Sentenze recenti luci e vedute

Ricerca semantica

Risultati di ricerca:

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 753 del 2023, proposto dalla Società Ro. S.r.l.s, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Si. Go., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Cr. Ca. e Si. Me., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna Sezione Seconda n. 01029/2022. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio e l'appello incidentale del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 febbraio 2024 il Cons. Luca Monteferrante e uditi per le parti gli avvocati presenti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Con ricorso proposto avanti al T.a.r. per l'Emilia Romagna, sede di Bologna, la Società Ro. S.r.l.s. ha impugnato l'ordinanza n. 204/2022 del 20 maggio 2022 recante il diniego del permesso di costruire PG. 62770 (82-2021) chiesto con istanza presentata in data 11 ottobre 2021, avente ad oggetto l'esecuzione dei lavori di ristrutturazione con opere di efficientamento energetico, sismico, rigenerazione e sopraelevazione di un piano, con destinazione d'uso principale a residenza su immobile sito in Via (omissis), (omissis), e posto sull'area edificabile identificata nel Catasto Terreni: Foglio: (omissis); Mappale: (omissis); Subalterno: (omissis). Con sentenza n. 1029/2022, pubblicata in data 28 dicembre 2022, il T.a.r. adito ha: a) respinto il motivo inerente la pretesa formazione del silenzio-assenso a fronte della accertata assenza di inerzia dell'Amministrazione comunale sul piano fattuale e per la carenza del requisito sostanziale della conformità del progetto alla normativa urbanistica (cfr. capi 1, 1.2, 1.3, 1.4 e 1.5 della pronuncia cit.); b) respinto il motivo inerente la pretesa violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 con specifico riferimento alla sopraelevazione del terzo piano (cfr. capi 2; 2.1; 2.2; 2.3 e 2.4 della pronuncia cit.); c) respinto il motivo inerente la pretesa applicabilità dell'art. 10, comma 2 della L.R. n. 24/2017 e, quindi, il riconoscimento di incentivi volumetrici suscettibili di essere realizzati in deroga al D.M. n. 1444/1968 (cfr. capi 3; 3.1; 3.2; 3.3 e 3.4 della pronuncia cit.); d) accertato e dichiarato l'irrilevanza del motivo inerente il mancato rispetto delle distanze anche ad opera dell'ascensore previsto in sede progettuale, a fronte della ritenuta legittimità di una delle motivazioni addotte ai fini del diniego rispetto ad un provvedimento amministrativo fondato su una pluralità di motivi autonomi. La società Ro. ha interposto appello avverso la predetta sentenza per chiederne la riforma in quanto errata in diritto. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio per resistere all'appello contestandone la fondatezza. Ha anche proposto, in via cautelativa, appello incidentale per la riforma del capo 4.1 della sentenza n. 1029/2022 nella parte in cui è parso che il T.a.r. abbia ritenuto legittima la realizzazione dell'ascensore, in deroga al regime delle distanze, rinviando, sebbene a fini "di giustizia sostanziale" (cfr. punto 4.1. della motivazione), alla favorevole pronuncia resa sul punto in sede cautelare. Alla udienza pubblica del 5 ottobre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione, previo deposito di memorie conclusive e di replica con cui le parti hanno nuovamente illustrato le rispettive tesi difensive. Con ordinanza n. 8877 del 11 ottobre 2023 il Collegio ha chiesto alle parti: "documentati chiarimenti da ciascuna delle parti in causa al fine di chiarire, in fatto, lo stato dei luoghi, attraverso apposita documentazione fotografica e piantine di raffronto dei due edifici, idonee a descrivere lo stato delle pareti frontistanti, evidenziando le relative distanze, le altezze e la eventuale presenza di luci e vedute, nello stato di fatto ante e post intervento, ed ogni ulteriore elemento descrittivo utile alla verifica del rispetto delle distanze, secondo il criterio di misurazione c.d. lineare, sia rispetto alla sopraelevazione che alla realizzazione del vano ascensore.". È stata quindi depositata da entrambe le parti documentazione fotografica ed illustrativa dello stato dei luoghi che ha palesato tra l'altro una incertezza sull'oggetto del giudizio in relazione al lato del fabbricato (sud o est) rispetto al quale è stata contestata la violazione delle distanze in relazione alla sopraelevazione. La causa è stata, infine, nuovamente chiamata per la pubblica trattazione alla udienza del 15 febbraio 2024 all'esito della quale è stata trattenuta in decisione, previo deposito di memorie conclusive e di replica incentrate essenzialmente sulla questione centrale della contestata violazione delle distanze in relazione alle risultanze della documentazione versata in atti in seguito alla ordinanza istruttoria del Collegio. Tanto premesso in fatto e venendo al merito della controversia, l'appello principale è infondato. Con il primo motivo l'appellante deduce: "Formazione del silenzio assenso. Violazione ed errata applicazione dell'art. 20 della l. n. 241 del 1990 e dell'art. 18 della l.r. n. 15 del 2013. Violazione degli artt. 10 bis e 21 nonies della l. n. 241/1990. Riproposizione dei motivi di cui al punto 2 e lett. a) del ricorso di primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Palese inadeguatezza ed erroneità della motivazione. Travisamento dei fatti. Motivazione inesistente". Lamenta che il T.a.r. avrebbe errato nell'escludere la intervenuta formazione del silenzio assenso a causa del ritardo nel provvedere del Comune, incorrendo in una serie di errori nella ricostruzione dell'iter procedimentale, quali il carattere (ritenuto) innovativo dei documenti depositati il 10 febbraio 2022, rispetto al deposito del 5 gennaio 2022, e il riferimento, nel computo, alla data di protocollazione in entrata dei documenti inviati anziché di ricezione via pec.; nessuna particolare solerzia sarebbe poi ravvisabile nella sequenza procedimentale scandita da una sola richiesta di chiarimenti degli uffici comunale (neppure avente ad oggetto la questione delle distanze come erroneamente indicato dal T.a.r.) cui seguivano numerosi depositi di documenti, tavole di progetto e deduzioni difensive circa i caratteri dell'intervento e la disciplina applicabile, con particolare riferimento al regime delle distanze tra pareti finestrate ed alla non applicabilità della distanza di 10 metri all'ascensore in quanto vano tecnico, trattandosi in ogni caso di impianto funzionale al superamento delle barriere architettoniche. L'appellante propone una analitica ricostruzione della scansione procedimentale e dei termini di deposito delle integrazioni documentali, richieste dall'ufficio tecnico comunale all'esito della riunione del 26 ottobre 2021, al fine di dimostrare la consumazione del termine previsto dall'art. 18 della legge regionale n. 15 del 2013 (che prevede un termine massimo di 75 giorni in luogo di quello di 100 giorni - 60 per la proposta e 40 massimo per la adozione del provvedimento finale - previsto dall'art. 20, commi 3 e 6 del d.P.R. n. 380 del 2001) per la formazione del silenzio assenso allorquando il Comune ha adottato, in data 20 maggio 2022 il provvedimento conclusivo di diniego, a fronte di una istanza presentata in data 11 ottobre 2021. Il motivo è infondato. All'esito della audizione tenutasi il 26 ottobre 2021 la domanda è risultata incompleta, tant'è vero che, in relazione alla medesima, sono stati richiesti chiarimenti, integrazioni documentali e modifiche al progetto, cui l'appellante ha dato riscontro, tra gli altri, con il deposito, in data 5 gennaio 2022, di numerosi elaborati progettuali recanti modifiche al progetto originario (cfr. doc. 16 prodotto dalla ricorrente in primo grado) e in data 11 gennaio 2022 con il deposito sulla asseverazione degli impianti. Ulteriori elaborati grafici sono stati inviati via pec dalla Società appellante in data 10 febbraio 2022: la tavola 9 parcheggi/posti auto, stato di progetto; la tavola 12 sistemazione esterna/verifica Ip; la tavola 10 calcolo ST-Vt, stato attuale. L'appellante sostiene che tale ultima produzione andrebbe qualificata quale "ri-deposito" di documenti già in atti, quelli del 5 gennaio 2022, e critica l'affermazione del T.a.r. secondo cui "il raffronto con il doc. 16 di parte ricorrente non restituisce certezze sull'identità delle tavole (al contrario, le tre descrizioni degli elaborati non collimano)" (cfr. capo 1.3 della sentenza appellata). La doglianza non può essere condivisa. Il T.a.r., invero, ha chiarito di non poter condividere l'obiezione per cui si sarebbe trattato di un mero ri-deposito di quanto messo a disposizione il 5 gennaio 2022 precedente anche perché "... la stessa nota è testualmente classificata come integrazione della pratica"; da tale circostanza, non contestata, discende che gli uffici comunali hanno necessariamente dovuto riaprire una fase di verifica della predetta documentazione che giustifica l'effetto interruttivo previsto dall'art. 20, comma 5, (o comunque di quello sospensivo ex art. 18, comma 7, della legge regionale n. 15 del 2013), a prescindere dal fatto che si sia trattato di documenti nuovi o di quelli già depositati il 5 gennaio 2022 perché l'operazione di deposito ha comunque un impatto organizzativo sui tempi del procedimento ed è anche onere della parte evitare inutili aggravamenti dell'iter. Inoltre, ancora in data 14 marzo 2022, successivamente alla notificazione del preavviso di diniego al permesso di costruire del 4 marzo 2022, l'appellante ha provveduto all'invio di ulteriore documentazione progettuale e segnatamente degli ".... elaborati grafici di progetto e comparato con variata l'apertura nel vano scala del piano terzo (luce a ml. 2,00 dal pavimento) posta sul prospetto est, in conformità a quanto sostenuto in merito alle aperture "lucifere"", modifica reputata dall'istante utile per superare il motivo ostativo indicato nel preavviso di rigetto, relativo proprio al rispetto delle distanze tra pareti finestrate, tema che, sebbene non formalizzato nel verbale della riunione del 26 ottobre 2021, è stato pacificamente al centro delle verifiche istruttorie per essere infine formalizzato con il preavviso di rigetto del 4 marzo 2022. Alla luce di quanto sopra, la conclusione cui è pervenuto il primo Giudice ai capi 1.3, 1.4 e 1.5 della sentenza appellata in relazione alla mancata formazione del silenzio assenso, merita di essere confermata, sebbene con motivazione parzialmente diversa, poiché solo a partire dal 14 marzo 2022 è venuto meno l'effetto sospensivo del decorso del termine per provvedere, previsto dall'art. 20, comma 4 t.u. ed. (e comunque dall'art. 18, comma 7 della legge regionale n. 15 del 2013), in relazione alla richiesta di modifiche progettuali formulate sin dalla riunione istruttoria del 26 ottobre 2021 per superare anche i profili di contrasto con la normativa sulle distanze. Il predetto comma recita infatti che "Il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario, può, nello stesso termine di cui al comma 3, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L'interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, è tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta di cui al presente comma sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di cui al comma 3.". A sua volta il comma 3 prevede che "Entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento cura l'istruttoria, e formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico-giuridica dell'intervento richiesto....". L'"esito" di cui parla il comma 3 e cioè il riscontro alla richiesta degli uffici comunale è stato completato solo in data 14 marzo 2022, sicché il residuo termine di quarantacinque giorni (60 meno i 15 giorni decorsi tra la presentazione dell'istanza - 11 ottobre 2021 - e la richiesta di modifiche - 26 ottobre 2021 -) ha ripreso a decorrere solo da quella data, per venire a scadere oltre il 20 maggio 2022, quando il diniego è stato formalizzato, dovendosi computare il termine ulteriore di 40 giorni previsto per la adozione del provvedimento finale di cui all'art. 20, comma 6. Inoltre, ai sensi dell'art. 20, comma 5, la richiesta di documenti integrativi - avanzata sempre nel corso della riunione del 26 ottobre 2021 - ha comunque interrotto il termine per l'adozione della proposta di decisione, il cui decorso è ripreso ex novo dalla ricezione della documentazione integrativa, con invio completato solo il 10 febbraio 2022. Recita infatti il comma 5 che "Il termine di cui al comma 3 può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro trenta giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell'amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa.". Ne discende che, anche in questo caso, sommando il termine di 60 giorni per la adozione della proposta con quello di 40 giorni per la adozione del provvedimento finale, e computandoli dal 10 febbraio 2022, si supera il termine del 20 maggio 2022 (seppur di un solo giorno), allorquando è giunto il diniego espresso. Pertanto, tenuto conto sia dell'effetto sospensivo che di quello interruttivo del termine di 60 giorni previsto per la elaborazione della proposta di decisione - determinatosi all'esito delle verifiche istruttorie e delle richieste di modifica e di integrazione documentale formulate nella riunione del 26 ottobre 2021 - deve escludersi la formazione del silenzio assenso alla data del 20 maggio 2022 - allorquando il diniego impugnato è stato adottato - tenuto conto, come si è detto, che, ai sensi dell'art. 20, comma 6, "Il provvedimento finale, che lo sportello unico provvede a notificare all'interessato, è adottato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio, entro il termine di trenta giorni dalla proposta di cui al comma 3..... Il termine di cui al primo periodo è fissato in quaranta giorni con la medesima decorrenza qualora il dirigente o il responsabile del procedimento abbia comunicato all'istante i motivi che ostano all'accoglimento della domanda, ai sensi dell'articolo 10-bis della citata legge n. 241 del 1990, e successive modificazioni.". Precisa il Collegio, sin d'ora, che la verifica del rispetto del termine - più favorevole anche in ragione della previsione del solo effetto sospensivo e non interruttivo delle integrazioni documentali e delle modifiche progettuali - per la formazione del silenzio assenso, previsto dall'art. 18 della legge regionale dell'Emilia Romagna n. 15 del 2013, non rileva nel caso di specie sussistendo ulteriori e più stringenti motivazioni che ostano alla formazione del silenzio assenso. È conseguentemente priva di rilevanza anche la questione della individuazione della normativa applicabile - statale o regionale - e della possibile incostituzionalità della disciplina regionale rispetto all'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, norma di principio statale nella materia del governo del territorio, prevista anche a tutela dei livelli essenziali delle prestazioni ex art. 29, comma 2-ter della legge n. 241 del 1990, in relazione alla compatibilità (oltre che con la norma di principio statale) degli eventuali livelli ulteriori di tutela previsti dalla legislazione regionale ex art. 29, comma 2-quater, rispetto al principio del buon andamento dell'azione amministrativa ex art. 97 Cost. (in ragione della riduzione dei termini di conclusione del procedimento e della natura sospensiva anziché interruttiva dei termini per integrazioni documentali). Queste le ulteriori ragioni ostative alla formazione del silenzio assenso (oltre quanto si dirà, con portata dirimente, in relazione al terzo motivo di appello). L'art. 20, comma 8, t.u. ed. afferma che "decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo" "sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso" solo "ove il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego" ma non richiede necessariamente che il "motivato diniego" debba rivestire la forma provvedimentale, ben potendosi desumere la volontà procedimentale espressa anche dal preavviso di diniego, quale proposta di decisione da sottoporre al preventivo contraddittorio procedimentale prima di assumere l'eventuale veste provvedimentale: la teoria generale del procedimento è concorde nel ritenere centrale la fase istruttoria che si conclude con la elaborazione delle alternative decisionali e con la scelta della decisione più ragionevole rispetto alla quale il provvedimento finale costituisce il mero involucro formale o comunque il riepi delle verifiche istruttorie e del processo di selezione delle alternative decisionali che sfocia, per l'appunto, nella proposta di decisione, anticipata all'istante laddove negativa. La comunicazione della ipotesi di decisione, nella specie, è intervenuta sin dal 4 marzo 2022, in tempo utile ad interdire la formazione del silenzio, anche a voler considerare l'effetto, quanto meno sospensivo (in base alla più favorevole disciplina della legge regionale) del deposito in data 5 gennaio 2022: seguendo questa prospettazione la proposta di decisione sarebbe comunque intervenuta al 73° giorno (computando 15 giorni sino al 26 ottobre 2021 e 58 giorni dal 5 gennaio al 4 marzo 2022), quindi entro i 75 giorni previsti dal più favorevole articolo 18 della legge regionale n. 15 del 2013. Osserva ancora il Collegio che anche qualora vi fosse stato un superamento del termine di conclusione del procedimento, appare in contrasto con i principi di collaborazione e di buona fede (richiamati, in materia, anche da Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 ed oggi codificati come principio generale dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione dall'art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990) invocare la formazione del silenzio assenso in ipotesi in cui, come nel caso di specie, siano stati tempestivamente sollevati dagli uffici rilievi oggettivamente problematici e non pretestuosi, seguiti da interlocuzioni finalizzate a cercare soluzioni idonee a superarli e sfociati, da ultimo, in una proposta di decisione contraria, chiaramente espressa nel preavviso di diniego: in questi casi infatti non ricorre alcuna inerzia amministrativa che giustifichi il meccanismo di semplificazione in esame, previsto a tutela dell'interesse pretensivo del privato, ma, al contrario, si è di fronte ad un articolato confronto procedimentale che - in luogo di decisioni sbrigative sfavorevoli in presenza di criticità e di carenze documentali - e nella ricerca di possibili soluzioni alle problematiche emerse, ha comportato, nel caso concreto, una dilatazione (tra sospensioni ed interruzioni) della scansione temporale stabilita, in via generale ed astratta, dal legislatore. Quanto da ultimo osservato circa la rilevanza del preavviso di diniego e del principio di buona fede nella formazione del silenzio assenso, rende superflua, come si è visto, l'indagine - anche in termini di legittimità costituzionale, rispetto all'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, norma di principio statale in materia di governo del territorio - circa l'applicabilità dell'art. 18 della legge regionale della Emilia Romagna n. 15 del 2013, che prevede un calcolo dei termini di formazione del silenzio assenso più favorevole al privato poiché il preavviso di diniego è in ogni caso tempestivo e di per sé ostativo e lo stesso principio di buona fede, a fronte di un comportamento amministrativo attivo e collaborativo, opera in senso preclusivo dell'effetto legale previsto dall'art. 20, comma 8 (e dalla corrispondente previsione regionale) il quale presuppone una inerzia o comunque un ritardo imputabile a colpa dell'amministrazione, in violazione del principio del buon andamento, non configurabile quando invece il decorso del tempo consegua all'esercizio del soccorso istruttorio, espressione del principio solidaristico che concorre a conformare, in senso democratico, lo statuto costituzionale dell'amministrazione, come servizio e non come potere. In questo senso merita conferma la statuizione del T.a.r. nella parte in cui ha accertato "l'assenza dell'inerzia sul piano fattuale". Alla luce di quanto osservato resta, conseguentemente, assorbita la doglianza con cui l'appellante lamenta la erroneità della sentenza nella parte in cui afferma che i termini dovrebbero calcolarsi dalla data della protocollazione e non da quella del deposito, avvenuto con pec, per difetto di rilevanza della questione poiché lo scarto temporale tra deposito via pec e data di protocollazione non è determinante, nel caso di specie, ai fini del decorso del lasso temporale necessario alla formazione del silenzio assenso, fermo restando che nella proposta ricostruttiva della scansione procedimentale il Collegio ha tenuto conto della data di invio via pec e non di quella del protocollo informatico comunale. Ne discende che il motivo deve, in conclusione, ritenersi infondato. Con il secondo motivo l'appellante deduce: "Sospensione e non interruzione del termine. Violazione ed errata applicazione dell'art. 10 bis della l. n. 241/1990 e dell'art. 18 della l.r. n. 15 del 2013. Ancora sul motivo di cui al punto 2 e lett. a) del ricorso di primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Difetto ed erroneità della motivazione.". Lamenta la erroneità della motivazione della sentenza nella parte in cui il T.a.r. ha ricollegato alla adozione del preavviso di rigetto ex art. 10 - bis della legge n. 241 del 1990 un effetto interruttivo anziché sospensivo del decorso del termine di conclusione del procedimento, come invece espressamente indicato sia dallo stesso art. 10 - bis che dall'art. 18, comma 12, della legge regionale n. 15 del 2013. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse poiché l'effetto sospensivo previsto dalla legge, in luogo di quello interruttivo affermato dal T.a.r., non muta le conclusioni cui è pervenuto il Collegio nella disamina del primo motivo di appello circa la mancata formazione, nel caso di specie, del silenzio assenso. Deve tuttavia precisarsi che il richiamato effetto sospensivo opera in relazione alla verifica del rispetto del termine di conclusione del procedimento, rilevante anche in ordine alla azionabilità dei rimedi di tutela esperibili ma non è incompatibile con l'affermazione per cui il preavviso di rigetto, anticipando una chiara volontà procedimentale dell'amministrazione procedente, in termini di scelta tra alternative decisionali - seppur ancora provvisoria in quanto soggetta a verifica nel contraddittorio procedimentale - debba ritenersi logicamente incompatibile con la situazione di inerzia amministrativa, richiesta dalla legge per la operatività del dispositivo di semplificazione di cui all'art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001. Con il terzo motivo l'appellante ha dedotto che "Il silenzio si forma anche in assenza di conformità del progetto alle norme urbanistiche. Violazione ed errata applicazione dell'art. 20 della l. n. 241 del 1990 e dell'art. 18 della lr n. 15 del 2013. Violazione dell'art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990 e degli artt. 41 e 97 Cost.. Violazione dell'art. 88 cpa.. Difetto ed erroneità della motivazione.". Lamenta la erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto la non conformità del progetto alle norme urbanistiche ostativa alla formazione del silenzio assenso, alla luce degli orientamenti più recenti del Consiglio di Stato. Invoca, a sostegno, il principio di diritto affermato da Cons. Stato, sez. VI, n. 5746 del 2022. Anche questo motivo è inammissibile per difetto di interesse poiché il principio invocato dall'appellante - circa il carattere non ostativo della difformità del progetto rispetto alle previsioni di legge ed ai regolamenti edilizi, rispetto alla formazione del silenzio assenso - non muta le conclusioni cui è pervenuto il Collegio nella disamina del primo motivo di appello, atteso che, nel caso di specie, il silenzio assenso non si è comunque perfezionato a causa non di difformità rispetto a parametri, in senso lato, normativi, bensì per mancato decorso del termine di conclusione del procedimento e comunque per assenza di inerzia, sul piano fattuale, in capo al Comune. Peraltro il richiamo del nuovo indirizzo giurisprudenziale che si scosta dalla lettura tradizionale dell'istituto in esame (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 marzo 2023 n. 7534; Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11217; Cons. Stato, sez. II, 22 maggio 2023, n. 5072; Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 che segue la n. 5746 del 8 luglio 2022; in linea, anche se in tema di onere della prova, cfr. anche Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2023, n. 2239; per una recente riaffermazione invece dell'indirizzo tradizionale si veda Cons. Stato, sez. VII, 16 febbraio 2023, n. 1634) non consentirebbe in ogni caso il raggiungimento di un esito favorevole per l'appellante. Il predetto indirizzo, infatti, non manca di rammentare (e la stessa appellante lo evidenzia correttamente nel penultimo capoverso di p. 20 dell'appello) che ai fini della operatività del dispositivo del silenzio assenso occorre che la domanda sia "quantomeno aderente al'modello normativo astrattò prefigurato dal legislatore" pena la "inconfigurabilità giuridica" della stessa (così Cons. Stato, sez. VI, Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 e già 8 luglio 2022, n. 5746, alla cui ricostruzione generale dell'istituto si fa rinvio) il che significa che la domanda deve essere completa degli elementi essenziali ("minimali" secondo Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11217), a pena di inconfigurabilità della stessa (in questo senso si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 27 dicembre 2023, n. 11203 su cui infra). La stessa legge regionale n. 15 del 2013 declina correttamente il principio laddove, all'art. 18, comma 4, precisa che: "L'incompletezza della documentazione essenziale di cui al comma 1, determina l'improcedibilità della domanda, che viene comunicata all'interessato entro dieci giorni lavorativi dalla presentazione della domanda stessa". Occorre premettere che la questione della configurabilità di una domanda idonea non rappresenta una ipotesi di integrazione della motivazione in giudizio - in quanto per ipotesi non dedotta a corredo della motivazione del provvedimento impugnato - costituendo l'oggetto della domanda di pronuncia di accertamento del giudice circa la formazione del silenzio assenso che l'appellante ha formulato con il ricorso di primo grado. È dunque infondata l'eccezione circa la inammissibilità di una tale prospettazione su cui insiste invece la difesa comunale. Venendo al merito della questione, la giurisprudenza non ha ancora chiarito quali siano gli elementi essenziali richiesti, a pena di inconfigurabilità della domanda, ai fini della formazione del silenzio assenso. Il Collegio è dell'avviso che siffatti elementi siano solo quelli indicati dall'art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 a mente del quale "La domanda per il rilascio del permesso di costruire, sottoscritta da uno dei soggetti legittimati ai sensi dell'articolo 11, va presentata allo sportello unico corredata da un'attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali richiesti, e quando ne ricorrano i presupposti, dagli altri documenti previsti dalla parte II. La domanda è accompagnata da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie alle norme relative all'efficienza energetica". In particolare il novero degli elementi essenziali non è integrabile ad opera dei regolamenti edilizi e neppure da parte della legislazione regionale tramite normativa primaria o secondaria di dettaglio in quanto le Regioni sono autorizzate dall'art. 29, comma 2-quater della legge n. 241 del 1990 a prevedere livelli "ulteriori di tutela" ma non ad aggravare il procedimento con ulteriori adempimenti o documenti che avrebbero l'effetto di depotenziare l'efficacia dello strumento di semplificazione, comprimendo un livello essenziale della prestazione, lo standard minimo, riservato alla competenza esclusiva del legislatore statale ex art. 117, comma 2, lett. m), Cost.. Il menzionato disposto normativo, tra gli altri elementi essenziali, indica gli "elaborati progettuali richiesti". Analoga previsione è contenuta nell'art. 18, comma 1, della legge regionale n. 15 del 2013. Gli elaborati progettuali assumono una particolare rilevanza poiché, insieme alla asseverazione ed alla relazione illustrativa del tecnico incaricato, descrivono la natura dell'intervento e quindi delimitano l'oggetto della domanda e il perimetro dell'effetto autorizzatorio discendente dalla fictio iuris. Nel caso di specie gli elaborati progettuali sono stati modificati una prima volta con il deposito del 5 gennaio 2022 (a voler considerare non innovativo il successivo deposito del 10 febbraio 2022) ed ancora, dopo il preavviso di rigetto del 4 marzo 2022, con la produzione documentale del 14 marzo 2022 mediante invio di tavole di progetto modificate per conformarsi ai rilievi critici formulati nell'avviso ex art. 10 bis. La presentazione di nuovi elaborati progettuali e la modifica dell'oggetto dell'intervento che ne consegue, comportando una nuova ed ulteriore modifica dell'oggetto dell'intervento, fa sì che ci si trovi di fronte ad una nuova istanza, trattandosi di modifica di un requisito essenziale, con la conseguenza che il termine inizia a decorrere nuovamente solo da quella data, sicché sia rispetto all'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 (90 giorni) che all'art. 18 della legge regionale n. 15 del 2013 (75 giorni) il termine di formazione del silenzio assenso non poteva ritenersi spirato allorquando è intervenuto il diniego formale in data 20 maggio 2022. A rigore l'art. 18, comma 4, della legge regionale n. 15 del 2013 prevede in questi casi l'improcedibilità tout court della domanda. È stato al riguardo chiarito, in linea con il più recente indirizzo giurisprudenziale, che "per l'espletamento di una efficace istruttoria, l'istanza debba essere corredata da tutti gli elementi necessari a consentire l'accertamento della spettanza del bene della vita, per cui il silenzio assenso può formarsi solo in tale ipotesi, nel qual caso l'eventuale discrasia della fattispecie rispetto al modello legale di riferimento determina l'illegittimità dell'atto tacito, ma non ne impedisce il venirne ad esistenza. L'opzione ermeneutica più idonea alla tutela degli interessi in conflitto, in altri termini, deve essere individuata nel fatto che l'assenso tacito si forma allorquando sulla domanda, se corredata di tutti gli elementi occorrenti alla valutazione della P.A., sia decorso il termine di legge senza che questa abbia provveduto, mentre non può essere escluso per difetto delle condizioni sostanziali per il suo accoglimento, ossia, per contrasto della richiesta con la normativa di riferimento. Diversamente, ove l'istanza non sia stata corredata da tutta la documentazione necessaria ovvero si presenti imprecisa o foriera di possibili equivoci, in modo tale che l'amministrazione destinataria sia stata impossibilitata per il comportamento dell'istante a svolgere un compiuto accertamento di spettanza del bene, il silenzio assenso non può formarsi, per cui si avrà un'ipotesi di inesistenza dello stesso e non di sua illegittimità " (cfr. Cons. Stato, VI, 27 dicembre 2023, n. 11203). Quanto precede vale anche per tutte le modifiche progettuali che fuoriescono dal perimetro istruttorio delineato dall'art. 20, comma 4 (e, analogamente, nel caso di specie, dall'art. 18, comma 6 della legge regionale n. 15 del 2013) e cioè per quelle non concordate nel dia procedimentale laddove "di modesta entità " o che esorbitino le scadenze temporali ivi decise, le quali, in ragione dell'effetto sorpresa che generano, determinano una regressione del procedimento alla fase della iniziativa procedimentale trattandosi di domanda nuova per la quale occorre rinnovare l'istruttoria ab inizio. Su un piano ricostruttivo generale, osserva ancora il Collegio, in assenza degli elementi essenziali della fattispecie per come indicati all'art. 20, comma 1, il mancato esercizio, nel termine di legge, del potere istruttorio di chiedere integrazioni documentali o modifiche al progetto (potere nella specie comunque tempestivamente esercitato) non determina alcun effetto di sanatoria poiché l'inerzia non può sanare il difetto di quei requisiti che incidono sulla stessa configurabilità di una domanda la cui completezza è indispensabile proprio per la operatività dell'effetto legale finalizzato a porre rimedio alla mancanza di un provvedimento espresso: l'effetto sostitutivo presuppone, in altri termini, che la domanda abbia gli stessi requisiti essenziali del provvedimento che va a sostituire e tra questi vi è senz'altro la determinatezza dell'oggetto, che rileva sia per definire il perimetro dell'intervento autorizzato ma anche ai fini della successiva attività di vigilanza oltre che sanzionatoria, in caso di accertate difformità . Il decorso del termine di legge previsto per la richiesta di elementi integrativi (progettuali e documentali) rileva, invece, rispetto ad eventuali ulteriori requisiti (diversi da quelli previsti dall'art. 20, comma 1) richiesti da leggi regionali o dai regolamenti edilizi, nel senso che, ove mancanti, non potranno essere chiesti successivamente alla scadenza del termine di legge né invocati per impedire la formazione del silenzio assenso in quanto non essenziali ai fini della configurabilità della domanda e della conseguente operatività del dispositivo di semplificazione. Resta impregiudicata in queste ipotesi la valutazione circa la stessa legittimità della richiesta di eventuali ulteriori requisiti in quando introdotti in possibile contrasto con il menzionato art. 29 della legge n. 241 del 1990, in materia di competenza legislativa esclusiva dello Stato sui livelli essenziali delle prestazioni (che ricomprende anche la disciplina del silenzio assenso). Analoghe considerazioni valgono per la diversa ipotesi in cui la richiesta di chiarimenti sia riferita ai requisiti essenziali di cui all'art. 20, comma 1, negli stretti limiti in cui si tratti di mere richieste di regolarizzazione o di precisazioni su fatti secondari e di dettaglio, riferiti alla documentazione progettuale depositata o alle dichiarazioni rese dal tecnico incaricato, limitatamente agli aspetti dichiarativi e rappresentativi che non incidano sulla possibilità di identificare con precisione le caratteristiche dell'intervento, quanto a tipologia, parametri edilizi e plano-volumetrici, asseverazione, requisiti soggettivi (legittimazione) ed oggettivi della domanda: anche in questo caso il potere di chiedere la regolarizzazione dovrà essere esercitato, a pena di decadenza, nel termine di legge e la carenza di tali elementi di dettaglio non impedirà la formazione del silenzio assenso. Ne discende, in definitiva, che anche alla luce del più recente orientamento sull'inquadramento dogmatico e sistematico dell'istituto, la formazione del silenzio assenso deve, nel caso di specie, essere esclusa poiché i requisiti essenziali necessari, per legge, per la operatività del dispositivo di semplificazione, si sono perfezionati, quanto all'oggetto ed alle tavole di progetto, solo a decorrere dal 14 marzo 2022, con conseguente tempestività del diniego formalizzato il 20 maggio 2022. Alla luce di quanto precede la motivazione del T.a.r. deve essere corretta ma il motivo va nondimeno dichiarato infondato. Con il quarto motivo l'appellante ha dedotto: "Piena conformità del progetto: assenza di pareti finestrate. L'art. 9 del dm n. 1444 del 1968 si applica solo in presenza di due pareti. Violazione dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968. Totale assenza dei presupposti. Riproposizione del motivo di cui alla lett. b) - seconda parte - del ricorso di primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Difetto ed erroneità della motivazione". Lamenta l'erroneità della sentenza del T.a.r. nella parte in cui ha concluso, al Capo 2.4, che "In definitiva, il terzo piano in rialzo viola la distanza minima di 10 metri rispetto all'edificio finestrato frontistante, ancorché più basso". Argomenta circa la non applicabilità in fatto - e cioè in relazione alle caratteristiche degli edifici frontistanti - dell'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968. Assume che il T.a.r.: - non avrebbe considerato che a fronte del terzo piano non c'è alcuna parete; - non avrebbe considerato che, quand'anche ci fosse una parete, questa non è finestrata; - non avrebbe considerato che neppure la parete del terzo piano è finestrata, perché il progetto prevede unicamente un'apertura lucifera. Lamenta che non potrebbe trovare applicazione la normativa sulla distanza tra pareti finestrate allorché a una parete finestrata si contrapponga la falda del tetto del vicino, nella specie neppure finestrata. Inoltre la parete del progettato terzo piano è cieca perché è prevista solo un'apertura "lucifera" (non una finestra) nel vano scala dal quale si accede al nuovo piano e l'art. 9 del DM del 1968 non si applicherebbe alle pareti prive di finestre e munite solo di luci. Infine il T.a.r. avrebbe errato nel ritenere applicabile la normativa sulle distanze, in assenza della c.d. antistanza, vale a dire in assenza del fronteggiarsi di due pareti. Infatti, quand'anche il tetto dell'edificio del confinante costituisse una parete, come si è anticipato sopra, non si contrapporrebbe alla parete del progettato terzo piano del ricorrente in quanto l'edificio del vicino ha solo due piani. La parete del progettato terzo piano fronteggerebbe dunque il vuoto. Il motivo è infondato. Nel presente giudizio è contestata la violazione della distanza prevista dall'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968 in relazione alla sopraelevazione di un piano, realizzata dalla società appellante, ed alla costruzione del vano ascensore, che hanno interessato un edificio adibito a civile abitazione posto in un sito dove sono presenti altri tre edifici, aventi sagoma similare, disposti a scacchiera, due dei quali confinanti e frontistanti, uno per lato (lato est e lato sud), rispetto a quello oggetto di causa. È contestata dunque l'applicabilità della predetta disposizione in quanto l'appellante sostiene che, nel caso di specie, il terzo piano in sopraelevazione affaccerebbe sul tetto dell'immobile a confine e non su di una parete finestrata mentre il Comune allega che ricorrerebbe un'ipotesi di antistanza in presenza di parete finestrata sul lato a confine, anche se posta a quota inferiore. Sul punto il Collegio, come si è detto, ha chiesto alle parti con ordinanza chiarimenti in fatto, che sono stati resi attraverso il deposito di documentazione fotografica e disegni esplicativi dai quali emerge in fatto che: a) la violazione della distanza di 10 metri sussiste in fatto sia rispetto al lato "sud" (in misura variabile ma contenuta entro il metro) che "est" (in misura più significativa), sebbene il provvedimento impugnato faccia riferimento solo al lato sud, peraltro ivi collocando erroneamente anche l'ascensore che si trova invece pacificamente sul lato "est". Si legge infatti nel diniego impugnato che: " - la realizzazione dell'ascensore non rispetta la distanza dei 10 mt. di cui al D.M. 1444/68 dalla parete finestrata dell'edificio frontistante a sud; - il terzo piano di nuova realizzazione, non rispetta la distanza dei 10 mt. di cui al D.M. 1444/68 verso il lato sud essendo presente un edificio finestrato; ". Dopo l'approfondimento istruttorio si è dunque posta una questione preliminare di delimitazione dell'oggetto del giudizio atteso che anche il T.a.r. ha affrontato genericamente il tema della sopraelevazione del terzo piano, senza specificare il lato, laddove il provvedimento impugnato ha ravvisato la violazione limitatamente al lato sud, indicazione cui si è attenuto anche il Collegio nella richiesta di chiarimenti. Senonché l'appellante sostiene essere pacifico che in realtà la violazione contestata sia limitata al lato est e che il riferimento al lato sud contenuto nel provvedimento impugnato sarebbe un errore materiale, come inequivocabilmente confermato dal fatto che l'ascensore è posizionato sul lato est e non sud, come invece indicato nel diniego. Replica il Comune che la contestazione sarebbe invece riferita sia al lato sud, correttamente menzionato nel provvedimento impugnato, che al lato est, dove si trova pacificamente l'ascensore, dovendo il riferimento all'ascensore sul lato est (sebbene indicato come lato sud) intendersi esteso all'intera sopraelevazione, anche sul lato est, alla cui costruzione è funzionale la realizzazione dell'ascensore. Non vi è dunque accordo tra le parti, dovendosi per l'appellante limitare la contestazione ad un solo lato, quello est, dove si trova inequivocabilmente l'ascensore, mentre per il Comune la violazione concerne entrambi i lati, oltre l'ascensore. Stante il mancato accordo tra le parti, la questione deve essere risolta facendo applicazione dei criteri in materia di interpretazione degli atti amministrativi che, come noto, è mutuata da quella del codice civile in materia di contratti, limitatamente ai criteri c.d. oggettivi. Muovendo dal dato letterale (ex art. 1362 c.c. non potendosi indagare in subiecta materia "la comune intenzione delle parti" che rappresenta un criterio di interpretazione di natura soggettivo) non è revocabile in dubbio che il provvedimento impugnato faccia riferimento solo al lato sud, non anche alla distanza sul lato est. Sicuramente il riferimento alla violazione della distanza dell'ascensore rispetto alle pareti finestrate poste sul lato "sud" rappresenta un errore materiale in quanto l'ascensore è posizionato sul lato est (sicché va interpretato in chiave correttiva e conservativa, ex art. 1367 c.c.) ma da tale circostanza non può inferirsi che il diniego si fondi anche sulla violazione della distanza della sopraelevazione sul lato est, poiché trattasi di congettura non convincente in quanto la violazione della distanza da parte dell'ascensore non implica di necessità - secondo un ragionamento di tipo inferenziale - che analoga violazione sussista per la sopraelevazione sul lato dove è posto l'ascensore, il lato est per l'appunto. Stando al tenore letterale del provvedimento deve dunque escludersi che sia stata contestata la violazione della distanza sul lato est, se non limitatamente all'ascensore. Resta invece ferma la contestazione della violazione sul lato sud, in tali termini espressamente mossa. Quanto precede trova conferma nel tenore del preavviso di rigetto che reca le medesime contestazioni, tutte riferite al solo lato sud: pertanto anche gli atti anteriori (rilevanti, sebbene in chiave oggettiva, ex art. 1362, comma 2, c.c.) rispetto al provvedimento sono concordi con tale conclusione, fermo l'errore materiale relativo al posizionamento dell'ascensore, che è incontrovertibile. Lo stesso criterio della interpretazione secondo buona fede in senso oggettivo (art. 1366 c.c.) non consente all'amministrazione di integrare in giudizio un profilo di contestazione non formalizzato in precedenza che, rispetto alle risultanze istruttorie (e allo stesso incontro del 26 ottobre 2021), risulta oggettivamente nuovo, sebbene, alla luce dello stato dei luoghi, la violazione appaia evidente ed anche maggiormente significativa rispetto al lato sud. L'appellante lamenta di essersi sempre difesa in relazione allo stato dei luoghi sul lato est ma il Collegio, da un lato, non può che attenersi al tenore dell'atto impugnato e alle statuizioni del T.a.r., dovendosi necessariamente perimetrare in tal senso l'effetto devolutivo. Definito l'oggetto del giudizio - anche in relazione al tema dei c.d. limiti oggettivi del giudicato - e chiarito che la violazione della distanza della sopraelevazione deve intendersi contestata solo rispetto al lato sud (sebbene in termini identici a quanto deducibile anche rispetto al lato est, di cui si dirà solo per completezza ed in termini di mero obiter), occorre dunque rispondere al quesito giuridico: - se la disciplina di cui all'art. 9, comma 1, n. 2 della d.m. 1444 del 1968 si applichi ad una sopraelevazione che in proiezione orizzontale, su entrambi i lati (est e sud) incontra il "vuoto" (come dice l'appellante con espressione plastica), affacciandosi sui tetti delle abitazioni confinati, per essere le pareti finestrate antistanti poste ad una quota inferiore; - se in simile fattispecie possa ritenersi sussistente il requisito della c.d. antistanza, parimenti contestato con il motivo di appello in esame, in ragione della assenza di pareti poste alla medesima quota della progettata sopraelevazione; a tale secondo quesito si ricollega il tema del criterio di misurazione della distanza tra edifici. Ad entrambi i quesiti deve essere data risposta positiva tenuto conto dei consolidati principi della giurisprudenza amministrativa e civile, puntualmente richiamati dal T.a.r., che vengono di seguito riassunti nei seguenti termini: - l'art. 9 del D.M. 1444/1968 è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantisi sia finestrata e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa rispetto all'altro (Consiglio di Stato, sez. II - 19/10/2021 n. 7029, che richiama Corte di Cassazione, sez. II civile 1/10/2019 n. 24471); - la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, così come la distanza prevista ex art 873 cc, deve essere misurata secondo il c.d. criterio lineare tracciando linee perpendicolari tra gli edifici (Consiglio di Stato sez. II, 10 luglio 2020, n. 4465) e non radiale, e va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale (Cons. Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2005, n. 6909; Cons. Stato n. 7731 del 2010, Cons. Stato n. 7004 del 2023), ciò a prescindere dalla specifica conformazione dell'edificio (pareti lineari o ricurve), sicché la norma trova applicazione anche tra immobili di altezza differente e a prescindere dall'andamento parallelo delle loro pareti (Consiglio di Stato, sez. IV - 14 febbraio 2022 n. 1056), ed è pacifico che la regola ex art. 9 comma 2 del D.M. sia applicabile anche alle sopraelevazioni (Consiglio di Stato, sez. IV - 27/10/2011 n. 5759). A tal proposito è stato chiarito che "laddove vi sia una modifica anche solo dell'altezza dell'edificio (come nel caso di specie) sono ravvisabili gli estremi della nuova costruzione, da considerare tale anche ai fini del computo delle distanze, rispetto agli edifici contigui" e che "la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle sopraelevazioni", dovendo essere rispettata anche in caso di recupero dei sottotetti (cfr. Cons. Stato, Sez II, 19/10/2021 n. 7029; nello stesso senso, ex multis, Cons. Stato Sez. II, 25/10/2019, n. 7289; 18/05/2021, n. 3883). Non è dunque corretto il criterio di raffronto proposto dalla appellante, che per escludere l'antistanza prospetta un metodo di misurazione della distanza applicando il criterio lineare "per piani" e non rispetto alle intere facciate fronteggiantisi, che indubbiamente, nel caso di specie, si "incontrano" su entrambi i lati. Non si tiene conto che il suddetto criterio lineare si applica anche in caso di immobili di altezza differente e soprattutto non si considera che è irrilevante la circostanza per cui il fronte del piano sopraelevato affacci sopra un tetto, con o senza luci, poiché rispetto al piano sopraelevato, anche se privo di finestre, rileva piuttosto l'esistenza di una parete finestrata antistante, su entrambi i lati, anche se posta a quota inferiore, come può verificarsi pacificamente nel caso di specie e viene confermato dalla documentazione fotografica e dai grafici depositati dalle parti. In generale va ribadito che trova applicazione il principio di diritto affermato da Cass. civ., sez. II, n. 2847 del 27 settembre 2022, correttamente richiamato dal Comune, secondo cui "L'obbligo di rispettare una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, previsto dall'art. 9 d.m. 1444/1968, vale anche quando la finestra di una parete non fronteggi l'altra parete (per essere quest'ultima di altezza minore dell'altra), tranne che le due pareti aderiscano in basso l'una all'altra su tutto il fronte e per tutta l'altezza corrispondente, senza interstizi o intercapedini residui"". In tale sentenza la Corte di Cassazione ha chiarito infatti che "laddove la giurisprudenza di questa Corte applica l'art. 9 d.m. 1444/1968 e pretende il rispetto della distanza minima di 10 metri, pur in presenza di una parete con una finestra che si apre su uno spazio libero alla sua altezza (id est, che non fronteggia l'altra parete), al di sotto vi è una intercapedine, non già una costruzione in aderenza sul confine, come accade nel presente caso di specie. Vi sono ottime ragioni funzionali che così sia, giacché la disposizione non esige il rispetto di tale distanza minima in sé e per sé, bensì in funzione della salubrità di affaccio sugli spazi intercorrenti tra fabbricati antistanti". È dunque la presenza di una intercapedine o comunque di uno spazio aperto tra gli edifici che giustifica la necessità di tutela della salubrità di affaccio, ovvero la ratio applicativa della disposizione in esame, condizione pacificamente ricorrente nel caso di specie (non anche, invero, nel precedente di questa Sezione n. 8527 del 2019 richiamato dall'appellante, che si riferisce ad un caso "limite" di due fabbricati comunque aderenti per un'altezza di cinque metri e che solo nel successivo sviluppo in verticale si discostavano (l'uno proseguendo in verticale l'altro con parete inclinata): in quella circostanza evidentemente non si è ritenuto che sussistesse una intercapedine tale da giustificare la necessità di tutela della salubrità di affaccio sugli spazi intercorrenti tra i due edifici). Il quadro dei richiamati pronunciamenti giurisprudenziali non muta alla luce del "principio di prevenzione", evocato sempre dalla appellante, poiché nel caso di specie non viene in rilievo un problema di rispetto delle distanze "dal confine", da coordinare e raccordare con l'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. 1444 del 1968, sicché il precedente richiamato deve ritenersi inconferente. Quanto al lato sud, per escludere la violazione delle distanze non rileva che la sopraelevazione presenti una rientranza di un metro per la presenza di un balcone perimetrale, con parapetto, che consentirebbe il rispetto della distanza, considerando che la distanza tra i due fabbricati preesistenti su quel lato non è inferiore in nessun punto a 9 ml. È stato infatti chiarito (cfr. Cons. Stato, 4 ottobre 2021 n. 6613) che le distanze vanno misurate dalle sporgenze estreme dei fabbricati, dalle quali vanno escluse soltanto le parti ornamentali, di rifinitura ed accessorie di limitata entità e i cosiddetti sporti (cornicioni, lesene, mensole, grondaie e simili) che sono irrilevanti ai fini della determinazione dei distacchi. Sono rilevanti, invece, anche in virtù del fatto che essi costituiscono "costruzione" le parti aggettanti (quali scale, terrazze e corpi avanzati) anche se non corrispondenti a volumi abitativi coperti, ma che estendono ed ampliano, in superficie, la consistenza del fabbricato, come accade nel caso di specie. Tale principio (su cui di recente si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 30 aprile 2024, n. 3941) deve ritenersi valido anche in presenza di balconi non aggettanti rispetto al perimetro esterno del fabbricato principale, nei casi in cui amplino comunque, in superficie, la consistenza del fabbricato, come accade appunto nella fattispecie per la progettata sopraelevazione. Anche la giurisprudenza civile ritiene i balconi sempre computabili nel calcolo delle distanze; si richiama ad esempio Cass. civ., sez. II, 17 settembre 2021, n. 25191 la quale conferma l'orientamento per cui "In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'art. 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché il D.M. 2 aprile 1968, art. 9, - applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica17 agosto 1942n. 1150, come modificata dalla L. 6 agosto 1967, n. 765 - stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (L. 6 agosto 1967 n. 765, che, con l'art. 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17 agosto 1942n. 1150 l'art. 41 quinquies, il cui comma non fa rinvio al D.M. 2 aprile 1968, che all'art. 9, n. 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10)" (cui adde Cassazione civile, sez. II, 29 gennaio 2018, n. 2093, Cassazione civile, sez. I, 10 agosto 2017, n. 19932, Cassazione civile, sez. II, 19 settembre 2016, n. 18282). Il motivo deve, in conclusione, essere respinto. Con il quinto motivo l'appellante deduce: "Violazione dell'art. 10, comma 2, della l.r. n. 24 del 2017 e dell'art. 8.6.1 del Pug di (omissis). Erronea interpretazione e applicazione. Riproposizione dei motivi aggiunti di impugnazione in primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Difetto ed erroneità di motivazione". Contesta la erroneità della decisione del T.a.r. nella parte in cui ha ritenuto, in ogni caso, inapplicabile al caso di specie l'art. 10, comma 2, della LR n. 24/2017, che consente di sopraelevare in deroga anche all'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968. Il motivo è infondato. Le puntuali motivazioni addotte sul punto da T.a.r. resistono alle censure dell'appellante. L'art. 10, comma 2, della LR n. 24/2017 recita: "Gli eventuali incentivi volumetrici riconosciuti per l'intervento possono essere realizzati con la soprelevazione dell'edificio originario, anche in deroga agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, nonché con ampliamento fuori sagoma dell'edificio originario laddove siano comunque rispettate le distanze minime tra fabbricati di cui all'articolo 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 o quelle dagli edifici antistanti preesistenti, se inferiori". Il T.a.r., a sostegno della tesi della inapplicabilità della deroga regionale al caso di specie, ha richiamato uno specifico precedente di questa Sezione (16 ottobre 2020 n. 6282) che il Collegio intende confermare ed al quale fa rinvio quale precedente conforme ai sensi del c.p.a. In sintesi deve ribadirsi che la deroga alle previsioni del più volte menzionato art. 9 presuppone comunque il rispetto di quanto previsto dall'art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 e dunque una previsione della medesima deroga all'interno della pianificazione generale di tutto il territorio o di ampie parti dello stesso, requisito nella specie insussistente, trattandosi di intervento puntuale non contemplato da atti di pianificazione generale. L'appellante eccepisce che il menzionato art. 10, comma 2, non contempla alcun richiamo dell'art. 2 bis del d.P.R. n. 380 del 2001, su cui si basa la ratio decidendi del precedente di questa Sezione. Senonché è sufficiente replicare che il richiamo è contenuto nel comma 1 dell'art. 10 di cui il comma 2 è attuazione, in una logica complessiva di sistema dove le deroghe alle distanze sono ammesse ad opera delle leggi regionali "nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali." (cfr. art. 2-bis, comma 1 del d.P.R. n. 380 del 2001). Peraltro il T.a.r. non ha mancato di evidenziare "l'ulteriore profilo della mancata indicazione dei bonus volumetrici dei quali la Società interessata avrebbe usufruito in base alle norme di piano (che debbono essere specifici e non genericamente ricollegati a un intervento di rigenerazione)", tema non oggetto di contestazione con il motivo di appello in esame e comunque di per sé ostativo alla operatività della deroga in mancanza di prova circa l'impiego di bonus volumetrici ai fini della sopraelevazione. Con il sesto motivo, infine, l'appellante deduce: "Piena conformità del progetto: l'ascensore non è costruzione ai fini delle distanze. Violazione della legge n. 13 del 1989. Violazione dell'art. 9 del dm n. 1444 del 1968. Totale assenza dei presupposti. Riproposizione del motivo b) - prima parte - del ricorso in primo grado. Omessa pronuncia sulla illegittimità del diniego di permesso con riguardo alla realizzazione dell'ascensore. Violazione dell'art. 112 c.p.a. e comunque difetto ed erroneità della motivazione. Violazione art. 88 c.p.a.". Lamenta che il T.a.r. avrebbe omesso di decidere il motivo di impugnazione che si riferiva alla illegittimità del diniego nella parte in cui ha ritenuto che la realizzazione dell'ascensore non potesse essere autorizzata in quanto, anche in questo caso, sarebbero violate le distanze. Trattandosi di atto plurimo e non plurimotivato il T.a.r. avrebbe dovuto esaminare il motivo di ricorso riferito specificamente alla inapplicabilità del regime delle distanze alla costruzione di un ascensore che nel caso di specie, - ed anche laddove non fosse possibile realizzare la sopraelevazione - resterebbe a servizio del primo e del secondo piano esistenti, qualora il motivo fosse ritenuto fondato. Ha pertanto riproposto il motivo, sostanzialmente non esaminato dal T.a.r., e incentrato sulla non applicabilità della disciplina delle distanze ai volumi tecnici quale è l'ascensore. Inoltre contesta la motivazione del diniego circa l'assenza nell'immobile di disabili certificati poiché a suo dire l'unità immobiliare dovrebbe essere accessibile anche da ospiti occasionali che siano disabili. L'ascensore infatti - a dire dell'appellante - elimina le barriere architettoniche anche a beneficio di coloro che, pur non essendo disabili, si trovino a non poter salire le scale per motivi transitori e contingenti (ad esempio, un infortunio), senza necessità di alcuna preventiva disabilità e relativa certificazione; dunque, l'ascensore garantisce, in via generale, la vivibilità e la visitabilità delle unità immobiliari da parte dei terzi e la relativa normativa di riferimento (Legge n. 13 del 1989) costituirebbe applicazione del c.d. principio solidaristico. Il motivo è infondato. Il Collegio è dell'avviso che il diniego impugnato non possa essere qualificato quale atto ad oggetto plurimo trattandosi di atto plurimotivato, con la conseguenza che la accertata legittimità del diniego per la parte riferita alla sopraelevazione priva l'appellante di interesse ad accertare la legittimità del motivo riferito alla violazione delle distanze tra pareti finestrate quanto alla realizzazione dell'ascensore. Come noto l'atto è plurimo quando, nonostante la veste unitaria dal punto di vista formale, risulti scindibile in distinte ed autonome determinazioni, autonomamente lesive. Nel caso di specie, invece, manca il requisito della scindibilità del contenuto dispositivo del diniego che si riferisce in realtà ad un intervento progettato e proposto come unitario, sicché nel rapporto tra la sopraelevazione, la ristrutturazione e l'inserimento dell'ascensore vale la regola simul stabunt simul cadent. La disciplina derogatoria invocata dall'appellante concerne l'ipotesi dell'ascensore specificamente realizzato al fine di superare barriere architettoniche e non opera nella diversa ipotesi in cui l'impianto è al servizio dell'immobile in quanto la creazione di un terzo piano ne renda obbligatoria, per legge, la presenza, come accade nel caso di specie, trattandosi di un quarto livello fuori terra. Il Collegio condivide, dunque, le deduzioni difensive del Comune venendo in rilievo non l'ipotesi di cui all'art. 79 del d.P.R. n. 380 del 2001, che ammette la deroga in questione, ma quella ben distinta di cui all'art. 77, il cui comma 3 prevede che "La progettazione deve comunque prevedere:...d) l'installazione, nel caso di immobili con più di tre livelli fuori terra, di un ascensore per ogni scala principale raggiungibile mediante rampe prive di gradini". Una volta impostato come struttura di servizio del terzo piano e di quelli sottostanti non può la parte convertirlo come intervento di superamento delle barriere architettoniche: questa è la ragione per cui il T.a.r. ha, di fatto, qualificato l'atto impugnato come non ad oggetto plurimo, ritenendo che la impossibilità di realizzare la sopraelevazione travolgesse anche la fattibilità dell'impianto di servizio che, in astratto, sarebbe invece assentibile come intervento autonomo, come sostiene l'appellante, qualora specificamente richiesto per le finalità di cui all'art. 79 del d.P.R. b. 380 del 2001. Ma il progetto di intervento non fa riferimento alla finalità di superamento delle barriere architettoniche (nessuna allegazione di parte è in questo senso, in relazione alla documentazione a corredo del progetto) sicché correttamente il Comune non ha ritenuto la deroga applicabile al caso di specie, avendo valutato l'intervento unitariamente, con conseguente necessità del rispetto della distanza, nella specie pacificamente violata per quanto sopra osservato. Non può la parte invocare un interesse all'annullamento parziale del diniego al fine di realizzare quanto meno l'ascensore, a servizio del primo e secondo piano, per le finalità di cui all'art. 79, in quanto l'impianto non è stato progettato con questa finalità, bensì al servizio di uno stabile di tre piani - quattro fuori terra - per il quale la legge prevede obbligatoriamente l'ascensore. Dalla infondatezza del sesto motivo discende altresì la sopravvenuta improcedibilità dell'appello incidentale per difetto di interesse. La particolarità e complessità della vicenda in fatto induce il Collegio a ritenere sussistenti giusti motivi per disporre la compensazione integrale delle spese di lite del grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, così provvede: - respinge l'appello principale; - dichiara improcedibile l'appello incidentale: - compensa le spese di lite del grado. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: 43- Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere Silvia Martino - Consigliere Luca Monteferrante - Consigliere, Estensore Ofelia Fratamico - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: LORENZO ORILIA Presidente MAURO MOCCI Consigliere GIUSEPPE GRASSO Cons. Rel. LUCA VARRONE Consigliere STEFANO OLIVA Consigliere Oggetto: DISTANZE Ud. 18/06/2024 PU R.G.N. 11236/2019 ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 11236/2019 R.G. proposto da: EURODUEMILA DI MARAGLINO ANTONELLA & C. S.N.C. (già di Cardellicchio Rosa & c.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIORGIO VASARI 4, presso lo studio dell’avvocato SIMONA CENSI, rappresentata e difesa dall’avvocato NICOLA GRIPPA giusta procura in atti; – ricorrente – contro MURCIANO ELISABETTA, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL POPOLO 18, presso lo studio dell’avvocato DANIELE D’ELIA, che la rappresenta e difende giusta procura in atti; – controricorrente – avverso la sentenza n. 75/2019 della CORTE D'APPELLO di LECCE, SEZIONE DISTACCATA DI TARANTO, depositata in data 31/01/2019; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/06/2024 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO; Udito il P.M. in persona del Sostituto procuratore Generale ROSA MARIA DELL’ERBA, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso e per il rigetto dei restanti. Uditi l’avvocato NICOLA GRIPPA per il ricorrente e l’avvocato DANIELE D’ELIA per il controricorrente. Fatti causa 1. Elisabetta Murciano citò in giudizio la s.n.c. Euroduemila di Maraglino Antonella e C. chiedendo che la convenuta fosse condannata a demolire un edificio limitrofo a quello dell’attrice, a causa del mancato rispetto della distanza legale di dieci metri tra pareti finestrate e di cinque metri dalle costruzioni (parte prospiciente la rampa d’accesso al garage del piano seminterrato e parte prospiciente la “Gravina di S. Marco”), nonché alla messa in opera del giunto tecnico; inoltre chiese condannarsi la convenuta a risarcire il danno procurato al proprio immobile, rimasto lesionato. 2. Il Tribunale, in accoglimento delle domande, dichiarata la violazione delle distanze legali tra le costruzioni, condannò la convenuta alla demolizione e a risarcire il danno, quantificato in € 4.039,00. 3. La Corte d’appello di Lecce, Sezione Distaccata di Taranto, rigettò l’impugnazione di Euroduemila, in sintesi e per quel che ancora rileva, argomentando come appresso. - Con il primo motivo l’appellante aveva criticato la sentenza di primo grado per avere recepito acriticamente le conclusioni del c.t.u., così violando e/o falsamente applicando l’art. 9 d.m. n. 1444/1968, il quale aveva ipotizzato che le finestre, sebbene murate, avrebbero potuto essere riaperte in futuro, oltre ad avere affermato che la misurazione della distanza tra fabbricati andava effettuata in maniera radiale, invece che lineare, così finendo per giudicare non rispettata la distanza di legge anche per quella parte dei fabbricati che non si fronteggiavano. La Corte d’appello supera la censura affermando essere sufficiente che i fabbricati si fronteggino in parte, senza che rilevi che una sola delle due costruzioni sia finestrata; l’occlusione delle finestre dell’attrice non appariva superare la provvisorietà. La distanza di dieci metri di cui al d.m. citato << va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti frontistanti e a tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno >> . - Con il secondo motivo l’appellante aveva sostenuto che, avuto riguardo all’art. 3 delle N.T.A. del Comune di Massafra, il Tribunale aveva sbagliato a reputare che la rampa d’accesso al seminterrato risultasse posta alla distanza irregolare di m. 3,30 dal muro attoreo, invece che a quella di m. 5, non avendo considerato che una tale distanza andava rispettata quando non si intenda o non si possa costruire sul confine o in aderenza e la parte del fabbricato di Euroduemila prospiciente la Gravina di San Marco era da reputarsi seminterrato e che tra il muro della rampa e quello della Murciano non operava la regola sulle distanze. La Corte d’appello ha disatteso la censura evidenziando che la rampa del garage deve considerarsi fabbricato assoggettato al rispetto delle distanze, poiché << è in aderenza solo per la parte elevata e coperta e non anche per quella scoperta del garage dove non insiste alcuna costruzione (…) tra il detto muro, in cui risultano aperte due aperture lucifere sulla rampa, e quello di contenimento della scala esterna di accesso al primo piano della Murciano andava mantenuta la distanza minima di mt. cinque dal confine con la proprietà di quest’ultima ai sensi dell’art. 3 delle NTA del P.d.F. del Comune di Massafra (…) Lo stesso dicasi per la parte retrostante dell’immobile Euroduemila prospiciente la Gravina S. Marco, adibita a terrazza esterna (…) in quanto anche tale parte del fabbricato è tenuta a rispettare la distanza minima di mt. cinque perché non costruita in aderenza, a nulla rilevano che la stessa sia da considerare seminterrato nella parte prospiciente via Colonnello Scarano >> . - Con il terzo motivo l’appellante, deduce violazione o falsa applicazione dell’O.P.C.M. n. 3274/2003 e della l. n. 1086/1971, lamentando che il Tribunale aveva assegnato alla nozione di “giunto tecnico” il significato di un’opera fisica che distanziava le costruzioni, trattandosi, invece di uno spazio di discontinuità prescritto dalla normativa antisismica, al fine di permettere agli edifici, in caso di eventi tellurici, di non scaricarsi reciprocamente il movimento indotto. Il distanziamento risultava segnato da un divisore in polistirolo. Inoltre un tale obbligo al tempo dell’edificazione non era vigente, poiché il fabbricato poteva essere costruito in deroga alla normativa di settore nel periodo transitorio di diciotto mesi dall’entrata in vigore dell’O.P.C.M. n. 3274/2003, cioè fino all’8/11/2014, previo denuncia all’Ufficio regionale (effettuata il 5/11/2004), ai sensi dell’art. 4, l. n. 1068/1971, in data antecedente l’entrata in vigore del d.m. 14/9/2005. La Corte d’appello ha rigettato la censura sulla base di due argomenti: il Tribunale aveva spiegato che per giunto tecnico doveva intendersi l’interspazio fra due costruzioni e non la realizzazione di un manufatto; l’inizio dei lavori aveva avuto decorrenza dal 20/1/2006; i lavori, pur autorizzati in precedenza, ma iniziati successivamente, dovevano rispettare la normativa antisismica di cui al d.m. 16/1/1996, ai sensi dell’art. 14 della l. n. 167/2005, mentre quelli iniziati in data antecedente al 23/10/2005, poiché avviati sotto la vigenza del regime derogatorio di cui all’O.P.C.M. n. 3274/2003, potevano non applicare la disciplina antisismica. Nella specie non risultava essere stato realizzato un giunto tecnico conforme alla normativa vigente al momento della costruzione, in quanto la separazione fra i fabbricati avrebbe dovuto interessare dalle fondamenta al torrino dell’edificio. Con il quarto motivo l’appellante aveva lamentato che le cavillature presenti sul muro di confine erano preesistenti. La Corte d’appello, sulla base della c.t.u. ha disatteso la doglianza. 4. Euroduemila di Maraglino Antonella s.n.c. ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria. L’intimata ha resistito con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria. 5. All’esito dell’adunanza camerale del 23/1/2024 il processo è stato rimesso in pubblica udienza. All’approssimarsi di questa la ricorrente ha depositato nuova memoria e il Procuratore Generale in persona del Sostituto Rosa Maria Dell’Erba, ha rassegnato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto accogliersi il primo motivo del ricorso. Ragioni della decisione 6. Con il primo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 9 d.m. n. 1444/1968, 873, 877, 878, 879 cod. civ., 3 N.T.A. del P.d.F. del Comune di Massafra. Questa la sintesi delle mosse censure: - i fabbricati delle parti in causa erano posti in aderenza, salvo che per la << parete obliqua del fabbricato della Murciano, in avanzamento verso la strada, sulla quale vi sono due finestre sovrapposte >> , e, pertanto non potevano considerarsi frontistanti; - il c.t.u. aveva errato a misurare la distanza “a raggio”, modalità riservata alla sola misurazione della distanza dalle vedute e non per quella tra fabbricati e, pertanto, << la perpendicolare alla parete finestrata della Murciano non incontra in nessun punto la parete dell’Euroduemila snc (…) sicché va esclusa “in radice” la pretesa violazione delle distanze tra fabbricati >> ; - la Corte di merito, ignorando l’art. 3 delle norme locali, aveva reputato dovesse valere la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di cui al citato art. 9, affermando erroneamente che i due fabbricati si fronteggiavano sia pure parzialmente, assumendo doversi effettuare la misurazione con metodo radiale, invece che lineare; - non si era tenuto conto << che le costruzioni delle parti in causa sono costruite in confine con la strada pubblica (…) sicché non andavano applicate le norme sulle distanze, come previsto dall’art. 879 >> ; - aveva sbagliato il Giudice d’appello a reputare che andasse tutelata una finestra del tutto coperta dalla scala edificata dalla controparte, apoditticamente ipotizzando che in futuro la Murciano avrebbe potuto rimuovere la scala e pretendere d’usufruire della finestra, non vedendo che la ricorrente era tenuta a rispettare la costruzione della controparte siccome si presentava al momento della propria edificazione, posta al confine dell’avversa costruzione, includente la scala; - non era stato applicato correttamente il citato art. 3 a riguardo alla rampa del garage e ai muretti che lo delimitavano: la scala era completamente interrata e risultava delimitata da due parapetti, posti a protezione del transito pedonale; sulla facciata della rampa si aprivano due luci; la sentenza aveva erroneamente affermato che il parapetto doveva essere mantenuto alla distanza di cinque metri in applicazione del precitato art. 3, ciò in violazione dell’art. 878 cod. civ., trattandosi di un muro isolato di altezza non superiore a tre metri; - la decisione era erronea anche quanto al disposto arretramento della terrazza retrostante l’edificio della ricorrente << nella parte in cui fuoriesce, rispetto al fabbricato Murciano di circa 60 cm. e per un’altezza di m. 2,86, poiché in violazione dell’art. 3 delle N.T.A., 873 e 877 cod. civ. >> , stante che l’immobile era stato edificato sul confine e, quindi, anche il prolungamento costituito dalla terrazza, ciò nel rispetto del principio di prevenzione. 6. 1. Il motivo è fondato, sia pure per una diversa e assorbente ragione. La sentenza, senza darne compiuta spiegazione, applica due distinte e diverse normative: a pag. 6, con riferimento alla distanza tra il fabbricato di Euroduemila e la porzione del fabbricato di Murciano che forma un angolo di 20 gradi lato via Scarano, richiama l’art. 9 del d. m. n. 1444/1968, mentre a pag. 7, con riferimento al muro che dà sulla rampa del garage, sempre dal lato di via Scarano e con riferimento alla parte del fabbricato retrostante prospiciente la Gravina San Marco, richiama le norme tecniche di attuazione del piano di fabbricazione del Comune di Massafra. La normativa applicabile non può che essere una sola e l’individuazione di essa spetta al Giudice del merito in base al principio “iura novit curia”. I metodi di misurazione dipendono dalla normativa che viene in rilievo. In materia di distanze tra fabbricati l'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che prescrive una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantesi sia finestrata e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa rispetto all'altro (Sez. 2, n. 24471, 01/10/2019, Rv. 655256 – 01). Ed ancora: la distanza minima di dieci metri tra le costruzioni stabilita dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 deve osservarsi in modo assoluto, essendo "ratio" della norma non la tutela della riservatezza, bensì quella della salubrità e sicurezza. Detta norma va, pertanto, applicata indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento (Sez. 2, n. 24076, 03/10/2018, Rv. 650635 – 01; si vedano pure Cass. nn. 12129/2018, 8209/2023). Le norme dei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze tra le costruzioni, e di esse dal confine, sono volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive tra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la densità edificatoria in relazione all'ambiente, sicché, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che le costruzioni si fronteggino e dall'esistenza di un dislivello tra i fondi su cui esse insistono (Sez. 2, n. 3854, 18/02/2014, Rv. 629629 – 01; conf., fra le tante, Cass. nn. 22054/2018, 120/2024). 6. 2. È appena il caso di soggiungere che l’esposta soluzione non costituisce “terza via”, in ordine alla quale sarebbe occorso interpellare le parti ai sensi dell’art. 101, co. 2, cod. proc. civ. Invero, laddove la vicenda giudiziaria si risolva sulla base di valutazione squisitamente giuridica, non implicante lo scrutinio di questioni di fatto o miste, la decisione giudiziale non giunge inaspettata per la basilare ragione che di essa questione giuridica le parti hanno piena conoscenza sin dall’inizio e in relazione a essa possono esercitare le facoltà illustrative e argomentative che reputino opportune (cfr., ex multis, Cass. nn. 11453/2014, 24312/2017, 19278/2020). E certamente è di puro diritto la questione che involge la ricerca della disciplina normativa regolante la fattispecie. 7. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 32 l. n. 64/1974, 5, co. 2-bis (introdotto dall’art. 14-undecies l. n. 168/2005), 20, co. 2 d.l. n. 248/2007, nonché del d.m. 14/9/2005. Rileva in particolare la società ricorrente che: la l. n. 64/1974 stabiliva prescrizioni particolari per le costruzioni in zone sismiche, rinviando alle norme tecniche ministeriali e fino all’emanazione ed entrata in vigore di quest’ultime continuavano a trovare applicazione le disposizioni di cui alla l. n. 1684/1962. L’art. 5, co. 2-bis, d.l. n. 136/2004, convertito nella l. n. 186/2004, aveva previsto per un periodo di diciotto mesi dalla sua entrata in vigore, la possibilità di applicare, in alternativa alla disciplina anteriore, quella di cui alle ll. nn. 1086/1971 e 64/1974; termine poi prorogato da norme successive fino al 30/6/2009. Entrate in vigore le norme tecniche di cui al d.m. 14/9/2005 (G.U. 23/9/2005) dal 23/10/2005, la disciplina in deroga consentiva di continuare ad applicare la normativa previgente e ciò fino al 30/6/2009. Poiché il titolo abilitativo era antecedente al 23/10/2005 e l’inizio dei lavori risaliva al 20/1/2006, l’esponente aveva facoltà d’applicare la normativa antecedente alle leggi nn. 1086/1971 e 64/1974 e, quindi, la progettazione poteva non tenere conto del d.m. 14/9/2005. 7. 1. Il motivo è fondato. Come si è riportato, la sentenza (v. pag. 8) ha accertato in punto di fatto che i lavori iniziarono ex novo il 20/1/2006 in forza di un nuovo titolo abilitativo (il permesso di costruire n. 128/2015). Ha, inoltre richiamato, in conformità, la sentenza del T.A.R. della Regione Puglia, Sez. di Lecce, n. 131/2018. Tuttavia, essa non ha correttamente individuato la disciplina antisismica applicabile, essendosi limitata (v. pagg. 8 e ss.) a riportare i pareri dei consulenti tecnici (ing. Belloni Mellini e ing. De Pascalis), i quali coadiuvano il giudice per gli accertamenti fattuali e tecnici, ma non possono di certo prenderne il posto nella sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, prevista dal legislatore. L’individuato difetto non consente a questa Corte di conoscere quale sia la scelta motivata fatta propria dalla Corte locale e, in conseguenza, di valutare la conformità a diritto della realizzazione del giunto tecnico. 8. Con il terzo motivo, posto in via di subordine rispetto al secondo, si denuncia violazione e falsa applicazione del d.m. 14/9/2005 e dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274/2003, sostenendosi non essere necessario che il giunto tecnico corra dalle fondamenta fino alla sommità del torrino dell’immobile della Murciano. 8.1. L’esposto motivo resta logicamente assorbito in senso proprio dall’accoglimento del secondo. 9. Con il quarto motivo si denuncia nullità della sentenza per violazione degli artt. 111 Cost. e 132, n. 4, cod. proc. civ. Deduce la ricorrente che la sentenza, in assenza assoluta di motivazione, o con motivazione apparente, aveva confermato la liquidazione del danno effettuata dal Tribunale, senza in alcun modo valutare le conclusioni del c.t.u., il quale, alle pagg. da 36 a 41 della sua relazione aveva escluso che una parte delle lesioni lamentate dall’attrice potessero addebitarsi ai lavori di costruzione dell’edificio della ricorrente. 9. 1. Il motivo è fondato sotto il profilo della motivazione apparente. Come chiarito anche dalle SSUU il vizio di motivazione apparente ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. tra le tante, Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 2023; Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016 Rv. 641526; Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022 Rv. 664061; Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019 Rv. 654145). Nel caso in esame, deve rilevarsi l’insanabile vuoto motivazionale della sentenza, la quale ha affermato che sulla base delle risultanze della c.t.u. doveva reputarsi sussistere il nesso di causalità fra le lesioni sul muro di confine del fabbricato della Murciano e le opere edili effettuate da Euroduemila. Per contro, riporta la ricorrente, con sufficiente specificità, che il consulente tecnico aveva escluso, alle pagg. da 36 a 41 della sua relazione, la connessione eziologica con i lavori di una parte delle cavillature riscontrate nell’edificio della Murciano. Come si vede, il vizio si concretizza nel fatto che l’ordito argomentativo della sentenza si risolve nell’apparenza motivazionale (benché graficamente esistente esso non rende percepibile il fondamento della decisione, perché recante una spiegazione obiettivamente inidonea a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture. Per vero l’aver affermato di condividere le risultanze della c.t.u., tuttavia giungendo a diversa conclusione, senza dare spiegazione alcuna del diverso opinamento, non può che integrare una mera parvenza di motivazione. 10. In conclusione, per le ragioni esposte la sentenza deve essere cassata con rinvio. Il Giudice del rinvio (che si individua nella stessa Corte, ma in diversa composizione) regolerà anche le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. accoglie il primo, il secondo e il quarto motivo del ricorso e dichiara assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione, anche per la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità Così deciso nella camera di consiglio del 24 giugno2024 Il Consigliere est. Il Presidente Giuseppe Grasso Lorenzo Orilia

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7453 del 2021, proposto da Gi. Ve., rappresentato e difeso dall'avvocato Lu. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis) (MO), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ga. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Ca. Mi., rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Lu. Della Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna, Sezione Seconda, n. 167 del 1° marzo 2021. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e del sig. Ca. Mi.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 marzo 2024 il Cons. Roberto Caponigro; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Al Comune di (omissis) (Provincia di Modena), in data 27 aprile 2015, è pervenuta, da parte del Corpo Polizia Municipale, Nucleo Edilizia Ambiente, dell'Unione Terre di Castelli, una segnalazione di presunta violazione urbanistico - edilizia, relativamente a "intervento di nuova costruzione in difformità sia dal titolo edilizio presentato in variante che da quanto disposto e previsto dalla L. 122 del 24/03/89 (Legge Tognoli) in relazione al mancato interramento della struttura ed in assenza di deposito per le opere in cemento armato in quanto variate", relativamente all'edificio sito in via (omissis). Il signor Mi., proprietario dell'area, ha presentato richiesta di scia in sanatoria in data 22 luglio 2015. L'Amministrazione comunale, con atto del 5 febbraio 2016, ha trasmesso ai signori Ca. Mi. e Gi. Ve. la relazione tecnica di valutazione dell'Ufficio Tecnico, Settore Urbanistica, Edilizia Privata e Ambiente nonché la conclusione del procedimento avviato con la segnalazione del 27 aprile 2015, nel senso che le opere realizzate possono ritenersi conformi alla normativa vigente, per cui è stata accolta la scia in sanatoria, con prescrizione dell'interramento dell'autorimessa, come indicato negli elaborati grafici, ed aumento del livello del terreno come era in origine, nel rispetto della Legge Tognoli. Il sig. Ve., proprietario di un immobile posto a confine con il fabbricato di proprietà Mi., ha impugnato tale atto del 5 febbraio 2016, unitamente all'autorizzazione sismica in sanatoria del 24 dicembre 2015, dinanzi al Tar per l'Emilia Romagna che, con la sentenza della Sezione Seconda n. 167 del 1° marzo 2021, ha dichiarato improcedibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. Il soccombente ha interposto il presente appello, articolando i seguenti motivi: Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione di legge per errata interpretazione e/o applicazione della legge n. 122 del 1989 (c.d. legge Tognoli). Violazione di legge per errata interpretazione e applicazione della legge n. 765 del 1967 (c.d. legge ponte). La dichiarata improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione non sarebbe legittima, in quanto l'ordinanza n. 39/2018, per stessa ammissione dell'amministrazione comunale, non è satisfattiva delle richieste del ricorrente. L'ordinanza di demolizione n. 39 del 2018 riguarderebbe esclusivamente la porzione edificata sulla proprietà del sig. Ve., ma nulla direbbe in merito al rilascio della scia in sanatoria del 5 febbraio 2016 che sarebbe stata concessa in violazione delle normative vigenti. L'illegittimità della dichiarazione di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse renderebbe illegittimo anche il diniego del risarcimento del danno. La domanda risarcitoria era stata proposta nel ricorso introduttivo del giudizio e nel corso del processo ne sarebbe stata dimostrata la relativa quantificazione. Stante l'insussistenza dell'improcedibilità per carenza d'interesse, l'appellante ha riproposto le censure di merito già dedotte nel giudizio di primo grado, innanzitutto evidenziando quali siano le circostanze, afferenti l'intervento edificatorio realizzato sulla proprietà Mi. - Ba., che sono oggetto delle doglianze da parte del ricorrente, poiché incidenti direttamente sulla proprietà del medesimo e come tali costituenti le censure di legittimità alla sanatoria rilasciata dal Comune di (omissis): 1) insussistenza dei requisiti per l'applicazione della legge Tognoli e norme del P.R.G. e ora P.S.C. per la realizzazione del garage interrato n. 1; 2) insanabilità del garage identificato nei titoli abilitativi con l'autorimessa n. 2 (si trattava di una tettoia in legno a copertura di una cisterna successivamente trasformata e sanata in garage in cemento armato in assenza di deposito strutturale sostenendo che non fossero opere strutturali); 3) la mancanza del parere della Commissione Qualità Architettonica e Paesaggio per la sanatoria (l'unico parere è stato rilasciato nel 2008 prima dell'intervento edificatorio PdC 32/2008 e PRG come parere preventivo e poi più nulla con strumento PSC); 4) l'utilizzazione impropria e strumentale di una scrittura privata del dante causa del signor Ve. per legittimare la deroga alle distanze regolatrici e per far coincidere l'allineamento del muro di confine preesistente (ante intervento edificatorio, poi oggetto di sanatoria) con l'attuale collocazione del muro di confine, difforme rispetto all'origine, che, a ben vedere, prevede la costruzione in aderenza di un secondo muro, mentre in realtà ne è stato realizzato uno solo; 5) omesso rispetto delle distanze regolamentari dai confini con la proprietà Ve.. Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione di legge per errata interpretazione e/o applicazione della legge n. 122/1989 (c.d. Legge Tognoli). Invocando l'applicazione della L. n. 122/1989 (c.d. legge Tognoli), i signori Mi. avrebbero realizzato circa 150 mq di nuovi garage e trasformato lo spazio adibito a garage - sito all'interno dell'abitazione di loro proprietà - in tavernetta, cambiando anche la destinazione d'uso al fabbricato originale, da deposito ad abitazione. L'art. 9 si applicherebbe solo all'ipotesi di fabbricati già esistenti all'epoca dell'entrata in vigore della legge e non potrebbe riguardare le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi per i quali provvede, invece, il precedente art. 2, comma 2, della L. n. 122/1989, il quale, nel sostituire l'art. 41 sexies L. 17 agosto 1942 n. 1150, stabilisce l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc di costruzione. Tale assunto troverebbe la sua giustificazione nella considerazione che gli edifici costruiti dopo la legge Tognoli nascono già forniti di parcheggio per effetto della c.d. legge ponte. Ne conseguirebbe l'inapplicabilità, nella specie, del suddetto articolo 9 l.n. 122/1989, poiché il parcheggio in discorso verrebbe realizzato a servizio di un edificio assentito con titolo abilitativo del 2008, che già era fornito di locali ad uso autorimessa. Sempre con riferimento ai presupposti per applicare la legge Tognoli, sebbene nel caso di specie la stessa non sia applicabile, occorrerebbe considerare che i garage devono essere completamente interrati, laddove, nella fattispecie, il garage sarebbe stato realizzato al piano terra. L'avere imposto, ex post, in sede di sanatoria, che il garage sia ricoperto di terreno - e ad una quota superiore di ben 60 cm rispetto alla reale quota di campagna originaria, per farlo rientrare entro l'ambito operativo della legge Tognoli - non solo costituirebbe un evidente contrasto con la finalità propria della legge (costruire al di sotto della quota di campagna per evitare ulteriore consumo del suolo nei centri urbani), ma determinerebbe una evidente alterazione dello stato dei luoghi tale da delegittimare il titolo abilitativo in sanatoria. Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione di legge per errata interpretazione e applicazione della legge 6 agosto 1967 n. 765 (c.d. "legge-ponte"). La sanatoria del manufatto identificato nei titoli abilitativi come garage n. 2, sarebbe illegittima poiché rilasciata sulla base del presupposto che l'edificio sia stato realizzato in un periodo antecedente al 1967. Eccesso di potere, sotto altro profilo, per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione delle normative in materia di distanze legali disposte dalle norme di piano e dai regolamenti del comune di (omissis). L'amministrazione comunale, al fine di convalidare la deroga alle distanze regolamentari invocata dalla proprietà Mi., avrebbe assunto come valida ed efficace una scrittura privata datata 5 aprile 2015, in cui la dante causa del sig Ve. avrebbe autorizzato la edificazione di un manufatto oggetto di sanatoria in deroga alle distanze regolamentari (autorimessa n. 1). Ora, evidenziato che le convenzioni in deroga alle distanze previste dal codice, poiché arrecano una menomazione per l'immobile il cui proprietario avrebbe diritto alla distanza legale, concretano veri e propri atti costitutivi di servitù, e in quanto tali sono assoggettati alla forma scritta ad substantiam ex art. 1350 c.c. - cioè atto pubblico a pena di nullità - occorre rilevare che la scrittura privata fornita dai signori Mi. non potrebbe comunque assurgere al rango di atto costitutivo di una servitù (non v'è una data certa della sua sottoscrizione né una certificazione dell'autenticità della firma né l'ubicazione degli immobili); inoltre, se il garage fosse stato interrato non sarebbe servita la sottoscrizione di una scrittura in deroga alle distanze legali. Le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell'interesse generale al mantenimento di un prefigurato modello urbanistico, non tollererebbero deroghe convenzionali da parte dei privati; tali deroghe, se concordate, sarebbero invalide, né tale invalidità potrebbe venire meno per l'avvenuto rilascio di un titolo edilizio, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli strumenti urbanistici. Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione delle normative in materia di distanze legali. Violazione dell'art. 97 della Costituzione. Prima della realizzazione dell'abuso edilizio oggetto della sanatoria il confine era raffigurato come una linea retta, mentre attualmente, ad abuso realizzato, non è più lineare presentando un dente di circa 50 cm, come sostenuto dal verbale dei vigili urbani e un disallineamento che parte da 39 cm. fino a 109 cm. come rilevato dal CTU in sede di ATP per rilevare che lo sconfinamento è evidente. Dalla disamina degli elaborati grafici di variante/sanatoria presentati dai signori Mi., emergerebbe che i confini della proprietà Ve. non sarebbero stati rispettati (sono state redatte tavole grafiche che erroneamente rappresentano opere mai realizzate al sol fine di rendere accettabile la presenza di un addentellato che modifica la linea di confine preesistente), come anche la realizzazione dell'autorimessa indicata con il n. 2 inciderebbe sulla linea di confine preesistente violandola. La lesione alle distanze regolamentari, invocata dal ricorrente, sussisterebbe poiché il dente originato dalla creazione di una difforme linea di confine rispetto alla situazione preesistente, invade la proprietà Ve. per circa 50/60 cm, secondo i rilievi dei vigili urbani, mente i rilievi del CTU indicano uno sconfinamento di 39 cm e 109 cm; ciò avviene con una traslazione del muro di confine tale da inglobare entro la proprietà Mi. un'area del ricorrente. Al proprietario confinante che lamenti la violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, competerebbe sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l'effetto, certo ed indiscutibile, dell'abusiva impostazione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria. L'appellante, per mero tuziorismo difensivo, ha riportato anche le controdeduzioni alle argomentazioni dedotte dalle difese avversarie nell'ambito del giudizio di primo grado ed afferenti il merito del contenzioso. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio svolgendo analitiche difese sia in rito che nel merito, ed ha formulato le seguenti conclusioni: In via principale: rigettare l'appello proposto per essere lo stesso infondato sia in fatto che in diritto, per tutti i motivi dedotti, confermando integralmente la sentenza del TAR di Bologna n. 176/2021 pubblicata in data 01/03/2021. In via subordinata: nell'ipotesi in cui il Collegio accolga il presente appello e riformi l'impugnata sentenza, accertare e dichiarare la tardività della impugnazione della SCIA in sanatoria del 22/07/2015 prot. n. 5432, dell'autorizzazione sismica in sanatoria del 24/12/2015 prot. n. 8764 rilasciata dall'ufficio sismica. In via ulteriormente subordinata: accertare e dichiarare l'inammissibilità della originaria impugnazione della SCIA in sanatoria del 22/07/2015 prot. n. 5432 ai sensi dell'art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/90, per la quale poteva essere esperita esclusivamente l'azione di cui all'articolo 31, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. In via estremamente subordinata: nel merito rigettare l'appello proposto per essere lo stesso infondato sia in fatto che in diritto, per tutti i motivi dedotti, confermando la legittimità degli atti impugnati, in accoglimento dei motivi esposti. In tutti i casi: accertare e dichiarare che l'appellante non ha alcun diritto al risarcimento del danno per effetto dei provvedimenti impugnati. Il sig. Ca. Mi., in rito, ha formulato una serie di eccezioni di inammissibilità . In particolare: - la scia in sanatoria presentata in data 22 luglio 2015 e la relazione tecnica prot. n. 734 del 5 febbraio 2016, così come la nota di trasmissione prot. 735 di pari data, non costituirebbero provvedimenti amministrativi impugnabili; - l'impugnazione della scia presentata in data 22 luglio 2015, nello specifico, sarebbe inammissibile, in quanto, ai sensi dell'art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, la scia non sarebbe un provvedimento tacito direttamente impugnabile; - tutte le censure avrebbero ad oggetto interventi edilizi previsti e autorizzati dal permesso di costruire prot. n. 6415 rilasciato in data 24 settembre 2008, per cui, non avendo impugnato il detto permesso di costruire, il sig. Ve. non avrebbe alcun interesse ad impugnare la scia in sanatoria (nonché gli atti del Comune in data 5 febbraio 2016) avente ad oggetto opere minori non costituenti varianti essenziali, atteso che, in caso di inoppugnabilità del permesso di costruire, non sarebbe autonomamente impugnabile il titolo edilizio in variante con il quale sono autorizzate variazioni non essenziali del progetto; - l'appellante non avrebbe dedotto, né provato, alcun pregiudizio derivante dalla realizzazione delle due autorimesse e della tavernetta e, soprattutto, dalla realizzazione dell'autorimessa n. 2, che si trova sul lato opposto rispetto al confine con la sua proprietà, con conseguente inammissibilità, anche sotto tale profilo, almeno dei primi due motivi di ricorso; - il sig. Ve., con istanza del 21 aprile 2017, ha chiesto al Comune di (omissis) l'immediato annullamento della scia, ma, nel termine di un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento, non ha esperito alcuna azione ex art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a.; - l'impugnazione dell'autorizzazione sismica sarebbe inammissibile, in quanto avverso detto atto l'appellante non ha proposto alcuna censura. Il sig. Mi., nel merito, ha analiticamente contestato la fondatezza delle doglianze contenute nel ricorso in appello. Le parti hanno prodotto altre analitiche memorie a sostegno delle rispettive difese. Il sig. Mi., in particolare, ha eccepito anche il difetto di interesse al ricorso di primo grado non essendo sufficiente il solo requisito della vicinitas. All'udienza pubblica del 21 marzo 2024, la causa è stata trattenuta per la decisione. 2. Il giudice di primo grado ha così motivato la declaratoria di improcedibilità del gravame per sopravvenuta carenza di interesse: "L'ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 aveva un contenuto satisfattorio degli interessi del ricorrente. Tale provvedimento accoglieva le richieste da lui formulate con la sopra richiamata nota del 21 giugno 2018. Alla data di adozione della sopra richiamata ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 si determinava pertanto la sopravvenuta carenza d'interesse al ricorso. Successivamente tale ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 veniva annullata dalla stessa amministrazione comunale con provvedimento in data 14 settembre 2018. Era dunque onere di parte ricorrente impugnare in giudizio il sopra richiamato provvedimento del 14 settembre 2018 di annullamento in autotutela dell'ordinanza n. 39/2018, ove tale provvedimento fosse ritenuto lesivo del proprio interesse alla demolizione delle opere costruite dal controinteressato. Il provvedimento del 14 settembre 2018 è un provvedimento produttivo di effetti giuridici novativi riguardo le determinazioni comunali circa l'abusività o meno delle costruzioni contestate da parte ricorrente, avendo ad oggetto l'annullamento dell'ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 Ne consegue che, non essendo stato impugnato in giudizio tale provvedimento del 14 settembre 2018, l'assetto di interessi sulla vicenda è definitivamente disciplinato da esso. Ne consegue altresì che il ricorso è divenuto improcedibile per sopravvenuta carenza d'interesse". 3. Il motivo con cui l'appellante ha contestato la statuizione di improcedibilità del ricorso è fondato. 3.1. Il sig. Ve. contesta che, invocando l'applicazione della legge n. 122 del 1989, i signori Mi. hanno realizzato circa 150 mq di nuovi garage (al piano terra) e trasformato lo spazio adibito a garage - sito all'interno dell'abitazione di loro proprietà - in tavernetta, cambiando la destinazione d'uso dell'immobile da deposito ad abitazione. Le doglianze proposte dall'interessato concernono: - la violazione dell'art. 9 della c.d. Legge Tognoli per la costruzione di una prima autorimessa (autorimessa 1); - la costruzione di altro garage (autorimessa 2) su immobile privo di titolo abilitativo in quanto edificato successivamente al 1967 e, comunque, rientrante nel centro storico, per cui necessitava della concessione edilizia; - la violazione delle distanze legali derivante dal posizionamento del muro di confine tra le due proprietà . Il Tar ha dichiarato improcedibile l'appello per sopravvenuta carenza di interesse essendo ora il rapporto disciplinato definitivamente dall'annullamento in autotutela dell'ordine di demolizione del 14 settembre 2018, provvedimento non impugnato. 3.2. La statuizione del giudice di primo grado non può essere condivisa. Con l'ordinanza di demolizione n. 39 del 6 luglio 2018, avente ad oggetto il ripristino di opere abusive relativamente al muro di confine sito in via (omissis), il Comune di (omissis) ha ingiunto ai signori Ca. Mi. ed An. Ba., in qualità di realizzatori dell'opera, di agire in modo tale da ripristinare la legalità violata, ai sensi dell'art. 13 della L.R. n. 23/04, attraverso la demolizione e il ripristino delle opere non conformi alle normative vigenti, pertanto mediante lo spostamento del tratto del muro di confine realizzato all'interno della proprietà Ve., pari ad un'area trapezoidale di 0,39 e 1,09 (basi) x 9,93 (altezza), di 7,35 mq. L'ordine demolitorio, successivamente annullato in sede di autotutela con provvedimento del 14 settembre 2018, è stato adottato, evidenziato che, in data 22 giugno 2018, è pervenuta una comunicazione, per conto del sig. Ve., con cui si richiama lo sconfinamento rilevato dal tecnico nominato dal Tribunale di Modena, relativamente all'edificio sito in via (omissis), con diffida ad immediata attivazione affinché si disponga l'ordine di ripristino dello stato dei luoghi nonché richiamata la relazione tecnica d'ufficio, redatta il 15 dicembre 2016, a firma del CTU, nella quale è stato definito lo sconfinamento del muro di confine all'interno della proprietà Ve., per un'area trapezoidale di 0,39 e 1,09 (basi) x 9,93 (altezza), pari ad un'area di 7,35 mq nonché richiamati anche i titoli edilizi relativi all'edificio di proprietà e al muro di confine, costituiti dal permesso di costruire prot. 6415 del 24 settembre 2008 e scia del 24 settembre 2012, annullata in autotutela in data 9 maggio 2015. Il provvedimento con cui l'Amministrazione comunale ha annullato, in autotutela, ai sensi dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l'ordinanza n. 39 del 6 luglio 2018, è stato adottato rilevato, tra l'altro, che, in relazione al manufatto oggetto dell'ordinanza di demolizione n. 39 del 2018, era stata depositata, oltre ai titoli citati nel detto atto, anche la scia in sanatoria del 22 luglio 2015 prot. n. 5432, per cui l'immobile non sarebbe privo di titolo abilitativo e considerato, tra l'altro che pende dinanzi al Tar per l'Emilia Romagna un ricorso presentato dal sig. Ve., con il quale è stato chiesto l'annullamento del provvedimento del Comune di (omissis) del 5 febbraio 2016 prot. 735 e prot. 734 (atti confermativi dell'efficacia della scia in sanatoria presentata in data 22 luglio 2015 prot. n. 5432 dal sig. Ca. Mi. ed anche dell'autorizzazione sismica in sanatoria del 24 dicembre 2015 prot. 8764 rilasciata dall'Ufficio sismica). In particolare, per quanto maggiormente interessa in questa sede, nella motivazione del provvedimento di autotutela è indicato "considerato che nel giudizio amministrativo promosso dal Geom. G. Ve. (TAR - Bologna RG n. 267/2016) risultano essere costituiti sia il Comune che il sig. Ca. Mi., pertanto la verifica della legittimità amministrativa, degli atti richiamati al punto precedente, sarà svolta nell'ambito del giudizio amministrativo, mentre rimane nella libera ed autonoma disponibilità delle parti private ogni diversa questione relativa alla controversia sui reciproci diritti che riguardano la sfera privatistica, azionabile avanti la giustizia ordinaria, come correttamente indicato da entrambe le parti private (sig. Ve. e sig. Mi.) nelle osservazioni/diffide già presentate" ed ancora "tenuto conto che le questioni poco prima esposte, nonché le altre alle stesse connesse e già espresse in precedenti atti e provvedimenti sempre relativi alla stessa fattispecie oggetto dell'ordinanza n. 39/2018, nonché la presenza di un contenzioso amministrativo in essere e di un suo pronunciamento in merito, impongono un esame più approfondito ed una più adeguata ponderazione dei presupposti di fatto e di diritto, al fine anche di evitare che l'esecuzione del provvedimento produca conseguenze pregiudizievoli". Dai descritti passaggi motivazionali emerge con evidenza che il provvedimento di annullamento in autotutela dell'ordinanza di demolizione n. 39/2018 non ha disciplinato nuovamente il rapporto, avendo espressamente evidenziato che "la verifica della legittimità " dell'atto del 5 febbraio 2016 "sarà svolta nell'ambito del giudizio amministrativo", sicché non può sussistere alcun dubbio sulla persistenza dell'interesse alla definizione del presente giudizio di appello, pur a seguito dell'adozione degli atti nel 2018 (ordine di demolizione e annullamento di autotutela). 4. Il provvedimento impugnato, del 5 febbraio 2016, ha trasmesso agli interessati la relazione tecnica di valutazione dell'Ufficio tecnico comunale, Settore urbanistica, edilizia privata ed ambiente che ha così concluso: "L'ufficio Tecnico del Comune di (omissis) ritiene che le opere realizzate possano ritenersi conformi alla normativa vigente, e pertanto ritiene di poter accogliere la scia in sanatoria, prescrivendo l'interramento dell'autorimessa come indicato negli elaborati grafici, pertanto aumentando il livello del terreno come era in origine, nel rispetto della Legge Tognoli. Vengono inoltre provvisoriamente accolte le autorizzazioni del precedente confinante e la dichiarazione di esistenza ante 1967 della seconda autorimessa (prima locale cisterna) fatto salvo eventuali diritti di terzi, o fatto salvo i risultati di eventuali tracciamenti di confini secondo le normative vigenti". Nella motivazione della relazione tecnica è espressamente indicato, nel punto n. 4 della "Ispezione immobile di nuova realizzazione ad uso di autorimessa", che "Non rientra nell'attività istruttoria del presente procedimento di abuso edilizio, il posizionamento del muro di confine tra le due proprietà, dato atto che il Comune rilascia i titoli edilizi "fatto salvo i diritti di terzi", e non entra in merito a discussioni relative a confini di proprietà (a meno che non venga prodotta una relazione da un tecnico terzo, che abbia provveduto al tracciamento dei confini con le procedure previste dalla normativa vigente, e abbia rilevato uno sconfinamento da parte di una delle due parti, procedura che non è stata effettuata dalle parti)". Parimenti, al punto 1 delle "Precisazioni relativamente alla relazione presentata dal Geom. Ve. Gi. in data 21/07/15", l'Ufficio tecnico ha ribadito, relativamente alle distanze dal confine, quanto indicato precedentemente, vale a dire che "il Comune rilascia i titoli edilizi "fatto salvo i diritti di terzi", e non entra in merito a discussioni relative a confini di proprietà, (a meno che non venga prodotta una relazione da un tecnico terzo, che abbia provveduto al tracciamento dei confini con le procedure previste dalla normativa vigente, e abbia rilevato uno sconfinamento da parte di una delle due parti, procedura che non è stata effettuata dalle parti)". Di talché, il provvedimento impugnato non ha preso posizione sul prospettato sconfinamento del muro nella proprietà Ve., sebbene in altre parti del testo abbia richiamato la dichiarazione del 5 aprile 2015, a firma della precedente confinante, secondo cui "il muro è stato realizzato nella posizione esatta in cui si trovava quello originario, e confermo di aver, a suo tempo, autorizzato verbalmente il sig. Mi. Ca. a costruire l'autorimessa a ridosso del muro, senza alcun vincolo di distanza". La relazione tecnica trasmessa ha peraltro evidenziato che "tale problema non sussiste in quanto il muro di confine risulta di altezza superiore ai 3 metri, pertanto da ciò che prevede il codice civile, (art. 878) "... tale manufatto non ha le caratteristiche del muro di confine (altezza max 3 m.) ma viene equiparato in tutto e per tutto a muri di fabbrica, ad una costruzione, e quindi deve rispettare le distanze legali per le costruzioni (3 metri ecc.). Quindi se tale opera originariamente è stata realizzata sul confine di proprietà, in accordo tra le due parti, ambedue le proprietà hanno diritto di costruire nuove opere in adiacenza fatti salvi eventuali diritti dovuti a luci e vedute; (identico al caso in cui un confinante realizza un immobile sul confine, e il vicino acquisisce il diritto di costruirvi in aderenza, fatte salve le eventuali aperture, luci ecc.). Si precisa inoltre che nel tratto dove il muro arretra, (dove è presente la deviazione), il codice civile prevede che "... il vicino può costruirvi in comunione o aderenza se mantiene una distanza massima di 1,5 metri dal confine...". Ne consegue che il provvedimento avversato del 5 febbraio 2016, pur recando precisazioni relative alla relazione presentata dal sig. Ve. il 21 luglio 2015, ha testualmente escluso che nell'attività istruttoria che ha dato luogo all'adozione dell'atto sia rientrato il posizionamento del muro di confine tra le due proprietà, per cui le doglianze proposte in relazione al dedotto spostamento del muro di confine, non avendo costituito oggetto dell'attività istruttoria che ha condotto all'adozione del provvedimento impugnato, devono ritenersi inammissibili. Ad ogni buon conto, le argomentazioni relative alla dichiarazione prodotta dal precedente confinante sono state ritenute irrilevanti, in quanto l'Amministrazione ha formulato osservazioni sulla applicabilità al caso di specie del disposto di cui all'art. 878 c.c., con conseguente non considerazione del muro di cinta per il computo della distanza di cui all'art. 873 c.c. e tali precisazioni non sono state censurate dalla parte. In definitiva, le doglianze relative al posizionamento del muro di confine ed alla violazione delle distanze legali non sono improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse, perché l'annullamento in autotutela dell'ordine di demolizione non è stato impugnato, ma sono ab origine inammissibili, come anche indicato a verbale, ai sensi dell'art. 73, comma 3, all'udienza pubblica del 21 marzo 2024, perché non hanno costituito oggetto dell'esame istruttorio che ha condotto all'adozione del provvedimento impugnato. 5. Parimenti inammissibili sono le doglianze proposte avverso la realizzazione dell'autorimessa n. 2, trasformata in tavernetta, in quanto, se la legittimazione ad agire è indubbia e discende alla vicinitas, l'interesse al ricorso non è stato dimostrato. L'Adunanza Plenaria n. 22 del 2021 ha affermato il seguente principio di diritto: "Nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l'autonomia tra la legittimazione e l'interesse al ricorso quali condizioni dell'azione, è necessario che il giudice accerti, anche d'ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo ed in automatico a dimostrare la sussistenza dell'interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall'atto impugnato". L'eccezione di inammissibilità è stata formulata dal controinteressato sig. Mi., il quale ha evidenziato come il sito sia dalla parte opposta rispetto alla proprietà Ve.. Tale circostanza non è stata smentita dalla parte, sicché deve ritenersi carente l'interesse alla proposizione delle relative doglianze. 6. Viceversa, le doglianze proposte avverso la realizzazione dell'autorimessa 1 sono ammissibili, in quanto, oltre alla legittimazione ad agire, data dalla vicinitas, sussiste la prova dell'interesse al ricorso, dato dal prospettato sconfinamento, consistito nel modificare la linea del preesistente muro di confine con la creazione di una rientranza per realizzare il nuovo locale ad uso garage. 6.1. Anche in tal caso, sovvengono gli ulteriori principi di diritto affermati nell'Adunanza Plenaria n. 22 del 2021, secondo cui: "L'interesse al ricorso correlato allo specifico pregiudizio derivante dall'intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio che si assume illegittimo può comunque ricavarsi dall'insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso; l'interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o la questione rilevata d'ufficio dal giudicante, nel rispetto dell'art. 73, comma 3, c.p.a. Nelle cause in cui si lamenti l'illegittimità del titolo autorizzatorio edilizio per contrasto con le norme sulle distanze tra le costruzioni imposte da leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, non solo la violazione della distanza legale con l'immobile confinante con quello del ricorrente, ma anche quella tra detto immobile e una terza costruzione può essere rilevante ai fini dell'accertamento dell'interesse al ricorso, tutte le volte in cui da tale violazione possa discendere con l'annullamento del titolo edilizio un effetto di ripristino concretamente utile, per il ricorrente, e non meramente emulativo". 6.2. Nel merito, le doglianze, incentrate sull'inosservanza della Legge Tognoli, si rivelano tuttavia infondate, anche perché è verosimile ritenere che il fabbricato sia preesistente al 1989. L'art. 9 della legge n. 122 del 1989 dispone che "I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti". L'art. 41-sexies, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, aggiunto dall'art. 17 della legge n. 765 del 1967 e, successivamente, sostituito dall'art. 2, comma 2, della legge n. 122 del 1989, stabilisce che "Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione". La relazione tecnica allegata al permesso di costruire n. 6415 del 24 settembre 2008, provvedimento non impugnato, è stata richiamata nello stesso atto di appello e, nella dettagliata descrizione dei lavori oggetto di intervento, ha specificato che le opere in progetto riguardano la "ristrutturazione" di un fabbricato, con cambio di destinazione d'uso da deposito ad ufficio ad uso prevalentemente residenziale; tra i lavori, inoltre, è prevista la realizzazione di 2 autorimesse coperte per complessivi sei posti auto ed anche la eliminazione della cisterna interrata. L'oggetto dell'istanza, infatti, ha riguardato la richiesta di permesso di costruire per realizzazione di autorimesse di pertinenza da realizzare ai sensi della legge n. 122 del 1989 e ristrutturazione con cambio di destinazione d'uso di fabbricato in via (omissis). Tali interventi non possono più essere messi in discussione essendosi evidentemente consolidato il permesso di costruire del 2008. Tale permesso, inoltre, trattandosi di ristrutturazione e non di nuova costruzione, riguarda un fabbricato già esistente e non un nuovo fabbricato, per cui, in primo luogo, in assenza di ulteriori elementi sulla collocazione temporale della realizzazione del manufatto, deve ritenersi applicabile l'art. 9 della L. 122 del 1989, che, come descritto, da un lato, consente il non interramento, dall'altro, consente la realizzabilità dei garage anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. In ogni caso, l'intervento appare compatibile con l'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942. Peraltro, occorre rilevare che il provvedimento del 5 febbraio 2016 ha prescritto l'interramento dell'autorimessa, come indicato negli elaborati grafici, aumentando il livello del terreno "come era in origine", nel rispetto della legge Tognoli. Ne consegue che nessun nuovo interramento è stato previsto, ma è stato imposto il ripristino del livello del terreno iniziale. 7. L'impugnativa dell'autorizzazione sismica in sanatoria del 24 dicembre 2015 è inammissibile, in quanto nessuna censura è stata specificamente dedotta avverso la stessa. 8. Analogamente, la mancanza del parere della Commissione Qualità Architettonica e Paesaggio per la sanatoria, pur enunciata all'inizio dell'atto di appello, non è assistita da ulteriori censure e comunque la contestazione è inammissibile per il c.d. divieto dei nova in appello sancito dall'art. 104 c.p.a., in quanto il motivo d'impugnativa non è stato formulato in primo grado. 9. Le doglianze afferenti la domanda risarcitoria devono essere conseguentemente respinte, in assenza dell'elemento costitutivo fondamentale dell'illecito aquiliano della pubblica amministrazione, vale a dire l'accertamento dell'illegittimità dell'azione amministrativa in ipotesi causativa del danno di cui è chiesto il risarcimento. 10. In conclusione, sulla base di tutto quanto esposto, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado deve essere dichiarato in parte inammissibile (per quanto attiene alle doglianze sul prospettato sconfinamento del muro di confine ed alle doglianze relative alla trasformazione dell'autorimessa 2 in tavernetta) ed in parte deve essere respinto (per quanto attiene alle doglianze relative alla realizzazione dell'autorimessa 1). 11. Va da sé che, in relazione alle molteplici specificazioni e puntualizzazioni delle doglianze contenute nel ricorso in appello e nelle successive memorie, nonché alle molteplici precisazioni contenute negli scritti delle controparti, il Collegio ha preso in considerazione, nella motivazione della presente sentenza, solo quelle ritenute astrattamente rilevanti ai fini della definizione del giudizio, per cui i profili eventualmente non menzionati si intendono ritenuti privi di sostanziale interesse. 12. Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza e, liquidate complessivamente in Euro 10.000,00 (diecimila/00), oltre accessori di legge, sono poste a carico dell'appellante sig. Ve. ed a favore, in parti uguali (ciascuno per Euro 5.000,00), del Comune di (omissis) e del controinteressato sig. Mi.. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe (R.G. n. 7453 del 2021), in riforma della sentenza impugnata, in parte dichiara inammissibile ed in parte respinge il ricorso proposto in primo grado. Condanna l'appellante sig. Ve. al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate complessivamente in Euro 10.000,00 (diecimila/00), oltre accessori di legge, in favore, in parti uguali (ciascuno per Euro 5.000,00), del Comune di (omissis) e del controinteressato sig. Mi.. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 21 marzo 2024, con l'intervento dei magistrati: Carmine Volpe - Presidente Roberto Caponigro - Consigliere, Estensore Lorenzo Cordà - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Thomas Mathà - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI NAPOLI sesta sezione civile Il Giudice, dott. (...) ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al N.R.G. (...)/2020 avente ad oggetto: giudizio di merito a seguito di giudizio possessorio, vertente TRA (...) nato a (...) l'(...), c.f. (...), e (...) nata a (...) il (...), c.f. (...), entrambi elettivamente domiciliat (...), presso lo studio dell'avv. (...) c.f. (...), che li rappresenta e difende, indirizzo di posta elettronica: (...), Attori E (...) (cod. fisc. (...)), nata a (...)# il (...) ed ivi residente (...), elettivamente domiciliat (...), presso lo studio degli avv.ti (...) (cod. fis. (...)) e (...) (cod. fisc. (...)) che la rappresentano e difendono, p.e.c.: (...) Convenuta Conclusioni: le parti concludevano come da note scritte con note ex art. 127 ter cpc in sostituzione dell'udienza del 1 dicembre 2023, da intendersi qui richiamate e trascritte. FATTO E MOTIVI DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso ex art. 703 c.p.c. depositato il 18 settembre 2020 e ritualmente notificato unitamente al decreto di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti, gli istanti, in epigrafe indicati, esponevano: a) che il sig. (...) era proprietario e possessore dal 2001 di un fabbricato per civile abitazione sito in (...) alla via (...) n. (...), cat. Fl.3 p.lla 105, sub 9; b) che la signora (...) era usufruttuaria dell'appartamento adiacente a quello del (...) cat. Fl.3, p.lla 105, sub 8, il cui nudo proprietario era (...) c) che entrambi gli immobili sub a e b, facenti parte del più ampio complesso "(...) Merlato", erano confinanti con la proprietà di (...) cat. Fl. 3, p.lla 61, sub 16, p.lla 476, sub 10; d) che nel corso di un intervento di trasformazione urbanistico edilizia sulla sua proprietà, la (...) adibiva il lastrico solare a terrazzo mediante la realizzazione di un parapetto e di una pavimentazione calpestabile nonché di una scala conducente a tale terrazzo con apertura di un vano di accesso; e) che sempre nello stesso contesto la (...) aveva realizzato una finestra ex novo a confine con la proprietà (...) con comodo affaccio in appiombo, obliquo e laterale sulla proprietà dei ricorrenti, nonché un soppalco interno all'appartamento. Ciò premesso, i ricorrenti denunziavano che la (...) aveva formato nuove vedute ed affacci con conseguenti creazione ex novo di una servitù e perdita di riservatezza, aveva violato le distanze legali, aveva compromesso la staticità delle loro abitazioni, aveva danneggiato i ricorrenti mediante immissioni di rumori molesti dal terrazzo, non essendovi alcuna opera di insonorizzazione. Pertanto, dedotta la ricorrenza di un'ipotesi di turbativa del possesso, chiedevano ex artt. 1168 e 1170 c.c. che venisse ordinato a (...) di ripristinare lo status quo ante e a cessare ogni turbativa del possesso degli attori. Si costituiva la convenuta, che affermava che i lavori eseguiti dalla (...) non avevano determinato l'apertura di nuove vedute, né la violazione di distanze legali e si erano in realtà limitati: 1) alla pavimentazione e recinzione con ringhiera in ferro del preesistente lastrico adiacente, terrazzo che, peraltro, oltre ad essere dotato di apposita rete supportata da paletti metallici installata sul parapetto e volta ad impedire l'affaccio verso la proprietà dei ricorrenti, nemmeno si poneva nella verticale della stessa; 2) alla realizzazione di un'apertura a confine con il complesso immobiliare adiacente, la quale non dà luogo ad alcuna veduta, siccome tagliata esattamente a metà dal soppalco realizzato all'interno, di modo da determinare due distinte luci, l'una posta immediatamente al di sotto del soppalco e l'altra al di sopra, in corrispondenza del piano di calpestio dello stesso. Negava, invero, la convenuta che la recinzione installata sul versante in cui il terrazzo confina con la proprietà dei ricorrenti consentisse una comoda prospectio utile all'esercizio di una veduta sul fondo altrui; negava, altresì, che la finestra antistante il lastrico condominiale consentisse alcuna possibilità di inspicere e prospicere sul fondo altrui. Ciò premesso, dedotta l'inapplicabilità della disciplina di cui al DM 1444/1968, dedotto che da sempre la convenuta godeva comunque di agevole possibilità di affaccio sulle confinanti proprietà dal ballatoio alla sommità della scala condominiale, dedotta l'assenza di pregiudizi alla staticità del fabbricato, comunque da far valere in via nunciatoria, chiedeva il rigetto della domanda. Con ordinanza del 28 settembre 2021 il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda. Con ricorso per la prosecuzione del giudizio di merito depositato il 25 novembre 2021 gli originari ricorrenti reiteravano le conclusioni di cui alla fase interdittale, precisamente: "1) - previa revoca dell'ordinanza resa il 28 settembre 2021, depositata e comunicata il 29 settembre 2021, riconoscersi e dichiararsi la illiceità del comportamento posto in essere dalla resistente (...) e di qualunque altra persona che abbia concorso sul piano morale e materiale alla consumazione dell'illecito, con condanna della stessa all'integrale ripristino dello stato dei luoghi, oltre al risarcimento dei danni, patrimoniali, non patrimoniali, morali e biologici subiti dagli attori nella misura che sarà accertata in corso di causa, eventualmente a mezzo di (...) nonché interessi legali; 2) - condannare la convenuta al pagamento di spese e compensi sia della fase sommaria che di merito con attribuzione al sottoscritto difensore antistatario". Anche in sede di merito resisteva alla domanda la (...) Il Tribunale osserva (...) costante orientamento della giurisprudenza, affinché sussista una veduta, a norma dell'art. 900 c.c., è necessario, oltre al requisito della inspectio, anche quello della prospectio sul fondo del vicino, dovendo detta apertura non solo consentire di vedere e guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, vale a dire di guardare non solo di fronte, ma anche obliquamente e lateralmente, così assoggettando il fondo alieno ad una visione mobile e globale. Ciò premesso, nella fase sommaria il Tribunale disponeva, in ragione della natura della maggior parte delle questioni discusse tra le parti, bisognevoli di apprezzamento mediante specifiche cognizioni di tipo tecnico, una CTU di tipo percipiente sulla scorta della documentazione in atti nonché di quella necessaria all'espletamento dell'incarico, per le verifiche e gli accertamenti di cui al seguente quesito: "(...) gli atti, sentite le parti ed i loro eventuali consulenti tecnici, visitati i luoghi ed espletata ogni altra opportuna indagine (eventualmente anche verso terzi, pubblici uffici, registri immobiliari): 1) descriva il CTU lo stato dei luoghi, provvedendo, se necessario, a redigere sommario schizzo planimetrico ed, in ogni caso, a trarre documentazione fotografica degli stessi; 2) accerti e descriva, quindi, le opere realizzate dalla parte convenuta e oggetto del ricorso attoreo; 3) accerti se da dette opere derivino le violazioni alla normativa vigente così come riportate in ricorso, ed in particolare a quella riferita alle distanze tra le costruzioni e le vedute, indicandone altresì i riferimenti normativi previsti in materia di distanze sia dalle norme del codice civile che dagli strumenti urbanistici vigenti al momento della realizzazione delle dette opere, acquisendo eventualmente presso gli (...) la detta normativa che dovrà essere allegata alla relazione; 4) in particolare verifichi se mediante i lavori di ristrutturazione la (...) abbia creato ex novo un'agevole possibilità di inspectio e prospectio in alienum, se abbia quindi realizzato un affaccio in appiombo, obliquo o laterale sulla proprietà dei ricorrenti in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza, confrontando altresì la situazione attuale con la situazione preesistente a detti lavori; 5) in caso di risposta affermativa al quesito accerti ancora le opere necessarie - ed il relativo onere economico - per l'eventuale eliminazione delle violazioni e per il ripristino dello stato dei luoghi conseguente alla accertata violazione, anche mediante computo metrico-estimativo; 6) tenti la conciliazione della lite e riferisca le posizioni delle parti e dei loro ctp in ordine alla proposta di soluzione conciliativa del ctu; 7) fornisca ogni altro utile elemento ai fini della decisione". Con ulteriore ordinanza del 19 gennaio 2021 veniva assegnato, su istanza di parte ricorrente, al ctu l'ulteriore incarico di verificare se "la realizzazione di opere incidenti sulle strutture portanti del compendio immobiliare della sig.ra (...) (in particolare, il soppalco) abbiano generato la compromissione della staticità dell'insieme e un pericolo concreto e attuale anche alle abitazioni dei ricorrenti". Il ctu designato, ing. (...) depositava tempestivamente il suo elaborato in data 5 agosto 2021, confermando in parte la ricostruzione di parte convenuta in ordine alla portata dei lavori di ristrutturazione eseguiti. In particolare, il ctu descriveva le opere realizzate dalla convenuta: 1) Realizzazione di un soppalco all'interno dell'ambiente voltato di dimensioni in pianta pari a ml 3.64 4.67.... realizzazione ...... di una scala che consente l'accesso al piano superiore. A detto piano si riscontra la presenza di un ambiente di altezza massima interna pari a ml 2.23 e di dimensioni pari a ml 2.70*2.27. Nella muratura perimetrale di detto ambiente, prospettante tra l'altro sulla aliena proprietà ricorrente, si riscontra la presenza di una finestra/vano luce con apertura a vasistas e ad anta e ribalta di dimensioni pari a ml 0.90*0.93 posta a quota calpestio e protetta esternamente da una grata in ferro e da zanzariera. Anche nell'ambiente posto al piano terra (sotto soppalco) si rinviene la presenza di una finestra/vano luce di dimensione pari a ml 0.96*0.54 e posta a ml 2.01 da terra; anche tale finestra/vano luce è protetto da grata metallica e zanzariera. Tali due aperture, allineate in verticale tra loro, costituiscono dal lato esterno un'unica apertura prospettante sull'alieno corpo di fabbrica in cui è inserita l'unità immobiliare di proprietà ricorrente; 2) Realizzazione di un abbaino che consente l'accesso - dall'interno dell'unità immobiliare - al terrazzo (ex lastrico), attualmente pavimentato, di dimensioni in pianta pari all'incirca a ml 13.40*4.15. Su tale terrazzo si è rinvenuta la presenza, lungo il lato ovest prospettante sull'adiacente e ribassato corpo di fabbrica in cui è inserita l'unità immobiliare di proprietà ricorrente, di un parapetto in muratura di altezza da terra pari a ml 0.97 sormontato da rete metallica di maglia pari a cm 4*6 alta complessivamente ml 0.97 e sostenuta da n. 4 piantoni verticali ad interasse di circa ml 1.27. Tale rete e relativo piantone risultano arretrati rispetto all'estensione del parapetto di circa 25 cm. Sul lato prospettante, invece, sulla (...) si registra la presenza di un piccolo "parapetto (...)" di altezza pari a circa cm 10 sormontato da ringhiera metallica di altezza pari a ml 0.75 (vedi foto n. 6-7-8-9-10 di seguito riportate). Ciò premesso, il ctu ravvisava che le aperture realizzate - per la loro conformazione ed ubicazione - non davano la possibilità di affacciarsi e guardare frontalmente, obliquamente o lateralmente nel fondo del vicino. Correttamente, quindi, l'apertura deve essere qualificata luce, rimanendo invero impedito l'esercizio di una visione mobile e globale sul fondo alieno ("luce irregolare" non rispettando i dettami previsti dall'art. 901 c.c.). (...) le indagini del ctu anche l'apertura dell'ambiente soppalco non consente un'agevole possibilità di prospectio essendo la stessa posta a quota calpestio. Non risultando oggetto di doglianza la luce irregolare, bensì solo la veduta, la domanda, così come articolata, va in parte qua rigettata. Si precisa, poi, che risulta estranea alla cognizione di questo giudice l'asserita illegittimità delle opere realizzato in ordine alla normativa antisismica o urbanistica : invero detta denunzia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato sotto l'aspetto formale dell'attività costruttiva, senza estendersi ai rapporti tra privati; l'aver eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sé la violazione di tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali e quindi il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione risponda oggettivamente a dette prescrizioni senza ledere alcun diritto del vicino (cfr. Cass. 7563/2006; 17286/2011; n. 20848/2013). A diversa conclusione deve addivenirsi per quanto concerne il terrazzo realizzato dalla convenuta. Invero, in tale ambito, il ctu ha ravvisato che la realizzazione di un parapetto di altezza pari a cm 97 da terra e sovrastante recinzione, prima inesistenti, consenta la possibilità di esercitare dalla proprietà resistente un'agevole veduta diretta e/o obliqua verso la proprietà della controparte. Inoltre, il ctu ha riferito che - poiché nella porzione terminale del parapetto (estensione di circa 25 cm) la recinzione metallica e relativo piantone si arrestano prima del suo termine, con riferimento a tale porzione, sussiste possibilità di comodo affaccio nella proprietà ricorrente. Non vi è dubbio che in questo modo sussiste nel caso di specie una violazione in termine di vedute limitatamente alla nuova prospectio ed inspectio esercitabile dall'attuale terrazzo (ex lastrico) di proprietà resistente: entro suddetto ambito, la domanda va accolta e va ordinato alla parte convenuta di eseguire gli interventi necessari ad eliminare tale esercizio di veduta diretta così come descritti dal ctu in risposta al quesito 5 ("(...) si dovrà provvedere pertanto in corrispondenza del parapetto attualmente esistente sul terrazzo ad un suo prolungamento in altezza, per tutta l'estensione, fino ad un'altezza minima di ml 1.80 o di una struttura fissa equipollente in grado di non consentire alcuna veduta nella proprietà ricorrente. Si ritiene che il costo di tale attività possa essere forfettariamente stabilito in Euro 900,00"). La doglianza inerente un pregiudizio alla statica del fabbricato è estranea alla cornice del giudizio possessorio; in ogni caso, risulta generica e smentita per tabulas dalla documentazione prodotta da parte resistente anche in sede di merito. Infine, la doglianza sulle immissioni sonore e sulla privacy non è stata reiterata in sede di prosecuzione del giudizio. La domanda risarcitoria risulta apodittica e non suffragata da sufficiente allegazione e da adeguato sostrato probatorio. Alla luce delle precedenti considerazioni, a integrale conferma dell'ordinanza del 28 settembre 2021, la domanda attorea va accolta nei limiti di quanto sopra indicato. Per l'esito globale anche della presente fase, le spese di lite sono compensate. PQM Il Tribunale: 1) A conferma dell'ordinanza resa da questo Tribunale nella fase sommaria, ordina alla parte resistente di procedere alla eliminazione della nuova veduta aperta sul fondo del vicino mediante l'esecuzione delle opere individuate dal ctu, in particolare ad eseguire in corrispondenza del parapetto attualmente esistente sul terrazzo un suo prolungamento in altezza, per tutta l'estensione, fino ad un'altezza minima di ml 1.80 o di una struttura fissa equipollente in grado di non consentire alcuna veduta nella proprietà ricorrente; 2) Rigetta ogni altra domanda; 3) Compensa le spese di lite.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE di APPELLO di NAPOLI Sezione Sesta civile composta dai magistrati: 1) dr.ssa Assunta D'AMORE - Presidente 2) dott. Francesco NOTARO - Consigliere 3) dr.ssa Ada METERANGELIS - Consigliere rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado d'appello iscritta al N. 5811 R.G.A.C. per l'anno 2015, riservata in decisione all'udienza a trattazione scritta del 16.11.2023 (svolta con le modalità previste dall'art. 127 ter c.p.c.), vertente TRA Fe.Se. ((...)) e Ma.Ru. ((...)), rappresentati e difesi in giudizio, per mandato in atti, dall'avv. Ci.Ma., con il quale sono elettivamente domiciliati in Napoli presso lo studio degli avv.ti Ci.Si. e Al.Ca., Centro Direzionale Isola E/2 Scala A; Appellanti principali CONTRO Gi.Co. ((...)) e Va.Co. ((...)), eredi/aventi causa del defunto Co.Pa., rappresentati e difesi in giudizio, per mandato in atti, dall'avv. An.Do., presso il cui studio in Napoli, corso (...), sono elettivamente domiciliati; Appellati/appellanti incidentali E Ma.Co. ((...)), rappresentata e difesa in giudizio, per mandato in atti, dagli avv.ti Lu. e Fr.Am., presso il cui studio in San Giuseppe Vesuviano, via (...), è elettivamente domiciliata; Appellata NONCHE' Ar.Co.; Do.Po., An.Co. e Ad.Co., quali eredi di N.B.C.; Appellati contumaci OGGETTO: appello contro la sentenza del tribunale di Nola n. 2777/2014, pubblicata in data 19.11.2014. IN FATTO E IN DIRITTO Con un primo atto di citazione, notificato in data 26.5.2000, Co.Pa., Co.Ni., Ar.Co. e Co.Ma. evocavano in giudizio, innanzi al tribunale di Nola, Fe.Se., Ma.Ru. e Se.Ni., esponendo, in fatto, di essere proprietari, unitamente ai germani Gi. e Fi., di un fabbricato sito in S. Gi. V. alla Via Gi. A. n. 65; che Gi. e Fi.Co. avevano venduto a Fe.Se. e Ma.Ru. la nuda proprietà e a Se.Ni. l'usufrutto del fabbricato loro pervenuto con atto per Notar N. Ce. del 9.1.1997; che i coniugi Se. - Ru. e Se.Ni., ristrutturando l'immobile acquistato in assenza di concessione edilizia, avevano commesso vari abusi edilizi (specificamente indicati e consistenti in: 1) innalzamento della quota del terrazzo e dei solai di calpestio del primo piano di circa 35 cm; 2) realizzazione di un solaio creato nell'area dei vani seminterrati ricavando così un nuovo piano intermedio fra i seminterrati ed il primo piano e con apertura di luci e vedute, nonché di porta con scala di accesso ad esso; 3) ampliamenti di superficie e volume del corpo di fabbrica verso il giardino al piano terra ed al primo piano, con realizzazione di nuovi terranei prima inesistenti e di un primo piano; 4) aumento delle altezze delle murature dei locali suppenni, con realizzazione di un solaio di copertura in cemento e nuove finestre; 5) occupazione dello spiazzo comune con materiale di vario genere; 6) apertura del cancelletto in ferro che prima si apriva all'esterno sul terrazzo allo stesso livello del pianerottolo all'interno del pianerottolo con ingombri della scala per accedere al secondo piano, di proprietà esclusiva dei germani C.; 7) scolo della acque meteoriche dal terrazzo di proprietà esclusiva sul pianerottolo della scala comune; 8) aumento delle quote in altezza del quartino edificato al posto del suppenno, con eliminazione della vista del Vesuvio; 9) violazione dei diritti condominiali, aggravamento di servitù e riduzione di luce ed aria dovuto alla realizzazione delle nuove unità abitative; 10) mancata costruzione di pozzi neri e mancato rispetto del rapporto planivolumetrico; 11) violazione delle norme del P.R.G. del Comune di San Giuseppe Vesuviano, il quale prevedeva, in assenza di piani particolareggiati, la sola possibilità di ristrutturare l'esistente o, in caso di abbattimento e ricostruzione, con una riduzione del 30% dell'esistente). Concludevano, pertanto, chiedendo di: "1) dichiarare arbitrarie, abusive ed illegittime le nuove opere realizzate dai convenuti e descritte in premessa, per violazione delle norme condominiali; per aggravamenti di servitù per riduzione di aria e luce, sole e vedute come sopra meglio precisato, e per violazione delle disposizioni edilizie comunali; 2) condannare per l'effetto solidalmente i convenuti ad abbattere ed eliminare immediatamente tutte le descritte opere abusive, illegali ed arbitrarie da essi realizzate, ripristinando lo stato dei luoghi; 3) condannare solidalmente i convenuti al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede; 4) condannare i convenuti, sempre solidalmente, al pagamento delle spese, diritti ed onorario di avvocato". Radicata la lite, si costituivano in giudizio i convenuti Fe.Se., Ma.Ru. e Se.Ni., contestando le doglianze attoree, assumendo che le parti in causa erano proprietarie di tre fabbricati distinti ed autonomi, con ingresso da un unico androne comune, assumendo, in particolare, quanto allo stato dei luoghi preesistente alla ristrutturazione, che l'accesso al sottotetto avveniva sia attraverso una scala comune, sia mediante una scala rientrante nella loro proprietà esclusiva, e che ad eccezione della scala principale, la restante porzione degli immobili rientrava nell'esclusiva disponibilità dei convenuti, non rientrando in particolare nella disponibilità degli attori il porticato e lo spiazzo sottostante, che assumevano di loro esclusiva proprietà, né tantomeno il pianerottolo di accesso al terrazzo. Contestavano, quindi, gli abusi lamentati da controparte, assumendo che non vi era stato alcun innalzamento della quota del terrazzo di copertura, né realizzazione di un nuovo solaio o realizzazione di nuove luci e vedute, né ampliamento di volume e di superficie del corpo di fabbrica verso il giardino, né del sottotetto. Spiegavano, infine, domande riconvenzionali, tese ad accertare e dichiarare l'avvenuto acquisto, per usucapione ultraventennale, di ogni servitù e diritto relativo e pertinente al fabbricato da essi acquistato, rimasto inalterato nella sua struttura, nonché ad accertare l'illegittima occupazione del cortile comune da parte degli attori in esecuzione di lavori edili di ampliamento delle rispettive unità immobiliari, con ripristino delle opere comuni in origine insistenti sul cortile (lavatoio ed altro). In corso di causa, a tale giudizio (RG N. 2801/2000) veniva riunito quello, di più recente iscrizione al ruolo (RG N. 5002/2003), introdotto da Co.Pa. nei confronti dei medesimi convenuti S./R., con cui l'istante lamentava l'edificazione, da parte di questi ultimi, di un fabbricato di dimensioni, tipologia e volumetrie differenti rispetto al fabbricato preesistente, con sottrazione del cortile comune alla disponibilità degli altri comproprietari per effetto della realizzazione di un porticato, contestando specificamente gli abusi meglio indicati in citazione. Concludeva, pertanto, chiedendo di: "1) accertare e dichiarare di proprietà comune il porticato descritto in premessa; 2) accertare e dichiarare abusive ed illegittime le opere edilizie sopra specificate perché realizzate dai signori S. senza idoneo provvedimento concessorio, in violazione delle distanze legali e dei diritti di proprietà del C.; 3) condannare i convenuti ad abbattere tutte le opere abusive realizzate con ripristino dello status quo ante; 4) condannare i convenuti a risarcire tutti i danni subiti e subendi dall'attore per effetto dei lavori realizzati abusivamente, illegittimamente e a non perfetta regola d'arte; 4) condannare i convenuti al pagamento delle spese, diritti ed onorari del processo, oltre I.V.A. e C.P.A. sui diritti ed onorari e spese generali". Costituitisi anche in tale giudizio, i convenuti contestavano la fondatezza delle avverse pretese, spiegando eccezione riconvenzionale volta all'accertamento dell'acquisto per usucapione del porticato e dello spazio ad esso sottostante. Esaurita l'istruttoria, con l'espletamento di due CTU e l'escussione di numerosi testi, la lite veniva definita con sentenza n. 2777/2014, pubblicata in data 19.11.2014, con cui il tribunale di Nola così statuiva: "a) in parziale accoglimento della domanda spiegata da parte attrice condanna i convenuti Fe.Se., Se.Ni. e Ma.Ru. ad arretrare l'immobile di loro proprietà alla distanza legale di cui all'art. 907 c.c. dalla veduta posta sul pianerottolo di riposo fra il secondo ed il terzo piano della cassa scala di accesso alla proprietà di Co.Pa. e ad arretrare il balcone prospiciente la finestra della cassa scala posta sul pianerottolo fra il primo ed il secondo piano alla distanza di cui all'art. 905 c.c. dalla predetta luce; b) accerta il diritto degli istanti al risarcimento del danno conseguente alla limitazione dell'uso del cortile comune, conseguente alle modifiche apportate al proprio immobile dai convenuti ed alla creazione di nuove unità abitative, in violazione dell'art. 1102 c.c., la cui liquidazione avverrà in separato giudizio; c) compensa integralmente fra le parti le spese del presente giudizio; d) pone definitivamente a carico di parte convenuta le spese di C.T.U.". Contro tale sentenza, non notificata, con atto di citazione notificato in data 17.12.2015, proponevano appello Fe.Se., Ma.Ru. e Se.Ni., e dopo aver precisato che il gravame era parziale (nel senso che non investe i capi della sentenza ove v'è stata la soccombenza di parte attrice in ordine a talune delle plurime e concorrenti domande da essa formulate nei confronti dei convenuti, odierni appellanti), chiedevano, previa sospensione dell'efficacia esecutiva della pronuncia gravata, la riforma di essa in relazione a cinque motivi di doglianza, con cui lamentavano specificamente: 1) Violazione e falsa applicazione degli artt. 166 e 167 c.p.c. in merito alla declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale dei convenuti, odierni appellanti. Erronea rappresentazione dei fatti determinanti ai fini della decisione. Error in procedendo. Motivazione erronea ed illogica. Ingiustizia manifesta. In ordine all'ingiustizia della decisione in ordine ai presenti capi v. anche infra motivo sub (...); 2) Erronea valutazione e rappresentazione dei fatti determinanti ai fini della decisione. Error in procedendo: erronea valutazione da parte del Giudice delle risultanze della Consulenza tecnica d'ufficio. Motivazione insufficiente, contraddittoria, erronea ed illogica. Violazione e falsa applicazione degli articoli 873, 905, 906 e 907 del codice civile. Illogicità manifesta. Ingiustizia; 3) Violazione e falsa applicazione dell'articolo 1102 del codice civile. Error in judicando per acritica adesione alle conclusioni del CTU. Violazione e falsa applicazione articoli 115 e 116 c.p.c. Motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria. Difetto assoluto di motivazione. Ingiustizia manifesta; 4) Violazione e falsa applicazione articoli 115 e 116 c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell'art. 2650 c.c. Motivazione erronea ed insufficiente. Motivazione inesistente. Improprio "remand" alle conclusioni del CTU. Ingiustizia manifesta; 5) In via gradata, nel solo caso di rigetto dell'appello, si chiede una pronunzia di giustizia in relazione alla condanna dei convenuti al pagamento per intero delle spese di C.T.U. Motivazione incompleta, illogica e contraddittoria. Error in judicando. Errore di fatto e di diritto. Ingiustizia manifesta. Concludevano, pertanto, per la riforma della pronuncia gravata, perché illegittima e ingiusta in relazione ai capi oggetto di gravame, con vittoria delle spese del doppio grado. Si costituiva tempestivamente in giudizio, con comparsa del 22.3.2016, Co.Pa., contestando l'avverso gravame, che assumeva infondato, contestualmente spiegando appello incidentale per ottenere la riforma della pronuncia gravata nelle parti in cui il tribunale: 1) aveva ritenuto che il nuovo corpo di fabbrica realizzato dai convenuti S./R. non avesse determinato violazione delle distanze tra costruzioni ai sensi dell'art. 873 c.c. e delle norme regolamentari tra costruzioni; 2) aveva ritenuto che l'apertura del cancelletto verso le scale comporterebbe un disagio minimo degli altri comunisti e che non sarebbe stato "convincentemente provato che vi siano fenomeni di stagnazione di acqua meteoriche sul pianerottolo delle scale antistante il terrazzo"; 3) aveva compensato le spese di lite. Concludeva, pertanto, chiedendo il rigetto dell'appello principale proposto perché inammissibile ed infondato nel merito ed in accoglimento dello spiegato appello incidentale condannare i signori S. - R., per violazione dell'art. 873 c.c., ad arretrare il fabbricato realizzato alla distanza prevista dalla legge; sempre in accoglimento dell'appello incidentale condannare controparte a sostituire le aperture del cancelletto con la eliminazione delle causali delle infiltrazione e stagnazione dell'acqua che si verificano durante i periodi di pioggia, il tutto con vittoria di spese e competenze professionali del doppio grado del giudizio, oltre accessori come per legge. Si costituiva anche Co.Ma.L., difesa dagli avv.ti Luigi e Francesco Ambrosio, che eccepivano preliminarmente la nullità assoluta del gravame principale perché notificato solo ai procuratori costituiti e non agli eredi di Co.Ni. (deceduto in data 27.7.2013, prima della notifica dell'atto di appello e prima dell'emissione dell'impugnata sentenza), nonché la mancata notifica dell'atto di gravame nei confronti di Co.Pa.. Co.Ma.L. concludeva, pertanto, per l'integrale rigetto dell'appello principale, inammissibile in rito anche per difetto di specificità, in violazione dell'art. 342 c.p.c., e infondato nel merito, con vittoria delle spese del grado, con distrazione. Benché ritualmente citato, restava contumace Ar.Co.. Interrotto il giudizio (all'udienza del 15.4.2016) per il decesso di Co.Ni., dichiarato dai suoi procuratori costituti in prime cure (benché non ricostituiti nella fase di gravame), lo stesso veniva ritualmente riassunto dagli appellanti principali nei confronti dei suoi eredi Do.Po., Ar.Co. e Ar.Co., che, benché ritualmente citati, restavano contumaci. Deceduto in corso di causa Co.Pa., e riassunto il giudizio (dichiarato interrotto all'udienza del 16.12.2016) nei confronti dei suoi eredi, si costituivano Gi.Co. e Va.Co., nelle indicate qualità, riportandosi all'appello incidentale ed alle difese svolte dal proprio dante causa. Disposta la notifica del gravame incidentale agli appellati contumaci, preso atto dell'avvenuta rinuncia all'istanza di inibitoria e ricostruito (parzialmente) il fascicolo d'ufficio di primo grado, la procedura, nelle more assegnata al giudice ausiliario relatore, avv. Andrea E. falcetta, già riservata in decisione, veniva rimessa sul ruolo con ordinanza del 16.5.2022, per la necessità di un supplemento peritale, affidato al CTU, ing. Giovanni Ca., già nominato in prime cure. Acquisito l'elaborato peritale e riassegnata la procedura (in data 26.10.2023) all'odierno originario relatore, dr.ssa Ada Meterangelis, per le sopravvenute dimissioni del giudice ausiliario, avv. Andrea E. Falcetta, all'udienza a trattazione scritta del 16.11.2023, sulle conclusioni rassegnate dalle parti nelle rispettive note scritte autorizzate, la causa veniva riservata in decisione, previa concessione dei termini di legge per il deposito degli scritti difensivi. I. Preliminarmente, in rito, si osserva che, contrariamente a quanto dedotto dall'appellata Ma.Co., l'impugnazione principale soddisfa il requisito formale prescritto dall'art. 342 c.p.c., nella formulazione ratione temporis applicabile, essendo stati chiaramente individuati i punti della motivazione della sentenza gravata sottoposti a critica ed illustrata la diversa ricostruzione dei fatti prospettata dagli appellanti, che, in definitiva, hanno rappresentato alla corte un contenuto completo delle proprie censure sì da permettere il raffronto immediato fra le motivazioni della pronuncia impugnata e le motivazioni addotte nell'atto di appello. Per ormai consolidato insegnamento giurisprudenziale, gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 201, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 201, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l'utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di "revisio prioris instantiae" del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass., Sez. Unite, 2017/n. 27199; nello stesso senso, da ultimo, Cass., Sez. Unite, 2022/n. 36481). In altri termini, occorre, ed è per altro verso sufficiente, che, come verificatosi nella specie, il giudice del gravame sia posto in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, e che l'appellante dimostri di aver compreso le ragioni del primo giudice e indichi il perché queste siano censurabili, senza che sia preteso il rispetto di particolari forme sacramentali o comunque vincolate. -. Palesemente infondate sono le altre due eccezioni preliminari di rito sollevate dai difensori di Co.Ma.L., avv.ti Luigi e Francesco Ambrosio, il primo dei quali difensore costituito in prime cure (oltre che per M.L.) anche per Co.Ni., Ar.Co. e Co.Pa. (per quest'ultimo solo nel giudizio iscritto con RG N. 2801/2000, come peraltro si evince dall'epigrafe della sentenza gravata, pag. 1). In particolare, quanto all'eccepita nullità assoluta e tardività dell'atto di impugnazione proposto nei confronti di Co.Ni., che, a dire dell'appellata C., sarebbe stato erroneamente notificato presso il procuratore di questi, anziché dei suoi eredi, si osserva che, non essendo stato dichiarato in primo cure il decesso dell'attore Co.Ni. (verificatosi prima dell'emissione della sentenza gravata), legittimamente gli appellanti S./R. procedevano alla notifica dell'atto di gravame nei confronti dell'originaria parte processuale, presso i suoi procuratori costituiti (avv.ti Albo e Luigi Ambrosio). Invero, com'è noto, le Sezioni Unite della Suprema Corte, nel comporre il contrasto insorto in subiecta materia, hanno affermato che "in caso di morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, l'omessa dichiarazione o notificazione del relativo evento ad opera di quest'ultimo comporta, giusta la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, che il difensore continui a rappresentare la parte come se l'evento stesso non si fosse verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonché in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell'impugnazione. Tale posizione è suscettibile di modificazione qualora, nella fase di impugnazione, si costituiscano gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale di quella divenuta incapace, ovvero se il suo procuratore, già munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza, o notifichi alle altre parti, l'evento, o se, rimasta la medesima parte contumace, esso sia documentato dall'altra parte o notificato o certificato dall'ufficiale giudiziario ex art. 300, quarto comma, cod. proc. civ.", ulteriormente precisando che, ove la morte o la perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore non siano state da quest'ultimo dichiarate in udienza o notificate alle altre parti, si avrà, giusta la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, che: "a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, ex art. 285 cod. proc. civ., è idonea a far decorrere il termine per l'impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale di quella divenuta incapace; b) il medesimo procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione (ad eccezione del ricorso per cassazione, per la proposizione del quale è richiesta la procura speciale) in rappresentanza della parte che, pur deceduta o divenuta incapace, va considerata nell'ambito del processo ancora in vita e capace; c) è ammissibile l'atto di impugnazione notificato, ai sensi dell'art. 330 c.p.c., comma 1, presso il procuratore, alla parte deceduta o divenuta incapace, pur se la parte notificante abbia avuto diversamente conoscenza" (Cass., Sez. Un., n. 15295/2014; nello stesso senso, ex multis, Cass. n. 18656/2015, Cass. n. 710/2016 e Cass. n. 12183/2021). Ferma, dunque, la ritualità e tempestività dell'originaria notifica dell'atto di impugnazione (in data 17.12.2015) nei confronti degli avv.ti Albo e Luigi Ambrosio, procuratori costituiti in primo grado per l'attore N.C.B., contumace in sede di gravame, si evidenzia ulteriormente come il giudizio, successivamente interrotto (poco rileva, ai fini di cui si discute, se a torto o a ragione) per il dichiarato decesso di N.C.B., veniva in ogni caso ritualmente riassunto dagli appellanti S./R. nei confronti dei suoi eredi, P.D., Ar.Co. e Ar.Co., cui veniva notificato (essendo rimasti contumaci) anche il gravame incidentale, risultando così pienamente assicurata l'effettività del contraddittorio tra le parti. Quanto poi al dedotto mancata perfezionamento della notifica dell'appello principale nei confronti di Co.Pa., la difesa di Ma.Co. rilevava che: "in forza del principio della diversa identità che i giudizi riuniti devono mantenere si eccepisce la mancata notifica dell'atto di appello nei confronti del sig.re Co.Pa. agli scriventi procuratori presso i quali eleggeva domicilio nell'atto di citazione introduttivo del giudizio recante N.R.G. 2801/2000 al quale veniva riunito il procedimento N.R.G. 5002/2003 avente un oggetto solo parzialmente simile e nel quale era difeso da altro procuratore. E per l'effetto si chiede non essendosi perfezionata la notifica dell'appello nei confronti di tutti gli appellati il rigetto dello stesso" (cfr. pag. 6 della comparsa di costituzione in appello). L'eccezione, ancor prima che infondata (atteso che, ai fini della corretta instaurazione del giudizio di appello nei confronti di una parte costituita con più difensori, è sufficiente la rituale notifica a uno solo di essi; cfr. Cass. n. 20626/2017 e Cass., Sez. Un., n. 34260/2022), è inammissibile, ove si consideri che l'unica parte legittimata a dolersi di un eventuale vizio di notifica dell'atto di impugnazione (nella specie inesistente) era Co.Pa., che, di contro, senza nulla eccepire al riguardo, con comparsa del 22.3.2016, si costituiva regolarmente in appello, spiegando anche gravame incidentale, difeso e rappresentato (esclusivamente) dall'avv. Angelo D'Onofrio, al quale legittimamente veniva notificato il gravame principale, quale procuratore domiciliatario già costituito in prime cure in entrambi i giudizi riuniti (cfr. epigrafe della sentenza gravata, pag. 1). -. Infine, sempre in rito, va disattesa l'eccezione di estinzione del giudizio per la prima volta formulata, con la conclusionale del 12.1.2024, dagli appellanti incidentali C.G. e Va.Co. (che succedevano nella posizione di Co.Pa.), che sottoponevano all'attenzione della corte la circostanza evidenziata da controparte, che in data 22 ottobre 2020 è deceduto il signor Se.Ni., parte del processo (appellante, unitamente ai signori Fe.Se. e Ma.Ru.), assumendo, al riguardo, che: "Siffatta dichiarazione ex art. 300 c.p.c. è avvenuta per la prima volta con la memoria del 5 gennaio 2022. In seguito a tale dichiarazione, in applicazione della richiamata normativa, si è interrotto il giudizio "senza che abbia alcun rilievo il momento ove sia adottato il successivo provvedimento giudiziale dichiarativo dell'intervenuta interruzione, avente natura meramente ricognitiva" (Cass. 24/05/2022 n. 16797). Contrariamente a quanto assume controparte, nessun consolidamento della proprietà è avvenuto nei confronti di Fe.Se. posto che, lo stesso, non ha nessuna legittimazione nel presente giudizio. Quest'ultimo, infatti, con atto per notar Lodovico Mustilli del 18 luglio 2018 ha venduto - nel corso dell'appello - la sua quota dello stabile ai figli, signori S.A. nato a S. Gi. V. il (...) ed ivi residente, alla via Gi. A. n. 68/5 e S.L. nato S. Gi. V. il (...) ed ivi residente, alla via Gi. A. n. 68/5. Detto ciò, è chiaro che il presente giudizio si è estinto per non essere stato riassunto nel termine di tre mesi nei confronti degli effettivi legittimati e, precisamente, A. e L.S.. In via alternativa, ove il Collegio ritenesse di disattendere la rilevata eccezione di estinzione, si chiede di integrare il contraddittorio, ex art. 102 c.p.c., nei confronti dei signori S.A. ... e S.L. ..., per essere quest'ultimi parte necessaria del procedimento". Ferma l'irritualità della produzione documentale tardivamente allegata con l'anzidetta conclusionale del 12.1.2024 (ivi compreso l'atto per notar Mustilli del 18.7.2018, neanche allegato in forma integrale), si osserva, in ogni caso, che, contrariamente a quanto dedotto dagli appellanti incidentali, nella specie, alcuna interruzione del giudizio si è verificata, né tanto meno occorre procedere all'integrazione del contraddittorio, ove si consideri, da un lato, che il procuratore costituito per gli appellanti principali si limitava a rappresentare alla corte, già con le note scritte autorizzate del 5.3.2021, l'avvenuto (e non documentato) decesso, in data 22.10.2020, di N.S., usufruttuario dell'immobile per cui è causa, al solo fine di evidenziare che l'usufrutto si era ormai consolidato con la nuda proprietà, come peraltro esplicitato nella (prima) conclusionale del 13.5.2021 (pag. 1), e non già per ottenere la declaratoria di interruzione del processo (che resta facoltà del procuratore costituito della parte defunta o non più capace, essendo rimessa in via esclusiva alla sua discrezionalità la scelta di "fare o non fare" tale dichiarazione o notificazione "nel momento che ritiene più opportuno, al fine di provocare, sul presupposto dell'effettivo verificarsi dell'evento, l'effetto giuridico dell'interruzione del processo"; così, Cass., Sez. Un., n. 15295/2014, cit.); dall'altro, che resta irrilevante la circostanza che Fe.Se. abbia nelle more alienato i diritti a lui spettanti sull'immobile di via Gi. A. n. 65 ai figli A. e L., con conseguente consolidamento dell'usufrutto in capo a questi ultimi, dovendo in ogni caso il processo proseguire tra le parti originarie ex art. 111, comma 1, c.p.c., senza che sussista alcuna necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei successori a titolo particolare nel diritto controverso, contro i quali, come previsto dal comma 4 della stessa disposizione normativa, spiega sempre i suoi effetti la sentenza pronunciata contro l'alienante. II. Tanto chiarito in rito, osserva subito la corte che l'appello principale è solo in parte fondato. -. Con il primo ed il quarto motivo di gravame, da trattare congiuntamente perché strettamente connessi, gli appellanti S./R., dopo aver (con il primo motivo) contestato al tribunale di aver errato nel ritenere inammissibili, perché tardivamente proposte, le domande riconvenzionali da essi spiegate in prime cure (nel più risalente giudizio RG N. 2801/2020), ripropongono (con il quarto motivo di doglianza) la (sola) riconvenzionale di usucapione per possesso continuato, pacifico ed indisturbato per un periodo superiore al termine di legge, del porticato e dell'area ad esso sottostante, chiedendo, in particolare, alla corte adita, sulla premessa della natura autodeterminata, sotto il profilo processuale, dei diritti reali, di dichiarare che il portico è di proprietà esclusiva degli odierni appellanti, e, in via gradata, previa riforma della sentenza impugnata in relazione alla domanda riconvenzionale di usucapione, per le ragioni indicate sub motivo I, l'accertamento costitutivo dell'acquisto a titolo originario della proprietà esclusiva del citato porticato ai sensi dell'articolo 1159 del codice civile per usucapione decennale o breve, da parte sia dei danti causa degli appellanti in virtù del possesso continuato e pacifico e dei titoli astrattamente idonei, sia, in virtù della continuità nel possesso, in favore di questi ultimi, giusta l'atto di trasferimento del 1997 per Notaio Ce. (pag. 17 dell'appello). Deducono, al riguardo, che la questione, esaminata come eccezione riconvenzionale (formulata dai convenuti nel giudizio riunito N. 5002/2003 RG), era stata erroneamente valutata dal tribunale, che l'aveva disattesa, ritenendo la proprietà comune dell'anzidetta area, aderendo acriticamente alle conclusioni rese sul punto dal nominato CTU, ing. Ca.. Giova innanzitutto richiamare i passi contestati della pronuncia gravata inerenti alla ritenuta inammissibilità delle riconvenzionali spiegate dai convenuti, così motivata dal tribunale: "Va, in primo luogo, osservato che i convenuti si sono tardivamente costituiti in giudizio nel giudizio iscritto al n. 2801/2000 R.G.A.C. Costoro, infatti, pur essendo stati citati a comparire per l'udienza del 31.07.2000, si sono costituiti in giudizio in data 19.07.2000, quindi oltre i venti giorni antecedenti l'udienza di prima comparizione fissata nell'atto di citazione. Ai fini dell'osservanza del termine per la tempestiva costituzione in giudizio, infatti, stante l'esplicita previsione contenuta nello stesso art. 166 cod. proc. civ., per il suo computo a ritroso deve aversi riguardo (in via esclusiva) all'udienza indicata nell'atto di citazione e non (anche) a quella eventualmente successiva, cui la causa sia stata rinviata d'ufficio, ai sensi dell'art. 168 bis, comma quarto, cod. proc. civ., in ragione del calendario delle udienze del giudice designato (cfr Cass. civ., sent. n. 12490 del 28.05.2007). ... ... è rimesso al potere officioso del giudice quello di rilevare la decadenza di parte convenuta dall'esercizio delle facoltà di cui all'art. 167, II comma, c.p.c. .... Le domande riconvenzionali spiegate nell'ambito nel giudizio iscritto al n. 2801/2000 R.G.A.C. devono essere, per tali ragioni, dichiarate inammissibili, in quanto tardive. La domanda di avvenuta usucapione del portico e dell'area sottostante lo stesso, quindi, potrà essere esaminata solo in via d'eccezione, al fine di paralizzare le domande di parte attrice, spiegate in entrambi i giudizi riuniti, di occupazione del cortile di proprietà comune e di sottrazione dello stesso all'uso degli altri comproprietari". In contrario, si osserva che la data fissata per la prima udienza di comparizione, rispetto alla quale andava calcolato il termine di cui all'art. 166 c.p.c., è quella del 26.9.2000, inequivocabilmente indicata nell'atto di citazione notificato ai convenuti S./R. (in atti), che, dunque, si costituivano tempestivamente in giudizio con comparsa depositata in data 19.7.2000, con conseguente sicura ammissibilità delle spiegate riconvenzionali. Circostanza, peraltro, espressamente confermata, su invito della corte (cfr. ordinanza del 5.7.2021), dagli avv. Luigi e Francesco Ambrosio, procuratori dell'appellata Ma.Co., già costituiti in prime cure per tutti gli attori nel giudizio N. 2801/2000 RG, che precisavano che la data del 31.7.2000 indicata nella velina allegata al fascicolo d'ufficio di prime cure era sicuramente errata (cfr. verbale d'udienza del 5.11.2021). -. Acclarata, dunque, in parziale riforma della pronuncia gravata, la ritualità delle riconvenzionali spiegate in prime cure dai convenuti, ivi compresa quella di usucapione del portico e dello spazio ad esso sottostante, esaminata in via di eccezione dal tribunale, osserva la corte come gli argomenti posti dal primo giudice a fondamento del relativo rigetto non risultino efficacemente scalfiti dagli appellanti S./R.. Così, infatti, motivava il tribunale: "Occorre, quindi, passare alla domanda di sottrazione alla disponibilità comune del porticato per effetto della sua demolizione e ricostruzione. Entrambi i consulenti d'ufficio nominati in corso di causa, con motivazioni ed iter argomentativo che pienamente si condividono ed ai quali si rimanda, hanno ritenuto la natura comune del porticato (cfr., in particolare, pagine da 7 a 9 della relazione peritale depositata in Cancelleria in data 17.03.2014 e risposta ai chiarimenti del C.T. di parte convenuta) e la proprietà esclusiva del terrazzo sovrastante. Ciò posto, con la prova testimoniale raccolta in corso di causa non è stata provata l'usucapione di detto spazio. "Il comproprietario che sia nel possesso del bene comune può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri comunisti, senza necessità di interversione del titolo del possesso e, se già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in temi di esclusività, a tal fine occorrendo che goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare in modo univoco la volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", senza che possa considerarsi sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall'uso della cosa comune" (cfr. Cass. civ., sent. n. 23539 del 10.11.2011). Con la prova testimoniale raccolta in corso di causa non è stato univocamente provato che l'area sottostante il porticato fosse puntellata, e, come tale, inaccessibile agli attori, avendo taluni dei testimoni escussi affermato che, nonostante il puntellamento, anche gli attori, in particolare Co.Pa., parcheggiassero al di sotto del porticato le proprie autovetture ma, anche a ritenere diversamente, la sua eventuale utilizzazione da parte del convenuto, senza atti materiali di interversione del possesso, non ha potuto comportare l'usucapione dell'area da parte dei convenuti". Ebbene, deve premettersi che gli appellanti non contestano la valutazione delle risultanze dell'espletata prova testimoniale, ma solo (e genericamente) l'interpretazione dei titoli di provenienza, dai quali, a loro dire, contrariamente a quanto ritenuto dal CTU, e dal tribunale che ne aveva recepito le conclusioni, emergerebbe la proprietà esclusiva dell'area in discorso. Assumono, infatti, che: "...nei titoli di provenienza riferiti ai danti causa dei convenuti, è sempre indicata la presenza, tra i cespiti di volta in volta trasferiti, dell'intero fabbricato comprensivo del porticato (il quale, anche architettonicamente forma un tutt'uno con lo storico edificio attualmente di proprietà della parte appellante). In particolare, nell'atto del 1997 per Notar Ce., con il quale i convenuti acquistarono l'intera consistenza immobiliare dai sigg.ri C.G.A. e C.F., v'è l'espressa indicazione in proprietà esclusiva del porticato, il quale risulta altresì rappresentato nelle planimetrie catastali (erroneamente, il CTU ing. Ca. afferma l'inesistenza della individuazione catastale di tale manufatto, cfr. pag. 7 ult. cpv. della relazione). Per contra, nei titoli di acquisto riferiti agli appellati giammai si fa riferimento alla proprietà, finanche comune, di tale manufatto, come del resto riferito dallo stesso CTU ing. Ca. a pag. 8 della sua relazione. In un atto di divisione tra i germani C.F., A. e Gi. del 5 agosto 1868 per Notaio Luigi Casotti, viene citata la presenza di una tettoia assegnata in proprietà esclusiva ad uno dei condividenti il quale avrebbe avuto il diritto di demolirla e ricostruirla, con spazio sottostante di proprietà comune e terrazzo sovrastante di proprietà esclusiva dell'assegnatario ricostruttore. In seguito, sempre dalla lettura degli atti, si perdono le tracce in ordine alla sorte ed ai trasferimenti di tale tettoia, né si conosce l'epoca di demolizione e ricostruzione della stessa, ma nel tempo, di fatto compare il porticato oggetto di causa, il quale, come sopra detto, si rinviene sempre, come proprietà esclusiva, negli atti di trasferimento riferibili agli odierni appellanti. ...alcun rilievo hanno le elucubrazioni svolte dai periti d'ufficio su tale questione, avendo unica rilevanza, la continuità delle trascrizioni dei predetti titoli di acquisto che senza ombra di dubbio riferiscono, in maniera univoca e puntuale, della proprietà esclusiva del più volte ripetuto porticato". L'assunto è infondato. Invero, come già correttamente rilevato da entrambi i consulenti d'ufficio nominati in prime cure, in particolare dall'ing. Gi. Ca., dall'esame dei titoli di provenienza allegati in atti si evince che: 1) l'intero complesso immobiliare sito in S. Gi. V., alla via A. n. 65, di cui sono attualmente proprietarie le parti in causa, apparteneva in origine a C.G., che, con atto per notar Casotto del 5.8.1868, lo divideva in tre quote, assegnate previo sorteggio ai tre figli, Fi., A. e G.; 2) a quest'ultimo veniva assegnata la terza quota, ora in proprietà S./R., comprensiva del cellaio ubicato a piano terra e della tettoia dalla quale si accedeva al cellaio, al riguardo precisandosi nell'atto che: "l'assegnatario della tettoia posta avanti al cellaio avrà facoltà di demolirla a sue spese appropriandosene il materiale di risulta da una parte, dall'altra avrà l'obbligo poi di covrirne tale località anche a sue spese con volte a lamia dovendo il suolo sottoposto restare comune fra i condividenti, mentre la parte superiore a tali lamie si apparterrà esclusivamente a detta terza porzione"; 3) come chiarito dal CTU, ing. Ca. (cfr. pag. 8 dell'elaborato a sua firma), in epoca successiva all'atto del 1868 (quando certamente non esisteva il porticato con la sovrastante terrazza), ma comunque prima del 1940 (data di compilazione delle schede catastali in cui è riportato il perimetro della terrazza al primo piano che si sorreggeva sui pilastri in muratura che delimitano il porticato), è stata demolita la tettoia e al suo posto è stato realizzato il porticato con sovrastante terrazza, nella configurazione e dimensioni che si evincono dalle fotografie allegate alla produzione degli attori, che li raffigura così come si presentava prima dei lavori di ristrutturazione; 4) in tutti i successivi atti di trasferimento allegati dalle parti, aventi ad oggetto le porzioni originariamente assegnate con l'atto per notar Casotto del 5.8.1868, non si fa alcun riferimento al porticato né al sovrastante terrazzo al primo piano, limitandosi, con detti atti, le parti di volta in volta contraenti, a trasferire, per compravendita o donazioni, i cespiti ricevuti con i proporzionali diritti di proprietà sulle parti comuni richiamando i precedenti titoli di provenienza; 5) solo nell'atto di compravendita per notar Ce. del 9.1.1997, nella descrizione della consistenza immobiliare trasferita ai sigg.ri S./R., si fa riferimento al porticato a piano terra, che, nondimeno, non è richiamato nei titoli di provenienza dei venditori danti causa C.G.A. e C.F.. E' evidente, pertanto, che poiché nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet, l'area sottostante il porticato di cui si discute non può che ritenersi di proprietà comune, così come stabilito nel titolo originario del 5.8.1868, di talché legittimamente il tribunale richiamava, facendole proprie, le conclusioni rese dal CTU, che evidenziava: "l'eventuale assegnazione in proprietà esclusiva di un bene originariamente comune ai condividenti, doveva essere legittimata da un idoneo atto di trasferimento, mentre dall'esame delle produzioni non esiste alcun atto di tale tipo e pertanto resta confermato quanto è disposto nell'atto di divisione del 1868. In definitiva, lo scrivente ritiene che il porticato, realizzato sull'area di sedime della tettoia posta dinanzi al cellaio, debba essere considerato di proprietà comune al pari del cortile. Tale affermazione implica di conseguenza, sempre in virtù della disposizione contenuta nell'atto del 1868, che il terrazzo sovrastante sia invece di proprietà esclusiva dell'assegnatario della terza quota e dunque oggi dei convenuti S." (cfr. pagg. 8-9 dell'elaborato). Né, peraltro, v'è prova che i danti causa dei S./R. abbiano avuto il possesso in via esclusiva dell'area sottostante il porticato, godendone con modalità inconciliabili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare in modo univoco la volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", di talché, in definitiva, vanno rigettate tutte le pretese al riguardo azionate dagli appellanti principali, ivi compresa quella formulata in via gradata ex art. 1159 c.c.. -. Con il secondo motivo di gravame, gli appellanti S./R. lamentano l'erronea valutazione e rappresentazione dei fatti determinanti ai fini della decisione, assumendo che il tribunale avrebbe erroneamente valutato le risultanze della CTU, incorrendo nella violazione e falsa applicazione degli artt. 873, 905, 906 e 907 c.c., censurando, di conseguenza, le decisioni adottate dal primo giudice con riguardo ad entrambe le opere realizzate dai convenuti, ossia la presunta sopraelevazione dell'edificio e il balconcino al terzo piano (per le quali così statuiva in dispositivo: "a) in parziale accoglimento della domanda spiegata da parte attrice condanna i convenuti Fe.Se., Se.Ni. e Ma.Ru. ad arretrare l'immobile di loro proprietà alla distanza legale di cui all'art. 907 della veduta posta sul pianerottolo di riposo fra il secondo ed il terzo piano della cassa scala di accesso alla proprietà Co.Pa. e ad arretrare il balcone prospiciente la finestra della cassa scala posta sul pianerottolo fra il primo ed il secondo piano alla distanza di cui all'art. 905 dalla predetta luce"). E' opportuno richiamare i passi contestati della sentenza gravata, con cui il tribunale, richiamati i principi di diritto affermati dalla Suprema Corte in subieta materia (cfr. pagg. 6-8), così argomentava: "...Costituisce sopraelevazione, quindi, la nuova costruzione che superi in altezza quella preesistente (cfr Cass. civ., sent. n. 1817 del 02.02.2004), ragione per cui occorrerà valutare se, per effetto della sopraelevazione realizzata, sia stata violata la normativa in tema di distanze legali dall'immobile del confinante (così come lamentato .da .Co.Pa. con l'atto introduttivo del giudizio iscritto al n. 5002/2003 R.G.A.C.) o se sia stata eliminazione una servitù di veduta e di luce ed aria in danno di tutti gli attori, così come lamentato nell'atto di citazione introduttivo del giudizio iscritto al n. 2801/2000 R.G.A.C. e, conseguentemente, un danno risarcibile. ...omissis... Entrambe le consulenze d'ufficio espletate in corso di causa hanno accertato, con argomentazioni che si condividono pienamente ed alle quali si rimanda, anche nel rispondere ai rilievi critici dei consulenti di parte (cfr Cass. civ., sent. n. 282 del 09.01.2009; Cass. civ., sent. n. 8355 del 03.04.2007; Cass. civ., sent. n. 7716 del 07.06.2000; Cass. civ., sent. n. 3492 del 11.03.2002), che i convenuti hanno realizzato un innalzamento della gronda del fabbricato di circa 1,40 metri, con innalzamento della parete del fabbricato con la conseguenza che, mentre il solaio di copertura preesistente a falda inclinata era sottostante la finestra della cassa scala di pertinenza dell'immobile di Co.Pa., attualmente vi è una invasione, seppur in misura ridotta, della stessa da parte del cornicione del solaio a falda inclinata del nuovo tetto. ...omissis... Il C.T.U. ing. Gi. Ca., peraltro, ha accertato che l'innalzamento della quota del fabbricato di proprietà S. ha comportato l'invasione della finestra, con funzione di veduta, della cassa scale, con riduzione del passaggio di aria, seppur minima diminuzione di luce ed aria in virtù del rapporto fra la sezione obliqua e la dimensione complessiva della finestra, nonché che il balcone del terzo piano abbia invaso la finestra posta sul pianerottolo di riposo fra il primo ed il secondo piano della cassa scala, con possibilità di esercizio della veduta all'interno della cassa scala, ed in entrambi i casi con violazione delle distanze legali previste in materia di luci e vedute, dovendo la prima finestra menzionata essere qualificata come veduta e la seconda come luce. Il consulente, invece, ha escluso che vi sia stata, per effetto della realizzazione della sopraelevazione, violazione delle distanze legali ai sensi dell'art. 873 c.c. o violazione della distanza minima di dieci metri di cui al D.M. n. 1444 del 1968. Ciò posto, in ordine alla occupazione da parte della nuova costruzione della luce e della veduta posta sulla cassa scala, va rimarcato che "il diritto di proprietà di un immobile fronteggiante il fondo altrui non può attribuire, in assenza di titoli specifici (negoziali o originari, come l'usucapione), anche l'acquisto della servitù di veduta; ne consegue che una situazione di mero fatto - che si sia concretizzata nell'esistenza, a distanza inferiore di quella prescritta dall'art. 905 cod. civ., di aperture che consentano la "inspectio" e la "prospectio" nel fondo confinante - non è di per sé suscettibile di tutela in via petitoria, al fine di pretendere, da parte del vicino che edifichi sul proprio fondo, l'osservanza delle distanze previste dall'art. 907 cod. civ." (cfr Cass. civ., sent. n. 11956 del 22.05.2009; conforme Cass. civ., sent. n. 18030 del 03.08.2010). Risulta dalle indagini peritali espletate in corso di causa che la sopraelevazione della cassa scala, la quale in origine terminava all'altezza del primo piano, sia stata posta in essere dal convenuto in forza della licenza edilizia n. 35/1965 e, quindi, risulta acquistato per usucapione il diritto di luce e veduta dalle aperture collocate su tale cassa scala. Deve, quindi, essere accolta la domanda di accertamento dello sconfinamento causato dalla muratura del nuovo fabbricato di proprietà S. all'altezza del pianerottolo del vano scala di proprietà esclusiva di Co.Pa. (cfr punto c) della narrativa dell'atto di citazione introduttivo del giudizio iscritto al n. 5002/2003 R.G.A.C.), con conseguente condanna dei convenuti Fe.Se., Ma.Ru. e Se.Ni. all'abbattimento del manufatto, con suo arretramento alla distanza legale rispetto alla veduta insistente sul fabbricato di parte attrice ed arretramento del balcone prospiciente la finestra della cassa scala posta sul pianerottolo fra il primo ed il secondo piano alla distanza di cui all'art. 905 c.c., rimettendo a diverso giudizio la liquidazione del danno conseguente a tale realizzazione in violazione delle distanze legali, di cui l'attore Co.Pa. ha richiesto la liquidazione in separato giudizio (...), così come analoga riserva è stata formulata da tutti gli attori del giudizio iscritto al n. 280/2000 R.G.A.C. Va rimarcato che la natura comune della cassa scala, dedotta da parte convenuta, non altererebbe la decisione, giacché ciascun comunista ha diritto a pretendere l'osservanza delle distanze legali, rispetto al fondo comune, le quali siano state violate dall'apertura di vedute o da opere eseguite dall'altro comproprietario su un edificio di proprietà esclusiva di quest'ultimo prospiciente l'area comune (cfr Cass. civ., sent. n. 2572 del 25.08.1971)". Ebbene, giova premettere che, nel regolare il conflitto di interessi tra i proprietari di fondi confinanti, il legislatore, se con gli artt. 905 e 906 c.c., ha inteso tutelare la privacy del vicino, imponendo una determinata distanza per l'apertura delle vedute, ha, per altro verso, con l'art. 907 c.c., ritenuto equo tutelare anche chi ha aperto la veduta, imponendo al vicino di non ostruire, se non ad una distanza tale da non impedire al titolare l'esercizio della veduta stessa. Tanto chiarito, quanto alla sopraelevazione effettuata dai convenuti/odierni appellanti S./R., osserva la corte che, contrariamente a quanto da essi dedotto (pagg. 10-11 dell'appello), il tribunale, lungi dal cambiare radicalmente la obiettiva valutazione del CTU, aggravando la posizione dei convenuti, ha correttamente valutato le risultanze delle indagini peritali, che davano preliminarmente atto dell'esistenza, già accertata dal primo consulente, arch. C. Coppo (cfr. pag. 14 dell'elaborato a sua firma), di un aumento della quota di gronda del fabbricato di circa 1,40 metri, mediante innalzamento della parete del fabbricato, con la conseguenza, evidenziata dal secondo CTU, ing. Ca., che laddove il solaio di copertura preesistente a falda inclinata era sottostante alla finestra della cassa scala (di pertinenza dell'immobile di Co.Pa.), adesso la invade, seppur in maniera ridotta. L'innalzamento lo si evince non solo dalla fotografia del fabbricato dei convenuti prima dei lavori, richiamata dal CTU arch. Coppo nella sua relazione, ma anche dalla fotografia dell arch. Bifulco (tecnico progettista dei convenuti) contenuta nella documentazione acquisita dal CTU con l'accesso agli atti presso l'ufficio tecnico del Comune di San Giuseppe vesuviano (cfr. all. 4 elaborato peritale del CTU arch. Coppo) (pag. 9 dell'elaborato). Consegue che la sopraelevazione effettuata dai convenuti, costituente nuova costruzione, lesiva del diritto di veduta (diretta) dalla finestra della cassa scala (invasa dal cornicione del solaio a falda inclinata del nuovo tetto, realizzato a ridosso di detta finestra), ha legittimamente condotto il primo giudice, in applicazione dell'art. 907 c.c., a disporre l'arretramento del manufatto alla distanza legale stabilita nell'indicata disposizione normativa, restando irrilevante, in senso contrario, la circostanza che, nella specie (come pure si legge nella sentenza gravata, che richiamava gli accertamenti svolti dal CTU, ing. Gi. Ca.), la finestra sia stata invasa in misura ridotta e senza apprezzabile diminuizione di luce ed aria (pagg. 10-11 dell'elaborato), atteso che, per consolidato insegnamento giurisprudenziale, la distanza di tre metri dalle vedute prescritta dall'art. 907 c.c. per le nuove costruzioni, al pari di ogni altra distanza prescritta dalla legge per disciplinare i rapporti di vicinato, ha carattere assoluto, essendo stata predeterminata dal legislatore in via generale ed astratta, senza che al giudice sia consentito alcun margine di discrezionalità sia nella valutazione della esistenza della violazione della distanza, sia nella valutazione relativa alla dannosità e pericolosità della posizione della nuova costruzione rispetto alla veduta del vicino (Cass. n. 15381/2000; nello stesso senso, Cass. n. 36122/2021). Al riguardo, la Suprema Corte ha precisato che: "L'obbligo di costruire a non meno di tre metri dalle vedute dirette aperte nella costruzione esistente sul fondo vicino, di cui all'art. 907 cod. civ., ha natura assoluta e va osservato anche quando l'erigenda costruzione non sia tale da impedire di fatto l'esercizio della veduta, mentre una valutazione circa l'idoneità dell'opera ad ostacolare il diritto di veduta può venire in rilievo soltanto quando si intenda erigere un manufatto diverso da una costruzione in senso tecnico" (cfr. Cass. n. 12033/2011, anche in motivazione, ove si chiarisce: "L'art. 907 cod. civ., che vieta di costruire a distanza inferiore di tre metri dalle vedute dirette aperte sulla costruzione del fondo finitimo, pone un divieto assoluto, la cui violazione si realizza in forza del mero fatto che la costruzione è a distanza inferiore a quella stabilita, a prescindere da ogni valutazione in concreto se essa sia o meno idonea ad impedire o ad ostacolare l'esercizio della veduta (Cass. n. 11199 del 2000; Cass. n. 12299 del 1997). La norma codicistica, infatti, enuclea in favore del titolare della veduta un diritto perfetto al rispetto della distanza legale da parte della costruzione del vicino, senza introdurre ulteriori condizioni. La soddisfazione di tale diritto non può rimanere pertanto condizionata dalle caratteristiche dell'opera eretta dal vicino, una volta che essa abbia i caratteri della costruzione in senso proprio, così come previsto dalla norma, che usa il termine "fabbricare", da cui è enucleabile il sostantivo "fabbricato" o "costruzione""; nello stesso senso, ex multis, Cass. n. 26263/2018). Sulla scorta di quanto precede, restano superate tutte le obiezioni formulate dagli appellanti, che errano, dunque, nel ritenere che il tribunale, senza violare la normativa in materia di vedute, avrebbe ben potuto respingere la domanda attorea, limitandosi ad indicare come accorgimento correttivo l'eliminazione della porzione di cornicione pari a cm 23 per cm 15 che invade la parte in basso a destra della finestra posta sul pianerottolo tra il secondo ed il terzo piano della cassa scale. Quanto, invece, al balconcino al terzo piano, attraverso il quale, come chiaramente si evince dalle risultanze della CTU a firma dell'ing. Gi. Ca. (pagg. 11-12, nonché pag. 18 dell'elaborato), si esercita una veduta a tutti gli effetti (rispetto alla sola luce del preesistente suppenno), legittimamente il tribunale richiamava la normativa in tema di distanze da rispettare per l'apertura di vedute (artt. 905 e 906 c.c.), essendosi aperta (con la costruzione del balconcino) una nuova veduta, prima inesistente, che, come già evidenziato dal primo giudice sulla scorta delle indagini peritali espletate, aveva (anche) invaso la finestra (lucifera) posta sul pianerottolo di riposo fra il primo ed il secondo piano della cassa scala, con possibilità di esercizio della veduta all'interno della cassa scala. Rilevava, infatti, il CTU che: "Dal balconcino dei convenuti inoltre può esercitarsi la veduta laterale attraverso la finestra della cassa scale (oggi impedita solo quando l'infisso è chiuso essendo stato apposto un vetro opacizzato)" (pag. 12 dell'elaborato). Peraltro, trattandosi di apertura di veduta laterale (e non diretta), in parziale riforma della sentenza gravata, che fa riferimento alla diversa distanza prevista dall'art. 905 c.c. (relativa all'aperura delle sole vedute dirette), va disposto l'arretramento del balconcino prospiciente la finestra della cassa scala posta sul pianerottolo fra il primo ed il secondo piano alla distanza prevista, per l'apertura di vedute laterali od oblique, dall'art. 906 c.c. (cfr., in motivazione, Cass. n. 8010/2018, resa in fattispecie identica a quella in esame), correttamente invocato nell'atto di appello (pag. 12). In tali ristretti limiti va dunque accolto il secondo motivo di doglianza. Restano, di contro, superate tutte le residue e fumose obiezioni formulate dagli appellanti, che errano nel ritenere che la fattispecie andava correttamente inquadrata nell'ambito della normativa in materia di luci ex artt. 901, 902, 903 e 904, c.c., venendo primariamente in rilievo il DIRITTO DEL VICINO DI CHIUDERE LE LUCI IN QUALSIASI MOMENTO!, vieppiù ove si consideri, da un lato, che il tribunale, con motivazione non specificamente contrastata, affermava che risulta acquistato per usucapione il diritto di luce e veduta dalle aperture collocate su tale cassa scala; dall'altro, che, in ogni caso, ai fini dell'applicabilità dell'art. 904 c.c. ("Diritto di chiudere le luci"), occorre che la costruzione in aderenza o in appoggio dell'edificio preesistente sia stata già realizzata (Cass. n. 15442/2000), avendo la Suprema Corte chiarito che: "L'art. 904 c.c. conferisce al proprietario confinante col muro sul quale sono aperte le luci il diritto di chiuderle, qualora costruisca in aderenza ovvero in appoggio dell'edificio preesistente (previo acquisto della comunione del muro), non anche, pertanto, in relazione alla semplice intenzione di costruire, che non fa venir meno il diritto del proprietario del muro di mantenere le luci aperte jure proprietatis" (Cass. n. 1327/1992). -. Con il terzo motivo di doglianza, si contesta la pronuncia gravata nella parte in cui il tribunale, nell'esaminare la domanda attorea di risarcimento del danno per violazione dei diritti condominiali ed aggravamento di servitù, la accoglieva parzialmente, così argomentando: "...Deve peraltro, ritenersi, in concreto, che la realizzazione di nuove unità immobiliari, ove in precedenza dal cortile comune si accedeva al solo cellaio ad uso deposito, accertata da entrambi i consulenti d'ufficio, abbia comportato un abuso o una diminuzione in concreto del godimento del cortile comune, giacché, pur non essendone stata alterata la destinazione, è stato sensibilmente limitato il pari uso del cortile in precedenza effettuato dagli altri condomini, stante il sensibile maggior numero di persone le quali, attualmente e rispetto al passato, fruiscono dello stesso. Trattasi, quindi, di modifica del bene comune avvenuta in dispregio dell'art. 1102 c.c. (cfr, a contrario, Cass. civ., sent. n. 1112 del 1988; Cass. civ., sent. n. 10704 del 14.12.1994; Cass. civ., sent. n. 4314 del 26.03.2002). Il consulente d'ufficio, del resto, nella relazione peritale depositata in Cancelleria in data 17.03.2014 (cfr pagina 14 della relazione), ha ritenuto che vi sia stato un aggravio di servitù in danno degli attori per effetto del cambio di destinazione d'uso delle unità abitative poste al piano terra/seminterrato. La liquidazione del danno avverrà, stante la richiesta di condanna generica, in separato giudizio". Conseguentemente, il primo giudice così statuiva in dispositivo: "b) accerta il diritto degli istanti al risarcimento del danno conseguente alla limitazione dell'uso del cortile comune, conseguente alle modifiche apportate al proprio immobile dai convenuti ed alla creazione di nuove unità abitative, in violazione dell'art. 1102 c.c., la cui liquidazione avverrà in separato giudizio;..". Orbene, assumono gli appellanti S./R. che il tribunale avrebbe reso una motivazione imperscrutabile nella parte in cui, dopo aver postulato tale limitazione al godimento ed al pari uso della cosa comune da parte dei compartecipanti, non spiega nella maniera più assoluta in cosa essa sia consistita, tenuto conto che risulta pacifico che il cortile comune non ha subito alcuna modificazione della destinazione d'uso, ulteriormente contestando al primo giudice di aver effettuato un discutibile ed improprio "remand" alle non proprio perspicue valutazioni espresse dal CTU sul punto. Infatti, l'elaborato peritale non offre alcun elemento o circostanza fattuale dalla quale potesse comprendersi in cosa sia consistita la limitazione al pari uso degli altri compartecipi al cortile comune, ovvero, se sia stato escluso del tutto il godimento del cortile da parte di questi ultimi (:"Per tali aperture preesistenti, a parere dello scrivente occorre tenere conto che con il cambio di destinazione d'uso delle unità immobiliari al piano terra /seminterrato, si è venuto a creare un aggravio di servitù, in quanto la presenza di unità abitative comporta una maggiore limitazione dell'area antistante da parte degli altri condividenti, rispetto al caso in cui fossero stati destinati a deposito" pag. 14 della relazione). Deducono, dunque, che la formula adoperata dal giudice per sostenere la violazione dell'articolo 1102 c.c. è assolutamente ambigua ed apodittica, meramente ripetitiva di un'affermazione a sua volta indimostrata adoperata dal CTU, e che, nel merito, la decisione è platealmente erronea ed illegittima, non essendoci stato alcun mutamento di destinazione della cosa comune e non essendo stata fornita alcuna prova in ordine alla limitazione del pari uso degli altri compartecipi al cortile comune per effetto delle opere realizzate dai convenuti che sono tutte interne alla proprietà esclusiva di questi ultimi, conclusivamente evidenziando che la mutata destinazione in residenza di locali in precedenza usati come depositi non ha determinato, né può determinarlo in futuro, una limitazione al precedente ed attuale pari uso dei condomini. La censura è fondata. Diversamente da quanto si legge nella sentenza gravata, infatti, deve ritenersi che, essendo rimasta inalterata la destinazione del cortile comune, il maggior numero di persone che, rispetto al passato, fruiscano dello stesso, a seguito della realizzazione di nuove unità immobiliari, conseguenti al cambio di destinazione d'uso (da deposito ad abitazione) dei locali posti a piano terra/seminterrato di proprietà esclusiva dei S./R., non integri un'ipotesi di modifica del bene comune avvenuta in dispregio dell'art. 1102 c.c., vieppiù che, nella specie, non v'è la benché minima prova che sia stato in concreto sensibilmente limitato il pari uso del cortile in precedenza effettuato dagli altri condomini, neanche risultando chiarite le modalità con le quale sarebbe avvenuta siffatta (indimostrata) limitazione. In tal senso va pertanto riformata la pronuncia in parte qua impugnata, che, nel dar rilevanza, come correttamente rilevato dagli appellanti, ad un criterio squisitamente quantitativo, ossia quello della potenziale maggiore affluenza di persone nel cortile comune, si è discostata dal consolidato insegnamento giurisprudenziale in virtù del quale la nozione di pari uso della cosa comune che ogni compartecipe, nell'utilizzare la cosa medesima, deve consentire agli altri, ex art. 1102 c.c. non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione (Cass. n. 21256/2009). In particolare: "In tema di comunione, ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella degli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di questi ultimi. In particolare, per stabilire se l'utilizzo più intenso del singolo sia consentito ai sensi dell'art. 1102 c.c., deve aversi riguardo non all'uso concreto fatto dagli altri condomini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno; l'uso deve in ogni caso ritenersi permesso se l'utilità aggiuntiva ricavata dal singolo comproprietario non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene, sempre che tale uso non dia luogo ad una servitù a carico del suddetto bene comune" (Cass. n. 9278/2018). Sulla scorta di quanto precede, dunque, in parziale riforma della pronuncia gravata, va rigettata la domanda attorea di risarcimento del danno conseguente alla limitazione dell'uso del cortile comune, conseguente alle modifiche apportate al proprio immobile dai convenuti ed alla creazione di nuove unità abitative. -. Resta assorbito l'esame del quinto ed ultimo motivo di doglianza (con cui si lamenta l'errata ed ingiusta regolamentazione delle spese di CTU, poste interamente a carico dei convenuti), proposto in via gradata, nel solo caso di rigetto dell'appello, nella specie, invece, accolto, sia pur solo in parte. III. Può ora passarsi all'esame dell'appello incidentale proposto da P.Gi.Co., coltivato dai successori Gi. e Va.Co., che insistevano per il relativo accoglimento. -. Con il primo motivo di doglianza, si chiede la riforma della sentenza gravata nella parte in cui afferma che il nuovo corpo di fabbrica realizzato dai S./R. non determina violazione delle distanze stabilite dall'art. 873 c.c. e dal D.M. n. 1444 del 1968 (pag. 9: "Il consulente, invece, ha escluso che vi sia stata, per effetto della realizzazione della sopraelevazione, violazione delle distanze legali ai sensi dell'art. 873 c.c. o violazione della distanza minima di dieci metri di cui al D.M. n. 1444 del 1968"). Assumono gli appellanti incidentali che il tribunale, aderendo alle conclusioni del CTU, ing. Ca., avrebbe erroneamente considerato la distanza di dieci metri intercorrente tra la proprietà esclusiva di Co.Pa. e la proprietà degli appellanti S./R., senza tuttavia considerare che il confine con la proprietà di questi ultimi era rappresentato proprio dalla cassa scale, posta tra i due corpi di fabbrica di proprietà esclusiva delle parti in causa, di talché i dieci metri della nuova costruzione realizzata dai S. andavano misurati dalla cassa scale. Chiedono, pertanto, alla corte adita, in riforma della pronuncia gravata, di condannare gli attuali appellanti principali ad arretrare il fabbricato realizzato alla distanza legale prevista dal D.M. n. 1444 del 1968 dal corpo di fabbrica costituente la cassa scale; in via subordinata quantomeno di condannare gli odierni appellanti principali ad arretrare la sopraelevazione alla distanza di dieci metri dal detto corpo di fabbrica costituente la cassa scale. La doglianza va disattesa. Invero, la corte, al fine di chiarire tale aspetto, con ordinanza del 13.5.2022, rimetteva la causa sul ruolo istruttorio, disponendo un supplemento di perizia, affidato al CTU già nominato in prime cure, ing. Gi. Ca., avente ad oggetto la natura o meno di opera edilizia da attribuire alla cassa scala che divide i due fabbricati nonché, all'esito eventualmente positivo del primo quesito, misurare la distanza effettivamente intercorrente tra detta struttura e la sopraelevazione realizzata dagli appellanti principali. Ebbene, il CTU, dopo aver opportunamente precisato che lo stato dei luoghi non è mutato rispetto a quello della precedente perizia, ed aver chiarito che la cassa, per come è realizzata, configura un volume edilizio, essendo chiusa con pareti lungo il perimetro e con solaio di copertura e come tale è da qualificarsi come "costruzione", da tenere conto nella verifica del rispetto delle distanze" (pagg. 4-5), accertava che la sopraelevazione del S. non vìola le distanze ex art. 873 cc e D.M. n. 1444 del 1968 rispetto alla cassa scala, da misurarsi con il metodo lineare, in quanto le due pareti (del S. e della cassa scala) non si fronteggiano ma sono ortogonali tra loro, per cui facendole avanzare idealmente, non si intersecano in nessun punto. A rigore la parete del S. fronteggia per soli 12 cm una piccola sporgenza della cassa scala, che a parere dello scrivente è irrilevante ai fini della verifica del rispetto delle distanze legali, da valutare in relazione allo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. e D.M. n. 1444 del 1968, che è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive (pag. 6), nelle specie sicuramente da escludere come chiaramente si evince dalla produzione fotografica riportata nell'elaborato peritale (cfr. foto alle pagg. 6-7). Conclusione condivisa dalla corte perché sorretta da valide argomentazioni tecniche e conforme allo scopo della legge, oltre che minimamente contrastata, sotto il profilo tecnico, dal consulente di parte dei C., arch. Boccia, che, come rilevato anche dal CTU in sede di controdeduzioni, afferma che c'è stata violazione delle distanze, ma non chiarisce in quale modo l'ha determinata, tanto che non ne riporta la misurazione calcolata. Come chiarito nel corpo della relazione, lo scrivente ribadisce che la parete sopraelevata del S. e quella della cassa scala, sono ortogonali tra di loro, per cui facendole avanzare idealmente non si incontrano in nessun punto, per cui non sussiste violazione delle distanze (cfr. pag. 8 dell'elaborato). -. Con il secondo motivo di gravame, si chiede di riformare la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che l'apertura del cancelletto verso le scale comporterebbe un disagio minimo degli altri comunisti e che non sarebbe stato "convincentemente provato che vi siano fenomeni di stagnazione delle acqua meteoriche sul pianerottolo delle scale antistante il terrazzo". Assumono, in contrario, gli appellanti incidentali che i numerosi testimoni che sono stati escussi hanno confermato che il cancelletto si apriva verso il terrazzo confermando le foto d'epoca depositate agli atti di causa. La diversa apertura di detto cancelletto, contrariamente a quanto assunto da controparte, è di grave pregiudizio considerato che le ante lasciate aperte sul pianerottolo sono fonte di grave pericolo, soprattutto nelle ore notturne, perché intralciano il percorso e quindi possono provocare cadute a chi utilizza le scale. Peraltro, come emerge dagli elaborati peritali, contrariamente a quanto assunto dal Tribunale, risulta che il rialzo del "pavimento esterno della terrazza effettuato dai signori S. - R." provoca, per una errata pendenza del massetto, una stagnazione delle acque meteoriche nelle scale, durante i periodi di pioggia. Tale stagnazione, inoltre, causa infiltrazione nei muri di proprietà del signor C. (ved. CTU a firma dell'arch. Coppo e prova testimoniale). Chiedono, pertanto, alla corte adita, in riforma della pronuncia gravata, di condannare gli attuali appellanti principali a cambiare il verso di apertura del cancello e ad effettuare tutti i lavori necessari al terrazzo per eliminare la causa delle lamentate infiltrazioni e stagnazione delle acque nelle scale. La censura va disattesa. Così argomentava il tribunale: "Va, da ultimo, osservato che l'apertura del cancello di accesso al terrazzo sulla scala comune ha comportato un disagio minimo alle facoltà di godimento della scala da parte degli altri comunisti, tale da rientrare nelle facoltà d uso della cosa comune consentite ai sensi dell'art. 1102 c.c., mentre non è stato convincentemente provato che vi siano i fenomeni di stagnazione delle acque meteoriche sul pianerottolo delle scale antistante il terrazzo (ritenuti possibili dal primo consulente d'ufficio secondo cui l'innalzamento della quota del terrazzo "crea la possibilità" che si verifichino tali fenomeni, cfr. pagina 15 della relazione peritale depositata in Cancelleria in data 11.06.2010) e che, quindi, vi sia stata violazione dell'art. 908 c.c.". Motivazione condivisa dalla corte e che va qui confermata, vieppiù perché minimamente scalfita dalle obiezioni (oltremodo) generiche sollevate dagli appellanti, all'evidenza inidonee a confutare le argomentazioni poste dal tribunale a fondamento del rigetto della pretesa, basate sulla corretta applicazione dell'art. 1102 c.c. e sull'attenta valutazione delle risultanze peritali specificamente richiamate. -. Con il terzo ed ultimo motivo di gravame, si chiede la riforma della sentenza gravata nella parte in cui il tribunale compensava le spese di lite, al fine evidenziandosi, genericamente, che erano state accolte la maggior parte delle domande proposte dal comparente (Co.Pa.) per cui avrebbe dovuto esserci quantomeno una soccombenza parziale degli odierni appellanti principali. Pertanto, si chiede alla Corte di condannare controparte al pagamento delle spese e competenze anche della causa svoltasi innanzi al Tribunale di Nola. La censura va disattesa. Nell'impugnata pronuncia si legge: "Sussistono i giusti motivi di cui all'art. 92 c.p.c., nella formulazione applicabile ratione temporis, anche stante il parziale accoglimento delle domande degli attori, per compensare integralmente le spese di lite nel rapporto processuale fra le parti costituite. Le spese della consulenza d'ufficio, ferma restando la solidarietà passiva fra tutte le parti nei confronti del consulente in base ai decreti di liquidazione emessi in corso di causa (cfr Cass. civ., sent. n. 28094 del 30.12.2009), si pongono nei rapporti interni fra le parti, a carico esclusivo di parte convenuta". Statuizione che va qui confermata, tenuto conto: i) dell'espresso richiamo ai giusti motivi ex art. 92 c.p.c., nell'ampia formulazione applicabile ratione temporis, ante novella n. 263/2005 ("Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti"); ii) dell'accoglimento solo in minima parte delle plurime domande avanzate dall'attore Co.Pa.; iii) della regolamentazione degli esborsi di CTU, posti integralmente a carico dei convenuti, il che, nei fatti, ha comportato una compensazione parziale degli oneri processuali (cfr., in argomento, Cass. n. 22868/2019, che afferma: "Non viola l'art. 92 c.p.c. il giudice di merito che, dopo avere dichiarato la compensazione delle spese fra le parti, pone a carico dell'attore quelle della consulenza tecnica di ufficio, in quanto tale pronuncia sta solo ad indicare che la compensazione ha natura parziale"). Al riguardo, la Suprema Corte, in fattispecie regolata dall'art. 92 c.p.c. ante novella n. 263/2005, ha affermato: "Il sindacato di legittimità sulle pronunce dei giudici del merito con le quali sia stata disposta la compensazione, parziale o totale, delle spese giudiziali è limitato - fermo rimanendo il divieto di condanna alle spese della parte totalmente vittoriosa - all'accertamento dell'avvenuto richiamo, da parte dei giudici stessi, dei giusti motivi richiesti dall'art. 92 c.p.c. o di analoghe ragioni, non necessitando il provvedimento di compensazione di specifica motivazione ove a tale lata previsione normativa venga fatto esplicito riferimento. Qualora, invece, i giusti motivi, oltre che enunziati, siano stati anche sviluppati formando oggetto di specifiche argomentazioni, il sindacato di legittimità deve estendersi alla verifica dell'idoneità in astratto dei motivi stessi a giustificare la pronuncia e dell'adeguatezza delle argomentazioni svolte al riguardo. Nessuna violazione della normativa, inoltre, può ravvisarsi nel fatto che il giudice di merito, pur disponendo l'integrale compensazione delle spese, abbia lasciato quelle di consulenza tecnica a carico della parte che le aveva anticipate, atteso che ciò che è potenziale oggetto di condanna è necessariamente anche, in non minor misura, potenziale oggetto di esclusione della condanna attraverso la compensazione" (cfr. Cass. n. 633/2003, anche in motivazione). -. Peraltro, considerato che l'esito finale della lite ha lasciato pressoché immutato l'impianto motivazionale della pronuncia gravata, resta ferma la regolamentazione delle spese del primo grado operata dal tribunale. IV. Quanto alle spese della presente fase, le stesse, nei rapporti tra le parti costituite, e salvo quanto si dirà per gli esborsi di CTU, vanno integralmente compensate, in considerazione dell'accoglimento dell'appello principale solo in minima parte, poco rilevante nell'economia complessiva della lite, del rigetto di quello incidentale e dell'infondatezza di tutte le eccezioni preliminari in rito sollevate dall'appellata Ma.Co.. Le spese della CTU espletata in appello, funzionale al gravame incidentale spiegato da Gi.Co. e Va.Co., restano interamente a carico di questi ultimi. Nulla sulle spese del grado nei rapporti con gli appellati contumaci. Ricorrono i presupposti per il versamento a carico degli appellanti incidentali dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex art. 13, comma 1 quater, T.U. n. 115/02, come modificato dall'art. 1, comma 17, L. n. 228 del 2012. P.Q.M. La Corte di Appello di Napoli, VI sezione civile, definitivamente pronunciando nella causa civile in grado d'appello iscritta al N. 5811 R.G.A.C. per l'anno 2015, tra le parti indicate in epigrafe, contro la sentenza del tribunale di Nola n. 2777/2014, pubblicata in data 19.11.2014, ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così provvede: - rigetta l'appello incidentale; - accoglie, per quanto di ragione, l'appello principale e, per l'effetto: 1) in parziale riforma del capo a) del dispositivo della sentenza gravata, che per il resto conferma, condanna gli appellanti principali S./R. ad arretrare il balcone prospiciente la finestra della cassa scala posta sul pianerottolo fra il primo ed il secondo piano alla distanza di cui all'art. 906 c.c. dalla predetta luce; 2) in riforma del capo b) del dispositivo della sentenza gravata, rigetta la domanda attorea di risarcimento del danno conseguente alla limitazione dell'uso del cortile comune; - conferma per il resto la sentenza gravata; - compensa integralmente tra le parti costituite le spese del grado; - pone le spese della CTU espletata in appello interamente a carico degli appellanti incidentali; - nulla sulle spese del grado nei rapporti con gli appellati contumaci; - da atto della sussistenza dei presupposti di legge per il versamento a carico degli appellanti incidentali dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato. Così deciso in Napoli il 21 marzo 2024. Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8490 del 2023, proposto dal signor Ma. Im. e dalla signora Br. Id. De Cr., rappresentati e difesi dagli avvocati En. Fo. e Il. Fo., con domicilio digitale come da pec da registri di giustizia; contro il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Er. Ce., con domicilio digitale come da pec da registri di giustizia; per l'ottemperanza della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, Sezione Prima, n. 58 del 9 gennaio 2023, e del Consiglio di Stato, sez. IV, del 31 maggio 2023 n. 5396, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visto l'art. 114 cod. proc. amm.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 25 gennaio 2024 il consigliere Michele Conforti e uditi per le parti gli avvocati come da verbale. FATTO e DIRITTO 1. Giunge alla decisione del Consiglio di Stato il ricorso per l'ottemperanza proposto dai signori Ma. Im. e Br. Id. De Cr. aventi causa dalla Società Im. Sa. Cr. di Im. Ma. & C. S.a.s.. 2. In particolare, i ricorrenti domandano la declaratoria di nullità del provvedimento del 10 ottobre 2023, prot. n. 00035280 del Comune di (omissis), con il quale l'ente locale ha dato attuazione alla sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, Sezione Prima, n. 58 del 9 gennaio 2023, e del Consiglio di Stato, sez. IV, del 31 maggio 2023 n. 5396, quest'ultima resa a definizione del giudizio di ottemperanza incardinato per l'attuazione della suindicata sentenza del T.A.R. 2.1. I ricorrenti domandano, altresì, la declaratoria di avvenuto perfezionamento del silenzio assenso sull'istanza di permesso di costruire presentata in data 3 novembre 2020, rinnovata una prima volta il 25 maggio 2022 e una seconda volta in data 8 giugno 2023, nonché (in via alternativa) la condanna dell'amministrazione al rilascio del permesso di costruire. 3. Si premettono i fatti rilevanti per la decisione del giudizio, che, per economia processuale, vengono, in parte, ripresi dalla sentenza n. 5396 del 2023, dandosi conto delle sopravvenienze a tale giudizio. 3.1. L'area per la quale è stato domandato il rilascio del titolo edilizio è ubicata nel territorio del Comune di (omissis). 3.1.1. A quanto risulta, la predetta area era stata originariamente ricompresa in un piano di lottizzazione proposto dalla ditta Sa. Mi., dante causa della dante causa dei ricorrenti, in attuazione del quale, in data 6 maggio 1964, era stato sottoscritto un atto denominato "disciplinare", in cui era previsto che la parte privata si obbligasse a lasciare a completa disposizione dell'amministrazione comunale le zone tratteggiate in rosso del piano di lottizzazione (compresa quella di cui è causa), per la realizzazione di un asse viario. 3.1.2. L'area in questione è stata poi acquistata dalla società Im. Sa. Cr. di Ma. Im. e c. s.a.s., la quale, una volta immessasi nel possesso dell'area, l'ha delimitata con picchetti di 1,30 metro, collegati da un nastro. 3.1.3. Il 9 novembre 2017, il Comune ha emesso l'ordinanza n. 181, con la quale ha ingiunto la rimozione della recinzione. 3.2. Questo provvedimento è stato impugnato innanzi al T.a.r. per la Puglia, che, con la sentenza n. 808 del 4 giugno 2020, ha accolto il ricorso e annullato l'ordinanza di rimozione. 3.3. In data 14 settembre 2020, la società ha domandato il rilascio di un permesso di costruire per la realizzazione di un progetto finalizzato alla "realizzazione di un manufatto, ancorché di modeste dimensioni, improntato a razionalismo espressionista, frutto della ricerca tesa a qualificare l'importante punto della Città sul quale sarebbe sorto l'edificio, e costruito a "zero emissioni" per l'alta efficienza energetica". 3.3.1. Con la deliberazione n. 59 del 4 dicembre 2020, il Consiglio comunale ha formulato l'indirizzo per l'acquisizione sanante, ai sensi dell'art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001, dell'area in questione, a dire della ricorrente "sull'inesistente presupposto del possesso da parte del Comune per l'uso a parcheggio pubblico". 3.3.2. L'11 dicembre 2022, il Comune ha emanato il diniego di permesso di costruire, sul presupposto che per effetto della delibera consiliare n. 59/2020 sarebbe stata "sancita la destinazione pubblica dell'area che pertanto è sottratta all'utilizzo per scopi edificatori privati". 3.3.3. Con la delibera n. 168/2021 è stata infine disposta l'acquisizione ai sensi dell'art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 e si è quantificato l'indennizzo spettante. 3.4. Il provvedimento di diniego e il provvedimento di acquisizione ai sensi dell'art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 sono stati impugnati innanzi al T.a.r. per la Puglia, che, con la sentenza n. 757 del 29 aprile 2021, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sul tema relativo all'indennità di acquisizione ed ha accolto il gravame relativamente al diniego di permesso di costruire e al provvedimento di acquisizione dell'area. 3.5. Avverso questa sentenza ha comunque proposto appello "cautelativamente" la società che ha sostenuto l'erroneità della sentenza appellata, relativamente all'interpretazione della convenzione di lottizzazione del 1964, in ordine alla sussistenza di una servitù di non edificazione sull'area. 3.5.1. Con la sentenza n. 3448/2022, questo Consiglio ha dichiarato inammissibile l'appello per difetto di soccombenza della parte proponente. 3.6. Il 27 maggio 2022, la società ha pertanto riattivato il procedimento finalizzato al rilascio del permesso di costruire. 3.6.1. Con il provvedimento n. n. 0025205 del 20-21 giugno 2022, il Comune ha respinto nuovamente l'istanza, evidenziando che: "L'On. le T.a.r. Puglia con sentenza n. 757/2021 del 29.04.2021 ha confermato la sussistenza di un vincolo di inedificabilità per l'area oggetto di richiesta (foglio n. 40 - p.lla n. 2321). Ed infatti avverso il provvedimento sopra riportato, codesta società ha proposto appello all'Ecc.mo Consiglio di Stato che con Sentenza n. 3448/2022 del 3.05.2022 ne ha dichiarato l'inammissibilità . Resta pertanto definitivamente accertata, anche in forza dei prefati provvedimenti la destinazione di uso pubblico dell'area e la sussistenza di un vincolo di inedificabilità a favore della collettività ". 3.7. Avverso il suindicato diniego, la società ha proposto ricorso per l'ottemperanza innanzi al T.a.r. per la Puglia. 3.7.1. Con la sentenza n. 58/2023, il T.a.r. ha dichiarato il ricorso infondato e, in parte, inammissibile, condannando la società al pagamento delle spese di lite. 3.7.2. La sentenza di primo grado è stata appellata dalla società soccombente innanzi a questo Consiglio, con la formulazione di due motivi di appello. 3.8. Con la sentenza n. 5396/2023, questo Consiglio ha riformato la sentenza del T.a.r. per la Puglia n. 58 del 9 gennaio 2023 e ha statuito, in via conformativa, che: a) nel corso del procedimento eventualmente riattivato dalla società, il Comune dovrà esaminare, in ogni caso, i profili strettamente urbanistici ed edilizi di assentibilità o di non assentibilità del progetto, come peraltro già previsto dall'effetto conformativo della sentenza del Consiglio di Stato n. 3448/2022; b) il Comune potrà comunque verificare nell'ambito del procedimento riattivato se sussista una qualche preclusione di natura diversa da quelle di carattere urbanistico o edilizio, ricostruendo compiutamente le vicende che avrebbero comportato, in tesi, il sorgere di questa preclusione, che impedisca l'edificabilità del bene, ma senza - come fatto nel provvedimento impugnato - richiamare il giudicato derivante dalla sentenza del T.a.r. per la Puglia n. 757/2021 e senza che tale preclusione inibisca o precluda, sul versante istruttorio del procedimento riattivato, l'accertamento di cui al precedente punto "a" (che rimane libero negli esiti); c) affinché si possa giungere alla completa definizione della vicenda, il Comune dovrà, altresì, nei limiti del possibile, ricostruire la vicenda relativa al "piano di lottizzazione proposto dalla ditta Sa. Mi., dante causa della ricorrente, in attuazione del quale, in data 6 maggio 1964, era stato sottoscritto un disciplinare in cui era previsto che la parte privata si obbligasse a lasciare a completa disposizione dell'Amministrazione comunale le zone tratteggiate in rosso del piano di lottizzazione (compresa quella di cui è causa) per la realizzazione di un asse viario" (Cons. Stato, n. 3448 del 2022, § . 2), anche verificando, previa istruttoria procedimentale, se l'obbligo di destinare l'area per la quale causa ad un uso pubblico, da parte della ditta Mi. Sa., costituisca o possa costituire un'obbligazione propter rem, scaturente dalla stipulazione della convezione di lottizzazione. 3.9. Riattivato il procedimento, su istanza dei coniugi Im. e De Cr., il Comune ha emanato il provvedimento n. 00035280 del 10 ottobre 2023, con il quale ha respinto l'istanza di permesso di costruire rilevando che: a) nella convenzione del 6 maggio 1964, sottoscritta tra il Comune e il signor Mi. Sa., è espressamente disciplinato di lasciare la "zona rappresentata in rosso", e in relazione alla quale è stato domandato il rilascio del permesso di costruire, a "Zona a disposizione dell'Amministrazione" e "Zona a verde", come risulta dalla planimetria allegata e sottoscritta dalle parti, tant'è che, con delibera n. 118 del 15 maggio 1974, sono stati approvati i lavori di sistemazione del piazzale e costruito un muro di contenimento; b) con l'attuale P.r.g. l'area ha conservato lo stato giuridico e di fatto della convenzione stipulata con il signor Sa.. 4. I signori Im. e De Cr. hanno proposto ricorso per l'ottemperanza. 4.1. Con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti deducono la nullità del provvedimento che avrebbe violato le indicazioni stabilite dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 5396/2023, ottemperando soltanto a quanto richiesto dalla lettera "c" del paragrafo 11. Inoltre, i ricorrenti deducono altresì che sarebbe infondata in fatto la motivazione comunale secondo cui "con il PRG vigente ed attuale quell'area ha conservato lo stato giuridico e di fatto della convenzione Sa.". Si evidenzia, di contro, una diversa destinazione urbanistica, in quanto "la previsione del piano di lottizzazione, infatti, è stata superata e modificata dagli strumenti di pianificazione generale che prevalgono sul piano attuativo sia sotto il profilo della gerarchia pianificatoria (il piano attuativo deve uniformarsi al PRG o al PUG), sia sotto l'aspetto cronologico". Si contesta inoltre la sussistenza e l'opponibilità della "servitù " disposta con la convenzione del 1964. 4.2. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce l'avvenuta formazione del silenzio assenso ex art. 20 del d.P.R. n. 380/2001 e la conseguente illegittimità del diniego impugnato. Si deduce che il termine di 90 giorni è decorso a partire dall'8 giugno 2023 e scaduto il 6 settembre 2023, mentre il Comune ha adottato il diniego in data 10 ottobre 2023. 4.3. Con il terzo motivo di ricorso, si lamenta la violazione dell'art. 10 bis legge n. 241/1990, in quanto "la Società avrebbe potuto chiarire che l'amministrazione doveva seguire la normativa urbanistica vigente, essendo stata superata e modificata quella prevista dalla lottizzazione del 1964.". 4.4. Con il quarto motivo di ricorso, si domanda la condanna del Comune al rilascio del permesso di costruire, in applicazione del c.d. "one shot temperato". 4.5. Si è costituito in giudizio il Comune formulando, con la memoria dell'8 gennaio 2024, tre eccezioni pregiudiziali di inammissibilità : i. la prima, in quanto non sussisterebbe alcuna inottemperanza della sentenza di primo grado; ii. la seconda, in quanto la domanda di rilascio del p.d.c. sarebbe stata presentata soltanto dal signor Im. e non anche dalla signora De Cr.; iii. la terza, in quanto il ricorso domanderebbe "adempimenti non prescritti nella sentenza ottemperanda e per denunciare violazioni che attengono alla legittimità degli atti". 4.6. In data 8 gennaio 2024, la società ha depositato la sua memoria difensiva. 4.7. Il 12 gennaio 2024, la società ha depositato le repliche. 5. Alla camera di consiglio del 25 gennaio 2024, la causa è stata trattenuta in decisione. 6. Preliminarmente, il Collegio evidenzia che la prima e la terza eccezione di inammissibilità formulate con la memoria dell'8 gennaio 2024 dal Comune possono essere esaminate, per comodità espositiva, unitamente al merito. 6.1. Quanto alla seconda eccezione, essa è infondata. 6.1.1. Il presupposto che rileva ai fini della legittimazione alla proposizione del ricorso per l'ottemperanza è costituito dalla circostanza di essere stata la parte (o un suo erede o avente causa) che ha partecipato al giudizio di cognizione, ottenendo la sentenza favorevole che, in tesi, risulterebbe essere stata non ottemperata. 6.1.2. Questo presupposto sussiste nel caso di specie. 6.1.3. Infatti, nel giudizio n. r.g. 152/2021, definito dalla sentenza n. 757 del 29 aprile 2021, innanzi al T.a.r. per la Puglia, la società Im. Sa. Cr. di Im. Ma. & C. s.a.s., dante causa degli odierni ricorrenti signori Ma. Im. e Br. De Cr., ha visto accolto "nei termini di cui in motivazione" il ricorso principale e i motivi aggiunti proposti avverso il provvedimento del Comune di (omissis) dell'11 dicembre 2020, con cui è stata respinta l'istanza di permesso di costruire un fabbricato nell'area compresa tra Via (omissis) e Viale (omissis). 6.1.4. La sentenza di primo grado è diventata definitiva, quando l'appello proposto dalla Società Im. Sa. Cr. di Im. Ma. & C. s.a.s. è stato dichiarato inammissibile per difetto di soccombenza dalla sentenza n. 3448 del 3 maggio 2022 di questo Consiglio. 6.1.5. Sussiste, dunque, la legittimazione ad agire dei signori Im. e De Cr.. 7. Può procedersi all'esame delle rimanenti eccezioni unitamente al merito della controversia. 7.1. Contrariamente a quanto eccepito, con la prima e la terza eccezione di inammissibilità, il provvedimento n. 00035280 del 10 ottobre 2023 del Comune di (omissis) non ottempera alla sentenza n. 5396/2023 di questo Consiglio e deve essere dichiarato nullo. 7.2. Il provvedimento elude, infatti, il contenuto conformativo riassunto al paragrafo 3.8. ai punti a), b) e c) della presente sentenza. 7.2.1. In primo luogo, il provvedimento non chiarisce, così come richiesto al punto "a", se il progetto, in disparte la vicenda relativa alla sussistenza (o meno) della "disponibilità " dell'area in favore dell'amministrazione comunale, sia realizzabile (o meno) secondo le regole urbanistiche (ad esempio, se sussiste la compatibilità del progetto con la destinazione urbanistica, con le norme tecniche d'attuazione, con la cubatura disponibile nell'ambito di riferimento, etc.) ed edilizie (ad esempio, se sussista la distanza da altri edifici o dalla strada, se sussistano le distanze da luci e vedute di altri edifici, se siano rispettati i limiti di altezza, gli allineamenti, etc.). 7.2.2. In secondo luogo, il provvedimento non contiene una compiuta ricostruzione della vicenda relativa al "piano di lottizzazione proposto dalla ditta Sa. Mi., dante causa della ricorrente, in attuazione del quale, in data 6 maggio 1964", né indica le ragioni per le quali tale ricostruzione non può essere o non è stata effettuata, se non mediante un fugace accenno, come invece richiesto ai punti "b" e "c". Va evidenziato peraltro la circostanza che nessuna delle parti abbia depositato in giudizio l'accordo del 1964, dal quale discenderebbe la "messa a disposizione" al Comune dell'area per cui è causa da parte della società originaria proprietaria dell'area e dante causa dei successivi proprietari. 7.3. La domanda di nullità del provvedimento di diniego n. 00035280 del 10 ottobre 2023 del Comune di (omissis) va pertanto accolta. 8. Dall'accoglimento della domanda di nullità, articolata con il primo motivo di ricorso, discende l'inammissibilità degli ulteriori motivi di ricorso che prospettano vizi di legittimità o, comunque, richieste incompatibili - come nel caso della declaratoria dell'avvenuta formazione del silenzio assenso o della domanda di condanna al rilascio del p.d.c. - con l'accertamento della nullità e con il conseguente obbligo del Comune di rideterminarsi sull'istanza di rilascio del permesso di costruire. 9. In conclusione, il ricorso per l'ottemperanza va accolto e, pertanto, dichiarato nullo il provvedimento del 10 ottobre 2023, prot. n. 00035280, del Comune di (omissis), si assegna al Comune un termine di novanta giorni per provvedere sull'istanza, decorrente dalla comunicazione o dalla notificazione della presente sentenza, con avviso che in difetto si procederà, ad istanza dei ricorrenti, alla nomina di un commissario ad acta. 10. Le spese del presente grado di giudizio, regolamentate secondo l'ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso per l'ottemperanza n. r.g. 8490/2023, lo accoglie in parte nei termini di cui in motivazione. Condanna l'appellante alla rifusione, in favore di parte ricorrente, delle spese del giudizio che liquida in euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre agli accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e rimborso spese generali al 15%). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Neri - Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere Michele Conforti - Consigliere, Estensore Luigi Furno - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1070 del 2020, proposto da Gi. Ba., rappresentato e difeso dagli avvocati Ca. Ce. e Pa. Za., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico presso lo studio dell'avv. Pa. Za. in Milano, via (...); contro Comune di Milano, in persona del Sindaco in carica pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Pa. Co., An. Ma., Al. Mo. Am., An. Ma. Pa., Ma. Lo. Bo. ed El. Ma. Fe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico presso gli uffici legali dell'Ente in Milano, via (...); nei confronti Ec. Mi. S.r.l., non costituita in giudizio; per l'accertamento del diritto al risarcimento ex art. 30 del c.p.a. dei danni derivanti dall'adozione del provvedimento del 20.10.2017 WF. 27345/2016 - PG 636865/2016, con il quale è stato annullato il permesso di costruire n. 113 del 14.6.2017 e dell'ordine di demolizione delle opere eseguite, nonché dei provvedimenti connessi e consequenziali, tra cui, in particolare, il rapporto relativo al sopralluogo effettuato da un tecnico comunale in data 14.9.2017, PG. 399949/17 - wf.26558/17 (provvedimenti annullati con sentenza n. 1168/2019 del T.A.R. Lombardia - Milano, depositata in cancelleria il 23.5.2019). Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Milano; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 15 dicembre 2023, svoltasi in modalità da remoto, il dott. Oscar Marongiu e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il sig. Gi. Ba., odierno ricorrente, è titolare del diritto di usufrutto sull'immobile situato a Milano in (omissis), al medesimo trasferito per atto del 2.12.2016 dal sig. Fr. Ba.. 1.1. A quest'ultimo era stato rilasciato dal Comune di Milano il permesso di costruire n. 113 del 14.6.2017 per la ristrutturazione edilizia con modifica della sagoma, senza incremento di s.l.p., dell'unità immobiliare in questione. In particolare, come evidenziato nei disegni e nella documentazione fotografica, il permesso aveva autorizzato la traslazione della s.l.p. esistente, sulla copertura piana dell'edificio di proprietà, creando così una falda, analoga a quella dell'edificio confinante, in aderenza allo stesso. La società Ec. Mi. S.r.l. aveva segnalato con esposto al Comune di Milano che l'intervento in questione avrebbe chiuso due finestre al primo piano dell'immobile confinante, chiedendo, per tale motivo, l'annullamento del permesso di costruire rilasciato al sig. Ba.. Il Comune, quindi, con provvedimento del 20.10.2017, ha annullato il permesso di costruire ed ha ordinato all'interessato la demolizione delle opere eseguite nell'immobile in questione. 1.2. Il provvedimento di annullamento del permesso di costruire è stato impugnato dall'odierno ricorrente con ricorso RG n. 3022/2017 ed è stato annullato con la sentenza n. 1168/2019 di questo Tribunale, pubblicata il 23.5.2019 e divenuta definitiva in data 23.12.2019, in quanto non impugnata dal Comune né dalla controinteressata Ec. Mi. S.r.l. e, pertanto, passata in giudicato. La sentenza n. 1168/2019 ha accolto il ricorso sul presupposto che le "pareti finestrate" di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 fossero esclusivamente quelle qualificabili come vedute e che, pertanto, l'annullamento in autotutela del permesso di costruire era stato illegittimamente disposto in quanto "la violazione della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate prevista dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 era stata ritenuta sussistente in mancanza dei presupposti per l'applicazione della suddetta normativa", trattandosi nella fattispecie di luci e non di vedute. 1.3. Il ricorrente, quindi, in questa sede agisce per chiedere, ex art. 30 c.p.a., l'accertamento del diritto - e la conseguente condanna del Comune - al risarcimento dei danni a suo dire derivanti dall'adozione del provvedimento del 20.10.2017, con il quale - come detto - era stato annullato il permesso di costruire n. 113/2017 ed intimata la demolizione delle opere. 1.3.1. A dire del ricorrente il provvedimento di annullamento in autotutela assunto dal Comune, poi annullato da questo T.A.R., avrebbe determinato un considerevole ritardo nelle opere di cantiere, pari a più di 20 mesi: in tale lasso di tempo il cantiere sarebbe rimasto fermo, seppure già allestito e con delle opere in atto. Ciò avrebbe comportato un danno in termini di inutile esborso di denaro da parte del ricorrente per le spese di affitto delle attrezzature (ponteggio, recinzione e segnaletica di sicurezza, quadri elettrici, ecc., elencate nella fattura sub doc. 16 del ricorrente), per un totale di Euro 21.273,00, oltre ad IVA pari al 22%. Inoltre, a dire del ricorrente, egli ha dovuto sostenere il costo per la posa in opera di copertura impermeabile sul pavimento del piano primo, il cui costo è dettagliato in Euro 3.740,00 nella fattura. Tale intervento si è reso necessario per evitare che la soletta del piano primo si deteriorasse in balia delle intemperie, con conseguenti e ulteriori voci di danno, non essendo stato possibile posare la copertura della casa a seguito dell'annullamento del permesso di costruire. Il signor Ba., inoltre, data l'incertezza dei tempi del giudizio - considerato anche che ad esito della fase cautelare il Tribunale aveva sospeso l'efficacia del solo ordine di demolizione, lasciando inalterata l'efficacia dell'annullamento del permesso di costruire -, sostiene di aver dovuto acquistare una casa in cui vivere con la sua famiglia (moglie, figlia minore convivente e due figli maggiorenni in affidamento congiunto) e di avere corrisposto per l'acquisto di una casa a (omissis) la somma di Euro 404.400,00, ricorrendo ad un mutuo per la somma di Euro 263.778,00 con piano di ammortamento che prevedeva interessi pari ad Euro 81.456,37. Secondo la prospettazione attorea sussistono nella fattispecie tutti gli elementi costitutivi dell'illecito (oltre al danno-evento e al danno-conseguenza, il nesso di causalità e la colpa dell'Amministrazione), necessari per la condanna del Comune al risarcimento dei danni da essa lamentati. 1.4. Si è costituito il Comune intimato, chiedendo la reiezione del ricorso. 1.5. In vista dell'udienza di discussione le parti hanno ulteriormente argomentato a sostegno delle rispettive posizioni. 1.6. All'udienza pubblica del giorno 15 dicembre 2023 (ruolo smaltimento), tenutasi in modalità da remoto, la causa è passata in decisione. 2. Il ricorso è fondato. 2.1. Al riguardo il Collegio osserva quanto segue. 2.1. Il campo d'indagine è quello della responsabilità extracontrattuale della P.A., il cui fondamento è rinvenibile nell'art. 2043 c.c., a tenore del quale "Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno". L'iter evolutivo dell'istituto, che ha trovato la sua decisiva svolta nella sentenza n. 500/1999 con la quale le Sezioni Unite, recidendo un nodo gordiano del diritto amministrativo, hanno per la prima volta accordato tutela risarcitoria agli interessi legittimi, ha introdotto il sistema, attualmente vigente, nel quale è garantita piena tutela avverso l'illecito agire della pubblica Amministrazione. 2.2. Nello specifico, nella vicenda per cui è causa viene in rilievo una ipotesi di responsabilità extracontrattuale della p.a. derivante dalla lesione di un interesse legittimo oppositivo (correlato alla conservazione del bene della vita dell'interessato consistente nella facultas aedificandi conseguente al rilascio del permesso di costruire, la cui libera esplicazione è stata ostacolata e ritardata per via dell'annullamento in autotutela del permesso in questione, fino alla sentenza di questo TAR n. 1168/2019), cagionata dalla illegittima attività provvedimentale del Comune. Nella fattispecie, dunque, occorre verificare - alla luce di quanto allegato e provato dal ricorrente, in ossequio ai canoni di cui all'art. 2697 c.c. - la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito ai sensi dell'art. 2043 c.c., ossia, oltre alla illegittimità degli atti amministrativi, dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale) e di quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante). In altri termini, nel caso sottoposto all'attenzione dell'odierno Collegio, si impone un duplice ordine di accertamenti. In primo luogo, si deve verificare se ricorre una lesione contra ius, violando la stessa un interesse ritenuto meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, e non iure, espressione con cui si vuole significare che l'evento lesivo sia stato cagionato dall'agente a fronte di una condotta non giustificata dall'ordinamento. In secondo luogo, è necessario accertare, altresì, la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito civile ai sensi dell'art. 2043 c.c. 2.3. Ciò premesso, occorre prendere le mosse dalla già accertata illegittimità del provvedimento comunale impugnato con il ricorso RG n. 3022/2017. Di tale atto, infatti, questo Tribunale - come visto sopra - ha già riconosciuto l'illegittimità con la predetta sentenza n. 1168/2019 (nella quale viene anche specificato sotto quale profilo il provvedimento comunale di annullamento del permesso di costruire era viziato) e tale accertamento non può che essere condiviso dal Collegio, considerato il macroscopico vizio d'istruttoria ed il conseguente travisamento in cui è incorso il Comune. 2.4. Si deve dunque procedere - considerato che l'accertamento dell'illegittimità di un atto, come visto sopra, non dà automaticamente diritto al risarcimento del danno - alla verifica della lesione di una situazione soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento (id est: dell'ingiustizia del danno), del nesso causale tra l'illecito e il danno subito e della sussistenza della colpa o del dolo dell'Amministrazione (cfr. C.d.S., Sez. II, n. 3217/2019; Sez. III, n. 1500/2019; Sez. III, n. 2896/2014). 2.5. Quanto all'ingiustizia del danno, è evidente che l'illegittimo provvedimento comunale di annullamento del permesso di costruire, con contestuale ordine di demolizione delle opere realizzate, impedendo al ricorrente, per un considerevole lasso di tempo (dal 2.10.2017, data di emanazione del provvedimento di annullamento, fino al mese di giugno 2019, quando hanno potuto riprendere i lavori a seguito della sentenza n. 1168/2019, pubblicata il 23.5.2019), di completare la realizzazione dell'immobile in questione, ha determinato una lesione delle sue prerogative connesse alla sua posizione di usufruttuario, tutelate dall'ordinamento. 2.6. Non è in discussione, poi, il nesso di causalità tra il pregiudizio lamentato dal ricorrente (con le precisazioni che verranno fatte di seguito, sotto il profilo del quantum) e il provvedimento adottato dal Comune ed oggetto di annullamento in sede giurisdizionale, atteso che proprio (e solo) in conseguenza dell'adozione di tale atto il ricorrente si è trovato nell'impossibilità di proseguire per lungo tempo le attività edificatorie già intraprese, da ciò derivando un sicuro nocumento economico. 2.7. Quanto all'elemento soggettivo, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che, in sede di giudizio per il risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi a invocare l'illegittimità dell'atto quale indice presuntivo della colpa, restando a carico dell'Amministrazione l'onere di dimostrare che si è trattato di un errore scusabile. 2.7.1. Sul punto, peraltro, la giurisprudenza ha contribuito a tipizzare alcune situazioni, in presenza delle quali può ritenersi che l'emanazione dell'atto illegittimo sia stata determinata da un errore scusabile. In particolare, si ritiene costantemente (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, n. 1347/2016; id., Sez. VI, n. 4115/2015, n. 1944/2015 e n. 1114/2007; id., Sez. V, n. 5444/2017, n. 3858/2016 e n. 798/2013; id., Sez. III, n. 2452/2013) che integri gli estremi dell'esimente da responsabilità l'esistenza di: a) contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma; b) una formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore; c) una rilevante complessità del fatto; d) una illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata. 2.7.2. Orbene, nella vicenda in esame non è ravvisabile alcuno dei richiamati indici dai quali poter desumere che il Comune sia incorso in un errore scusabile. Ed invero, questo TAR, nella ridetta sentenza n. 1168/2019, ha osservato che "dall'esame degli atti e delle fotografie prodotte risulta chiaro che le aperture di cui si discute sono qualificabili in termini di luce e non di veduta. Esse infatti sono munite di grate di ferro e sono collocate ad un'altezza tale dal pavimento del luogo al quale si vuole dare luce ed aria, che non sono esercitabili le funzioni di veduta in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza (Cass. n. 18910 del 2012; Cass. n. 7267 del 2003) e non sono le stesse raggiungibili senza l'ausilio di strumenti appositi. Non possono quindi di certo considerarsi vedute alla stregua dell'art. 900 del codice civile - non consentendo né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio), ma semplici luci in quanto consentono il solo passaggio dell'aria e della luce (in questo senso Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 5.10.2015 n. 4628). Ne consegue, anche senza l'accertamento specifico dell'altezza prescritta ex art. 901 c.c., che è possibile affermare, senza ombra di dubbio, che le aperture in questione non sono vedute (sulla sufficienza di tale prova negativa Cass Civile. Ord. Sez. 2, 9.02.2019 n. n 4830) e quindi vanno qualificate come "luci" ai sensi dell'art. 902 c.c.". Si tratta di circostanze in fatto di agevole constatazione, il cui travisamento ad opera del Comune, dovuto ad un'attività istruttoria incompleta, costituisce indice significativo della sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa in capo all'Ente. 2.8. Acclarata la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito, e venendo al profilo relativo al quantum del danno risarcibile, occorre anzitutto sgombrare il campo da un equivoco di fondo in cui è incorso il ricorrente. Va chiarito, infatti, che l'esponente non può pretendere di essere risarcito per avere acquistato una casa in attesa della definizione della vicenda, atteso che: - l'acquisto della casa a (omissis), in primo luogo, è dipeso da una libera scelta del ricorrente, che avrebbe potuto optare anche per altre soluzioni temporanee e sicuramente meno dispendiose (come per es. la stipula di un contratto di locazione abitativa); - il ricorrente, in secondo luogo, non ha dimostrato che tale acquisto fosse essenziale, ma ha anzi egli stesso affermato nel ricorso (a pag. 13) di avere "ritenuto di dotarsi di una abitazione decisamente più stabile di quella dove si appoggiava ai tempi della emissione del provvedimento di annullamento, poiché risiedeva nell'abitazione dei genitori (doc. 21) situata in Via (omissis) a (omissis)", così implicitamente riconoscendo che era astrattamente possibile continuare a vivere nella casa dei propri genitori; - l'interessato, in ogni caso, ha poi rivenduto l'abitazione acquistata a (omissis) (v. memoria di replica) e non può escludersi che da tale operazione possa avere recuperato una somma equivalente (se non superiore) a quella dapprima impiegata per l'acquisto. Nel quantum risarcitorio, dunque, non può ricomprendersi alcuna delle voci ricollegabili all'acquisto della casa di (omissis), mancando al riguardo la prova del nesso di causalità . Quanto alle ulteriori voci di danno oggetto della domanda, invece, il Collegio, in applicazione dell'art. 34, comma 4, c.p.a., ritiene congruo stabilire i seguenti criteri, in base ai quali il Comune resistente dovrà proporre a favore del ricorrente il pagamento di una somma entro 45 giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza: - per il prolungamento del noleggio del materiale di cantiere, per il periodo dal 2.10.2017 al mese di giugno 2019 (data di riavvio dei lavori), dovranno essere computate le spese risultanti dalla documentazione contabile e fiscale dell'interessato, IVA inclusa; - per gli interventi per la conservazione e la messa in sicurezza delle opere già eseguite (posa di materiale per l'impermeabilizzazione, al fine di preservare la soletta del primo piano, per evitarne l'ammaloramento e i danneggiamenti a seguito di intemperie) dovranno parimenti essere computate le spese risultanti dalla documentazione contabile e fiscale dell'interessato, IVA inclusa; - la somma così complessivamente individuata sarà oggetto di rivalutazione e su di essa saranno conteggiati gli interessi, dalla domanda giudiziale fino al soddisfo. 2.9. In ragione delle suesposte considerazioni il ricorso deve essere accolto, nei sensi e per gli effetti sopra esposti, con la conseguente condanna del Comune, nei termini e nei limiti appena descritti, al risarcimento dei danni subiti dal ricorrente. 2.10. Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono il criterio della soccombenza, come di norma; nulla deve disporsi sulle spese, peraltro, nei confronti della parte non costituita. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi e per gli effetti di cui in motivazione. Condanna il Comune di Milano alla rifusione delle spese di lite in favore del ricorrente, liquidandole complessivamente in euro 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2023, svoltasi in modalità da remoto, con l'intervento dei magistrati: Giovanni Zucchini - Presidente Oscar Marongiu - Consigliere, Estensore Laura Patelli - Primo Referendario

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3501 del 2017, proposto da Gi. Pu. ed altri, rappresentati e difesi dagli avvocati Ri. Lu., Pa. Mi., Al. Fe., con domicilio eletto presso lo studio Pa. Mi. in Roma, via (...); contro Comune di (omissis), in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Mi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Responsabile del Settore Urbanistico-Edilizia Privata del Comune di (omissis), non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte Sezione Seconda n. 1378/2016, resa tra le parti, concernente la domanda di annullamento dell''ordinanza n. 6/14, prot. n. 2321, a firma del Responsabile del Settore urbanistico - edilizia privata del Comune di (omissis), avente ad oggetto "ingiunzione per la demolizione di opere eseguite in assenza di permesso di costruire. Ordine di rimessione in pristino per cambi di destinazione d''uso" datata 21 febbraio 2014. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 febbraio 2024 il Cons. Luigi Massimiliano Tarantino e udito per le parti l'avvocato Pa. Mi.. Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso proposto dinanzi al TAR per il Piemonte gli odierni appellanti invocavano l'annullamento dell'ordinanza di demolizione n. 6/14 (prot. n. 2321) emessa dal Comune di (omissis) in data 21 febbraio 2014. Con il provvedimento impugnato - indirizzato congiuntamente agli odierni appellanti in quanto proprietari a titolo esclusivo degli appartamenti ed in comproprietà delle parti comuni dell'immobile - l'amministrazione resistente contestava numerosi abusi edilizi, distinguendoli in: I) nuove opere edilizie in assenza o in difformità del titolo (tettoia abusiva nel cortile pertinenziale della superficie di circa 80 mq; ampliamento sul lato nord del fabbricato per una volumetria di circa 129 mc; realizzazione di una cantina abusiva di circa 158 mc al lato nord del fabbricato; realizzazione abusiva di un piano ammezzato uso uffici di circa 49 mq; realizzazione del piano terra con altezza superiore a quanto licenziato, con un aumento di volumetria di oltre 300 mc; realizzazione al primo piano di un corpo di fabbrica aggiunto della volumetria di circa 160 mc; realizzazione al primo piano di un terrazzo esterno maggiore di quanto licenziato per circa 41 mq e di una tettoia per ricovero automezzi di circa 107 mc; realizzazione dell'intero secondo piano - non previsto in progetto - di circa 132 mq di superficie abitata, di un balcone e aggiunta al piano sottostante di una terrazza di circa 50 mc; il tutto corredato di scale esterne per collegare i vari piani e con il risultato di una altezza complessiva dell'edificio di circa 3 mt superiore a quanto licenziato); II) cambi di destinazione d'uso non consentiti dal PRGC (una parte di porticato - superficie di circa 70 mq - trasformato in nuova abitazione ed un fabbricato licenziato ad uso deposito trasformato in uso residenziale; III) opere edilizie realizzate in assenza di SCIA (difformità minori relative alle vedute ed alle tramezzature interne). 2. Il giudice di prime cure respingeva il ricorso, rilevando che: a) il Comune aveva correttamente emanato un unico provvedimento indirizzato a tutti i ricorrenti, posto che molteplici abusi risultavano realizzati sulle parti comuni in comproprietà e che ciascuno dei destinatari del provvedimento impugnato per le parti di proprietà individuale era responsabile per quanto di competenza; b) i ricorrenti non avevano dimostrato in giudizio l'anteriorità dell'intera costruzione al 1985, non risultando sufficiente quanto dedotto in sede di perizia di parte, atteso che la stessa muoveva dai dati evincibili dai titoli edilizi (licenza edilizia n. 8 del 1967 e 577/833 del 1972), ossia da quanto non in contestazione che diverge in modo radicale con quanto edificato. Del pari non probanti risultavano le fotografie depositate, né le denunce per acqua e rifiuti posto che un fabbricato ad uso abitativo era stato licenziato nell'area. Prova certa dell'attuale consistenza dell'immobile era rinvenibile dall'esame dei dati catastali con riferimento alla situazione di fatti del 1989, comunque successiva al 1985; c) l'ordine di demolizione è un atto dovuto che non richiede la motivazione dell'interesse pubblico sotteso, tanto più ove l'area su cui insistono gli abusi è sottoposta a vincoli paesaggistici. In ragione di quanto assentito i ricorrenti non potevano invocare alcun legittimo affidamento; d) l'amministrazione aveva correttamente valutato gli abusi complessivamente anche in ragione della presenza di un vincolo ambientale paesaggistico, che comporta la natura essenziale delle variazioni, con conseguente necessità dell'adozione dell'ordine di demolizione e della destinazione d'uso residenziale per la zona per un limite massimo del 20%, già esaurito in forza della licenza ottenuta; e) il mutamento di destinazione d'uso del deposito in alloggio aveva comportato un diverso carico urbanistico e pertanto veniva correttamente incluso nel provvedimento sanzionatorio, anche in considerazione dell'esaurimento del limite di volumetria ad uso residenziale; f) la circostanza che la tettoia e la cantina si sarebbero potute realizzare in forza di d.i.a. o di s.c.i.a. non portava ad escludere la legittimità dell'ordine di demolizione considerata la necessità di valutazione complessiva e non atomistica dell'insieme degli abusi realizzati; g) dall'esame del contenuto della licenza edilizia del 1967 non era in alcun desumibile che fosse stato autorizzata una palazzina di tre piani fuori terra oltre un ammezzato e una mansarda, quale risultava edificato. 3. I ricorrenti originari propongono appello avverso la sentenza in epigrafe, lamentandone l'erroneità nella parte in cui il Giudice di primo grado: a) avrebbe escluso che il Comune aveva l'onere di emanare più ingiunzioni a demolire, ciascuna rivolta ad un singolo proprietario e riferita alla parte di edificio oggetto del rispettivo diritto reale; b) avrebbe ritenuto non provata la circostanza che gli interventi erano stati realizzati negli anni '70, senza considerare che tale circostanza risultava provata ai sensi dell'art. 64 c.p.a. in quanto mai contestata dall'amministrazione resistente. In ogni caso, la realizzazione dell'immobile tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 sarebbe provata anche dai documenti già depositati in primo grado (tra cui la relazione tecnica del 27 maggio 2014, le fotografie del 1969, le pratiche per la somministrazione dell'acqua potabile). Ciò comporterebbe che gli interventi abusivi sarebbero stati realizzati prima dell'imposizione del vincolo, ossia del 1985, e la non applicabilità di quanto disposto dall'art. 32, d.P.R. n. 380/2001; c) avrebbe considerato assolto l'onere motivazionale dell'amministrazione in ordine all'interesse pubblico sotteso al provvedimento; d) avrebbe respinto il quarto motivo di ricorso avallando la tesi dell'amministrazione secondo cui, ai fini del giudizio di abusività, le opere devono essere valutate complessivamente; e) avrebbe ritenuto sussistente un illecito cambio di destinazione d'uso. I ricorrenti eccepiscono che l'impiego ad abitazione del fabbricato (prima adibito a deposito) non configurerebbe un vero e tipico mutamento di destinazione d'uso, posto che "deposito" ed "abitazione" indicherebbero solo l'uso particolare che si può fare di un locale con destinazione residenziale; f) non avrebbe considerato la natura pertinenziale delle cantine delle tettoie e, di conseguenza, la soggezione delle stesse al regime della SCIA; g) non avrebbe correttamente valutato il progetto assentito con la licenza edilizia del 1967. Ciò in quanto il progetto allegato avrebbe previsto la realizzazione, al di sopra del secondo piano fuori terra, di un vasto locale sottotetto avente le caratteristiche materiali per essere abitato. Il piano ora contestato, quindi, non sarebbe il risultano di una semplice sopraelevazione ma della sostituzione di un locale comunque idoneo ad essere abitato con un locale concretamente adibito a tale utilizzo. 4. Si costituisce in giudizio l'amministrazione comunale, chiedendo il rigetto del gravame. 5. Nelle successive difese gli appellanti insistono nelle proprie conclusioni, evidenziando di essere stati assolti in sede penale dai reati edilizi loro contestati in forza di sentenza emessa dal Tribunale di Torino n. 5732/2016. 6. Con ordinanza n. 1679 del 17 febbraio 2023 il Collegio dispone verificazione, affidandola al Provveditore regionale per le opere pubbliche per il Piemonte, al fine di accertare sulla base dei documenti acquisiti al presente giudizio e dell'esame dello stato dei luoghi l'epoca di realizzazione degli abusi contestati con il provvedimento impugnato. 7. All'esito dell'incombente istruttorio il verificatore ha depositato una relazione dalla quale risulta, quanto alle nuove opere edilizie, che: a) "la tettoia è stata costruita dopo il 15.10.2013, data in cui l'Ufficio Tecnico Comunale ha verificato l'immobile. Mentre, la tettoia così come allo stato rilevato dallo stesso UTC di Cambiamo in data 15.10.2013 potrebbe essere stata costruita, probabilmente riutilizzando gli elementi strutturali della "vecchia tettoia", prima del 1989, anno in cui compare nella pratica di accatastamento, ma non si ravvisano ulteriori elementi per poter collocarne la costruzione in una fascia temporale più ristretta."; b) "La cantina per la conformazione e le caratteristiche strutturali può collocarsi nell'epoca di costruzione del fabbricato a cui appartiene. La realizzazione dell'intercapedine, dalle tipologie costruttive e dai materiali utilizzati, potrebbe essere collocabile nell'epoca di costruzione del fabbricato."; c) "La ripetizione degli stessi elementi strutturali e delle stesse tecnologie esecutive porterebbe a collocare la realizzazione del piano ammezzato in contemporanea con il resto del fabbricato."; d) "l'immobile fin dalla sua edificazione sia stato concepito con una altezza di interpiano che non rispecchiava quella licenziata."; e) "Dalla documentazione messa a disposizione, analizzando in particolare una delle foto contenuta in essa, si evince che l'avancorpo, strutturalmente, era già stato realizzato nel febbraio del 1969."; f) "Dalle indagini strutturali osserviamo che il solaio di copertura dell'autorimessa si presenta con travetti prefabbricati e trefoli 4 mm. L'utilizzo di travetti prefabbricati precompressi permette di ricoprire luci maggiori rispetto a quella che si riuscirebbe a ricoprire con travetti gettati in opera. Quindi il solaio di copertura dell'autorimessa potrebbe avallare il fatto che quest'ultima sia stata già concepita e costruita così come si presenta allo stato attuale fin dal 1972. Inoltre, la stessa tipologia è stata utilizzata per la copertura del basso fabbricato (rilevata in zona gronda) ed in alcuni campi di solaio del corpo principale edificato in forza alla licenza edilizia del 1967 (officina, ingresso piano primo); "; g) "Nella foto datata FEB. '69, riportata di seguito, è ben visibile la presenza del piano secondo, il che vuol dire che è stato edificato fin da subito a partire dal 1967."; h) "Il balcone, per ragioni costruttive, dovrebbe essere stato previsto in fase di realizzazione dell'intero fabbricato...La terrazza contestata è stata ricavata sull'estradosso dell'avancorpo (corpo di fabbrica aggiunto) ed a servizio del piano secondo. Dalle considerazioni di cui ai punti 6 e 8, sia l'avancorpo che il secondo piano sono stati edificati in unica soluzione, dunque, implicitamente ne veniva fuori una copertura a terrazzo che ad oggi si configura come praticabile."; i) "La scala "principale" atta a superare il dislivello tra piano di campagna e terrazzo di pertinenza dell'abitazione posta al piano primo era già presente in foto datata 1969. Delle altre due scale, di cui una atta a superare il dislivello tra piano di campagna e terrazzo di pertinenza dell'abitazione posta al piano primo ed una per superare il dislivello tra piano di campagna e terrazzo di pertinenza dell'abitazione posta al piano secondo, si ha evidenza nella foto datata 1987. Ovvio che per superare il dislivello tra piano di campagna e terrazzo di pertinenza dell'abitazione posta al piano secondo fosse necessaria una scala. Per quanto detto sull'edificazione del piano secondo, cioè che è stato costruito in concomitanza con il fabbricato, si potrebbe concludere anche per la scala. Non vi sono elementi per poter affermare se architettonicamente fosse già stata concepita come allo stato attuale."; l) "Dalle considerazioni sopra esposte, ovvero che il piano secondo è stato edificato in concomitanza con l'immobile (foto datata feb. '69), ne deriva che anche il sottotetto (dunque la copertura) è stato edificato nello stesso momento". 7.1. Quanto, invece, ai mutamenti di destinazione d'uso: a) "per ragioni costruttive e per l'uso dei materiali il basso fabbricato, strutturalmente, con ogni probabilità è stato concepito come osservabile allo stato attuale, fin dalla sua edificazione, cioè nella prima metà degli anni '70."; b) "A seguito di sopralluogo effettuato in data 24.06.2013, la Polizia Municipale di Cambiano, ha accertato la presenza di un cantiere volto alla realizzazione di nuove opere edilizie che afferivano proprio al basso fabbricato. Nella pianta di confronto tra stato licenziato (in rosso) e stato rilevato (in verde), redatta dall'UTC, si nota la diversa posizione e dimensione delle aperture finestrate sul prospetto nord. Tale condizione è riscontrabile confrontando le due foto che inquadrano il prospetto nord del menzionato basso fabbricato a data antecedente il 2003 (anno di arretramento della recinzione) ed il 2013 (anno del sopralluogo da parte della Polizia Municipale e successivamente dell'UTC). Si vede come a seguito dei lavori accertati dalla Polizia Municipale si sia configurata la condizione attuale del prospetto a discapito di quella originaria. Il diverso posizionamento delle aperture finestrate lascia pensare che sia stato conseguenza di una riorganizzazione e dunque ridistribuzione degli spazi interni.". 7.2. Quanto, infine, alle opere edilizie realizzate in assenza di SCIA: a) "Le due tramezze così come indicate dallo stesso UTC sono state eliminate con comunicazione di modifiche interne ai sensi dell'art. 48 della Legge 47/85 (condono edilizio)."; b) "Dalle considerazioni di cui alla lettera A. al punto 5, il piano terra è stato concepito così come si presenta allo stato attuale fin dall'origine. Non si segnala nulla, dal punto di vista tecnico, che faccia pensare alla presenza in passato di una scala interna che collegasse in piano terra con il primo e che possa essere stata demolita in fasi successive. Dunque, si suppone che tale scala così come indicata in licenza edilizia del 1967 non sia mai stata realizzata. Per quanto concerne il posizionamento delle tramezzature, non trattandosi di elementi strutturali, risulta difficile formulare considerazioni a riguardo."; c) "le diverse vedute non indicate in progetto - ai lati ovest, nord, ed est - riportate nella ordinanza n. 6 del 2014, risultano, per cognizione di causa, dovute alle molteplici osservazioni segnalate dall'UTC di cui ai punti precedenti". 8. Con memoria depositata in vista dell'odierna udienza gli appellanti evidenziano che secondo quanto accertato dal verificatore le opere oggetto dell'impugnata ordinanza di demolizione sarebbero state realizzate in unica soluzione con le opere assentite con i titoli edilizi rilasciati tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 e sono stati ultimate nei primi anni '70. Ossia in epoca antecedente l'imposizione del vincolo, che risale al 1985. Pertanto, nel caso di specie gli interventi in contestazione non sarebbero soggetti ad alcuna autorizzazione di tipo paesaggistico - ambientale e neppure gli stessi potrebbero integrare le ipotesi di totale difformità dal permesso o di variazioni essenziali allo stesso previste dal terzo comma dell'art. 32 del TU dell'edilizia. 9. Dal canto suo, l'amministrazione comunale pone in luce come, indipendentemente dalla datazione delle opere abusive, l'ordinanza di demolizione avrebbe posto chiaramente in evidenza il contrasto delle stesse con il vigente piano regolatore generale. E, infatti, il provvedimento impugnato sarebbe stato motivato con riferimento all'art. 31, comma 1, d.P.R. n. 380/2001 e non all'art. 32, comma 3, dello stesso decreto. 10. Con memoria di replica gli appellanti, da un lato, contestano le affermazioni dell'amministrazione comunale in merito ad un presunto contrasto tra le opere in questione e il vigente P.R.G.C. di Cambiano, atteso che il provvedimento impugnato non muoverebbe dal presupposto del contrasto delle opere con lo strumento urbanistico bensì da quello, differente, della mancanza di titolo edilizio. Dall'altro, insistono nelle proprie conclusioni. 11. L'appello è infondato e non merita di essere accolto. 11.1. Quanto al primo motivo deve osservarsi che le opere abusive insistono su di un unico immobile, composto da tre distinte proprietà, che sono strutturalmente legate tra di loro, e, pertanto, benché l'ordine di demolire impegni solo i proprietari per le parti dell'edificio di rispettiva titolarità, la sussistenza di parti comuni, avrebbe di fatto impedito l'eseguibilità dell'ordine di demolizione laddove, fossero state adottate distinte ingiunzione a demolire, giacché la responsabilità della rimozione delle parti comuni grava in solido su tutti gli appellanti. Da ciò deriva l'infondatezza della prima doglianza. 11.2. Non merita condivisione il secondo motivo di appello con il quale si sostiene la non applicabilità del dettato di cui all'art. 32, comma 3, del d.P.R.. n. 380/2001. Sebbene, infatti, alcune, ma non tutte come chiarito dalla relazione di verificazione, delle opere abusive di cui si discute siano state realizzate prima dell'introduzione del vincolo introdotto dal 312/1985, non risulta che le opere per cui è causa abbiano formato oggetto di apposite domande di condono. Nel caso di specie, infatti, non rileva l'ipotetica sanabilità delle opere oggetto del provvedimento impugnato in primo grado. Se è vero che il vincolo sopravvenuto non può operare in via retroattiva, lo stesso non può neppure restare senza conseguenze sul piano giuridico, pertanto, non può trovare condivisione il principio secondo il quale l'art. 32 comma 3, non si applica agli illeciti commessi prima dell'introduzione del vincolo, dal momento che come affermato dall'Adunanza Plenaria n. 9/2016 e 16/2023 del Consiglio di Stato l'illecito edilizio ha natura permanente con la conseguenza che il regime giuridico di riferimento non può che essere quello individuato al momento della sua rilevazione. Pertanto, l'amministrazione ha fatto corretta applicazione dell'art. 32, comma 3, d.P.R. n. 380/2001, rappresentando gli abusi commessi delle variazioni essenziali. Peraltro, la totale difformità delle opere realizzate rispetto ai titoli edilizi rilasciati, acclarata in modo evidente dall'elaborato peritale determina quale conseguenza inevitabile l'adozione dell'ordine di demolizione anche ai sensi di quanto disposto dall'art. 31, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, avendo comportato la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto dei titoli edilizi rilasciati, e l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile. 11.3. Deve essere respinto anche il terzo motivo di appello sulla scorta del principio di diritto affermato dall'Adunanza Plenaria n. 9/2017, secondo il quale: "il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino". 11.4. Non meritevole di condivisione è il quarto motivo di appello, dal momento che la costante giurisprudenza di questo Consiglio ha a più riprese (cfr. ex multis, Cons. St., Sez. VII, 20 aprile 2023, n. 4029) affermato che la valutazione dell'abuso edilizio presuppone, tendenzialmente, una visione complessiva e non atomistica dell'intervento, giacché il pregiudizio recato al regolare assetto del territorio deriva non dal singolo intervento, ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio. Ne consegue che, nel rispetto del principio costituzionale di buon andamento, l'amministrazione comunale deve esaminare contestualmente l'intervento abusivamente realizzato, e ciò al fine precipuo di contrastare eventuali artificiose frammentazioni che, in luogo di una corretta qualificazione unitaria dell'abuso e di una conseguente identificazione unitaria del titolo edilizio che sarebbe stato necessario o che può, se del caso, essere rilasciato, prospettino una scomposizione virtuale dell'intervento finalizzata all'elusione dei presupposti e dei limiti di ammissibilità della sanatoria stessa. 11.5. Nemmeno può condividersi quanto affermato in termini di mutamento di destinazione d'uso. Il mutamento della destinazione d'uso tra categorie funzionali ontologicamente diverse, anche senza opere edilizie, ove realizzato senza permesso di costruire, è sanzionabile con la misura ripristinatoria. Questo perché il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee integra una vera e propria modificazione edilizia che, incidendo sul carico urbanistico, necessita di un previo permesso di costruire, non assumendo rilevanza l'avvenuta esecuzione di opere. Nella fattispecie il mutamento tra deposito e abitazione per una superficie di oltre 130 mq comporta un cambio tra categorie non omogenee. 11.6. Non può trovare accoglimento la censura con la quale si contesta che alcune delle opere (una tettoia di oltre 80 mq e una cantina di oltre 158 mq) non sarebbero state considerate come pertinenze. Secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. ex multis, Cons. St., Sez. VI, 9 maggio 2023, n. 4667) a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi, il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma è altresì privo di un autonomo valore di mercato e non comporta ulteriore carico urbanistico esaurendo la sua finalità nel rapporto funzionale col fabbricato principale. Pertanto, tale nozione di pertinenza è invocabile solo per opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, situazione non ricorrente nel caso in esame. 11.7. Non merita condivisione l'ultimo motivo di appello in ragione di quanto accertato in sede di verificazione ossia che: "avendo realizzato un piano aggiuntivo (piano secondo) non previsto a progetto, è inevitabile che ne derivi un'altezza totale al colmo maggiore di quella individuata in licenza edilizia del 1967 che prevedeva realizzazione di un piano terra, un piano primo e sottotetto. Poiché si è dimostrato che il piano secondo è stato edificato in concomitanza con l'immobile (foto datata feb '69), ne deriva che anche il sottotetto (dunque la copertura) è stato edificato nello stesso momento; a conferma la tecnologia esecutiva e la continuità strutturale rilevata.". Pertanto, non può affermarsi che il piano secondo avrebbe sostituito il sottotetto, in quanto entrambi risultano stati realizzati senza alcuna sostituzione del primo a quest'ultimo. 12. L'appello, quindi, deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Le spese di verificazione, per la cui compiuta indicazione anche per la parte relativa agli onorari si sollecita l'invio di nota del verificatore a completamento della richiesta già depositata in data 18 gennaio 2024, sono poste a carico degli appellanti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, respinge l'appello. Condanna gli appellanti al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida in euro 3.000,00 (tremila/00), oltre accessori di legge in favore del Comune di (omissis). Pone le spese di verificazione, che saranno liquidate con apposito decreto, a carico degli appellanti Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Manda alla Segreteria per la comunicazione della presente sentenza al verificatore. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere, Estensore Oreste Mario Caputo - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda Quater ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8091 del 2023, proposto da Lu. Ro., Ma. Ro., rappresentati e difesi dagli avvocati Ch. Fi. e Cr. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), non costituito in giudizio; Pa. Tr., Va. Del Ne., rappresentati e difesi dall'avvocato Ga. De Fe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento I) in sede cautelare: del permesso di costruire in sanatoria rilasciato dal Comune di (omissis), del 25 marzo 2022, n. 503, conosciuto dai ricorrenti in esito all'accesso agli atti esperito in data 27 aprile 2023, rilasciato ai sensi dell'art. 39 della Legge n. 724/1994, avente ad oggetto la "realizzazione di un piccolo fabbricato ad uso magazzino articolato su un unico piano terreno sito in (omissis), Via (omissis) sul terreno distinto in catasto al Foglio n. (omissis), particella n. (omissis), sub. n. (omissis)"; del presupposto invito al ritiro di permesso di costruire in sanatoria, costituito dalla nota del Comune di (omissis) del 18 febbraio 2022, prot. n. 5386; della presupposta Relazione istruttoria e parere urbanistico dell'1 settembre 2021, del Comune di (omissis), a firma del Tecnico Comunale del Settore Urbanistica; della Nota del Comune di (omissis) 14 novembre 1997, prot. n. 24933; nonché di ogni altro atto e provvedimento connesso, presupposto e/o consequenziale a quelli sopra indicati; II) nel merito: 1) in accoglimento dei motivi nn. 1 e 2, l'annullamento del Permesso di costruire in sanatoria rilasciato dal Comune di (omissis), del 25 marzo 2022, n. 503 e di tutti gli atti ad esso presupposti; 2) in accoglimento del motivo n. 3, l'accertamento dell'illegittimità del silenzio serbato dall'Amministrazione resistente sulla istanza di verifica della SCIA 7 marzo 2023, prot. n. 6715, ai sensi dell'art. 19, comma 6 ter, secondo periodo, della Legge n. 241/1990, con accertamento della fondatezza della pretesa da parte del Collegio, cioè accertamento dell'illegittimità delle opere edilizie oggetto della predetta SCIA, con condanna dell'Amministrazione resistente all'adozione di un provvedimento di archiviazione della SCIA o, in via subordinata, di un provvedimento in risposta alla predetta istanza; 3) in accoglimento del motivo n. 4 (proposto in via subordinata rispetto ai precedenti motivi), l'accertamento dell'illegittimità del silenzio serbato dall'Amministrazione resistente sulla istanza di segnalazione di abuso edilizio in corso di realizzazione delle attività edilizie in esecuzione della SCIA 7 marzo 2023, prot. n. 6715, con condanna dell'Amministrazione resistente all'adozione di un provvedimento in risposta alla predetta istanza. Con vittoria di spese e di onorari. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Pa. Tr. e di Va. Del Ne.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 febbraio 2024 il dott. Vincenzo Sciascia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; 1. Con ricorso notificato, in data 08.05.2023, al Comune di (omissis) ed ai controinteressati (Del Ne. Va. e Tr. Pa.) e depositato in data 28.05.2023, Lu. Ro. e Ma. Ro. esponevano: - di essere proprietari di un terreno sito in (omissis), alla via (omissis), confinante con il terreno di proprietà degli odierni controinteressati, identificato in catasto al foglio n. (omissis), particella n. (omissis); - che il Comune di (omissis) aveva rilasciato un permesso di costruire in sanatoria (n. 503 del 25.03.2022) riferito alle opere realizzate dalla parte controinteressata; - di aver notato, in data 08.03.2023, in tale terreno limitrofo, l'apposizione di un cartello relativo all'esecuzione di lavori su di un manufatto, avente la struttura e le caratteristiche di una tettoia, abusivamente realizzato molti anni addietro; - di aver appreso da tale cartello che i lavori sarebbero consistiti in una ristrutturazione edilizia per "completamento opere", asseritamente autorizzata sulla base di SCIA del 07.03.2023, prot. n. 6715, con la quale i controinteressati avevano dichiarato lo svolgimento di opere necessarie a completare funzionalmente l'opera abusiva, al fine di renderla fruibile come magazzino ad uso artigianale "senza cambiarne la destinazione d'uso"; - di avere, mediante lettera raccomandata del 15.03.2023, contestato ai vicini controinteressati l'esecuzione di tali opere; - che questi ultimi asserivano che l'opera era stata autorizzata da specifico titolo susseguente a domanda di condono risalente al 1995; - di aver presentato, con p.e.c. in data 05.04.2023, un'articolata istanza nei confronti del Comune di (omissis), finalizzata - tra l'altro - alla verifica della SCIA del 07.03.2023 (prot. n. 6715), ai sensi dell'art. 19, co. 6 ter, secondo periodo, L. n. 241/1990, per illegittimità delle opere edilizie, in via derivata dall'illegittimità del precedente provvedimento di condono, oltre che all'accesso ai documenti amministrativi (ex art. 22 L. n. 241/1990); - che, in data 27.04.2023, il Comune acconsentiva al rilascio dei documenti e provvedimenti richiesti, tra cui il permesso di costruire in sanatoria n. 503 del 25.03.2022; - che, nel termine di legge, non era pervenuto alcun riscontro espresso da parte dell'Amministrazione resistente circa l'istanza di verifica della SCIA del 07.03.2023 (prot. n. 6715). Premettevano inoltre i ricorrenti di essere titolari della legittimazione attiva e dell'interesse ad agire, trattandosi di opera edilizia ubicata sul confine con il loro terreno, in violazione delle distanze minime previste dal codice civile, con conseguente pregiudizio diretto in capo alle facoltà dominicali degli stessi. 2. Tanto premesso, con un primo capo di domanda, impugnavano gli atti suddetti sulla base dei seguenti motivi di ricorso: 2.1. "Illegittimità del provvedimento di condono per intervenuta decadenza derivante dalla mancata tempestiva integrazione della domanda di condono e, comunque, per incompletezza documentale al momento della adozione del provvedimento di condono". Deducevano i ricorrenti che la domanda di condono inerente al manufatto in questione era stata presentata in data 31.03.1995 (prot. n. 6878) con oggetto "realizzazione capannanone a uso artigianale", ultimato "tra il 16.03.1985 e il 31.12.1993", per una superficie utile di 44,65 mq. Sostenevano che a tale domanda risultava essere stata allegata solo l'oblazione di £ 1.607.400, mentre non risultava essere stata presentata altra documentazione (oneri concessori, fotografie, prova dell'avvenuto accatastamento, relazione tecnico-descrittiva, certificato di idoneità statica o adeguamento statico, atto di proprietà, rilievo grafico). Esponevano che, nonostante le specifiche richieste di integrazione documentale avanzate dal Comune, Gi. Tr. si limitava a presentare soltanto, in data 23.01.2003 (nota prot. n. 26410), una relazione tecnico-descrittiva, tre di copie di elaborati grafici e una non meglio precisata dichiarazione. Precisavano quindi che, al termine dell'anno 2003, il Tr. non aveva ancora integrato il fascicolo di condono con i documenti richiesti dall'Amministrazione resistente (mancando n. 9 documenti dei n. 11 richiesti nell'anno 1996). Aggiungevano che i controinteressati avevano provveduto ad ulteriori integrazioni documentali solo in data 27.05.2020 (relazione tecnica e n. 4 foto) e 22.02.2022 (n. 2 copie di elaborati grafici di progetto e prova dell'avvenuto accatastamento, con allegate planimetrie). Puntualizzavano quindi che, al momento del rilascio del provvedimento di condono, risultavano comunque mancanti dei documenti prescritti dalla normativa primaria e richiesti dall'amministrazione. Asserivano quindi l'illegittimità del condono per effetto della decadenza di cui all'art. 2, co. 37, lett. d), L. n. 662/1996, per non avere la parte controinteressata tempestivamente prodotto la documentazione richiesta, né entro il termine di 180 giorni imposto dall'amministrazione (con nota del 15.04.1996, prot. n. 8485) né entro quello di tre mesi previsto dalla legge. Sottolineavano comunque che, al momento del rilascio del provvedimento di condono, risultavano mancare ancora n. 6 documenti richiesti dall'amministrazione resistente ed obbligatori ai sensi dell'art. 35 L. n. 47/1985. 2.2. "Illegittimità del provvedimento di condono in quanto l'opera edilizia non era stata completata alla data del 31 dicembre 1993 e, comunque, non era stata completata funzionalmente". Deducevano i ricorrenti che l'opera abusiva non era stata realizzata dai controinteressati entro il 31.12.1993 e che, in ogni caso, non era stata completata funzionalmente alla stessa data, posto che esisteva solo - al momento della presentazione del ricorso - una mera tettoia (priva di tamponature esterne e pavimentazione), mentre era stato oggetto di domanda di condono un capannone ad uso magazzino. Sottolineavano che, in base alla stessa relazione tecnica del 27.05.2020, il fabbricato sarebbe stato completato successivamente (presentando una nuova pratica edilizia), con le tamponature esterne, gli infissi, l'intonaco interno ed esterno, la pavimentazione interna e gli impianti tecnici (elettrico, idraulico), per renderlo funzionale allo scopo per il quale venne edificato. 2.3. Con un secondo capo di domanda, proponevano azione avverso il silenzio-inadempimento serbato dall'Amministrazione resistente così rubricata: "Azione avverso il silenzio illegittimamente serbato dall'Amministrazione resistente sulla istanza di verifica della SCIA 7 marzo 2023, prot. n. 6715 e richiesta di accertamento, ai sensi dell'art. 31, comma 3, c.p.a., dell'illegittimità delle relative opere edilizie, in quanto aventi ad oggetto un manufatto abusivamente realizzato, non condonato e non condonabile". "Azione avverso il silenzio illegittimamente serbato dall'Amministrazione resistente sulla istanza di verifica degli abusi edilizi realizzati od in corso di realizzazione da parte dei controinteressati, in esecuzione della SCIA 7 marzo 2023, prot. n. 6715". 3. Con memoria di costituzione in giudizio depositata in data 09.06.2023, i controinteressati chiedevano la reiezione del ricorso, allegando tra l'altro: - che l'immobile in questione era stato realizzato, senza autorizzazione edilizia, in data antecedente al 1993, quale pertinenza dell'abitazione principale, per essere adibito a magazzino-deposito per il ricovero di macchinari, attrezzature ed automezzi; - che l'opera presentava già una forma stabile nella consistenza planovolumetrica ed una sua riconoscibile ed inequivoca identità funzionale; - che il manufatto si presentava "basato su di una soletta in cemento e armata da rete elettrosaldata, presentava una tettoia a copertura, delimitata da una struttura portante costituita da capriate centrali poggianti su pilastri in legno e da un cordolo di cemento quale basamento dei tre muri perimetrali in poroton ed era dotato di impianto elettrico ed idrico"; - che, per il deterioramento di parti del manufatto e per meglio preservare - dai furti e dalle intemperie - il materiale ivi depositato, il primo era stato oggetto di un intervento di ristrutturazione e completamento con pratica edilizia SCIA del 07.03.2023 (prot. 6715), al fine di renderlo maggiormente funzionale all'uso a cui era ed è destinato, e che con tale pratica non era mutata, neanche parzialmente, la destinazione d'uso del manufatto, né era stata variata la sua consistenza volumetrica e perimetrale, trattandosi di opera strutturalmente identica, per volumetria e sagoma, a quella realizzata circa 30 anni prima dall'autore dell'abuso, poi sanato. Eccepivano altresì che la mera vicinitas tra i ricorrenti e l'area dove si trova il bene non giustificava l'interesse a ricorrere al TAR per impugnare i titoli abilitativi, non avendo i ricorrenti specificato quale sarebbe il pregiudizio attuale rispetto a quello, per ipotesi, esistente e mai denunciato, sorto antecedentemente all'anno 1993. 4. Il Comune di (omissis), pur ritualmente notificato, non si costituiva in giudizio. 5. Con la memoria depositata in data 21.07.2023, i controinteressati eccepivano altresì l'irricevibilità del ricorso, sostenendo che la domanda impugnatoria ivi contenuta sarebbe stata ascrivibile nell'alveo dell'ordinaria azione di annullamento del permesso di costruire n. 503 del 25.03.2022, e che quindi sarebbe stata proposta oltre il termine decadenziale di 60 giorni. Allegavano altresì che, a seguito della SCIA, l'amministrazione si era attivata, esercitando i propri poteri di vigilanza, e, tramite sopralluoghi, aveva verificato lo stato di legittimità dei luoghi e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici e a quanto dichiarato dagli istanti. Argomentavano inoltre che, una volta decorsi i termini per l'esercizio del potere inibitorio-repressivo, la SCIA era divenuta titolo abilitativo valido ed efficace, che avrebbe potuto essere rimosso solo mediante l'esercizio del potere di autotutela decisoria, in presenza delle garanzie e dei presupposti previsti dall'ordinamento per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio, nell'ambito di un procedimento di secondo grado avente ad oggetto il riesame di un'autorizzazione implicita ed un giudizio sulla prevalenza degli interessi. 6. Con ordinanza n. 3031 del 14 giugno 2023, la Sezione ha respinto l'istanza cautelare; con memoria depositata in data 13.09.2023, i ricorrenti - tra l'altro - ribadivano che non vi era stata ancora alcuna risposta da parte del Comune alla loro istanza tempestivamente presentata (entro il termine di 30 giorni decorrente dal 07.03.2023, data di presentazione della SCIA). Allegavano inoltre alcune fotografie ("oggetto di recentissima formazione") dalle quali emergeva che il manufatto in questione non è utilizzato come magazzino artigianale, ma per un vero e proprio uso abitativo (essendovi collocati un tavolo con delle sedie, delle tende alle finestre e un impianto di riscaldamento). Alla camera di consiglio del 26 settembre 2023, fissata per l'esame della pure introdotta azione avverso il silenzio, in accoglimento di richiesta di parte ricorrente, l'esame delle domande introdotte ex art. 117 c.p.a. è stato rinviato, congiuntamente all'esame del merito del ricorso, all'udienza pubblica del 13 febbraio 2024. 7. In vista dell'udienza come sopra calendarizzata, la parte ricorrente e quella controinteressata depositavano, in data 12 e 23.01.2024, le rispettive memorie, anche di replica, con le quali insistevano nelle argomentazioni e conclusioni già formulate; quindi, alla pubblica udienza del 13 febbraio 2024, la causa è stata trattenuta in decisione. 8. Seguendo l'ordine delle azioni proposte dalla parte ricorrente, si procede allo scrutinio del primo capo di domanda, con cui è chiesto l'annullamento del permesso di costruire in sanatoria rilasciato dal Comune di (omissis), del 25 marzo 2022, n. 503. E' necessario affrontare anzitutto l'eccezione di difetto di interesse a ricorrere. Ritiene il Collegio di poter condividere sul punto l'orientamento giurisprudenziale secondo cui "È inammissibile per carenza di interesse il ricorso promosso dal confinante avverso il provvedimento che nulla dispone in merito agli abusi edilizi segnalati mediante esposto, non essendo sufficiente a fondare l'interesse al ricorso la mera vicinitas, ma incombendo, per converso, sul ricorrente la dimostrazione dello stabile collegamento con il luogo in cui è stata realizzata l'opera che si afferma essere abusiva, unitamente alla puntuale allegazione e alla comprova della lesione subita, anche se in termini solamente eventuali o potenziali" (Consiglio di Stato, sez. VI, 03/02/2022, n. 756). Nel caso di specie, i ricorrenti hanno puntualmente allegato di aver subito una lesione della propria situazione soggettiva dominicale, consistente nella violazione delle norme in tema di distanze, luci, affacci e vedute. Essi hanno altresì comprovato, almeno in termini eventuali o potenziali, mediante il deposito della suddetta documentazione fotografica, che il manufatto realizzato prima del 1993 è stato trasformato - per effetto dei recenti lavori - in un vero e proprio edificio completo di tamponature esterne, infissi ed impianto di riscaldamento, in modo tale da essere reso potenzialmente idoneo all'uso abitativo e da comportare un maggior carico edilizio-urbanistico nei pressi della proprietà dei ricorrenti medesimi. L'eccezione è pertanto infondata. 9. Fondata è invece l'eccezione di irricevibilità, in parte qua, del ricorso, in quanto tardivo. È pur vero infatti che il provvedimento impugnato è stato conosciuto dai ricorrenti solo in data 27.04.2023, per effetto dell'accesso agli atti presso l'amministrazione intimata. Ritiene tuttavia il Collegio di poter condividere il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui "Nelle controversie in materia edilizia il dies a quo ai fini della tempestiva proposizione del ricorso si identifica con l'inizio dei lavori, laddove si contesti l'an della edificazione (ovvero si assuma che nessun manufatto poteva essere edificato sull'area); mentre coincide con il completamento dei lavori ovvero con il grado di sviluppo degli stessi (in termini di esatta dimensione, consistenza, finalità, dell'erigendo manufatto) laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), fermo restando la possibilità, da parte di chi solleva l'eccezione di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente" (Consiglio di Stato, sez. IV, 11/04/2023, n. 3654). Nel caso di specie, non è contestato che i lavori di realizzazione del manufatto preesistente furono completati - in modo tale da poter essere ben percepibili dai proprietari vicini - prima del 1993, con la conseguenza che la sopravvenuta conoscenza del provvedimento di condono in epoca ben successiva, per effetto dell'accesso agli atti, non potrebbe consentire di ritenere tempestivo il ricorso a distanza di un trentennio dalla percezione dell'opera edile medesima. In tal senso si è pronunciata anche la giurisprudenza di merito secondo cui "La richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché se, da un lato, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato, deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali" (T.A.R. Puglia - Bari, sez. III, 15/07/2020, n. 1017). Il ricorso deve pertanto essere dichiarato irricevibile, limitatamente al primo capo di domanda. 10. Quanto al secondo capo di domanda, con cui vengono introdotte le azioni relative al silenzio, accertata la sussistenza di un interesse qualificato dei ricorrenti, si osserva quanto segue. Il Collegio ritiene infondata la domanda, proposta con il terzo motivo di ricorso, di accertare - ai sensi dell'art. 31, co. 3, c.p.a. - l'illegittimità delle opere edilizie. È noto infatti che, secondo la disposizione da ultimo citata, il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione. Nel caso di specie, invece, l'accertamento della legittimità delle opere edili realizzate a decorrere dal marzo 2023 richiede il compimento di adempimenti istruttori da parte del Comune intimato, a cui evidentemente il Giudice non può sostituirsi. Può essere accolta invece la domanda proposta ai sensi del combinato disposto degli artt. 19, co. 6 ter, L. n. 241/1990, e 31, co. 1 e 2, c.p.a., avendo i ricorrenti tempestivamente sollecitato l'amministrazione - in data 05.04.2023 - all'esercizio delle verifiche spettante alla stessa in riferimento alla suddetta SCIA del 07.03.2023 (prot. n. 6715). Si condivide infatti, sul punto, l'orientamento giurisprudenziale secondo cui "L'obbligo di verifica gravante sull'Amministrazione, a seguito della presentazione di una istanza ai sensi dell'art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del 1990, concerne i soli aspetti di illegittimità segnalati dall'istante che riguardino la violazione di norme poste a tutela dell'interesse pubblico in materia urbanistico-edilizia e che comportino una lesione di posizioni di interesse legittimo; in tal senso, ciò che il privato può richiedere, nei limiti del suo interesse ad agire, è solo la verifica obiettiva della compatibilità di quanto si intende realizzare con segnalazione certificata di inizio attività con la disciplina urbanistica ed edilizia applicabile al caso di specie" (Consiglio di Stato, sez. IV, 30/08/2018, n. 5115). Non risulta, invero, che il Comune intimato abbia provveduto all'esercizio di tale potere di verifica, non essendo significativo quanto asserito dalla parte controinteressata - sotto il profilo della compiuta attività da parte dell'amministrazione che avrebbe esercitato i propri poteri di vigilanza, e che, tramite sopralluoghi, avrebbe verificato lo stato di legittimità dei luoghi e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici e a quanto dichiarato dagli istanti - in assenza di alcun principio di prova in merito. Nemmeno può ritenersi, come ex adverso asserito, che il Comune non avesse un dovere giuridico di provvedere in merito a detta istanza, per essere decorsi i termini per l'esercizio del potere inibitorio-repressivo, cui consegue il consolidamento della S.C.I.A., tenuto conto che l'istanza dei ricorrenti era stata presentata il 5 aprile 2023, in data antecedente alla scadenza del termine di cui all'art. 19, comma 6 bis, legge n. 241/1990. Pertanto, si deve considerare accertato l'obbligo del Comune di provvedere (ai sensi dell'art. 19, co. 4, L. n. 241/1990) con la conseguente necessità di emettere l'ordine di cui all'art. 34, co. 1, lett. b), c.p.a., nei modi ed entro il termine indicati in dispositivo. 11. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato in parte irricevibile, quanto all'azione impugnatoria (spiegata con i primi due motivi); quanto all'azione avverso il silenzio, deve essere accolta solo in parte qua, respinta per il resto. 12. La soccombenza reciproca delle parti rispetto alle varie domande proposte giustifica l'integrale compensazione delle spese processuali. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda Quater, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto: - dichiara irricevibile l'azione impugnatoria di cui al primo capo di domanda; - quanto al secondo capo di domanda, in parte lo respinge, in parte lo accoglie e, per l'effetto, ordina al Comune di (omissis) di provvedere ad esercitare il potere di verifica sollecitato dalla parte ricorrente con l'istanza del 05.04.2023, in presenza delle condizioni previste dall'art. 21 nonies L. n. 241/1990. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Donatella Scala - Presidente Vincenzo Sciascia - Referendario, Estensore Luigi Edoardo Fiorani - Referendario

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MANNA Felice Presidente Dott. BERTUZZI Mario Consigliere Dott. FALASCHI Milena Consigliere Dott. VARRONE Luca Consigliere Dott. CHIECA Danilo Consigliere-Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 6184/2018 R.G. proposto da: Es.Na., elettivamente domiciliata in Roma alla via ... presso lo studio dell'avv. Pa.Ma.Ge., rappresentata e difesa dagli avv.ti Gi.Tr. e Ug.An.Ri. - ricorrente - contro Te.Lo., elettivamente domiciliata in Roma alla via ... presso lo studio dell'avv. St.Se.Ca., rappresentata e difesa dall'avv. Gi.Tr. - controricorrente - avverso la SENTENZA della CORTE D'APPELLO di REGGIO CALABRIA n. 663/2017 pubblicata il 16 novembre 2017 Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 10 ottobre 2023 dal Consigliere Danilo Chieca. Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Fulvio Troncone, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso Uditi gli avv.ti Gi.Tr. e Ug.An. Ri. per la ricorrente FATTI DI CAUSA Te.Lo., nell'allegata qualità di proprietaria di un fabbricato adibito a uso abitativo sito in Gioiosa Ionica (RC), contrada(Omisiss), conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Locri -sezione distaccata di Siderno, Es.Na., proprietaria confinante, lamentando, fra l'altro, che costei avesse realizzato un ampliamento del suo edificio a due piani, anche mediante l'avanzamento e la sopraelevazione dell'immobile preesistente, così da realizzare una servitù di veduta senza l'osservanza delle distanze prescritte dalla legge. Chiedeva, pertanto, previo accertamento dell'inesistenza della relativa servitù a carico del suo fabbricato, la condanna della convenuta all'eliminazione o regolarizzazione delle vedute illegittimamente create, oltre che al risarcimento dei danni cagionati. Radicatosi il contraddittorio, si costituiva in giudizio la Te.Lo., unitamente al proprio coniuge Ro.Lo., volontariamente intervenuto nel processo. Entrambi, per quanto in questa sede ancora interessa, contestavano il fondamento delle avverse pretese, chiedendone il rigetto. All'esito dell'espletata istruttoria, con sentenza n. 6/2003 del 10 gennaio 2003, il Tribunale adìto condannava i convenuti all'eliminazione delle vedute dirette e oblique create a carico del fondo della Te.Lo., «mediante la rimozione dei manufatti all'uopo realizzati», come meglio descritti nella relazione redatta dal c.t.u. nominato in corso di causa, nonchè al risarcimento dei danni, liquidati in via equitativa in complessivi 3.000 euro, ponendo a loro carico anche le spese processuali. La decisione veniva appellata dai coniugi Ro.Lo Es.Na. dinanzi alla Corte distrettuale di Reggio Calabria, la quale, con sentenza n. 663/2017 del 16 novembre 2017, in parziale accoglimento dell'esperito gravame, così definitivamente statuiva: (1)accertato il difetto in capo al Lombardo della qualità di comproprietario dell'immobile dal quale veniva esercitata l'abusiva servitù di veduta, annullava le statuizioni condannatorie rese nei suoi confronti dal primo giudice, eccetto quella inerente alle spese di lite; (2)confermava, nel resto, la pronuncia impugnata; (3)condannava in solido gli appellanti alla rifusione delle spese del grado. Contro questa sentenza, notificata ex art. 285 c.p.c. il 19 dicembre 2017, la Es.Na. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. La Te.Lo. ha resistito mediante la notifica di un controricorso. Con ordinanza interlocutoria n. 6578/2019 del 6 marzo 2019, non ravvisando i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 375, comma 1, nn. 1) e 5) c.p.c., la Sesta Sezione Civile ha rimesso la causa alla pubblica udienza di questa Sezione semplice, giusta il disposto dell'art. 380-bis, ultimo comma, del medesimo codice. Nei termini di cui all'art. 378 c.p.c. il Pubblico Ministero ha depositato memoria, con la quale ha concluso per il rigetto del ricorso, e la ricorrente ha depositato memoria illustrativa. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo di ricorso viene denunciata la nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., per avere la Corte d'Appello erroneamente disatteso il motivo di gravame volto a denunciare il vizio di extrapetizione e ultrapetizione in cui era incorso il Tribunale. Si deduce, al riguardo: che il primo giudice aveva condannato la Es.Na. alla rimozione di tutte le opere descritte nella relazione peritale redatta dal c.t.u., senza considerare che alcune di queste (in particolare il vano scala e il sottotetto) risultavano prive di vedute e che, rispetto ad altre, era stata accertata dell'ausiliario l'inosservanza delle distanze legali fra costruzioni, questione estranea al thema decidendum; che, inoltre, detto giudice, anziché valutare se le vedute aperte dalla Es.Na. rispettassero le distanze prescritte dalla legge, si sarebbe preoccupato di verificare se i manufatti realizzati nel suo fondo violassero le distanze rispetto alle preesistenti vedute esercitabili dall'edificio di proprietà dell'attrice; che in tal modo, in spregio al principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, egli aveva finito per trasformare d'ufficio l'actio negatoria servitutis esperita dalla Te.Lo. così qualificata nella stessa sentenza di primo grado- in una non proposta actio confessoria servitutis. Con il secondo motivo viene lamentata la nullità della sentenza per motivazione omessa o meramente apparente. Si rimprovera alla Corte reggina di avere, al pari del Tribunale, fondato la propria decisione sull'acritico recepimento delle conclusioni rassegnate dal c.t.u., il quale, nel suo elaborato, non si era premurato di indicare le vedute dirette od oblique aperte dalla convenuta in violazione delle distanze legali. A causa delle evidenziate lacune della relazione peritale, l'impugnata sentenza non consentirebbe di comprendere sulla base di quali elementi il collegio calabrese abbia potuto riconoscere la fondatezza della pretesa avanzata dall'attrice e conseguentemente condannare la Es.Na. al ripristino dello status quo ante. Con il terzo motivo è prospettato l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti. Si sostiene che la Corte distrettuale avrebbe tralasciato di considerare: (a)che il contestato ampliamento dell'immobile della Es.Na. era stato eseguito assumendo come riferimento la < ultrasessantennale linea di confine> con la proprietà Te.Lo. coincidente con il punto di giunzione dei rispettivi muri di fabbrica costruiti in aderenza; (b)che la Te.Lo. aveva <assurdamente> realizzato un muro di cinta <in attacco> al muro di fabbrica della Es.Na., circostanza da cui era evincibile che lo spostamento della linea di confine fra i due fondi fosse avvenuto successivamente alla sopraelevazione operata dall'odierna ricorrente; (c)che, ai fini del computo delle distanze da osservare per l'apertura delle vedute, doveva aversi riguardo alla linea di confine di cui alla precedente lettera a), e non invece a quella, ad andamento irregolare, segnata dal muro di cinta. Viene soggiunto che, sulla scorta di tali elementi, erroneamente trascurati dal giudice d'appello, doveva ritenersi provata la legittimità delle opere in questione. Con il quarto motivo è dedotta la violazione o falsa applicazione dell'art. 99 c.p.c., nonché degli artt. 901, 905 e 906 c.c. Si imputa alla Corte territoriale di aver immotivatamente condannato la Es.Na. alla demolizione dei manufatti che consentono l'esercizio delle vedute, quando invece sarebbe stato sufficiente ordinare la predisposizione di idonei accorgimenti atti ad impedire la possibilità di guardare e affacciarsi sul fondo della vicina, come peraltro espressamente richiesto, in via alternativa, dalla stessa attrice. Oltretutto, detti accorgimenti erano già stati preventivamente adottati dalla convenuta al momento della realizzazione delle opere contestate, in modo da rendere di fatto impossibile l'«inspicere et prospicere in alienum». Nell'ordine logico si appalesa prioritario lo scrutinio del secondo motivo, con il quale viene denunciato un vizio di nullità della sentenza che, ove ritenuto sussistente, comporterebbe l'assorbimento improprio delle ulteriori censure sollevate dalla ricorrente. Il motivo è infondato. La Corte distrettuale ha fornito congrua e logica spiegazione delle ragioni per le quali deve ritenersi sussistente, nel caso di specie, la dedotta violazione delle distanze prescritte dalla legge per l'apertura di vedute. In particolare, il collegio reggino ha richiamato a sostegno del decisum le risultanze della c.t.u. espletata in primo grado e i rilievi fotografici allegati alla relazione peritale, riproducenti lo stato dei luoghi, dai quali ha tratto la conclusione che nel caso di specie «le distanze delle vedute sulla proprietà aliena sono, di fatto, nulle, e pertanto realizzate in aperta violazione degli artt. 905 e 906 c.c.» (pag. 12 della sentenza, primo periodo). Da quanto precede appare, quindi, evidente che la motivazione della sentenza non soltanto esiste materialmente, ma risulta comprensibile e non affetta da palese illogicità o contraddittorietà. In proposito, è utile rammentare che, per costante giurisprudenza di questa Corte: -a seguito della riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c. disposta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, il sindacato di legittimità sulla motivazione è ormai da ritenere ristretto alla sola verifica dell'inosservanza del c.d. «minimo costituzionale» richiesto dall'art. 111, comma 6, della Carta fondamentale, individuabile nelle ipotesi -che si tramutano in vizio di nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c.- di «mancanza assoluta di motivi sotto il profilo materiale e grafico», di «motivazione apparente», di «contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili» e di «motivazione perplessa od incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza della mera «insufficienza» o «contraddittorietà» della motivazione; con la precisazione che l'anomalia motivazionale deve emergere dal testo del provvedimento impugnato, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (cfr., ex permultis, Cass. n. 20598/2023, Cass. n. 20329/2023, Cass. n. 3799/2023, Cass. Sez. Un. n. 37406/2022, Cass. Sez. Un. n. 32000/2022, Cass. n. 8699/2022, Cass. n. 7090/2022, Cass. n. 24395/2020, Cass. Sez. Un. n. 23746/2020, Cass. n. 12241/2020, Cass. Sez. Un. n. 17564/2019, Cass. Sez. Un. 19881/2014, Cass. Sez. Un. 8053/2014); -spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, fra le complessive risultanze probatorie, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare i fatti in discussione, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvi i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 28311/2022, Cass. n. 18944/2021, Cass. n. 19523/2019, Cass. Sez. Un. n. 19525/2018). Proseguendo nell'ordine logico, va ora scrutinato il terzo motivo, con il quale si contesta l'erroneità e l'incompletezza dell'accertamento compiuto dalla Corte di merito in ordine alla sussistenza della denunciata violazione delle distanze legali per l'apertura di vedute. Tale motivo, pur non incorrendo nella preclusione stabilita dal combinato disposto dei commi 4 e 5 dell'art. 348-ter c.p.c. per il caso di duplice pronuncia conforme di merito (c.d. «doppia conforme») -non operante rispetto ai giudizi di appello introdotti, come nella specie, con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione anteriormente all'11 settembre 2012 (arg. ex art. 54, comma 2, D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012), è comunque inammissibile sotto altro profilo. Invero, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, il fatto di cui ella lamenta l'omesso esame è stato preso in considerazione dalla Corte d'Appello, la quale l'ha però ritenuto sprovvisto di prova e conseguentemente non ne ha tenuto conto ai fini della decisione. Si legge, infatti, alle pagg. 11-12 della sentenza gravata: «Dai rilievi fotografici allegati alla c.t.u., acquisita nel primo grado di giudizio, ed ancora dalla descrizione delle opere e dalle considerazioni contenute nell'elaborato peritale, è agevole riscontrare che parte delle opere realizzate dalla Es.Na. oltrepassano, in linea d'aria, il confine delle rispettive proprietà delle parti in causa, segnato dal muro di cinta. Ciò si è verificato poiché quest'ultimo manufatto (il muro), eretto sulla linea di confine tra le corti, è di andamento obliquo (e rientrante) rispetto alla costruzione in aderenza dei fabbricati, cosicchè il balcone realizzato al primo piano nella porzione edificata dalla Es.Na. risulta invadere l'area soprastante la corte di proprietà della Te.Lo. Sul punto l'appellante assume che la costruzione del muro di confine fu postuma rispetto alla realizzazione del balcone (il cui spigolo si trovò giocoforza a prospicere in alienum), ma che le parti, a seguito della modifica dello stato dei luoghi, non avrebbero concordato la demolizione dello spigolo della veduta preesistente, "venuto a ricadere nell'area sovrastante la corte della Te.Lo.". Ebbene, della menzionata circostanza non vi è prova in atti (tanto riguardo alla preesistenza, quanto degli accordi intervenuti tra le parti), di talché detta affermazione non può che avere quale unico effetto processuale quello di confermare quanto già rilevato dal c.t.u. incaricato dal giudice di primo grado e da quest'ultimo evidenziato nella sentenza impugnata, che il collegio ritiene di dover condividere…». A ben vedere, quindi, sotto l'apparente deduzione del vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c., la sollevata censura degrada verso l'inammissibile richiesta di una rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito (cfr. Cass. n. 4247/2023, Cass. n. 17702/2022, Cass. Sez. Un. n. 21973/2021, Cass. Sez. Un. n. 34476/2019). A ciò va aggiunto che, secondo il consolidato insegnamento di questo Supremo Collegio, l'omesso esame di cui alla citata disposizione del codice di rito deve riguardare non già una semplice questione o un punto, bensì un vero e proprio "fatto" in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante. Nell'accezione indicata, non costituiscono, invece, fatti le argomentazioni o deduzioni difensive, gli elementi istruttori, una moltitudine di fatti e circostanze o il vario insieme dei materiali di causa (cfr. Cass. n. 5616/2023, Cass. n. 976/2021, Cass. n. 17536/2020, Cass. 22397/2019). Anche se riguardato da questo diverso punto di vista, il motivo si appalesa inammissibile, posto che la stessa ricorrente fonda la censura sull'asserita <omessa o erronea disamina di elementi istruttori>, senza indicare un preciso fatto storico non esaminato dal giudice d'appello. Gli altri due motivi, ovvero il primo e il quarto in base all'ordine seguìto dal ricorrente, possono essere esaminati insieme perchè intimamente connessi. Essi appaiono fondati e meritano, pertanto, di essere accolti, per le ragioni di seguito illustrate. Dalla stessa lettura della sentenza impugnata si ricava che in primo grado la Te.Lo. aveva semplicemente richiesto l'eliminazione delle vedute abusivamente aperte dalla Es.Na. sul fondo di essa attrice, senza espressamente instare per l'abbattimento delle opere che consentono l'esercizio di tali vedute e mostrando, anzi, sia pure attraverso l'improprio richiamo alla previsione di cui all'art. 901 c.c. in tema di luci irregolari, di reputare sufficiente alla tutela del proprio diritto l'adozione di eventuali misure accomodatrici meno radicali dell'ordine di demolizione. A fronte di una domanda formulata in questi termini, il Tribunale adìto avrebbe, quindi, dovuto limitarsi a condannare la convenuta all'eliminazione delle vedute di cui era stata accertata l'illegittima costituzione. Come, infatti, ripetutamente affermato da questa Corte, l'eliminazione delle vedute abusive che consentono di affacciarsi e guardare verso il fondo altrui non necessariamente deve essere disposta dal giudice tramite la demolizione di quelle porzioni immobiliari costituenti il "corpus" della violazione denunciata, ben potendo porsi rimedio alla violazione medesima per altra via, mediante l'adozione di accorgimenti -come, ad esempio, l'arretramento del parapetto o l'apposizione di pannelli che rendano impossibile l'«inspicere et prospicere in alienum»- idonei a contemperare i contrastanti interessi delle parti e ugualmente rispondenti al precetto legislativo da applicare al caso oggetto di cognizione, e spettando, poi, al giudice dell'esecuzione determinare le concrete modalità di attuazione dell'obbligo di fare imposto dalla sentenza (cfr. Cass. n. 14194/2011, Cass. n. 9640/2006, Cass. n. 2959/2005, Cass. n. 10649/2004, Cass. n. 1450/1996, Cass. n. 2343 /1995). Alla stregua del suenunciato principio di diritto, al quale si intende prestare adesione, appaiono fondate le doglianze mosse dalla ricorrente contro l'impugnata sentenza, che ha confermato l'ordine di demolizione impartito dal Tribunale, omettendo, fra l'altro, di verificare se da parte della Es.Na. fossero già stati predisposti -come da lei sostenuto- validi accorgimenti atti ad impedire stabilmente e permanentemente la possibilità di «inspectio et prospectio» sul fondo della Te.Lo. (cfr. Cass. n. 1450/1996). La riconosciuta fondatezza dei motivi esaminati non impone la cassazione con rinvio dell'impugnata sentenza, in quanto, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, a norma dell'art. 384, comma 2, seconda parte, c.p.c., mediante pronuncia di condanna della Es.Na. all'eliminazione delle vedute dirette e oblique abusivamente aperte sul fondo della Te.Lo., come descritte nella relazione redatta dal consulente tecnico d'ufficio nominato in prime cure; fermo restando che le concrete modalità di attuazione del dictum dovranno essere stabilite dal competente giudice dell'esecuzione, su ricorso della parte interessata, ai sensi dell'art. 612 del medesimo codice. Le spese dell'intero giudizio, da regolarsi in base all'esito complessivo e finale della lite, possono essere compensate per 1/3 e per la restante frazione poste a carico della Es.Na., in ragione della sua prevalente soccombenza. Per la relativa liquidazione si rimanda al dispositivo. P.Q.M. La Corte accoglie il primo e il quarto motivo di ricorso, respinti gli altri; cassa l'impugnata sentenza, in relazione ai motivi accolti, e, decidendo nel merito, condanna Esterina Es.Na. all'eliminazione delle vedute dirette e oblique abusivamente aperte sul fondo di proprietà di Teresa Te.Lo.; compensa fra le parti 1/3 delle spese dell'intero giudizio e condanna la Es.Na. a rifondere alla Te.Lo. i restanti 2/3 delle spese dei due gradi di merito, come liquidate per l'intero nelle relative sentenze, e di quelle del presente grado di legittimità, liquidate in tale già ridotta misura in complessivi 1.200 euro (di cui 200 per esborsi); il tutto oltre al rimborso forfettario delle spese generali e agli accessori di legge. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 ottobre 2023. Depositato in cancelleria l'8 gennaio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MANNA Felice Presidente Dott. BERTUZZI Mario Consigliere Dott. FALASCHI Milena Consigliere Dott. VARRONE Luca Consigliere Dott. CHIECA Danilo Consigliere-Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 11706/2018 R.G. proposto da: Um.Sp., nella qualità di erede della defunta Ge.Lo., rappresentato e difeso dall'avv. Edo.Bo. (indirizzo P.E.C. indicato nel ricorso: ...) - ricorrente - contro Ca.Pa., elettivamente domiciliata in Roma alla via ... presso lo studio dell'avv. Co.Ma., rappresentata e difesa dall'avv. Fr.Im.An.Ba., rappresentata e difesa dall'avv. Ma.An.Ge. (indirizzo p.e.c. indicato nel controricorso: ...) - controricorrenti - nonché contro An.Ma. intimata - avverso la SENTENZA della CORTE D'APPELLO di CALTANISSETTA n. 332/2017 pubblicata il 19 dicembre 2017 Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 10 ottobre 2023 dal Consigliere Danilo Chieca Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Fulvio Troncone, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso Uditi per il ricorrente l'avv. Ed.Bo. e per le controricorrenti l'avv. Be.Si., per delega dell'avv. Ma.An.Ge.. FATTI DI CAUSA Nu.Ma.e Pa.Pa., comproprietarie di un terreno sito in Enna alla contrada San Giovanniello, citavano in giudizio, davanti al locale Tribunale, la loro vicina Ge.Lo., lamentando che costei -per quanto in questa sede ancora interessa- avesse apportato modifiche alle finestre del proprio contiguo fabbricato, consistite nell'abbassamento della relativa soglia e nella sostituzione delle preesistenti <griglie lisce> con <grate bombate>, in tal modo trasformando le originarie aperture lucifere in vere e proprie vedute, senza osservare le distanze prescritte dalla legge per la loro apertura. Chiedevano, pertanto, la condanna della convenuta al ripristino dello status quo ante mediante l'eliminazione delle opere realizzate. Radicatosi il contraddittorio, si costituiva la Ge.Lo., la quale contestava la fondatezza delle avverse pretese, chiedendone il rigetto. n All'esito del giudizio, in accoglimento della domanda, il Tribunale adìto condannava la Ge.Lo. a trasformare in luci le vedute illegittimamente aperte sul muro posto al confine con la proprietà delle attrici. La decisione veniva appellata dalla parte soccombente dinanzi alla Corte distrettuale di Caltanissetta, la quale, con sentenza n. 332/2017 del 19 dicembre 2017 -resa nel contraddittorio diCa.Pa eAn.Ma. An.Ba e di nella rispettiva qualità di eredi, le prime due, di Pa.Pa., la terza, di Nu.Ma., nel frattempo decedute, respingeva il gravame, condannando l'impugnante al pagamento delle spese del grado. Avverso tale sentenza Um.Sp., nella qualità di erede della defunta Ge.Lo., ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi Ca.Pa. e An.Ba hanno resistito mediante la notifica di un controricorso. An.Ma è invece rimasta intimata. Con ordinanza interlocutoria n. 24192/2019 del 27 settembre 2019, non ravvisando i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 375, comma 1, nn. 1) e 5) c.p.c., la Sesta Sezione Civile ha rimesso la causa alla pubblica udienza di questa Sezione semplice, giusta il disposto dell'art. 380-bis, ultimo comma, del medesimo codice. Nei termini di cui all'art. 378 c.p.c. il Pubblico Ministero ha depositato memoria, con la quale ha concluso per il rigetto del ricorso, e il ricorrenteUm.Sp. e la controricorrente Ca.Pa. hanno depositato sintetiche memorie illustrative. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell'art. 905, comma 3, c.c. Si assume che la Corte d'Appello avrebbe erroneamente escluso che nel caso di specie possa trovare applicazione la norma evocata in rubrica, pur risultando pacifico in causa che i fondi di proprietà dei contendenti sono entrambi allineati lungo la medesima via pubblica. Con il secondo motivo è dedotta la violazione dell'art. 5 D.M. n. 55 del 2014, nonché degli artt. 10 e 15 c.p.c. Si rimprovera al giudice distrettuale di aver liquidato le spese di secondo grado in favore delle appellate in un importo (3.000 Euro, al netto degli esborsi e degli accessori di legge) manifestamente eccessivo rispetto al valore della controversia, pari ad appena 25 Euro. Il primo motivo pone una questione di diritto che in passato non aveva ricevuto una soluzione univoca nelle pronunce di legittimità intervenute in subiecta materia. Sennonchè, il contrasto venutosi a creare può ormai ritenersi sopito alla luce della successiva evoluzione giurisprudenziale sul tema in discussione, il che induce il Collegio a disattendere la richiesta di rimessione degli atti al Primo Presidente per la valutazione dell'opportunità di riassegnare il ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c. Valgano, in proposito, le seguenti considerazioni. L'art. 905, ultimo comma, c.c. esclude l'obbligo di osservare la distanza minima di un metro e mezzo per l'apertura di vedute dirette verso il fondo del vicino quando fra i due fondi vi sia una via pubblica. Sin dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 3460/1977, preceduta da altre più risalenti nel tempo (n. 2945/1960, n. 927/1967 e n. 780/1970), questa Corte ha costantemente affermato che le distanze per l'apertura di vedute prescritte dalla citata norma del codice sostanziale non sono applicabili in caso di presenza di una strada pubblica, sia che questa passi fra i due immobili interessati, rendendoli fronteggianti, sia che si ponga, rispetto alle vedute, ad angolo retto. Al cennato indirizzo si sono in seguito uniformate, fra le altre, Cass. n. 3519/1979, Cass. n. 9297/1992 e Cass. n. 2390/1994. Con specifico riferimento alla prima e alla terza delle pronunce summenzionate, giova precisare che, sebbene nelle relative massime si legga che a rendere inapplicabile la disciplina dettata dall'art. 905 c.c. basterebbe il fatto che i due fondi siano confinanti con la via pubblica, «indipendentemente dalla loro reciproca collocazione», nella motivazione delle sentenze trovasi, invece, riaffermato il principio secondo cui, all'indicato fine, è necessario che detta via quantomeno delimiti ad angolo retto i due fondi. In un simile contesto si inserisce la sentenza n. 2159/2002, la quale, muovendo dal rilievo che l'esonero dal divieto imposto dai primi due commi dell'art. 905 c.c. sia giustificato dall'identificazione della strada pubblica come uno spazio dal quale chiunque può spingere liberamente lo sguardo sui fondi adiacenti, ha esteso il principio di diritto sancito nei precedenti innanzi citati alla diversa fattispecie di fondi posti in allineamento sullo stesso lato di una via pubblica. Detta ultima pronuncia è stata poi a sua volta richiamata dalla successiva sentenza n. 4222/2009, con la quale si è statuito che la norma di cui all'art. 905, ultimo comma, c.c. è applicabile indipendentemente dalla reciproca collocazione rispetto alla strada pubblica dei due fondi con essa confinanti, i quali, pertanto, possono anche essere contigui o trovarsi ad angolo retto. Successivamente, questa Corte regolatrice è però tornata a ribadire il proprio tradizionale insegnamento con la sentenza n. 13000/2013, nella quale è stato posto in evidenza come la ratio della cessazione del divieto di apertura di vedute dirette verso il fondo altrui a distanza inferiore a un metro e cinquanta sia da ravvisare in ciò, che la tutela della riservatezza presuppone la contiguità dei fondi. Ne discende che, una volta interrotta tale contiguità, per effetto della presenza di una via pubblica, non v'è ragione di mantenere il divieto in questione; per contro, allorquando i due fondi siano allineati lungo la medesima via pubblica, la contiguità non viene meno e con essa permane l'esigenza di riservatezza tutelata dalla norma. Dopo questo intervento chiarificatore la giurisprudenza di legittimità si è ormai assestata nel senso che il divieto di cui ai primi due commi dell'art. 905 c.c. rimane operante in caso di fondi allineati lungo la medesima via pubblica. In particolare, con ordinanza n. 20050/2018, la Sesta Sezione Civile ha dichiarato inammissibile, ai sensi dell'art. 360-bis n. 1) c.p.c., il ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza che aveva ritenuto inoperante l'esenzione prevista dall'art. 905, ultimo comma, c.c. in caso di edifici allineati sul medesimo lato di una strada pubblica. In tale provvedimento è stato rimarcato che la sentenza impugnata aveva deciso la questione di diritto oggetto di censura in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e che il ricorso non offriva argomenti per mutare orientamento. Non contrastano con il surriferito indirizzo Cass. n. 3036/2015 e Cass. n. 11967/2017, in quanto in nessuna delle due pronunce trovasi affermato che l'allineamento dei fondi lungo la medesima via pubblica giustifica l'esonero dall'osservanza delle distanze legali per l'apertura di vedute dirette; anzi, la seconda richiama espressamente Cass. n. 13000/2013, che, come si è visto sopra, ha sancito un ben diverso principio di diritto. Ricostruito il quadro giurisprudenziale di riferimento, ritiene il Collegio di dover dare continuità all'orientamento ormai stabilizzatosi in materia, non ravvisando valide ragioni per discostarsene. E poiché dalle concordi allegazioni delle parti si evince che i fondi per cui è causa sono fra loro contigui e allineati sullo stesso lato di una via pubblica, il motivo in esame è inevitabilmente destinato al rigetto. Il secondo mezzo è invece fondato. Le cause concernenti il mancato rispetto delle distanze legali tra immobili sono assimilate a quelle relative alle servitù, poiché l'azione esercitata consiste sostanzialmente in una negatoria. Pertanto, ai fini della competenza, il loro valore va determinato moltiplicando per cinquanta il reddito dominicale del terreno o la rendita catastale del fabbricato in cui si assume essere avvenuta la violazione (da considerare come fondo servente), giusta il disposto dell'art. 15 c.p.c. (cfr. Cass. n. 33457/2019, Cass. n. 1416/1999, Cass. n. 4654/1998, Cass. n. 320/1985). Nel caso di specie, il reddito dominicale del terreno di proprietà delle Lo Giudice-Barbarino, verso il quale sono state aperte le vedute abusive oggetto di controversia, risulta pari a 0,50 Euro, come si ricava dalla visura catastale prodotta in atti dall'originaria parte attrice e allegata alla relazione redatta dal c.t.u. nominato in prime cure. Tale importo, rivalutato dell'80% a mente dell'art. 3, comma 50, L. n. 662 del 1996, ascendeva a 0,90 Euro alla data della proposizione della domanda (sull'argomento si veda Cass. n. 1600/1991). Moltiplicando, quindi, per 50 il reddito dominicale così rivalutato, si ottiene che il valore della presente controversia risultava pari a 45 Euro, con la conseguenza che, ai fini della liquidazione delle spese di secondo grado, occorreva avere riguardo allo scaglione da 0,01 e 1.100 Euro delle tabelle allegate al D.M. n. 55 del 2014, nella formulazione vigente anteriormente alle modifiche apportate dal D.M. n. 37 del 2018 (essendo stata la sentenza d'appello pubblicata il 19 dicembre 2017). In base ad esso, pur volendo riconoscere sussistenti i presupposti per l'applicazione degli aumenti dei valori medi previsti dall'art. 4, comma 1, D.M. cit., le spese di secondo grado erano determinabili nell'importo massimo di 1.186 Euro (fase di studio della controversia: 243 Euro [135 euro + 80%]; fase introduttiva del giudizio: 243 Euro [135 euro + 80%]; fase istruttoria e/o di trattazione: 340 Euro [170 Euro + 100%]; fase decisionale: 360 Euro [200 Euro + 80%]; 243 + 243 + 340 + 360 Euro = 1.186 Euro), notevolmente inferiore a quello di 3.000 Euro liquidato dalla Corte nissena, la quale, peraltro, non ha fornito alcuna giustificazione del superamento dei limiti tabellari. Ciò posto, va ricordato che, in caso di liquidazione delle spese processuali operata successivamente all'entrata in vigore del D.M. n. 55 del 2014, non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione delle stesse secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice soltanto quantificare il compenso fra il minimo e il massimo delle tabelle, a loro volta derogabili con apposita motivazione, la quale è però doverosa allorquando si decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi, affinché siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo (cfr. Cass. n. 14198/2022, Cass. n. 89/2021, Cass. n. 2386/2017). Sulla scorta delle considerazioni che precedono, la sentenza va, dunque, cassata in parte qua. Poiché non sono necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell'art. 384, comma 2, seconda parte, c.p.c., con la liquidazione delle spese di appello nel complessivo importo di 900 Euro, contenuto entro i valori tabellari minimi e massimi, con l'aggiunta degli accessori di legge. Nei rapporti fra le parti costituite il parziale accoglimento del ricorso giustifica la compensazione della metà delle spese del presente grado di giudizio, che per la restante frazione vanno poste a carico del ricorrente, nel complesso risultato prevalentemente soccombente. Per la relativa liquidazione si rimanda al dispositivo. Nulla va statuito in ordine alle dette spese nei confronti di An.Ma., rimasta intimata. P.Q.M. La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, respinto il primo; cassa l'impugnata sentenza, in relazione al motivo accolto, e, decidendo nel merito, ridetermina le spese di secondo grado poste a carico della parte appellante in complessivi 900 Euro, oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e agli accessori di legge; condanna il ricorrente Um.Sp. a rifondere alle controricorrenti Ca.Pa. e An.Ba la metà delle spese del presente grado di giudizio, che in tale già ridotta misura liquida in complessivi 539 Euro (di cui 200 per esborsi) a favore della prima e in complessivi 468 Euro (di cui 200 per esborsi) a favore della seconda, oltre, per entrambe, al rimborso forfettario del 15% e agli accessori di legge, compensando fra le stesse parti la restante frazione delle dette spese. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 ottobre 2023. Depositato in cancelleria l'8 gennaio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MANNA Felice - Presidente - Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere - Dott. FALASCHI Milena - Consigliere - Dott. VARRONE Luca - Consigliere - Dott. CHIECA Danilo - Consigliere-Relatore - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 11152/2018 R.G. proposto da: (...) S.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma alla piazza (...) presso lo studio dell'avv. Al.Gu.Pi., dal quale è rappresentata e difesa; - ricorrente principale - contro Da.Le. e Me.Gi., rappresentati e difesi dall'avv. Ca.An., indirizzo p.e.c. indicato nel controricorso: (omissis) - controricorrenti/ricorrenti in via incidentale condizionata - avverso la SENTENZA della Corte d'Appello di Catania n. 1813/2017 pubblicata il 10 ottobre 2017 . Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 10 ottobre 2023 dal Consigliere Chieca Danilo. Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Troncone Fulvio, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso. Udito per la ricorrente l'avv. Pa.An., per delega dell'avv. Al.Pi.Gu.. FATTI DI CAUSA La (...) s.s., nell'allegata qualità di proprietaria di un capannone ad uso commerciale, asseritamente munito di parete finestrata, sito in Ac. - frazione Sa. alla via Ca., conveniva in giudizio, davanti alla locale sezione distaccata del Tribunale di Catania, i suoi vicini Da.Le. e Me.Gi., chiedendo di accertare che questi ultimi avevano realizzato sul loro fondo un edificio in violazione delle distanze prescritte dalla legge e dagli strumenti urbanistici e, per l'effetto, di condannarli ad arretrare la costruzione a una distanza minima di dieci metri dalla suddetta parete, giusta quanto stabilito dall'art. 9 D.M. 2 aprile 1968, n. 1444. Radicatosi il contraddittorio, si costituivano i convenuti, i quali contestavano la fondatezza dell'avversa pretesa. All'esito del giudizio, in accoglimento della domanda, il Tribunale adito condannava la Da.Le. e il Me.Gi., con vincolo di solidarietà, "a portare l'edificio meglio descritto in motivazione ad una distanza di metri dieci dalla parete finestrata dell'edificio attoreo", ponendo a loro carico le spese processuali. La decisione veniva impugnata dai soccombenti davanti alla Corte d'Appello di Catania, la quale, con sentenza n. 1813/2017 del 10 ottobre 2017, in riforma della pronuncia di primo grado, respingeva la domanda avanzata dalla (...) s.s., condannandola alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio. Contro questa sentenza la prefata società ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi. I Da.Le. e Me.Gi. hanno resistito mediante la notifica di un controricorso contenente anche ricorso incidentale condizionato, affidato a tre motivi. Con ordinanza interlocutoria n. 9562/2020 del 25 maggio 2020, non ravvisando i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 375, comma 1, nn. 1) e 5) c.p.c., la Sesta Sezione Civile ha rimesso la causa alla pubblica udienza di questa Sezione semplice, giusta il disposto dell'art. 380-bis, ultimo comma, del medesimo codice. Nei termini di cui all'art. 378 c.p.c. il Pubblico Ministero ha depositato memoria, con la quale ha concluso per il rigetto del ricorso principale, e i controricorrenti hanno depositato memoria illustrativa. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo del ricorso principale viene lamentato l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti. Si assume che avrebbe errato la Corte d'Appello di Catania nell'affermare che la parete del capannone di proprietà della (...) s.s. è priva di aperture qualificabili come vedute e che, conseguentemente, nel caso di specie non può trovare applicazione la disciplina dettata dall'art. 9 n. 2) D.M. 2 aprile 1968, n. 1444. Il giudice distrettuale avrebbe, infatti, tralasciato di considerare che detta parete è munita di un portone di accesso avente le caratteristiche di una vera e propria veduta, in quanto idonea a consentire l'inspectio e la prospectio non solo sul cortile di pertinenza esclusiva, ma anche verso la proprietà altrui, come evincibile dalla relazione redatta dal c.t.u. nominato in grado d'appello. Con il secondo motivo sono denunciate la violazione e la falsa applicazione dell'art. 9 n. 2) D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, in combinato disposto con l'art. 9, punti 1, 3 e 4 del Regolamento Edilizio del Comune di Acireale e con le relative norme di attuazione, approvate dal Consiglio Comunale con deliberazione n. 119 del 6 agosto 1981 e dall'Assessorato Regionale del Territorio e dell'Ambiente con deliberazione n. 64/82 del 22 febbraio 1982. Si deduce che, ai fini dell'applicabilità delle disposizioni innanzi richiamate, prescriventi in tutti i casi una distanza minima assoluta di dieci metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, integra veduta anche una porta, destinata in generale all'accesso ai locali e all'uscita da essi, qualora la sua conformazione renda obiettivamente possibile l'"inspectio et prospectio in alienum", come appunto nella specie. 2. Con il primo motivo del ricorso incidentale condizionato vengono prospettati l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, nonché la violazione del combinato disposto degli artt. 873, 874 e 877 c.c., dell'art. 2697 del medesimo codice e degli artt. 115 e 116 c.p.c. Si sostiene, al riguardo: che la (...) s.s., pur essendone onerata, non avrebbe dimostrato l'anteriorità della costruzione del proprio capannone rispetto a quella dell'edificio realizzato sul loro fondo dai vicini; che, in mancanza di detta prova, non può trovare applicazione la norma del regolamento edilizio locale invocata dalla società attrice, prescrivente la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate e pareti di edifici frontistanti, dovendo questa essere osservata soltanto da chi costruisce per secondo. Con il secondo motivo sono denunciati l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, nonché la violazione degli artt. 873 e 877 c.c., dell'art. 9, comma 4, del Regolamento Edilizio del Comune di Acireale, relativo alla zona territoriale omogenea "B", e degli artt. 115 e 116 c.p.c. Si rileva, in proposito: che il fabbricato dei Da.Le. e Me.Gi. ricade nella zona territoriale omogenea "B" del Comune di Acireale, nella quale il regolamento edilizio locale consente di costruire sul confine in aderenza; che, proprio in virtù della menzionata previsione regolamentare, detto immobile era stato realizzato in aderenza a quello all'epoca insistente sul terreno del confinante Se.Me., interposto fra i fondi delle parti in conflitto; che, essendosi legittimamente avvalsi di tale facoltà, gli odierni controricorrenti non erano tenuti ad osservare alcuna distanza rispetto alla parete del capannone di proprietà della (...) s.s. Con il terzo motivo vengono contestati l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, nonché la violazione dell'art. 873 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. Si argomenta, sul tema: che i fondi delle parti in causa non possono considerarsi confinanti, essendo fra loro interposto quello di proprietà del sunnominato Se.Me.; che, per tale ragione, risulta inapplicabile alla fattispecie in esame la disciplina legale in tema di distanze fra costruzioni, operante nel solo caso di fondi finitimi. 3. I due motivi del ricorso principale, che possono essere scrutinati insieme per la loro intima connessione, appaiono privi di fondamento. Il fatto di cui la ricorrente lamenta l'omesso esame ha in realtà formato oggetto di valutazione da parte della Corte distrettuale catanese, la quale, dopo aver rilevato, in punto di diritto, che "una porta non può ordinariamente dare luogo a una veduta, salvo che sia strutturata in modo da consentire di guardare nel fondo del vicino (porta finestra)", ha ritenuto, sulla scorta di un apprezzamento di merito, che il portone di accesso al capannone della (...) s.s. non presenti le cennate caratteristiche della porta-finestra, giungendo così ad escludere l'applicabilità al caso di specie della distanza di dieci metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti imposta dall'art. 9 n. 2) D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, richiamato dallo strumento urbanistico locale. A ben vedere, ciò di cui la società impugnante si duole è che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto degli accertamenti condotti dal c.t.u. nominato in grado d'appello, dai quali sarebbe emerso che sulla parete del predetto capannone è presente un portone di accesso dotato delle caratteristiche della veduta. Sennonché, per costante giurisprudenza di questo Supremo Collegio, l'omesso esame di elementi istruttori non è riconducibile al paradigma di cui all'art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c. laddove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. n. 31452/2022, Cass. Sez. Un. n. 28547/2022, Cass. n. 27282/2002, Cass. n. 19362/2022). D'altro canto, con il ricorso non viene denunciata la nullità dell'impugnata sentenza, ai sensi dell'art. 132, comma 2, n. 4), in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., per motivazione omessa o apparente, onde la Corte non è chiamata ad occuparsi di una simile questione. A fronte dell'apprezzamento in fatto compiuto dalla Corte territoriale circa l'inidoneità del portone di accesso al capannone della (...) s.s. a consentire l'esercizio "dell'inspectio et prospectio" sul fondo dei Da.Le. e Me.Gi., deve altresì escludersi la configurabilità della dedotta violazione o falsa applicazione delle norme giuridiche evocate dalla ricorrente, in quanto, nella disciplina legale dei rapporti di vicinato, l'obbligo di osservare determinate distanze nelle costruzioni sussiste esclusivamente rispetto alle vedute, e non anche alle luci, sicché la dizione "pareti finestrate" contenuta in un regolamento edilizio che si ispiri all'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968 non potrebbe che riferirsi alle sole pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette lucifere (cfr. Cass. n. 14730/2022, Cass. n. 10069/2020, Cass. n. 14091/2019, Cass. n. 26383/2016). 4. Per le ragioni esposte, il ricorso principale deve essere respinto, con conseguente assorbimento dell'impugnazione incidentale condizionata. 5. Le spese del presente grado di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. 6. Stante l'esito del giudizio, deve essere resa nei confronti della (...) s.s. l'attestazione di cui all'art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002 (Testo Unico delle spese di giustizia). P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale condizionato; condanna la (...) s.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, a rifondere alla controparte le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi 5.200 Euro (di cui 200 per esborsi), oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15 per cento e agli accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo, se dovuto. Così deciso in Roma il 10 ottobre 2023. Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1353 del 2019, proposto da Pa. Ma., rappresentato e difeso dagli avvocati Pa. Ma. ed Er. Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Er. Be. in Roma, via (...); contro Comune di (omissis), non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Seconda n. 1689/2018. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 15 maggio 2023 il Cons. Giordano Lamberti e udito per le parti l'avvocato Pa. Ma. in collegamento da remoto attraverso videoconferenza, con l'utilizzo della piattaforma "Mi. Te."; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 - L'appellante ha impugnato avanti il TAR per la Lombardia il provvedimento n. 1024 del 13 febbraio 2008, con il quale il Comune di (omissis) ha respinto l'istanza di condono ex d.l. n. 269/03 presentata in data 7 dicembre 2004 in relazione ai lavori di recupero a fini abitativi del sottotetto dell'immobile sito in via (omissis), frazione (omissis) (foglio (omissis), mappale (omissis), sub (omissis)). 1.1 - Il sottotetto è stato recuperato mediante la realizzazione di due camere e di un bagno, a cui si accede tramite una scala interna all'appartamento esistente al primo piano. 1.2 - Il provvedimento di diniego si fonda sul ritenuto non completamento funzionale delle opere alla data del 31 marzo 2003 ("dalla documentazione fotografica allegata all'istanza emerge che l'immobile a quella data è allo stato di grezzo senza intonaco, senza pavimenti, senza impianti, salvo condutture sottotraccia per gli impianti e senza impianti interni, con la conseguenza di non poter ritenere ultimata la trasformazione di destinazione d'uso entro il 31 marzo 2003"). 2 - Con un unico articolato motivo di censura, l'appellante ha dedotto l'illegittimità del diniego per violazione della normativa di settore ed eccesso di potere "per contrasto con direttive ministeriali (Circolare Ministero Infrastrutture e Trasporti 7 dicembre 2005 n. 2699), difetto ed illogicità di motivazione". 2.1 - Nello specifico, ha prospettato che il Comune avrebbe errato nel ritenere necessaria l'ultimazione di tutte le finiture civili, essendo sufficiente che, alla data del 31 marzo 2003, le opere realizzate siano tali da identificare la possibilità di uso in relazione alle funzioni cui sono destinate. Nel caso di specie, tale possibilità d'uso doveva ritenersi identificata, atteso che le fotografie allegate all'istanza di condono evidenziano la realizzazione delle seguenti opere: suddivisione, mediante la costruzione di tramezzi, dell'unico originario vano in tre vani, di cui due destinati a camera da letto, illuminati da preesistenti finestre poste ai due lati opposti del sottotetto, ed il terzo destinato a bagno, illuminato dall'apertura nel tetto di un lucernaio di mq. 1 x 0,80 posto in corrispondenza dello stesso con posizionamento del piatto doccia; nei tre vani risultavano dislocate decine di punti luce con le relative canalizzazioni nei muri; infine, era già stato realizzato il collegamento tra l'appartamento sottostante e il sottotetto, attraverso la realizzazione di una vera e propria scala interna in sostituzione della originaria botola. 3 - Con la sentenza indicata in epigrafe il TAR adito ha respinto il ricorso. 4 - L'originario ricorrente ha impugnato tale pronuncia, deducendone l'erroneità e contraddittorietà in relazione al mancato riconoscimento dell'intervenuto completamento funzionale dei lavori. Nello specifico, parte appellante censura il passaggio motivazionale in cui il Giudice di primo grado ha ritenuto che le opere oggetto di domanda non siano funzionalmente complete, al fine della fruizione del condono, in quanto "mancavano ancora gli impianti idraulico, termico ed elettrico (essendo state eseguite, quanto a quest'ultimo, solo le canalizzazioni nella muratura per l'alloggiamento della rete elettrica)... risulta la parziale esistenza dei soli accessori (punti luce e piatto doccia) ma non degli impianti". 4.1 - Secondo parte appellante, il TAR avrebbe omesso di considerare, da un lato, la ratio dei principi che governano la materia, dall'altro di considerare la concreta situazione esistente. Quanto al primo profilo, rileva che la circolare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti n. 2699/2005 richiede per l'ammissione al condono che le opere interne di edifici esistenti siano "tali da identificare la possibilità di uso in relazione alle funzioni cui sono destinate". Al riguardo, l'appellante prospetta che il principio di completamento funzionale deve essere letto in armonia con quello di completamento strutturale prescritto per le nuove edificazioni, rispetto al quale è necessario e sufficiente lo stato "al rustico", precisando che "come per le nuove opere è sufficiente che i volumi sia individuabili e calcolabili, per le opere interne, insistendo esse su edifici già esistenti, deve essere sufficiente, per non comportare una disparità di trattamento a sfavore di chi non realizza alcuna nuova opera ma si limita a recuperare uno spazio proprio ed interno, l'idoneità alla destinazione cui sono preordinate". 4.2 - Quanto al secondo aspetto, rappresenta che, alla data utile per il condono: - era stato aperto un lucernaio di mq. 1 X 0,80, in corrispondenza del terzo vano in aggiunta alla finestratura esistente; - era iniziata la posa dei servizi igienici con l'installazione del piatto doccia, che presuppone la già avvenuta realizzazione degli scarichi per lo scolo dell'acqua; - non solo vi erano le condutture sottotraccia, ma anche decine di punti luce; - le opere compiute successivamente sono consistite solo nella perlinatura delle pareti, posa delle piastrelle, del parquet e degli interruttori, ovvero lavori di finitura civile che hanno inciso solo sull'estetica dei locali e non certo sulla loro destinazione. Contrariamente a quanto affermato dal TAR, l'avvenuta installazione del piatto doccia all'interno del vano bagno (con finestratura) confermerebbe che l'impianto idraulico di portata e scarico acque (e fognario) era stato realizzato, così come l'avvenuta creazione dei punti luce nei vani realizzati nel sottotetto conferma che anche l'impianto elettrico era stato realizzato, mancando solo le prese e gli interruttori. 5 - L'appello è infondato. La controversia ruota intorno al concetto di opera completata. Al riguardo, ben può soccorrere l'art. 31, comma 3, l. n. 47/1985, i cui principi debbono ritenersi valevoli anche per la disciplina dei condoni successivi, in base al quale, per quel che rileva in questa sede: "si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e ultimata la copertura, ovvero quanto alle opere interne agli edifici già esistenti...quando esse siano state completate funzionalmente". La norma opera un distinguo tra nuovi edifici residenziali, per i quali si richiede l'esecuzione del rustico e il completamento della copertura, ed opere interne di edifici già esistenti per le quali si richiede il completamento funzionale. Occorre dunque interrogarsi sulla portata del concetto di completamento funzionale. In generale, lo stesso deve riferirsi alla realizzazione di un intervento di cui sia possibile riconoscere le caratteristiche tipologiche, in quanto siano presenti gli aspetti essenziali che ne individuano la funzione e ne consentono l'utilizzo. Più precisamente, ai fini del presente giudizio, tale concetto serve ad identificare il momento in cui il manufatto ha acquisito caratteristiche oggettivamente ed univocamente idonee alla nuova destinazione, anche se gli interventi di finitura non risultano ancora completati (cfr. Cons. St, sez. IV, 26/01/2009, n. 393). Ai fini del presente giudizio, la nozione di completamento funzionale implica, infatti, uno stato di avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione dell'immobile come residenza; in altri termini, l'organismo edilizio, non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planivolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione "al rustico", ossia intelaiatura, copertura e muri di tamponamento), ma anche una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d'uso (cfr. Cons. St., Sez. VI, 20/02/2019, n. 1190). 5.1 - Tanto premesso, deve in primo luogo rilevarsi che l'appellante non prova l'effettivo stato dell'immobile alla data del 31 marzo 2003, restando per l'effetto destituita di ogni riscontro la sua ricostruzione dei fatti, per cui il sottotetto sarebbe stato dotato anche di impianto idrico ed elettrico. Circa il regime dell'onere della prova relativamente all'ultimazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per accedere al condono, la giurisprudenza, alla quale si intende aderire, è orientata nel senso che incombe su chi richiede di beneficiare di un condono edilizio l'onere di provare che l'opera è stata realizzata in epoca utile per fruire del beneficio (cfr. Cons. St., sez. IV, 22/05/2012, n. 2949; Cons. St., sez. IV, 12/02/2010 n. 772), in quanto, mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data prevista (cfr. Cons. St., sez. VI, 5/08/2013, n. 4075). Al riguardo, deve precisarsi che la ravvisata carenza probatoria non è superabile attraverso un'attività del giudicante, posto che ai sensi del comma 1, art. 64, c.p.a. "spetta alle parti l'onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni". Per giurisprudenza costante, è a carico del privato l'onere della prova in ordine alla data di realizzazione delle opere edilizie, onere discendente dal principio di vicinanza della prova, come riconosciuto anche dagli articoli 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a., in forza dei quali spetta al ricorrente l'onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità (cfr. Cons. St., sez. VI, 10/03/2023, n. 2524; Cons. St., sez. II, 05/02/2021, n. 1109). Nel caso di specie era pertanto onere dell'appellante produrre, sin dal giudizio di primo grado, la documentazione idonea a provare la propria prospettazione, come ad esempio il materiale fotografico dal quale poter desumere lo stato del fabbricato. 5.2 - Senza voler invertire l'onere della prova, in base agli atti del procedimento risulta che dalla documentazione fotografica allegata all'istanza emerge che l'immobile a quella data è allo stato grezzo, senza intonaco, senza pavimenti, senza impianti, salvo condutture sottotraccia per gli impianti e senza impianti interni, con la conseguenza di non poter ritenere ultimata la trasformazione di destinazione d'uso entro il 31.03.2003. A fronte di tale rilievo, l'appellante nelle proprie osservazione non ha contestato tale situazione di fatto, limitandosi a rappresentare all'amministrazione una diversa prospettazione giuridica a sé favorevole. Alla luce di tali circostanze, la conclusione del TAR che ha valorizzato la mancanza degli impianti idraulico, termico ed elettrico (essendo state eseguite, quanto a quest'ultimo, solo le canalizzazioni nella muratura per l'alloggiamento della rete elettrica) deve trovare conferma. Invero, l'assenza di tali impianti rende completamente inidonei i vani in questione alla loro fruizione abitativa, dovendosi ritenere la loro presenza essenziale al fine di imprimere la nuova destinazione al sottotetto, salve le successive opere di completamento estetico. Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che "La nozione di completamento funzionale è ormai acquisita nella giurisprudenza amministrativa, che ha evidenziato come è necessario che siano state realizzate le...opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto, trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso" (Cons. St., Sez. V, 14 luglio 1995, n. 1071), ossia quelle opere che qualifichino in modo inequivoco la nuova e diversa destinazione (cfr. Cons. St., Sez. V, 4 luglio 2002, n. 3679, che ha considerato inverato il completamento funzionale nel caso in cui era stata effettuata "...la divisione dei locali, gli impianti elettrici ed idraulici..."; cfr. anche Cons. St., sez. IV, 08/11/2013, n. 5336). 6. - Per le ragioni esposte l'appello va respinto. 7. - Non è necessario provvedere sulle spese, stante la mancata costituzione in giudizio del comune appellato. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando, respinge l'appello. Nulla sulle spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 maggio 2023 con l'intervento dei magistrati: Luigi Massimiliano Tarantino - Presidente FF Oreste Mario Caputo - Consigliere Giordano Lamberti - Consigliere, Estensore Giovanni Sabbato - Consigliere Davide Ponte - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni - Presidente Dott. MOCCI Mauro - Consigliere Dott. CARRATO Aldo - rel. Consigliere Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere Dott. FORTUNATO Giuseppe - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso (iscritto al N. R.G. 11314/2018) proposto da: (OMISSIS), (C.F.: (OMISSIS)), (OMISSIS) (C.F.: (OMISSIS)) e (OMISSIS) (C.F.: (OMISSIS)), rappresentati e difesi in virtu' di distinte procure speciali apposte in calce al ricorso, dagli Avv.ti (OMISSIS) ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest'ultimo, in (OMISSIS); - ricorrenti - contro (OMISSIS), (C.F.: (OMISSIS)), (OMISSIS) (C.F.: (OMISSIS)) e (OMISSIS) (C.F.: (OMISSIS)), rappresentati e difesi, in virtu' di distinte procure speciali apposte in calce controricorso, dall'Avv. (OMISSIS) ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell'Avv. (OMISSIS), in (OMISSIS); - controricorrenti - avverso la sentenza della Corte di appello di Genova n. 1645/2017 (pubblicata il 20 dicembre 2017); udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23 febbraio 2023 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato; lette le conclusioni scritte del P.G., in persona del Sostituto procuratore generale Dell'Erba Rosa Maria, con le quali e' stato chiesto l'accoglimento del primo motivo di ricorso, con assorbimento dei restanti; letta, altresi', la memoria della difesa dei ricorrenti depositata ai sensi dell'articolo 378 c.p.c.. RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di Sanremo - Sezione distaccata di Ventimiglia, con sentenza n. 66/2013, respingeva le domande proposte da (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) nei confronti dei convenuti (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), dirette all'accertamento dei loro reclamati diritti a sopraelevare ed aprire vedute (finestre) e luci sul terreno e cortile comuni (con gli stessi convenuti), relativamente al fabbricato sito in (OMISSIS), con conseguente condanna degli attori al pagamento delle spese giudiziali. Decidendo sull'appello formulato dai citati attori soccombenti e nella costituzione dei soli appellati (OMISSIS) e (OMISSIS), la Corte di appello di Genova, con sentenza n. 1645/2017 (pubblicata il 20 dicembre 2017), in totale riforma dell'impugnata sentenza, accoglieva il gravame e, per l'effetto, dichiarava che gli attori (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), quali aventi causa degli aventi causa di (OMISSIS), erano proprietari del sottotetto (e del tetto) del citato fabbricato ubicato in (OMISSIS), nonche' titolari del diritto di sopraelevare lo stesso fabbricato e di aprire e lasciare finestre e luci sul terreno e cortile rimasti comuni anche ai restanti proprietari di unita' immobiliari poste ai piani terreno e sotterraneo del medesimo edificio; condannava i due appellati, in solido, alla rifusione delle spese di entrambi i gradi. A fondamento dell'adottata pronuncia, la Corte ligure respingeva, in via pregiudiziale, l'eccezione di improcedibilita' dell'appello per omesso deposito dell'originale dell'atto di appello notificato (al momento della costituzione da parte degli appellanti) sollevata dagli appellati sul presupposto che si fosse provveduto a tale adempimento soltanto alla seconda udienza collegiale su sollecitazione della stessa Corte, rilevandone la tardivita' e, in ogni caso, l'infondatezza, considerando una mera irregolarita' l'avvenuta costituzione (comunque tempestiva) in appello, ad opera degli appellanti, mediante il solo deposito della copia dell'atto di citazione, alla quale si era prontamente rimediato con il deposito dell'originale. Passando all'esame dei motivi di merito dell'appello, la Corte territoriale si occupava, in primo luogo, della situazione petitoria che interessava il controverso sottotetto, di cui era stato riconosciuto il diritto di proprieta', con la sentenza di prime cure, in via esclusiva in capo agli originari attori. Il giudice di secondo grado riteneva di non condividere il percorso logico-argomentativo compiuto dal Tribunale sanremese, poiche' - dall'esame degli atti di divisione immobiliare del 30 ottobre 1915 e de 21 ottobre 1937, ovvero sulla scorta della valutazione del loro contenuto e delle vicende traslative in essi previste - essi non potevano ritenersi "res inter alios acta" rispetto ai convenuti, dal momento che, se gli originari attori risultavano essere successori dei successori di (OMISSIS) e gli originari convenuti successori dei successori di (OMISSIS), detto contenuto si sarebbe dovuto considerare opponibile a tutte le parti in contesa, ragion per cui occorreva interrogarsi sul se il citato sottotetto potesse o dovesse qualificarsi come pertinenza - ai sensi dell'articolo 818 c.c., comma 1, - del primo piano del fabbricato, essendo indubbio, alla stregua del tenore dei titoli esaminati, che il sottotetto era stato inteso dai condividenti (sulla scorta di entrambi i menzionati atti divisori) al pari di un tetto, ovvero come porzione immobiliare ricompresa nei lotti formati dai locali al piano primo e non destinata a restare comune tra tutti i condividenti. Al riguardo, la Corte ligure osservava che, in effetti, la proprieta' esclusiva del citato sottotetto/tetto, inizialmente concentrata in capo a (OMISSIS), si era via via trasferita "pro quota" agli eredi di (OMISSIS) e, poi, agli eredi degli eredi di (OMISSIS), indipendentemente dal fatto che uno degli eredi, (OMISSIS), in sede di divisione dell'eredita' paterna con la sorella (OMISSIS) fosse divenuta assegnataria non di un alloggio al primo piano (come quest'ultima), ma di una cantina al piano seminterrato, trattandosi di beni gia' tutti appartenenti in proprieta' esclusiva a (OMISSIS) e, quindi, devolutisi parziariamente pure con la corrispondente quota di proprieta' (anche del sottotetto e del tetto) delle parti dell'edificio gia' in proprieta' del "capostipite" (OMISSIS), che non aveva fatto parte dello scioglimento della comunione con gli atti divisori tra le due menzionate sorelle (e con gli altri atti sempre riguardanti le successioni, prima, di (OMISSIS) e, poi, dei suoi figli). Rilevava, poi, la Corte di appello che dovevano considerarsi del tutto fuorvianti le valutazioni del primo giudice, secondo cui, da un lato, il diritto di sopraelevazione avrebbe dovuto essere riqualificato come diritto di superficie ai sensi dell'articolo 952 c.c. e, dall'altro, che tale diritto si sarebbe dovuto ritenere prescritto in applicazione dell'articolo 954 c.c., comma 2, per non uso protrattosi da venti anni e cio' perche': - i predetti titoli contrattuali manifestavano in modo evidente che la facolta' di sopraelevazione attribuita al condividente (OMISSIS) costituiva una conseguenza dell'attribuzione nella sua proprieta' esclusiva dell'intera porzione superiore al fabbricato compresa tra l'incluso primo piano e l'aria soprastante alla copertura del fabbricato e non, invece, una concessione che avevano fatto a suo favore degli inesistenti comproprietari di tale copertura, scindendo, impropriamente, la proprieta' della copertura dal diritto di realizzare al di sopra della stessa un'elevazione del fabbricato; - mancava, quindi, nel caso concreto il primo presupposto - ovvero che il diritto di eseguire la sopraelevazione riguardasse suolo altrui - per ravvisare il corso della prescrizione ai sensi del citato articolo 954 c.c., comma 4. Alla stregua di tali raggiunte conclusioni, la Corte di appello riteneva irrilevante esaminare l'ulteriore motivo di gravame diretto all'accertamento dell'acquisto della proprieta' del sottotetto in favore degli attori-appellanti pure a titolo di usucapione. 2. Avverso la citata sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), cui hanno resistito, con un congiunto controricorso, gli intimati (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), mentre (OMISSIS) non ha svolto attivita' difensiva in questa sede. La difesa dei ricorrenti ha anche depositato memoria ai sensi dell'articolo 378 c.p.c.. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Con il primo motivo, i ricorrenti hanno denunciato - ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4 - la nullita' della impugnata sentenza e del giudizio di appello per violazione o falsa applicazione degli articoli 156, 165, 347, 348 e 350 c.p.c., sostenendo che la Corte ligure avrebbe dovuto dichiarare l'improcedibilita' dell'appello ex adverso proposto (con conseguente consolidamento e passaggio in giudicato della sentenza di primo grado), per non essere stato il relativo atto di citazione tempestivamente depositato in originale al momento della costituzione degli appellanti, ne' nei dieci giorni di cui al citato articolo 165 c.p.c., comma 2, ne' alla prima udienza. 2. Con la seconda censura, i ricorrenti hanno dedotto - in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - la violazione degli articoli 1362, 1363, 1368 e 1369 c.c., avuto riguardo alle parti della motivazione dell'impugnata sentenza di cui alle lettera a) e b) del paragr. 2, rappresentando che, se la Corte di appello avesse rispettato i canoni ermeneutici di cui alle richiamate norme, avrebbe dovuto necessariamente riconoscere che, con l'atto di divisione del 1915, sull'immobile oggetto di controversia era stato costituito un condominio tra i due germani (OMISSIS) ed (OMISSIS) e che, non essendo stato stabilito chiaramente nulla di diverso in detto titolo, il tetto ed il piano sottotetto dell'edificio, non espressamente attribuiti in proprieta' esclusiva, si sarebbero dovuti ritenere rimasti comuni tra i due condomini. 3. Con la terza doglianza, i ricorrenti hanno prospettato - avuto riguardo all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1362 e 1363 c.c., con riferimento ai passaggi motivazionali dell'impugnata sentenza di cui alle lettera c), d) ed e) del paragr. 2, sostenendosi che, se la Corte di appello avesse applicato correttamente i criteri interpretativi di cui alle suddette norme, non avrebbe potuto trarre dall'atto di divisione del 1937 alcuna giustificazione della presunta divisione "verticale" dell'immobile controverso nel 1915, dovendosi, al contrario, trarre ulteriore conferma del fatto che, con l'atto del 1915, era stato costituito un condominio tra i due germani (OMISSIS) ed (OMISSIS) e che, non essendo stato stabilito univocamente nulla di diverso in detto titolo, il tetto ed il piano sottotetto dell'edificio, non espressamente attribuiti in proprieta' esclusiva ne' nell'atto del 1915 ne' in quello del 1937, si sarebbero dovuti ritenere rimasti comuni tra i due condomini. 4. Con il quarto motivo, i ricorrenti hanno denunciato - in ordine all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1362, 1363, 1365, 1367 e 1368 c.c., anche in relazione agli articoli 1117 e 1350 c.c., articoli 1314 e 1865 e R.Decreto Legge n. 56 del 1934, articolo 3 con riferimento agli sviluppi motivazionali dell'impugnata sentenza contenuti nelle lettera f) e g) (prima parte) del paragr. 2, deducendo che, in base alla esatta applicazione dei parametri ermeneutici previste dalle norme per prima citate, la Corte di appello non avrebbe potuto interpretare il rogito del 1937, che nulla disponeva a proposito del tetto e del piano sottotetto del controverso immobile, nel senso di ritenere queste parti tacitamente attribuite in proprieta' esclusiva al (OMISSIS), poiche' - in difetto di specifiche disposizioni e dell'indivisibilita' del tetto comune secondo il diritto allora vigente (nonche' "ad abundantiam" delle regole di forma scritta "ad substantiam" gia' in quel tempo prescritte per i trasferimenti immobiliari) - la stessa Corte avrebbe dovuto concludere - in conformita' a quanto gia' ritenuto dal Tribunale - nel senso che il tetto ed il piano sottotetto, in ordine ai quali nulla era stato espressamente previsto, non potevano che essere rimasti indivisi e, quindi, costituenti parti comuni dell'edificio. 5. Con la quinta ed ultima censura, i ricorrenti hanno lamentato - sempre con riferimento all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - la violazione dell'articolo 1367 c.c., in relazione all'articolo 952 c.c., comma 1, articolo 1127 c.c., R.Decreto Legge n. 56 del 1934, articolo 12, comma 1, nonche' degli articoli 1362, 1363 e 1368 c.c., con riguardo alle lettera g) (seconda parte), h), i), j) e k) del paragr. 2 della motivazione dell'impugnata sentenza, sul presupposto che la Corte di appello non avrebbe potuto trarre, dalla clausola del rogito del 1937 di espressa attribuzione al (OMISSIS) del diritto di sopraelevare l'edificio, una conferma dell'implicita attribuzione allo stesso (OMISSIS) del diritto di proprieta' esclusiva del tetto e del piano sottotetto, su cui l'atto invece nulla prevedeva, dovendosi intendere la clausola relativa all'attribuzione del suddetto diritto come una disposizione di riconoscimento di un diritto di superficie, in tal modo traendosi conferma della proprieta' comune del piano sottotetto, perche' solo in quest'ultima prospettiva la clausola medesima avrebbe avuto un chiaro, univoco e non superfluo significato. 6. Rileva il collegio che il primo motivo deve essere dichiarato inammissibile, in applicazione dell'articolo 360-bis c.p.c., n. 1), poiche' la questione processuale che ne costituisce oggetto e' stata decisa dalla Corte di appello di Genova giungendo - in conformita' all'orientamento giurisprudenziale di questa Corte culminato nella sentenza delle SU n. 16598/2016 (interpretata nei suoi corretti termini) e senza che siano stati prospettati elementi idonei per superarlo - a ritenere infondata l'eccezione di improcedibilita' dell'appello per omesso deposito dell'originale dell'atto di appello sollevata dagli appellati alla seconda udienza del 10.2.2015 dopo che il collegio, alla prima udienza di comparizione del 25.11.2014, aveva segnalato la mancata produzione - al momento della costituzione degli appellanti - dell'originale dell'atto di citazione in appello notificato, il cui esame solo avrebbe consentito di verificarne la regolare notificazione (anche) all'appellato non costituito (OMISSIS). Occorre, al riguardo, rilevare che, alla prima udienza dinanzi alla Corte di appello, quest'ultima aveva proceduto ad una verifica della ritualita' dell'instaurazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli appellati, pur prendendo atto che i due appellati (OMISSIS) e (OMISSIS) - malgrado la mancata produzione dell'atto di citazione in originale con la prova della ritualita' della sua notificazione nei loro confronti - si erano comunque costituiti (nonostante, cioe', il mero deposito della velina dell'atto di citazione in appello ad opera degli appellanti al momento della loro, comunque, tempestiva costituzione), senza eccepire alcun vizio e difendendosi nel merito rispetto alle censure formulate dagli appellanti (salvo, poi, a formulare l'eccezione di improcedibilita' solo nella seconda udienza temporalmente intesa). Ora, avendo esercitato tale potere, una volta prodotto nel termine stabilito dalla Corte di appello l'atto di citazione in originale con la prova della ritualita' della tempestiva notificazione anche nei confronti dell'altro appellato (OMISSIS) (non costituitosi in precedenza), rimasto contumace, lo stesso giudice di secondo grado non avrebbe potuto - sol per la mancata produzione dell'originale dell'atto di citazione entro la prima udienza con le inerenti relate di notifica e nonostante la rituale e tempestiva costituzione dei suddetti due appellati (che avevano, con tale condotta, riconosciuto la regolarita' della loro "vocatio in ius") ai sensi dell'articolo 347 c.p.c. (ancorche' fosse stata depositata in cancelleria, all'atto dell'iscrizione tempestiva a ruolo, solo la velina dell'atto di citazione) e l'accertata regolarita' della notificazione dell'atto di appello anche nei riguardi dell'appellato non costituitosi - dichiarare l'improcedibilita' dell'appello. In altri termini, la Corte di appello non avrebbe potuto dichiarare l'improcedibilita' dell'appello soltanto perche', nonostante l'avvenuta costituzione degli altri due appellati (con l'effetto di sanatoria nei loro confronti) e malgrado la sola produzione della velina dell'atto di citazione in appello al momento della costituzione - pacificamente tempestiva - in giudizio da parte degli appellanti, era mancante, alla prima udienza, la prova della regolarita' della notificazione nei riguardi dell'altro appellato non costituitosi (e, quindi, senza la produzione di un'efficacia sanante anche relativamente alla sua posizione processuale). Prova, questa, poi acquisita alla successiva udienza in cui venne completata l'attivita' di "verifica della regolare costituzione del giudizio" e dichiarata, legittimamente, la contumacia dell'appellato non costituitosi (e nei cui confronti era stata, per l'appunto, accertata la regolarita' della notificazione dell'atto di appello), cosi' esaurendosi le complessive verifiche della prima udienza di trattazione (anche in relazione a quanto disposto dal citato articolo 350 c.p.c., comma 3). In tal senso, quindi, deve escludersi che si sia venuta a configurare l'ipotesi (tipica) di improcedibilita' prevista dall'articolo 348 c.p.c., comma 1 (v. Cass. nn. 25437/2014, 15130/2015 e 4525/2016), il quale commina tale sanzione solo per l'inosservanza del termine di costituzione dell'appellante, non anche per il mancato rispetto delle forme di costituzione, sicche', essendo il regime dell'improcedibilita' di stretta interpretazione in quanto derogatorio al sistema generale della nullita', il vizio della costituzione tempestiva ma inosservante delle forme di legge soggiace al regime della nullita' e, quindi, anche al principio del raggiungimento dello scopo (gia', in questi termini, v. Cass. n. 6912/2012). Cio' vale a dire che, nel caso di specie, essendosi le parti appellanti tempestivamente costituite con il deposito della copia dell'atto di citazione - la c.d. velina - in luogo dell'originale, questa modalita' avrebbe potuto comportare (come stabilito dalla citata sentenza delle Sezioni unite n. 16598/2016, seguita da altre pronunce conformi, come Cass. n. 1063/2018 e Cass. n. 7679/2019) soltanto la nullita' della loro costituzione, ma non l'improcedibilita' dell'appello, nullita', peraltro, sanata dalla costituzione dei due appellati (che si erano difesi anche nel merito) e con l'assolvimento del dovere, da parte del giudice di appello, di concedere apposito termine per verificare l'avvenuta rituale notificazione anche nei confronti dell'altro appellato, accertamento positivamente compiuto all'udienza immediatamente successiva fissata per la trattazione, con la derivante dichiarazione di contumacia del (OMISSIS) (non costituitosi, malgrado la sua valida evocazione in causa) e la conseguente legittimita' della prosecuzione del giudizio di secondo grado. 7. Rileva, poi, il collegio che i motivi dal secondo al quinto sono esaminabili congiuntamente perche' con essi, sotto plurimi profili, vengono denunciate censure che attengono al percorso logico-giuridico compiuto sul piano ermeneutico nell'impugnata sentenza per addivenire alla soluzione dell'esclusione - sulla base, per l'appunto, dell'interpretazione dei titoli divisori presupposti del 1915 e del 1937 - di una condizione di comproprieta' del sottotetto e del tetto del fabbricato oggetto di controversia, rivendicati, invero, in proprieta' esclusiva da parte degli originari attori, poi appellanti. In primo luogo, bisogna dare atto che detti motivi sono stati dedotti in modo adeguatamente specifico, riproducendo gli stessi il contenuto - per quanto rilevante - dei due atti divisori di riferimento sui quali sono stati basati. Occorre, poi, evidenziare come, sul piano generale, sia risaputo che l'interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volonta' dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per inadeguatezza della motivazione, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione antecedente alla novella di cui al Decreto Legge n. 83 del 2012, oppure - nel vigore del novellato testo di detta norma - nel caso di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, sempre che non si ricada nella possibile ipotesi piu' radicale del vizio di motivazione mancante od apparente (denunciabile ai sensi del n. 4) dello stesso articolo 360 del codice di rito, ma, nella vicenda in esame, non prospettato ne' prospettabile, alla stregua del piu' che adeguato svolgimento dell'iter motivazionale). E' altrettanto indubbio che non si puo' artatamente contestare il risultato dell'attivita' interpretativa del giudice di merito attraverso l'asserita - ma insussistente - prospettazione della violazione di uno o piu' criteri ermeneutici. Cio' premesso, il collegio ritiene che la ricostruzione dei titoli divisori del 1915 e del 1937 operata dalla Corte di appello, sia in base al contenuto letterale che all'intenzione dei contraenti, oltre che sulla scorta della loro interconnessione, debba considerarsi corretta e legittima, siccome rispettosa dei principali e prioritari canoni ermeneutici previsti dagli articoli 1362 e 1363 c.c. (v., in proposito, da ultimo, Cass. n. 21576/2019 e Cass. n. 13595/2020), come tali risolutivi nell'approdare al risultato interpretativo raggiunto con l'impugnata sentenza, nel senso di riconoscere - in virtu' di tali titoli ritenuti, a ragione, idonei a superare la presunzione di condominialita' di cui all'articolo 1117 c.c. dei controversi tetto e sottotetto, che, invece, gli odierni ricorrenti vorrebbero che fosse da considerare ancora operante - la proprieta' esclusiva di tali parti agli appellanti, con la correlata attribuzione del diritto di sopraelevazione del fabbricato in questione e di aprire e lasciare finestre e luci sul terreno e sul cortile - questi si' - rimasti comuni anche ai restanti proprietari delle unita' immobiliari ubicate ai piani terreno e interrato del medesimo fabbricato. In effetti, i ricorrenti hanno - con le doglianze in esame - inteso sollecitare una diversa ricostruzione, sul piano ermeneutico, del contenuto dei due atti divisori in relazione ai quali la Corte di appello ha esercitato un apprezzamento di fatto, compiutamente motivato e conforme - in sede applicativa - ai suddetti parametri interpretativi, cosi' rimanendo insindacabile nella presente sede di legittimita' (cfr. Cass. n. 2943/2004 e Cass. n. 11195/2010). Infatti, nella sviluppata ricostruzione di cui alle pagg. 4-8 della motivazione, la Corte di appello, partendo innanzitutto dall'esame delle previsioni contenute primariamente nell'atto divisorio del 1915, ha rilevato che lo scioglimento della comunione era stato - in senso dimensionale - concordato con "modalita' verticale", con assegnazione della complessiva porzione a nord, da terra a cielo, del fabbricato ed area annessa - individuata come lotto A - al condividente (OMISSIS), mentre la porzione "restante", individuata come lotto B, era stata attribuita all'altro condividente (OMISSIS), con relativa rappresentazione delle risultanze fattuali discendenti dall'accordo in apposita planimetria allegata allo stesso atto, laddove - sottolinea la Corte di appello - il confine superiore delle due porzioni divise era specificato con le parole "sopra arie", senza alcuna menzione delle parole "tetto" e "sottotetto", con la conseguenza che - nella loro intenzione - le parti non avevano inteso mantenere comune la copertura del fabbricato ma che la stessa dovesse, invece, rimanere divisa in corrispondenza delle due porzioni distintamente dalla stessa coperte (ovvero la parte del fabbricato individuato come lotto A e la parte di fabbricato identificantesi con il lotto B). Inoltre, la Corte di appello, posta tale premessa, ha adeguatamente rilevato che, con la successiva divisione del 1937 (mediante l'apprezzamento del tenore letterale dello stesso e del complessivo contenuto delle clausole, cosi' conformandosi al dettato dei citati articoli 1362 e 1363 c.c., senza la necessita', percio', di dover ricorrere ad altri canoni ermeneutici, invero operanti eventualmente - come e' noto - solo in via sussidiaria: cfr. Cass. n. 26990/2006 e Cass. n. 18180/2007), le parti, previo ricorso ad un criterio divisorio in senso orizzontale (in sostituzione di quello originario di tipo verticale), avevano inteso attribuire tutto il primo piano di quello che era stato identificato come lotto B al (OMISSIS), mentre all'altro condividente (OMISSIS) era stato assegnato tutto il pianterreno dello stesso lotto B, specificandosi, altresi', testualmente, che ad (OMISSIS) veniva riconosciuta la facolta' di sopraelevare il fabbricato (con la opportuna valorizzazione - a tal proposito - da parte della Corte ligure della collocazione in significativa "sintonia" logica di tale previsione con i principi dettati dall'articolo 1127 c.c., comma 1, come interpretati dalla giurisprudenza di legittimita'), di aprire e lasciare finestre e luci sul terreno e cortile rimasti comuni ai condividenti: questo era proprio l'oggetto della domanda degli originari attori-poi appellanti, riconosciuta fondata dalla Corte di appello, la quale e' legittimamente pervenuta - sulla scorta del conferente ed adeguato rispetto dei suddetti criteri interpretativi - a ritenere che, in effetti, la copertura (formata proprio dal sottotetto e dal tetto) era rimasta strutturalmente "inglobata" nel piano primo e, quindi, appartenente in via esclusiva al (OMISSIS). Si osserva, inoltre, che la questione relativa alla supposta indivisibilita' del tetto asseritamente imposta dal R.Decreto Legge n. 56 del 1934, articolo 3 e' nuova (e, in quanto tale, la sua prospettazione deve essere considerata inammissibile), non risultando dedotta nei gradi di merito, non avendo i ricorrenti indicato come, quando e dove l'avessero fatta valere, non discorrendosene, peraltro, nemmeno nella sentenza qui impugnata. Per effetto della completa e giuridicamente corretta ricostruzione ermeneutica operata dalla Corte di appello e del conseguente esito finale raggiunto, la stessa ha, di conseguenza, legittimamente escluso che il diritto di sopraelevazione potesse ricondursi ad un diritto di superficie e che potesse applicarsi il regime della prescrizione di cui all'articolo 954 c.c., difettando il necessario presupposto dell'esercizio di tale diritto "su suolo altrui". 8. In definitiva, il ricorso va integralmente respinto, con la derivante condanna dei ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate nei sensi di cui in dispositivo. Infine, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte degli stessi ricorrenti, sempre con vincolo solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 8.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario, iva e c.p.a., nella misura e sulle voci come per legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater da' atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, con vincolo solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis se dovuto.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE QUARTA CIVILE composta dai magistrati Dott. Alberto Massimo Vigorelli - Presidente Dott. Francesco Distefano - Consigliere Dott. Maria Teresa Brena - Consigliere rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa d'appello promossa avverso la sentenza di primo grado n. 6490/2020 del Tribunale di Milano pubblicata in data 19/10/2020, posta in decisione nella camera di consiglio dell'1.03.2023 DA (...) (C.F. (...) ), nato a (...) di P. (...) (R,) il (...) e residente in (...), Via G. B. P. n. 25, rappresentato e difeso dall'Avv. Ma.Nu. del Foro di Milano (C.F. (...) ) elettivamente domiciliato presso lo studio del medesimo in Milano, Via (...) APPELLANTE CONTRO (...) (C.F. (...) ) nato a (...) il (...), residente in L.C. (Co) Via U., 2, rappresentato e difeso dall'avv. Ro.Ia., di Monza via (...), presso il cui studio si domicilia giusta delega in calce all'atto di appello APPELLATO/APPELLANTE IN VIA INCIDENTALE MOTIVI DELLA DECISIONE IN FATTO E DIRITTO Con atto d'appello notificato in data 16.04.2021 ad (...), (...) impugnava la sentenza del Tribunale di Milano n. 6490/2020 pubblicata in data 19.10.2020, con la quale il primo giudice aveva: a) rigettato la domanda di nullità del contratto di compravendita del 13 ottobre 2006 proposta da (...); b) dichiarato la prescrizione dell'azione di annullamento del contratto di compravendita proposta da (...); c) rigettato la domanda di risoluzione del contratto proposta da (...); d) in accoglimento della domanda di accertamento dell'inadempimento di (...), condannato lo stesso a al risarcimento del danno subito da (...) liquidato in Euro14.000,00; e) rigettato le domande riconvenzionali proposte da (...); f) condannato (...) alla refusione del 50% delle spese di lite sostenute da (...) liquidate in Euro 1.072,00 per anticipazioni non imponibili, Euro 5.770,00 per compensi, oltre spese generali al 15%, I.(...), se dovuta, e C.P.A., compensando fra le parti le residue; g) posto definitivamente a carico di (...) le spese della CTU nel procedimento per ATP R.G. 3303/2017; h) posto definitivamente a carico di (...) le spese della CTU nel procedimento per ATP R.G. 43409/2015. Si costituiva con comparsa del 26.10.2021 (...) che, dopo aver contestato in fatto e diritto le argomentazioni avanzate da parte appellante al fine di ottenere il rigetto del gravame, proponeva a sua volta appello incidentale. All'udienza di prima comparizione del 18.11.2021, le parti si riportavano ai rispettivi atti e la Corte, su concorde istanza, rinviava la causa per la precisazione delle conclusioni all'udienza dell'1.12.2022. La stessa si svolgeva mediante trattazione scritta e i difensori provvedevano, quindi, a precisare le conclusioni. Il Collegio tratteneva la causa in decisione assegnando i termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e le memorie di replica; depositati gli scritti difensivi finali la causa veniva poi discussa e decisa nella camera di consiglio del 1.03.2023. Brevemente quanto ai fatti di causa di rilievo in questa sede, come si legge nella sentenza impugnata: "(...) ha convenuto in giudizio (...) per sentir accogliere le seguenti conclusioni: nel merito, in via principale: accertare e dichiarare, per i motivi di cui alla narrativa del presente atto e con ogni miglior motivazione, la nullità del contratto di compravendita stipulato tra le parti in data 13.10.2006 a rogito Notaio dottor (...) di (...) - Rep. n. (...), Racc. n. (...); per l'effetto, condannare il signor (...) al pagamento dell'importo di Euro 99.951,60 - o di quel diverso importo, maggiore o minore, che verrà accertato in corso di causa e/o ritenuto di giustizia - a titolo restitutorio e/o di risarcimento danni per le causali ed i titoli indicati in atti; in via subordinata: nella denegata ipotesi di mancato accoglimento della domanda formulata dall'attore in via principale, accertare e pronunciare - per i motivi di cui alla narrativa del presente atto e con ogni miglior motivazione - l'annullamento del contratto stipulato tra le parti in data 13.10.2006 a rogito Notaio dottor (...) di (...) - Rep. n. (...), Racc. n. (...); per l'effetto, condannare il signor (...) al pagamento dell'importo di Euro 99.951,60 - o di quel diverso importo, maggiore o minore, che verrà accertato in corso di causa e/o ritenuto di giustizia - a titolo restitutorio e di risarcimento danni per le causali ed i titoli indicati in atti; in via ulteriormente subordinata: accertare e dichiarare, per i motivi di cui al presente atto e conogni miglior motivazione, la risoluzione ex art. 1453 c.c. del contratto di compravendita inter partes stipulato in data 13.10.2006 a rogito Notaio dottor (...) di (...) - Rep. n. (...), Racc. n. (...); per l'effetto, condannare il signor (...) al pagamento dell'importo di Euro 99.951,60 - o di quel diverso importo, maggiore o minore, che verrà accertato in corso di causa e/o ritenuto di giustizia - a titolo restitutorio e di risarcimento danni per le causali ed i titoli indicati in atti. Si è costituito con comparsa di risposta telematica del 16 luglio 2018 (...) instando per: nel merito: per tutte le ragioni sueposte, rigettarsi ogni domanda di parte attrice perché infondata in fatto ed in diritto e/o prescritta, e con condanna ex art. 96 c.p.c.. In ogni caso, con vittoria di spese di lite. in via subordinata: ai soli fini della risoluzione della controversia e con compensazione delle spese di lite, il convenuto si dichiara pro bono pacis disponibile a cedere gratuitamente a parte attrice (escluso il costo per spese notarili, catastali, edilizie e di sanatoria) la volumetria di sua proprietà nel lotto di riferimento pari a mq 1,69 inedificati per consentire la traslazione in compensazione della SLP necessaria alla sanatoria prospetta dal Ctu arch. Marzano e secondo il progetto tecnico che si produce (cfr. doc. 8); in via riconvenzionale: condannarsi parte attrice al pagamento in favore del convenuto dell'importo di 17.041,29 nel caso in cui non dovesse rimuovere la finestra non consentita di cui al precedente paragrafo 6.4, ovvero al pagamento di Euro 3.917,86 qualora si disponesse alla sua demolizione con il ripristino quo ante. In ogni caso, con vittoria di spese di lite". Come anticipato, il Tribunale rigettava innanzitutto la domanda di nullità del contratto di compravendita proposta dall'appellante, avendo ritenuto, conformemente ai dettami della sentenza n. 8230/2019 delle Sezioni Unite con riguardo alla natura delle nullità comminate dall'art. 46 D.P.R. n. 380 del 2001 e dagli art. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985, che la dichiarazione risultata veritiera secondo cui il fabbricato era stato realizzato per mezzo di lavori iniziati precedentemente all'1 settembre 1967 fosse sufficiente ad assolvere al fine previsto dalla norma, ossia stabilire l'esistenza di un titolo edilizio sulla cui scorta era stato esercitato lo ius ad aedificandum. Ancora, il Tribunale rigettava la domanda di annullamento del contratto in questione, avendo ritenuto prescritta l'azione, essendo intervenuta la conoscenza da parte dell'appellante del supposto dolo del (...) in una forbice temporale compresa tra l'inizio del 2007 ed il 13 luglio 2009 (discorso analogo da svolgersi con riguardo all'errore essenziale sempre invocato dall'appellante); alcuna azione di annullamento era stata tuttavia esperita dal (...) tra luglio 2009 e luglio 2014, dovendosi pertanto dichiarare maturata l'avvenuta prescrizione quinquennale. Anche la domanda di risoluzione del contratto di compravendita veniva poi respinta dal giudice di prime cure, il quale, riconducendo la fattispecie all'art. 1489 c.c., ha ritenuto che l'abuso concernente la "trasformazione del corridoio/disimpegno volume in ampliamento del vano latrina comune configura un aumento di SLP ...", per quanto attribuibile al venditore, fosse da considerarsi un inadempimento non grave, anche alla luce dell'interesse del creditore. Alla stregua di siffatta valutazione, il Tribunale ha giudicato esiguo non solo l'abuso rispetto all'insieme dell'immobile acquistato, ma anche rispetto le somme necessarie ai fini del rispristino dello status quo precedente, non rinvenendo dunque alcuna grave lesione dell'interesse del creditore tale da giustificare la risoluzione del contratto. Alla luce di tali riflessioni, il Tribunale dichiarava fondata la sola domanda di risarcimento del danno da parte del (...), con conseguente condanna del (...) al pagamento di Euro14.000,00, aderendo così anche sul punto alle prospettazioni della CTU (...) (doc. 11 fascicolo primo grado appellante). Il risarcimento veniva dunque ritenuto l'unico mezzo idoneo a compensare in favore dell'appellante la situazione di abuso venutasi a creare a causa del venditore al quale, a seguito della valutazione delle prove documentali e testimoniali, veniva imputata la responsabilità per la fusione del vano bagno ottenuto con l'unità abitativa. Infine, per quanto riguarda le domande riconvenzionali, il giudice di primo grado le respingeva entrambe non accogliendo la richiesta del (...) di condanna del (...) al pagamento di importi differenti, da riconoscersi l'uno pari ad Euro 17.041,29 in caso di non rimozione della finestra costruita dal compratore senza autorizzazione alcuna sul cortile che assumeva essere di sua proprietà esclusiva, l'altro pari ad Euro 3.917,86 nel caso in cui, al contrario, fosse stata disposta la demolizione della stessa. Il Tribunale infatti, rinvenendo un rapporto di accessorietà tra le varie unità immobiliari (compresa quella del 8...)) ed il cortile da ritenersi condominiale e quindi comune, riteneva insussistente la servitù dedotta dal (...) e valorizzava l'art. 1102 c.c. secondo cui l'apertura di finestre e la trasformazione di luci in vedute rientrano nei poteri dei singoli condomini. Tanto premesso, ritiene la Corte di non poter accogliere l'appello principale né tantomeno l'appello incidentale proposti rispettivamente da (...) e (...). Con la prima doglianza l'appellante lamenta un'errata applicazione da parte del Tribunale dei principi di diritto disciplinanti la nullità dei contratti di compravendita per vizio formale e, nello specifico, una errata interpretazione ed applicazione del combinato disposto degli art. 40 L. n. 74 del 1985, art. 46 D.P.R. n. 380 del 2001 e art. 1418 c.c., con conseguente contraddittorietà della motivazione. Il giudice di prime cure, infatti, pur muovendo dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 8230/2019 ha, comunque, rigettato la domanda di nullità del contratto di compravendita avanzata dal (...), il quale deduce al contrario la sussistenza di un mendacio nelle dichiarazioni urbanistiche presentate dal (...). Un mendacio riconosciuto dallo stesso Tribunale con riguardo nello specifico alle dichiarazioni contenute nel rogito per cui "successivamente alla fine dei lavori di costruzione dellaporzione immobiliare in contratto non vennero apportate alla stessa modifiche per le quali si sarebbero dovuti richiedere provvedimenti autorizzativi ad eccezione di opere per le quali è stata presentata in termine completa ed esatta domanda in sanatoria ai sensi della L. n. 57 del 1985 essendo la sanatoria ammissibile secondo la medesima Legge" ed ancora "la domanda in sanatoria non ha ancora ottenuto definizione, ma ai sensi dell'art. 35 L. n. 47 del 1985, essendo trascorsi più di trentasei mesi dalla presentazione della domanda (1 aprile 1986 n. 131874 di Protocollo Generale), essendo state pagate le relative oblazioni per l'importo di L. 250.000 (duecentocinquantamila) e L. 250.000 (duecentocinquantamila) non ricorrendo i casi di cui all'art. 40, primo comma ed art. 33 della Legge, la domanda in sanatoria deve intendersi accolta, confermando parte venditrice di avere versato tutte le somme dovute". Nonostante il riconoscimento di tale falsità, dettata dalla non pertinenza delle suddette dichiarazioni all'immobile compravenduto, il giudice di primo grado ha comunque ritenuto il contratto di compravendita non viziato da nullità e da qui scaturisce il suo errore. L'appellante sostiene altresì che, a differenza di quanto giudicato dal Tribunale, la sola dichiarazione contenuta nel contratto secondo cui i lavori sarebbero iniziati prima del 1 settembre 1967 ("le opere di costruzione della porzione di immobile in contratto, nonché le opere di costruzione della casa di cui la stessa fa parte, vennero iniziate anteriormente al primo settembre 1967") non è sufficiente a salvare il negozio dalla nullità. E ciò sia perché i lavori in discorso sarebbero stati effettuati successivamente a tale data, sia perché il citato titolo urbanistico nel rogito non atterrebbe all'immobile acquistato dal S.. Quest'ultimo, inoltre, contesta ancora la tesi del Tribunale laddove ha ritenuto che il contratto, in virtù della dichiarazione di edificazione ante 1 settembre 1967, non possa essere dichiarato nullo anche di fronte a modifiche e ristrutturazioni non conformi alle previsioni urbanistiche, fatto che al più condurrebbe a sanzioni esclusivamente di carattere amministrativo e penale. Tale censura non può essere accolta. La Corte ritiene, al contrario di quanto sostenuto da parte appellante, che il giudice di primo grado abbia correttamente interpretato e applicato i principi emergenti dalla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 8230/2019. Infatti, è da ritenersi effettivamente sufficiente il primo titolo edilizio e cioè la dichiarazione di inizio costruzione in data antecedente all'1 settembre 1967, alla quale si è accompagnato un secondo titolo edilizio relativo all'intervenuta sanatoria del 1986 che, tuttavia, come emerso dalla concessione in sanatoria del 1998 e dalla CTU Marzano (doc. 8 fascicolo primo grado appellante e doc. 11 all. 7) non riguarda l'immobile oggetto di compravendita, bensì "l'aumento di SLP per costruzione box, locale magazzino, tettoia e formazione nuovi terrazzi". Nonostante ciò, si deve rilevare che, in ossequio alla necessità prospettata dalle Sezioni Unite di svolgere un esame sulla tenuta del contratto di carattere formale e non sostanziale, l'atto è salvato dalla sola menzione degli estremi del titolo in virtù del quale è sorta la costruzione o, come nel caso di specie, dalla dichiarazione di esercizio dello ius ad aedificandum ante al 1967; e tutto ciò è ampiamente desumibile anche dalla lettura del dettato normativo dell'art. 40 comma 2 L. n. 47 del 1985 in combinato disposto con l'art. 46 D.P.R. n. 380 del 2001. Pertanto, non rileva in alcun modo l'estraneità rispetto all'oggetto del contratto, della dichiarazione relativa alla sanatoria, né rilevano le modifiche successive apportate all'immobile (anche se irregolari), la cui conformità al titolo edilizio e alle norme urbanistiche non può essere fatta rientrare nell'analisi concernente la sfera civilistica, rientrando eventualmente in valutazioni sostanziali e sanzionatorie di ambito amministrativo o penale. Ciò che conta ai fini di escludere la nullità del contratto è che la dichiarazione urbanistica, oltre a rispettare i requisiti formali dell'atto, sia veritiera, non mendace. Nel caso di specie, come dimostrato dai documenti prodotti e dalle CTU svolte, essa è reale e pacificamente riferibile all'immobile che è stato costruito prima del1967, pertanto, alcun mendacio può essere ritenuto sussistente, al contrario delle prospettazioni di parte appellante non supportate da adeguato materiale probatorio. Condividendo la motivazione del giudice di prime cure e l'impostazione formalistica scaturente dalla sentenza delle Sezioni Unite sul tema, la Corte ritiene assolto da parte del venditore l'onere dichiarativo previsto dagli articoli 40 L. n. 74 del 1985 e 46 D.P.R. n. 380 del 2001 non potendosi, dunque, dichiarare la nullità del contratto ex art. 1418 c.c., la quale non può in alcun modo derivare da ulteriori non conformità sostanziali, che esulano totalmente dalla causa della compravendita di rilievo in questa sede. Con la seconda doglianza l'appellante censura la sentenza del Tribunale, laddove, ha respinto la sua domanda di annullamento ex art. 1442 c.c. del contratto di compravendita del 13.10.2006, avendo ritenuto l'azione prescritta, errando in riferimento al dies a quo da cui far decorrere il termine in questione. Secondo il (...), infatti, la sua piena e certa conoscenza dell'abuso edilizio, ad opera del venditore riguardante l'immobile compravenduto, sarebbe avvenuta solo nel 2016, ossia quando il proprio tecnico di fiducia lo rilevava esaminando gli atti depositati in Comune, con successiva conferma della CTU svolta dal Tribunale; solo da tale momento, dunque, è iniziato a decorrere il dies a quo, risultando così l'azione non prescritta, contrariamente a quanto affermato dal giudice di prime cure. Quest'ultimo, infatti, avrebbe errato in primo luogo, nel ritenere presuntivamente che il deposito nel luglio 2009 della DIA, riguardante i lavori di ristrutturazione dell'immobile eseguiti nel 2007 dall'appellante, fosse una circostanza di per sé sufficiente ad integrare la conoscenza del dolo del venditore al fine di determinare il dies a quo da cui far decorrere il termine di prescrizione previsto dall'art. 1442 c.c. In secondo luogo, il giudice sarebbe incorso anche nell'errore di presumere che, nel momento del deposito della DIA, il (...) avesse avuto l'accesso agli atti, dalla visione dei quali avrebbe conseguentemente desunto l'esistenza di un abuso viziante l'immobile da lui acquistato. Con riferimento a questi due errori del Tribunale, il (...) lamenta in sostanza una valutazione svolta solo in termini probabilistici e presuntivi del momento in cui sarebbe intervenuta la sua conoscenza del dolo del venditore quando, al contrario, sarebbe necessaria una assoluta certezza con riguardo al ravvedimento del contraente pregiudicato, la cui conoscenza deve essere effettiva e compiuta. Anche questo secondo motivo non può essere accolto. Come anche affermato dal giudice di prime cure, alcun annullamento del contratto di compravendita del 13.10.2006 può essere dichiarato per decorso del termine di prescrizione ex art. 1442 c.c.. Il termine previsto dalla norma è di 5 anni e, nel caso di specie, esso deve decorrere a partire dall'effettiva percezione dell'appellante dei mezzi fraudolenti utilizzati dal (...) al fine di carpirne il consenso. Ebbene, tale conoscenza è da rinvenirsi nel periodo intercorso tra l'inizio del 2007, anno di inizio dei lavori di ristrutturazione del (...) del proprio immobile, ed il 13 luglio 2009, ossia la data di presentazione della DIA all'ufficio competente. Per mezzo di quest'ultima l'appellante specificava che i lavori di ristrutturazione da lui eseguiti non avevano per oggetto parti sulle quali era intervenuto il condono dichiarato nel contratto di compravendita. Da ciò si desume la piena consapevolezza da parte del (...) dell'assoluta inconferenza della sanatoria in questione relativamente all'oggetto della compravendita, con conseguente possibilità di intravedere una condotta dolosa del (...) che, stando alla ricostruzione proposta da parte appellante, avrebbe dato consapevolmente rilievo proprio al condono, nonostante, la sua inconferenza, al fine di dare al compratore uno stimolo in più a concludere il contratto. Inoltre, nell'eseguire siffatti lavori di ristrutturazione e nella necessaria presentazione della DIA all'ufficio competente, non si può che assumere un avvenuto accesso agli atti da parte del (...) che l'ha, dunque, inevitabilmente posto a conoscenza dell'irrilevanza della sanatoria indicata nel contratto di compravendita dal (...); e ciò non può che rafforzare ragionevolmente la certezza che già da tale momento parte appellante fosse consapevole del dolo di controparte. Al di là di ciò, l'inequivocabile dato di fatto è la menzionata dichiarazione effettuata nella DIA dall'appellante, dalla quale emerge con chiarezza la sua conoscenza almeno dal 2009 della asserita condotta fraudolenta tenuta dall'appellato. Nonostante, la siffatta avvenuta percezione, tuttavia, il (...) non ha richiesto tempestivamente l'annullamento del contratto, lasciando decorrere il termine quinquennale di prescrizione e sollecitando un intervento giudiziale solo nel 2017. Pertanto, alcun annullamento del contratto può essere pronunciato, a conferma di quanto dichiarato dal primo giudice. Con la terza doglianza l'appellante lamenta una errata/omessa interpretazione e applicazione delle norme relative ai presupposti necessari per la risoluzione del contratto da parte del giudice di primo grado, in particolare con riguardo al requisito della gravità dell'inadempimento e della lesione dell'interesse del creditore. Il (...) sostiene che il Tribunale ha erroneamente considerato minimo l'abuso concernente l'antibagno rispetto all'intera superficie dell'immobile, in virtù del fatto che le somme necessarie per il ripristino della situazione ex ante e la creazione di un nuovo bagno sono esigue, secondo il calcolo operato dal CTU. Al contrario, parte appellante deduce che, posta l'insanabilità dell'abuso, il ripristino del volume della latrina comporta una riduzione della superficie dell'unità immobiliare e un'importante riduzione del valore commerciale stesso. Pertanto, censura la sentenza del Tribunale per aver ritenuto l'inadempimento di scarsa importanza, non valutando correttamente secondo indici oggettivi e soggettivi l'effettiva lesione dell'interesse creditorio, alla quale non potrebbe che ricondursi una chiara gravità nell'inadempimento del (...), con conseguente risoluzione del contratto. Anche tale censura deve essere respinta. Il Tribunale, infatti, ha correttamente applicato i principi giuridici che regolano la fattispecie. Occorre, in primo luogo rilevare che la difformità edilizia da rispristinare non configura un vizio della cosa non vertendosi in tema di anomalie strutturali del bene e, quindi, trova applicazione l'art. 1489 c.c. in materia di oneri e diritti altrui gravanti sulla cosa compravenduta. In secondo luogo, Il peso cioè l'abuso realizzato consiste nella "trasformazione del corridoio volume in ampliamento del vano latrina che configura un aumento di SLP", producendo così una fusione tra il vano del bagno e l'unità abitativa. Nonostante, siffatta trasformazione abusiva sia imputabile direttamente al venditore per le ragioni che verranno esposte con riferimento al primo motivo dell'appello incidentale, si deve rilevare non solo l'esiguità della superficie di tale abuso (1,69 mq) rispetto a quella totale dell'immobile, ma anche l'esiguità delle somme necessarie per opere di ripristino, quantificate dalla stessa CTU per un totale di Euro16.000,00. Non solo, l'immobile è stato venduto a corpo e non a misura come riportato nel rogito, l'appellante non ha dimostrato l'asserita riduzione del valore commerciale rispetto al prezzo di vendita, né è stata data prova dell'alterazione del sinallagma contrattuale alla luce delle intese economiche pattuite tra le parti. In virtù di queste considerazioni, la lesione dell'interesse del creditore non risulta essere particolarmente grave ed irrimediabile e, comunque, non pare idonea a determinare la risoluzione del contratto di compravendita per grave inadempimento del (...) o, più correttamente, ex art. 1489 c.c. Pertanto, come anche rilevato dal Tribunale, un siffatto abuso può essere compensato soddisfacentemente per mezzo del solo risarcimento del danno, così come liquidato in sede di primo giudizio. Con la quarta doglianza l'appellante lamenta una errata e insufficiente quantificazione dei danni indiretti e mediati da lui sofferti come effetto dell'inadempimento, in particolare, con riguardo ad un'omessa quantificazione del danno relativo alla riduzione di valore commerciale dell'immobile. Il Tribunale avrebbe dunque errato, pur elencando le varie opere necessarie per il ripristino dello stato dei luoghi, nel non considerare, nell'effettuare la quantificazione del danno, la notevole diminuzione di superficie dell'unità immobiliare, la quale inevitabilmente ridurrebbe anche il valore commerciale dell'immobile. Tale ultima censura di parte appellante non merita di essere accolta. Nel quantificare il danno derivante da un inadempimento, come ben motivato dal giudice di prime cure, si deve avere riguardo alla condotta del debitore, in questo caso del (...), considerando tutto quanto sia da reputarsi un effetto normale e ordinario riconducibile alla condotta inadempiente. Dal danno risarcibile devono essere esclusi tutti gli eventi eccezionali, ricomprendendo tuttavia anche i danni indiretti e mediati che siano effetto normale proprio dell'inadempimento in questione. Pertanto, anche alla luce dei calcoli svolti dalla CTU Marzano, tenendo conto di tutte le voci necessarie ad integrare la quantificazione del danno suddetto, è da ritenersi dovuto solo quanto effettivamente necessario al fine di ripristinare lo status quo di ante, per mezzo di una demolizione del bagno e della parete lato corte. E tale quantificazione è stata effettuata in modo corretto dal Tribunale, in accordo con la richiamata CTU, valutando Euro 10.000,00 per i lavori di demolizione e ripristino ed Euro 4.000,00 quali costi necessari di sanatoria amministrativa, per un totale complessivo di Euro 14.000,00 a titolo di risarcimento del danno. Passando ora a trattare l'appello incidentale proposto dal (...), la Corte ritiene di confermare la sentenza del Tribunale, con conseguente rigetto integrale dei motivi avanzati dall'appellato. Con la sua prima doglianza il (...) censura l'erronea interpretazione del Tribunale ex art. 116 c.p.c. delle risultanze istruttorie testimoniali e documentali in riferimento all'art. 1480 c.c., anche per omessa valutazione, lamentando un difetto di motivazione e la violazione dell'art. 132 co 4 c.p.c.. Il giudice di prime cure, infatti, ha ritenuto non ascrivibile alla condotta dell'appellante la realizzazione dell'abuso edilizio di cui si discute per difetto di prova, attribuendone invece la responsabilità al venditore, laddove, al contrario il (...) sostiene di aver soddisfatto pienamente l'onere probatorio su di lui gravante ex art. 2697 c.c., tenuto conto delle risultanze istruttorie del giudizio. Nello specifico, lamenta l'errata valutazione e considerazione da parte del Tribunale delle dichiarazioni rese dai testi (...), R.D. e (...). Dal complesso di tali testimonianze emerge sia la conformità edilizia del bene ceduto, sia il fatto che il compratore fosse assolutamente a conoscenza dello stato di fatto e di diritto dell'immobile sia la circostanza che il (...) stesso sia stato l'autore di siffatte difformità e, pertanto, alcuna responsabilità in merito all'abuso edilizio concernente il vano antibagno sarebbe imputabile al (...). Solo in sede di comparsa conclusionale viene, poi, censurata per vizio logico, anche la valutazione della testimonianza resa dal teste citato dall'appellante, (...), che dichiarato "di aver realizzato sul lato nord del bagno una finestra in vetro cemento" così implicitamente affermando che il muro di tamponamento di chiusura fosse già stato eretto perché appare ininfluente, oltre che contraddittoria nel suo contenuto non avendo il predetto saputo collocare temporalmente il suo accesso all'immobile. Tale censura deve essere respinta. Preliminarmente, è da rilevarsi che quanto emerge dalla rappresentazione grafica della planimetria allegata al rogito confligge apertamente con quanto affermato dal (...). Infatti, la planimetria contenuta nel contratto di compravendita rappresenta lo stato dei luoghi promesso nell'atto in questione dal venditore ed essa è conforme e corrisponde a quanto rilevato dalla CTU (...) con riferimento alle irregolarità urbanistiche qui oggetto di discussione. La raffigurazione planimetrica, con riguardo alla quale non si rinvengono particolari imposizioni nei confronti del venditore da parte del (...), prevede chiaramente l'antibagno e la finestra sul cortile comune e funge da garanzia su quello che era lo stato di fatto al momento della compravendita, non essendo ipotizzabile che le parti volessero rappresentare quello che sarebbe stato il futuro stato di fatto. In presenza, dunque, dell'abuso edilizio in questione, il quale per l'appunto già esisteva per mezzo di inequivocabile indicazione nella planimetria del contratto, la responsabilità è da attribuirsi esclusivamente al venditore, non essendo ascrivibile al (...). La Corte, confermando quanto accertato dal Tribunale, rileva con riguardo a ciò un evidente difetto di prova in capo al venditore al fine di dimostrare il contrario, ossia la commissione dell'abuso da parte del (...), a maggior ragione considerando che le testimonianze valorizzate dal (...) non risultano convincenti. La testimonianza offerta dal (...), infatti, contrasta completamente con quanto raffigurato sulla planimetria e perde ulteriormente di valore e attendibilità se si considera che egli è genero del (...), pertanto, non può essere considerato un teste pienamente affidabile. Anche le altre dichiarazioni testimoniali appaiono piuttosto inconferenti ed evidenziano, a contrario, la mancanza di prove sufficientemente solide da parte dell'appellato atte a dimostrare l'imputabilità dell'abuso esclusivamente al (...), con conseguente esonero di responsabilità del venditore. Per le suesposte ragioni alcun errore può essere rinvenuto nella motivazione del Tribunale che ha conferito il giusto e adeguato valore alle risultanze istruttorie, ponendo in risalto in particolare la raffigurazione grafica che già nel contratto di compravendita del 2006 dava atto della realizzazione dell'abuso edilizio di cui si discute. Con la seconda doglianza il (...) lamenta" un'erronea interpretazione ex art. 116 c.p.c. da parte del Tribunale delle risultanze istruttorie documentali, nonché, un'errata interpretazione normativa degli art. 900, 905, 1102 c.c. con conseguente difetto di motivazione e violazione dell'art. 132 comma 4 c.p.c." per non avere il Tribunale accolto la sua domanda riconvenzionale di condanna dello (...) al pagamento dell'importo di Euro 10.000,00, calcolato in via equitativa, a titolo di indennizzo per la costituzione indebita di servitù conseguente all'apertura di una finestra abusiva, affacciantesi sulla corte di sua proprietà esclusiva e per la violazione delle distanze legali e di veduta. Ovvero al pagamento di Euro 3.917,86 quale costo stimato per la sua demolizione secondo il computo di cui all'(...), nel caso in cui lo (...) avesse ripristinato lo status quo. Secondo l'appellato, tale finestra sarebbe stata costruita abusivamente dal (...), senza alcuna autorizzazione del (...), costituendo così una servitù indebita, violando altresì le distanze legali e di veduta. Elemento decisivo per l'accoglimento della propria domanda sarebbe, a detta dell'appellato, il fatto che il cortile sul quale si affaccia la finestra non è comune, bensì di sua proprietà esclusiva. Non potrebbe, dunque, trovare applicazione l'art. 1102 c.c., non vertendosi in un'ipotesi di condominio, e per di più tale finestra non autorizzata dal (...) violerebbe le distanze legali ex art. 905 c.c., costituendo così anche una violazione del pieno godimento della proprietà dell'appellato. Anche tale seconda censura non può essere accolta. La Corte, condividendo tutto quanto affermato sul punto dal Tribunale, ritiene innanzitutto che l'apertura della finestra in questione non pregiudichi in alcun modo i diritti degli altri proprietari, consentendo ad essi di continuare a goderne e farne uso liberamente, e non alteri neppure la destinazione del cortile comune. Oltre a ciò, elemento dirimente al fine di negare il pagamento di qualsiasi somma in favore dell'appellato a causa della costruzione della finestra in discorso risulta essere la non esclusività della proprietà del cortile da parte del (...). Cortile che, contrariamente a quanto da quest'ultimo sostenuto, si trova in un rapporto di accessorietà con l'immobile di proprietà del (...) e quelli di proprietà del (...) e, soprattutto, è comune tra loro. Risulta pacifico, infatti, che nel contratto di compravendita sia il venditore stesso a definire il cortile quale "comune" (doc. 1, pag. 1, fascicolo primo grado appellante). Non residua pertanto alcun dubbio in merito alla comunanza della corte, la quale era anche già specificata per di più nell'atto di divisione (doc. 3 fascicolo primo grado appellante), e dunque alcuna violazione della proprietà del (...) può essere dichiarata né la necessità di una sua autorizzazione preventiva può da lui essere pretesa. Qualsiasi altro abuso di carattere urbanistico ed edificatorio commesso nella costruzione della finestra da parte del (...) rileva al più soltanto in sede amministrativa e penale, ma non giustifica in questa sede una condanna al pagamento di somme a titolo di indennizzo o di costo di demolizione a carico dell'appellante in favore dell'appellato. Sulla base delle considerazioni tutte sopra espresse, deve trovare piena conferma la decisione del Tribunale con conseguente rigetto sia dell'appello principale che di quello incidentale. Quanto alle spese di lite del grado, in applicazione del principio della soccombenza e della causalità, essendovi stata reciproca soccombenza possono essere parzialmente compensate tra le parti nella misura del 50%, dovendosi porre il restante 50%, comunque, a carico dell'appellato siccome maggiormente soccombente. La liquidazione viene fatta in dispositivo ex D.M. n. 147 del 2022, tenuto conto dell'attività difensiva svolta e della non particolare difficoltà delle questioni trattate applicando i parametri medi previsti per le cause di valore compreso nello scaglione compreso da Euro 52.001,00 a Euro 260.000,00 per le sole fasi studio, introduttiva e decisionale, non essendovi stata quella istruttoria. Segue, inoltre, la declaratoria della sussistenza dei presupposti per il versamento di ciascuna parte dell'ulteriore importo pari al contributo unificato, ex art. 13 comma 1 quater D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 così come modificato, trattandosi di controversia promossa dopo l'entrata in vigore (il 31.01.2013) della modifica introdotta con l'art. 1 comma 17, L. n. 228 del 2012. P.Q.M. La Corte d'Appello di Milano definitivamente pronunciando sull'appello principale proposto da (...) e sull'appello incidentale proposto da (...) avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 6490/2020 pubblicata in data 19.10.2020 così provvede: -1) rigetta sia l'appello principale che quello incidentale con conseguente conferma della sentenza impugnata; -2) condanna (...) alla refusione del 50% delle spese di lite del grado in favore di (...), liquidate già in tale misura in: Euro1.488,50 per la fase studio, Euro955,50 per la fase introduttiva, Euro2.551,50 per la fase decisionale oltre iva, cpa e rimborso forfetario spese generali al 15%, compensando tra le parti il residuo 50%; -3) dà atto che sussistono i presupposti di legge per il versamento a carico di ciascuna parte, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello versato; -4) rigetta ogni altra domanda o istanza. Così deciso in Milano l'1 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2023.

Ricerca rapida tra migliaia di sentenze
Trova facilmente ciò che stai cercando in pochi istanti. La nostra vasta banca dati è costantemente aggiornata e ti consente di effettuare ricerche veloci e precise.
Trova il riferimento esatto della sentenza
Addio a filtri di ricerca complicati e interfacce difficili da navigare. Utilizza una singola barra di ricerca per trovare precisamente ciò che ti serve all'interno delle sentenze.
Prova il potente motore semantico
La ricerca semantica tiene conto del significato implicito delle parole, del contesto e delle relazioni tra i concetti per fornire risultati più accurati e pertinenti.
Tribunale Milano Tribunale Roma Tribunale Napoli Tribunale Torino Tribunale Palermo Tribunale Bari Tribunale Bergamo Tribunale Brescia Tribunale Cagliari Tribunale Catania Tribunale Chieti Tribunale Cremona Tribunale Firenze Tribunale Forlì Tribunale Benevento Tribunale Verbania Tribunale Cassino Tribunale Ferrara Tribunale Pistoia Tribunale Matera Tribunale Spoleto Tribunale Genova Tribunale La Spezia Tribunale Ivrea Tribunale Siracusa Tribunale Sassari Tribunale Savona Tribunale Lanciano Tribunale Lecce Tribunale Modena Tribunale Potenza Tribunale Avellino Tribunale Velletri Tribunale Monza Tribunale Piacenza Tribunale Pordenone Tribunale Prato Tribunale Reggio Calabria Tribunale Treviso Tribunale Lecco Tribunale Como Tribunale Reggio Emilia Tribunale Foggia Tribunale Messina Tribunale Rieti Tribunale Macerata Tribunale Civitavecchia Tribunale Pavia Tribunale Parma Tribunale Agrigento Tribunale Massa Carrara Tribunale Novara Tribunale Nocera Inferiore Tribunale Busto Arsizio Tribunale Ragusa Tribunale Pisa Tribunale Udine Tribunale Salerno Tribunale Verona Tribunale Venezia Tribunale Rovereto Tribunale Latina Tribunale Vicenza Tribunale Perugia Tribunale Brindisi Tribunale Mantova Tribunale Taranto Tribunale Biella Tribunale Gela Tribunale Caltanissetta Tribunale Teramo Tribunale Nola Tribunale Oristano Tribunale Rovigo Tribunale Tivoli Tribunale Viterbo Tribunale Castrovillari Tribunale Enna Tribunale Cosenza Tribunale Santa Maria Capua Vetere Tribunale Bologna Tribunale Imperia Tribunale Barcellona Pozzo di Gotto Tribunale Trento Tribunale Ravenna Tribunale Siena Tribunale Alessandria Tribunale Belluno Tribunale Frosinone Tribunale Avezzano Tribunale Padova Tribunale L'Aquila Tribunale Terni Tribunale Crotone Tribunale Trani Tribunale Vibo Valentia Tribunale Sulmona Tribunale Grosseto Tribunale Sondrio Tribunale Catanzaro Tribunale Ancona Tribunale Rimini Tribunale Pesaro Tribunale Locri Tribunale Vasto Tribunale Gorizia Tribunale Patti Tribunale Lucca Tribunale Urbino Tribunale Varese Tribunale Pescara Tribunale Aosta Tribunale Trapani Tribunale Marsala Tribunale Ascoli Piceno Tribunale Termini Imerese Tribunale Ortona Tribunale Lodi Tribunale Trieste Tribunale Campobasso

Un nuovo modo di esercitare la professione

Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.