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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. DE MARZO Giuseppe - Presidente Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. SESSA Renata - Relatore Dott. CIRILLO Pierangelo - Consigliere Dott. RENOLDI Carlo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Tr.Cr. nato a G il (Omissis) avverso la sentenza del 09/10/2023 della CORTE APPELLO di ANCONA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere RENATA SESSA; RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 21.12.2023 la Corte di Appello di Ancona ha confermato la pronuncia emessa in primo grado nei confronti di Tr.Cr., che, all'esito di giudizio abbreviato, lo aveva dichiarato colpevole dei reati di lesione, esclusa l'aggravante della durata superiore a 40 giorni, e di danneggiamento, posti in continuazione con determinazione della pena finale in mesi otto e giorni venti di reclusione. 2. Avverso la suindicata sentenza, ricorre per cassazione l'imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo, con l'unico motivo articolato, di seguito enunciato nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., l'erronea applicazione della legge penale in relazione alla determinazione della pena ex art. 582 e 81 cpv. cod. pen., alla stregua di quanto affermato da questa Corte di Cassazione, anche con la sentenza a Sezioni Unite del 14/12/2023, in ordine al trattamento sanzionatorio applicabile in caso di durata della lesione inferiore a giorni a 40 giorni, a seguito della c.d. riforma Cartabia. Indi, si conclude che deve ritenersi errata la statuizione che ha ritenuto più grave il reato di lesione personale giudicata guaribili in misura inferiore a 40 giorni operando su questo la continuazione col reato di danneggiamento, e si insta per l'annullamento della sentenza impugnata per l'illegalità della pena inflitta. 3. Il ricorso è stato trattato - ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d.l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n.1 76, che continua ad applicarsi, in virtù del comma secondo dell'art. 94 del D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 11, comma 7, d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito con modificazioni dalla l. del 23.2.2024 n. 18, per le impugnazioni proposte sino al 30.6.2024 - senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto: il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso; il difensore dell'imputato ha insistito nell'accoglimento del ricorso, evidenziando altresì l'ulteriore profilo di illegittimità del trattamento sanzionatorio per essere stato individuato quale reato più grave ai fini della continuazione quello di lesione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Premesso che risulta in atti la denuncia - querela in ordine al fatto in argomento, si osserva che il ricorso è fondato relativamente al trattamento sanzionatorio risultando illegale la pena applicata. Deve, invero, rilevarsi la illegalità della pena irrogata con riferimento al reato di lesione personale, ritenuta di tipo lieve - superiore ai venti giorni ma inferiore ai 41 - e non grave dai giudici di merito, rispetto alla quale devono essere applicate le più miti sanzioni previste dal D.Lgs. n. 274 del 2000. Ed invero, come ha avuto modo di affermare - tra le altre - Sez. 5, n. 41372 del 05/07/2023, Rv. 285876 - 01; Sez. 5, n. 10669 del 31/01/2023, Rv. 284371 - 01, in tema di lesioni personali lievi, divenute procedibili a querela per effetto dell'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, rientrando il delitto nella competenza per materia del giudice dì pace, è illegale l'inflizione della pena della reclusione, anche nel caso in cui esso sia stato commesso prima dell'entrata in vigore della suddetta disposizione normativa o sia stato giudicato da un giudice diverso (in motivazione, questa Corte ha evidenziato un difetto di coordinamento tra l'art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 e l'art. 582, comma secondo, cod. pen., in quanto il primo, che non è stato modificato, continua a riferirsi al secondo che, invece, non individua più ipotesi procedibili a querela). Al riguardo si sono di recente pronunciate, in data 14.12.2023, anche le Sezioni Unite di questa Corte che hanno affermato, come risulta dall'informazione provvisoria, ed ora anche dal corpo della motivazione della sentenza - non ancora massimata - n. 12759/23, depositata il 28.3.2024, che la competenza per materia per il delitto di lesione personale, nei casi procedibili a querela, anche quando comporti una malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta, dopo le modifiche introdotte dall'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, è stata attribuita al giudice di pace (fatti salvi i casi espressamente esclusi dall'ordinamento) perché il mancato coordinamento di tale disposizione con quella di cui all'art. 4, comma 1, lett. a) del decreto legislativo 74/2000, deve essere risolto attraverso l'interpretazione estensiva di tale ultima disposizione conformemente alla volontà del legislatore riformatore di ampliare la competenza della predetta autorità giudiziaria a tutti i casi di lesione procedibile a querela. Sicché, trattandosi di reato punito con la sola pena della reclusione, ai sensi dell'art. 52, comma 2, lett. b), D.Lgs. n. 274/2000, deve applicarsi la pena pecuniaria della specie corrispondente da Euro 516,00 ad Euro 2582,00 o la pena della permanenza domiciliare da quindici a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi; e, stante l'alternativa riguardo alla pena applicabile, s'impone l'annullamento con rinvio affinché alla rideterminazione della stessa - anche con riferimento all'individuazione del reato più grave - vi proceda il giudice di merito a cui compete la valutazione al riguardo. 2. Dalie ragioni sin qui esposte deriva che, ferma restando l'irrevocabilità della dichiarazione di responsabilità penale del ricorrente, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al punto del trattamento sanzionatorio, con rinvio al giudice di merito, che va individuato nella Corte di Appello di Perugia a norma dell'art. 623, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.. In caso di diffusione del presente provvedimento devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d'appello di Perugia. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 10 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da Dott. SABEONE Gerardo - Presidente Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. SCORDAMAGLIA Irene - Consigliere Dott. CUOCO Michele - Relatore Dott. RENOLDI Carlo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Al.Ra. nato a T il (Omissis); avverso la sentenza del 16 ottobre 2023 della Corte d'appello di Trieste; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Michele Cuoco; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Tomaso Epidendio, che ha concluso per l'annullamento, con rinvio, del provvedimento impugnato, limitatamente al trattamento sanzionatolo; udito l'avv. Vi.Vi., difensore di fiducia dell'imputato, che si associa alle richieste del Procuratore generale e insiste per l'accoglimento del ricorso; RITENUTO IN FATTO e CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Oggetto dell'impugnazione è la sentenza con la quale la Corte d'appello di Trieste, confermando la condanna pronunciata in primo grado (riformata solo quanto al trattamento sanzionatorio), ha ritenuto Al.Ra. responsabile del reato di lesioni personali commesse ai danni di Ma.Gu.. 2. Il ricorso si compone di un unico motivo d'impugnazione a mezzo del quale si deduce la sopravvenuta illegalità della pena irrogata (la reclusione), atteso che, a seguito del D.Lgs. N. 150 del 2022, il reato è divenuto procedibile a querela e, quindi, rientrando nella competenza del giudice di pace, doveva essere sanzionato con le pene previste dall'art. 52, comma 2, lett. b) del D.Lgs. N. 274 del 2000. 3. Il ricorso è fondato e la sentenza impugnata deve essere annullata. Per effetto dell'entrata in vigore del D.Lgs. 150/2022, risulta oggi mutato il quadro del regime di procedibilità e conseguentemente del trattamento sanzionatorio del reato di lesioni personali dolose, laddove queste arrechino una malattia di durata superiore a venti giorni ed inferiore a quaranta giorni. L'art. 2 comma 1 lett. b) del decreto in questione, infatti, ha novellato il comma 1 che il comma 2 dell'art. 582 cod. pen., così ingenerando, da un lato, la generale procedibilità a querela delle lesioni che hanno cagionato malattie con durate inferiori ai 40 giorni (salve le ipotesi aggravate esplicitate dal nuovo capoverso dell'art. 582), e dall'altro, in combinato disposto con l'art. 4 comma 1 D.Lgs. 274/2000, la competenza per materia del giudice di pace, posto che quest'ultima norma radica la competenza del giudice di pace sulle ipotesi di lesioni procedibili a querela di parte (Sez. U. del 14 dicembre 2023, inf. provv.). Ciò considerato, l'art. 52 comma 2 lett. b) del D.Lgs. 274/2000 chiarisce che per i reati di competenza del giudice di pace "quando il reato è punito con la sola pena della reclusione o dell'arresto, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da lire un milione a cinque milioni o la pena della permanenza domiciliare da quindici giorni a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi". Sicché, per effetto della modifica del regime di procedibilità del reato di lesioni personali dolose - e sempre tenendo a mente il principio della retroattività della legge penale favorevole di cui all'art. 2 cod. pen. - l'eventuale pena detentiva irrogata per reato che oggi sarebbe di competenza del giudice di pace non è più conforme al tipo legale, che, allo stato, contempla, per quella violazione, solo la sanzione pecuniaria e quella della permanenza domiciliare. Ebbene, in concreto, dato atto della presentazione di una valida querela da parte della persona offesa (per come chiaramente rappresentato nella sentenza impugnata), la pena alla reclusione inflitta risulta illegale, in quanto irrogata rispetto ad un reato, le lesioni che arrecano malattia di durata superiore a venti giorni (ma inferiore a quaranta giorni), che oggi rientrerebbe nella fattispecie dell'art. 582 cod. pen. comma 1, mentre prima del 30 dicembre 2022 andava perimetrato nel comma 2 della medesima disposizione, per cui era prevista la procedibilità d'ufficio (e dunque la competenza del Tribunale e la pena detentiva). In conclusione, la sentenza deve essere annullata in relazione al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Trieste. In ragione della natura dei reati contestati e del rapporto esistente tra le parti deve essere disposto l'oscuramento del presente provvedimento. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d'appello di Trieste. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 23 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. SABEONE Gerardo - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Consigliere Dott. SESSA Renata - Relatore Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere Dott. MELE Maria Elena - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Di.El. nato a R il (Omissis) avverso la sentenza del 12/10/2023 della CORTE APPELLO di ROMA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere RENATA SESSA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI GIORDANO che ha concluso chiedendo udito il difensore RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 123,10,2023 la Corte dì Appello di Roma ha confermato la pronuncia emessa in primo grado nei confronti di Di.El., che lo aveva dichiarato colpevole del reato di lesione volontaria. 2. Avverso la suindicata sentenza, ricorre per cassazione l'imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.. 2.1. Col primo motivo deduce la nullità della sentenza impugnata per mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in riferimento alla ritenuta colpevolezza dell'imputato. Si rappresenta, dopo un breve excursus sul tenore delle dichiarazioni rese dai testi e dalla persona offesa, ritenute non esaustive ai fini della certa identificazione dell'imputato nell'autore dell'aggressione, che all'esito dell'articolata istruttoria sarebbe emerso unicamente che un soggetto sconosciuto sia alla persona offesa che ai suoi amici, all'esterno della discoteca e successivamente all'aggressione, aveva dichiarato di chiamarsi Di.El.. 2.2.Col secondo motivo deduce la nullità della sentenza impugnata per mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in riferimento alla eccessiva quantificazione della pena detentiva e pecuniaria inflitta. 3. Il ricorso è stato trattato - ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d. l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, che continua ad applicarsi, in virtù del comma secondo dell'art. 94 del D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 11, comma 7, d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito con modificazioni dalla l. del 23.2.2024 n. 18, per le impugnazioni proposte sino al 30.6.2024 - senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto: il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso; il difensore della parte civile ha chiesto rigettarsi il ricorso, allegando nota spese; CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato limitatamente al trattamento sanzionatorio, esso è inammissibile nel resto. 1.1. Il primo motivo è aspecifico e meramente reiterativo della questione della identificazione dell'imputato come autore dell'aggressione posta in essere ai danni della persona offesa, che è stata già ampiamente valutata dalla Corte d'appello nella sentenza impugnata. Il collegio di merito, in particolare, ha indicato gli elementi di prova che hanno permesso tale identificazione, precisando, tra l'altro, che lo stesso imputato si era presentato a uno dei testimoni, e ai suoi amici, il quale, per questa ragione, aveva potuto riferirne il nome alla vittima. 1.2. Quanto al trattamento sanzionatorio deve rilevarsi la illegalità della pena - di mesi quattro di reclusione - irrogata con riferimento al reato di lesione personale, ritenuta di tipo lieve - superiore ai venti giorni ma inferiore ai 41 - e non grave dai giudici di merito, rispetto alla quale devono essere applicate le più miti sanzioni previste dal D.Lgs. n. 274 del 2000. Ed invero, come ha avuto modo di affermare - tra le altre - Sez. 5, n. 41372 del 05/07/2023, Rv. 285876 - 01; Sez. 5, Sentenza n. 10669 del 31/01/2023, Rv. 284371 - 01, in tema di lesioni personali lievi, divenute procedibili a querela per effetto dell'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, rientrando il delitto nella competenza per materia del giudice di pace, è illegale l'inflizione della pena della reclusione, anche nel caso in cui esso sia stato commesso prima dell'entrata in vigore della suddetta disposizione normativa o sia stato giudicato da un giudice diverso (in motivazione, questa Corte ha evidenziato un difetto di coordinamento tra l'art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 e l'art. 582, comma secondo, cod. pen., in quanto il primo, che non è stato modificato, continua a riferirsi al secondo che, invece, non individua più ipotesi procedibili a querela). Al riguardo sì sono di recente pronunciate, in data 14.12.2023, anche le Sezioni Unite di questa Corte che hanno affermato che appartiene al giudice di pace, dopo l'entrata in vigore delle modifiche introdotte dall'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la competenza per materia ex art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 in ordine al delitto di lesione personale di cui all'art. 582 cod. pen., nei casi procedibili a querela, anche quando comporti una malattia di durata superiore a venti giorni e fino a quaranta giorni, fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall'ordinamento (in motivazione si è precisato che il mancato coordinamento di tale disposizione con quella di cui all'art. 4 comma 1 lett. a) del decreto legislativo 74/2000, deve essere risolto attraverso l'interpretazione estensiva di tale ultima disposizione conformemente alla volontà del legislatore riformatore di ampliare la competenza della predetta autorità giudiziaria a tutti i casi di lesione procedibile a querela). In motivazione le Sezioni Unite hanno altresì precisato che la soluzione non è però automaticamente quella dell'applicazione delle sanzioni previste per i reati di competenza del giudice di pace relativamente ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2022, potendo risultare in concreto più favorevole il trattamento sanzionatorio comminato per i reati di competenza del tribunale in caso di concedibilità della sospensione condizionale della pena e secondo una valutazione da compiere di volta in volta alla luce della singola vicenda processuale; sospensione condizionale della pena che nel caso di specie risulta essere stata riconosciuta dai giudici di merito, con la conseguenza che il giudice del rinvio dovrà procedere alle valutazioni del caso secondo i suindicati dettami delle Sezioni Unite. Sicché, trattandosi di reato punito con la sola pena della reclusione, ai sensi dell'art. 52, comma 2, lett. b), sarà applicabile la pena pecuniaria della specie corrispondente da Euro 516,00 ad Euro 2582,00 o la pena della permanenza domiciliare da quindici a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi, e, stante l'alternativa riguardo alla pena applicabile, e a monte la necessità di valutare in merito alla opportunità della modifica della pena inflitta tenendo conto delle circostanze del caso concreto, s'impone l'annullamento con rinvio affinché alla - eventuale - rideterminazione della stessa - vi proceda il giudice di merito a cui compete ogni valutazione al riguardo. 2. Dalle ragioni sin qui esposte deriva che la sentenza impugnata dev'essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma; che nel resto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Consegue altresì che l'imputato deve essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile liquidate in complessivi Euro 3.500, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Inammissibile il ricorso nel resto. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 3.500, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 3 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. COSTANZO Angelo - Presidente Dott. RICCIARDELLI Massimo - Consigliere-Rel. Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso presentato da Di.Ma., nato il (Omissis) a C avverso l'ordinanza in data 7 dicembre 2023 del Tribunale di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Ricciarelli Massimo; lette le conclusioni del Pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Piccirillo Raffaele, che ha concluso per l'inammissibilità o per il rigetto del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 7 dicembre 2023 il Tribunale di Roma ha confermato in sede di riesame quella del G.i.p. del Tribunale di Velletri in data 30 novembre 2023, con cui è stata applicata a Di.Ma. la misura cautelare della custodia in carcere per i delitti di cui agli artt, 572, 605, 582, 585 cod. pen. in danno di Se.Cl. 2. Ha proposto ricorso Di.Ma. tramite il suo difensore. Deduce vizio di motivazione e violazione di legge in relazione all'art. 275, comma 3-bis cod. proc. pen. Il Tribunale aveva fondato il proprio giudizio sull'efferatezza della condotta ritendo inidonea la condizione di incensuratezza ad attenuare il rischio di recidiva. Ma in tal modo aveva valorizzato contraddittoriamente tale profilo senza dar conto della tendenza del ricorrente a ripetere condotte simili. Inoltre, risultava che la stessa persona offesa aveva deciso di continuare ad avere rapporti con Di.Ma. in funzione dei suoi compiti genitoriali, risultando il ricorrente descritto come soggetto dipendente da alcool e droga. Ma in realtà non era il ricorrente a cercare la vittima, per cui non era logico ipotizzare un rischio di recidiva. Ed ancora, il Tribunale aveva omesso di precisare le ragioni per cui non era praticabile l'adozione di una misura cautelare diversa, rafforzata dall'utilizzo di strumento elettronico di controllo, essendo stato fatto riferimento all'impossibilità di fare affidamento sulla capacità di auto-controllo del ricorrente, che fa uso di sostanza stupefacente ed è soggetto ad improvvisi scatti d'ira, avendo il giorno dell'arresto manifestato violenza anche nei confronti del titolare dell'autofficina, che si era limitato a prestare soccorso alla vittima. Si trattava di rilievo non conferente, al fine di attestare l'idoneità della custodia in carcere a scongiurare il rischio di reiterazione, e incentrato in realtà su affermazione estemporanea e dai contorni moraleggianti. 3. Il Procuratore generale ha inviato la requisitoria, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o per il rigetto del ricorso. 4. Il ricorso è stato trattato senza l'intervento delle parti, ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. n. 137 del 2020, in base alla proroga disposta dall'art. 94, comma 2, D.Lgs. 150 del 2022, come via via modificato. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Va, invero, rimarcato come il Tribunale abbia dato conto della pluralità di condotte vessatone e maltrattanti, progressivamente aggressive e violente, tenute dal ricorrente nei confronti della persona offesa, vittima anche di non lievi lesioni personali. Il Tribunale ha in particolare segnalato che, pur a fronte dell'interruzione della convivenza, il rapporto tra la persona offesa e il ricorrente, connotato da un evidente squilibrio tra le rispettive capacità di azione e reazione, era destinato a proseguire ed era in concreto proseguito in ragione della presenza di una figlia minore, avendo costituito ogni occasione di incontro la fonte di litigi, sfociati nelle condotte aggressive e violente del ricorrente, come avvenuto da ultimo in data 26 novembre 2023, allorché il ricorrente, secondo la ricostruzione del Tribunale, aveva nuovamente colpito la persona offesa, danneggiato oggetti, chiuso in casa la donna e la bimba, al mattino essendosi allontanato con il cellulare della predetta. D'altro canto, è stato sottolineato come la ricostruzione dei fatti sia stata suffragata anche dalle dichiarazioni rese dalla datrice di lavoro della persona offesa e dal titolare di un'officina presso la quale la mattina del 27 novembre la donna aveva cercato riparo. 3. In tale prospettiva è stata tutt'altro che illogicamente rilevata la sussistenza del concreto e attuale pericolo di reiterazione di condotte analoghe, correlate alle occasioni di incontro, comunque prevedibili, ed è stata altresì rimarcata la necessità di una misura custodiale, tale da prevenire in radice quella reiterazione, non essendo bastevoli misure meno afflittive, in ragione della mancanza di autocontrollo del ricorrente, dedito all'uso di droghe e di alcool e soggetto a scatti di rabbia. Si tratta di un quadro che il motivo di ricorso ha contestato, adombrando ipotesi ricostruttive alternative e l'inattendibilità della persona offesa e prospettando l'insussistenza del pericolo di reiterazione, a fronte della pregressa incensuratezza del ricorrente e dell'insufficienza del riferimento alla gravità dei fatti, in assenza di elementi tali da attestare l'incapacità di autocontrollo. Ma, a ben guardare, si tratta di deduzioni assertive e aspecifiche, del tutto inidonee a vulnerare il giudizio formulato dal Tribunale con riguardo sia alla sussistenza del pericolo di reiterazione, correlato anche alla gravità delle condotte, sia all'adeguatezza della custodia in carcere, non arbitrariamente essendo stata reputata irrilevante la pregressa incensuratezza ed essendo stata invece valorizzata, anche al fine di escludere la possibilità di applicare una restrizione domiciliare, presidiata da strumento elettronico di controllo, la circostanza che il ricorrente risulti soggetto inaffidabile, in quanto dedito all'uso di sostanze e incline alla rabbia. 4. Di qui l'inammissibilità del ricorso cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili di colpa sottesi alla causa dell'inammissibilità, a quello della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Cosi deciso in Roma, l'8 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ig.Gi. , nato a R il (Omissis); avverso l'ordinanza del 13/09/2023 emessa dal Tribunale di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Fabrizio D'Arcangelo; udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Silvia Salvadori, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; udito il difensore, avvocato Vi.Ca., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata, il Tribunale di Roma ha rigettato l'appello cautelare proposto avverso il provvedimento del 19 gennaio 2023 con il quale la Corte di Appello di Roma ha rigettato la richiesta di revoca dell'ordinanza di ripristino della misura cautelare della custodia in carcere disposta nei confronti di Ig.Gi. Il ricorrente è stato condannato, all'esito del giudizio di primo grado, alla pena di due anni e sei mesi di reclusione per il delitto di maltrattamenti in famiglia ai danni di Ki.He. , di lesioni personali ai danni della stessa e di resistenza a pubblico ufficiale. 2. L'avvocato Vi.Ca., nell'interesse dell'Ig.Gi. , ricorre avverso tale ordinanza e ne chiede l'annullamento. Con un unico motivo, il difensore censura la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. Rileva il difensore che il Tribunale di Roma non avrebbe considerato che l'imputato, dopo la sentenza di condanna di primo grado, non ha tenuto condotte violente ai danni delle persone offese. Precisa, inoltre, il difensore che la persona offesa, nelle sommarie informazioni rese in data 26 novembre 2022, ha escluso che, in occasione dell'ultima violazione contestata del divieto di avvicinamento, l'imputato avesse usato violenza nei suoi confronti e ha precisato che era stata lei stessa a chiedergli di incontrarsi, per trascorre del tempo insieme e fargli conoscere il loro figlio, nato pochi mesi prima; la persona offesa, peraltro, avrebbe espresso "parere favorevole alla scarcerazione" del ricorrente, depositato personalmente in data 16 gennaio 2023 presso la cancelleria della Corte di appello di Roma. Ad avviso del difensore, dunque, anche in ragione dei sette mesi già trascorsi dall'imputato in carcere, non sussisterebbe più alcuna esigenza cautelare e, comunque, la misura della custodia cautelare in carcere si rivelerebbe, ormai, sproporzionata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in quanto in quanto i motivi proposti sono manifestamente infondati e, comunque, diversi da quelli consentiti dalla legge. 2. Con un unico motivo, il difensore censura congiuntamente la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. 3. Il motivo è, tuttavia, inammissibile, in quanto si risolve nella confutazione in fatto delle argomentazioni espresse dal Tribunale di Roma, senza dimostrarne la manifesta illogicità, e, dunque, in una sollecitazione a pervenire a nuovo esame in ordine alle esigenze cautelari ravvisabile nel caso di specie. Occorre, tuttavia, rilevare che esula dalle funzioni della Corte di cassazione la valutazione della sussistenza o meno dei gravi indizi e delle esigenze cautelari, essendo questo compito primario ed esclusivo dei giudici di merito. Il ricorso per cassazione che deduca l'assenza esigenze cautelari è, dunque, ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (ex plurimis: Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628; Sez. 4, n. 18795 del 02/03/2017, Di Iasi, Rv. 269884 - 01). Muovendo da tali premesse, deve rilevarsi che il Tribunale di Roma ha argomentato congruamente la permanente attualità delle esigenze cautelari in ragione della propensione a delinquere del ricorrente e della sua acclarata e costante inaffidabilità, in ragione delle plurime violazioni accertate alla misura coercitiva del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa. Il Tribunale ha rilevato, infatti, che l'imputato ha maltrattato la persona offesa e cagionato lesioni alla stessa nelle date del 15 settembre 2021, del 27 ottobre 2021, del 28 novembre 2021, del 15 dicembre 2021 e del 10 marzo 2022, quando, in occasione dell'arresto, ha commesso anche il reato di resistenza a pubblico ufficiale; ulteriori episodi di aggressività e di violenza nei confronti anche dei familiari della persona offesa erano stati denunciati dalla stessa in data 27 dicembre 2021 e in data 8 gennaio 2022. In data 24 novembre 2022, inoltre, l'imputato ha violato il divieto di avvicinamento impostogli dall'autorità giudiziaria, accettando di incontrare la persona offesa e trascorrendo con lei un giorno e una notte. Il Tribunale ha, inoltre, congruamente ritenuto che tali elementi siano così significativi da rendere subvalente il consenso della persona offesa all'ultimo incontro e l'assenza di violenza e di maltrattamenti da parte dell'imputato nel corso dello stesso. D'altra parte, il consenso della persona offesa all'incontro con l'imputato, sottoposto al divieto di avvicinamento di cui all'art. 282 - ter cod. proc. pen. , non elide la volontarietà della violazione accertata, né la giustifica, in quanto non può derogare alla misura coercitiva imposta dall'autorità giudiziaria. Nella valutazione, non certo illogica, del Tribunale, dunque, le reiterate condotte violente poste in essere dall'imputato, anche quando la persona offesa era in stato di gravidanza e nei confronti dei suoi famigliari, rendono necessario il ricorso ad un presidio cautelare non rimesso all'autodisciplina dell'imputato e l'unica misura coercitiva adeguata e proporzionata all'intensità delle esigenze cautelari ravvisate nel caso di specie è la custodia cautelare in carcere. 4. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. , al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso siano stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata invia equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1 - ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 7 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. MICCOLI Grazia Rosa Anna - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Consigliere Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere Dott. SESSA Renata - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Pa.Si. nato a C il Omissis avverso la sentenza del 05/07/2023 del TRIBUNALE di BOLOGNA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere PIERANGELO CIRILLO; letta la requisitoria a firma del Sostituto Procuratore generale ALDO CENICCOLA, che ha chiesto di annullare con rinvio la sentenza. RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Con sentenza del 5 luglio 2023, il Giudice di pace di Porretta Terme aveva assolto Pa.Si. dal reato di lesioni personali, che, secondo l'ipotesi accusatoria, avrebbe commesso in danno di Di.Ve. A seguito dell'appello proposto dal pubblico ministero e dalla parte civile, il Tribunale di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, ha riconosciuto l'imputato colpevole del reato e l'ha condannato alla pena di mesi due di reclusione nonché al risarcimento dei danni. 2. Contro la sentenza del Tribunale di Bologna, l'imputato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del proprio difensore di fiducia. 2.1 Con un primo motivo, deduce i vizi di erronea applicazione della legge penale e di inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 533 e 603 cod. proc. pen. Rappresenta che, mentre il giudice di primo grado aveva assolto l'imputato, ritenendo non attendibili le dichiarazioni rese dalla persona offesa e dal teste Di.Co., il giudice d'appello aveva deciso in senso diametralmente opposto, basandosi su quelle stesse testimonianze, da lui ritenute attendibili. Il Tribunale di Bologna avrebbe "ribaltato" il giudizio di assoluzione, mediante una diversa valutazione delle medesime prove dichiarative, senza preventivamente rinnovarne l'assunzione in dibattimento. Palese, pertanto, a parere del ricorrente, sarebbe la violazione dei principi affermati in materia dalla costante giurisprudenza e riconosciuti dall'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. 2.2 Con un secondo motivo, deduce i vizi di erronea applicazione della legge penale e di inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 572 e 581 cod. proc. pen. Sostiene che l'atto di appello presentato dal pubblico ministero sarebbe stato inammissibile, in quanto "consistente in un acritico accoglimento dell'istanza proposta ex art. 572 cod. proc. pen. dalla parte civile". 2.3. Con un terzo motivo, deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 582 cod. pen. Contesta la sentenza impugnata, sostenendo che il Tribunale avrebbe ritenuto sussistente il reato di lesioni, nonostante l'assenza della prova di un'effettiva alterazione anatomica o funzionale dell'organismo, quale conseguenza della condotta dell'imputato. 2.4. Con un quarto motivo, deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 52, 59 e 582 cod. pen. Sostiene che il Tribunale non avrebbe valutato la possibilità di ritenere applicabile la scriminante della legittima difesa putativa. 2.5. Con un quinto motivo, deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 52 D.Lgs. n. 274 del 2000. Sostiene che la pena inflitta all'imputato sarebbe illegale, in quanto il Tribunale, in palese violazione dell'art. 52 D.Lgs. n. 274 del 2000, avrebbe applicato una pena detentiva (mesi quattro di reclusione) per un reato di competenza del giudice di pace. 3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di annullare con rinvio la sentenza. 4. L'avv. Al.St., per la parte civile, ha presentato conclusioni scritte con le quali ha chiesto di rigettare il ricorso. 5. L'avv. An.Vo., per l'imputato, ha presentato conclusioni scritte con le quali ha chiesto di accogliere il ricorso. 6. Il ricorso deve essere accolto. 6.1. Il primo motivo di ricorso è fondato. Il Tribunale di Bologna, invero, ha "ribaltato" la sentenza di assoluzione pronunciata dal Giudice di pace, senza procedere alla rinnovazione dell'istruttoria. Al riguardo, deve essere ricordato che "il giudice di appello che riformi ... la sentenza assolutoria di primo grado, sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è tenuto, anche d'ufficio, a rinnovare l'istruzione dibattimentale anche successivamente all'introduzione del comma 3-bis dell'art. 603 cod. proc. pen., ad opera dalla legge 23 giugno 2017, n. 103" (Sez. U, n. 22065 del 28/01/2021, Cremonini, Rv. 281228). La prova dichiarativa deve avere le seguenti caratteristiche: a) può trattarsi di prova che abbia a oggetto sia dichiarazioni percettive che valutative; b) dev'essere espletata a mezzo del linguaggio orale (testimonianza; esame delle parti; confronti; ricognizioni); c) dev'essere decisiva essendo stata posta dal giudice di primo grado a fondamento dell'assoluzione; d) di essa il giudice di appello deve dare una diversa valutazione. Solo ove sussistano, congiuntamente, tutte le suddette condizioni, il giudice di appello ha l'obbligo di rinnovare l'istruttoria e se non adempie all'obbligo incorre in una "violazione di legge". Ebbene, nel caso in esame, le prove dichiarative (le testimonianze della persona offesa e del teste Di.Co.) hanno tutte le evidenziate caratteristiche, posto che: si tratta di dichiarazioni percettive; sono state raccolte a mezzo di testimonianza; sono decisive, in quanto su di esse si fondano sia la sentenza di assoluzione di primo grado che quella di condanna in appello; di esse, il Tribunale ha dato una diversa valutazione. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Bologna. 6.2. Il secondo motivo è inammissibile, atteso che, con esso, il ricorrente si limita a dedurre l'inammissibilità dell'appello del pubblico ministero, sulla base di generiche asserzioni. I restanti motivi risultano assorbiti dall'accoglimento del primo motivo di ricorso. 6.3. La natura dei rapporti oggetto della vicenda impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Bologna. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge. Così deciso, il 6 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. DE AMICIS Gaetano - Presidente Dott. APRILE Ercole - Consigliere Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria - Consigliere Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ma.An. , nato a R il (Omissis) avverso la sentenza del 17/11/2023 emessa dal Tribunale di Velletri visti gli atti, la sentenza e il ricorso; udita la relazione del consigliere Paolo Di Geronimo; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Luigi Giordano, che ha chiesto l'annullamento della sentenza; RITENUTO IN FATTO 1. Il giudice per le indagini preliminari applicava all'imputato la pena concordata con il pubblico ministero, relativamente ai reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali, condannando altresì il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore della parte civile. 2. Avverso tale sentenza, il ricorrente ha formulato tre motivi di impugnazione. 2.1. Con il primo motivo, deduce la violazione degli artt. 78, 29, 447 e 448 cod. proc. pen. in relazione alla condanna alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, evidenziando come l'accordo sulla pena si era formato prima ancora dell'esercizio dell'azione penale e la sentenza era stata emessa nell'udienza appositamente fissata, alla quale non doveva essere neppure consentita la costituzione della parte civile. 2.2. Con il secondo motivo, deduce la violazione degli artt. 446 e 448 cod. proc. pen. , assumendo che il giudice per le indagini preliminari aveva erroneamente ritenuto che il ricorrente, all'udienza del 17 novembre 2023, avesse revocato la richiesta di applicazione della pena. Invero, la volontà espressa era diretta a mantenere fermo l'accordo sulla pena che, tuttavia, doveva essere sostituita con i lavori di pubblica utilità, in base alla nuova disciplina delle sanzioni sostitutive. Il giudice, invece, era incorso in un vero e proprio travisamento della volontà dell'imputato, posto che, se questi avesse inteso revocare la precedente richiesta di patteggiamento, non avrebbe avuto alcun senso logico il deposito della procura speciale con la quale si affermava la volontà di addivenire alla sostituzione della pena già concordata. Alla luce di tali elementi, il giudice avrebbe dovuto accertare la reale volontà del ricorrente e non procedere all'applicazione della pena, anche in considerazione del diniego immotivato espresso dal pubblico ministero. In ogni caso, pur interpretando la volontà dell'imputato come una mera revoca del consenso precedentemente espresso, si sarebbe dovuto dare applicazione all'orientamento giurisprudenziale, contrario rispetto a quello indicato in sentenza, che consente la revoca fin quando l'accordo non è ratificato dal giudice. 2.3. Con il terzo motivo, infine, il ricorrente rappresenta che, il 5 dicembre 2023, la persona offesa ha rimesso la querela con conseguente accettazione, sicché il reato di lesioni personali deve ritenersi non più procedibile, il che imporrebbe in ogni caso l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata. 3. Il ricorso è stato trattato con rito cartolare. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito specificati. 2. Il primo motivo, concernente l'illegittima condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di difesa in favore della parte civile, è fondato. Occorre premettere che, nel caso in esame, l'accordo sulla pena è stato raggiunto dopo la notifica dell'avviso ex art. 415 - bis cod. proc. pen. e prima ancora che il pubblico ministero esercitasse l'azione penale. Si tratta, pertanto, di un'ipotesi di patteggiamento nel corso delle indagini preliminari, a fronte della quale il giudice ha correttamente fissato apposita udienza in camera di consiglio, finalizzata esclusivamente al vaglio della richiesta di applicazione della pena. Per consolidata giurisprudenza, nell'udienza fissata a seguito della richiesta di applicazione della pena presentata nel corso delle indagini preliminari non è consentita la costituzione di parte civile ed è pertanto illegittima la condanna dell'imputato al pagamento delle spese sostenute dal danneggiato dal reato la cui costituzione sia stata ammessa dal giudice nonostante tale divieto (Sez.U, n. 47803 del 27/11/2008, D'Avino, Rv. 241356). 3. Il secondo motivo, concernente il rigetto della richiesta di sostituzione della pena detentiva, pur essendo infondato, risulta assorbito dall'accoglimento del terzo motivo. 3.1 Per mera completezza espositiva, è opportuno esaminare ugualmente la questione, ricostruendo nel dettaglio i singoli passaggi processuali rilevanti dai quali emerge che: - a seguito di richiesta dell'indagato, il pubblico ministero prestava il consenso all'applicazione della pena in data 31 agosto 2023; - l'accordo prevedeva esclusivamente l'applicazione della pena detentiva, non facendo in alcun modo riferimento alla sostituzione della stessa; - all'udienza del 17 novembre 2023, il difensore dell'indagato concludeva depositando "revoca al consenso del patteggiamento" sulla base di una procura speciale, del 16 novembre 2023, con la quale si conferiva al difensore il potere di "prestare il consenso all'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. unicamente se subordinato all'accesso al beneficio della pena sostitutiva"; - il pubblico ministero non prestava il suo consenso alla revoca del patteggiamento; - il giudice rigettava la richiesta di revoca e decideva in conformità all'accordo sulla pena formulato dalle parti. Orbene, sulla base di tali dati di fatto - risultanti dall'esame degli atti e, in particolare, del verbale di udienza - deve escludersi che il giudice abbia mal interpretato la volontà del ricorrente, posto che la richiesta formulata a verbale era espressamente nel senso di revocare il consenso già prestato. Si ritiene, pertanto, che il giudice abbia correttamente escluso la legittimità della revoca, applicando il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la richiesta di applicazione della pena non è più revocabile una volta che su di essa sia espresso il consenso della parte, in quanto la formazione dell'accordo determina effetti irreversibili ed è sottoposto solo al controllo giudiziale (Sez.4, n. 38051 del 3/7/2012, Rv. 254367). 3.2 Tanto premesso, deve ritenersi che il ricorrente, stante l'accordo raggiunto con la parte pubblica, non poteva invocare l'applicazione della disciplina delle pene sostitutive a fronte di un accordo che non le prevedeva in alcun modo. A tal proposito, infatti, deve sottolinearsi come le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 150 del 2022 impongono alle parti di indicare ab origine se l'accordo prevede o meno la sostituzione, tant'è che il novellato art. 444, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce espressamente che "l'imputato e il pubblico ministero possono chiede l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una pena sostitutiva o di una pena pecuniaria" ovvero della pena detentiva. Il tenore letterale della norma impone, senza possibilità di interpretazioni difformi, che l'accordo sottoposto al giudice contempli già l'esatta individuazione della pena detentiva, pecuniaria o sostitutiva, non essendo consentito - come invece avviene nel rito ordinario - la scissione della fase di determinazione della pena, con la determinazione della sanzione ordinaria cui far seguire, eventualmente, la sostituzione della stessa (a supporto di tale soluzione si veda Sez.6, n. 30767 del 28/4/2023, Lombardo, Rv. 284978; Sez.2, n. 50010 del 10/10/2023, Melluso, Rv. 285690). 4 Risulta fondato e assorbente il terzo motivo con il quale si rappresenta la sopravvenuta remissione della querela in ordine al reato di lesioni personali. Occorre preliminarmente dare atto che, dalla lettura dell'imputazione, non risulta contestata alcuna delle aggravanti che, in base ai novellati artt. 582 e 585 cod. pen. , renderebbe il reato procedibile d'ufficio. Ne consegue che, stante l'accettazione della remissione della querela, deve dichiararsi l'estinzione del reato, in applicazione del consolidato principio secondo cui la remissione di querela, intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e ritualmente accettata, determina l'estinzione del reato che prevale anche su eventuali cause di inammissibilità e va rilevata e dichiarata dal giudice di legittimità, purché il ricorso sia stato tempestivamente proposto (Sez.U, n, 24246 del 25/2/2004, Chiasserini, Rv. 227681). 5 Ritiene la Corte, tuttavia, che non si possa procedere alla mera rideterminazione della pena concordata tra le parti, posto che l'eliminazione di uno dei reati oggetto dell'accordo comporta il venir meno dello stesso, non essendo consentito al giudice - come invece avviene nel caso di ordinaria sentenza di condanna - di rimodulare la sanzione inflitta. La natura dell'applicazione della pena su accordo delle parti comporta, infatti, che il contenuto dello stesso e, quindi, la determinazione finale della pena da applicare, è rimessa unicamente all'atto negoziale, rispetto al quale il giudice è privo di un autonomo potere di rimodulazione della pena. Applicando tale principio, ne consegue che la sentenza di applicazione della pena deve essere annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti al Pubblico ministero, posto che la sentenza è stata emessa in fase di indagini preliminari e prima ancora che fosse fissata l'udienza preliminare. Il ricorrente, per effetto dell'annullamento, potrà procedere a formulare una nuova richiesta di applicazione della pena, eventualmente concordando anche la pena sostitutiva, ovvero, si potrà procedere nelle forme ordinarie. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone la trasmissione degli atti al P.M. presso il Tribunale di Velietri. Così deciso il 17 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Relatore Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. RECCHIONE Sandra - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto nell'interesse di: Pa.Em., nato a N il (omissis), contro la sentenza della Corte d'appello di Roma del 4.12.2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Pierluigi Cianfrocca; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Pasquale Luigi Orsi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; udito l'Avv. Ni.Pe., in difesa del ricorrente, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte d'appello di Roma ha confermato la sentenza con cui, il 17.3.2023, il Tribunale di Tivoli aveva riconosciuto Pa.Em. responsabile dei delitti di rapina pluriaggravata e lesioni personali aggravate e, esclusa la pur contestata recidiva, con le ritenute circostanze attenuanti generiche, l'aumento per la continuazione e la finale riduzione per la scelta del rito, lo aveva condannato alla pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione ed euro 1.600 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere; aveva applicato le pene accessorie conseguenti alla entità di quella principale e condannato l'imputato al risarcimento dei danni patiti dalle costituite parti civili; aveva da ultimo revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena concessa all'imputato con la sentenza del 4.10.2019 del Tribunale di Salerno, irrevocabile il 22.10.2019; 2. ricorre per cassazione Pa.Em. a mezzo del difensore che deduce: 2.1 inosservanza dell'art. 628, comma secondo, cod. pen., con riguardo al requisito della violenza e contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine al narrato offerto dai dichiaranti, omessa risposta alle censure articolate con l'atto di appello anche sotto il profilo del travisamento: rileva che la Corte d'appello, disattendendo le censure articolate dalla difesa, ha confermato la responsabilità del ricorrente ritenendo credibili ed attendibili le dichiarazioni dei testi in ordine alla violenza che sarebbe stata esercitata dal ricorrente dopo l'impossessamento dei preziosi; osserva che la Corte territoriale ha superato in termini semplicistici la doglianza relativa alla distanza temporale tra la data del fatto, e della prima denuncia, e quello in cui la persona offesa, per la prima volta, aveva riferito del gesto violento dell'autore del fatto, senza essersi sottoposta ad alcun controllo medico nemmeno successivamente al superamento dello stato di agitazione e shock emotivo che, secondo la Corte, aveva giustificato la tardiva dichiarazione; denunzia, inoltre, il travisamento delle parole dell'odierno ricorrente avendo costui riferito che l'intervento del Ta.Ro. era avvenuto quando la De.Ma. era ormai alle sue spalle sicché, una volta vistosi scoperto, si era allontanato senza entrare in contatto con la donna e che le parole del teste erano coerenti con la versione fornita dal ricorrente mentre del tutto confuse quanto alla presunta colluttazione che sarebbe scaturita dal tentativo del predetto di trattenerlo impedendogli di allontanarsi; aggiunge che la versione del Ta.Ro. era in ogni caso difforme sia rispetto a quanto riferito dalla anziana donna sul come egli si fosse procurato le lesioni che con quelle propinata dal di lei fratello; 2.2 inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 61 n. 5 cod. pen., 125, comma terzo e 546, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., in ordine alla aggravante della minorata difesa correlata erroneamente con il diverso reato di truffa; rileva che la Corte d'appello ha riferito la aggravante della minorata difesa alla condotta di truffa e non ha motivato in ordine alle circostanze di tempo, luogo o persona di cui il ricorrente avrebbe profittato per commettere la rapina; richiama il motivo di appello articolato sul punto dove, anche alla luce del recente chiarimento offerto dalle SS. UU. in ordine alle condizioni per ritenere l'aggravante della minorata difesa, si era evidenziato che l'azione si era svolta alla presenza del genero della persona offesa, sovrintendente della Polizia di Stato in quiescenza e segnala che la Corte d'appello ha fornito, sul punto, una risposta incongrua concentrando la propria attenzione sulla condotta inizialmente programmata dal ricorrente e non su quella in cui l'episodio era infine sfociato successivamente all'impossessamento del denaro e dei preziosi; rileva, a tal proposito, che l'azione si era svolta in pieno giorno ed all'interno di un immobile situato in zona non periferica dove, peraltro, il fratello della donna era riuscito prontamente ad accorrere sul posto in aiuto della sorella utilizzando lo spray urticante ed immobilizzando il ricorrente insieme al genero; segnala che, oltre al dato dell'età, non vi erano altre situazioni di decadimento fisico e psichico della donna di cui il ricorrente avrebbe profittato; 3. la Procura Generale ha trasmesso la requisitoria scritta ai sensi dell'art. 23, comma 8, del D.L. 137 del 2020 concludendo per l'inammissibilità del ricorso: rileva, quanto al primo motivo, che la decisione, conforme nei due gradi di merito, si basa sul minuzioso e diffuso scrutinio di attendibilità della narrativa offerta dalle persone offese e dal teste De.Mi.; quanto al secondo motivo, rileva che il giudice di merito ha chiarito come l'imputato abbia operato una scelta mirata della vittima che per la sua condizione ha effettivamente dato credito alla storia inventata dal Pa.Em. per farsi consegnare i valori, precisando che la condizione della donna è poi confermata siccome critica dagli sviluppi dell'azione criminosa, quando l'imputato si è valso di un falso interlocutore telefonico. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile perché articolato con censure manifestamente infondate ovvero non consentite in questa sede. L'odierno ricorrente era stato tratto a giudizio e riconosciuto responsabile, nei due gradi di merito, ed all'esito di un conforme apprezzamento delle medesime emergenze istruttorie, del delitto di rapina impropria aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 5 cod. pen. ed ai sensi del comma terzo dell'art. 628 cod. pen. e di quello di lesioni personali in quanto "... per assicurarsi il possesso della cosa sottratta e per procurarsi l'impunità, usava violenza immediatamente dopo aver sottratto fraudolentemente denaro in contanti per circa 9.000 euro ed oggetti in oro per un valore di circa 10.000 euro a De.Ma., di anni 76; in particolare, dopo aver indotto l'anziana donna, con artifizi e raggiri, a consegnargli la somma di denaro e gli oggetti in oro sopra indicati, paventando un pericolo imminente ma inesistente per il figlio, scoperto dal genero della donna Ta.Ro., sopraggiunto in casa, al fine di garantirsi il bottino e la fuga colpiva dapprima la De.Ma. con una forte spinta dandosi alla fuga e, successivamente, inseguito e raggiunto dal Ta.Ro., impegnava quest'ultimo in una violenta colluttazione in conseguenza della quale il Ta.Ro. riportava le lesioni descritte nel capo 2)". 2. Il Tribunale aveva ricostruito l'episodio alla luce delle dichiarazioni dei testi escussi nel corso del dibattimento: era emerso che De.Ma., il giorno 20.9.2022, aveva ricevuto una telefonata da un tale che si era qualificato come suo figlio Ro. il quale le aveva fatto presente di avere mal di gola e di dover fare un tampone per il COVID; contemporaneamente, la donna aveva ricevuto una chiamata sul telefono fisso da una persona che le aveva preavvertita che sarebbe passato da lei a prelevare una somma di denaro da portare all'ufficio postale onde scongiurare la denuncia che altrimenti sarebbe stata inoltrata nei confronti del figlio; nel contempo, il predetto aveva invitato la donna ad inviare il marito presso l'ufficio postale per ritirare la ricevuta che sarebbe stata consegnata non appena recapitato il denaro. Una volta uscito di casa il marito, lo sconosciuto - pacificamente identificato nel Pa.Em. - si era presentava in casa dell'anziana dove si era fatto consegnare denaro contante per 9.000 euro e monili in oro per 10.000 euro che la persona offesa conservava nello sgabuzzino situato sul terrazzo. In quel frangente, tuttavia, era giunto sul posto il genero della donna, Ta.Ro., ex poliziotto, al quale il Pa.Em. si era qualificato come carabiniere passandogli il telefono per parlare con il "maresciallo"; il Ta.Ro. tuttavia non gli aveva creduto sicché il ricorrente aveva cercato di fuggire spintonando la donna ed allontanarsi venendo tuttavia sgambettato dal Ta.Ro. e cadendo a terra con la scatola dei gioielli che aveva tuttavia prontamente raccolto per riprendere la fuga; il giovane era stato tuttavia nuovamente raggiunto dal Ta.Ro. che, dopo aver ingaggiato una breve colluttazione, questa volta era riuscito a bloccarlo anche con l'aiuto del fratello della De.Ma. giunto sul posto e munito di una bomboletta di spray urticante. 3. Con l'atto di appello la difesa aveva chiesto la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale della De.Ma. e del Ta.Ro. che avrebbero fornito una versione dei fatti confusa e non lineare avendo in particolare la donna riferito della spinta subita dall'imputato solo dopo due giorni e senza mai essersi recata in ospedale; quanto al Ta.Ro., per aver reso dichiarazioni non in linea con quelle del fratello della persona offesa. Aveva poi insistito nella riqualificazione del fatto nella ipotesi delittuosa delineata dall'art. 640, comma 2, n. 2-bis cod. pen. ovvero, in subordine, nel delitto di rapina impropria (solo) tentata; da ultimo, nell'esclusione dell'aggravante della "minorata difesa" come di quella di cui al comma 3-quinques del comma terzo dell'art. 628 cod. pen. 4. Rileva il collegio che la Corte territoriale è pervenuta alla conferma della sentenza di primo grado disattendendo le doglianze difensive con argomentazioni puntuali in fatto e corrette in diritto, non giustificandosi, perciò, le censure articolate in questa sede. 4.1 Quanto alla ricostruzione dell'episodio ed alla sua corretta qualificazione in termini di rapina impropria consumata, la Corte d'appello ha fatto presente che l'imputato aveva ammesso di essersi fraudolentemente introdotto nella abitazione della donna per farsi consegnare denaro e beni preziosi: ha inoltre puntualmente "risolto" la presunta incertezza nella deposizione della donna circa la spinta che costei avrebbe ricevuto nel tentativo del giovane di darsi alla fuga e che, indipendentemente dai "tempi" in cui la persona offesa l'avrebbe fatta presente agli investigatori, era stata comunque riferita dal genero, circostanza su cui il ricorso è del tutto silente. Quanto, poi, al tentativo di darsi alla fuga, la Corte d'appello ha sottolineato la convergenza delle dichiarazioni del Ta.Ro. rispetto a quelle di De.Mi. ma anche della stessa persona offesa, giudicata assolutamente attendibile sull'intera dinamica dell'episodio. 4.2 Ed è proprio sulla scorta della ricostruzione in tal modo operata che i giudici di merito hanno potuto correttamente ribadire la qualificazione della condotta del ricorrente in termini di rapina impropria consumata che, come è noto, si articola nella sottrazione della "res" (nel caso di specie acquisita dal ricorrente in maniera truffaldina) seguita dalla violenza e/o dalla minaccia poste in essere per mantenerne la disponibilità e realizzare il definitivo impossessamento della refurtiva o darsi alla fuga. (cfr., in tal senso, tra le tante, Sez. 2 - , n. 15584 del 12/02/2021, Bevilacqua, Rv. 281117 - 01; conf., Sez. 2, n. 11135 del 22/02/2017, Tagaswill, Rv. 269858 - 01, in cui la Corte ha spiegato che, ai fini della configurazione della rapina impropria consumata, è sufficiente che l'agente, dopo aver compiuto la sottrazione della cosa mobile altrui, adoperi violenza o minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso della "res", mentre non è necessario che ne consegua l'impossessamento, non costituendo quest'ultimo l'evento del reato ma un elemento che riguarda, invece, 91 dolo specifico). È pacifico, poi, che nella rapina impropria, la violenza o la minaccia possono realizzarsi anche nei confronti di persona diversa dal derubato e che, per la configurazione del reato, non è richiesta la contestualità temporale tra sottrazione e uso della violenza o minaccia, essendo sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale tale da non interrompere l'unitarietà dell'azione volta ad impedire al derubato di tornare in possesso delle cose sottratte o di assicurare al colpevole l'impunità (cfr., così, ad esempio, Sez. 2, n. 43764 del 04/10/2013, Mitrovic, Rv. 257310 - 01; conf., Sez. 7, Ord. n. 34056 del 29/05/201, Belergouh, Rv. 273617 - 01). 4.3 Quanto all'aggravante di cui all'art. 61 n. 5, cod. pen., la Corte ha puntualmente motivato sottolineando che, nel caso di specie, essa non era stata ritenuta esclusivamente in considerazione dell'età della vittima ma del rilievo secondo cui l'imputato aveva attentamente mirato ad una persona anziana, di settantasette anni, che avrebbe potuto dar credito alla storia da lui inventata per farsi consegnare denaro e gioielli come, infatti, era accaduto avendo la donna consegnato una somma di gran lunga superiore alla richiesta iniziale accompagnata, inoltre, da quella di gioielli la cui destinazione a saldare un debito era quantomeno discutibile e, tuttavia, non era stata colta dalla vittima, turbata anche dalla previa telefonata del "figlio". Per altro verso, i giudici di secondo grado hanno spiegato che il ricorrente aveva anche avuto la "accortezza" di far in modo che l'anziana donna fosse sola in casa, invitando il di lei marito a recarsi preso l'ufficio postale per ritirare la fantomatica ricevuta. In tal modo, quindi, la Corte ha fatto corretta applicazione del principio ormai autorevolmente ribadito in questa sede di legittimità, secondo cui, ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante della minorata difesa, prevista dall'art. 61, primo comma, n. 5, cod. pen., le circostanze di tempo, di luogo o di persona, di cui l'agente abbia profittato, devono tradursi, in concreto, in una particolare situazione di vulnerabilità del soggetto passivo del reato, non essendo sufficiente l'idoneità astratta delle predette condizioni a favorire la commissione dello stesso (cfr., così, infatti, Sez. U., n. 40275 del 15/07/2021, Cardellini, Rv. 282095 - 02). Ed è proprio la struttura del delitto di rapina impropria, come in precedenza ribadita, che consente di ritenere la aggravante anche laddove le condizioni previste dall'art. 61 n. 5 cod. pen. abbiano agevolato la sottrazione della "res" alla vittima indipendentemente dal fatto che, nella fase successiva, la violenza e/o la minaccia siano state esercitate nei confronti di soggetti o in contesti che non avevano comportato alcuna concreta "agevolazione". Si è anche chiarito che la circostanza aggravante speciale, prevista, per il delitto di rapina, dall'art. 628, comma terzo, n. 3-quinquies, cod. pen., è correlata al dato del superamento dell'età di sessantacinque anni da parte della persona offesa, e non alla presunzione relativa di maggior vulnerabilità della vittima in ragione dell'età, cui fa, invece, riferimento la circostanza aggravante comune prevista dall'art. 61, n. 5, cod. pen. (cfr., in tal senso, Sez. 2 - , n. 17320 del 09/12/2022, dep. 26/04/2023, Cantimir, Rv. 284527 - 01, in cui la Corte ha precisato che ricorre l'aggravante dell'età della vittima di cui all'art. 628, terzo comma, n. 3-quinquies, cod. pen. nel caso di rapina commessa in danno di persona ultrasessantacinquenne, senza che sia necessaria una specifica indagine sull'effettiva incidenza dell'età della parte lesa sulla consumazione della condotta criminosa, ovvero senza possibilità di dimostrare l'irrilevanza, nel caso specifico, del dato anagrafico). È vero che l'aggravante speciale dell'età della vittima eccedente i sessantacinque anni, prevista dall'art. 628, comma terzo, n. 3-quinquies cod. pen., esclude l'applicazione concorrente dell'aggravante comune, determinativa di un minore incremento sanzionatorio, di cui all'art. 61 n. 5, cod. pen., ove contestata in riferimento all'età senile della persona offesa e alla sua ritenuta minore capacità di resistenza, vietando l'art. 68 cod. pen., in tema di componenti accessorie del reato, l'addebito plurimo di un medesimo elemento fattuale (cfr., in tal senso, Sez. 2 -, n. 3496 del 02/11/2022, dep. 27/01/2023, Pannone, Rv. 284193 - 01; Sez. 2 - , n. 14489 del 06/12/2022, dep. 05/04/2023, Borrelli, Rv. 284479 - 01). E, tuttavia, se per un verso non è questo il profilo su cui è incentrato il motivo di ricorso, va pur detto che nel caso di specie l'aggravante di cui all'art. 61 n. 5 cod. pen. non ha avuto alcun riflesso sul piano del trattamento sanzionatorio che è stato determinato partendo dal minimo edittale stabilito dal comma quinti dell'art. 628 cod. pen. per il caso di più aggravanti concorrenti (nel caso di specie, quelle di cui al n. 3-bis - non bilanciabile - ed al n. 3-quinquies su cui, invero, non c'è ricorso), su cui è stata operata la riduzione massima per le riconosciute circostanze attenuanti generiche, l'aumento per la continuazione con il capo B) e la finale riduzione per il rito. 5. L'inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle somma - che si stima equa - di euro tremila, in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 19 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente Dott. CALAFIORE Daniela - Relatore Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere Dott. CENCI Daniele - Consigliere Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ve.An. nato a M il (Omissis) avverso l'ordinanza del 08/01/2023 della CORTE APPELLO di CATANZARO udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA CALAFIORE; lette le conclusioni del PG RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Reggio Calabria ha dichiarato inammissibile l'istanza di revisione, proposta da Ve.An. ai sensi dell'art. 630 lett. c) cod. proc. pen., della sentenza n. 780/2020, resa nei riguardi del medesimo Ve.An. dalla Corte d'appello di Reggio Calabria in data 4 novembre 2020 e divenuta irrevocabile in data 3 marzo 2022, di parziale riforma della sentenza di primo grado, e precisamente quanto all'assoluzione per il capo N) ed alla declaratoria di non doversi procedere quanto al capo O) dell'imputazione. 2. Il Ve.An. era stato condannato per il reato di cui all'art. 609-octies, commi 1 e 2, cod. pen. (di cui al capo D) dell'imputazione), essendo stata esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 609-ter n. 5-sexies cod. pen. e, concesse le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti all'aggravante ex art. 609-ter, cpv. n. 1, cod. pen., rideterminata la pena in anni sei e mesi sei di reclusione. 3. La sentenza di cui si chiede la revisione aveva dichiarato Sc.Da., Ia.Gi.. Ve.An., Tr.Lo., Nu.Mi.e Pi.Do., colpevoli, a vario titolo, dei reati di atti sessuali con minorenne, violenza sessuale di gruppo, detenzione di materiale pornografico, lesioni personali, violenza privata, ascritti ai primi cinque, e favoreggiamento personale, ascritto al solo Pi.Do., e li aveva condannati alle pene ritenute di giustizia. 4. In particolare, la Corte di appello: - ha assolto lo Sc.Da. e il Ve.An. dal reato di violenza privata di cui all'art. 610 cod. pen., rubricato al capo N), perché il fatto non sussiste (in primo grado erano stati assolti con la formula "perché il fatto non costituisce reato"); ha conseguentemente dichiarato non doversi procedere nei loro confronti per il reato di lesioni personali di cui all'art. 582 cod. pen., rubricato al capo 0), per difetto di querela, e ha rideterminato la pena (principale) in nove anni e otto giorni di reclusione, per lo Sc.Da. e in sei anni e sei mesi di reclusione per il Ve.An.; - ha rideterminato la pena nei confronti del Nu.Mi.in sei anni di reclusione; - ha confermato, nel resto, la condanna degli imputati e le statuizioni civili di condanna, condividendo con il primo Giudice la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, To.Mi., sia in sede di incidente probatorio che in dibattimento in quanto dettagliate, dotate di coerenza logica ed argomentativa (contrariamente a quelle rese dagli imputati che, per molti aspetti, erano risultate generiche ed incoerenti) e corroborate dalle perizie sulla stessa espletate; in particolare, gli imputati erano stati dichiarati colpevoli: Sc.Da.: dei delitti di cui ai capi A) (atti sessuali con minore ex art. 609-quater, comma primo, cod. pen.), B) (violenza sessuale di gruppo ai danni di persona non ancora quattordicenne di cui all'art. 609-octies, commi primo e secondo, 609-ter, comma primo, n. 1, cod. pen.), D) (violenza sessuale di gruppo ai danni di persona non ancora quattordicenne, di cui all'art. 609-octies, commi primo e secondo, 609-ter, comma primo, n. I, cod. pen.), E) (violenza sessuale di gruppo di cui all'art. 609-octies, commi primo e secondo, cod. pen.), F, H (detenzione di materiale pornografico ex art. 600-quater cod. pen., riqualificati in un unico reato con condotta dall'ottobre 2013 alla fine del 2014) ed M (lesioni personali di cui all'art. 582 cod. pen., esclusa l'aggravante di cui all'art. 576, n. 5.1 c.p.); 5. L'istanza di revisione è stata proposta ai sensi dell'art. 630 lett. c) cod. proc. pen. sulla prospettata emersione di nuove prove, atte a svelare l'errore ricostruttivo del fatto storico compiuto dai Giudici e che dimostrerebbero la falsità delle dichiarazioni testimoniali rese dalla parte offesa, prima in sede di sommarie informazioni testimoniali, e poi in sede di incidente probatorio. Secondo la tesi prospettata dal Ve.An., la parte offesa serbava rancore nei confronti del medesimo Ve.An., colpevole di aver criticato in paese le sue vicende sessuali. Per tale motivo, lo aveva inserito in un contesto punitivo pur essendo consapevole che nessuno aveva mai abusato di lei. Dunque, la minore, il giorno dei fatti, aveva organizzato e voluto che l'ex fidanzato Sc.Da. l'andasse a prendere in compagnia di un suo amico, tale Nu.Mi., per raggiungere insieme una casa di campagna del Nu.Mi. e lì consumare un rapporto sessuale di gruppo con i due. Nel racconto della ragazza, ad un certo punto il Ve.An. era stato contattato dallo Sc.Da. che gli aveva chiesto di portargli delle sigarette e dopo poco questi era arrivato, tanto che la To.Mi. aveva desunto, non solo che il ragazzo fosse stato già in viaggio al momento del contatto, ma anche che sapesse bene dove doveva raggiungere l'amico. Il rapporto sessuale avuto a seguire con il Ve.An. non era stato invece consenziente e tale fatto, ad avviso della sentenza di condanna della Corte di appello, aveva trovato riscontro in una chat fra la parte offesa ed il Nu.Mi. del 2014, in un inciso in cui la prima aveva affermato che le veniva difficile fidarsi. Rilevava la difesa che però appariva anomalo che nella conversazione la ragazza dimostrasse soddisfazione per quanto avvenuto, senza invece esternare il proprio disprezzo nei confronti di uno dei suoi carnefici. Come novum della revisione, la difesa aveva indicato innanzitutto il tema scolastico da cui avevo avuto origine l'indagine. Tale tema, interpretato dai giudici della cognizione come rappresentazione del dramma della ragazza in ragione degli abusi che la stessa era stata costretta a subire, conteneva invece un chiaro rimprovero ai genitori, atteso che ciò che turbava la ragazza era la loro assenza. A seguire, venivano indicati ancora gli screen shot di due conversazioni, nelle quali la ragazza lasciava intendere che già tre anni prima, all'età dunque di 11 anni, aveva avuto esperienze sessuali estreme, che mal si conciliavano con le conclusioni a cui erano giunti i periti chiamati a valutare la sua capacità a testimoniare. La parte istante aveva riportato, alla pagina 14, gli stralci di alcune intercettazioni avvenute, la prima, fra il padre e la madre della parte offesa, la seconda, fra il padre e la minore e, la terza, tra la madre della minore ed il CT del pubblico ministero, che lasciavano intendere come la ragazza fosse stata quasi obbligata a denunciare i fatti in esame. La difesa aveva, inoltre, indicato una intercettazione telefonica tra la p.o. e tale Cr.Ca., avvenuta quattro mesi dopo la denuncia e rimasta estranea alla cognizione ordinaria, che dimostrava la natura calunniosa delle dichiarazioni della ragazza in quanto, tale soggetto, che pure aveva avuto un rapporto sessuale con la ragazza, aveva chiesto alla stessa se poi sarebbe stato pure coinvolto nella denuncia come gli altri ragazzi, posto che non era stata costretta. La stessa aveva risposto solo con un "appunto", affermando che il suo desiderio era solo quello che gli altri la smettessero di criticarla in giro. Inoltre, l'istante aveva indicato errori grossolani compiuti dal perito del Tribunale, come indicati dalla consulente Br., consistenti nel non aver individuato il grave disturbo della personalità sofferto dalla minore e la sua incapacità a testimoniare. Altro elemento nuovo e significativo, prospettato dal Ve.An., era quello della conversazione telefonica intercorsa tra il padre della minore e lo stesso Ve.An., dopo la denunzia dei fatti, dalla quale era dato evincere che il primo si dichiarava consapevole della innocenza del secondo; da altri screen shot di chat, poi, si apprendeva che gli atti di autolesionismo cui la giovane si sottoponeva erano dettati dalla finalità di convincere il fidanzato dell'epoca (Pi.Do.) a perdonarle i tradimenti. La difesa del Ve.An., ancora, aveva richiamato il contenuto dell'elaborato peritale del dott. Re.Pa. (relativo al proc. R.g.n.r. 1952/2018) sostenendo che, dalla chat recuperata tra i files cancellati e non apprezzati dai giudici della cognizione, ve ne era una intercorsa tra la minore ed il Nu.Mi. dalla quale si evinceva che il Ve.An. non si era recato a P in quella occasione. Infatti, nella medesima occasione, la minore aveva affermato che era stato lo Sc.Da. a chiamare il Ve.An.. mentre la Corte di appello dallo screen della conversazione tra la ragazza ed il Nu.Mi. aveva ricavato che era stato quest'ultimo a chiamarlo. In realtà, la conversazione era stata valorizzata dalla sentenza di condanna al fine di dimostrare l'intrusione nel rapporto sessuale del Ve.An., ma tale evento era da escludersi, posto che da altri screen della giornata si era appreso che la ragazza si preoccupava solo che il suo rapporto con il Nu.Mi. fosse inteso solo di amicizia. La conversazione con il Ve.An. si era verificata solo dopo la consumazione del rapporto e solo al fine di organizzare la serata, come di consueto. Del tutto priva di significato, secondo la difesa, era la valorizzazione dell'immagine dello sfondo del cellulare, posto che lo stesso appariva anche nell'arco temporale intercorrente tra aprile e maggio 2014 e che gli incontri con lo Sc.Da. erano avvenuti anche dopo febbraio 2014. In definitiva, dall'esame delle chat e da frasi tratte dal profilo facebook della minore si arguiva che la condotta della stessa era tesa a tentare di recuperare una reputazione ormai rovinata da scelte sbagliate, inducendo i genitori e l'unico fidanzato "serio", il Pi.Do., a credere che era stata costretta a subire i rapporti sessuali. 4. La Corte territoriale ha dichiarato inammissibile l'istanza, rilevando la mancata ricorrenza dei presupposti applicativi dell'istituto della revisione. In proposito ha richiamato la pertinente giurisprudenza di legittimità ed ha ritenuto in particolare che alla luce di Sez. 3, n. 23967 del 2023, la valutazione di attendibilità della persona offesa già effettuata nel giudizio di cognizione non può formare oggetto di riesame in sede di revisione, salvo che si contesti la reale esistenza di un fatto storico nel quale si è individuato il riscontro esterno alle dichiarazioni della predetta. Sulla base di tali principi, la Corte d'appello ha ritenuto che l'istanza non superasse il doveroso vaglio previsto per la fase rescindente rilevando come con la istanza in esame la difesa aveva del tutto mutato la propria linea difensiva rispetto al giudizio di cognizione, sostenendo che il Ve.An. nella casa di P, dove la minore era stata condotta dal Nu.Mi. e dallo Sc.Da. per poi avere rapporti sessuali, da principio consenzienti, non c'era mai stato. La stessa Corte di cassazione, infatti, nel rigettare i ricorsi dei ricorrenti aveva dato conto delle discordanti versioni dei fatti rese dai tre imputati per il capo D) e, nello specifico, di come il Ve.An., da ultimo in sede di gravame, non avesse negato la sua presenza in quel mentre (così alla pagina 143 della sentenza). La corposa ed articolata istanza in esame trovava un primo evidente limite nell'aver estrapolato la vicenda di cui al capo D), da un più lato contesto estraendola totalmente dagli altri fatti che avevano portato ad un processo a carico di diversi imputati per svariati fatti di abuso e violenza sessuale in danno della minore ed in cui le dichiarazioni della stessa erano state sempre ritenute credibili ed affidabili, scremate sin dal primo grado di tutte quelle informazioni che nel corso dell'incidente probatorio erano state assunte dalla vittima con domande suggestive. I giudici del merito avevano prudenzialmente scelto di procedere ad una valutazione frazionata della dichiarazione della minore ritenendole valevoli solo nei passi in cui le stesse trovavano riscontro in altri elementi di prova di carattere oggettivo o logico. Ad avviso della Corte d'appello, la capacità di testimoniare della minore e la sua attendibilità, oltre che la tenuta delle dichiarazioni dalla stessa resa, risultavano questioni già ampiamente trattate dai giudici della cognizione e come tali non più esaminabile ai fini di una revisione del giudizio. Lungi dal contestare l'esistenza di un fatto storico, in funzione di riscontro rispetto al dichiarato della minore, la difesa si è innanzitutto affidata ad una nuova valutazione tecnica quanto al "funzionamento globale psicologico della minore", contrapponendola ai diversi contributi specialistici in atti al fine di smentire le conclusioni invece rassegnate dai tecnici. La Corte ha in dettaglio ritenuto che non si potessero considerare prova nuova gli screen shot delle conversazioni intrattenute dalla minore con alcuni ragazzi nelle intercettazioni di alcune conversazioni, che, secondo la difesa, valevano a comprovare il fatto che la To.Mi. era stata quasi obbligata a denunciare i fatti. Ricorda infatti la Corte che i giudici di merito avevano sentito la necessità espressa di escludere ogni valutazione o giudizio, quanto alla moralità della vittima e alle sue precoci scelte di esperienze sessuali, tenendo ad esaminare i fatti soltanto secondo il binomio consenso-dissenso al singolo atto sessuale, ferma la rilevanza penale dei fatti comunque accaduti quando la minore non aveva ancora compiuto i 14 anni, quanto alle seconde, di cui la difesa a ben vedere neanche spiega la rilevanza ai fini di cui si occupa e la decisività per scardinare l'accertamento giudiziario ormai passato in giudicato. I dialoghi non risultano altro che la conferma della sofferta genesi del giudizio, per come, del resto, riferito già dal maresciallo Ca. (pagine 24 e seguenti della sentenza di primo grado). Del tutto esterni al dichiarato della parte offesa ed alla sua valenza probatoria, risultano poi le registrazioni prodotte dalla difesa, che erano intercorse tra il padre della ragazza ed il Ve.An.: di tale incontro peraltro aveva già riferito lo stesso To.St., sentito in qualità di teste, precisando come aveva poi contattato lo zio di Tr.Lo. Ra.Ni. il quale lo aveva rassicurato che avrebbe parlato con il nipote e così dopo qualche giorno aveva ricevuto una telefonata da parte dei due ragazzi (Tr.Lo. ed Ve.An.) che gli avevano chiesto di incontrarlo. I due ragazzi si erano giustificati, dicendogli che si era trattato di un errore che si fa quando si è ragazzi; in particolare, in quel frangente, si parlava sempre e solo dell'esistenza di foto e di video, non di altro. Dunque, oltre a non trattarsi di dati nuovi, gli stessi non autorizzavano le conclusioni rassegnate da parte istante. Neppure nuova era la prova derivante da una diversa interpretazione delle chat intercorse tra la minore ed il coimputato Nu.Mi., già presenti nel tessuto probatorio; infine, nemmeno si sottraeva al medesimo rilievo l'interpretazione, quale asserita prova nuova, del tema scritto dalla minore. Anche questo elemento era già stato analizzato da tutti i giudici della cognizione e di esso parte istante sosteneva solo una lettura diversa. 5. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del difensore, Ve.An. sulla base del seguente articolato motivo: - ai sensi dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli articoli 630 lettera c) e 634 cod. proc. pen., per motivazione apparente e cioè inesistente in ordine alla ritenuta insussistenza del requisito di novità della prova introdotta con la revisione e dunque della sua inidoneità a falsificare il giudizio di colpevolezza. Si espone che il Ve.An. è stato condannato nell'ambito di un più complesso procedimento penale per un solo episodio di violenza sessuale di gruppo contestato al capo D) della rubrica, in concorso con Sc.Da. e Nu.Mi. La declaratoria di inammissibilità dell'istanza di revisione si rivelerebbe in contrasto con le regole di diritto che governano la presente fase rescindente. L'esercizio dei poteri di valutazione delle nuove prove, infatti, ad avviso del ricorrente, non consente una penetrante anticipazione dell'apprezzamento di merito riservato invece al vero e proprio giudizio di revisione, da svolgersi nel contraddittorio delle parti. Dunque, il rappresentato mutamento della linea difensiva addotto dalla sentenza in ordine alla presenza del Ve.An. nella casa di Pentadattilo, dove la minore era stata condotta dal Nu.Mi.e dallo Sc.Da. per poi avere rapporti sessuali da principio consenzienti, rappresenterebbe il frutto di una poco sorvegliata lettura degli atti processuali. Infatti, il Ve.An. non aveva mai reso alcuna dichiarazione, né si era sottoposto all'esame in dibattimento ed il riferimento all'atto di impugnazione fatto dalla sentenza della Corte di cassazione, richiamata dall'ordinanza impugnata, altro non sarebbe che un passaggio argomentativo utilizzato dal difensore per escludere, anche nella diversa ipotesi, l'attendibilità della persona offesa. Dunque, l'istanza di revisione non ha mutato la linea difensiva seguita in sede di cognizione e le nuove prove devono ritenersi funzionali a dimostrare la calunnia della persona offesa, compiuta in sede di denuncia nell'ottobre del 2015. La Corte territoriale, tenuta a verificare incidentalmente le circostanze allegate nell'istanza, avrebbe dovuto rilevare, in particolare, che la ricostruzione del giudizio era stata del tutto disarticolata, per effetto della consulenza di parte tecnico informatica (redatta dall'ingegner Re.Pa.) sull'hard disk del pc della persona offesa, consegnato dalla medesima agli inquirenti cinque giorni prima dell'incidente probatorio. Nella prospettiva della revisione, ciò dimostrerebbe la dolosa imputazione delle prove offerte dalla parte offesa alla cognizione ordinaria, per la valutazione della sua attendibilità, ed infatti il consulente tecnico aveva recuperato la memoria storica dell'hard disk, nonostante ben sette tentativi di cancellazione sul medesimo con l'ausilio di cinque diversi software; si parla dell'emersione di ben 116.712 elementi costituiti da chat e immagini che la parte offesa aveva conservato in apposite cartelle. In sede di accertamento tecnico erano state rilevate soltanto 32.000 immagini e chat che hanno offerto una realtà diversa rispetto a quella narrata dalla parte offesa. La Corte d'appello avrebbe negato la validità della nuova prova, nella prospettiva della revisione, soltanto in quanto si era determinato il giudicato di condanna, tralasciando che la domanda di revisione è funzionale allo svelamento della falsificazione e preferendo una impostazione meramente dogmatica del giudicato di condanna, che non ammette l'errore. L'ordinanza impugnata non si era confrontata con il significato delle evidenze portate alla luce nella consulenza della difesa, le aveva eluse del tutto e quindi, in riferimento allo specifico episodio per cui il Ve.An. aveva riportato condanna, esponeva una motivazione del tutto inconferente e tutto ciò, quindi, avrebbe dovuto determinare l'ammissibilità dell'istanza di revisione. 6. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. 7. Il ricorrente, tramite il proprio difensore, ha depositato due successive memorie con le quali insiste nell'accoglimento del ricorso, rilevando che altra sezione della Corte di appello di Catanzaro ha, nelle more del giudizio, ritenuto ammissibile altra istanza di revisione relativa ad altro coimputato. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Le doglianze formulate non possono trovare ingresso in questa sede. Le Sezioni unite hanno, infatti, condivisibilmente stabilito che, ai fini dell' 'ammissibilità della richiesta di revisione, prova nuova è, oltre alla prova sopravvenuta, la prova scoperta, la prova non acquisita e la prova acquisita ma non valutata (Sez. U., 26-9-2001, Pisano), non potendo la revisione avere come presupposto una diversa valutazione del dedotto (Cass., Sez. 2, n. 762 del 1910-2005, Rv. 232988). Ne deriva che, a norma dell'art. 631 c.p.p., gli elementi dedotti devono essere tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto ai sensi degli artt. 529,530,531 cod. proc. pen. La Corte d'appello deve dunque, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta di revisione, effettuare una delibazione prognostica circa il grado di affidabilità e di conferenza dei "nova", che non si traduca tuttavia in un'approfondita, indebita anticipazione del giudizio di merito (Cass., Sez. 5, n. 11659 del 22-11-2004, dep. 2005, Rv. 231138), ai fini del riscontro in ordine alla persuasività e alla congruenza degli elementi probatori posti a base dell'impugnazione straordinaria (Cass., Sez. 1, n. 4837 del 6-10-1998, Rv. 211458). 2. Nel caso di specie, la Corte d'appello ha evidenziato, in primo luogo, che tutta l'istanza si fonda sulla estrapolazione del solo capo D) dell'imputazione da un contesto più ampio, astraendola totalmente dagli altri fatti che avevano portato ad un processo a carico di diversi imputati per svariati fatti di abuso e violenza sessuale in danno della minore ed in cui le dichiarazioni della minore erano sempre state ritenute credibili ed affidabili. 3. Scremate sin dal primo grado tutte quelle informazioni che nel corso dell'incidente probatorio erano state assunte dalla vittima con domande suggestive, si era seguita la linea prudenziale, procedendo ad una valutazione frazionata delle dichiarazioni della minore, ritenendole valevoli solo nei passi in cui le stesse trovavano riscontro in altri elementi di prova di carattere oggettivo o logico. 4. Anche la Corte di cassazione aveva rilevato come all'esito del giudizio non era mai emersa la falsità delle dichiarazioni della minore e le assoluzioni di alcuni imputati da taluni reati, che pure vi erano state, erano state dovute alla possibilità che nei ricordi della vittima alcuni episodi (stante anche la mole di rapporti ed incontri che la stessa aveva intrattenuto) si fossero confusi (ad esempio per i fatti di cui al capo C). avvenuti sempre nella stessa casa di P) ovvero nei casi in cui la parte offesa era divenuta quattordicenne, non poteva escludersi che l'imputato non avesse percepito il dissenso della minore al rapporto sessuale. 5. In tale più ampio contesto, ove erano presenti anche rapporti sessuali per i quali la ragazza aveva ammesso di averli voluti, si inserivano i fatti di cui al capo D) contestati anche al Ve.An., oltre che allo Sc.Da. ed al Nu.Mi. Il primo, poi, era stato indicato dai giudici del merito come il soggetto che, facendo leva sull'incontestato ascendente che aveva sulla ragazza, l'aveva più volte convinta ad incontrarlo e portata ad intrattenere rapporti sessuali, anche con i suoi amici, non sempre consenzienti. Tale quadro rappresentava il rapporto malato tra Sc.Da. e la ragazza, al cui interno si collocava anche l'episodio di cui al capo D). A fronte di ciò, la domanda di revisione non aveva per nulla tentato di dimostrare la decisività delle nuove prove rispetto a tale situazione di fondo. 6. La Corte di appello ha messo correttamente in evidenza che la capacità di testimoniare della minore, la sua attendibilità e le dichiarazioni rese erano state ampiamente valutate dai giudici della cognizione e non si poteva rimetterle in discussione. Nessun fatto storico in funzione di riscontro al dichiarato della minore era stato offerto e la difesa si era affidata ad una nuova valutazione tecnica di rilievo psicologico, la quale non aveva neanche in tesi il valore di nuova prova scientifica non espletabile in precedenza. 7. E correttamente la Corte d'appello sottolinea che erano già state valutate le fonti di prova costituite da chat, screen shot, files cancellati, conversazioni telefoniche intercorse con il padre della ragazza ed il Ve.An. e Tr.Lo, il tema scolastico, e che tutti tali elementi prospettati come prove nuove, sono lungi dall'essere definibili come prove decisive. Va osservato che, contrariamente a quanto affermato in ricorso, (vedi pag. 143 della Sez. 3 n. 5234 del 2023, che ha dichiarato inammissibile il ricorso del Ve.An. ed i relativi richiami alle sentenze del merito) gli elementi probatori offerti non assumono neanche in astratto il carattere di novità. 8. A ciò deve poi aggiungersi, come correttamente rilevato dalla ordinanza impugnata, principio espresso da Sez. 3 n.23967 del 2023, secondo cui la valutazione di attendibilità della persona offesa, già effettuata nel giudizio di cognizione, non può formare oggetto di riesame in sede di revisione, salvo che si contesti la reale esistenza di un fatto storico nel quale si è individuato il riscontro esterno alle dichiarazioni della già menzionata. 9. Dunque, nel caso di specie, i nova non sono affatto in grado di disarticolare il ragionamento posto a base della declaratoria di responsabilità. E consentire la riapertura dell'istruttoria in sede di revisione significherebbe - puntualizza la Corte territoriale - soltanto ammettere la reiterazione di apprezzamenti critici in ordine a dati storici ed esperienziali già esaurientemente esaminati con autonoma ed esauriente ricostruzione logica nelle sentenze oggetto della richiesta di revisione, aprendo la strada ad ulteriori e inammissibili prospettazioni di elementi di giudizio già valutati. 10. L'impianto argomentativo a sostegno del decisum è dunque puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico esperito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, poiché la Corte d'appello ha valutato le potenzialità demolitorie del giudicato ad opera del novum dedotto: ciò che è pienamente consentito, poiché la Corte d'appello, in sede di vaglio dell'ammissibilità di una richiesta di revisione, può valutare la pertinenza, rilevanza ed idoneità delle nuove prove a determinare il proscioglimento (Sez. 3, n. 34360 del 23-6-2011), alla luce delle risultanze acquisite nel contesto del procedimento penale originario, anch'esse, nel caso in esame, vagliate dal giudice a quo. E' d'altronde corretto che la Corte d'appello addivenga a declaratoria di inammissibilità qualora si debba concludere nel senso che, sulla base del complessivo contesto probatorio - e non delle sole prove nuove - non potrebbe comunque pervenirsi all'asserto inerente all'innocenza del condannato (Sez. U., n. 624 del 26-9-2001, Pisano, cit.), nemmeno sotto il profilo del delinearsi di un quadro probatorio caratterizzato da insufficienza o contraddittorietà della prova e del profilarsi di un ragionevole dubbio circa la responsabilità dell'imputato (Cass., Sez. 1, n. 25678 del 12-52004). Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila, determinata secondo equità, in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2003). 11. In ragione del titolo di reato e della commissione di quest'ultimo in danno di minorenni si impone l'oscuramento dei dati personali. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 4 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. SIANI Vincenzo - Consigliere Dott. APRILE Stefano - Consigliere Dott. MAGI Raffaello - Consigliere Dott. LANNA Angelo Valerio - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti: dal PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI ANCONA; da Me.Eg. nato a S il (Omissis); nel procedimento a carico di quest'ultimo avverso la sentenza del 19/06/2023 della CORTE APPELLO di ANCONA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO VALERIO LANNA; letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale MARIA FRANCESCA LOY, che ha chiesto l'annullamento con rinvio limitatamente alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, con declaratoria di inammissibilità quanto al resto RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 16/09/2022, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Fermo ha ritenuto Me.Eg. colpevole dei reati: - di tentato omicidio aggravato, che assorbiva anche il contestato reato di minaccia grave, commesso in danno di An.Fi. (che l'imputato colpiva alla testa con un martello, cagionandogli un "trauma cranico commotivo complicato da esa, frattura pluriframmentaria del parietale di dx, crisi comiziale subentrante da subite lesioni violente", da cui derivava una malattia con prognosi superiore ai novanta giorni, non riuscendo nell'intento per il tempestivo intervento di altro soggetto presente sul luogo, nonché grazie al sopraggiungere dei soccorsi ed al pronto trasporto in ospedale); - di porto senza giustificato motivo di due coltelli da cucina, nonché di una chiave "a pappagallo" e di un martello; - di maltrattamenti in danno della compagna convivente Ma.Th.; - di atti persecutori, parimenti commessi in danno della medesima Ma.Th., alla quale cagionava un perdurante e grave stato d'ansia, ingenerandole un fondato timore per la propria incolumità e per quella della figlia An.Me., costringendola a modificare le proprie abitudini di vita e per l'effetto - ritenuto più grave il reato di tentato omicidio, nonché ritenuta la continuazione fra tutti i reati, ritenuta l'aggravante della premeditazione in ordine al reato in relazione al quale viene individuata la pena base e, infine, tenuto conto della diminuente del rito - lo ha condannato alla pena di anni dieci e mesi otto di reclusione, oltre che al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare; con condanna al risarcimento dei danni patiti dalle costituite parti civili, la liquidazione dei quali è stata demandata al giudice civile, oltre che alla rifusione delle spese di costituzione e assistenza sostenute dalle parti civili medesime; con applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata per anni tre; con confisca e distruzione, infine, di quanto in sequestro. 2. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Ancona - in parziale riforma della suddetta sentenza gravata - ha riconosciuto all'imputato le circostanze attenuanti generiche, computandole con il criterio della equivalenza rispetto alle contestate e ritenute aggravanti, cosi rideterminando la pena complessiva in anni otto di reclusione e applicando all'imputato la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, revocando la misura di sicurezza della libertà vigilata e, infine, condannando il Me. alla rifusione delle spese sostenute nel grado di giudizio dalle costituite parti civili. 3. Ricorre per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Ancona, deducendo vizio rilevante ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., sotto il profilo della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione, in punto di concessione delle circostanze attenuanti generiche, laddove in motivazione viene mosso un appunto a Ma.Th., persona offesa dei reati di maltrattamenti e atti persecutori, per aver contribuito a esacerbare l'animo dell'imputato, alimentandone le già forti tensioni psicofisiche e per non essersi relazionata con il suo aggressore, in vista dell'opportunità di fare chiarezza. Il primo profilo di illogicità si annida nella presunzione della possibilità, per la vittima, di instaurare un confronto con l'aggressore nei termini sopra indicati. Parimenti illogico è qualificare come rimproverabile la riservatezza della Th., intesa alla stregua di una violazione di un legittimo interesse dell'imputato, ad onta della pericolosità e dell'indole violenta da quest'ultimo inequivocabilmente manifestata. Tali considerazioni, ancora una volta seguendo un percorso concettuale illogico, vengono poste a fondamento di una benevola considerazione, circa la volontà di vendetta che animava il Me.. Contraddittorio è, del resto, ipotizzare la sussistenza di tale obbligo comunicativo e, correlativamente, di un legittimo interesse in capo all'imputato, a fronte di condotte che la Corte stessa ha definito tese al controllo ossessivo, alle minacce di morte, alla umiliazione della compagna. 4. Ricorre per cassazione Me.Eg., a mezzo del difensore avv. Gi.Ga., deducendo undici motivi, che vengono di seguito riassunti entro i limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp att. cod. proc. pen.. 4.1. Con il primo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione al difetto di imputabilità, censurandosi il mancato esperimento del richiesto supplemento istruttorio. L'imputato, al momento del fatto, non era compos sui, a causa della grave psicopatologia depressiva che lo affliggeva, secondo quanto diagnosticato dalla psicologa nella consulenza di parte. In conseguenza di una condizione di "scissione transitoria acuta", la difesa aveva domandato l'espletamento di un supplemento istruttorio, volto a verificare la capacità di intendere e di volere del soggetto al momento del fatto. Tali rilievi, unitamente alla stranezza dell'azione sussunta in contestazione (posta in essere per mano di un dottore commercialista di sessantatré anni incensurato) avrebbe dovuto determinare la Corte di appello ad accogliere la richiesta difensiva e, in conseguenza, a disporre l'ulteriore accertamento richiesto. 4.2. Con il secondo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 56 comma 3, 575, 577 comma 3, 582 e 583 cod. pen., per assenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione, in merito all'elemento soggettivo e oggettivo del delitto di tentato omicidio e quanto alla mancata derubricazione del reato di tentato omicidio aggravato in quello di lesioni personali gravi o gravissime, nonché per mancata configurazione dell'ipotesi della desistenza. La Corte territoriale omette di considerare l'atteggiamento evidentemente desistente serbato dall'imputato; questi infatti, piuttosto che continuare a infierire sulla vittima, si è soffermato a discorrere con la terza persona presente, circa le ragioni del gesto. Il tutto avrebbe dovuto determinare la Corte a escludere la sussistenza del dolo omicidiario. Sull'analisi dell'elemento soggettivo del reato avrebbero dovuto avere un peso determinante, peraltro, gli avvenimenti prodromici al fatto, che mostrano come l'imputato sia stato sottoposto a un crescendo di tensioni emotive, in modo particolare dopo che moglie e figlia si erano allontanate da casa, lasciandolo in preda alla collera. L'azione del Me. era, in realtà, solo un gesto dimostrativo, che mirava a produrre esclusivamente lesioni. Tanto vero che Fi. è stato colpito una sola volta, sfortunatamente alla testa e l'imputato gli ha permesso di allontanarsi autonomamente, senza cercare di attingerlo ulteriormente. L'azione delittuosa non è stata interrotta da fattori esterni sopravvenuti, bensì dalla volontà del soggetto attivo, per cui è configurabile la desistenza volontaria. Su tale ultimo punto, la motivazione della sentenza impugnata risulta oltremodo carente. A suffragio della sussistenza di una desistenza volontaria, militano inoltre le dichiarazioni rese da An.Ma., che descrivono compiutamente la condotta tenuta dall'imputato subito dopo il fatto. La descrizione dei fatti resa da tale teste delinea tanto lo scopo puramente dimostrativo dell'azione, quanto l'assenza di una reale intenzione omicida - atteso che Me., ove davvero fosse stato questo il suo intento, avrebbe certo potuto superare qualsivoglia tentativo esterno di interrompere l'azione. 4.3. Con il terzo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione all'art. 530 cod. proc. pen., relativamente al delitto ascritto sub 3) della rubrica, per mancanza di motivazione, censurandosi in particolare la mancata assoluzione del prevenuto con l'adozione della formula di rito "perché il fatto non sussiste". Non vi è motivazione, né in ordine alla richiesta di assoluzione per il reato ascritto sub b), né per ciò che inerisce alla ricorrenza delle circostanze aggravanti ivi contestate. 4.4. Con il quarto motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 572 secondo comma, 81, 609 - bis, 609 - ter primo comma n. 5 - quater cod. pen., oltre che violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., per difetto di motivazione in ordine alla determinazione della pena e per violazione dell'art:. 132 cod. pen., oltre che per errata valutazione degli elementi probatori raccolti. La vicenda per la quale è processo deve essere inquadrata, più correttamente, nel contesto di una forte conflittualità fra i coniugi, nella gestione dei rapporti personali e familiari. Pacifico è poi che, nel periodo successivo all'inizio della relazione della madre con Fi., il rendimento scolastico della minore sia calato notevolmente. L'imputato, comunque, non ha mai adottato condotte violente nei confronti della figlia adolescente, limitandosi a tentare di correggerne l'indole ribelle, sicuramente dimostrata dall'uso di droghe leggere. L'imputato era un soggetto in buono stato di salute mentale, per cui il fatto che fosse ossessivo è una affermazione priva di riscontri e frutto di un pregiudizio. La Th., inoltre, non è attendibile quanto alle contestate violenze sessuali, che vengono da lei denunciate al solo fine di radicare la sua posizione all'interno della struttura protetta che la ospitava. Nella sentenza impugnata si compie un vero e proprio atto di fede, in punto di attendibilità del narrato della persona offesa. Con riferimento alla credibilità della donna, basta ricordare come ella abbia, in un primo tempo, negato la relazione sentimentale con Fi., da questi invece affermata. 4.5. Con il quinto motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in ordine alla violenza sessuale e al delitto di atti persecutori. L'unico elemento militante a carico del ricorrente è costituito dalle dichiarazioni rese dalla Th., che non sono state però sottoposte a una previa verifica di attendibilità intrinseca; trattasi, peraltro, di una persona offesa costituita parte civile e che era portatrice, per quanto inerisce alla nascita del presente procedimento, di uno spiccato interesse utilitaristico, originato anche dalla nuova relazione da ella intrapresa. Medesime considerazioni possono esser fatte con riferimento al reato di atti persecutori, essendosi verificato, in realtà, un semplice stato di forte tensione fra ex conviventi, che ha trovato scaturigine anche nella relazione intessuta dalla Th. con Fi.. 4.6. Con il sesto motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 125 cod. proc. pen. e 133 cod. pen., deducendosi nullità della sentenza impugnata, per difetto di motivazione in ordine ai criteri che presiedono alla dosimetria della pena, in violazione dell'art. 133 cod. pen. La Corte anconetana non chiarisce, infatti, in base a quali criteri sia giunta a determinare la quantificazione sanzionatoria. 4.7. Con il settimo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione all'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, censurandosi il fatto che esse non siano state ritenute prevalenti, in sede di bilanciamento con le contestate aggravanti. 4.8. Con l'ottavo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in ordine alla disciplina relativa al trattamento sanzionatorio previsto per il tentativo, rispetto alla fattispecie consumata, nonché dolendosi del difetto di motivazione relativamente al diniego della relativa riduzione di pena non concessa. 4.9. Con il nono motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., per quanto attiene alla disciplina della circostanza attenuante della provocazione, ex art. 62 n. 5) cod. pen. È stato trascurato lo stato d'ira nel quale è sprofondato l'imputato, una volta scoperta la relazione, protratta nel tempo, fra la Th. e Fi.. La natura clandestina di tale relazione e quindi, correlativamente, la sussistenza di un inganno prolungato nel tempo, rappresentano un fatto connotato da ingiustizia, conforme a quanto postulato dalla norma per la integrazione della suddetta circostanza. Me. ha scoperto, ad aprile 2021, che la moglie aveva una relazione con Fi. e, nel corso del successivo mese di giugno, è stato da questi affrontato verbalmente; nel settembre 2021, la Th. e la figlia si sono allontanate da casa senza fornire spiegazione alcuna. Esiste, pertanto, un chiaro legame psicologico, fra tale fatto ingiusto (da intendere quale inosservanza di norme sociali e morali comunemente accettate, volte a regolare l'ordinaria convivenza civile) e il gesto successivamente posto in essere. 4.10. Con il decimo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione all'aggravante della premeditazione. Il giorno dei fatti non vi era alcun appuntamento, fra l'imputato e la vittima, né si evidenzia alcuno studio dei luoghi o delle abitudini di quest'ultima, ad opera del Me.; i due, in realtà, si sono imbattuti per caso. Lo stesso antefatto dimostra l'assenza dell'elemento cronologico, necessario per la configurabilità della premeditazione, dato che tutti gli eventi si sono succeduti freneticamente, nello spazio di poche ore. L'azione di Me. è stata improvvisata, costituendo essa una reazione istintiva dettata dall'ira e assunta di mero impeto, maturata all'esito di una convulsa successione temporale. 4.11. Con l'undicesimo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., per mancanza di motivazione. La Corte non esplicita in base a quali criteri sia pervenuta a quantificare la pena inflitta. 5. La parte civile An.Fi., con il patrocinio dell'avv. Ro.Ro., ha presentato nota spese e conclusioni scritte, a mezzo delle quali ha condiviso le osservazioni e le doglianze contenute nel ricorso del Procuratore Generale di Ancona, sottolineando l'errore motivazionale compiuto dalla Corte di Appello di Ancona, in sede di applicazione delle circostanze attenuanti generiche La Corte distrettuale, peraltro, ha trascurato di considerare come la violenta e pericolosa condotta familiare tenuta da Me. escluda in radice ogni obbligo -in capo alla ex compagna - di pretesa trasparenza. Già tre mesi prima del tentato omicidio, il Me. si era reso protagonista di condotte violente in danno della Th.. Quanto al ricorso della difesa, la eccepita incapacità di intendere e di volere del soggetto al momento del fatto sollecita niente altro che una rilettura degli atti, a fronte di due sentenze tra loro integrate, che motivano sulla chiara assenza dei presupposti necessari per ritenere sussistente l'asserito deficit psichiatrico. Circa la richiesta di derubricazione, si tratta di un motivo interamente versato in fatto, dunque inammissibile in sede di legittimità. L'impugnazione difensiva, oltre ad essere infondata sotto ogni punto, è costellata di valutazioni incentrate sul merito della vicenda processuale. Si chiede, in definitiva, di annullare la sentenza con rinvio, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale e di respingere il ricorso della difesa dell'imputato, confermando la condanna al risarcimento del danno in favore della vittima del reato e condannando l'imputato, altresì, alla liquidazione delle spese di giudizio relative al grado. 6. La parte civile Ma.Th., con il patrocinio dell'avv. Ro.Ro., ha parimenti presentato nota spese e conclusioni scritte, a mezzo delle quali ha fatto proprie le doglianze contenute nel ricorso del Procuratore generale, segnalando l'errore motivazionale nel quale sarebbe incorsa la Corte di Appello di Ancona, in sede di applicazione delle circostanze attenuanti generiche. Se si parte dal principio che Me. sia un soggetto estremamente pericoloso, risulta poi contraddittorio reputare legittimo il suo diritto a conoscere di una eventuale relazione extraconiugale della Th., dato che questa - in tal caso - avrebbe dovuto esporsi a un serio rischio per la propria incolumità. Quanto all'impugnazione della difesa dell'imputato, i motivi dal quarto al decimo sono inammissibili, in quanto imperniati su valutazioni di merito e, comunque, da disattendere, al cospetto di una motivazione logica e precisa. Tanto premesso, si chiede di accertare la penale responsabilità dell'imputato, di accogliere il ricorso della Procura Generale presso la Corte di appello di Ancona e di respingere - o di dichiarare inammissibile - il ricorso dell'imputato; il tutto con conferma della condanna al risarcimento del danno in favore della vittima del reato e con condanna alla liquidazione delle spese di giudizio del grado, in favore della difesa di parte civile, secondo quanto sussunto in separata nota. 7. Il Procuratore generale ha chiesto l'annullamento con rinvio, quanto alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, con declaratoria di inammissibilità quanto al resto. Per ciò che concerne il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Ancona, si afferma in sede di requisitoria che la motivazione del provvedimento impugnato è palesemente illogica e deriva da una inaccettabile impostazione culturale. Appare illogico, sempre stando a quanto espresso in requisitoria, ritenere l'imputato colpevole di tutti i reati contestati, per avere serbato un contegno che la stessa Corte definisce come una "sistematica condotta oppressiva verso la compagna" e, parimenti, attribuire alla donna la "colpa" di avere con il suo comportamento "inevitabilmente acuito la rabbia e la sete di vendetta" dell'imputato, che avrebbe avuto "un legittimo interesse" a conoscere le intenzioni della sua compagna. La colpa ascrivibile alla donna consisterebbe, pertanto, nella decisione di troncare la relazione con un uomo "ossessivo, geloso, violento che per anni l'aveva considerata e trattata come una "cosa" di sua proprietà". Il ricorso presentato nell'interesse dell'imputato è invece manifestamente inammissibile, in quanto le doglianze prospettate hanno già ricevuto congrua e logica risposta, attraverso una doppia conforme affermazione di responsabilità. Il primo motivo è inammissibile, per essere la relativa doglianza inconciliabile con la scelta operata dal prevenuto, di essere giudicato secondo le forme del rito abbreviato. Parimente inammissibile è il secondo motivo contenuto nell'atto di impugnazione, a fronte di una motivazione corretta e basata sugli esiti della consulenza medico legale. Meramente contestativa e fattuale è la censura relativa alla configurabilità della desistenza. Il terzo e il quarto motivo sono inammissibili per genericità. Quanto al quinto e al sesto motivo essi sono manifestamente infondati, avendo la Corte territoriale congruamente motivato in ordine alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa. In ordine al trattamento sanzionatorio, i motivi sono manifestamente infondati, alla luce di quanto affermato in merito alla fondatezza del ricorso del Procuratore generale. 8. La difesa dell'imputato ha presentato memoria di replica alla requisitoria scritta inoltrata dal Procuratore generale, a mezzo della quale ha anzitutto ribadito la infondatezza del ricorso promosso dal Procuratore generale, per avere la Corte di Appello di Ancona correttamente concesso le circostanze attenuanti generiche, computate con il criterio della equivalenza, a fronte delle aggravanti contestate. La Corte territoriale, sul punto, ha legittimamente tratto precisi elementi di valutazione, da circostanze del fatto e da elementi circostanziali, espressivi della complessiva condotta realizzata dal soggetto attivo. Il ricorso del Procuratore generale di Ancona, condiviso dal Procuratore generale della Cassazione, appare generico, non investendo esso, con la necessaria attitudine disarticolante, le argomentazioni della Corte di merito, in ordine al trattamento sanzionatorio. I motivi di ricorso promossi dalla difesa, al contrario, sono fondati e meritevoli di accoglimento. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso presentato nell'interesse dell'imputato è infondato; da accogliere, invece, è il ricorso del Procuratore generale, inerente al tema delle circostanze attenuanti generiche. 2. La prima doglianza contenuta nel ricorso difensivo attiene al tema della imputabilità e censura, in particolare, la mancata effettuazione di una perizia psichiatrica; la Corte di appello avrebbe errato, in sostanza, nel ritenere l'imputato - pur affetto da una grave psicopatologia depressiva - capace di intendere e di volere (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.1.). Trattasi di censura reiterativa e generica, che si risolve nella mera riproposizione di deduzioni già prospettate in sede di gravame e, in tal sede, adeguatamente affrontate dai Giudici di secondo grado. La Corte distrettuale, infatti, si è compiutamente confrontata con le obiezioni difensive formulate sul punto specifico, offrendo una risposta puntuale e coerente, ossia spiegando come la invocata perizia avrebbe presentato un carattere meramente esplorativo, andando incongruamente a confliggere con il principio generale di presunzione di completezza del giudizio, oltre che con il connotato di eccezionalità dell'istituto della rinnovazione della stessa (così la sentenza di appello, pag. 13). Del resto, vengono addotti - a fondamento dell'istanza - gli esiti di una relazione psicopatologica a firma della dott.ssa Vitelli, nella quale veniva diagnosticata nel Me. la sussistenza della succitata grave psicopatologia depressiva; la Corte, però, ha ritenuto trattarsi di una valutazione del tutto priva di qualsivoglia ancoraggio ad una preesistente documentazione di tipo sanitario, oltre che redatta in assenza di previa valutazione clinica delle condizioni di salute mentale dell'imputato. La stessa condotta - sia processuale, sia in sede di commissione del fatto - è stata giudicata evocativa di una soddisfacente progettualità e di una sicura lucidità, in tal modo risultando sconfessata ogni possibilità di ipotizzare l'esistenza della asserita minorata capacità. In tale contesto, quindi, andare a sondare la capacità mentale del soggetto si risolverebbe nell'espletamento di una perizia esplorativa, fondata su basi esclusivamente congetturali ed ipotetiche. 3. Il secondo profilo di critica formulato dalla difesa attiene - secondo argomentazioni cumulative e, tra loro, strettamente connesse - alla ritenuta sussistenza degli estremi oggettivi e soggettivi del reato di tentato omicidio, oltre che alla mancata derubricazione del fatto nell'ipotesi di lesioni personali volontarie gravi o gravissime; si invoca l'applicazione, infine, dell'istituto della desistenza (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.2.). 3.1. Va evidenziato come tali censure si sviluppino sul piano del fatto e siano essenzialmente finalizzate a sovrapporre una nuova interpretazione delle risultanze probatorie, diversa da quella recepita nell'impugriato provvedimento, più che a rilevare un vizio rientrante nella rosa di quelli delineati dall'art. 606 cod. proc. pen.. Tale operazione, con tutta evidenza, fuoriesce dal perimetro del sindacato rimesso al giudice di legittimità. Secondo la linea interpretativa da tempo tracciata da questa Corte regolatrice, infatti, l'epilogo decisorio non può essere invalidato sulla base di prospettazioni alternative, che sostanzialmente si risolvano in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e differenti canoni ricostruttivi e valutativi dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148). 3.2. Analizzando partitamente i singoli profili di doglianza sussunti nel motivo unitario, può precisarsi quanto segue. La critica incentrata sulla qualificazione giuridica del fatto, che la difesa auspica possa essere ricondotta sotto l'egida normativa del delitto di lesioni personali aggravate, non merita accoglimento. I giudici di merito, infatti, hanno desunto la sussistenza del dolo omicidiario - nel comportamento tenuto dal ricorrente, nei confronti della vittima - attraverso una ponderazione del tutto corretta, in ordine alle concrete modalità esecutive che hanno connotato la condotta incriminata. La Corte ha sottolineato, dunque, la sussistenza del dolo omicidiario, ricavandolo - in via deduttiva - dal ferreo collegamento logico esistente fra i seguenti elementi oggettivi: - la sicura potenzialità lesiva dello strumento adoperato (un martello, che i Giudici di appello hanno - del tutto correttamente - sottolineato esser stato violentemente indirizzato, con la punta, sulla teca cranica, segnatamente contro la regione parietale destra) dell'avversario, così provocando a questi un trauma cranico commotivo e una frattura pluriframmentaria, con una seria possibilità di giungere allo sfondamento del cranio e, quindi, al decesso; - la parte stessa del corpo della vittima, attinta dal colpo; - la violenza stessa del colpo, fattore evocativo di una sicura voluntas necandi. La Corte territoriale, nell'individuare la sussistenza del dolo alternativo di omicidio e lesioni, ha evidenziato inoltre due ulteriori elementi oggettivi, entrambi dimostrativi della ricorrenza di una sicura volontà omicida, ossia: - il fatto che l'imputato, alla presenza dei militari dell'Arma intervenuti in loco, brandisse non più un martello, bensì un coltello a lama larga e gesticolasse in modo esagitato verso la vittima; - la ulteriore minaccia, riferita dal teste Ma., portata da Me. nei confronti di Fi., allorquando il primo aveva minacciato di uccidere quest'ultimo con una pistola. Questo Collegio, quindi, può limitarsi a sottolineare come il convincimento raggiunto dalla Corte distrettuale - in tema di sussistenza del fatto e di qualificazione giuridica dello stesso, in termini di tentato omicidio - sia stato esposto attraverso una struttura motivazionale rigorosamente coerente, oltre che ampia ed esaustiva e, infine, del tutto priva di vuoti narrativi o vizi di contraddittorietà, sia intratestuale che logica. La sentenza impugnata, sul punto, merita di rimanere al riparo da qualsivoglia stigma in sede di legittimità. 3.3. Parimenti inconcludente si rivela l'ulteriore prospettazione difensiva, incentrata sull'inflizione - da parte dell'imputato - di un solo colpo al capo della vittima, a dimostrazione del mancato utilizzo dell'intera gamma di potenzialità offensive che, al momento, l'uomo aveva a disposizione (fatto asseritamente militante nel senso dell'assenza, in capo al Me., di uria concreta e stabile intenzione di carattere genuinamente omicida). La Corte territoriale, sul punto, osserva correttamente come sia irrilevante il dato - di tenore meramente empirico - rappresentato dalla mancata reiterazione dei colpi, a fronte di un gesto di inequivocabile direzione omicidiaria, quale quello di colpire violentemente la vittima alla testa con un pesante martello. In ordine alla specifica tematica, pare utile ricordare il principio di diritto -concordemente espresso dalla giurisprudenza di legittimità - in forza del quale "In tema di omicidio tentato, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell'imputato, ai fini dell'accertamento della sussistenza dell'animus necandi assume valore determinante l'idoneità dell'azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata "ex post" ma con riferimento alla situazione che si presentava "ex ante" all'imputato, al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso" (Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 2019, Comelli, Rv. 275012). La Corte distrettuale, dunque, ha giustamente valorizzato la micidialità del mezzo adoperato (ossia, il martello), nonché l'uso concreto che - di tale strumento - il soggetto attivo ha fatto, nella fase prettamente attuativa del delitto (attingendo al capo la vittima). L'apparato argomentativo sotteso alla pronunzia impugnata appare, anche sul punto specifico - oltre che frutto del lineare vaglio delle evidenze disponibili - senz'altro ossequioso dei canoni ermeneutici che disciplinano la materia. Il mancato utilizzo, nella loro interezza, delle risorse eteroaggressive al momento disponibili, in definitiva, non si riverbera certo sulla sussistenza della volontà omicidiaria e, consequenzialmente, sulla piena configurabilità del paradigma normativo del tentato omicidio (sul punto si potrà vedere, trattandosi di concetti sovrapponibili, sebbene espressi in tema di tentato omicidio posto in essere mediante accoltellamento, il dictum di Sez. 1, n. 45332 del 02/07/2019, Pesce, Rv. 277151, la quale ha così statuito: "La mancata inflizione di più coltellate non esclude la sussistenza della volontà omicida, qualora sia accertato che, per le modalità operative e per l'arma impiegata, l'azione sia stata idonea a causare la morte della vittima e tale evento non si sia verificato per cause indipendenti dalla volontà dell'agente"). 3.4. Con riferimento all'ulteriore tema posto dalla difesa, concernente la auspicata ipotizzabilità dell'istituto della desistenza, pare bastevole rammentare come - nella categoria dei reati di danno a forma libera - una volta che risulti oltrepassata la soglia del tentativo compiuto, non possa più discorrersi di desistenza, potendosi al più ravvisare il diverso istituto del recesso attivo. La desistenza può aver luogo, infatti, esclusivamente nella fase del tentativo incompiuto, non risultando essa configurabile allorquando siano stati ormai posti in essere gli antecedenti, da cui origina il meccanismo causale atto a produrre l'evento. La diminuente conseguente al ed. recesso attivo, a sua volta, postula che il soggetto agente tenga una condotta attiva, che valga a scongiurare l'evento (fra tante, si veda Sez. 2, n. 24551 del 08/05/2015, Supino, Rv. 264226). 3.5. Questa Corte, in conclusione, ritiene che il motivo di ricorso sia da disattendere, in quanto meramente reiterativo di deduzioni già svolte durante il giudizio di secondo grado e confutate dalla Corte di appello, con motivazione adeguata e coerente. 4. Con il terzo motivo (enumerato in parte narrativa sub 4.3), la difesa si duole della pretesa carenza motivatoria, con riferimento al reato ascritto sub 3) della rubrica, contestando la mancata assoluzione dell'imputato e la ritenuta sussistente - in relazione a tale ipotesi di reato - dell'aggravante teleologica. Il motivo presenta, però, una marcata connotazione di aspecificità, risolvendosi esso nel muovere una critica solo assertiva alla decisione avversata, attraverso l'utilizzo di argomentazioni del tutto generiche, nonché prive di un concreto ancoraggio all'apparato argomentativo aggredito. Circa il punto focale della questione, ossia relativamente al fatto, ritenuto accertato da doppia affermazione conforme in sede di merito, che Me. circolasse nella pubblica via munito degli strumenti indicati in rubrica (martello e coltelli), la difesa non riesce a spendere critiche dotate di un apprezzabile contenuto, in tal modo finendo per arrestarsi allo stadio della mera enunciazione oppositiva. La Corte territoriale, richiamando la ricostruzione offerta dalla Th., ha ricordato come l'imputato fosse solito condurre sempre con sé - anche quale forma di costante intimidazione e controllo, nei confronti della donna - strumenti quali una chiave inglese o un coltello, con l'intenzione di adoperarli nei confronti di Fi., nel caso lo avesse incontrato. In ordine a questo aspetto puntuale, la difesa ricorrente non riesce ad addurre difformi lumi, trincerandosi, come detto, dietro l'usbergo della critica di carattere esclusivamente confutativo. 5. Con il quarto e il quinto motivo, la difesa si duole della affermazione di penale responsabilità a carico dell'imputato, con riferimento ai delitti di maltrattamenti, atti persecutori e violenza sessuale, commessi in danno di Ma.Th. (motivi rispettivamente enumerati in parte narrativa sub 4.4. e 4.5.). Trattasi anzitutto di doglianze che presentano una connotazione unitaria e che ben si prestano, pertanto, a una trattazione congiunta. Tali motivi si imperniano - in via esclusiva - sulla asserita inattendibilità della persona offesa, in tal modo rivelandosi non autosufficienti e finendo per disinteressarsi della motivazione della sentenza avversata; in quest'ultima sono richiamati, peraltro, anche i riscontri, provenienti da fonti dichiarative e documentali, emersi rispetto alle affermazioni di accusa mosse dalla vittima. 5.1. Stando alla consolidata giurisprudenza di legittimità in punto di vaglio della prova testimoniale, l'attendibilità della persona offesa dal reato costituisce questione di fatto; tale profilo, pertanto, non può ordinariamente essere censurato ad opera della Corte di cassazione. Le uniche eccezioni, rispetto a tale impostazione ermeneutica di valenza generale, sono costituite dal caso in cui la motivazione della sentenza impugnata risulti viziata da manifeste contraddizioni, oppure si sia rifugiata in mere congetture, che vadano a compendiarsi in ipotesi non fondate sul principio dell'id quod plerumque accidit e che non siano suscettibili di esser sottoposte a verifica empirica, oppure che si affidino ad una regola interpretativa che appaia priva dei requisiti minimi di plausibilità. Soprattutto nel caso in cui la testimonianza della persona offesa rappresenti la principale - pur se non proprio la esclusiva - fonte del convincimento del giudice, diviene dunque essenziale la valutazione da compiere, in ordine alla credibilità della stessa. Come sopra accennato, tale giudizio è evidentemente inerente al merito, in quanto di chiara matrice fattuale e riguardante il modo di essere e la condotta della persona escussa; una valutazione di tal fatta, allora, trova la propria sede di elezione nella dialettica dibattimentale e di merito in genere, mentre è preclusa in sede di legittimità, specialmente nel caso in cui il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile, circa le modalità di svolgimento della sua analisi probatoria (Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609; Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006, Agnelli, Rv. 235578). Invero, la questione attinente alla attendibilità di un teste rinviene la sua chiave di lettura nel quadro di insieme, di una struttura motivazionale logica, destinata quindi a restare immune da rivisitazioni in sede di legittimità, a meno che essa sia affetta da manifeste contraddizioni. 5.2. La parola della persona offesa, quindi, può assurgere alla dignità di prova, a patto che superi positivamente il vaglio relativo alla sua attendibilità. Infatti, pur non applicandosi alle dichiarazioni rese dalla persona offesa le regole di giudizio dettate dall'art. 192 cod. proc. pen. per la sola chiamata di correo, che postulano la presenza di riscontri esterni, deve comunque sottoporsi la voce della persona offesa ad una rigorosa indagine di credibilità. Ciò, evidentemente, in ragione dell'indubbio interesse, del quale spesso la persona offesa è portatrice e che obbliga il giudicante alla massima cautela, al severo controllo della attendibilità e, possibilmente, alla ricerca di elementi di suffragio (si veda Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214 - 01, che ha così statuito: "Le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (In motivazione la Corte ha altresì precisato che, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi)"; nello stesso senso, si veda Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, Ciotti, Rv. 279070 - 01, a mente della quale: "La deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell'imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni; tuttavia, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi"; conforme anche Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 - 01, che ha indicato le caratteristiche che devono presentare gli eventuali elementi di riscontro, atti a supportare la saldezza del racconto della persona offesa dal reato, esprimendosi in questi termini: "In tema di testimonianza, le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione"). 5.3. Esprimendo dunque un giudizio di fatto non censurabile in sede di legittimità, i Giudici di merito si sono adeguatamente soffermati sul profilo attinente alla intima credibilità della narrazione di Ma.Th., desumibile dalla saldezza logica del resoconto offerto e dall'assenza di fratture narrative, così desumendone la tranquillizzante affidabilità della ricostruzione da ella resa. Ha precisato la Corte distrettuale, altresì, come non residui alcun fondato dubbio, circa la piena credibilità della versione dei fatti riportata dalla persona offesa, le cui dichiarazioni sono state giudicate analitiche e particolareggiate, nonché pienamente coerenti sotto l'aspetto diacronico, prive di incertezze dichiarative e, infine, congrue rispetto al tenore delle ulteriori fonti dichiarative. 5.4. La Corte territoriale non ha mancato di sottolineare, inoltre, come la narrazione operata dalla Th. collimi alla perfezione con le ulteriori fonti sia documentali, sia testimoniali, dalle quali ha ricevuto ampio e decisivo suffragio. Vengono valorizzate, in particolare, le dichiarazioni rese da amiche della Th., oltre che da vicini di casa e dalla figlia An. (vengono richiamate le s.i.t. di Mu., Co. e Vi.). Tali dichiaranti riferiscono o de relato, ovvero in quanto portatori di scienza propria, per avere direttamente assistito a episodi rilevanti. 6. Il sesto, l'ottavo e l'undicesimo motivo muovono censure quoad poenam (tali motivi sono enumerati in parte narrativa sub 4.6., 4.8. e 4.11). Più nello specifico, il sesto motivo denuncia la mancata esplicitazione dei criteri posti dalla Corte territoriale a fondamento della decisione assunta, in punto di dosimetria sanzionatoria; l'ottavo motivo critica l'entità della riduzione operata in forza dell'applicazione dell'art. 56 cod. pen., mentre l'undicesimo motivo contiene una generica doglianza rivolta alla quantificazione della pena. 6.1. Tali motivi devono essere dichiarati inammissibili, in quanto i Giudici di merito non hanno affatto omesso di motivare sui punti sopra indicati, avendo adeguatamente valorizzato - in base ai parametri dettati dall'art. 133 cod. pen. - le gravi caratteristiche del fatto e la allarmante personalità del soggetto. Dal complesso della motivazione, in ogni caso, emergono argomentate e analitiche valutazioni negative, circa la personalità dell'imputato. Le valutazioni in punto di quantificazione sanzionatoria risultano sorrette da una struttura motivazionale ampia, congruente, logica e non contraddittoria, mediante la quale sono stati esaustivamente esposti gli elementi in forza dei quali la Corte stessa ha esercitato i propri poteri, in punto di quantificazione della pena. 6.2. Le doglianze difensive, al contrario, risultano inammissibili, perché risolventesi in censure su valutazioni di merito, insuscettibili - come tali - di aver seguito nel presente giudizio di legittimità. Non vi è chi non rilevi, ad ogni modo, come la diminuzione per il tentativo sia stata espressamente calcolata, così come ben determinati risultano gli aumenti di pena operati, in relazione ai reati satellite. 7. Il settimo motivo lamenta l'avvenuto bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche secondo il criterio della equivalenza, piuttosto che della prevalenza, rispetto alle ritenute aggravanti; tale doglianza resta assorbita dall'accoglimento del ricorso presentato dal Procuratore generale (il settimo motivo è enumerato in parte narrativa sub 4.7.). Giova sul punto ricordare come la Corte di cassazione possa ritenere assorbite determinate eccezioni, in sede di annullamento con rinvio, allorquando esse appaiano secondarie rispetto ad un macroscopico ed assorbente vizio logico della motivazione, atto a travolgerne la validità, rendendo superfluo l'esame degli aspetti secondari. Si concretizza, in tal caso, una decisione di tenore difforme, rispetto al mero rigetto delle medesime doglianze; verificandosi ciò, il giudice del rinvio sarà comunque tenuto a prendere in considerazione anche il motivo ritenuto assorbito, essendo vincolato - ai sensi dell'art. 546, comma 1, cod. proc. pen. - alla decisione della Corte di cassazione, limitatamente a ciò che concerne le questioni di diritto decise, ma non in ordine a questioni che la Corte non ha deciso, dichiarando i relativi motivi assorbiti in quello accolto con la pronunzia di annullamento (Sez. 5, n. 5509 del 08/01/2019, Castello, Rv, 275344; Sez. 5, n. 39786 del 11/07/2019, Zordan, Rv. 271074; Sez. 2, n. 2812 del 25/10/1991 -dep. 1992, Mastroleo, Rv. 189311). Alla dichiarazione di assorbimento del motivo deve, pertanto, attribuirsi il significato che la questione - formante oggetto del motivo - non è stata decisa ma demandata, senza alcun vincolo, all'esame del giudice di rinvio, il quale è tenuto a pronunciarsi sulla stessa, sempre che abbia formato oggetto anche dei motivi di appello. 8. Con il nono motivo si censura la ritenuta inconfigurabilità della circostanza attenuante della provocazione (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.9.) - Anche su questo tema, le doglianze difensive si rivelano inconsistenti, avendo la Corte di appello adottato una motivazione adeguata e convincente. Sarebbe stata impropriamente depotenziata - in ipotesi difensiva - la valenza dello stato d'ira, determinato dal disvelamento della relazione, già protrattasi entro un ragguardevole arco temporale, fra la Th. e Fi.; il tratto di ingiustizia di tale situazione, atto a integrare la invocata circostanza, si anniderebbe, in particolare, nel carattere clandestino della relazione stessa, così concretizzandosi un vero e proprio inganno protratto nel tempo, a scapito del prevenuto. 8.1. Questa Corte ha ripetutamente chiarito come - ai fini della configurabilità dell'attenuante della provocazione - sia necessaria la ricorrenza dei seguenti elementi: - uno "stato d'ira", costituito da un'alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il "fatto ingiusto altrui"; - un fatto ingiusto altrui, che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, da intendersi secondo la accezione di effettiva contrarietà rispetto a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell'ambito di una determinata collettività e in un dato momento storico, piuttosto che con riferimento alle convinzioni dell'imputato e alla sua sensibilità personale; - un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità, che leghi tra loro l'offesa e la reazione (Sez. 1, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894; Sez. 5, n. 55741 del 25/09/2017, R., Rv. 272044; Sez. 5, n. 49569 del 18/06/2014, Mouflih, Rv. 261816). 8.2. Così inquadrata la questione dedotta, occorre domandarsi se la decisione assunta dalla Corte distrettuale presenti vizi argomentativi, ovvero errori nella interpretazione di norme, nel punto in cui ha escluso la concedibilità dell'invocata attenuante della provocazione. Ma contrariamente agli auspici difensivi, la Corte ha fatto corretta applicazione delle regole esegetiche più volte enunciate da questa Corte, laddove ha ritenuto che la condotta della Th., consistita nell'intrecciare una relazione con un altro uomo, non possa costituire - in ottica penalistica - un contegno ingiusto sul versante giuridico, morale o sociale, idoneo a legittimare una mitigazione sanzionatoria, a fronte della azione marcatamente eteroaggressiva per la quale è processo. L'esistenza di tale relazione, le connesse valutazioni e le dinamiche interpersonali collegate a contegni appartenenti a tale tipologia, in sostanza, non possono in alcun modo assurgere alla valenza di fattore provocatorio, essendo temi che esulano dal novero delle condizioni atte a condurre all'applicazione della suddetta circostanza. Si è in presenza, infatti, di dinamiche di natura squisitamente affettiva e interpersonale, inevitabilmente percorse da una corrente invisibile di forte opinabilità e caratterizzate da una percezione strettamente soggettiva, che peraltro non collimano con regole - nemmeno di ordine etico o sociale - generalmente riconosciute e stabili, né sufficientemente cristallizzate e che, pertanto, non possono valere ai fini dell'attenuazione della pretesa punitiva dell'ordinamento (per una fattispecie analoga, si veda Sez. 5, n. 2725 del 13/12/2019, R., Rv. 278556). 9. Con il decimo motivo, la difesa censura la scelta operata in sede di merito, consistita nel reputare integrata la circostanza aggravante della premeditazione (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.10). Trattasi di censura di carattere rivalutativo e generico, da giudicare quindi inammissibile. 9.1. Questa Corte di legittimità ha, per il vero, più volte espresso principi in diritto tesi a creare una netta linea di demarcazione, tra la semplice preordinazione (di un reato doloso come l'omicidio volontario, consumato o tentato) e la circostanza aggravante della premeditazione. Tale linea interpretativa - cui il Collegio presta adesione - è stata espressa con particolare chiarezza da Sez. 1 n. 47250 del 9.11.2011, Livadia, rv 251503 (che ha chiarito come - in tema dì omicidio volontario - non rappresenti sicuro indice rivelatore della premeditazione, che si sostanzia in una deliberazione criminosa coltivata nel tempo e mai abbandonata, il mero intervallo riscontrabile tra la preparazione e l'esecuzione, sì come non possono trarsi elementi di certezza dalla predisposizione di un agguato, in quanto ciò attiene alla realizzazione del delitto e non è sufficiente a dimostrare l'esistenza di quel processo psicologico di intensa riflessione e di fredda determinazione, che connota la indicata circostanza aggravante), nonché da Sez. 1 n. 5147 del 14.7.2015, Scanni, rv 266205 (secondo la quale, la mera preordinazione del delitto - intesa come apprestamento dei mezzi minimi necessari all'esecuzione, nella fase a questa ultima immediatamente precedente - non è sufficiente ad integrare l'aggravante della premeditazione, che postula invece il radicamento e la persistenza costante, per apprezzabile lasso di tempo, nella psiche del reo del proposito omicida, del quale sono sintomi il previo studio delle occasioni ed opportunità per l'attuazione, un'adeguata organizzazione di mezzi e la predisposizione delle modalità esecutive). In effetti, come osservato, tra le altre, da Sez. 5 n. 26406 del 11.3.2014, Morfei, rv 260219, spetta al giudice dì merito cogliere ed apprezzare tutte le peculiarità della fattispecie concreta, posto che anche una sorta di "agguato" può essere frutto di una iniziativa estemporanea accompagnata da dolo, ma non inquadrabile nei caratteri della circostanza aggravante. 9.2. La Corte distrettuale, raccogliendo tali indicazioni dell'organo nomofilattico, ha realizzato, come si è detto, una logica attribuzione di peso ai numerosi elementi di valutazione e conoscenza emersi. Con motivazione logica, dettagliata e puntuale, i Giudici di secondo grado hanno desunto la sussistenza dell'aggravante della premeditazione, da una variegata congerie di dati probatori, di eterogenea genesi, ma tra loro collimanti alla perfezione. Si è così sottolineata l'insorgenza del proposito criminoso in tempo di gran lunga antecedente, rispetto alla materiale attuazione dello stesso, collocandosi l'origine dell'odio di Me. nei confronti di Fi. a prima del 6 settembre 2021, epoca in cui la Th. e la figlia uscirono dal domicilio domestico, per trovare rifugio presso una struttura protetta. Ed è la stessa donna che delinea plasticamente l'esistenza di una ideazione aggressiva profondamente radicatasi nell'animo dell'imputato, allorquando riferisce come questi fosse solito condurre con sé strumenti eventualmente adoperabili per l'offesa, destinati a diventargli utili in tal senso, nel caso di incontro - pur casuale - con Fi.. La stessa dichiarante ricorda le frasi spesso rivoltegli dall'imputato, il quale ripetutamente manifestava propositi violenti, nei confronti di colui che considerava il proprio "avversario". Una intenzione di rivalsa che, già lungamente covata e ormai ben sedimentata nella mente dell'uomo, assume i connotati ossessivi della ferma e irrevocabile determinazione - secondo quanto giustamente evidenziato dalla Corte territoriale - all'indomani della scoperta, da parte di Me., dell'esistenza di una relazione della Th. con Fi. (scoperta avvenuta attraverso accesso ai profili social di quest'ultima, come da produzione documentale versata nell'incarto processuale). La sentenza impugnata, pertanto, individua la sussistenza tanto dell'elemento cronologico, quanto del requisito ideologico, idonei a integrare la ritenuta circostanza aggravante. Coglie quindi nel segno, la Corte territoriale, quando sottolinea la singolare permanenza nel tempo del proposito, restato immune ad ogni occasione di ripensamento e combaciante con l'esistenza di una poderosa causale, da lungo tempo covata dall'imputato e nutrita di un crescente rancore. La prova conclusiva del fatto che il tentato omicidio altro non sia stato, se non l'epilogo di un inarrestabile climax di livore e ostilità, che si erano ormai definitivamente impossessati dell'imputato, viene tratta dalla Corte territoriale dal messaggio telefonico inviato da Me. alla Th. il 3 novembre 2021, una volta perpetrata l'aggressione in danno di Fi., allorquando l'uomo le scrive, tra l'altro, la frase "io sono un uomo di parola: quello che dico faccio". 9.3. Il ricorso, del resto, è decentrato rispetto alla motivazione della sentenza e, in tal modo, finisce per non tenere conto nemmeno della possibilità di ipotizzare una "premeditazione condizionata". Tale figura, invece, ha sempre trovato piena cittadinanza presso la giurisprudenza di legittimità (si veda il dictum di Sez. 1, n. 32746 del 17/06/2020, Gambettola, Rv. 279933 - 01, a mente della quale: "In tema di premeditazione, non osta alla configurabilità dell'aggravante il fatto che il soggetto agente abbia condizionato l'attuazione del proposito criminoso alla mancata verificazione di un evento ad opera della vittima, quando la condizione risolutiva si pone come un avvenimento previsto, atto a far recedere la più precisa e ferma risoluzione criminosa del reo"; nello stesso senso si era espressa Sez. 1, n. 19974 del 12/02/2013, Zuica, Rv. 256180 - 01, secondo la quale: "Non osta alla configurabilità dell'aggravante della premeditazione il fatto che il soggetto agente abbia condizionato l'attuazione del proposito criminoso alla mancata verificazione di un evento ad opera della vittima, quando la condizione risolutiva si pone come un avvenimento previsto, atto a far recedere la più precisa e ferma risoluzione criminosa del reo"). La figura della premeditazione condizionata combacia in modo millimetrico, del resto, proprio con la ricostruzione prospettata anche dalla difesa nell'atto di impugnazione. La stessa difesa ricorrente, infatti, afferma come - nella concreta fattispecie - la decisione di uccidere sia insorta nella mente del Me. dopo l'allontanamento volontario della convivente e della figlia e a seguito del convincimento, formatosi nel prevenuto, che esse si trovassero da Fi.. Il proposito criminoso, ormai irrevocabilmente formato, ha determinato Me. a muoversi in strada munito di strumenti alla bisogna adoperabili per l'offesa, appunto in attesa di imbattersi eventualmente nel Fi., come poi avvenuto. 9.4. Sul punto, insomma, pare a questo Collegio che vi sia stata - ad opera della Corte distrettuale - ampia e doviziosa risposta, rispetto ad ogni censura formulata dalla difesa in sede di gravame. 10. Il ricorso del Procuratore generale aggredisce la scelta effettuata dalla Corte territoriale, in punto di concessione delle circostanze attenuanti generiche (motivo enumerato in parte narrativa sub 3). L'impugnazione merita accoglimento. 10.1. Giova brevemente premettere, ai fini dell'inquadramento ermeneutico, come l'istituto delle circostanze attenuanti generiche sia improntato alla valutazione complessiva della personalità dell'autore del delitto, letta nei prisma delle circostanze di realizzazione della condotta, con la finalità di meglio individualizzare la misura concreta della pena inflitta. La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell'art. 62 - bis cod. pen., inoltre, è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa o ritenuta dal giudice, con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, tanto che la stessa motivazione, a patto che si riveli congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione. 10.2. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha reputato concedibile tale attenuazione sanzionatoria, in forza di considerazioni, di seguito sintetizzate, che risultano prive della necessaria coerenza logica e argomentativa. In primo luogo, la Corte territoriale aveva precedentemente escluso - in sede di diniego della auspicata attenuante della provocazione - il fatto che la relazione intrapresa dalla Th. con Fi. rappresentasse un fatto ingiusto; aveva dettagliatamente descritto la condotta dell'imputato, anzi, come la continua e irrefrenabile manifestazione di indole violenta, possessiva, gelosa e minacciosa. Ponendosi in tale prospettiva, dunque, Me. era stato delineato come un soggetto aduso a contegni tesi alla sopraffazione, alla brutale prevaricazione nei confronti della compagna, che veniva da lui continuamente sottoposta ad angherie e vessazioni. Così delineato il quadro delle relazioni al tempo esistenti fra i due, davvero distonico e sfornito di aggancio alla logica, poi, è pensare che la Th. potesse intavolare un franco e pacato confronto con Me. e pretendere che potesse a questi rivelare, apertamente e serenamente, le proprie scelte relazionali. Opzioni che sono, peraltro, di tipo personalissimo e che, rientrando nell'alveo della insindacabile sfera intima di ciascuno, non possono giustificare alcuna forma di "legittimo interesse" in capo a terzi. La motivazione che la Corte territoriale ha posto a fondamento della decisione di riconoscere le circostanze attenuanti generiche, in pratica, opera una sorta di incongruo ribaltamento dei ruoli, quasi invertendo i termini della reciproca interazione instauratasi fra i protagonisti della vicenda; il tutto, si colloca in una prospettiva di insanabile contrasto, rispetto alla ricostruzione sposata - dalla stessa Corte di appello - nel corso dell'intera trama motivazionale. Contraddittorio è poi discorrere di un interesse legittimo (concetto che appare di vaga significazione, oltre che privo di un concreto substrato contenutistico) che sarebbe stato vantato dal Me., peraltro descritto dalla stessa Corte territoriale, invece, quale soggetto collerico, brutale e vendicativo. In linea generale, infine, è illogico far assurgere sentimenti quali la rabbia e la sete di vendetta ad elementi valutabili - se non positivamente - quantomeno in termini di attenuata negatività, tanto da farne discendere la concessione di benefici, trattandosi, al contrario, di stati d'animo comunque riprovevoli e affatto inevitabili. 11. Alla luce delle considerazioni che precedono, viene disposto l'annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso presentato dal Procuratore generale, limitatamente al punto concernente la concessione delle circostanze attenuanti generiche e con rinvio, per nuovo giudizio, alla Corte di appello di Perugia; viene disatteso, invece, il ricorso presentato nell'interesse di Me.Eg.. La liquidazione delle spese spettanti alle costituite parti civili è rimessa alle statuizioni definitive. Ricorrendone le condizioni, infine, deve essere disposta l'annotazione di cui all'art. 52, comma 1, del decreto legislativo 20 giugno 2003, n. 196, recante il "codice in materia di protezione dei dati personali". P.Q.M. In accoglimento del ricorso del Procuratore generale, annulla la sentenza impugnata limitatamente alle attenuanti generiche con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Perugia. Rigetta il ricorso dell'imputato e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Rimette la liquidazione delle spese sostenute dalle parti civili al definitivo. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma il 28 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere Dott. PEZZELLA Vincenzo - Relatore Dott. CENCI Daniele - Consigliere Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Pr.Gi. nato a S il (Omissis) avverso la sentenza del 21/06/2023 del GIUDICE DI PACE di FROSINONE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO PEZZELLA; Lette le conclusioni scritte per l'udienza senza discussione orale (art. 23 co. 8 d.l. 137/2020 conv. dalla I. n. 176/2020, come prorogato ex art. 16 d.l. 228/21 conv. con modif. dalla 1.15/22 e successivamente ex art. 94, co. 2, del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, come sostituito prima dall'art. 5-duodecies della l. 30.12.2022, n. 199, di conversione in legge del d.l. n. 162/2022) e poi dall'art. 17 del D.L. 22 giugno 2023, conv. con modif. dalla l. 10.8.2023 n. 112, del P.G., in persona del Sost. Proc. Gen. SABRINA PASSAFIUME, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso. RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il Giudice di Pace di Frosinone con sentenza del 21 giugno 2023 ha condannato Pr.Gi. alla pena di 600 Euro di multa, oltre che al pagamento delle spese processuali, in quanto riconosciuto colpevole del reato p. e p. dall'art. 590 cod. pen., poiché in qualità di proprietario lasciava incustodito il cane che abbaiava rabbiosamente contro l'Av.Ma. che passava nell'adiacenze della sua abitazione e per colpa, imprudenza ed imperizia mordeva la stessa sul gluteo dx causandole lesioni personali consistite in "infezione alla cute e sottocutaneo" come da verbale di Pronto Soccorso rilasciato dall'Ospedale di F. Fatti commessi in C l'(Omissis) La sentenza non contiene statuizioni sulla responsabilità civile poiché non vi è stata costituzione di parte civile (si consideri che nel verbale d'udienza dell'8.2.2023 le parti hanno dato atto della pendenza del giudizio civile n. 2347/2020, in fase di decisione). 2. Contro tale decisione il Pr.Gi., a mezzo del proprio difensore di fiducia, ebbe a proporre appello con cui deduceva che la sentenza di primo grado fosse ingiusta, sia in fatto che in diritto, e meritasse riforma. Ricordava che il giudice di pace ha condannato Pr.Gi. per il morso di cane meticcio alla denunciante mentre stava camminando per strada, sul presupposto - che sostiene essere erroneo, indimostrato e documentalmente smentito - che l'animale fosse di proprietà dell'imputato. E che nell'istruttoria l'accusa è stata smentita, e ha trovato conferma probatoria quanto sempre sostenuto dal Pr.Gi., ovvero di essere divenuto proprietario dell'animale dopo lo spiacevole episodio, anzi, proprio in conseguenza di questo. In rito, ricordato che l'art. 37 della legge istitutiva del giudice di pace esclude l'appellabilità delle sentenze di condanna alla (sola) pena della multa, consentendo quale mezzo di impugnazione unicamente il ricorso per cassazione con provvedimento del 12/1/2024 il Tribunale di Frosinone, in composizione monocratica, rimetteva gli atti a questa Corte. In data 2 aprile 2024, tuttavia, il ricorrente faceva pervenire a questa Corte dichiarazione di rinuncia all'impugnazione a firma del difensore e procuratore speciale, come da procura che veniva allegata. 3. Il PG presso questa Corte ha reso le conclusioni scritte riportate in epigrafe. 4. A seguito dell'intervenuta formale rinuncia all'impugnazione va dichiarata l'inammissibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 591 lett. d) cod. proc. pen. 5. Non essendo specificati i motivi della rinuncia e pertanto non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sentenza 13.6.2000 n. 186), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 3 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere-Rel. Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere Dott. ANTEZZA Fabio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ca.Lu. nato a M il (Omissis) avverso la sentenza del 28 febbraio 2023 del Tribunale di Bolzano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Serrao Eugenia; letta la requisitoria del Procuratore generale, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; letta la memoria del difensore, che ha concluso per l'accoglimento; RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di Bolzano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha rigettato l'appello proposto dall'imputato confermando la pronuncia con la quale il 16 settembre 2021 il Giudice di pace di Brunico aveva dichiarato Ca.Lu. responsabile del delitto di cui all'art. 590, commi 1 e 2, cod. pen. per avere, per negligenza, imprudenza e imperizia, cagionato a Ci.Gi. lesioni personali dalle quali era derivata una malattia o un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore a 40 giorni. In C in B il 28 febbraio 2014. 1.1. In dettaglio, i giudici di merito hanno accertato che Ca.Lu., che si trovava a monte rispetto alla persona offesa sulla pista da sci n.7 del comprensorio sciistico Skicarosello di C, aveva travolto la Ci.Gi., da considerarsi principiante, la quale stava scendendo lentamente. L'imputato, a bordo di uno snowboard, secondo i giudici, avrebbe dovuto moderare fortemente la velocità anziché urlare "occhio, occhio" nel corso della discesa. 1.2. Il Tribunale ha precisato come le regole comportamentali che lo sciatore proveniente da monte deve tenere laddove sia intenzionato a superare lo sciatore a valle, segnatamente l'art. 9 L. 24 dicembre 2003, n. 363, prevedono che la velocità sia particolarmente moderata nei tratti a visuale non libera, in prossimità di fabbricati o ostacoli, negli incroci, nelle biforcazioni, in caso di nebbia, di foschia, di scarsa visibilità o di affollamento, nelle strettoie e in presenza di principianti; l'art. 10 del medesimo testo normativo prevede che lo sciatore a monte deve mantenere una direzione che gli consenta di evitare collisioni o interferenze con lo sciatore a valle, mentre l'art. 11 stabilisce che lo sciatore che intende sorpassare un altro sciatore deve assicurarsi di disporre di uno spazio sufficiente allo scopo e che il sorpasso può essere effettuato sulla destra o sulla sinistra a una distanza tale da evitare intralci allo sciatore sorpassato. 1.3. Con riferimento alla valutazione dell'osservanza o meno delle regole sulla velocità da tenere, il Tribunale ha ritenuto come si tratti di norma comportamentale da valutare sotto il profilo dell'adeguatezza prendendo come punti di riferimento elementi soggettivi, quali l'abilità o l'attrezzatura dello sciatore, e condizioni esterne, quali la pendenza, la larghezza e difficoltà della pista, la presenza di ostacoli, la presenza o meno dell'abilità sciistica degli altri, le condizioni metereologiche. Date tali premesse, il Tribunale ha desunto l'inadeguatezza della velocità da plurimi elementi, segnatamente la testimonianza di Pi.Ro., il quale aveva visto scendere lo snowboarder a velocità elevata e tamponare la Ci.Gi., la consapevolezza del Ca.Lu. del pericolo di collisione con la Ci.Gi., desunto dal fatto che poco prima avesse urlato "occhio, occhio", l'inidoneità della velocità a consentire una manovra di evita mento dello sciatore a valle, desunta dal fatto che l'imputato non fosse riuscito a evitare l'urto pur dichiarandosi snowboarder molto esperto e pur essendo in quel punto la pista abbastanza larga e con pochi sciatori presenti, il fatto che la vittima avesse dichiarato che l'urto era forte, pur da non considerare violentissimo ma comunque non equiparabile a un semplice "tocco" o a una breve strisciata. 1.4. Il nesso di causalità tra la condotta del Ca.Lu. e l'infortunio è stato ritenuto sussistente in quanto superflua la prova richiesta nuovamente in appello, ossia l'acquisizione delle immagini della risonanza magnetica per ricostruire l'eziologia e la dinamica delle lesioni al ginocchio, posto che, secondo quanto emerso nel corso dell'istruttoria, i giudici hanno ritenuto dimostrato che l'urto avesse colpito la persona offesa alla spalla sinistra. 2. Ca.Lu. propone ricorso per cassazione censurando la sentenza impugnata, con il primo motivo, per violazione degli artt. 9, 10 e 11, L. n. 363/2003 nonché contraddittorietà della decisione e violazione degli artt. 192, 431 e 546 cod. proc. pen. Premesso che il cuore dell'addebito di responsabilità si incentra sull'avere tenuto l'imputato una velocità elevata, la difesa ritiene non superato il ragionevole dubbio sul punto e viziata la sentenza di appello laddove ha sostituito il tema di prova dell'eccessività o elevatezza della velocità a quello dell'adeguatezza, che in nessun passaggio della normativa viene richiamato come indicatore della regola prudenziale da osservare. Tale parametro è misurabile solo a posteriori e la sentenza presta il fianco alla critica secondo la quale lo standard evocato e applicato dell'adeguatezza non è contemplato dal dato normativo e si proietta sotto il profilo motivazionale in un'affermazione tautologica. Tale mutazione della condotta da velocità elevata a velocità non adeguata ha comportato un condizionamento negativo in relazione alla ponderazione di tutti gli elementi di prova posti sul tavolo. Con riguardo alla dedotta inattendibilità delle dichiarazioni del teste Pi.Ro., il Tribunale ha offerto argomenti autoreferenziali, intuitivi e assertivi tali da integrare il vizio di omessa motivazione. La sentenza di primo grado si era limitata a riprodurre testualmente le dichiarazioni testimoniali e la sentenza di appello ha risolto la censura svolta dall'appellante con poche righe dal contenuto meramente autoreferenziale, utilizzando le dichiarazioni del teste Pi.Ro. sulla base di una palese contraddizione argomentativa. Per un verso, assumendo come veritiera l'affermazione secondo la quale avrebbe visto il Ca.Lu. scendere a velocità elevata e investire la persona offesa mentre, d'altro canto, affermando testualmente che l'impatto non poteva essere fortissimo, ossia due asserzioni inconciliabili tra loro. Se la velocità fosse stata realmente elevata anche l'impatto avrebbe dovuto avere le medesime caratteristiche. Il giudice dell'appello, non potendo sostenere che vi fosse la prova che l'imputato stava tenendo una elevata velocità, ha dapprima forzato la norma introducendo il concetto di velocità adeguata e poi ha fondato la decisione su argomentazioni contraddittorie. Con riguardo alle dichiarazioni della parte civile costituita, che per costante giurisprudenza necessitano di un vaglio particolarmente attento e approfondito, si erano evidenziate con l'atto di appello significative discrasie nel narrato tra quanto riferito nell'atto di querela e quanto dichiarato in sede dibattimentale in relazione a chi fosse con lei al momento dell'impatto, in correlazione con le incongruenze insite nel narrato del teste Pi.Ro., ma il Tribunale ha ritenuto di non poter acquisire elementi di convincimento dalla querela sebbene, nel procedimento dinanzi al giudice di pace, si tratti di un atto certamente acquisito al fascicolo dibattimentale ai sensi dell'art. 431 cod. proc. pen., dal quale il giudice può trarre elementi per valutare la credibilità soggettiva del dichiarante. Il difensore aveva chiesto che fosse acquisito agli atti il verbale delle dichiarazioni rilasciate dal signor Pi.Ro. il 6 marzo 2014, nel corpo delle quali egli non faceva accenno alla velocità tenuta dall'imputato, ma il Tribunale non ha espresso sul punto alcuna motivazione. 2.1. Con il secondo motivo deduce violazione di legge rilevante ai sensi dell'art. 606 lett. d) cod. proc. pen. per mancata assunzione di una prova decisiva. La difesa si è attivata per acquisire copia della risonanza magnetica relativa al sinistro, mai prodotta agli atti, considerata assolutamente necessaria dal consulente tecnico di parte. L'istanza era stata respinta dal Giudice di pace, non ritenendola imprescindibile, ossia con motivazione apparente che non teneva conto di quanto certificato dal consulente tecnico della difesa con e-mail agli atti. Il Tribunale di Bolzano ha giustificato la propria decisione negativa ipotizzando che il presupposto dell'istanza fosse l'essere derivata la lesione da un impatto diretto sul ginocchio. Tuttavia, l'istanza non era fondata su tale presupposto, avendo piuttosto il consulente tecnico di parte ritenuto necessario tale documento per ricostruire l'eziologia e la dinamica delle lesioni al ginocchio indipendentemente dal fatto che tale fosse il diretto impatto. Si tratta, pertanto, di un travisamento della prova prospettabile nel caso in esame anche a fronte di una doppia conforme. Il sillogismo secondo il quale la premessa maggiore è che le informazioni probatorie indicate e richieste presuppongano l'impatto diretto sul ginocchio della parte offesa e la premessa minore è che è ragionevolmente certo che l'impatto non si sia verificato direttamente sul ginocchio rappresenta un'argomentazione illogica e contraddittoria in quanto fondata su una premessa maggiore non veritiera. 2.2. Con il terzo motivo deduce violazione degli artt. 9 legge n. 363/2003, 18 D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 40 e 1227 cod. civ. nonché illogicità della motivazione a fronte dell'utilizzo di un fatto notorio quale premessa maggiore del sillogismo argomentativo che tale non è. Risulta circostanza pacifica che la Ci.Gi. fosse una principiante. La difesa aveva chiesto che si desse conto della condotta imprudente e impedita tenuta dalla querelante, che aveva affrontato una pista blu caratterizzata dalla presenza di un tratto ripido, ossia un ostacolo troppo arduo per il suo livello di preparazione e di esperienza specifica, ma il Tribunale ha fondato la propria valutazione sul fatto notorio che sono classificate come piste blu quelle di difficoltà più bassa. Tuttavia il fatto notorio, per poter assurgere a presupposto per un criterio inferenziale affidabile, deve rappresentare dati non controvertibili, che non possono essere smentiti, laddove la circostanza riportata dal giudice d'appello come fatto notorio rappresenta un convincimento personale del giudice e una circostanza pacificamente smentita come si rileva dalle cosiddette fonti aperte. Da tali fonti si può evincere come vi sia un grado di difficoltà inferiore a quello delle piste blu, rappresentato dalle piste verdi caratterizzate da profili di lunghezza e pendenza percentuale inferiore che le rendono adatte ai principianti alle prime armi (i cosiddetti campi scuola o piste baby), idonee per chi scia da pochi giorni ed è alle prime armi. Una volta smentita la premessa maggiore del sillogismo, la difesa ritiene che si debbano rivalutare i profili di imprudenza e imperizia riferibili alla condotta della parte lesa. 3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. 4. Il difensore ha depositato memoria, insistendo per l'accoglimento dei motivi di ricorso. 5. La difesa della parte civile Ci.Gi. ha depositato, tardivamente, in data 13 marzo 2024, conclusioni e nota spese. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso è infondato. 1.1. All'epoca del fatto era in vigore la citata L. n.363/2003, che ha trovato applicazione al caso concreto a opera dei giudici di merito. In base all'art. 9 lo n. 363/2003 gli sciatori devono tenere una condotta che non costituisca pericolo per l'incolumità altrui, in relazione alle caratteristiche della pista e alla situazione ambientale, moderando particolarmente la velocità in presenza di principianti; in base all'art. 10 del medesimo testo normativo lo sciatore a monte deve mantenere una direzione che gli consenta di evitare collisioni o interferenze con lo sciatore a valle; in base all'art. 11, il sorpasso è consentito quando vi sia spazio sufficiente in modo da sorpassare a una distanza tale da evitare intralci allo sciatore sorpassato. Nella sentenza impugnata la responsabilità dell'imputato è stata desunta dall'accertata condotta in base alla quale quest'ultimo avrebbe affrontato la discesa a una velocità che non gli ha consentito una manovra correttiva tale da evitare la sciatrice a valle, conseguentemente violando tanto le norme precauzionali previste per lo sciatore che si trova a monte e che intenda sorpassare un altro sciatore quanto la norma prudenziale che gli imponeva di regolare la propria velocità in base alla presenza di una principiante. 1.2. Vale in proposito ricordare il principio secondo il quale la ricostruzione di un sinistro nelle sue dinamiche e nella sua eziologia, la valutazione delle condotte dei singoli utenti (della strada come di una pista da sci), l'accertamento delle relative responsabilità, la determinazione dell'efficienza causale di ciascuna colpa concorrente, sono rimessi al giudice di merito e integrano una serie di apprezzamenti di fatto che sono sottratti al sindacato di legittimità se sorretti da adeguata motivazione. 1.3. Per quanto concerne le prove utilizzabili per ricostruire la dinamica, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, in tema di letture consentite, ex artt. 431 e 511 cod. proc. pen., la querela può essere inserita nel fascicolo per il dibattimento ma è utilizzabile ai soli fini della procedibilità dell'azione penale, con la conseguenza che da essa il giudice non può trarre elementi di convincimento circa la valutazione di attendibilità della persona offesa, tranne che per circostanze o fatti imprevedibili risulti impossibile la testimonianza dell'autore della denuncia-querela, perché in tal caso la lettura è consentita ai sensi dell'art. 512 cod. proc. pen., anche per utilizzarne il contenuto ai fini della prova (Sez. 5, n. 21665 del 16/02/2018, Cosentino, Rv. 273167 - 01), ovvero la persona offesa si sia sottratta all'esame dell'imputato o del suo difensore (Sez. 5, n.4840 del 05/11/2021, dep.2022, Lamberti, Rv. 282774 - 01). La valutazione dei giudici di merito, conforme a tali principi, anche sul presupposto che tale atto neppure risultasse posto a fondamento di contestazioni nel dibattimento di primo grado (Sez. 2, n.16026 del 12/02/2020, Sorrentino, Rv. 279226 - 01), risulta non censurabile e logicamente espressa con riguardo all'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa. 1.4. La circostanza che l'imputato abbia attinto la sciatrice Ci.Gi. provenendo da monte a bordo di una snowboard senza riuscire a eseguire alcuna manovra di evitamento mentre la donna sciava in diagonale, come dichiarato dalla persona offesa, è stata valutata dai giudici di merito tenendo conto dell'orientamento interpretativo secondo il quale la deposizione della persona offesa costituita parte civile necessiti di rigoroso vaglio in ragione dell'interesse del quale tale parte è portatrice. La prova del fatto ha trovato, nelle considerazioni esposte dai giudici di merito, una conferma nelle dichiarazioni rese dal teste Pi.Ro. Sul punto inerente all'attendibilità di tale teste la sentenza impugnata ha ampiamente argomentato; le doglianze qui mosse non evidenziano alcuna contraddittorietà nel costrutto motivazionale, giacché la dichiarazione del teste circa il fatto che l'imputato andasse a velocità elevata non contraddice il giudizio espresso con riguardo alla violenza dell'impatto, considerato "non fortissimo"; esse risultano, peraltro, aspecifiche sia laddove non viene fatta alcuna menzione del riscontro che a tale prova hanno dato le sommarie informazioni testimoniali rese da Pr.Va. (pag. 9 sentenza di appello), concordemente acquisite nel fascicolo del dibattimento, sia laddove si lamenta l'omessa motivazione sulla richiesta di acquisizione di dichiarazioni rese dal teste Pi.Ro. nel corso delle indagini preliminari senza che ne sia allegata l'utilizzazione ai fini delle contestazioni. 1.5. Ulteriore conferma della manovra imprudente effettuata dallo snowboarder è stata rivenuta, con argomentazione che rende plastica mente conto della dinamica, dalle stesse dichiarazioni rese dal Ca.Lu. allorché, anziché fermarsi o porsi a debita distanza, pur provenendo dalla posizione a monte, ha tentato di sorpassare la sciatrice gridando "occhio, occhio". 2. Premesso quanto sopra in merito alla ricostruzione della condotta posta in essere dal Ca.Lu., va evidenziato che le norme che si assumono violate contengono precetti C.d. elastici. Per quanto qui di interesse in relazione alle doglianze difensive, l'art. 9 della L. n. 363/2003 contiene al secondo comma un precetto elastico laddove impone agli sciatori di mantenere una velocità "particolarmente moderata", tra l'altro, in presenza di principianti. Le norme cautelari "elastiche" non indicano con esattezza il comportamento prudenziale e richiedono, pertanto, l'esame delle circostanze del caso concreto per la definizione contenutistica dell'obbligo la cui violazione si risolve nel rimprovero penale. In tale ottica, la decisione risulta corretta perché i giudici di merito hanno desunto l'inadeguatezza della velocità da plurimi elementi caratterizzanti il caso concreto, segnatamente la consapevolezza del Ca.Lu. del pericolo di collisione allorché poco prima aveva urlato "occhio, occhio", l'inidoneità della velocità tenuta a consentire una manovra di evita mento dello sciatore a valle da parte di uno snowboarder molto esperto, nonostante la pista fosse abbastanza larga e con pochi sciatori presenti, il fatto che l'impatto non fosse comunque equiparabile a un semplice "tocco" o a una breve strisciata. Priva di pregio, dunque, anche per tale profilo si presenta la doglianza svolta nel primo motivo di ricorso. 3. Il secondo e il terzo motivo di ricorso, più direttamente inerenti all'eziologia del sinistro, sono fondatamente proposti. 3.1. Quanto alla censura concernente la denegata istanza di rinnovazione dibattimentale, si tratta di doglianza fondata. Deve rilevarsi che il Tribunale ha rigettato tale istanza con motivazione contraddittoria, valutando non assolutamente necessaria al fine del decidere l'acquisizione delle immagini della risonanza magnetica sul presupposto che non vi fosse alcuna prova che l'impatto del Ca.Lu. sulla Ci.Gi. fosse avvenuto proprio sul ginocchio, avendo la persona offesa dichiarato di essere stata colpita sulla parte sinistra del corpo e avendo il teste Pi.Ro. riferito di aver visto che lo snowboarder aveva colpito la donna alla spalla sinistra. La contraddittorietà della motivazione si è riverberata in vizio motivazionale della sentenza, allorché non si è dato ingresso alla richiesta difensiva di approfondire l'eziologia delle lesioni al ginocchio e si è, poi, esclusa la prova della diretta consequenzialità tra le lesioni riportate dalla Ci.Gi. e il punto del corpo in cui la donna è stata attinta. Ferma restando, dunque, la discrezionalità del giudice di merito a proposito della valutazione circa la necessità della rinnovazione istruttoria, tale valutazione dovrà essere sostenuta da diverso e non contraddittorio iter argomentativo. 3.2. Per quanto concerne, poi, il diniego della censura inerente al concorso colposo della persona offesa in quanto, da principiante, aveva affrontato una pista classificata "blu" nonostante per sua stessa ammissione sciasse da pochi giorni, la motivazione della sentenza impugnata assume come notorio un fatto errato, ossia che le piste classificate "blu" siano quelle di difficoltà più bassa onde, per tale profilo, nessun rimprovero potrebbe essere mosso alla Ci.Gi. Come correttamente evidenziato dalla difesa, le c.d. "fonti aperte" che, reperibili anche tramite la rete internet, come già osservato dalla Corte di legittimità (Sez. 4, n.21310 del 26/04/2022, Dangeli, Rv. 283314 - 01), possono costituire un parametro con cui valutare l'impiego di massime di esperienza o profili attinenti a fatti notori, indicano una diversa classificazione, che pone al più basso livello di difficoltà le piste classificate "verdi". 3.3. Ne consegue che il ragionamento posto a base del punto della decisione inerente al concorso colposo della persona offesa risulta viziato sotto il duplice profilo sopra evidenziato, sia in punto di valutazione della prova inerente al concorso della persona offesa nella eziologia del sinistro, sia in punto di fatto notorio fondato su una errata rappresentazione della realtà e andrà, dunque, rivisitato. 4. Conclusivamente, il ricorso deve essere accolto limitatamente al punto inerente al concorso colposo della persona offesa e rigettato nel resto. Il ricorrente ha rinunciato già nella fase di appello alla prescrizione. La giurisprudenza della Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n. 175 del 5 luglio 1971 sulla rinunciabilità dell'amnistia fino alla sentenza n. 275 del 23 maggio1990 sulla rinunciabilità della prescrizione, ha nel tempo esplicitato le varie pretese nelle quali si declina il diritto di difesa, rimarcando la natura inviolabile del diritto di difesa come diritto al giudizio e con esso alla prova. L'intervenuta rinuncia alla prescrizione, lasciando intatta la cognizione del giudice sugli effetti penali della sentenza, determina come conseguenza che l'accoglimento del ricorso dell'imputato produca l'annullamento della sentenza anche agli effetti penali e che il giudizio di rinvio debba essere rimesso al giudice penale (Sez. A, n.2242 del 22/10/2019, dep. 2020, D., Rv. 278029 - 02; Sez. 5, n.l0097 del 15/01/2015, Cassaniti, Rv. 262633 - 01). Al giudice del rinvio sarà rimessa anche la regolamentazione delle spese tra le parti relativamente al presente giudizio di legittimità. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto inerente al concorso colposo della persona offesa e rinvia, per nuovo giudizio sul punto, al Tribunale di Bolzano in diversa composizione, cui demanda altresì la regolamentazione tra le parti delle spese relativamente al presente giudizio di legittimità. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi della persona offesa ai sensi dell'art. 52, comma 2, del D.Lgs. n. 196 del 2003. Così deciso in Roma, il 13 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente Dott. CAPPELLO Gabriella - Consigliere Dott. MICCICHE' Loredana - Consigliere Dott. MARI Attilio - Consigliere-Rel. Dott. DAWAN Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Fo.Gi. nato a L il (Omissis) Me.Ma. nato a P il (Omissis) Fa.Pi. nato a T il (Omissis) avverso la sentenza del 27 aprile 2023 della Corte Appello di Torino visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Mari Attilio; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Orsi Luigi che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. E' presente l'avvocato Za.Gi. del foro di Torino in difesa di: Fo.Gi. Me.Ma. Fa.Pi. il quale chiede l'accoglimento dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Torino ha confermato la sentenza emessa il 26/05/2021 dal Tribunale di Torino nei confronti di Fo.Gi., Me.Ma. e Fa.Pi., con la quale gli stessi erano stati condannati alla pena di giorni venti di reclusione ciascuno, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche e di quella del risarcimento del danno ritenute prevalenti rispetto alla contestata aggravante, con beneficio della sospensione condizionale e della non menzione della condanna, in relazione al reato previsto dagli artt. 40, 113 e 590, commi 1-3, cod. pen. 1.1 Era stato contestato agli imputati - specificamente al Fo.Gi. nella sua qualità di presidente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato e al Me.Ma. quale amministratore delegato della (...) Srl - di avere cagionato colposamente ad He.Eu., dipendente della stessa società, lesioni personali di durata superiore ai quaranta giorni, consistenti in frattura vertebrale e lesioni multiple; colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia nonché nella violazione degli artt. 146, 100 e 96 del D.Lgs. 9 aprile 2008, n.81, omettendo di circondare gli scavi esistenti presso l'ex stabilimento "Leumann" con parapetti e tavole fermapiede ovvero di coprirli con tavolato fissato di resistenza non inferiore a quella di calpestio dei ponti di servizio, di realizzare la protezione delle aperture previste nel piano di sicurezza e coordinamento e di predisporre il piano operativo di sicurezza; nonché al Fa.Pi. - in qualità di coordinatore per la sicurezza - di avere omesso di verificare l'applicazione delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e coordinamento, di sospendere le lavorazioni fino alla verifica degli adeguamenti da parte dell'impresa esecutrice e di verificare l'idoneità del piano operativo di sicurezza, in violazione dell'art.92 del D.Lgs. n. 81/2008. 1.2 La Corte territoriale ha premesso la ricostruzione del fatto operata dal giudice di primo grado; dalla quale era emerso che la (...) Srl era titolare di un contratto di appalto per l'esecuzione della sistemazione della rete fognaria sotto l'area denominata lotto 82, con esecuzione di scavi e fornitura e posa in opera di tubazioni nel complesso dell'ex stabilimento industriale "Leumann" sito in Collegno; che, nel pomeriggio del 14/12/2017, i lavoratori He.Eu. e Ma.Ax. stavano posizionando alcune tubazioni all'interno di uno scavo e si stavano accingendo a spostare un tubo che ingombrava lo spazio lavorativo; che lo He.Eu. si era spostato nella parte superiore della trincea, collocata a 210 cm rispetto al fondo della struttura interrata e che era da qui scivolato dal relativo bordo riportando le suddette lesioni; che, dalla allegata documentazione fotografica, risultava che il piano di calpestio sul quale il lavoratore si era trovato a operare era contraddistinto dalla presenza di una serie di scavi sprovvisti di protezioni rispetto al rischio di caduta verso il suolo sottostante, essendo presenti solo dei frammenti di nastro bianco e rosso per la segnalazione del pericolo e alcuni pezzi di parapetti in legno ma nessun tipo di barriere delimitanti il ciglio della trincea; che, quindi, l'esame della documentazione fotografica aveva evidenziato la presenza di una fitta rete di trincee prive di parapetti, tali da costituire un ambiente di lavoro estremamente pericoloso. La Corte ha quindi ritenuto non rilevante la questione attinente alla qualificazione della lavorazione come svolta in quota - come sostenuto dal Tribunale - ovvero di scavo in senso proprio, soggetto alla norma di prevenzione di cui all'art.118, comma 5, D.Lgs. n. 81/2008; rilevando che la suddetta pericolosità intrinseca della postazione lavorativa avrebbe dovuto obbligare il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie per la messa in sicurezza, nel caso concreto consistenti nella predisposizione di parapetti e tavole fermapiede ovvero nella copertura dello stesso con tavolato solidamente fissato. Ha ritenuto che, correttamente, il Tribunale avrebbe imputato ai datori di lavoro anche la mancata vigilanza sull'osservanza delle prescrizioni contenute nel piano di sicurezza e coordinamento, le quali erano state disattese. In relazione alla posizione del coordinatore della sicurezza nonché direttore dei lavori, ha osservato che il paragrafo 6.2 del piano di sicurezza e coordinamento risultava dedicato alla messa in opera di protezioni delle aperture prospicienti il vuoto, con prescrizioni che risultavano essere state disattese senza che il coordinatore assumesse alcuna iniziativa sul punto; rilevando che il coordinatore per la sicurezza, nonché direttore dei lavori, rivestiva concretamente una posizione di garanzia che lo avrebbe onerato della sicurezza del cantiere. La Corte ha altresì rilevato che non poteva ravvisarsi alcun comportamento abnorme in capo al lavoratore infortunato - deduttivamente consistente nell'avere fatto accesso alla tubazione da rimuovere avvicinandosi al cunicolo anziché operando da sotto al vicino ponteggio - non presentando la condotta requisiti di imprevedibilità tali da escludere la responsabilità dei garanti. 2. Avverso la predetta sentenza hanno presentato ricorso per cassazione suddetti imputati, tramite il proprio difensore, articolando due motivi di impugnazione. Con il primo motivo hanno dedotto - ai sensi dell'art.606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - la inosservanza ed erronea applicazione della legge penale nonché la carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione agli artt. 40, comma 2, 43, 113, 590, commi 1-3 e 583 c. 1, n.1, cod. pen. e agli artt. 19, 20. 92, 96, 100, 118, comma 5 e 146 D.Lgs. n.81/2008 per l'affermazione relativa alla sussistenza dell'elemento oggettivo e soggettivo del reato contestato in violazione del canone dell"'al di là di ogni ragionevole dubbio"; nonché la violazione dell'art.606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità in relazione all'art. 516 cod. proc. pen. per avere la sentenza addebitato al Fa.Pi. la responsabilità derivante dalla qualifica di direttore dei lavori, al medesimo mai contestata. Hanno dedotto che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto di rigettare le doglianze degli appellanti relative: a) all'erronea individuazione delle norme cautelari gravanti sui ricorrenti, nelle specifiche qualifiche rivestite, con riferimento all'errata individuazione degli artt. 100 e 146 del D.Lgs. n. 81/2008, relativi ai lavori in quota anziché dell'art.118, D.Lgs. n.81/2008, relativo alle opere di scavo nel terreno per posa di tubazioni e che non richiede l'apposizione di parapetti o tavolati ma solo di idonee delimitazioni; b) alla erronea individuazione dei conseguenti doveri di comportamento; c) all'omesso esame relativo alla presenza di un preposto che dirigeva l'attività dell'infortunato; d) alla conseguente non ascrivibilità dell'evento lesivo. Hanno altresì dedotto che la sentenza presentava un vizio di travisamento della prova in relazione all'effettivo contenuto prescrittivo del piano per la sicurezza e coordinamento (PSC) e del piano operativo di sicurezza (POS); atteso che, negli stessi, la segnalazione degli scavi era prevista sia a livello progettuale e sia a livello operativo, in conformità con il disposto dell'art. U8, comma 5, D.Lgs. n.81/2008. Hanno esposto che risultava affetta da violazione di legge e da vizio di motivazione l'asserzione relativa al ruolo rivestito dal coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione quale direttore dei lavori, qualifica mai contestata al Fa.Pi. con conseguente violazione del diritto di difesa; esponendo come la sentenza impugnata, oltre ad avere errato nell'individuazione della regola cautelare, aveva posto sul coordinatore per la sicurezza un onere di vigilanza continua, esponendo come gli oneri del coordinatore fossero ravvisa bili nella sola ipotesi di rischio interferenziale e non, come nel caso di specie, in presenza di una sola impresa esecutrice ed essendo comunque configurabile un obbligo di sospensione dei lavori nella sola ipotesi di un imminente e grave pericolo e non nel caso di occasionali ed estemporanee situazioni di pericolo medesimo. Hanno altresì esposto che la sentenza impugnata non avrebbe dato adeguata rilevanza alla condotta del lavoratore infortunato, che aveva rimosso le segnalazioni ed effettuato un accesso all'area interdetta, con conseguente errata interpretazione del disposto dell'art.20 del D.Lgs. n. 81/2008 e non avrebbe altresì dato rilevanza alla presenza di un soggetto preposto. Con il secondo motivo di impugnazione, hanno dedotto la violazione dell'art.606, comma l, lett. b) ed e), cod. proc. pen., per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale nonché la carenza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in relazione all'art.20 del D.Lgs. n.81/2008 e agli artt. 133, 40, comma 2, 42, 43, 113, 590, commi 1-3, 583, comma 1, n. 1), cod. pen., con riferimento alla corretta applicazione dei criteri di individuazione del grado di colpa ascrivibile ai ricorrenti e alla scelta e quantificazione della pena. Hanno argomentato che, erroneamente, la sentenza non avrebbe applicato ai ricorrenti la pena pecuniaria in luogo della pena detentiva, non tenendo conto della colpa concorrente in capo alla persona offesa. 3. La difesa dei ricorrenti ha successivamente fatto pervenire memoria illustrativa nella quale ha insistito per l'accoglimento delle impugnazioni. Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono infondati. 2. Va premesso che, vertendosi in una fattispecie di c.d. doppia conforme, le due decisioni di merito vanno lette congiuntamente, integrandosi le stesse a vicenda, secondo il tradizionale insegnamento della Suprema Corte; tanto in base al principio per cui "II giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile" (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosino, Rv. 209145; in conformità, tra le numerose altre, Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano, Rv. 224079; Sez. 6, n. 23248 del 07/02/2003, ZanoUi, Rv. 225671; Sez. S, n. 14022 del 12/01/2016, Genitore, Rv. 266617). 3. Nel primo e articolato motivo di impugnazione, i ricorrenti (nel primo punto) hanno contestato l'impianto argomentativo delle sentenze impugnate nella parte in cui - in conformità con la contestazione operata nel capo di imputazione - hanno individuato la regola cautelare violata in quella prevista nella fattispecie delle lavorazioni in quota anziché in quella prevista dall'art. 118, comma S, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e che - nella specifica materia delle opere di scavo - avrebbe imposto, in presenza di opera di scavo nel terreno per posa nelle tubazioni - la sola apposizione di "opportune segnalazioni spostabili col proseguire dello scavo" non rendendo quindi necessaria, secondo la prospettazione difensiva, la posa di parapetti o tavolati ma solo delle segnalazioni medesime. La censura è infondata. Sul punto, deve ritenersi che la sentenza di primo grado - non smentita, nello specifico passaggio motivazionale, da quella di appello - abbia fatto corretta applicazione del disposto dell'art.l07 del D.Lgs. n. 81/2008, ai sensi del quale "si intende per lavoro in quota: attività lavorativa che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile", con la conseguente necessità dell'adozione delle necessarie misure precauzionali tra cui quella contenuta nell'art. 146 del D.Lgs. n. 81/2008, evocata nel capo di imputazione. Sul punto, deve infatti ritenersi che per "lavoro in quota" debbano intendersi, non solo le operazioni che si svolgano ad un'altezza superiore a due metri da terra su strutture prive di strutture di contenimento o parapetti, tali da necessitare di impalcature o ponteggi al fine di evitare il pericolo di caduta dei lavoratori, bensì tutte le attività che si svolgano ad oltre due metri da un piano stabile, anche ove si operi su superfici piane, contenute da parapetti, allorquando qualsiasi conformazione della struttura o di una sua parte possa comportare la caduta del lavoratore da un'altezza di oltre due metri. Si tratta di una precisazione, che si ricava dalla lettera dell'art. 122 del D.Lgs. n.81/2008, il quale stabilisce una regola generale su tutti i lavori che siano eseguiti ad oltre due metri di altezza, senza distinzione alcuna; che questa sia la corretta lettura si trae dalle misure che la disposizione indica quali opere di contenimento dal rischio di caduta, non solo, infatti, "adeguate impalcature o ponteggi" ma anche "idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare" quel pericolo (così, in motivazione, Sez. 4, n. 5128 del 23/11/2021, dep. 2022, Carotenuto, Rv. 282600) e tanto sulla base dell'argomentazione in forza della quale il rischio considerato dalle richiamate disposizioni è quello determinato dalla mera allocazione di postazioni di lavoro ad una quota tale da rendere la caduta pericolosa per l'uomo (Sez. 4, n. 21517 del 09/02/2021, Marchesotti, Rv. 281245). Deve quindi ritenersi coerente con i predetti principi la valutazione dei giudici di merito; i quali hanno considerato come eseguiti in quota i lavori di pertinenza dall'He.Eu., in quanto eseguiti su un punto del terreno - ovvero la base superiore di una trincea - collocata, sulla base delle evidenze istruttorie, alla distanza di 210 centimetri rispetto al fondo della struttura interrata. In ogni caso - per completezza argomentativa - deve rilevarsi come la prospettazione di parte ricorrente e in base alla quale l'esecuzione di lavori di scavo avrebbe imposto la mera apposizione di segnalazioni in luogo di adeguati presidi di protezione, appare errata alla luce delle disposizioni di riferimento. Difatti, l'art.118, comma 5, del D.Lgs. n.81/2008, invocato dalla difesa, impone la sola delimitazione delle opere "almeno" con le opportune segnalazioni, mentre il successivo art. 119 - applicabile a scavi, pozze e cunicoli - impone, una serie di specifiche opere precauzionali non limitata alle segnalazioni medesime. Deve quindi ritenersi che il motivo di ricorso, in tale parte, abbia - di fatto  omesso di confrontarsi con la specifica argomentazione richiamata nella sentenza di appello; e in base alla quale, in presenza di regole cautelari (come nel caso di specie) di tipo "elastico" è necessario, ai fini dell'accertamento della condotta impeditiva esigibile da parte del garante, procedere ad una valutazione ex ante che tenga conto delle circostanze del caso concreto (Sez. 4, n. 57361 del 29/11/2018, Petti, Rv. 274949), con la conseguenza che il comportamento alternativo corretto, deve essere individuato in quella condotta che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, avrebbe evitato il verificarsi dell'evento; derivandone che, per aversi un comportamento alternativo corretto può non essere sufficiente, una mera condotta osservante delle regole cautelari (contrapposta alla condotta inosservante delle medesime regole) ma è necessaria quella condotta che, in relazione alle circostanze del caso concreto, sarebbe stata idonea ad evitare l'evento (SezA, n. AOOSO del 29/03/2018, Lenarduzzi, Rv. 273871). Nel caso di specie, quindi, va rilevato come le sentenze di merito - con passaggi argomentativi non fatti oggetto di specifica censura - abbiano messo in evidenza come l'ambiente di lavoro, valutato in concreto sulla scorta delle emergenze istruttorie, si presentasse oggettivamente insidioso in quanto caratterizzato "da una fitta rete di trincee prive di parapetti" (pag. 6 della sentenza di appello); elemento fenomenico in presenza del quale doveva ritenersi concretamente esigibile una condotta alternativa di prevenzione dello specifico rischio lavorativo, sicuramente non soddisfacibile mediante la mera apposizione di segnalazioni, come invece dedotto in sede di prospettazione difensiva. 5. Con il secondo e il terzo punto di censura sviluppati nel primo motivo, la difesa ha dedotto che i giudici di merito avrebbero errato nell'individuare il contenuto prescrittivo del piano per la sicurezza e coordinamento (PSC) e del piano operativo di sicurezza (POS), deducendo come la segnalazione degli scavi sarebbe stata ivi prevista e regolata in conformità con il richiamato art.118, comma 5, D.Lgs. n.91/2008; deducendo altresì che la sentenza impugnata avrebbe errato nel riconoscere al coordinatore per l'esecuzione dei lavori una posizione di garanzia, in relazione a un dedotto obbligo di vigilanza continua, anche in considerazione della sua inerenza alla sola gestione del rischio derivante da interferenza tra attività facenti capo a diverse imprese operanti nello stesso spazio lavorativo; osservando che il potere di sospensione dei lavori previsto dall'art. 92, lett. f), D.Lgs. n.81/2008 sarebbe da ricollegare solo a imminente e grave pericolo e non a evenienze di carattere estemporaneo. Le censure non sono fondate. 5.1 Va premesso che le argomentazioni inerenti al contenuto del PSC e del POS sono distoniche rispetto al contenuto del capo di imputazione e alle argomentazioni esposte nelle sentenze di merito, nell'ambito delle quali è stato ascritto all'imputato Fa.Pi. - non addebiti relativi al contenuto dei suddetti documenti - ma il venire meno agli obblighi di verifica della corretta applicazione dei medesimi e l'omessa attivazione dei conseguenti poteri di sospensione dei lavori. Deve altresì rilevarsi come non sussista il lamentato vizio di violazione della legge processuale riferito all'art. 516 cod. proc. pen. e prospettato dalla difesa; atteso che le sentenze di merito hanno fondato il giudizio di responsabilità del suddetto imputato in solo riferimento alla posizione di coordinatore per la sicurezza e non a quella di direttore dei lavori, non originariamente contestata. 5.2 In riferimento alla figura del coordinatore della sicurezza in fase di progettazione e di esecuzione dei lavori - figura definita dall'art. 89, lett. e) ed f), D.Lgs. n.81/2008 - e in relazione ai compiti conferiti a tale ultima figura dall'art.92 dello stesso testo normativo, deve ritenersi - in aderenza a orientamento già espresso da questa Sezione e cui si intende, in questa sede, dare continuità - che allo stesso vadano riconosciuti degli obblighi impeditivi legati ai rischi di cantiere anche qualora non derivanti da rischio interferenziale; non esaurendosi i compiti prevenzionistici nell'attività di mero collegamento e raccordo tra le imprese impegnate nella realizzazione dell'opera ma implicando gli stessi una verifica costante da parte degli esecutori delle specifiche procedure di lavoro nonché il conseguente esercizio del potere previsto dall'art. 92, lett.f), D.Lgs. n.81/2008, la cui violazione è stata direttamente contestata nel caso di specie e in base al quale il coordinatore "sospende, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese interessate". Sul punto (richiamando quanto recentemente espresso in parte motiva da Sez. 4, n. 42845 del 04/10/2023, Tramontin, Rv. 285380), vanno ribaditi i principi affermati con specifico riferimento al potere/dovere conferito dalla predetta disposizione e in forza dei quali deve ritenersi che la legge delinei sul coordinatore per la sicurezza una funzione peculiare, rispetto al generale compito di alta vigilanza che grava su tale figura della sicurezza e che consistono, sempre ai sensi dell'art. 92 citato: a) nel controllo sulla corretta osservanza, da parte delle imprese, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento, nonché sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell'incolumità dei lavoratori; b) nella verifica dell'idoneità del piano operativo di sicurezza (POS) e nell'assicurazione delta sua coerenza rispetto al piano di sicurezza e coordinamento; c) nell'adeguamento dei piani in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, verificando, altresì, che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi POS (Sez. 4, n. 14636 del 23/3/2021, Scalise; Sez. 4, n. 27165 del 24/5/2016, Battisti, Rv. 267735). Il coordinatore, oltre ai compiti specificamente assegnatigli dall'art. 92 citato e, sebbene non sia tenuto a un puntuale controllo, momento per momento, delle singole attività lavorative, demandato ad altre figure operative, mantiene l'obbligo di attivarsi, in caso di sussistenza di un pericolo nei termini di cui all'art. 92 c. 1, lett. f), cit. Tale ultimo obbligo, tuttavia, non è correlato alla natura del rischio interferenziale che è chiamato a gestire, poiché egli risponde per colpa in omissione, allorquando versi in condizioni di avvedersi o essere informato dell'esistenza di un pericolo grave e imminente e rimanga inerte, a prescindere dal fatto che il pericolo sia correlato a un rischio interferenziale. Tale interpretazione discende direttamente dalla lettera della legge: alla lett. e) della norma richiamata, infatti, il legislatore prevede che il coordinatore, allorquando riscontri la violazione di obblighi assegnati ad altre figure della sicurezza, proponga la sospensione dei lavori al committente o al responsabile dei lavori, ove nominato, previa contestazione delle violazioni ai lavoratori autonomi o alle imprese. La successiva ipotesi di cui alla lett. f), invece, non è correlata al riscontro di specifiche violazioni da parte delle altre figure di gestori del rischio, ma direttamente ed esclusivamente alla riscontrata esistenza di un pericolo grave e imminente; pertanto, a tal fine, diventa rilevante la verifica del momento del manifestarsi di inequivocabili segnali di sussistenza di tale pericolo e della sua imminenza, ma anche quella della prevedibilità in capo al coordinatore medesimo, sul quale, come sopra ricordato, non grava l'obbligo di una presenza costante in cantiere. Trattasi, dunque, di una vera e propria norma di chiusura che, al di là degli obblighi di alta vigilanza previamente indicati dalla lettera a) alla lett. d) - questi direttamente correlati al rischio di interferenze tra le diverse realtà lavorative  impone comunque al coordinatore un obbligo più generale di sospensione delle lavorazioni ogni qualvolta abbia contezza di una siffatta situazione di pericolo (Sez.) 4, n. 14636/2021, cit.; espressivi di principi analoghi a quelli riassunti sono Sez. 4, n. 2845 del 15/10/2020, dep. 2021, Martinelli, Rv. 280319; Sez. 4, n. 10181 del 10/12/2020, dep. 2021, Marulli, Rv. 280955). 5.3 Deve quindi ritenersi che i giudici di merito si siano adeguatamente confrontati con i predetti principi, ritenendo che il coordinatore per l'esecuzione sia venuto meno ai propri doveri di verifica della corretta attuazione del contenuto del piano di sicurezza e coordinamento e che prevedeva una specifica protezione delle aperture (in ciò venendo meno al dovere previsto dall'art.92, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008) e al dovere di sospensione dei lavori -previsto dall'art. 92, lett. f)  sino al relativo adeguamento da parte dell'impresa esecutrice nonostante la situazione di pericolo derivante dalla mancata adozione delle protezioni necessarie e tanto - come sottolineato dal Tribunale - pure in presenza della accertata conoscenza dello stato dei luoghi (essendo solo in senso strumentale a tale circostanza valorizzabile, come fatto dalla Corte d'appello alla pag. 7 della sentenza impugnata, il ruolo di direttore dei lavori conferito al Fa.Pi.); avendo la Corte territoriale altresì valorizzato - con motivazione da ritenersi pienamente logica  l'elemento di fatto in base al quale il predetto imputato, come dallo stesso dichiarato in sede di esame, si recava giornalmente sui luoghi. Ne consegue che le valutazioni dei giudici di merito in ordine alla sussistenza di una posizione di garanzia devono ritenersi conformi al quadro normativo applicabile al caso di specie; posizione di garanzia - a propria volta e in riferimento alle deduzioni contenute nel quinto punto del motivo di ricorso - non escluse dalla presenza di un lavoratore con funzioni di preposto, non essendo la relativa figura comunque gravata degli oneri conseguenti al rispetto del PSC e del POS. 6. Con il quarto punto del primo motivo di impugnazione, i ricorrenti hanno dedotto il vizio di violazione di legge e di vizio di motivazione in relazione all'omessa valutazione della condotta colposa tenuta dal lavoratore, asseritamente avente valenza causale esclusiva in ordine alla causazione dell'evento. La censura è infondata. Va quindi rilevato - sotto tale aspetto - che il datore di lavoro, nonché gli altri destinatari delle norme antinfortunistiche, sono esonerati da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia qualificabile come abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli. In particolare, ancora più specificamente, la giurisprudenza di questa Corte ha rilevato che, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386; Sez. 4, n. 33976 del 17/03/2021, Vigo, Rv. 281748; Sez. 4, n. 7012 del 23/11/2022, dep. 2023, Cimolai, Rv. 284237). In sostanza, sulla base dell'esame sinottico dei principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi che sia interruttiva del nesso di condizionamento la condotta del lavoratore nel solo caso in cui la stessa si collochi in qualche modo al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Rilevando altresì che la giurisprudenza di legittimità è ferma nel sostenere che non possa discutersi di responsabilità (o anche solo di corresponsabilità) del lavoratore per l'infortunio quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità (Sez. A, n.16888 del 07/02/2012, Pugliese, Rv.252373, nonché, in senso coerente, anche Sez. 4, n. 27871 del 20/03/2019, Simeone, Rv. 276242), ciò in quanto le disposizioni antinfortunistiche perseguono, infatti, il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, onde l'area di rischio da gestire include il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e per tale ragione foriere di pericoli (Sez. A, n. 4114 del 13/01/2011, n. 4114, Galante, n.m.; Sez. F, n. 32357 del 12/08/2010, Mazzei, Rv. 247996). Deve quindi rilevarsi come le argomentazioni espresse dalla Corte territoriale, in adesione a quelle formulate nella motivazione della sentenza di primo grado, si siano adeguatamente confrontate con i predetti principi, con motivazione immune dal denunciato vizio di contraddittorietà. Nel caso di specie, difatti, il giudice di appello ha coerentemente escluso che al comportamento del lavoratore potesse essere attribuita la valenza di abnormità nel senso suddetto, essendo l'infortunio avvenuto nel contesto dell'esercizio della mansioni conseguenti alla prestazione affidata, rientrante nel segmento di lavorazione di competenza e del tutto privo dei connotati di eccentricità e imprevedibilità; coerentemente escludendo che la circostanza che il lavoratore avesse scelto di accedere alla tubazione da rimuovere avvicinandosi al cunicolo anziché operando dal di sotto del vicino ponteggio potesse ritenersi tale da concretizzare un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che il garante era chiamato a governare (Sez. 4, n. 123 del 11/12/2018, dep. 2019, Nastasi, Rv. 274829). 7. Il secondo motivo - con il quale è stata censurata la scelta dei giudici di merito di applicare la pena detentiva in luogo di quella pecuniaria - è infondato. Va quindi richiamato il principio in base al quale il giudice, nell'esercizio del potere di scelta fra l'applicazione della pena detentiva o di quella pecuniaria, alternativamente previste, ha l'obbligo di indicare le ragioni che lo inducano ad infliggere la pena detentiva (Sez. 6, n. 10772 del 20/02/2018, F., Rv. 272762). Sul punto, peraltro, come rilevato in parte motiva da Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014, dep. 2015, Ottino, Rv. 263201, il sindacato di legittimità su tale motivazione non può che essere limitato ai vizi previsti dall'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. Nel caso che occupa è quindi da escludersi che sia manifestamente illogica la valorizzazione - compiuta dal giudice di primo grado e integralmente condivisa a quella di appello al fine di giustificare la scelta della sanzione - facente riferimento al grado della colpa e all'elevato pregiudizio fisico subìto dal lavoratore. 8. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 19 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente Dott. BELLINI Ugo - Consigliere Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere-Rel. Dott. DAWAN Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Procuratore Generale presso Corte D'appello di Torino dalla parte civile Ch.Al. nato a T il (Omissis) nel procedimento a carico di: Gi.Da. nato a S il 18 aprile 1955; avverso la sentenza del 12 giugno 2023 della Corte Appello di Torino visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Ranaldi Alessandro; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Ceroni Francesca che ha concluso chiedendo l'inammissibilità di entrambi i ricorsi. E' presente l'avvocato De.Bo. del foro di Torino in difesa di Ch.Al. che insiste per l'accoglimento di entrambi i ricorsi: deposita conclusioni scritte unitamente alla nota spese, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata. E' presente l'avvocato Ca.Ma. del foro di Pavia in difesa di Gi.Da. che si associa alle conclusioni del procuratore generale; l'avv. deposita richiesta di liquidazione nota pro forma, affinché siano liquidati compensi professionali per la presente fase processuale. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 12 giugno 2023, la Corte di appello di Torino, per quanto qui rileva, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, ha assolto Gi.Da. dal reato di lesioni colpose in danno del lavoratore Aldo Chiesa per insussistenza del fatto. 1.1. La sentenza di primo grado aveva ritenuto che la persona offesa, al momento dell'incidente, si trovasse sul pianale del camion, intento a prestare assistenza nelle operazioni di scarico di alcune travi operate mediante un mezzo (cd. muletto) comandato dal Gi.Da.; durante tali operazioni l'imputato, nell'eseguire le manovre di movimentazione del carico sospeso, aveva urtato il Ch.Al., sbalzandolo fuori dal camion e facendolo cadere sulla strada sottostante, così cagionandogli le gravi lesioni riportate nel capo di imputazione (fatto commesso in data 8 maggio 2014). 1.2. La Corte di appello - nel prendere atto della rinuncia alla prescrizione da parte dell'imputato - ha, invece, ritenuto non sufficientemente dimostrata la circostanza che, in quella occasione, il Ch.Al. fosse effettivamente salito sul camion per compiere le operazioni sopra descritte, riportate nel capo di imputazione, concludendo per il proscioglimento del Gi.Da. stante la riscontrata sussistenza di un ragionevole dubbio circa l'esatta dinamica del fatto. 2. Avverso tale sentenza propongono distinti ricorsi per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Torino e il difensore di Ch.Al. quale parte civile costituita, i cui motivi sono di seguito sinteticamente riportati. 3. Il ricorso del Procuratore generale deduce vizio di motivazione, per non avere la sentenza impugnata dato puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte rispetto a quelle del primo giudice. Osserva che la Corte territoriale non ha confutato specificamente gli argomenti offerti nella motivazione della sentenza di primo grado e non ha dato conto delle ragioni della sua relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificarne la riforma. I giudici di appello si sono limitati a ritenere non pienamente attendibili le dichiarazioni della persona offesa, in relazione alla dinamica del sinistro, pur dando atto della genuinità del suo narrato, affermando la necessità di un riscontro probatorio esterno. Hanno escluso che le dichiarazioni della teste oculare Fe.El. potessero riscontrare il narrato della persona offesa, nonostante la teste avesse ricordato di aver visto una persona sul camion che stava aiutando l'imputato nelle operazioni di movimentazione del carico, passando delle corde intorno alle forche per imbracare le travi; che, inoltre, la trave "penzolava" e la persona sul camion era la stessa che poi la donna trovò riversa a terra. Ulteriore riscontro è costituito dalle dichiarazioni dell'autista del camion che curò il trasporto delle travi in cantiere, con le quali la Corte territoriale ha omesso di confrontarsi; secondo il teste, le operazioni di scarico furono eseguite dall'imputato con l'aiuto di un soggetto che era salito tra il rimorchio e la cabina. La sentenza impugnata ha invece concluso nel senso che le travi erano state scaricate con l'utilizzo di forche e senza la collaborazione di alcuno, in difformità da quanto processualmente emerso. Anche sulle lesioni riscontrate a carico della persona offesa il ragionamento della Corte torinese appare carente ed illogico. Non è dato, infine, comprendere come possa inficiare l'attendibilità della persona offesa la circostanza che la stessa avesse lasciato aperta l'autovettura con cui si era recata sul posto, accidentalmente finita su un canale di scolo, con all'interno i propri effetti personali. 4. Il ricorso della parte civile lamenta i seguenti vizi motivazionali. I) Illogica valutazione delle dichiarazioni della persona offesa Ch.Al. Deduce la contraddittorietà e illogicità della valutazione di inattendibilità intrinseca della deposizione del Ch.Al., nonostante se ne affermi la genuinità, solo perché il teste ha dichiarato che il suo ultimo ricordo è stato quello di trovarsi sopra il camion. Tale circostanza non giustifica l'invocato giudizio di inattendibilità, visto che la deposizione è stata limpida fino al momento dell'incidente. II) Illogica valutazione delle dichiarazioni della teste Fe.El. Rileva come non sia vera l'affermazione della Corte torinese secondo cui la teste avrebbe identificato la persona infortunata sulla sola base dei vestiti indossati: la teste ha sempre affermato che la persona presente sul camion era la stessa che aveva poi visto a terra infortunata. La sua descrizione degli indumenti indossati dalla vittima, rivelatasi imprecisa, è stata condizionata dal tempo trascorso dai fatti rispetto al momento della deposizione (sette anni). La testimonianza della Fe.El. non poteva essere sminuita, visto che l'altra persona presente al fatto (Fe.Li.) aveva dichiarato con sicurezza che, al momento del sinistro, egli si trovava a bordo del camion a dormire, per cui non poteva essere lui la persona in piedi sul camion vista dalla teste Fe.El. III) Illogica ricostruzione della dinamica del sinistro. Osserva che l'affermazione della Corte di merito, secondo cui le travi vennero scaricate dal camion con l'utilizzo delle forche e quindi non sarebbe stato necessario l'ausilio di un operatore posizionato sul cassone del camion, si rivela apodittica, in quanto non viene spiegato il motivo per cui tale modalità di scarico non abbisognasse di supporto da parte di alcuno. Per contro, il teste Fe.Li. ha dichiarato che occorreva comunque la presenza di un collaboratore posizionato sopra il trattore, sia nel caso di scarico con utilizzo delle forche, sia nel caso di scarico con ancoraggio delle travi alla benna. IV) Vizio di motivazione in relazione al "presunto" accadimento di un incidente stradale occorso alla persona offesa in concomitanza delle operazioni di scarico. Deduce l'irrilevanza, rispetto al giudizio di incompatibilità delle dichiarazioni della persona offesa su quanto descritto, della circostanza per cui l'autovettura della persona offesa sia stata ritrovata con le portiere aperte (non chiuse a chiave) all'interno di un fosso, con gli effetti personali del Ch.Al. all'interno della stessa; trattandosi di un luogo isolato e senza passaggio di persone, tale circostanza non rende in alcun modo inattendibile il narrato del Ch.Al. V) Illogica svalutazione delle osservazioni svolte dal consulente tecnico della parte civile circa l'entità e la natura delle lesioni subite dal Ch.Al., compatibili con l'incidente descritto nel capo di imputazione. VI) Vizio di motivazione quanto al mancato esame della sola possibile ipotesi alternativa dell'incidente, consistente nella caduta accidentale scavalcando la staccionata, rispetto alla quale la sentenza impugnata non si è in alcun modo espressa. VII) Violazione di legge in relazione alla mancanza di una motivazione "rafforzata", intesa come esigenza di destrutturare l'iter logico-motivazionale seguito dal primo giudice, avendo, per contro, la Corte distrettuale offerto una motivazione del tutto nuova, senza in alcun modo incrinare il ragionamento logicoÂgiuridico del Tribunale. 5. La difesa dell'imputato ha depositato memoria scritta con la quale, confutando le censure proposte dai ricorrenti, conclude per l'inammissibilità dei ricorsi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I proposti ricorsi sono fondati, in quanto gli stessi hanno evidenziato plurimi vizi motivazionali della sentenza impugnata, la quale, in definitiva, non ha rispettato il noto insegnamento che impone al giudice d'appello, che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado, di offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (cfr. Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 - dep. 2018, Rv. 272430 - 01). 1.1. La suddetta decisione delle Sezioni Unite ha chiarito che anche la decisione assolutoria che riformi totalmente una sentenza di condanna debba giustificare la perdurante sostenibilità di ricostruzioni alternative del fatto, strutturando la relativa motivazione in modo rigoroso, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte rispetto a quelle del giudice di primo grado. Il giudice di appello, insomma, ha l'obbligo di confutare in modo specifico e completo le precedenti argomentazioni, essendo necessario scardinare l'impianto argomentativo-dimostrativo di una decisione assunta da chi ha avuto diretto contatto con le fonti di prova. Ne discende che il giudice di appello, nel riformare la condanna pronunciata in primo grado con una sentenza di assoluzione, dovrà confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, giustificandone l'integrale riforma senza limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della riformata pronuncia delle generiche notazioni critiche di dissenso, ma riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito, per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia adeguata ragione delle difformi conclusioni assunte (sul tema, oltre alla già cito Sez. U n. 14800/2018, v. anche Sez. 4, n. 2474 del 15/10/2021 - dep. 2022, Rv. 282612 - 01; Sez. 4, n. 24439 del 16/06/2021, Rv. 281404 - 01). 2. La sentenza impugnata non si è attenuta al suddetto insegnamento, omettendo di confrontarsi compiutamente con le argomentazioni della sentenza di primo grado ed offrendo un percorso argomentativo largamente carente ed illogico su vari aspetti della vicenda che qui rileva, pervenendo ad una decisione assolutoria che non soddisfa l'estensione motivazionale richiesta in caso di ribaltamento assolutorio di una precedente sentenza di condanna. 3. Un primo vizio motivazionale, fondatamente segnalato, è quello che riguarda il tema della attendibilità della testimonianza della persona offesa, sul cui narrato la sentenza di primo grado ha fondato l'accertamento dei fatti ma che è stato, invece, ingiustificatamente pretermesso dai giudici di appello, sulla base di considerazioni illogiche e contraddittorie. La Corte territoriale, infatti, da una parte riconosce la genuinità di quanto dichiarato dal teste, dall'altra parte, invece, accenna ad una evidente difficoltà del medesimo di ricostruire con esattezza la dinamica dei fatti, ritenendo necessario che tali dichiarazioni siano riscontrate da elementi esterni al suo narrato. Nel far questo, tuttavia, la sentenza impugnata omette completamente di valutare in maniera specifica tali dichiarazioni, con particolare riguardo a quanto accaduto prima che il teste fosse colpito. Il Ch.Al., invece, in sede di istruttoria dibattimentale aveva dettagliatamente ricostruito i fatti avvenuti prima del suo infortunio, così come riportati nella sentenza di primo grado: egli era sicuro di essere salito sul pianale del camion per aiutare a legare le fasce sui legni degli architravi che il Gi.Da. movimentava con il mezzo d'opera. Il Tribunale, sul punto, aveva osservato che il Ch.Al. aveva correttamente "spiegato che quando si è risvegliato all'ospedale non ricordava nulla e solo con il tempo aveva ricordato che prima di trovarsi nel letto dell'ospedale l'ultimo ricordo era che era in piedi sul camion ...". Tale circostanza non è stata in alcun modo valutata dalla Corte distrettuale, la quale, di fatto, ha preso la sua decisione come se tali dichiarazioni fossero completamente inattendibili, pur riconoscendone la genuinità, ma senza argomentare in maniera rigorosa e puntuale su tale asserito "falso" ricordo del teste. 4. Un altro vizio motivazionale è quello che attiene alla valutazione della deposizione resa dalla teste Fe.El. Il Tribunale aveva valorizzato le dichiarazioni rese dalla donna, la quale aveva ricordato di avere visto un uomo in piedi sul camion che legava delle capriate alle forche del mezzo d'opera e che, successivamente, aveva visto la stessa persona a terra, infortunata. La teste non era stata precisa sull'abbigliamento della persona che aveva visto in piedi sul camion e poi a terra, ma aveva anche dichiarato che, essendo passati sette anni dai fatti, faceva fatica a ricordare. La Corte di appello ha illogicamente svalutato tale testimonianza, attribuendo fondamentale importanza alla circostanza che l'identificazione - da parte della teste - dell'uomo in piedi sul camion e di quello che aveva visto successivamente a terra, sarebbe avvenuta sulla base del medesimo abbigliamento indossato e dello stesso colore dei capelli (bianchi). A conferma di ciò, i giudici opi nano che l'uomo che la donna aveva notato in piedi sul camion ben poteva essere l'autista dello stesso (Fe.Li.); ciò, tuttavia, senza considerare - diversamente da quanto puntualmente riscontrato dal Tribunale  che la teste aveva dichiarato che il signore in piedi sul rimorchio stava imbracando fisicamente le travi, e quindi aveva descritto un'operazione diversa rispetto a quella dell'autista, che si era limitato a slegare il carico ed era poi andato a dormire all'interno della cabina del camion. Il ricorso della parte civile, inoltre, rimarca fondatamente la circostanza che la teste aveva sempre "seccamente" affermato che la persona presente sul camion era la stessa che subito dopo vide a terra infortunata, ribadendo più volte e senza alcuna incertezza tale dichiarazione. Per contro, la sentenza impugnata ha illogicamente affermato che la teste avrebbe fondato le sue dichiarazioni su un pregresso processo psicologico di corrispondenza dell'abbigliamento (della persona sul camion e di quella poi vista a terra), nonostante tale reminiscenza sia stata svalutata dalla stessa teste, la quale a distanza di diversi anni dai fatti aveva correttamente affermato in dibattimento di non avere ricordi precisi dell'abbigliamento della persona infortunata, come puntualmente riportato nella sentenza di primo grado. 5. Un altro aspetto su cui si evidenzia la manifesta illogicità delle argomentazioni rese dalla Corte di appello è quello che attiene alle modalità di scarico delle travi/architravi dal camion, mediante la benna o con le forche del mezzo d'opera, e alle conseguenze tratte da tali modalità operative rispetto alla ricostruzione dei fatti. La Corte territoriale giunge alla conclusione che sarebbe "più certo" che "le travi siano state scaricate dall'imputato attraverso l'utilizzo delle forche con la conseguenza che non si rendeva necessario, per le operazioni di scarico, alcuna collaborazione da parte di una persona sul camion che provvedesse a favorire l'aggancio delle travi al braccio della benna che avrebbe dovuto movimentarle". Ciò sulla base di quanto dichiarato da Fe.Li., autista del camion, secondo cui il caricamento delle travi sul camion era avvenuto a mezzo di forche, trattandosi di travi rettangolari. Al riguardo, i giudici di appello non si confrontano con quanto diversamente' riscontrato dal Tribunale, secondo cui sul camion erano risultate presenti travi di diverse fattezze, sulla scorta di quanto dichiarato da Ch.Al., Ch.Si. ed Fe.El., che avevano descritto anche delle travi a triangolo imbragate alle forche del muletto. Il primo giudice, quindi, aveva ritenuto come non contestata la circostanza della presenza (oltre che delle travi rettangolari) anche di travi a triangolo (capriate) e di come le stesse erano state scaricate dal camion con il necessario aiuto di una persona che aveva il compito di legare le dette capriate alle forche del mezzo d'opera. In particolare, era stata la stessa teste Fe.El. ad affermare che, nonostante l'uso delle forche, il carico "penzolava", descrizione incompatibile con lo scarico di travi rettangolari fissate su supporti "inforcabili" dal muletto. La Corte distrettuale non si confronta con tali precise risultanze processuali, affermando che non vi sarebbe stata necessità di assistenza nelle operazioni di scarico, contrariamente a quanto puntualmente riferito dagli altri testi, offrendo in proposito una motivazione a dir poco carente, se non apodittica, al fine di dimostrare che la persona offesa non poteva essersi infortunata durante la descritta lavorazione. 6. Coglie nel segno anche la censura con cui i ricorrenti sottolineano l'irrilevanza, rispetto all'accertamento delle modalità dell'infortunio, della circostanza costituita dalla presenza dell'autovettura dell'infortunato, in prossimità del luogo dei fatti, all'interno di un fosso, con il finestrino del guidatore abbassato e con i documenti ed il portafogli del Ch.Al. collocati sul sedile anteriore. Secondo la Corte di merito, se l'infortunato avesse effettivamente deciso di aiutare l'imputato nelle operazioni di scarico, nonostante l'incidente subito dalla propria auto, non avrebbe lasciato il portafogli incustodito nell'auto con il finestrino abbassato e le porte non chiuse a chiave. Si tratta evidentemente, per come riportata, di una mera congettura, di per sé priva di rilevanza rispetto ai plurimi elementi di prova riscontrati dal Tribunale per fondare la sentenza di condanna. 7. Appare fondato, infine, anche il rilievo con cui si censura che la decisione impugnata si limiti ad affermare che non sarebbe possibile ricostruire con sicurezza la dinamica del sinistro, senza neanche dare conto di come la vittima si sarebbe procurata le gravi lesioni certificate dal consulente della parte civile. Anche in questo caso, la motivazione offerta dalla Corte territoriale sul punto appare largamente carente, avendo omesso di confrontarsi con quanto appurato dal primo giudice, il quale, proprio valorizzando la deposizione resa dal dott. Fi. consulente medico della parte civile), aveva osservato che la compatibilità delle lesioni con una caduta determinata da elevata forza cinetica costituiva un ulteriore riscontro alle dichiarazioni della persona offesa ed escludeva la ricostruzione alternativa elaborata dal consulente tecnico della difesa dell'imputato Ci.Be.), il quale aveva ipotizzato che la persona offesa fosse scivolata mentre camminava di fianco al camion e nello scivolare fosse passata tra i due travi orizzontali della staccionata. 8. I riscontrati vizi motivazionali da cui è affetta la sentenza impugnata ne impongono l'annullamento, con rinvio per nuovo giudizio al giudice di merito individuato in dispositivo, il quale provvederà anche alla regolamentazione fra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Torino cui demanda anche la regolamentazione fra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 5 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente Dott. CAPPELLO Gabriella - Consigliere Dott. MICCICHE' Loredana - Consigliere-Rel. Dott. MARI Attilio - Consigliere Dott. DAWAN Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ma.Ca. nato a T il (Omissis) avverso la sentenza del 24 marzo 2023 della Corte Appello di Perugia; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Micciché Loredana; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Orsi Luigi che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di Appello di Perugia, con sentenza del 24 marzo 2023, confermava la sentenza del Tribunale di Terni che aveva condannato Ma.Ca. alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, dichiarandolo responsabile dei reati cui all'art. 589 cod. pen. Il Ma.Ca., alla guida di un furgone, procedendo in retromarcia, per colpa consistita in imprudenza, investiva la signora Ga.Es. provocandone la rottura del femore nonché il successivo decesso per shock cardiogeno irreversibile verificatosi nel corso dell'intervento chirurgico per sostituzione totale dell'anca effettuato in elezione (fatto accaduto 1'11 novembre 2013). 2. La Corte d'appello disattendeva i motivi di gravame riguardanti la responsabilità dell'imputato in ragione dell'interruzione del nesso di causalità tra l'evento e il decesso, a dire dell'imputato cagionato dalla condotta negligente, imprudente ed imperita dei medici dell'Ospedale, osservando che detta condotta non costituiva evento eccezionale o abnorme. 3. Ha proposto ricorso per Cassazione l'imputato, deducendo violazione di legge in relazione all'art. 41, secondo comma, cod. pen. e vizio di motivazione. Nel corso dei due gradi di giudizio non era emersa una patologia certa alla quale ricollegare l'evento morte. Lo shock cardiogeno, ipotizzato dal CT del PM, consistente in un calo pressorio improvviso e irrecuperabile, costituiva solo una delle ipotesi del decesso della vittima. Il consulente di parte aveva elencato una serie di possibili cause della morte ascrivibili all'intervento chirurgico, e quindi alla condotta dei medici, e non al trauma riportato dalla vittima. In particolare la causa della morte sarebbe stata scrivi bile ad una improvvisa e progressiva anemizzazione acuta, sfociata nell'arresto cardiaco, in relazione ad un copioso sanguinamento che può verificarsi durante un intervento chirurgico, avvalorata dal riscontro per cui le manovre rianimatorie non avevano avuto efficacia. 4. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione. L'accertamento dell'errore sanitario doveva condurre i giudici di merito a considerare realizzato l'innesco di un percorso causale del tutto anomalo ed eccezionale, quanto meno secondo la regola di giudizio dell'aldilà di ogni ragionevole dubbio. La sentenza impugnata non aveva per nulla chiarito quale fosse la causa della morte e se fosse riconducibile ad un errore dei medici, che rivestiva i caratteri di assoluta anomalia ed eccezionalità riconosciuti dalla giurisprudenza come aventi valenza interruttiva sul nesso causale. Il ricorrente ha dunque insistito per l'annullamento della sentenza impugnata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 2. Va rammentato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di lesioni personali volontarie seguite dal decesso della vittima, l'eventuale negligenza o imperizia dei medici, ancorché di elevata gravità, non elide, di per sé, il nesso causale tra la condotta lesiva e l'evento morte, in quanto l'intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini dell'esclusione del nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale (Sez. 5, n. 29075 del 23/05/2012 Rv. 253316). Si è successivamente chiarito che è configurabile l'interruzione del nesso causale tra condotta ed evento quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta. (Sez. 4, n. 25689 del 03/05/2016, Rv. 267374, Sez. 4, n. 3312 del 02/12/2016, Rv. 269001). 3. Tanto premesso, il tessuto argomentativo delle decisioni di merito (in particolare, anche della sentenza di primo grado, vertendosi in caso di doppia conforme) ha esaurientemente chiarito, con argomentazioni immuni dai lamentati vizi di illogicità e contraddittorietà, che la vittima era deceduta per un repentino calo pressorio che costituisce possibile complicanza di un intervento chirurgico, complicanza conducente ad uno shock cardiogeno, nonostante tutte le manovre poste in essere dal rianimatore. I giudici di merito hanno altresì chiarito i motivi della esclusione dell'ipotesi alternativa adombrata dalla difesa (ossia l'anemizzazione acuta e il mancato ricorso alla trasfusione) sottolineando che lo shock si era verificato nel giro di pochissimi minuti, incompatibili con una anemizzazione, posto che la perdita di sangue sarebbe stata più lenta e progressiva. Del tutto correttamente, in applicazione dei principi giurisprudenziali richiamati, i giudici di merito hanno rilevato che causa del decesso era riconducibile all'incidente stradale ascrivibile all'imputato, non potendosi delineare, nella condotta dei medici, l'innesco di un rischio del tutto nuovo, avulso e indipendente rispetto alle lesioni riportate da Ga.Es. a seguito dell'investimento durante la manovra di retromarcia del furgone condotto dall'imputato. Non rileva inoltre la considerazione che una diversa condotta dei sanitari avrebbe potuto evitare l'epilogo nefasto verificatosi, essendosi evidenziato, in conformità ai parametri giurisprudenziali sopra richiamati, che la condotta dei sanitari non aveva determinato l'insorgere di un rischio atipico, anomalo ed eccezionale. 4. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile. Segue per legge la condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali nonché di una ulteriore somma in favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 19 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
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