesime tipicità, efficacia ed esecutività dei verbali delle sedute di gara" e la stessa logica di "cura dell'interesse pubblico" che connota l'azione provvedimentale, sicché ad esse andrebbe esteso il regime tipico degli atti amministrativi destinati a consolidarsi nei loro effetti ove non tempestivamente impugnati. 11.4. Il Collegio ritiene di dover confermare anche in parte qua la pronuncia di primo grado. 11.5. La nota di cui si discorre consiste in una relazione redatta dal Presidente della Commissione di gara, in corso di lite, al fine di fornire elementi di chiarimento circa l'operato della Commissione e di supporto alle argomentazioni difensive versate in giudizio. Si tratta quindi di documento privo di effetti dispositivi, meramente argomentativo e di matrice del tutto distinta da quella procedimentale, come tale in alcun modo riconducibile, per i descritti connotati intrinseci (contenuto e destinatario) ed estrinseci (forma e tempo di redazione), alla serie provvedimentale degli atti di gara, tutta ritualmente investita da tempestivo gravame. 12. Con il terzo motivo di appello, il Consorzio ripropone l'eccezione di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti per violazione del divieto di venire contra factum proprium. 12.1. A suo dire, il RTI Et. dapprima, con il ricorso introduttivo e in parte anche con il ricorso per motivi aggiunti (motivo I.1), avrebbe riconosciuto la natura interpolativa lineare della formula matematica di calcolo del punteggio, poggiando su questa premessa le sue ulteriori deduzioni; e solo successivamente avrebbe preso le distanze da questo prius logico, evidenziando le insanabili contraddittorietà intrinseche alla legge di gara alle quali l'interpolazione lineare conduce. Nel corso del giudizio sarebbe quindi state cumulate "domande opposte e tra loro insanabilmente confliggenti, postulanti letture che si nullificano l'una con l'altra", quindi denotanti un "radicale cambio di rotta stravolgente il thema decidendum introdotto col ricorso introduttivo". Questa stessa oscillazione di argomenti pervaderebbe l'appello incidentale e lo renderebbe parimenti inammissibile per analoga violazione del divieto di mutatio libelli e di venire contra factum proprium. 12.2. Il motivo non può essere accolto. Esso è contraddetto per tabulas dal fatto che i motivi aggiunti veicolanti la supposta mutatio libelli sono stati proposti in via graduata e subordinata alle precedenti deduzioni, ovvero per l'ipotesi condizionata in cui il TAR avesse inteso condividere l'impostazione in prima battuta contestata (ovvero quella che à ncora il calcolo dei punteggi temporali allo sconto in giorni e non già al valore assoluto espresso in giorni di esecuzione). 12.3. In particolare, il RTI ET., nel corso del giudizio davanti al TAR: - con ricorso principale, ha dedotto la propria legittima aspettativa all'aggiudicazione, attraverso un'interpretazione della legge di gara che avrebbe ricondotto a sistema la formula matematica dell'offerta tempo (mediante inversione di numeratore e denominatore), restituendole una logica coerente con le rimanenti previsioni disciplinari; - in via subordinata, con i motivi aggiunti, per il caso eventuale della ravvisata infondatezza della lettura c.d. "conservativa", ha dedotto che la gara andasse integralmente annullata per contrasto tra parte normativa (del disciplinare) e formula matematica (di attribuzione del punteggio). 12.4. La corretta graduazione delle domande, funzionali a interessi pretensivi distinti (quello all'aggiudicazione e quello alla rinnovazione della gara), esclude, all'evidenza, ogni adombrato profilo di loro inammissibilità per intrinseca incoerenza. 13. Il quarto motivo dell'appello principale e i motivi dell'appello incidentale prendono in esame il tema centrale della gradazione delle due offerte in relazione al parametro del "tempo" (valorizzabile con un massimo di 5 punti). 13.1. A beneficio di una più chiara comprensione dei punti controversi occorre premettere che il disciplinare di gara, riguardo alla formula matematica per l'attribuzione dei punti all'offerta tempo, ha previsto al punto 19.4 ("Metodo di attribuzione del coefficiente per il calcolo del punteggio dell'offerta Temporale") che: "Quanto all'offerta tempo, verrà valutato il tempo offerto da applicare al relativo peso. All'elemento "Tempo" verrà attribuito un coefficiente, variabile da zero ad uno, calcolato tramite la seguente formula con interpolazione lineare Di = Tai/Tmax dove: Di = coefficiente attribuito al concorrente i-esimo; Tai = valore del tempo offerto del concorrente i-esimo; Tmax = valore con offerta tempo più conveniente". 13.2. Ciò posto, con il primo motivo del ricorso introduttivo il RTI ET. ha sostenuto che: - a) il disciplinare di gara ha inteso premiare il valore dell'offerta tempo più conveniente in termini assoluti (il numero dei giorni naturali e consecutivi per la esecuzione dei lavori) e non (come invece ritenuto nell'impugnato provvedimento di aggiudicazione) in termini di ribasso (assoluto o percentuale) sul tempo a base d'asta; - b) la Commissione, nel verbale n. 10 del 2023 (poi posto a fondamento dell'aggiudicazione in favore della parte controinteressata), ha quindi errato nel ritenere il numeratore e il denominatore della citata formula riferiti non al tempo assoluto, ma ai giorni di ribasso rispetto al tempo di esecuzione previsto nel disciplinare in 1020 giorni, così da far conseguire il miglior punteggio alla parte controinteressata; - c) è al contrario corretta la precedente valutazione compiuta dalla commissione nel verbale n. 9 del 2023, dovendosi intendere il numeratore e il denominatore della citata formula come riferiti al numero di giorni in senso complessivo e assoluto; - d) tuttavia, ai fini di un suo corretto funzionamento, la formula di calcolo va rettificata mediante l'inversione del denominatore con il numeratore, in quanto altrimenti il coefficiente risulta superiore a 1 (in violazione di quanto previsto nel punto 19.4 del disciplinare, secondo cui il risultato della formula deve essere compreso tra 0 e 1); - e) applicando la formula nel senso prospettato dalla parte ricorrente - e quindi da un lato intendendo il numeratore e denominatore come riferiti ai giorni naturali, dall'altro correggendo l'asserito errore materiale tramite l'inversione del numeratore con il denominatore - l'aggiudicazione spetterebbe al RTI ET., in virtù del miglior punteggio conseguito. 13.3. Il TAR ha respinto la riportata impostazione osservando che "a prescindere dalla questione di come intendere il numeratore e il denominatore della formula (se in termini di tempo assoluto o in termini di riduzione rispetto al tempo posto a base d'asta), è dirimente la circostanza che la ricostruzione della parte ricorrente presupponga una modifica del disciplinare, nel senso di invertire i termini della formula prevista nell'art. 19.4 del disciplinare, il quale prevede al numeratore il Tai, e al denominatore il Tmax, mentre secondo parte ricorrente al posto del numeratore si dovrebbe inserire il Tmax e al posto del denominatore il Tai" e che "ciò non integra la correzione di un asserito errore materiale, ma una manipolazione della lex specialis, in violazione delle regole di trasparenza". 13.4. Con i motivi primo e terzo dell'appello incidentale, il RTI ET. ribadisce - anche alla luce dei parametri interpretativi di cui agli artt. 1362 e 1367 c.c. - come le diverse disposizioni disciplinari indichino in modo inequivoco che l'elemento di valutazione rilevante ai fini del confronto concorrenziale è, diversamente da quanto ha adombrato il TAR, il tempo in giorni (a base di gara) meno la riduzione in giorni e, dunque, ancora una volta, il tempo in valore assoluto (in "giorni" naturali e consecutivi) e non in termini di "sconto" da ciascun concorrente offerto per la esecuzione delle opere; ciò diversamente da altre clausole del bando, quali quelle relative alla offerta economica, che invece sono chiaramente parametrate sul ribasso percentuale dell'importo a base di gara. Dunque, secondo l'appellante incidentale il TAR avrebbe dovuto ammettere la rettifica della formula matematica prevista dal punto 19.4 (mediante inversione di numeratore e denominatore), a correzione di una "svista redazionale" incorsa nella stesura del disciplinare, ovvero di un errore immediatamente riconoscibile come di pura consistenza "materiale" ed emendabile sulla base di elementi certi e predeterminati (arg. ex artt. 1430 e 1433 c.c.); conseguentemente il TAR avrebbe dovuto disporre l'aggiudicazione in favore del ricorrente RTI ET., mediante statuizione decisoria assorbente rispetto a quella demolitoria dell'intera gara. 13.5. Entrambi i motivi incidentali vanno respinti. In termini generali, la fattispecie dell'errore materiale sottende una soluzione correttiva di contenuto pienamente persuasivo, priva di incongruenze, fondata su elementi certi e quindi percepibile in modo netto come l'unica logicamente percorribile: solo sulla base di questi indici può esprimersi un giudizio di "materialità " dell'errore che è tale poiché rilevabile a colpo d'occhio, nella sua chiara obiettività e immediata evidenza grafica, senza necessità di richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche. 13.6. Ancora più icasticamente si è in proposito affermato che "l'errore è "materiale".. se sussistono elementi univoci per ricondurlo ad un vizio di trascrizione o di compilazione inequivocabilmente e immediatamente rilevabile come tale, attraverso un'analisi che deve concernere il solo documento recante l'errore e non anche elementi ad esso esterni o collaterali. Se, viceversa, l'esegesi ricostruttiva della volontà negoziale si estende ad una considerazione sistematica degli elementi contenutistici dei diversi atti di gara, essa trascende in una ricostruzione di tipo logico - deduttivo che non pare più coerente con i canoni della "immediata evidenza" e della "pura materialità " dell'errore emendabile" (Cons. Stato, sez. III, n. 5650 del 2022). 13.7. Nel caso in esame, i richiamati indici di manifesta evidenza non si riscontrano non solo (e non tanto) perché contraddetti dalla costruzione testuale della formula (che pure rappresenta la scaturigine e il presupposto del ragionamento interpretativo, senza il quale verrebbe meno in radice lo stesso sospetto dell'incongruenza redazionale), ma per le evidenti criticità funzionali che deriverebbero dall'inversione dei due termini del rapporto matematico. 13.8. A questo proposito e con argomenti non confutati in modo efficace dalla controparte, il Consorzio Si. ha puntualmente posto in evidenza: -- l'obiettiva rilevanza, nell'impostazione della legge di gara, dell'interesse pubblico all'ultimazione dell'opera in un arco temporale quanto più possibile ridotto rispetto a quello massimo di 1.020 giorni posto a base d'asta; -- il fatto che la formula matematica dell'interpolazione lineare è l'unica in grado di consentire l'attribuzione di tutto il range dei cinque punti previsti e di valorizzare in modo particolarmente incisivo lo scarto fra un'offerta e l'altra; -- il carattere del tutto paradossale delle risultanze del verbale del 16 giugno 2023, le quali riportano per il RTI ET. un punteggio, per l'offerta tempo, pari a 4,42 punti, inferiore di appena 0,58 centesimi rispetto ai 5 punti assegnati all'offerta tempo avversaria, e ciò pur a fronte di una riduzione della tempistica delle lavorazioni di soli 20 giorni (1.000 giorni vs. 1.020 giorni a base d'asta) a fronte di quella di 124 giorni proposta dal Consorzio (896 giorni vs. 1020 giorni a base d'asta); -- il fatto che, ove la formula matematica venisse applicata come nella seduta del 16 giugno 2023, si arriverebbe all'assurda conclusione per cui un'offerta tempo non contemplante alcuna riduzione della tempistica di lavorazioni si vedrebbe assegnato un punteggio di 4,39 ( = 5 * 896/1020=4,39), inferiore di appena 0,61 centesimi ai 5 punti ottenuti dal Consorzio con una riduzione delle lavorazioni di ben 124 giorni. 13.9. Il Collegio condivide la riportata linea di controdeduzioni e ritiene che le evidenti disfunzionalità logico-applicative alla quale conduce la formula a termini invertiti (Di = Tmax/ Tai) rappresentino un ostacolo insuperabile rispetto all'ipotesi ricostruttiva proposta dal RTI ET., in quanto ne palesano il carattere quantomeno controvertibile (e quindi niente affatto chiaro e univoco), emerso, non a caso, sia nelle oscillanti valutazioni della stessa Commissione di gara riportate nei verbali 9 e 10 del 2023; sia, da ultimo, nelle scelte operate dalla stazione appaltante nel disciplinare della nuova procedura di gara bandita in esecuzione della sentenza del TAR Salerno n. 2444/2023, per la quale si è scelto di attribuire all'offerta tempo - con formule testuali questa volta univoche - il valore inteso in termini di riduzione della tempistica delle lavorazioni poste a base d'asta (v. l'art. 19.4 e il paragrafo 16 del nuovo disciplinare della gara bandita il 4 gennaio 2024). 13.10. Il Collegio condivide inoltre quanto osservato dal TAR circa l'effetto manipolativo che si determinerebbe ove si avallasse la soluzione dell'inversione dei termini del rapporto, sotto il duplice e problematico profilo vuoi del sovvertimento postumo dei presupposti su cui i concorrenti hanno impostato la propria strategia di offerta e sui quali la stazione appaltante ha inteso orientare la selezione dell'affidatario; vuoi della violazione dei canoni di trasparenza, lealtà e correttezza, che devono conformare l'azione amministrativa e che, nel caso di specie, ove si alterasse la regola di calcolo del punteggio (e di orientamento delle offerte), risulterebbero evidentemente vulnerati. 13.11. Per l'insieme di tali ragioni il motivo in esame va respinto. 14. Con il secondo motivo del ricorso introduttivo, il RTI ET. ha lamentato l'illegittimità del disciplinare nel punto in cui ha previsto l'attribuzione fino a 5 punti per l'offerta tempo, sostenendo sussistere una difformità rispetto al bando nel quale il parametro "tempo" non figura tra i criteri di aggiudicazione di natura quantitativa, comparendovi, piuttosto, il solo "prezzo" con un valore ponderale pari a 20 punti: dunque, l'elemento tempo sarebbe stato illegittimamente introdotto per la prima volta nel disciplinare di gara, attraverso l'inedita ripartizione dei 20 punti per i criteri quantitativi, distribuiti nella misura di 15 punti per il prezzo e di 5 punti per il tempo. 14.1. Il TAR ha respinto la censura, sostenendo che la contestata previsione del disciplinare "non comporta una modifica del bando, ma una sua specificazione o al più una sua integrazione, pienamente consentita, anche considerando che il tempo è una delle espressioni del prezzo, in quanto minor tempo significa normalmente anche prezzo più basso". 14.2. Con il secondo motivo dell'appello incidentale il RTI ET. contesta questa conclusione, ribadendo il carattere innovativo della disposizione disciplinare che ha scomposto i 20 punti previsti dal bando per l'elemento "prezzo", facendone convergere una parte sull'inedito parametro "tempo": questa rimodulazione contrasterebbe con i principi di gerarchia differenziata che caratterizzano i rapporti tra le diverse parti della legge di gara e che escludono in radice che le disposizioni del capitolato e del disciplinare possano modificare il bando. 14.3. D'altra parte - aggiunge ancora l'appellante incidentale - il tempo non è una espressione del prezzo, come a torto ha rilevato il TAR, bensì profilo qualitativo della offerta (si cfr. art. 95.6 del Codice); né può dirsi che ad un minor tempo di esecuzione dei lavori corrisponda un costo minore, poiché la contrazione dei tempi esige un impiego di risorse maggiormente concentrato e intenso e, dunque, un incremento di costi (ragione per cui il maggior prezzo indicato dal Consorzio Si. - superiore di oltre 36 milioni di euro rispetto a quello proposto dal RTI ET. - dipenderebbe proprio dal maggiore sforzo di accelerazione dei tempi esecutivi). 14.4. Il motivo non può essere accolto. 14.5. La giurisprudenza prevalente ritiene che la riduzione dei tempi di progettazione e di esecuzione dei lavori, unitamente al prezzo, costituiscano elementi di valutazione di carattere economico, che, in quanto tali, non devono essere conosciuti al momento della valutazione discrezionale degli elementi dell'offerta tecnica (Cons. Stato, V, n. 5463 del 2021 e n. 1556 del 2017; III, n. 167 del 2020). 14.6. Il ragionamento che il RTI ET. svolge circa le implicazioni che legano tra di loro la modulazione dei tempi di esecuzione e i costi dell'appalto, non fanno che confermare l'esistenza di una correlazione tra le due voci (sia pure inversamente proporzionale, nella prospettazione del RTI), il che avvalora la loro attrazione ad un'unica area di rilevanza "economica". 14.7. Ciò non toglie che i tempi di esecuzione possano essere apprezzati anche nella prospettiva di una valutazione "tecnico-qualitativa" del progetto, ma si tratta di stime (quella economica e quella tecnico-qualitativa) evidentemente distinte e non necessariamente interferenti. 14.8. Per questi motivi, il Collegio reputa legittima la determinazione della stazione appaltante di estrapolare i punteggi dell'offerta tempo da quelli previsti dall'offerta economica, essendo questa rimodulazione intervenuta su una quota di punteggio riconducibile ad una matrice omogenea. 15. Con i motivi aggiunti notificati in data 29 settembre 2023, il RTI ET. ha domandato, in via di mero subordine, l'annullamento dell'art. 4.2 del Disciplinare e, in parte qua, dell'art. 19.4, laddove interpretati nel senso di ancorare il calcolo dei punteggi temporali allo sconto in giorni e non già al valore assoluto (giorni di esecuzione). In via di ulteriore subordine è stata dunque richiesta, per l'ipotesi in cui la rettifica in tal senso della legge di gara non fosse stata ritenuta percorribile, la caducazione dell'intera procedura, giacché la formula si sarebbe allora appalesata incoerente e distonica con tutte le altre disposizioni concorsuali relative all'offerta tempo, come in effetti ha poi rilevato il TAR. 15.1. Il TAR, dopo aver delibato l'ammissibilità e tempestività dei motivi aggiunti, li ha infatti accolti nel merito sostenendo che: - i) "le distonie sussistono non solo all'interno della formula di cui all'art. 19.4 del disciplinare, ma anche tra questa disposizione ed altri punti del disciplinare", posto che in alcuni punti (pag. 31 e art. 4.2) "il disciplinare sembra riferire l'offerta tempo alla riduzione rispetto al tempo di esecuzione posto a base d'asta nel disciplinare", mentre in altri (art. 18 e Modello 8 allegato) "sembra riferire l'offerta tempo al tempo assoluto e non al tempo in termini di riduzione rispetto al tempo di esecuzione indicato a base d'asta nel disciplinare"; - ii) quanto alla formula, se la si intende secondo il suo più plausibile significato letterale, ovvero "nel senso di dare rilievo all'offerta tempo in senso assoluto, rilevando il numero di giorni in assoluto oggetto dell'offerta tempo", essa ".. si rivela erronea, in quanto, ponendo il Tmax al denominatore, non può essere rispettata la previsione del disciplinare secondo cui il coefficiente deve essere compreso tra 0 e 1 (in quanto il Tai non è mai inferiore al Tmax)"; - iii) "né è ammissibile la soluzione prospettata dalla parte ricorrente, secondo cui occorrerebbe invertire nella formula il denominatore con il numeratore, in quanto così si realizza una illegittima modifica del disciplinare". Oltre a tale ostacolo intrinseco alla lettura della disposizione in chiave di offerta tempo in senso di tempo assoluto, vi è anche un ostacolo estrinseco, dato dal contrasto con le altre previsioni del disciplinare, sopra descritte, che danno rilievo all'offerta tempo in senso di riduzione dei giorni rispetto ai 1020 giorni indicati nel disciplinare"; - iv) "per converso, non risulta percorribile neppure la lettura fornita dall'amministrazione nel verbale n. 10 del 2023 e nel provvedimento di aggiudicazione secondo cui nella descritta formula il tempo dovrebbe essere inteso nel senso di differenziale al ribasso rispetto al tempo di 1020 giorni indicato nella lex specialis: a tale lettura osta sia l'ostacolo intrinseco dato dalla lettera dell'art. 19.4 che si riferisce al tempo in senso assoluto, sia l'ostacolo estrinseco rappresentato dal contrasto con le altre previsioni del disciplinare, sopra descritte, che danno rilievo all'offerta tempo in senso di tempo assoluto e non di riduzione dei giorni rispetto ai 1020 giorni indicati nel disciplinare". 15.2. Il Consorzio contesta i distinti passaggi del riportato capo decisorio e la concludente affermazione per cui sarebbe "dirimente la censura di contrasto e distonia delle previsioni del disciplinare, non superabili neppure con l'impiego dei criteri di interpretazione di cui agli artt. 1362 ss. c.c." (cfr. capo 4.4. sentenza n. 2444/2023). A tal fine richiama gli argomenti logico-sistematici riportati al paragrafo 13.8, ribadisce il carattere univoco delle svariate disposizioni della lex specialis (artt. 4.2. e 16 disciplinare) che stabiliscono che nell'attribuzione dei punteggi si deve tenere conto del valore derivante dall'offerta di riduzione dei tempi di esecuzione lavori; ed eccepisce, infine, l'acquiescenza prestata dal RTI ET. a dette disposizioni e dunque l'inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti per carenza di interesse, erroneamente non rilevata dalla gravata sentenza n. 2444/2023. 15.3. Il motivo non può essere accolto. Le deduzioni richiamate non riescono a demolire l'argomento che ha indotto il TAR a ritenere non praticabile la soluzione proposta dal Consorzio. Dette ragioni attengono sia alla lettera dell'art. 19.4 - che si riferisce indubbiamente al tempo in senso assoluto (ovvero al "valore del tempo offerto del concorrente"); sia alle altre previsioni del disciplinare che sembrano conferire rilievo all'offerta tempo in senso di tempo assoluto e non di riduzione dei giorni rispetto ai 1020 giorni indicati nel disciplinare. 15.4. Tra queste, in particolare: -- l'art. 18, punto E, che descrive il contenuto della Busta C - offerta temporale, definendo espressamente il T max come "durata in giorni naturali e consecutivi dei tempi di esecuzione lavori posti a base di gara"; -- il Modello 8 che ha richiesto ai concorrenti di formulare l'offerta tempo nei termini che seguono: "... dichiara di realizzare i lavori oggetto dell'appalto in n. ... giorni.... in cifre...... in lettere", dando rilievo al valore assoluto dei giorni di esecuzione (e non al ribasso o sconto, come invece nel Modello 7 proposto per l'offerta economica). 15.5. La portata semantica di queste disposizioni si coglie anche alla luce del confronto con quelle (di diverso tenore) contenute nel disciplinare della gara bandita il 4 gennaio 2024, a valle della decisione del TAR qui impugnata, ove è chiaro che il "Tai" si riferisce non al "valore del tempo offerto" ma alla "riduzione in giorni dei tempi di esecuzione dei lavori posti a base di gara" (v. paragrafo 16 e art. 19.4 del nuovo disciplinare di gara). 15.6. Di contro, le disposizioni invocate in senso opposto dal Consorzio non appaiono decisive in quanto: -- l'art. 4.2 ("Termini per l'ultimazione dei lavori": "il tempo di ultimazione dei lavori va ridotto (se applicabile) in base al ribasso offerto dall'aggiudicatario in sede di gara") ha ad oggetto la definizione dell'oggetto dell'appalto sotto il profilo temporale ed esula dall'area delle disposizioni regolanti le modalità di presentazione dell'offerta-tempo e di calcolo del relativo coefficiente premiale; -- il paragrafo 16 del medesimo disciplinare, nell'indicare l'offerta tempo come il "tempo derivante dalla offerta di riduzione dei tempi di esecuzione dei lavori", sembra far riferimento in modo ancipite e irrisolto sia all'elemento assoluto ("tempo derivante") sia all'elemento relativo ("riduzione dei tempi di esecuzione dei lavori"); -- la tabella degli elementi di valutazione offerta economicamente più vantaggiosa (pag. 31 del Disciplinare) Offerta tempo - E, reca una formulazione ("tempo derivante dall'offerta di riduzione dei tempi di esecuzione dei lavori") del tutto coincidente con quelle già esaminata in relazione al paragrafo 16. 15.7. Non potendosi cogliere piena univocità delle disposizioni di gara a favore di nessuna delle due alternative linee di lettura, il motivo va integralmente respinto, anche nei rilievi di carattere processuale riferiti alla presunta acquiescenza che il RTI ET. avrebbe prestato rispetto a disposizioni della legge di gara (art. 16) asseritamente lesive dei suoi interessi ma in realtà - per quanto si è detto - una volta lette nel corpus organico delle previsioni di gara, non immediatamente percepibili come di sicuro e chiaro effetto lesivo. 16. Stante l'esito della lite - che è di reiezione di entrambi gli appelli, principale e incidentale - le spese del presente grado di giudizio vengono integralmente compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, respinge sia l'appello principale che l'appello incidentale. Spese di lite compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino - Presidente Stefania Santoleri - Consigliere Giovanni Pescatore - Consigliere, Estensore Giovanni Tulumello - Consigliere Pier Luigi Tomaiuoli - Consigliere
1 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE PRIMA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto arbitrato; clausole di revisione prezzi del contratto di appalto pubblico Dott. Umberto Luigi Scotti Presidente Dott. Luigi Abete Consigliere Dott. Luigi D’Orazio Consigliere Rel. Dott. Rita Elvira Anna Russo Consigliere Ud. 28/3/2024 CC Cron. n. 27009/2018 R.G.N. 11368/2017 Dott. Eleonora Reggiani Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso n. 27009/2018 r.g. proposto da: De Giorgi Global Service s.r.l., in persona del legale rappresentante e amministratore unico Luigi De Giorgi, elettivamente domiciliata in Roma, Via Laura Mantegazza, n. 24, rappresentata e difesa per procura speciale a margine del ricorso dall’Avvocato Alfredo Caggiula. -ricorrente - contro Comune di San Donato di Lecce, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, dott. Alessandro Quarta, rappresentato e difeso dall’Avv. Pietro Quinto, in virtù di procura speciale separata da considerarsi in calce 2 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio al controricorso, con questi elettivamente domiciliato in Roma, alla via Barnaba Tortolini, n. 30 presso Alfredo Placidi. - controricorrente - avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce n. 789/2018, depositata in data 19 luglio 2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/3/2024 dal Consigliere dott. Luigi D’Orazio; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Giovanni Battista Nardecchia, che ha chiesto dichiararsi la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata udita, per la ricorrente, l’Avv. Silvio Carloni, per delega dell’Avv. Alfredo Caggiula, che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso; FATTI DI CAUSA 1. La De Giorgi Global Service s.r.l. risultava aggiudicataria della gara pubblica indetta dal Comune di San Donato di Lecce, con bando del 24/4/07 per l’affidamento del servizio di manutenzione e gestione degli impianti di pubblica illuminazione su tutto il territorio comunale, offrendo un ribasso d’asta del 10,63% sul canone annuo a base di gara che era di euro 110.482,72, per un parco impianti di 1251 punti luce presunti (e, quindi, per il canone netto annuale di euro 99.004,16 oltre Iva). In data 18/7/08, dopo l’aggiudicazione, veniva stipulato il contratto d’appalto, con l’inserimento della clausola relativa alla revisione del prezzo («il criterio di rivalutazione del canone è quello di cui all’art. 23 del capitolato speciale d’appalto. Si precisa che il primo aggiornamento della quota relativa al costo dell’energia (50%) 3 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio sarà effettuato con riferimento al costo dell’energia al 1° gennaio 2006, così come precisato, in corso di gara, con una nota n. 4307 del 15/6/07»). L’art. 23 del capitolato speciale d’appalto stabiliva le modalità di adeguamento del canone contrattuale, con due distinte percentuali relative a due distinti voci contrattuali: la prima relativa all’adeguamento, ammodernamento, gestione e manutenzione (50 %); la seconda con riferimento al costo dell’energia elettrica (50%). Con la determinazione n. 166 del 28/7/09 il Comune aveva approvato, ai sensi dell’art. 23 del capitolato speciale, l’aggiornamento del canone per gli anni 2008 e 2009, ma senza darvi seguito, e senza procedere successivamente alle revisioni per gli anni seguenti. Anzi, il Comune avviava il procedimento di autotutela finalizzato all’annullamento dell’intera procedura di gara. Ad avviso del Comune, l’art. 23 CSA (capitolato speciale appalto) risultava illegittimo (e nullo) nella parte in cui prevedeva, per la quota di canone relativa al consumo di energia elettrica, un meccanismo previsionale autonomo e diverso rispetto a quello previsto (indice Istat-Foi) per la quota di canone relativa alla manutenzione/gestione. La società, diversamente, riteneva la piena legittimità dell’art. 23 CSA, in quanto tale clausola era contenuta in tutti i contratti simili a quello in contestazione. 2. La controversia veniva decisa da un collegio arbitrale il quale manifestava adesione all’orientamento giurisprudenziale per cui i contratti pubblici, da un lato, devono necessariamente contenere una clausola di adeguamento automatico, e, dall’altro, tale clausola non può discostarsi, a pena di nullità, dalle previsioni di cui agli articoli 7 e 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Precisava, poi, che gli articoli 7 e 115 sopra richiamati non erano stati attuati in concreto, sicché il sistema non era a “regime” ed era 4 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio necessario individuare la clausola previsionale “legale” in assenza del meccanismo previsto dal legislatore. Il collegio arbitrale evidenziava - e questa affermazione sarà oggetto di diatriba in sede di appello – che la giurisprudenza «è oramai pacifica nell’affermare la nullità tutte le clausole, più o meno macchinose, previsionali contenute nei vari contratti con il ricorso generalizzato, ai fini della revisione, all’indice Istat-Foi». In caso di nullità della clausola di revisione del prezzo, trovava applicazione l’art. 1419, secondo comma, c.c., a mente del quale la nullità delle clausole, sostituite di diritto da norme imperative, non importa la nullità dell’intero contratto, ma solo della relativa clausola. Era poi evidente che il Comune avesse sottostimato, quanto alla determinazione del costo base storico, il prezzo dell’energia valutato al 2005. Tuttavia, la lettura della clausola previsionale, «al di là della ripartizione fra costo dell’energia e costo di manutenzione, non consente al collegio di operare la mera sostituzione automatica, nella formula matematica prevista, dell’indice FOI con il costo dell’energia, ma certamente colpisce l’intera clausola, ivi compresa la determinazione “base” al 2005, che non può operare come punto di riferimento». Veniva, dunque, accolta la domanda proposta «in via estremamente subordinata» al punto 7 della domanda di arbitrato, «dove l’impresa attrice per l’ipotesi dell’illegittimità della clausola, per come contrattualmente stabilita, chiede, in via equitativa, di “riconoscere comunque in favore della De Giorgi Global Service una revisione del canone secondo una clausola previsionale che tenga conto del costo dell’energia elettrica relativa all’anno di indizione della gara ». 5 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio Pertanto, il collegio arbitrale, dopo aver ritenuto nulla l’intera clausola di revisione del prezzo, non si limitava ad applicare in via sostitutiva ed automatica l’indice FOI, ma, tenendo conto proprio delle richieste della società, muoveva nella ricostruzione della revisione del prezzo, da quello dell’energia nell’anno 2007, e non nell’anno 2005. La nullità, infatti, colpiva l’intera formula e, conseguentemente, anche il dato base di riferimento, costituito dal costo dell’energia al 2005, dovendosi invece tenere conto del differente costo dell’energia relativo all’anno di indizione della gara, ossia al 2007. Ai fini della revisione, infatti, il Comune aveva considerato il costo dell’energia, nell’anno 2005, pari ad euro 50.700,00, già ribassato del 35%, mentre, il costo dell’energia relativo all’anno di indizione della gara e ribassato del 35% (anno 2007) era di euro 69.071,65. Pertanto, il canone annuo spettante all’impresa a far data dall’anno 2008 era di euro 117.375,81, di cui euro 99.004,16, era il canone annuo complessivo pattuito, cui si aggiungeva la somma di euro 18.371,65, pari alla differenza del costo dell’energia tra l’anno 2007 (euro 69.071,65) e l’anno 2005 (euro 50.700,00). Su tale canone annuo, poi, doveva operarsi l’adeguamento all’indice FOI dall’anno 2009, successivo all’inizio del contratto, applicando la percentuale di variazione dell’indice FOI intervenuta dal 2008 al 2009. In sostanza, gli arbitri reputavano la nullità dell’intera clausola di cui all’art. 23 CSA, in quanto prevedeva, per la quota relativa al consumo dell’energia, un meccanismo previsionale autonomo e diverso rispetto a quello relativo alla quota del canone per manutenzione e gestione (Istat-Foi ); inoltre, non si limitavano alla sostituzione automatica della stessa (ossia dell’intera clausola) con degli indici Istat-Foi, in quanto, proprio per tenere conto del 6 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio bilanciamento contrattuale delle parti, il costo base di riferimento, costituito dal costo dell’energia del 2005, doveva essere determinato, invece, con riferimento all’anno di indizione della gara, quindi all’anno 2007. Veniva applicata, dunque, una clausola, in via automatica, fondata, per entrambe le componenti del canone (gestione/manutenzione e costo dell’energia) sul meccanismo dell’indice FOI, ma assumendo alla base di tale meccanismo non già il canone complessivo di euro 99.004,16, ma quello maggiore di euro 117.375,81. Pertanto, gli arbitri, per quel che ancora qui rileva, dichiaravano nulla la clausola previsionale di cui all’art. 23 del capitolato speciale d’appalto e dichiaravano, in via equitativa, che sul canone base, che teneva conto del costo effettivo dell’energia al 2008, per come determinato, si applicasse, al fine di revisione dei prezzi, l’indice FOI a decorrere dal secondo anno contrattuale. 3. Avverso tale lodo veniva proposta impugnazione da parte della società dinanzi alla Corte d’appello per «violazione dell’art. 1418 c.c., dell’art. 1419, comma 2, c.c. e dell’art. 1339 c.c. Violazione degli articoli 7 e 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 ( c.d. appalti). Violazione degli articoli 1362, commi 1 e 2, c.c., 1363 c.c. e 1366 c.c. Violazione degli articoli 1175 c.c., 1176 c.c. e 1375 c.c. Motivazione contraddittoria. Violazione degli articoli 1453 c.c. e 1455 c.c. Violazione dell’art. 1218 c.c. e degli articoli 115 e 116 c.p.c. Violazione degli articoli 99 c.p.c., 112 c.p.c., 115 c.p.c. e 2907 c.c.». Nell’atto di impugnazione, ci si doleva che gli arbitri avessero reputato la «nullità di tutte le clausole, più o meno macchinose previsionali contenute nei vari contratti con il ricorso generalizzato, ai fini della revisione, all’indice Istat-Foi». 7 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio In realtà, per la società l’art. 23 CSA «diversamente da quanto considerato dal lodo, non prevede il puro e semplice “ricorso generalizzato” all’indice ISTAT-FOI (che, a dire del collegio, renderebbe nulla la clausola in questione), ma, distingue[va] il canone, ai fini revisionali, tra: - l’attività di gestione/manutenzione […] per la quale prevedeva il ricorso all’indice FOI-ISTAT […] e la componente energetica […] per la quale prevedeva quale criterio previsionale quello della media pesata del prezzo dell’energia elettrica in vigore all’annualità di riferimento». La clausola, dunque, era evidentemente legittima, essendo pienamente aderente agli articoli 7 e 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Tra l’altro, vi sarebbe stata contraddittorietà nella affermazione del collegio arbitrale, in quanto, dopo aver dichiarato l’integrale nullità della clausola, nella sua versione originaria dell’art. 23 CSA, aveva poi inserito automaticamente il “ricorso generalizzato” all’indice FOI. Se, dunque, era integralmente nulla la clausola, per il “ricorso generalizzato, ai fini della revisione, all’indice Istat-Foi», risultava contraddittorio applicare l’indice Istat-Foi nella soluzione equitativa proposta dal collegio arbitrale per entrambi le voci di revisione (gestione/manutenzione ed energia). Aggiungeva la società che, a parte i profili di criticità del lodo, da un lato, era del tutto legittima la scomposizione del canone nelle due voci dell’attività di gestione e manutenzione e, dall’altro, era del pari legittimo il ricorso a differenti criteri divisionali con riferimento alle due diverse componenti, come emergeva proprio dal tenore dell’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, che rinviava ai “dati” previsti dall’art. 7, comma 4, lettera c), del medesimo d.lgs., che autorizzava e imponeva la distinzione tra gestione/manutenzione e componente energetica. 8 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio Pertanto, il riferimento all’indice Istat-Foi per la revisione della componente del canone di appalto relativa alla fornitura di energia risultava del tutto incongruo. Si sarebbe verificato un evidente vantaggio per il Comune, in quanto il collegio arbitrale, applicando gli indici Istat-Foi, aveva escluso il riferimento al costo effettivo dell’energia elettrica per adeguamento del canone con riferimento alla componente energetica. Non era stato adeguatamente considerato che la revisione della componente energetica era di primaria importanza per la tipologia del servizio in questione, che atteneva proprio all’illuminazione. La variazione dell’indice Istat-Foi, a partire dal 2005, era stata pari al 16,191%, mentre la variazione dell’energia elettrica per lo stesso periodo, come stabilito dall’AU (acquirente unico) su determina dell’apposita autorità AEEGSI (Autorità per l’energia elettrica, il gas e sistema idrico), era stato pari al 62,558%. 4. La Corte d’appello rigettava l’impugnazione del lodo. Muoveva dalla considerazione che l’impugnazione era consentita dalla deduzione della violazione di una norma imperativa, quale era l’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Evidenziava, che la disciplina legale dettata dall’art. 7, commi 4 e 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, non aveva ricevuto attuazione nella parte in cui prevedeva l’elaborazione, da parte dell’Istat, di particolari indici concernenti il miglior prezzo di mercato desunto dal complesso dell’aggiudicazione di appalti di beni e servizi. La Corte territoriale affermava chiaramente che tale lacuna poteva essere colmata mediante ricorso all’indice Istat-Foi, pur con la precisazione che l’utilizzo di tale parametro non poteva esimere la stazione appaltante dal dovere di istruire il procedimento tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, ma segnava il limite 9 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali, non poteva spingersi il Comune nella determinazione del compenso per la revisione. La Corte d’appello si soffermava, poi, su una «criticità di ordine logico» dell’impugnazione del lodo. Infatti, la società aveva erroneamente interpretato l’affermazione contenuta nel lodo arbitrale per cui vi sarebbe stata la «la nullità tutte le clausole, più o meno macchinose, previsionali contenute nei vari contratti con il ricorso generalizzato, ai fini della revisione, all’indice Istat-Foi». La società aveva interpretato tale asserzione nel senso che «tutte le clausole previsionali che prevedano il ricorso generalizzato all’indice Istat-Foi sarebbero nulle». Non era, però, quello il senso compiuto recato dalla pronuncia del lodo arbitrale. Al contrario, il collegio arbitrale aveva voluto proprio sottolineare che, in assenza di un regime legale di cui agli articoli 7 e 15 del d.lgs. n. 163 del 2006, che non avevano ricevuto attuazione, tutte le clausole «più o meno macchinose» contenute nei contratti pubblici (tra le quali evidentemente anche quella che prevedeva due differenti modalità di computo della revisione all’interno di un’unica clausola di revisione, come nel caso dell’art. 23 CSA), non potevano discostarsi, pena la nullità, da tali previsioni, aventi natura di norme imperative, ma si imponeva la “sostituzione automatica” della clausola nulla «[…] con il ricorso generalizzato, ai fini della revisione, all’indice Istat-Foi». La società, dunque, avrebbe confuso il rimedio previsto dalla giurisprudenza per l’ipotesi di clausola nulla (in quanto macchinosa per la “doppia” previsione degli indici contrattuali) - rimedio rappresentato proprio dall’applicazione generalizzata in via 10 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio sostitutiva dell’indice Istat-Foi - con la ritenuta nullità, appunto, delle clausole macchinose, che si discostavano dall’indice Istat-Foi. Insomma, erano nulle le clausole «macchinose», perché complesse, coinvolgenti una duplice modalità di computo della revisione, non parametrate all’indice Istat-Foi; ma, in presenza di tali clausole macchinose, nulle, operava il meccanismo sostitutivo che inseriva gli indici Istat-Foi. Peraltro, non sussisteva nullità per violazione di norme imperative, in quanto la decisione degli arbitri non si poneva in contrasto con le norme di diritto e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza. Non era poi consentito un riesame del merito della controversia, ma solo un sindacato di legittimità. 5. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società, depositando anche memoria scritta. 6. Ha resistito con controricorso la De Giorgi Global Service s.r.l., depositando anche memoria scritta. 7.Questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 31430 del 13 novembre 2023, ha disposto la trattazione della causa in udienza pubblica. 8. La Procura Generale ha depositato memoria scritta, contenente le conclusioni. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, ovvero, in subordine, omessa valutazione circa un punto decisivo della controversia ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.». Per la società ricorrente, l’esame circa la compatibilità della clausola del capitolato con le norme di legge non era stato, di fatto, 11 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio svolto dalla Corte territoriale a causa della non corretta percezione dei motivi di impugnazione. In realtà, per la ricorrente, il thema decidendum non era legato e conseguente alla contraddittorietà del lodo, ma «alla diretta violazione per erronea applicazione degli articoli 7 e 15 d.lgs. 163/06 nella loro portata precettiva e cogente». Vi sarebbe stata, allora, omessa pronuncia su un motivo di impugnazione, integrandosi la violazione dell’art. 112 c.p.c. Qualora, poi, dovesse ritenersi che l’erronea percezione della Corte territoriale, che aveva ritenuto contraddittoria l’impugnazione, possa costituire un discrimine per ricondurre la censura nell’ambito dell’omessa motivazione su un fatto decisivo della controversia, in via subordinata la ricorrente proponeva il medesimo motivo come violazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. La Corte non avrebbe valutato «l’esistenza di un fatto decisivo (l’articolazione e l’autonomia dei motivi del ricorso)», discendendone la validità della clausola del capitolato speciale di cui all’art. 23 CSA. In realtà, la portata argomentativa del motivo era questa: se era vero che l’utilizzo di meccanismi diversi da quelli previsti dagli articoli 7 e 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, con riferimento all’indice Istat- Foi per la revisione dei prezzi, producesse o meno la nullità delle clausole previsionali e la loro sostituzione automatica; se era vero che tale meccanismo revisionale doveva essere «recessivo, proprio nella corretta ricostruzione di quelle norme […] allorquando oggetto del contratto siano, come nella specie, prestazioni aventi costi verificati da apposite autorità secondo criteri autonomi e diversi rispetto a quelli che portano alla determinazione dell’indice FOI». La Corte territoriale, dunque, ancora prima di ritenere non esaminabili della domanda sulla conformità alla legge della clausola 12 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio del capitolato, non si era fatto carico di affrontare e confutare una simile argomentazione. 2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la «violazione di legge per falsa applicazione degli articoli 7 e 115 d.lgs. 163/06. Erronea applicazione articoli 1418, 1419 c.c. e 1339 c.p.c.». Precisa la ricorrente che «si tratta evidentemente di una rivalutazione che dovrà essere svolta dalla Corte territoriale, nel caso in cui codesta suprema Corte dovesse ritenere fondati i motivi di impugnazione innanzi esposti: ed è, quindi, per dimostrare la decisività del vizio in cui è incorso il giudice dell’impugnazione che si espongono, in questa sede, i profili di evidente fondatezza del motivo relativo all’erronea applicazione degli articoli 7 e 115 d.lgs. 163/06 e, conseguentemente, all’erronea applicazione dell’art. 1419 c.c. e dell’art. 1309 c.c.». In sostanza, il collegio arbitrale avrebbe optato per una interpretazione delle norme sostanzialmente conforme all’orientamento giurisprudenziale maggioritario che individua «per determinate fattispecie contrattuali» nell’indice Istat-Foi un criterio utile ed adeguato ai fini della revisione, ma il collegio non avrebbe valutato se tali norme «potessero trovare eguale applicazione con riferimento a fattispecie contrattuali diverse e, in particolare, a quella specifica tipologia contrattuale portata al suo esame, nella quale una rilevante voce di costo [energia, incidente, addirittura in misura maggiore (70/80%) a quella indicata nel capitolato speciale (50%] risultava essere oggetto di un autonomo meccanismo revisionale». 2.1. Preliminarmente, il Collegio evidenzia che non è condivisibile la soluzione prospettata dalla Procura Generale, che ha chiesto la cassazione senza rinvio della sentenza del giudice di appello, ex art. 382 c.p.c., in quanto, in realtà, il lodo non era impugnabile – e la 13 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio questione poteva essere rilevata d’ufficio dal giudice (come avvenuto nella specie con ordinanza interlocutoria di questa Corte) - perché era contestata la violazione di «norme imperative» e non vi era la prospettazione della violazione dell’ordine pubblico, nozione distinta dalle «norme imperative». 2.2. Con la riforma di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, l’art. 829 c.p.c. prevede - rovesciando la regola precedente che consentiva sempre l’impugnazione del lodo per violazione di regole di diritto, tranne le ipotesi in cui le parti avessero autorizzato decisioni secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile - che «l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge», con la precisazione che «è ammessa in ogni caso l’impugnazione delle decisioni per contrarietà all’ordine pubblico». Tale disposizione, come innovata, sottende la scelta di accrescere la stabilità del lodo, con la riduzione dell’ambito di operatività dell’impugnazione per violazione di norme sostanziali, ora consentita soltanto se espressamente prevista dalla legge o dalle parti nella convenzione di arbitrato, pur essendo in ogni caso possibile l’impugnazione se il lodo contrasti con i principi di ordine pubblico. Nella specie, la questione attiene alla pretesa violazione dell’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, che obbliga i contraenti ad inserire nei contratti pubblici di servizi e forniture una clausola di revisione periodica del prezzo, con le modalità di cui all’art. 7 del medesimo d.lgs.. Per la Corte di appello trattasi pacificamente di una norma imperativa, che si impone, in sostituzione automatica ex art. 1339 c.c., in caso di nullità parziale della clausola di revisione contrattuale che non risponda ai requisiti di legge. 14 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio L’impugnazione del lodo per il “merito”, e quindi per violazione di regole di diritto relative al merito, è possibile solo se consentita dalle parti o dalla legge o, comunque, in ogni caso, se le decisioni contrastino con l’ordine pubblico. In caso contrario l’impugnazione del lodo è inammissibile. 3. Naturalmente, il rilievo d’ufficio della inammissibilità in sede di legittimità ha come presupposto che nel grado di merito precedente la questione non sia stata dibattuta tra le parti e che non si sia formato il giudicato sul punto. Infatti, si è ritenuto che l’esistenza di una causa di inammissibilità dell’appello è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio – e, quindi, anche di ufficio in sede di legittimità - allorquando la relativa questione non sia stata dibattuta davanti al giudice di secondo grado e non abbia formato oggetto di una sua pronuncia passata in cosa giudicata, non potendosi riconoscere al gravame inammissibilmente spiegato alcuna efficacia conservativa del processo di impugnazione (Cass., sez. 3, 25 luglio 2023, n. 25707; Cass., 19 ottobre 2018, n. 26525; Cass., 7 luglio 2017, n. 16863; Cass., 27 novembre 2014, n. 25209; Cass., 18 gennaio 2016, n. 674). Inoltre si è aggiunto che l’indagine sulla inammissibilità dell’appello si risolve nell’accertamento di un presupposto processuale per la proseguibilità del giudizio, ciò determinando il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado; pertanto, anche se senza allegazione della circostanza ad opera delle parti, la Corte di cassazione è abilitata (ed anzi, tenuta) al rilievo della questione ove la causa di inammissibilità emerga dagli atti di costituzione delle parti, cioè dal ricorso e dal controricorso, dalla sentenza impugnata e dagli atti pervenuti alla corte su iniziativa delle parti (fascicoli di parte delle fasi di merito) o per il tramite del 15 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio fascicolo d’ufficio delle fasi di merito (Cass., sez. 3, 4 settembre 2023, n. 25707, cit; Cass., 30 ottobre 2019, n. 27830; Cass., 14 maggio 2019, n. 12718; Cass., 3 aprile 2015, n. 6821; Cass., 6 maggio 2013, n. 10440). Peraltro, per la dottrina, l’ipotesi della possibile violazione da parte degli arbitri dell’ordine pubblico, che consente «in ogni caso» l’impugnazione delle decisioni per «contrarietà all’ordine pubblico», comporterebbe una «nullità radicale», come accade per i contratti. Se, dunque, il lodo contrasta con i principi che caratterizzano un determinato ordinamento, il vizio è talmente grave da poter essere fatto valere in ogni tempo ed è rilevabile d’ufficio. 4. Resta da affrontare la questione, più generale, se l’articolo 829, terzo comma, c.p.c., laddove consente l’impugnazione “di merito” solo se espressamente disposta dalle parti o dalla legge oppure, in ogni caso, per l’impugnazione delle decisioni per contrarietà all’ordine pubblico, ricomprenda o meno, nella nozione di ordine pubblico anche la violazione di norme imperative di legge. 4.1. I casi di impugnazione previsti dalla legge sono quelli individuati in fonti normative diverse dall’art. 829 c.p.c., oppure nello stesso art. 829, quarto comma, n. 1, c.p.c., quindi le controversie lavoristiche. Vi è, poi, l’ipotesi prevista dall’art. 829, quarto comma, n. 2, c.p.c., in cui, a prescindere dalla natura della lite, gli arbitri abbiano dovuto risolvere incidentalmente una questione pregiudiziale non compromettibile. Un’altra ipotesi è quella di cui all’art. 241, comma 15-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, nella versione in vigore ratione temporis, dal 27 aprile 2010 al 27 novembre 2012, in quanto il collegio arbitrale è stato costituito dopo la domanda di arbitrato del 27 dicembre 2011. 16 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio L’art. 241, comma 15-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 dispone che «il lodo è impugnabile, oltre che per motivi di nullità, anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia». Questa Corte ha chiarito che, in tema di arbitrato relativo a contratti pubblici, il comma 15-bis dell'art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006, introdotto dall'art. 5 del d.lgs. n. 53 del 2010, che consente l'impugnabilità del lodo anche per violazione di regole di diritto relative al merito della controversia, non trova applicazione riguardo ai collegi arbitrali già costituiti alla data di entrata in vigore del predetto d.lgs. n. 53 del 2010. In tali casi, inoltre, l'impugnazione del lodo a cagione di violazioni di regole di diritto inerenti il merito deve escludersi anche in forza delle norme del codice di rito, richiamate dal comma 2 dell'art. 241 suddetto, allorché le parti, con convenzione arbitrale anteriore all'entrata in vigore della nuova disciplina dell'arbitrato introdotta dal d.lgs. n. 40 del 2006, abbiano dichiarato il lodo non impugnabile in applicazione dell'art. 829, secondo comma, c.p.c., nel testo previgente (Cass., sez. 1, 22 marzo 2021, n. 7980). 4.2. Ciò implica la chiarificazione della differenza tra ordine pubblico internazionale, di cui agli artt. 16 e 64 della legge 31 maggio 1995, n. 218, ed ordine pubblico interno. Dalla costante giurisprudenza di legittimità emerge la netta distinzione tra ordine pubblico internazionale (o «in senso stretto») ed ordine pubblico interno. Si definisce come ordine pubblico internazionale quello formato dall’insieme di principi, desumibili dalla Carta costituzionale o, comunque, pur non trovando in essa collocazione, fondanti l’intero assetto ordinamentale siccome immanenti e più importanti istituti giuridici quali risultano dal complesso delle norme inderogabili provviste del carattere di fondamentalità, che le distingue dal più 17 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio ampio genere delle norme imperative, tali da caratterizzare l’atteggiamento dell’ordinamento stesso in un determinato momento storico ed a formare il cardine della struttura etica, sociale ed economica della comunità nazionale, conferendole una ben individuata ed inconfondibile fisionomia (Cass., sez. 1, 28 dicembre 2006, n. 27592; Cass., 23 febbraio 2006, n. 4040; Cass., sez. 1, 20 gennaio 2006, n. 1183; Cass., 7 dicembre 2005, n. 26976; Cass., 26 novembre 2004, n. 22332; Cass., 6 dicembre 2002, n. 17349; Cass., 13 dicembre 1999, n. 13928; più di recente Cass., sez. 1, 4 luglio 2013, n. 16755). L’ordine pubblico internazionale è, quindi, costituito dai principi che formano, come sostenuto in dottrina, l’eticità dell’ordinamento quale risulta dal complesso delle sue norme (Cass., 11 novembre 2002, n. 15822). Si tratta di principi fondamentali che rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti dell’uomo, o che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale (Cass., n. 15822 del 2002, cit.). In tal senso si è espressa anche la Corte costituzionale rimarcando come l’ordine pubblico sia costituito dalle «regole fondamentali poste dalla costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici nei quali si articola l’ordinamento positivo nel suo adeguarsi all’evoluzione della società» (Corte cost. n. 18 del 1982). L’ordine pubblico interno, invece, si rinviene nelle fattispecie in cui il rapporto è soggetto alla legge italiana e costituisce un limite all’autonomia negoziale dei privati - artt. 1343 e 1418 c.c. – (Cass., 28 dicembre 2006, n. 27592). L’ordine pubblico interno, si identifica con qualsiasi norma imperativa, come, in tesi, l’articolo 1283 c.c., in tema di interessi usurari (Cass., sez. 1, 6 dicembre 2002, n. 17349). 18 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio Di qui, la differenza tra l’ordine pubblico internazionale e le norme imperative, in quanto il primo consiste nel complesso dei principi cardine dell’ordinamento giuridico, che caratterizzano la stessa struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato momento storico, conferendole una individuata ed inconfondibile fisionomia, nonché nelle regole inderogabili, provviste del connotato della fondamentalità che le distingue dal più ampio genere delle norme imperative (Cass., 13 dicembre 1999, n. 13928). Va anche chiarito che la nozione di ordine pubblico internazionale è sempre più compenetrata delle radici unionali, come nel caso di violazione delle norme poste a tutela del consumatore (Cass., sez. 2, 6 maggio 2022, n. 14405); nella peculiare prospettiva per cui l’ordine pubblico da strumento di tutela dei valori nazionali, da opporre alla circolazione della giurisprudenza, diviene progressivamente “veicolo di promozione” della ricerca di principi comuni agli Stati membri, in relazione diritti fondamentali (Cass., Sez.U., 5 luglio 2017, n. 16601). Anche la dottrina reputa che si debba intendere il rapporto tra ordine pubblico interno e internazionale come due cerchi concentrici, in cui il più ampio è quello relativo alla violazione di norme imperative, che contiene al suo interno quello più limitato, cioè quel nucleo di norme, espressione dell’ordine pubblico, la cui violazione costituisce il «grado massimo di contrarietà all’ordinamento». 5. Una volta enucleata la distinzione tra ordine pubblico internazionale e ordine pubblico interno, che si connota delle norme imperative, resta da valutare se la nozione di ordine pubblico indicata nell’articolo 829, 3º comma, c.p.c., sia limitata o meno all’ordine pubblico internazionale, esulando dalla stessa l’ordine pubblico interno e le norme imperative ad esso connesse. 19 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio In realtà, è costante orientamento di questa Corte quello per cui in tema di impugnazione del lodo per contrarietà all'ordine pubblico, deve escludersi che la decisione arbitrale possa essere impugnata per violazione del divieto del patto commissorio, poiché il disposto dell'art. 2744 c.c., pur trattandosi di una norma imperativa, non esprime in sé un valore insopprimibile dell'ordinamento, ma è posto a tutela del patrimonio del contraente, tant'è che lo stesso legislatore ha previsto casi in cui tale divieto non si applica ex art. 6 del d.lgs. n. 170 del 2004 (Cass., sez. 1, 21 settembre 2022, n. 27615). Del resto, si è ritenuto che, in piena coerenza con il dettato codicistico, si distingue tra contrarietà a norme imperative e contrarietà all’ordine pubblico ex articolo 1343 c.c. (Cass., n. 27615 del 2022, cit., in motivazione). Tanto è vero che si è escluso che costituisca causa di nullità del lodo per contrasto con l’ordine pubblico la circostanza che l’arbitro abbia statuito circa il risarcimento del danno derivante da un contratto di mediazione, concluso con un soggetto non iscritto a ruolo dei mediatori, escludendo che rientri tra le norme fondamentali dell’ordinamento, la regola organizzativa posta dall’articolo 6 della legge n. 39 del 1989 (Cass., sez. 2, 9 ottobre 2020, n. 21850). Pertanto, il rimando alla clausola dell’ordine pubblico da parte dell’articolo 829 c.p.c. deve essere interpretato come rinvio alle norme fondamentali e cogenti dell’ordinamento, escludendosi in radice una nozione “attenuata” di ordine pubblico (Cass., n. 21850 del 2020, cit.; in tal senso anche Cass., sez. 1, 16 maggio 2022, n. 15619), che coincide, invece, con l’insieme delle norme imperative dell’ordinamento (il c.d. ordine pubblico interno, nozione utilizzata nella dimensione internazionalprivatistica per indicare le norme di applicazione necessaria che imponendo l’applicazione del diritto 20 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio nazionale operano come limite al riconoscimento del diritto straniero, cfr. Cass., n. 27592 del 2006). 6. Si è anche osservato che il legislatore del 2006, nell’invertire il rapporto tra regola ed eccezione per l’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, ha voluto rafforzare la stabilità del lodo estendendo all’arbitrato interno una regola prevista in campo transnazionale, ove l’ordine pubblico è da sempre identificato con le norme e i principi dell’ordinamento. Del resto, l’assunto che l’imperatività della norma non coincida con l’ordine pubblico trova, poi, una conferma nella distinzione - asserita da questa Corte -tra indisponibilità del diritto, che costituisce il limite al ricorso alla clausola compromissoria, ed inderogabilità della normativa applicabile al rapporto giuridico, la quale non impedisce la compromissione in arbitrato, rimanendo, viceversa, tenuti gli arbitri ad applicare la normativa cogente in materia prevista (Cass., 16 aprile 2018, n. 9344; Cass., 27 febbraio 2004, n. 3975). Pertanto, la questione sollevata da questa Corte, sulla quale è stato sollecitato il dibattito delle parti, era incentrata sulla possibilità per il giudice di rilevare d’ufficio la non impugnabilità del lodo, avendo gli arbitri giudicato sull’applicazione dell’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, quale norma imperativa, non appartenente all’ordine pubblico né nazionale né comunitario, di cui all’articolo 829, terzo comma c.p.c.. 7. Nella specie, dalla motivazione della sentenza della corte d’appello di Lecce la questione della impugnabilità o meno del lodo in presenza di norme imperative violate risulta essere stata sottoposta alla discussione delle parti, con esclusione dunque del giudicato (cfr. motivazione sentenza Corte di appello di Lecce, che ha compiutamente affermato: «Ora, le norme che rappresentano il 21 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio parametro di legittimità alla stregua delle quali il collegio arbitrale ha ritenuto di dover affermare di legittimità della clausola revisionale di cui all’art. 23 del Capitolato Speciale d’Appalto, sono sicuramente norme imperative. L’art. 115 del d.lgs. 163/2006, detta, infatti, una disciplina speciale, circa il riconoscimento della revisione prezzi nei contratti stipulati dalla p.a. che prevale su quella generale di cui all’articolo 1664 c.c.»). Essendosi formato il giudicato interno sulla questione della impugnabilità del lodo (ritenuta sussistente, a prescindere dalla correttezza o meno di tale affermazione), in assenza di impugnazione, non è possibile il rilievo d’ufficio da parte di questa Corte. 8. Quanto al merito, si premette che, nel giudizio di impugnazione del lodo, si resta sempre nel solco di un controllo di legittimità che non può mai avere ad oggetto un riesame dei fatti di causa nemmeno in via di controllo sull’adeguatezza e congruità dell’iter argomentativo seguito dagli arbitri (Cass., sez. 1, 12 novembre 2018, n. 28997). Infatti, la denuncia di nullità del lodo arbitrale per inosservanza di regole di diritto in iudicando è ammissibile solo se circoscritta entro i medesimi confini della violazione di legge opponibile con il ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. (Cass., sez. 1, 31 luglio 2020, n. 16559; Cass., sez. 1, 11 ottobre 2006, n. 21802). Inoltre, in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza che abbia deciso sull’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, la Corte di cassazione non può apprezzare direttamente il lodo arbitrale, ma solo la decisione impugnata nei limiti dei motivi di ricorso relativi alla violazione di legge e, ove ancora ammessi, alla congruità della motivazione della sentenza resa sul gravame, non potendo peraltro sostituire il suo giudizio a quello espresso dalla Corte di merito sulla 22 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio correttezza della ricostruzione dei fatti e della valutazione degli elementi istruttori operata dagli arbitri (Cass., sez. 6-1, 7 febbraio 2018, n. 2985; Cass., sez. 2, 26 maggio 2015, n. 10809). 8.1. Quanto al motivo di ricorso, v’è stata una espressa presa di posizione da parte della Corte territoriale in ordine al motivo di impugnazione dedotto dalla società ai fini dell’impugnazione del lodo. 9. Occorre muovere dal testo dell’art. 23 del CSA (capitolato speciale di appello) il quale, ai fini della revisione dell’importo da pagare alla società annualmente, prevede «annualmente si provvederà comunque all’adeguamento del canone contrattuale. Allo scopo, viene convenzionalmente fissato che il canone annuo sia così percentualmente suddivisibile: a) adeguamento, ammodernamento, gestione e manutenzione: 50%;b) costo dell’energia elettrica: 50%. Per quanto riguarda la quota di canone riferita alla gestione e manutenzione degli impianti, a partire dal secondo anno contrattuale, la ditta appaltatrice potrà richiedere l’adeguamento del prezzo affetto sulla base della variazione dell’indice FOI-ISTAT – Prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati relativo all’anno precedente qualora non disponibili i dati di cui all’art. 7, comma 4, lettera c), e comma 5 del d.lgs. n. 163/06. Per quanto riguarda i prezzi dell’energia elettrica ed il corrispettivo di potenza dovuto per la quantità di potenza impegnata, si farà riferimento alla media pesata del costo in vigore all’annualità di riferimento […] Per l’adeguamento dei prezzi si farà riferimento ai prezzi in vigore all’atto dell’offerta. Qualora venissero riconosciute all’appaltatore eventuali tariffe agevolate praticate all’EA [n.d.r.: prezzo dell’energia elettrica aggiornato], il canone annuo verrà automaticamente adeguato secondo la formula sovraesposta con l’avvertenza che “E” sarà il prezzo corrispondente a tali tariffe agevolate ed “Eo” sarà il prezzo corrente di mercato». 23 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio Pertanto, è del tutto evidente che si è in presenza, come sottolineato dal collegio arbitrale, di una clausola di revisione dell’importo del canone annuale «più o meno macchinosa», in quanto suddivisa in due parti separate: una prima porzione (pari al 50%) viene individuata nella variazione dell’indice Istat-Foi; una seconda porzione, riguardante «i prezzi dell’energia elettrica ed il corrispettivo di potenza dovuto per la quantità di potenza impegnata» viene determinata «con riferimento alla media pesata del costo in vigore all’annualità di riferimento». 10. Il testo dell’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 (adeguamento dei prezzi), riguardante i contratti di servizi e forniture, prevede che «tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dei dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all’art. 7, comma 4, lettera c) e comma 5». Per i contratti di lavori, invece, vige l’art. 133 del d.lgs. n. 163 del 2006. L’art. 7, comma 4, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), nella versione vigente a partire dal 15 febbraio 2007, prevede che «la sezione centrale dell’osservatorio svolge i seguenti compiti, oltre a quelli previsti da altre norme: […] c) determina annualmente costi standardizzati per tipo di servizio e fornitura in relazione a specifiche aree territoriali, facendone oggetto di una specifica pubblicazione, avvalendosi dei dati forniti dall’Istat, e tenendo conto dei parametri qualità prezzo di cui alle convenzioni stipulate dalla Consip, ai sensi dell’art. 26, legge 23 dicembre 1999, n. 488». Il comma 5 dell’art. 7 del d.lgs. n. 163 del 2006 stabiliva, poi, che «al fine della determinazione dei costi standardizzati di cui al 24 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio comma 4, lettera c), l’Istat, avvalendosi, ove necessario, delle camere di commercio, cura la rilevazione e la elaborazione dei prezzi di mercato dei principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni aggiudicatrici, provvedendo alla comparazione, su base statistica, tra questi ultimi e i prezzi di mercato. Gli elenchi dei prezzi rilevati sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, con cadenza almeno semestrale, entro il 30 giugno e il 31 dicembre. Per i prodotti e servizi informatici, laddove la natura delle prestazioni consenta la rilevazione di prezzi di mercato, dette rilevazioni sono operate dall’Istat di concerto con il Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione di cui al d.lgs. 12 febbraio 1993, n. 39». 11. Queste, dunque, erano le basi normative con le quali dovevano confrontarsi i contraenti nella disciplina delle clausole di revisione dei prezzi. Si chiarisce che, come evidenziato dalla dottrina, l’esigenza di una rivisitazione dei prezzi così da adeguarli al mercato e, al contempo, di evitarne la lievitazione incontrollata con pregiudizio per l’Erario, è stata avvertita dal legislatore in epoca risalente, essendo già previsto dal regio decreto-legge 13 giugno 1940, n. 901, convertito con legge 26 ottobre 1940, n. 1676, che le amministrazioni potessero prevedere clausole in caso di aumenti superiori all’aliquota del 10%. Nel caso dell’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 la caratteristica principale è quella della obbligatorietà della revisione dei prezzi e, quindi, della previsione della relativa clausola pattizia che, qualora difetti, non esclude, secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, l’applicazione degli aumenti su istanza dell’appaltatore, in virtù di un meccanismo di sostituzione automatica ai sensi degli articoli 1339 e 1419 c.c. (Cons. Stato., 22 25 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio dicembre 2014, n. 6275; Cons. Stato, 1 febbraio 2012, n. 504; Cons. Stato, 16 giugno 2003, n. 3373). Tale obbligo è venuto meno con l’art. 106 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Revisione prezzi), ove si prevede che «i contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento nei casi seguenti: a) se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi». Tale obbligo è stato poi ripristinato con l’articolo 60 del d.lgs. n. 36 del 2023, per cui «nei documenti di gara iniziali delle procedure di affidamento è obbligatorio l’inserimento delle clausole di revisione prezzi». Al comma 3 dell’articolo 60 del d.lgs. n. 36 del 2023 si stabilisce, quindi, che «ai fini della determinazione della variazione dei costi e dei prezzi di cui al comma 1, si utilizzano i seguenti indici sintetici elaborati dall’Istat:[…] b) con riguardo ai contratti di servizi e forniture, gli indici dei prezzi al consumo, dei prezzi alla produzione dell’industria e dei servizi e gli indici delle retribuzioni contrattuali orarie». Tale norma ha stabilizzato di fatto la previsione “temporanea“ di cui all’articolo 29 del decreto-legge 27 gennaio 2022, n. 4 con cui il legislatore per far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento dell’emergenza Covid, ha imposto-transitoriamente e sino al 31 dicembre 2023 - , alle amministrazioni di inserire delle clausole di revisione del prezzo nelle lex specialis delle gare pubbliche di appalto. Tornando all’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, che è la norma applicabile ratione temporis, il procedimento per la revisione del prezzo di cui all’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 origina dall’istanza 26 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio dell’appaltatore, il cui diritto è soggetto alla prescrizione quinquennale per ciascun rateo del corrispettivo contrattuale, e si conclude con un atto provvedimentale all’esito di apposita istruttoria condotta dai dirigenti responsabili degli acquisti delle forniture, volta ad accertare la concreta esistenza delle condizioni di legge ed a quantificare l’incremento in base agli indici Istat concernenti il miglior prezzo di mercato desunto dal complesso dell’aggiudicazione di appalti e servizi rilevate su base semestrale. Tuttavia, non avendo ricevuto attuazione l’art. 7 del d.lgs. n. 163 del 2006, si utilizza l’indice di variazione dei prezzi per le famiglie di operai ed impiegati (indice FOI). Tale parametro segna il limite massimo che, salve le circostanze eccezionali della cui prova è onerata l’impresa, la stazione appaltante non può violare nella determinazione del compenso revisionale, in quanto la funzione dell’istituto è proprio quella di impedire che i corrispettivi degli appalti di durata possano subire aumenti incontrollati tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è intervenuta l’aggiudicazione e la stipula. 12. Pertanto, nel caso in cui venga inserita nel contratto di appalto una clausola di revisione dei prezzi, che è contraria alle disposizioni di cui agli articoli 7 e 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, dopo la dichiarazione di nullità della stessa, si procede alla sostituzione di diritto utilizzando la disciplina Istat-Foi. Si è, invero, affermato che l’istituto della revisione dei prezzi, oltre ad avere la finalità di salvaguardare l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle P.A. non siano esposte con il tempo - a causa degli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione - al rischio di una diminuzione qualitativa dell’attività oggetto del contratto, è al contempo posto a tutela dell’interesse dell’impresa non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle 27 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio modifiche dei costi sopraggiunte durante l’arco del rapporto. L’art. 115 del d.lgs. n. 163 2006 rappresenta, dunque, un rimedio conservativo dell’equilibrio economico del contratto (TAR lazio, sez. II, 1° agosto 2023, n. 12968). Inoltre, a fronte della mancata pubblicazione dei dati Istat, di cui all’art. 7, comma 4, lettera c), del d.lgs. n. 163 del 2006, l’adeguamento dei corrispettivi deve essere calcolato utilizzando l’indice (medio del paniere) di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati (indice FOI), mensilmente pubblicato dal medesimo Istat (TAR Lazio, sez. I, Roma, 9 novembre 2020, n. 11577), con la precisazione che la mancata previsione esplicita della clausola di revisione nel contratto non pregiudica in alcun modo l’applicabilità, stante il carattere imperativo della stessa per cui finanche un eventuale clausola difforme dovrebbe ritenersi nulla (Cons. Stato., sez. III, 2 maggio 2019, n. 2841). Pertanto, la clausola sulla revisione dei prezzi (art. 6 della legge n. 537 del 1993, ora art. 115, del d.lgs. n. 163 del 2006), assumendo il valore di norma imperativa, è destinata ad operare anche in assenza di specifica previsione tra le parti, ovvero in presenza di previsioni contrastanti, con la conseguenza che le clausole negoziali contrarie non solo sono nulle ex art. 1419 c.c., ma sostituite ex lege ai sensi dell’art. 1339 c.c. dalla disciplina imperativa, risultando pacifica la giurisprudenza nel ritenere che la disciplina dettata in materia di revisione dei prezzi ha carattere imperativo e che un eventuale clausola contrattuale difforme rispetto alla disciplina normativa è affetta da nullità (Cons. Stato., 7 maggio 2015, n. 2295; TAR Campania, sez. III, Napoli, 28 dicembre 2018, n. 7382; TAR Sicilia, sez. III, Catania, 1 febbraio 2017, n. 227). In maniera ancora più chiara, recentemente, si è affermato che con riferimento al quantum revisionale, il meccanismo legale di 28 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio aggiornamento del canone degli appalti pubblici di servizi e delle pubbliche forniture prevede che la revisione venga operata a seguito di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione dei beni e servizi sulla base dei dati rilevati e pubblicati semestralmente dall’Istat sull’andamento dei prezzi dei principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni appaltanti, ma la giurisprudenza consolidata ha chiarito che - a fronte della mancata pubblicazione di tali dati da parte dell’Istat - l’adeguamento dei corrispettivi debba essere calcolato utilizzando l’indice (medio del paniere) di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati ( c.d. indice FOI) mensilmente pubblicato dal medesimo Istat (Cons. Stato, n. 3317 del 2022; Cons. Stato., sez. V, 30 novembre 2021, n. 7958; TAR Lazio, sez. III, Roma, 17 a via 2023, n. 6576). 13. Proprio questo ragionamento ha seguito la Corte d’appello di Lecce nel rigettare l’impugnazione del lodo articolata dalla società. Non v’è stata, dunque, omissione di pronuncia, ma espressa pronuncia di rigetto della doglianza della società. La Corte territoriale, dunque, non si è limitata ad evidenziare l’errore interpretativo in cui era incorsa la società nel valutare la motivazione del lodo arbitrale, ma ha chiaramente respinto l’impugnazione del lodo sotto il profilo della violazione delle norme imperative di cui agli articoli 7 e 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. 13.1. Con riguardo alla contraddizione che avrebbe caratterizzato l’impugnazione del lodo, è chiara l’impostazione della Corte d’appello. A fronte, infatti, del chiaro tenore letterale della clausola di cui all’art. 23 del CSA, la società ha attribuito al collegio arbitrale una peculiare ed errata interpretazione dell’affermazione per cui vi era «nullità di tutte le clausole, più o meno macchinose, revisionali 29 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio contenute nei vari contratti con il ricorso generalizzato, ai fini della revisione, all’indice Istat-Foi». Come se il collegio arbitrale avesse ritenuto che «tutte le clausole revisionali che prevedano il ricorso generalizzato all’indice Istat-Foi sarebbero nulle». In realtà, chiosa la Corte d’appello, dalla lettura del lodo e dalla contestualizzazione del brano riportato, altro era il senso dell’affermazione del collegio arbitrale. Quest’ultimo, infatti, ha chiarito, con quell’affermazione, la nullità delle clausole «più o meno macchinose», ossia delle clausole, come quella contenuta nell’art. 23 CSA, che prevedevano un duplice elemento per il computo della revisione:a) quello relativo all’adeguamento, ammodernamento, gestione e manutenzione, pari al 50%;b) quello ulteriore, relativo al costo dell’energia elettrica, pari al 50%. In tal senso, doveva intendersi, allora, il dictum del collegio arbitrale. Dinanzi, a tali clausole «più o meno macchinose», in ragione della loro estrema complessità, che si sostanziava in un duplice elemento caratterizzante, se ne doveva dichiarare la nullità ex art. 1419 c.c., con la sostituzione automatica con le clausole legali di cui agli articoli 7 e 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, che non avevano però ricevuto ancora attuazione; sicché doveva farsi applicazione residuale dell’indice medio ISTAT-FOI, pur con il con temperamento equitativo relativo all’individuazione esatta dell’anno di riferimento (l’anno 2007, anno di indizione della gara, e non nell’anno 2005). Questa era, in sostanza, la motivazione del collegio arbitrale. Per tale motivo la Corte territoriale afferma che «il collegio arbitrale si è chiaramente pronunciato nel senso che […] tutte le clausole revisionali, “più o meno macchinose” contenute nei contratti 30 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio pubblici non possano discostarsi, pena la nullità, dalle previsioni di cui agli articoli 7 e 115 del d.lgs. 163/06, aventi natura di norme imperative, imponendosi la sostituzione automatica della clausola nulla “…con il ricorso generalizzato, ai fini della revisione, all’indice Istat-Foi”». In tal senso, allora, la Corte territoriale ha richiamato la giurisprudenza amministrativa per cui, «a fronte della mancata pubblicazione da parte dell’Istituto nazionale di statistica di tali dati (quelli di cui all’art. 7, comma 4, lettera c) e comma 5 d.lgs. n. 163/2006) la revisione prezzi deve essere effettuata utilizzando l’indice (medio del paniere) di variazione dei prezzi per le famiglie di operai ed impiegati (cf. indice FOI) mensilmente pubblicato dal medesimo Istat». Pertanto, il ragionamento della Corte d’appello è perfettamente coerente e risponde, in pienezza, all’impugnazione del lodo formulata la società. Tra l’altro, il giudice d’appello, non si limita a sottolineare l’errata comprensione del contenuto del lodo da parte della società, ma scende anche a valutare l’eventuale violazione di norme imperative da parte del collegio arbitrale. Infatti, premette che la riscontrata «criticità nelle allegazioni di parte impugnante», si risolve in un «radicale depotenziamento delle argomentazioni di tale parte», e ciò «esime la Corte da qualunque ulteriore valutazione in ordine alla questione dedotta sub a)», ma subito dopo afferma in modo netto che «infatti non sussiste nullità per violazione di norme imperative, non essendovi alcun canone di diritto erroneamente applicato dagli arbitri. La decisione cui sono pervenuti gli arbitri non si pone in contrasto con le norme di diritto e con l’interpretazione fornita né dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità o dalla prevalente dottrina», chiarendo che «non è 31 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio consentito, in questa fase, un riesame del merito della controversia, una diversa opzione interpretativa, ma solo un sindacato di legittimità». Pertanto, la Corte territoriale non si è soffermata solamente sulla errata comprensione del lodo da parte della società impugnante, ma è anche scesa a motivare le ragioni della mancata violazione di norme imperative. In sostanza, la Corte d’appello ha richiamato proprio la giurisprudenza amministrativa in base alla quale, a fronte della mancata pubblicazione da parte dell’Istat degli elementi necessari per la variazione degli importi contrattuali, ai sensi degli articoli 7 e 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, e dinanzi a clausole «più o meno macchinose», quale era considerata la clausola di cui all’art. 23 del CSA (con la duplicazione degli elementi fondanti la revisione del prezzo: manutenzione e gestione, da un lato, costo dell’elettricità dall’altro), si imponeva l’applicazione, quale sostituzione automatica, in presenza di nullità parziale, dell’indice FOI, ossia dell’indice medio del paniere di variazione dei prezzi per le famiglie di operai ed impiegati. Questo era, dunque, il senso dell’affermazione della «nullità di tutte le clausole, più o meno macchinose, revisionali contenute nei vari contratti con il ricorso generalizzato, ai fini della revisione, all’indice Istat-Foi». La nullità riguardava le clausole «più o meno macchinose», come quella complessa, perché fondata su 2 diversi elementi, inserita nell’art. 23 CSA, non tutte le clausole in cui si faceva applicazione dell’indice Istat-FOT (come erroneamente ritenuto e interpretato da parte della società). Solo a fronte della nullità di tale clausola («macchinosa» perché complessa e richiamante il prezzo dell’energia, per una parte – 50 % 32 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio -), doveva farsi riferimento, e di qui il «ricorso generalizzato», ai fini della revisione, all’indice sostitutivo Istat-Foi (che all’interno del suo paniere conteneva anche la voce energia). Pertanto, la società impugnante aveva confuso il rimedio – sostituzione automatica – con la ragione della invalidità - ossia la nullità da macchinosità della clausola -; il rimedio era, appunto, costituito dall’applicazione, in via di sostituzione automatica, dell’indice Istat-Foi, mentre la ragione della nullità era stata individuata nell’utilizzo di «clausole più o meno macchinose», tra le quali rientrava, ad avviso del collegio arbitrale, la clausola di cui all’art. 23 del CSA, che aveva una duplice caratterizzazione. Il vizio (nullità delle clausole complesse) è stato confuso con il rimedio (sostituzione automatica con la clausola ISTAT-FOI). V’è stata, dunque, ampia ed articolata risposta da parte della Corte d’appello al motivo di impugnazione dedotto dalla società, non ravvisandosi alcuna violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ex art. 112 c.p.c. Non v’è stato, poi, alcun vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., non essendo stato dedotto alcun fatto storico, decisivo, ai fini della controversia, il cui esame sia stato omesso da parte del giudice del gravame. A prescindere, infatti, dalla assenza di contraddittorietà ravvisata dalla Corte d’appello nella motivazione del lodo, quest’ultima ha deciso espressamente sull’assenza di violazione di norme imperative. Peraltro, si è ritenuto inammissibile il motivo di ricorso per cassazione formulato avverso la sentenza della corte territoriale ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., con il quale il ricorrente riproponga questioni di fatto già oggetto della decisione arbitrale, atteso che il controllo della Suprema Corte non può mai 33 RG n. 27009/2018 Con. Est. Luigi D’Orazio consistere nella rivalutazione dei fatti, neppure in via di verifica della adeguatezza e congruenza dell'iter argomentativo seguito dagli arbitri (Cass., sez. 1, 26 luglio 2013, n. 18136). 14. Il secondo motivo è inammissibile, in quanto attinente alla fase rescindente dell’impugnazione del lodo. 15. Le spese del giudizio di legittimità, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico della ricorrente si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente a rimborsare in favore del controricorrente le spese del giudizio di legittimità, facendo delle stesse liquidazione in complessivi euro 8.000,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1- bis, dello stesso art. 1, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 28 marzo 2024 Il Presidente Umberto Luigi Cesare Giuseppe Scotti
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