Sentenze recenti maltrattamento

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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. SARNO Giulio - Presidente Dott. GALTERIO Donatella - Consigliere Dott. DI STASI Antonella - Relatore Dott. GAI Emanuela - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Mi.An., nato a C il (omissis) avverso la sentenza del 05/06/2023 della Corte di appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Antonella Di Stasi; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Valentina Manuali, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso dell'imputato e l'accoglimento de ricorso del PG; uditi per le parti civili l'avv. Fe.Si., l'avv. Ni.Pa., l'avv. Gi.Co., An.Be., che hanno concluso, depositando conclusioni scritte e note spese, chiedendo l'accoglimento del ricorso del Pg ed il rigetto o, comunque, la declaratoria di inammissibilità del ricorso dell'imputato, e l'avv. Ra.Sc. che ha concluso riportandosi alle conclusioni scritte depositate unitamente alla nota spese; udito per l'imputato l'avv. Iv.Ch., che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso del PG e insistendo nell'accoglimento del proprio ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza emessa in data 08/04/2022, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, all'esito di giudizio abbreviato, pronunciando nei confronti di Mi.An. - imputato dei reati di violenza sessuale contestati ai capi a), b), c), d), e), i), tentato omicidio contestato al capo f), maltrattamenti contestato al capo g), atti persecutori contestato al capo h), sequestro di persona contestato al capo I), lesioni personali contestato al capo m), possesso di segni distintivi contraffatti contestato al capo n) -, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine ai reati di cui ai capi e) ed f), riqualificato quest'ultimo ai sensi degli artt. 582-585 cod.pen. essendo i reati estinti per intervenuta prescrizione, assolveva l'imputato dai reati di cui ai capi a) e b) limitatamente alle condotte di violenza sessuale diverse da quelle commesse tramite la produzione di fotografie e dal reato di cui al capo n) perché il fatto non sussiste, dichiarava l'imputato responsabile dei restanti reati, riqualificato il reato di cui al capo d) ai sensi dell'art. 613 cod.pen. e il reato di cui al capo h) ai sensi dell'art. 572 cod.pen. da intendersi unificato al reato di cui al capo g) e lo condannava alla pena ritenuta di giustizia. Con sentenza del 05/06/2023, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della predetta sentenza, dichiarava non doversi procedere in relazione al reato di cui al capo G) e al reato di cui all'art. 612-bis cod.pen., così riqualificato il capo h) secondo l'originaria imputazione, commesso fino al 2014, perché estinti per intervenuta prescrizione, assolveva l'imputato dal reato ascritto al capo I) perché il fatto non sussiste, dichiarava non doversi procedere per la violenza sessuale di cui al capo e) con riferimento all'episodio del 18/02/2012 per tardività della querela e revocava le relative statuizioni civili, riteneva la continuazione tra tutti i restanti reati e riduceva la pena ad anni nove di reclusione, riduceva gli importi liquidati a titolo provvisionali. 2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Milano e l'imputato, a mezzo del difensore di fiducia, articolando i motivi di seguito enunciati. Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Milano propone due motivi di ricorso. Con il primo motivo deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale per erronea qualificazione dei fatti contestati ai capi G) ed H) dell'imputazione. Argomenta che correttamente il Gup aveva ritenuto che la condotta di cui al capo H) andasse qualificata non come atti persecutori ma come reato di cui all'art. 572 cod.pen. ed unificata al capo G), in quanto, pur cessata la convivenza nel 2009 a seguito di instaurazione di giudizio di separazione personale, l'imputato e la persona offesa erano genitori di un figlio neonato da accudire ed avevano mantenuto stretti rapporti personali. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione. Argomenta che non convince la motivazione della sentenza di secondo grado nella parte in cui aveva distinto le medesime condotte dell'imputato in maltrattamenti, perché avvenute durante la convivenza coniugale, e in stalking, perchè avvenute dopo l'interruzione della convivenza a seguito della separazione; essa si pone con contrasto con plurime sentenze di legittimità che affermano che integrano il reato di maltrattamenti le condotte che, sorte in ambito domestico, proseguono anche dopo la separazione, di fatto o legale, in quanto il coniuge resta persona della famiglia fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio; nella specie, la perdurante necessità di adempiere agli obblighi di mantenimento ed assistenza del figlio minore derivanti dall'esercizio congiunto della responsabilità genitoriale consentiva di sussumere la condotta dell'imputato contestata al capo h) nel reato di cui all'art. 572 cod.pen., così come ritenuto dal primo giudice. Deduce, poi, che era erronea la decisione della Corte di appello di ritenere le condotte contestate al capo H), compiute nel 2015 e nel 2016, come non ascrivibili all'imputato o prive di connotazione persecutoria, in quanto una attenta lettura delle denunce e delle memorie della persona offesa consentivano di ritenere denunciate tutte le condotte di stalking puntualmente e tempestivamente. Pertanto, risultava erronea la declaratoria di prescrizione, in quanto il reato di maltrattamenti era stato erroneamente circoscritto agli anni 2008 e 2009 ed il reato di cui al capo H) erroneamente riqualificato come stalking e circoscritto agli anni 2009-2014. Argomenta, inoltre, che, conseguentemente, la Corte di appello erroneamente aveva dichiarato non doversi procedere in ordine all'episodio di violenza sessuale del 18.2.2012 di cui al capo E) perché il Gup aveva erroneamente ritenuto prescritta anche tale condotta delittuosa. L'imputato, a mezzo del difensore di fiducia, propone i seguenti motivi di ricorso: Con il primo motivo deduce violazione degli artt. 609-bis e 609-ter n. 2 cod.pen. nonché dell'art. 609-bis, comma 3, cod.pen. in relazione ai reati di cui ai capi A), B), C), I) dell'imputazione. Argomenta che la sentenza impugnata aveva erroneamente ritenuto integrati i reati di violenza sessuale contestati in presenza di scatti di fotografie di parti intime effettuate dall'imputato, fotografie rimaste conservate negli apparati elettronici dello stesso; rimarca che, in sostanza, una fotografia non è altro che uno sguardo cristallizzato sulle parti intime di un soggetto, uno sguardo fermato, un tempo su pellicola adesso su byte; lamenta, poi, che erroneamente e con argomentazioni non condivisibili, era stata ritenuta non configurabile l'ipotesi attenuata della minore gravità, essendo evidente che, pur volendo ritenere che la ripresa fotografica avesse, comunque, leso l'integrità sessuale della persona, andava considerato che essa aveva fatto seguito ad un precedente rapporto intimo consensuale. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione e travisamento delle risultanze processuali in relazione alla credibilità delle persone offese circa l'assenso di consenso all'effettuazione delle fotografie ed in relazione all'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 609-bis cod.pen. Argomenta che nei motivi di appello e con memoria del 28.03.2022 la difesa dell'imputato aveva contestato il fatto che le persone offese non fossero consenzienti all'effettuazione delle fotografie, perchè le stesse avevano espresso il consenso precedentemente ovvero erano comunque consapevoli dell'esistenza delle fotografie medesime; la Corte di appello, così come il Tribunale, non aveva adeguatamente considerato una serie di risultanze processuali che comprovavano il consenso delle persone offese all'effettuazione delle fotografie (atti digitali e, in particolare, 50 mila messaggi whatsapp, migliaia di e-mail, centinaia di messaggi vocali, migliaia tra video e fotografie); in particolare: con riferimento al capo A) vi era agli atti una conversazione estratta dalla chat tra l'imputato e la persona offesa, dalla quale si evinceva chiaramente che la donna era a conoscenza delle fotografie intime; con riferimento al capo B) vi erano chat il cui contenuto comprovava che l'imputato e la persona offesa intrattenevano una relazione sentimentale e pianificavano la nascita di un figlio; le risultanze processuali comprovavano che le persone offese avevano acceso ai telefoni e ai computer dell'imputato e, quindi, sapevano dell'esistenza delle foto. La Corte di appello aveva espresso in ordine alle doglianze difensive argomentazioni congetturali ed apodittiche, con conseguente difetto o insufficienza della motivazione. Quanto all'elemento soggettivo del reato, poi, la Corte di appello aveva espresso una motivazione stringata e non condivisibile, affermando l'irrilevanza di relazioni sentimentali e dei rapporti di natura professionale tra le parti; inoltre, con riferimento dal reato di cui al capo C) la difesa aveva contestato che la persona offesa fosse effettivamente priva di conoscenza e sul punto la Corte di appello aveva espresso una motivazione carente e non aderente alle risultanze processuali. Con il terzo motivo violazione degli artt. 582,585, 576 n. 5 e 577 n. 2 cod.pen. in relazione al mancato assorbimento del reato nell'aggravante di cui all'art. 609-ter n. 2 cod.pen. Argomenta che con riferimento ai capi I) e M) la stessa condotta -somministrazione di benzodiazepine - era stata ritenuta, erroneamente, integrare sia l'aggravante del reato di violenza sessuale che il reato di lesioni personali. Con il quarto motivo deduce violazione dell'art. 62-bis cod.pen. e vizio di motivazione. Argomenta che la Corte di appello aveva denegato l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, senza tener conto della confessione dell'imputato, del risarcimento parziale del danno e dei rapporti esistenti tra le parti, nonché del disturbo narcisistico della personalità riscontrato a carico dell'imputato ed effettuando una valutazione negativa del percorso riabilitativo intrapreso dall'imputato, attribuendosi una competenza in materia psichiatrica. Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria ex art. 611 cod.proc.pen., nella quale ha chiesto il rigetto del ricorso del Pg. CONSIDERATO IN DIRITTO l. II ricorso del Procuratore generale è fondato e va accolto. Costituisce orientamento consolidato l'affermazione che integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta "persona della famiglia" fino alla cessazione degli effetti civili del matrimonio (o allo scioglimento del vincolo matrimoniale), a prescindere dalla convivenza (Sez. 6, n. 45400 del 30/09/2022, Rv. 284020 - 01; Sez.6, n. 3087 del 19/12/2017, dep.23/01/2018, Rv.272134 - 01; Sez. 2, n. 39331 del 05/07/2016, Rv. 267915 - 01; Sez.6, n. 33882 del 08/07/2014, Rv.262078 - 01). Si è anche da ultimo precisato (Sez. 6, n. 45400 del 30/09/2022, cit.) che quando le azioni vessatorie, fisiche o psicologiche, nei confronti del coniuge siano sorte nell'ambito domestico e proseguano nonostante la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare si configura il solo reato di maltrattamenti, in quanto con il matrimonio o con l'unione civile la persona resta comunque "familiare", presupposto applicativo dell'art. 572 cod.pen. La separazione, infatti, è una condizione che incide soltanto sull'assetto concreto delle condizioni di vita, ma non sullo "status" acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione nell'interesse della famiglia, che discendono dall'art. 143, comma 2, cod. civ., cosicché il coniuge separato resta "persona della famiglia", come peraltro si evince anche dalla lettura dell'art. 570 cod.pen. L'interpretazione costante di questa Corte, secondo cui le condotte violente, psicologiche e/o fisiche, consumatesi in fase di separazione tra coniugi vanno qualificate ai sensi dell'art. 572 cod.pen. è ulteriormente rafforzata quando si condivida un rapporto genitoriale (art. 337- bis e ss. cod.civ.). Di contro, la convivenza è una condizione di fatto, che assume rilievo in relazione ai maltrattamenti ai danni di persona "comunque convivente". Giova ricordare che, secondo il condivisibile orientamento di questa Corte, poi, in tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" di cui all'art. 572 cod. pen. nell'accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continuativa (Sez.6 n. 31390 del 30/03/2023,dep.19/07/2023, Rv. 285087 - 01 e Sez.6, n.9663 del 16/02/2022, Rv. 283120 - 01; nonché Sez.6 n. 31390 del 30/03/2023, Rv. 285087 - 01 e Sez.6, n. 15883 del 16/03/2022, Rv.283436 - 01, che hanno ribadito il principio e precisato che è configurabile l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., e non il reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall'imputato dopo la cessazione della convivenza "more uxorio" con la persona offesa). E si è precisato, con riferimento alla figura della "persona convivente" che il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe quello di atti persecutori quando, nonostante l'avvenuta cessazione della convivenza, la relazione tra i soggetti rimanga, comunque, connotata da vincoli solidaristici, mentre si configura il reato di atti persecutori, nella forma aggravata prevista dall'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., quando non residua neppure una aspettativa di solidarietà nei rapporti tra l'imputato e la persona offesa, non risultando insorti vincoli affettivi e di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez.6,n. 37077 del 03/11/2020, Rv.280431 - 01); e che nei casi di cessazione della convivenza "more uxorio", è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia, e non invece quello di atti persecutori, quando tra i soggetti permanga, comunque, un vincolo assimilabile a quello familiare, in ragione di una mantenuta consuetudine di vita comune o dell'esercizio condiviso della responsabilità genitoriale ex art. 337-ter cod. civ (Sez.6,n.7259 del 26/11/2021, dep. 01/03/2022, Rv.283047 - 01). Tanto premesso, deve osservarsi che, nella specie, la Corte di appello, nel ribaltare la qualificazione giuridica effettuata dal primo giudice - il quale aveva dato atto che le condotte contestate ai capi g) ed h), protrattesi dal 2008 al 2017, andavano ricondotte tutte alla fattispecie delittuosa di cui all'art. 572 cod.pen., pur essendo stata interrotta la convivenza matrimoniale, in ragione del perdurare dei vincoli di cooperazione per l'esercizio congiunto della responsabilità genitoriale.- non ha fatto buon governo dei suesposti principi di diritto, non tenendo conto del vincolo coniugale tra l'imputato e la persona offesa - come emerge dall'imputazione e dalla stessa sentenza impugnata che menziona l'iter di separazione che giungeva al divorzio nell'anno 2017- e del principio di diritto suesposto secondo cui, pur essendo in corso un procedimento di separazione, il coniuge separato resta "persona della famiglia" fino allo scioglimento del vincolo matrimoniale, a prescindere dalla convivenza. Va anche ricordato che il reato di maltrattamenti in famiglia, configurando un'ipotesi di reato abituale, si consuma nel momento e nel luogo in cui le condotte poste in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti; fermo restando che, attesa la struttura persistente e continuativa del reato, ogni successiva condotta di maltrattamento compiuta si riallaccia a quelle in precedenza realizzate, saldandosi con esse e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario; ne deriva che il termine di prescrizione decorre dal giorno dell'ultima condotta tenuta (Sez.6, n. 52900 del 04/11/2016, Rv. 268559 - 01; Sez.6, n. 56961 del 19/10/2017, Rv.272200 - 01). Anche di tale principio dovrà tener conto il giudice del rinvio. La sentenza impugnata va, pertanto, annullata relativamente alle condotte contestate ai capi g) ed h) con rinvio per nuovo giudizio tenendo conto dei principi di diritto summenzionati. La sentenza va annullata per nuovo giudizio anche con riferimento al capo e), quest'ultimo limitatamente all'episodio del 18.02.2012, in ordine al quale la Corte di appello ha rilevato la tardività della querela, affinchè il giudice di rinvio all'esito del nuovo giudizio di cui ai capi g) ed h) ed alla corretta qualificazione giuridica delle condotte, valuti nuovamente la questione di procedibilità del reato in relazione al disposto di cui all'art. 609-septies comma 4 n. 4 cod.pen. che prevede la procedibilità d'ufficio per il reato di violenza sessuale laddove connesso ad altro reato procedibile d'ufficio. 2. Il ricorso dell'imputato va dichiarato inammissibile sulla base delle considerazioni che seguono. 2.1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, che si trattano congiuntamente perché entrambi afferenti all'affermazione di responsabilità relativa ai reati di violenza sessuale, sono manifestamente infondati. Va osservato, in premessa che, nella nozione di atti sessuali debbono farsi rientrare tutti quelli che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità della persona e ad invadere la sua sfera sessuale (in questa facendo rientrare anche le zone erogene) con modalità connotate dalla costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona, ovvero abuso di inferiorità fisica o psichica. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'atto sessuale, cui la norma incriminatrice fa riferimento, deve comunque coinvolgere la corporeità sessuale del soggetto passivo il quale deve essere costretto "a compiere o subire atti sessuali". Tale requisito deve ritenersi determinate per distinguere l'atto sessuale propriamente detto da tutti gli altri atti che, sebbene significativi di concupiscenza sessuale, siano tuttavia inidonei ad intaccare la sfera della sessualità fisica della vittima, in quanto comportano esclusivamente un'offesa alla libertà morale o al sentimento pubblico del pudore, come avviene nel caso dell'esibizionismo, dell'autoerotismo praticato in presenza di altri costretti ad assistervi o del "voyeurismo"(cfr Sez.3, n. 33045 del 29/10/2020, Rv. 280044 - 01; Sez. 3, n. 23094 del 11/05/2011, Rv. 250654 - 01; Sez. 3 n. 2941, 3/11/1999; Sez. 3 n. 2941 del 28/09/1999, Rv. 215100 - 01). E si precisato che integra il reato di violenza sessuale anche quella condotta che, pur caratterizzata da un fugace contatto corporeo con la vittima, sia finalizzata a soddisfare l'impulso sessuale del reo (Sez.3, 45950 del 26/10/2011, Rv.251339 - 01); e che è atto sessuale sia il contatto fisico diretto che quello simulato con una zona erogena del corpo, in quanto atto parimenti invasivo dell'altrui sfera sessuale (Sez.3, n. 51083 del 28/09/2017, Rv. 271881 - 01). La nozione di violenza nel delitto di violenza sessuale, infatti, non è limitata alla esplicazione di energia fisica direttamente posta in essere verso la persona offesa, ma comprende qualsiasi atto o fatto cui consegua la limitazione della libertà del soggetto passivo, così costretto a subire atti sessuali contro la propria volontà (Sez.3 ,n.6643 del 12/01/2010,Rv.246186). Tra gli atti idonei ad integrare il delitto di cui all'art. 609-bis cod.pen. vanno ricompresi, infatti, anche quelli insidiosi e rapidi, purché ovviamente riguardino zone erogene su persona non consenziente- come ad es. palpamenti, sfregamenti, baci (Sez.3, n.42871 del 26/09/2013, Rv.256915 non essendo necessaria una violenza che ponga il soggetto passivo nell'impossibilità di opporre una resistenza, essendo sufficiente che l'azione si compia in modo insidiosamente rapido, tanto da superare la volontà contraria del soggetto passivo (Sez.3,n.6340 del 01/02/2006,Rv.233315). Integra, inoltre, l'elemento oggettivo del reato di violenza sessuale non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa, come nel caso in cui la stessa non abbia consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona. Ai fini della consumazione del reato di violenza sessuale, infatti, è richiesta la mera mancanza del consenso, non la manifestazione del dissenso (che Sez.3, n. 22127 del 23/06/2016,dep.08/05/2017, Rv.270500 - 01, che ha affermato il principio in fattispecie in tema di atti sessuali realizzati nei confronti di una persona dormiente, ritenendo integrato il reato di violenza sessuale). Si è, infatti, precisato che possono essere ricondotte al concetto di violenza sessuale non solo le condotte materiali che violano la libertà e l'integrità sessuale della persona offesa attraverso comportamenti realizzati contro la volontà di questa, pertanto in violazione del dissenso manifestato dalla stessa, ma anche le condotte materiali realizzate in assenza di un atto, sia pur implicito o tacito, di disposizione del bene integrità sessuale; e tanto si verifica laddove la persona offesa, non essendo consapevole della materialità degli atti compiuti sulla sua persona, non opponga ad essi un qualche dissenso, essendosi limitata a non esprimere, neppure in forma tacita, il proprio consenso. E si è affermato che configura il delitto di violenza sessuale per costrizione, di cui all'art. 609-bis, comma primo, cod. pen. anche l'ipotesi di assunzione, da parte della persona offesa, di sostanze alcoliche o stupefacenti in quantità tali da comportare l'assoluta incapacità di esprimere il proprio consenso all'atto sessuale (Sez. 3 n. 7873 del 19/01/2022,dep.04/03/2022, Rv. 282834 - 02, Sez. 3, n. 38011 del 2019, non mass, sul punto). Va, poi, ricordato che il reato di violenza sessuale non necessita, in alcun modo, ai fini della configurabilità, dell'esistenza di uno specifico requisito soggettivo, consistente nel soddisfacimento sessuale dell'agente. Il bene giuridico tutelato dalla fattispecie prevista dall'art. 609-bis cod.pen. è, infatti, la libertà di disporre del proprio corpo a fini sessuali, una libertà assoluta ed incondizionata, che non incontra limiti nelle intenzioni che il soggetto agente possa essersi prefisso. Ai fini dell'integrazione dell'elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, dunque, non è necessario che la condotta sia finalizzata a soddisfare il piacere sessuale dell'agente, in quanto è sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell'atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, mentre l'eventuale concorrente finalità ingiuriosa o minacciosa o anche di irrisione o ioci causa dell'agente non esclude la connotazione sessuale dell'azione (Sez.3, n.20459 del 24/01/2019, Rv.275965 - 01; Sez.3, n. 3648 del 03/10/2017, dep.25/01/2018, Rv. 272449 - 01;; Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014, dep.21/05/2015, Rv.263738 - 01; Sez.3, n. 1709 del 01/07/2014, dep.15/01/2015, Rv.261779 - 01). Nella specie, la Corte di appello, in linea con i suesposti principi di diritto ha evidenziato che gli atti posti in essere dall'imputato integravano gli atti sessuali di cui all'art. 609-bis cod.pen., perché atti materiali costrittivi ed invasivi della corporeità delle persone offese, posti in essere in condizioni di assoluta incapacità delle vittime di esprimere un proprio consenso; in particolare, l'imputato, in più occasioni, dopo aver indotto le donne in uno stato di totale incoscienza mediante la somministrazione di una elevata dose di benzodiazepine occultata in bevande, manovrando le zone intime delle persone offese con le mani e con strumenti divaricatori per consentire la visione della zona vaginale e mettendo in evidenza le parti più interne (allargandole con le proprie dita o con delle pinze a mo' di divaricatore) procedeva, poi, a scattare delle fotografie di tali parti intime; inoltre, con riferimento al reato al capo b) il contatto con le parti intime avveniva anche attraverso l'accostamento del pene dell'imputato alla bocca della persona offesa, condotta poi oggetto di scatto fotografico; con riferimento al capo c), poi, risultano provati anche ulteriori atti sessuali costituiti da palpeggiamenti alle parti intime posti in essere dall'imputato prima che la vittima cadesse in uno stato di totale incoscienza a causa della somministrazione di dosi elevate di psicofarmaci; con riferimento, infine, al capo i) risultando provati anche toccamenti all'inguine, anche in questo caso posti in essere dall'imputato prima che la vittima cadesse in uno stato di totale incoscienza a causa della somministrazione di dosi elevate di psicofarmaci. Risulta evidente che non è lo scatto fotografico in sé ad integrare il reato di violenza sessuale per costrizione ma il contesto in cui tale atto avveniva, contesto caratterizzato da precedenti contatti e manovre poste in essere dall'imputato, con le mani e anche con strumenti divaricatori, interessanti zone erogene delle vittime in stato di assoluta incoscienza e, quindi, incapaci di esprimere un consenso all'atto sessuale. E' indubbia la valenza sessuale di tali atti, che hanno coinvolto la corporeità di zone erogene della vittima violando la libertà e l'integrità sessuale (cfr. Sez. 3, n. 43721 del 23/05/2013, Rv.257488 - 01, che ha ritenuto atto di indubbia connotazione sessuale la condotta di divaricare le gambe della persona offesa al fine di mostrare il pube). Correttamente, poi, la Corte di appello ha ritenuto sussistente anche l'elemento soggettivo del reato, rimarcando come la consapevolezza da parte dell'imputato della natura oggettivamente sessuale degli atti posti in essere risultava comprovata dal contesto e dalla sequenza delle condotte abusanti, chiaramente emergente dalle fotografie contestualmente scattate dall'imputato. A fronte di un siffatto corretto ed adeguato percorso argomentativo, risultando, pertanto, manifestamente infondate le doglianze difensive, volte, peraltro, anche a sollecitare una rivalutazione delle risultanze istruttorie, preclusa in sede di legittimità. Nè coglie nel segno l'allegazione difensiva secondo cui vi sarebbe stato da parte delle persone offese un consenso successivo alle condotte abusanti poste in essere dall'imputato (circostanza, peraltro, ritenuta anche indimostrata dai Giudici di merito) o, comunque, desumibile da una precedente consumazione di un rapporto sessuale tra le parti. Come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, in tema di violenza sessuale, la sussistenza del consenso all'atto, che esclude la configurabilità del reato, deve essere verificata in relazione al momento del compimento dell'atto stesso (Sez 3, n. 7873 del 19/01/2022, Rv.282834 - 01, che ha l'irrilevanza della antecedente condotta provocatoria tenuta dalla persona offesa); e deve essere relativo all'atto sessuale in itinere ed alle sue modalità inziali (cfr. Sez.3, n. 39428 del 21/09/2007, Rv.237930 - 01, che ha affermato che il consenso iniziale all'atto sessuale non è sufficiente quando quest'ultimo si trasformi, in itinere, in atto violento, consumandosi il rapporto con forme e modalità non volute dalla vittima) e deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità (cfr Sez.3, n. 25727 del 24/02/2004, Rv.228687 - 01, che ha affermato che integra il reato di cui all'art. 609 bis cod. pen. la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga meno in itinere a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell'amplesso, nonché Sez.3, n. 15010 del 11/12/2018, dep.05/04/2019, Rv.275393 - 01, che ha affermato che integra il reato di cui all'art. 609 bis cod. pen. la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente a un consenso originariamente prestato, intervenga in itinere una manifestazione di dissenso, anche non esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà). Risulta evidente che, alla luce dei suesposti principi di diritto e della circostanza che le persone offese si trovavano al momento dei fatti in stato di assoluta incapacità, l'allegazione difensiva risulta del tutto destituita di fondamento. 2.2. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato. La Corte di appello, nel disattendere il motivo di appello qui riproposto, ha correttamente che il reato di lesioni personali contestato al capo m) dell'imputazione non fosse assorbito dal reato di violenza sessuale contestato al capo i). Costituisce principio consolidato, infatti, quello secondo cui il reato di violenza sessuale non assorbe quello di lesioni personali, trattandosi di fattispecie che offendono beni giuridici diversi e che non si pongono in rapporto di necessaria strumentalità tra di loro (Sez.2, n. 23153 del 19/12/2018, dep.27/05/2019, Rv.276655 - 02; Sez.3, n.16446 del 13/06/2012, dep.11/04/2013, Rv.255280; Sez.3, n.46760 del 28/10/2004, Rv.230481). Tale principio trova applicazione anche nel caso in cui la condotta sia aggravata ai sensi dell'art. 609 ter comma 1 n. 2 cod.pen. La circostanza aggravante di cui all'art.609 ter comma 1 n 2 cod.pen. si caratterizza per una modalità specifica della condotta ("con l'uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa), connotata da potenziale offensività derivante dall'uso di mezzi tipici (armi, sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti) o atipici (altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa); la ratio della disposizione in esame è quella di reprimere più severamente quei comportamenti che sono finalizzati ad attenuare o sopprimere le capacità di resistenza fisico-psichiche della vittima, attraverso l'uso di strumenti potenzialmente idonei a compromettere la salute e le capacità mentali della vittima; la circostanza aggravante è, dunque, integrata dall'uso di mezzi tipici o atipici potenzialmente lesivi della salute della persona offesa, senza alcun riferimento all'effettiva causazione di una lesione della salute. Il delitto di cui all'art. 582 cod.pen. è integrato dalla condotta di cagionare una lesione personale dalla quale derivi una malattia nel corpo e nella mente, da intendersi quale alterazione delle normali funzioni fisiologiche dell'organismo, che richiede un processo terapeutico e specifiche cure mediche (Sez.2, n. 22534 del 21/02/2019, Rv.275422 - 01; Sez. 1, n.7388/85, Rv. 170189), ossia una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l'aggravamento di esso ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa (Sez.5, n. 33492 del 14/05/2019,Rv.276930 -01). Il delitto di lesioni personali concorre con quello di violenza sessuale anche quando tale delitto sia aggravato della circostanza aggravante di cui all'art.609 ter comma 1 n 2 cod.pen., non essendovi identità del fatto, in quanto l'aggravante prescinde dall'effettiva causazione di una lesione alla salute della persona offesa, condotta integrante, invece, il reato di lesioni personali, ed attesa anche la diversità dei beni giuridici tutelati dai due delitti. Vanno richiamati i principi ripetutamente espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, in materia di concorso di norme penali incriminatrici, per stabilire se esso sia reale o meramente apparente, opera quale criterio valutativo fondamentale il criterio di specialità, previsto dall'art. 15 cod.pen., che si fonda sulla comparazione tra la struttura astratta della fattispecie, inteso quale raffronto logico-formale tra i rispettivi elementi costitutivi (Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, Rv.270902 - 01; Sez.U, n. 20664 del 23/02/2017,Rv.269668 - 01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep.19/01/2011,Rv.248865 - 01; Sez. U,. n. 23427 del 09/05/2001, Rv. 218771; Sez. U, n. 22902 del 28/03/2001, Rv. 218874). L'insegnamento delle Sezioni Unite è, dunque, consolidato nel ritenere che per "stessa materia", ai sensi dell'art. 15 cod.pen., debba intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale di realizza l'ipotesi di reato, con la precisazione che il riferimento all'interesse tutelato non ha immediata rilevanza ai fini dell'applicazione del principio di specialità (Sez. U, n.1235 del 28/10/2010, dep.19/01/2011, cit). 2.3. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, oggetto di un giudizio di fatto, non costituisce un diritto conseguente all'assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle circostanze in parola; l'obbligo di analitica motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica, infatti, la decisione circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (Sez.l, n. 3529 del 22/09/1993, Rv. 195339; Sez. 2, n. 38383 del 10.7.2009, Squillace ed altro, Rv. 245241; Sez.3,n. 44071 del 25/09/2014, Rv.260610). Inoltre, secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, il giudice nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non deve necessariamente prendere in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti; è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione , individuando, tra gli elementi di cui all'art.133 cod.pen., quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalità dell'imputato (Sez.3, n.28535 del 19/03/2014, Rv.259899; Sez.6, n.34364 del 16/06/2010, Rv.248244; sez. 2, 11 ottobre 2004, n. 2285, Rv. 230691). Nella specie, la Corte territoriale ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche a cagione delle gravi modalità dell'azione (modus operandi organizzato e via via affinato e svalutazione della condizione soggettiva delle vittime); ha, quindi, esaminato e valutato gli elementi addotti dalla difesa, evidenziandone l'irrilevanza e, comunque, la subvalenza degli stessi rispetto alla gravità dei fatti (pp.74 e 75 della sentenza impugnata). La mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è, pertanto, giustificata da motivazione congrua ed esente da manifesta illogicità, che è insindacabile in cassazione (Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Rv. 242419). 3. In definitiva, in accoglimento del ricorso del Pg va annullata la sentenza impugnata in relazione ai capi h),G),E), quest'ultimo limitatamente all'episodio del 18.2.2012, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello Milano, che provvederà, all'esito, anche la liquidazione delle spese per il presente grado di giudizio sostenute dalle parti civili Sc.Ca.e Di.Fa., ammesse al patrocinio in favore dello Stato. Il ricorso diMi.An. va dichiarato inammissibile con condanna, in base al disposto dell'art. 616 cod.proc.pen. al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende (non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, cfr orte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000). Inoltre, l'imputato va condannato in base al disposto dell'art. 541 cod.proc.pen. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle altre parti civili Bo.La., Be.Ca., Me.Ko., Bi.Pa., ammesse al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Milano con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. n. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato P.Q.M. In accoglimento del ricorso del Pg annulla la sentenza impugnata in relazione ai capi h),G),E), quest'ultimo limitatamente all'episodio del 18.2.2012, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello Milano, cui demanda anche la liquidazione delle spese per il presente grado di giudizio sostenute dalle parti civili Sc.Ca.e Di.Fa., ammesse al patrocinio in favore dello Stato. Dichiara inammissibile il ricorso di Mi.An. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle altre parti civili Bo.La., Be.Ca., Me.Ko., Bi.Pa. ammesse al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Milano con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. n. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Così deciso il 04 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GENTILI Andrea - Presidente Dott. SCARCELLA Alessio - Consigliere Dott. GALANTI Alberto - Consigliere-Rel. Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Vi.Cl., nato a B il (Omissis) avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia del 16 marzo 2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Galanti Alberto; Lette, per le parti civili Bo.An. e Vi.As., le conclusioni scritte dell'Avv. Se.Ch., che ha concluso per l'inammissibilità o il rigetto del ricorso. Lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore generale Dr. Molino Pietro, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 16 marzo 2023 la Corte di appello di Venezia confermava la sentenza del Tribunale di Verona in data 15 aprile 2022, con cui Vi.Cl. veniva condannato alla pena anni 9 e mesi 6 di reclusione per i delitti di cui agli artt. 609-bis e 609-ter cod. pen. (capo a), 582-585-576 cod. pen. (capo b), 572, in parte riqualificato in 612-bis cod. peno (capo c), in danno di Bo.An., sua ex compagna. 2. Avverso la sentenza propone ricorso l'imputato, tramite il proprio difensore. 2.1. Con il primo motivo lamenta motivazione illogica e apparente in riferimento alla censurata inidoneità degli elementi di prova assunti a fondare un giudizio di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale. La sentenza ritiene sufficiente la deposizione della persona offesa, in assenza di riscontri estrinseci, pur avendo la difesa prodotto prove che confutavano il suo narrato. Contesta la valenza probatoria del certificato medico, che attesta solo lesione al labbro e non in zona vaginale. L'attendibilità della persona offesa è poi minata dalla sua dimostrata "lascività". Si lamenta poi il rinvio a messaggi e chat intercorsi la sera stessa del fatto, indicati nella prima sentenza, senza che essi siano indicati nella sentenza di appello o ne sia specificata la valenza. 2.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge in riferimento all'articolo 612-bis cod. pen. Lamenta il ricorrente che, quand'anche le condotte poste in essere dall'imputato si fossero verificate effettivamente, esse andavano semmai qualificate come maltrattamento in famiglia e non come stalking. In relazione a tale delitto mancano, comunque, sia la abitualità della condotta che il mutamento delle abitudini di vita o il perdurante stato d'ansia. 2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza: nell'editto accusatorio vengono indicati i soli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti, ai quali inopinatamente sono stati aggiunti dal Tribunale altri elementi, relativi al periodo successivo alla cessazione della convivenza, del diverso reato di stalking. La conseguente nullità, anche se non dedotta in appello, può essere rilevata anche in Cassazione, trattandosi di nullità assoluta. Il ricorrente deduce anche che nell'atto di appello avesse sottolineato come, anche dopo la cessazione della convivenza, la Bo.An. continuava a frequentare a casa dell'imputato, del quale non era assolutamente impaurita. 2.4. Con il quarto motivo, lamenta violazione di legge in relazione all'articolo 572 cod. pen. Ritiene che la presenza di soli due episodi in venti anni non sia sufficiente a integrare l'abitualità della condotta. 2.5. Con il quinto motivo, lamenta vizio di motivazione (motivazione apparente) in riferimento agli atti persecutori, sotto il profilo dell'elemento psicologico del reato e della sussistenza degli eventi tipici del reato. Non specifica, poi, quali sarebbero stati gli episodi ripetuti di percosse. 2.6. Con il sesto motivo, lamenta mancanza o vizio di motivazione circa gli elementi di prova della violenza sessuale, effettuata solo per relationem. 2.7. Con il settimo motivo lamenta una "carenza di approccio critico e motivazionale" della sentenza impugnata, appiattita sulla sentenza di primo grado. 3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni, evidenzia come le doglianze di cui ai nn. 1, 2, 4,5,6 e 7, si risolvono - pur nella veste di denuncia di vizio motivazionale - nella sostanziale riproposizione dei motivi di appello relativi alla affermazione della responsabilità dell'imputato per la condotta di violenza sessuale, di lesioni e di maltrattamenti nei confronti della compagna convivente. Al riguardo - ricordato come nel caso di "doppia conforme" la motivazione del giudice di appello si salda con quella del primo giudice, di modo che deve essere riguardata in maniera unitaria e come tale deve essere sottoposto al reclamato scrutinio di tenuta del discorso giustificativo - si osserva che entrambi i giudici territoriali hanno dato conto, con analiticità, delle ragioni per le quali le dichiarazioni della persona offesa sono del tutto affidabili, verificando la corrispondenza dei dettagli del narrato con i riscontri esterni. Manifestamente infondata sarebbe infine la censura di cui al motivo n.3, una volta verificato che i fatti contestati in imputazione corrispondono al nucleo delle condotte che costituiscono il paradigma dell'art. 612-bis cod. pen. ed essendosi più volte affermato in giurisprudenza che, in tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, sia configurabile l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., e non il - peraltro più grave - reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall'imputato dopo la cessazione della convivenza more uxorio con la persona offesa (da ultimo, Sez. 6, Sentenza n. 31390 del 30/03/2023, Rv. 285087 - 01). 4. La parte civile, nella memoria depositata, evidenzia come le doglianze difensive di fatto si sostanzino nella richiesta di un terzo grado di giudizio sui fatti di cui alla vicenda processuale. Più nello specifico, come noto, il Giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive. Evidenzia inoltre che, secondo la giurisprudenza della Corte, in tema di integrazione delle motivazioni tra le conformi sentenze di primo e di secondo grado, se l'appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate il giudice dell'impugnazione ben può motivare per relazione. Evidenzia inoltre, quanto al delitto di violenza sessuale, che non corrisponde al vero che i primi giudici abbiano ritratto la prova di un rapporto sessuale dall'esistenza di un ematoma al labbro. Il certificato medico è stato, al contrario, esaminato in uno con i riscontri, acquisiti durante l'istruttoria dibattimentale, al narrato della persona offesa, risultando quindi, sotto il profilo logico e giuridico, rafforzativo e confermativo dei fatti ascritti all'imputato. Il Giudice di prime cure trae infatti il proprio convincimento della violenza subita dalla Bo.An., dalle numerose circostanze emerse durante l'istruttoria dibattimentale (l'accesso al pronto soccorso poco dopo i fatti, la richiesta d'aiuto formulata nell'immediatezza a Vi.Cr. e lo stato di forte agitazione, narrato dalla Vi.Cr. stessa, nel quale si trovava la signora Bo.An., nonché il racconto della violenza subita a Ga.Ri. e Vi.Gi. che hanno confermato in dibattimento di aver raccolto le confidenza della signora Bo.An. e la denuncia sporta il giorno successivo) oltre che dalla risultanze del certificato medico, richiamato dal ricorrente. In ogni caso, ad abundantiam, il richiamato certificato medico evidenzia anche lesioni agli organi genitali, quali escoriazioni e sanguinamento, conseguenti alla violenza subita. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti che seguono. Va premesso che la sentenza di appello, pur non effettuando un esplicito riferimento alla motivazione per relationem, espressamente rinvia - in numerose occasioni - all'iter motivazionale della prima sentenza, che conferma. Come noto (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216664 - 01, e unanime giurisprudenza successiva), la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando: 1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall'interessato o almeno ostensibile. Elementi tutti ricorrenti nel caso in esame. Il Collegio, pertanto, ribadisce il principio della "reciproca integrazione" motivazionale delle sentenze di primo e secondo grado nelle parti in cui la decisione è conforme, senza affrontare in modo critico le motivazioni addotte dai giudici di prima cura, risultando di tal guisa inammissibile. E' infatti pacifico che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595 - 01; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 - 01). Affinché tale effetto di crasi delle due sentenze si verifichi, occorre che i giudici del gravame concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione, con il conseguente obbligo per il ricorrente - che coltivi il vizio di motivazione del provvedimento impugnato - di confrontarsi in maniera puntuale, a pena di inammissibilità, con i contenuti di entrambe sentenze, onere che, come si vedrà caso per caso, nel caso di specie è stato largamente disatteso. Inoltre, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate e ampiamente chiarite nella pronuncia di primo grado (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, Valerio, Rv. 252615-01; Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191229-01), il giudice di appello non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale, egli spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente i fatti decisivi. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le argomentazioni che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Cammi, Rv. 277593-01; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260841-01). 2. Ciò premesso, i motivi di ricorso afferenti il giudizio di responsabilità in ordine ai reati contestati nelle imputazioni, che possono essere trattati congiuntamente, sono tutti inammissibili per difetto di specificità. Correttamente, la sentenza di appello richiama quella giurisprudenza - che il Collegio condivide e ribadisce - secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. 3, Sentenza n. 1559 del 19/11/2021, dep. 2022, Pavin, n.m.; Sez U, n. 41461 del 19/07/2012, Rv.253214, che ha, altresì, precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi). Il Giudice, quindi, può trarre il proprio convincimento circa la responsabilità penale anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni (cfr., Sez. 1, n. 29372 del 27/7/2010, Stefanini, Rv. 248016, Sez.5, n. 1666 del 08/07/2014). Tale principio è stato ribadito anche di recente, avendo questa Corte affermato, in tema di testimonianza, che le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto e che, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione (Sez.5, n. 21135 del 26/03/2019, RV.275312-01). La Corte di appello (pag. 10) evidenzia poi come nel corso del primo grado di giudizio le dichiarazioni della persona offesa, relative alla violenza sessuale subita, siano state suffragate da una serie di riscontri oggettivi (tra cui evidenzia i messaggi e le chat vocali, incluso quello tra l'imputato e la figlia Vi.As.) e soggettivi che ne avallavano la attendibilità. Quanto ai delitti di maltrattamenti e stalking, evidenzia la sentenza impugnata a pagina 12 che - tralasciando la visione atomistica proposta dalla difesa, una valutazione unitaria delle condotte, reiterate per anni, consente di affermare senza ombra di dubbio la sussistenza dei reati contestati. La motivazione della seconda sentenza deve essere valutata congiuntamente con quella di primo grado, che la integra e completa. E così: - il contenuto del messaggio mandato la sera dello schiaffo alla figlia è riportato a pagina 4 della sentenza del Tribunale di Verona; - l'utilizzo sistematico, durato anni, di pedinamenti, messaggi minatori anonimi e altre forme di controllo ossessivo, è riportato alle pagine 5 e 6, così come la riconducibilità del periodo di malattia di cui ha usufruito la p.o. al fatto che l'imputato depositava messaggi minatori presso la LIDL dove lei era impiegata; - la sussistenza di riscontri estrinseci al narrato della persona offesa, costituiti dalle dichiarazioni del M.llo Gi.El., di Vi.Gi. (figlia dell'imputato e di Ga.Ri.), Ga.Ri. (ex compagna dell'imputato), Vi.Cr. (sorella dell'imputato), Vi.As. (figlia dell'imputato), Va.Ca. (collega della p.o.), Ot.Mo. (collega), Po.An. (autista di camion che la aiutò in una occasione), dai tabulati telefonici, dalla chat anzidetta, dal messaggio audio mandato dall'imputato al Va.Ca. la sera del 23 gennaio 2020, circostanze tutte da cui il Tribunale scaligero induce la attendibilità intrinseca ed estrinseca della persona offesa Bo.An., sono riportate a pag. 6-10, mentre il vaglio finale di attendibilità pag. 14-15. Del pari, in modo certosino vengono interpolate le varie fonti di prova che dimostrerebbero la sussistenza del reato di violenza sessuale contestato all'imputato, motivazione la cui valenza persuasiva non viene scalfita dai motivi di ricorso, che si limitano ad una generica contestazione dell'attendibilità della persona offesa. Quanto al reato di maltrattamenti, premessa la indiscussa qualificazione giuridica del reato in oggetto come reato abituale, in relazione al quale, pertanto, è necessaria, affinché le singole condotte che ne compendiano la materialità assurgano al grado di rilevanza penale, che le stesse siano caratterizzate da una loro sistematica iterazione, tanto da avere fatto dire che deve trattarsi di un "sistema di vita di relazione abitualmente doloroso ed avvilente" per il soggetto passivo del reato (v., ex plurimis, Sez. 3, 36170 del 23/03/2023, Torre, n.m.; Sez. 6, 17/04/1996, n. 4015), deve, peraltro, rilevarsi, quanto al caso ora in esame che le plurime dichiarazioni rese dalla persona offesa e dai testimoni escussi, puntualmente riportate nella prima sentenza e richiamate per relationem dalla sentenza impugnata, evidenziano una desolante situazione di ripetute ed umilianti vessazioni, elementi tutti che rendono manifestamente infondato il quarto motivo di ricorso. La prima sentenza, in particolare, riferisce di maltrattamenti e atti persecutori attuati in un lungo arco temporale e posti in essere non solo nei due episodi esemplificativamente indicati nell'imputazione, ma altresì in un incessante susseguirsi di pedinamenti, lettere minatorie, anche anonime, percosse, ingiurie, minacce, consegna di pacchetti accompagnati da messaggi scurrili e offensivi (come quello contenente un vibratore), minacce rivolte ad amici e colleghi della persona offesa, anche quando l'imputato era sottoposto al divieto di avvicinamento alla persona offesa, forme ossessi ve di controllo, e così via. Tale ricostruzione è perfettamente in linea con la giurisprudenza della Corte (Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, B., Rv. 285273 - 01), secondo cui "in tema di maltrattamenti in famiglia, il reato è integrato da comportamenti reiterati, ancorché non sistematici, che, valutati complessivamente, siano volti a ledere, con violenza fisica o psicologica, la dignità e identità della persona offesa, limitandone la sfera di autodeterminazione". Del tutto inconsistente si appalesa, quindi, la doglianza che vorrebbe negare la sussistenza di quella abitualità di comportamento che connota i due reati in cui è stato frammentato il capo c). 2.5. Inammissibile è del pari il quinto motivo, contenente censure relative alla mancanza dell'elemento psicologico, la cui esistenza viene confermata dalla sentenza impugnata (pag. 12) in considerazione delle modalità di commissione dei singoli reati. La prima sentenza, a pag. 17, evidenzia in proposito che non possono esserci dubbi sulla volontarietà della commissione dei reati contestati, già in ragione delle modalità della loro commissione, e che l'eventuale finalità di intimidire o umiliare la vittima non esclude certo il dolo (conforme: Sez. 3, n. 39718 del 17/06/2009, Rv. 244622). 2.3. Il secondo e terzo motivo possono essere trattati congiuntamente. Essi sono parzialmente fondati, nei termini e nei limiti che seguono. 2.4. Quanto al reato di stalking, in cui è stata riqualificata l'originaria contestazione di maltrattamenti in famiglia, per il periodo successivo alla cessazione della relazione affettiva, il Collegio evidenzia quanto segue. 2.4.1. In ordine alla lamentata teorica insussistenza del delitto di cui all'articolo 612-bis cod. pen., per il periodo successivo alla cessazione della convivenza, l'interpretazione fornita dai giudici di merito non appare censurabile, per cui il terzo motivo di censura è manifestamente infondato. Ed infatti, come evidenziato da Sez. 3, n. 31390 del 30/03/2023, Piccoli, n.m., il Giudice delle leggi (Corte cost., sentenza n. 98 del 2021) "ha affidato all'interprete il compito di stabilire se relazioni affettive - per così dire - non tradizionali (in quel caso si trattava di un rapporto sentimentale protrattosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro) possano farsi rientrare nelle nozioni di "famiglia" o di "convivenza", alla stregua dell'ordinario significato di queste espressioni". Ma immediatamente dopo ha ammonito che, "in difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572, cod. pen., in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico (...), ma comunque preclusa dall'art. 25, secondo comma, Cost.". Invero, secondo la Corte costituzionale citata, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici (art. 14, preleggi), immediato precipitato del principio di legalità (art. 25 Cost.), nonché la presenza di un apparato normativa che amplia lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell'ambito di relazioni interpersonali non qualificate, impongono, nell'applicazione dell'art. 572 cod. pen., di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" nell'accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d'affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché, ovviamente, non necessariamente continua. Così, la successiva giurisprudenza ha affermato che, nel caso di convivenza more uxorio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto per le condotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva possono integrare il delitto di atti persecutori (così Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, HavirneanuSez. 2, n. 10222 del 23/01/2019, c., Rv. 275617; Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., Rv. 282254, ribadita da Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398; Sez. 6, n. 9663 del 16/02/2022, dep. 21/03/2022, P., n. m.; Sez. 6, n. 15883 del 16/03/2022, Di Trocchio, n.m.). Quanto ai profili strutturali, si è del resto evidenziato (Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D'Aversa, n.m.) che "l'oggettività giuridica delle due fattispecie di cui agli artt. 572 e 612 bis cod. pen. è diversa, poiché il primo è un reato contro l'assistenza familiare ed il secondo è un reato contro la libertà morale e che diversi sono i soggetti attivi e passivi delle due condotte illecite, ancorché le condotte materiali dei reati appaiano omologabili per modalità esecutive e per tipologia lesiva". 2.4.2. Venendo ai rapporti fra le due fattispecie incriminatrici si è ritenuto che, salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall'art. 612-bis, comma primo, cod. pen. - che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie - è invece configurabile l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori in presenza di comportamenti che, sorti nell'ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale (Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011 (dep. 2012) Frasca, Rv. 252906). 2.4.3. Quanto alla censura che lamenta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, esso è invece fondato. Questa Corte, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, ritiene (Sez. 3, n. 24932 del 10/02/2023, Gargano, Rv. 284846 - 04) che "per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, sicché l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione". Si è anche rilevato che sussiste la violazione dell'obbligo di correlazione laddove "il fatto ritenuto nella decisione si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità, ovvero quando il capo d'imputazione non contenga l'indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consenta di ricavarli in via induttiva, tenendo conto di tutte le risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione" (Sez. 2, n. 21089 del 29/03/2023, Saracino, Rv. 284713 - 02). Analogamente, è stato ritenuto (Sez. 2, n. 3483 del 25/10/2018, dep. 2019, Giacomi, Rv. 274896 -02 non sussiste violazione del principio di correlazione di cui all'art. 521 cod. proc. pen., quando la riqualificazione abbia per oggetto reati (nel caso di specie: l'art. 640 cod. peno in luogo dell'art. 642 cod. pen., contestato in rubrica) che non si pongono in termini di "incompatibilità" ma piuttosto un rapporto di "specialità", in forza del quale la riqualificazione operata dal giudice non comporta alcuna immutazione del fatto storico ed è assolutamente prevedibile per l'imputato. Sez. 6, n. 11956 del 15/02/2017, B., Rv. 269655 - 01, ha poi affermato che "l'attribuzione in sentenza al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione non determina la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., qualora la nuova definizione del reato appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, o, comunque, l'imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine alla stessa". 2.4.4. Scendendo in concreto, occorre distinguere il profilo probatorio da quello relativo alla contestazione. In ordine al primo profilo, le due sentenze, unitariamente considerate, danno conto di un duraturo e progressivamente sempre più intenso reiterarsi di condotte moleste e vessatorie, cagionanti un perdurante stato di ansia della persona offesa, nonché della sua decisione di utilizzare un periodo di malattia sul lavoro per sottrarre sé stessa e i propri colleghi alle morbose attenzioni dell'ex compagno, così modificando le proprie abitudini di vita (v. pag. 19 ss. della prima sentenza, in cui si dà atto che la persona offesa - durante la sua escussione - ha ampiamente narrato del perdurante stato d'ansia cagionatole dalla condotta dell'imputato, sfociante anche in attacchi di panico notturni, attestato anche da certificazione medica). In tal modo le due pronunce evidenziano la sussistenza, in fatto, di uno degli eventi di cui all'art. 612-bis cod. pen., e sicuramente la riqualificazione del reato poteva apparire come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio. Sotto il profilo della contestazione, viceversa, se le "condotte" descritte in rubrica sono in grado di concretizzare tanto il reato di maltrattamenti in famiglia che quello di stalking, manca tuttavia la descrizione dell"'evento" del secondo reato, che costituisce elemento descrittivo indeflettibile della fattispecie. In ciò si realizza, secondo il Collegio, un difetto di contestazione, non sanato dalla modifica dell'imputazione ai sensi dell'articolo 516 sS. cod. proc. pen., che si è tradotto nella violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza. 3. La sentenza va pertanto annullata senza rinvio, limitatamente alle condotte riqualificate come commesse in violazione dell'art. 612-bis cod. pen. Ai sensi dell'art. 620, lett. I) cod. proc. pen., la Corte può procedere a rideterminare la pena, non essendo necessari accertamenti di fatto, semplicemente elidendo l'aumento di mesi tre di reclusione, operato per la continuazione dal primo giudice, in riferimento a tale ipotesi di reato. L'assenza di contestazione originaria non consente di formarsi, a seguito dell'annullamento senza rinvio, il passaggio in giudicato della sentenza in riferimento alla porzione di condotta contestata, con le conseguenze che ne derivano in tema di bis in idem. In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla affermazione della penale responsabilità del ricorrente quanto al reato di cui all'art. 612-bis cod. pen., per difetto di contestazione ed elimina la relativa pena di mesi tre di reclusione. Dichiara inammissibile il ricorso nel resto. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Venezia con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Così deciso in Roma, l'8 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 21 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. DE AMICIS Gaetano - Presidente Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Zi.Ed. nato in Albania il (Omissis) avverso la sentenza emessa in data 27 marzo 2023 dalla Corte di appello dell'Aquila visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione del Consigliere Fabrizio D'Arcangelo; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Giuseppe Riccardi, che ha chiesto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla condanna alle spese e il rigetto, nel resto, del ricorso; lette le conclusioni dell'Avvocato Lu.Di., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di Teramo, con sentenza emessa in data 12 novembre 2020, ha condannato Zi.Ed. alla pena di due anni e due mesi di reclusione per il delitto di maltrattamenti in famiglia, commesso a C ai danni della moglie dal 2014 sino al 23 novembre 2017 (capo a), e per il delitto di lesioni personali aggravate poste in essere ai danni della moglie in C nelle date del 28 febbraio 2015, del 5 giugno 2015, del 12 marzo 2017, dell'11 aprile 2017 e del 23 novembre 2017 (capo b). 2. La Corte di appello dell'Aquila, con la sentenza impugnata, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, appellata dall'imputato, ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti del medesimo in ordine ai reati di lesioni personali commessi il 28 febbraio 2015 e il 5 giugno 2015, perché estinti per prescrizione, e ha rideterminato la pena per le residue imputazioni in due anni, un mese e quindici giorni di reclusione. La Corte di appello ha, inoltre, confermato nel resto la sentenza impugnata e ha condannato l'imputato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile costituita. 3. L'avvocato Lu.Di., nell'interesse dell'imputato, ricorre avverso tale sentenza e ne chiede l'annullamento, deducendo cinque motivi. 3.1. Con il primo motivo, il difensore deduce il vizio di motivazione in ordine alla reciprocità delle condotte vessatorie, che escluderebbero la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia. La moglie dell'imputato sarebbe stata, infatti, non già una vittima, bensì una coprotagonista di condotte violente e vessatorie ai danni dell'imputato. 3.2. Con il secondo motivo, il difensore censura il vizio di motivazione in ordine all'attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, costituitasi pare civile, che sarebbero rimaste prive di riscontri e giustificate dal clima di accesa conflittualità della separazione giudiziale in ordine alla determinazione dell'assegno di mantenimento. La valutazione operata dalla Corte di appello di tali dichiarazioni sarebbe, peraltro, difforme dal loro contenuto e dal loro significato letterale. 3.3. Con il terzo motivo il difensore eccepisce l'improcedibilità dei reati di lesioni personali per effetto della remissione di querela operata dalla parte civile costituita, ritualmente accettata dall'imputato, e dell'insussistenza del nesso teleologico tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quelli di lesioni personali. La condotta lesiva, essendo già di per sé maltrattante, non consentirebbe, dunque, di ravvisare il nesso teleologico, che postula, sul piano logico, due distinte entità. Essendosi in presenza di mere lesioni lievi, procedibili a querela della persona offesa, dunque, la Corte di appello avrebbe dovuto emettere sentenza di non luogo a procedere in ordine a tali delitti. 3.4. Con il quarto motivo il difensore censura la manifesta illogicità della motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche. La Corte di appello, infatti, avrebbe risposto alle censure mosse nell'atto di appello con una mera clausola di stile e non avrebbe considerato la remissione della querela proposta dalla parte civile (immediatamente successiva alla trasformazione della separazione da giudiziale a consensuale) e la serenità ritrovata dai coniugi. 3.5. Con il quinto motivo il difensore deduce l'illegittimità della condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, che non ha partecipato al giudizio di appello e non ha rassegnato conclusioni scritte. 4. Non essendo stata richiesta la trattazione orale del procedimento, il ricorso è stato trattato con procedura scritta. Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 23 gennaio 2024, il Procuratore generale, Giuseppe Riccardi, ha chiesto l'annullamento senza rinvio della condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile e il rigetto del ricorso nel resto. Con memoria di replica dell'8 febbraio 2024 l'Avvocato Lu.Di. ha chiesto l'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere accolto nei limiti che di seguito si precisano. 2. Con il primo motivo il difensore deduce il vizio di motivazione in ordine all'impossibilità giuridica di configurare il delitto di maltrattamenti in famiglia a fronte della reciprocità delle condotte vessatorie. 3. Il primo motivo è inammissibile, in quanto propone in sede di legittimità una lettura alternativa degli elementi di fatto posti a fondamento della sentenza impugnata, mediante il richiamo di estratti parziali dell'istruttoria dibattimentale. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, tuttavia, esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Sez. U, n. 6402 del 2/07/1997, Dessimone, Rv. 207944). La Corte di appello ha, peraltro, congruamente rilevato che nel caso di specie non è stata dimostrata alcuna condotta vessatoria della persona offesa, bensì mere reazioni della donna alle continue vessazioni e aggressioni fisiche -documentate anche dai referti medici - poste in essere nell'ambito di litigi, che, tuttavia, non possono ritenersi di gravità e intensità equivalenti. 4. Con il secondo motivo, il difensore censura il vizio di motivazione in ordine all'attendibilità della persona offesa, costituitasi pare civile. 5. Il motivo è inammissibile per aspecificità, in quanto il ricorrente si è limitato a dedurre l'interesse economico sotteso alla costituzione di parte civile, senza confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata. Sono, peraltro, precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5456 del 4/11/2020, F., Rv. 280601-01; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482). La Corte di appello dell'Aquila ha, peraltro, non incongruamente rilevato che le dichiarazioni della vittima erano state riscontrate, oltre che dalla documentazione medica, che attestava le lesioni subite dalla stessa, anche da quanto dichiarato da Er.Ro., amica della vittima, che ha riferito in merito ai frequenti litigi nella coppia e ai graffi al volto e agli ematomi sulle braccia della vittima, e da Pa.Ma., vicina di casa, che aveva riferito dei continui litigi violenti tra i coniugi e dei successivi pianti della vittima. 6. Con il terzo motivo il difensore deduce l'improcedibilità dei reati di lesioni personali per effetto della remissione di querela operata dalla parte civile costituita, ritualmente accettata dall'imputato, e dell'insussistenza del nesso teleologico tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quelli di lesioni personali. 7. Il motivo è infondato. L'aggravante del nesso teleologico è, infatti, configurabile anche in ipotesi di concorso formale di reati, non richiedendo una alterità di condotte quanto piuttosto la specifica finalizzazione dell'un reato alla realizzazione dell'altro (Sez. 6, n. 14168 del 22/01/2020 Ud. (dep. 08/05/2020) Rv. 278844-01, fattispecie relativa all'applicazione della suddetta aggravante in un caso di condanna per il reato di lesioni personali, strumentalmente diretto a commettere quello di maltrattamenti in famiglia; conf. Sez. 5, n. 34504 del 12/10/2020, H., Rv. 280122-02). Nel caso di specie, peraltro, i reati di lesioni contestati sono pur sempre procedibili di ufficio, in quanto il reato di lesioni personali, quando aggravato ai sensi dell'art. 576, comma primo, n. 5, cod. pen., perché commesso in occasione del delitto di maltrattamenti, è procedibile d'ufficio, anche nell'ipotesi di lesioni lievissime, per effetto del richiamo operato dall'art. 582, comma secondo, cod. pen. all'art. 585 e di questo al citato art. 576 (Sez. 6, n. 11002 del 22/01/2020, B., Rv. 278714; Sez. 6, n. 3368 del 12/01/2016, C., Rv. 266007-01). 8. Con il quarto motivo il difensore censura la manifesta illogicità del diniego delle circostanze attenuanti generiche. 9. Il motivo è infondato. La decisione sulla concessione o sul diniego delle attenuanti generiche è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, che nell'esercizio del relativo potere agisce con insindacabile apprezzamento, sottratto al controllo di legittimità, a meno che non sia viziato da errori logico-giuridici. Per principio di diritto assolutamente consolidato ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall'imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (ex plurimis: Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane ed altri, Rv. 248244). Tale obbligo, peraltro, nel caso di specie è stato pienamente assolto, in quanto la Corte di appello ha congruamente motivato il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, facendo riferimento all'assenza di elementi favorevoli valutabili ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche già negate in primo grado. Il Tribunale di Teramo ha, peraltro, negato, non certo illogicamente, la concessione delle attenuanti generiche all'imputato in ragione della gravità delle condotte di maltrattamento accertate e del numero e della gravità delle lesioni infette alla vittima. 10. Con il quinto motivo il difensore deduce l'illegittimità della condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, che non ha partecipato al giudizio di appello e non ha rassegnato conclusioni scritte. 11. Il motivo è fondato, in quanto la parte civile non ha partecipato al giudizio di appello. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, in tema di spese relative all'azione civile, il giudice di appello non può liquidare d'ufficio le spese processuali sopportate dalla parte civile che non sia comparsa in udienza e non abbia presentato le conclusioni in forma scritta e la nota spese di cui all'art. 153 disp. att. cod. proc. pen., difettando il requisito della presentazione di una specifica domanda sul punto (Sez. 2, n. 16391 del 01/04/2021, Nucera, Rv. 281122; Sez. 2, n. 6965 del 18/10/2018 (dep. 2019), Di Bartolo, Rv. 275524-01; Sez. 2, n. 42934 del 18/09/2014, Messina, Rv. 260830-01). 12. Alla stregua di tali rilievi, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente al capo relativo alla statuizione di condanna alle spese sostenute dalla parte civile, rigettando nel resto il ricorso. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al capo relativo alla statuizione di condanna alle spese sostenute dalla parte civile. Rigetta nel resto il ricorso. Così deciso in Roma, l'8 febbraio 2024. Depositato in cancelleria il 20 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. CURAMI Micaela Serena - Consigliere Dott. TOSCANI Eva - Relatore Dott. GALATI Vincenzo - Consigliere Dott. RENOLDI Carlo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ri.Ma., nato a P il (omissis); avverso la sentenza del 12/12/2022 della CORTE ASSISE APPELLO di PALERMO; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere EVA TOSCANI; udito il Sostituto Procuratore generale, GIANLUIGI PRATOLA, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. L'avvocato BO., per le parti civili, conclude chiedendo la conferma della sentenza impugnata. Deposita le conclusioni e nota spese. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in preambolo la Corte di assise di appello di Palermo - in parziale riforma di quella con cui, il 12 dicembre 2022, la Corte di assise della stessa città aveva dichiarato Ri.Ma. colpevole dei delitti di omicidio pluriaggravato (capo a), di lesioni aggravate (capo b) e di maltrattamenti in famiglia (capo c) ai danni dell'ex convivente Sc.An., quest'ultimo limitatamente alla condotta perpetrata fino al 30 settembre 2018, escluse le circostanze aggravanti di cui agli artt. 576 n. 5 e 577 comma 1, n. 2 cod. pen. - ha dichiarato lo stesso colpevole del reato di cui al capo c) anche con riferimento al segmento di condotta compresa tra il 30 settembre 2018 e il 15 giugno 2019 e riconosciuto sussistente, quanto al capo a), l'aggravante di cui all'art. 576 n. 5 cod. pen., confermando nel resto la sentenza impugnata. 2. Il procedimento penale nell'ambito del quale è stata emessa la sentenza impugnata riguarda la morte di Sc.An., avvenuto il (omissis), presso il negozio di calzature dove la donna lavorava come addetta alle vendite. Secondo la conforme ricostruzione del fatto compiuta dai giudici di merito, l'imputato era stato sentimentalmente legato alla vittima, con cui aveva convissuto e, nel (omissis), concepito il figlio Al. La relazione era stata segnata da maltrattamenti verbali e fisici ai danni della donna, culminati nell'episodio di lesioni personali di cui al capo b), consumato il 30 settembre 2018, a seguito del quale costei aveva lasciato l'abitazione comune. Dopo tale data, l'uomo aveva cominciato a perpetrare una serie di condotte moleste, quali appostarsi all'esterno del luogo di lavoro, richiedere insistentemente somme di denaro, anche per il tramite del figlio sul quale egli esercitava un'influenza manipolatoria, come acclarato dal neuropsichiatra infantile dr. Vi. Il 15 giugno 2019 l'uomo, dotatosi di una bottiglia di acido muriatico, di siringa di uso domestico e almeno di un taglierino, strumentalizzando il figlio Al. del quale aveva ottenuto l'aiuto, aveva fatto ingresso nel cennato negozio, dapprima spruzzato sul volto della donna dell'acido muriatico, quindi le aveva inferto, con un taglierino, due fendenti alla gola, uno dei quali mortale. Si era poi auto-inflitto diverse lesioni ai polsi e lo stesso aveva fatto con il proprio figlio, in modo tale da simulare di essere stati vittime di un'aggressione da parte della donna, aggressione che l'aveva costretto a difendersi. 3. Come anticipato, il giudice di primo grado aveva dichiarato l'imputato responsabile di tutti i reati ascrittigli, quello di cui al capo c) limitatamente alla data del 30 settembre 2018 (data dell'allontanamento della donna dalla comune abitazione), e - escluse per il reato di omicidio le circostante aggravanti di cui all'art. 576 n. 5 e 577, comma 1 n. 2) cod. Pen. - lo aveva condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di sei mesi. Impugnata tale sentenza dall'imputato e dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, la Corte di assise di appello, con la decisione suindicata, ha disatteso tutte le censure difensive in punto di sussistenza dei reati di omicidio, lesioni e maltrattamenti, nonché l'invocata diversa qualificazione del fatto come omicidio preterintenzionale; ha quindi ribadito l'insussistenza, rispetto al grave fatto di sangue ascritto all'imputato, della scriminante della legittima difesa, confermato la sussistenza delle aggravanti della premeditazione, di quella di cui all'art. 61 n. 11-quinquies cod. pen. e di quella di cui all'art. 112, comma 1, n. 2 e 3 cod. pen., invece denegato la concessione delle circostanze attenuanti generiche. In accoglimento dell'appello della Pubblica Accusa, ha dichiarato l'imputato colpevole del delitto di maltrattamenti anche con riferimento al segmento di condotta compresa tra il 30 settembre 2018 e il 15 giugno 2019 e, quanto al delitto di omicidio contestato al capo a), ha ritenuto sussistente la circostanza aggravante di cui all'articolo 576, comma 1 n. 5, cod. pen., che era stata esclusa dal Giudice di primo grado. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore di Ri.Ma. chiedendone l'annullamento e adducendo tre motivi, di seguito indicati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Il primo motivo riguarda l'inosservanza e l'erronea applicazione degli articoli 416 e 430 cod. proc. pen. e il correlato vizio di motivazione. La difesa, sin dal giudizio di primo grado, aveva lamentato l'assenza agli atti dei supporti sui quali erano stati registrati i video estratti dai sistemi di videosorveglianza degli istituti di credito dai quali erano estratti i fotogrammi che, secondo l'accusa, immortalerebbero Ri.Ma. La mancanza agli atti processuali di tali supporti avrebbe creato un vulnus del diritto di difesa anche a causa dell'avvenuta estrazione dai filmati in assenza della copia forense, che non avrebbe consentito alla difesa di compiere un vaglio completo di tutti gli elementi a carico dell'imputato. 2.2. Con il secondo motivo si lamenta l'omessa acquisizione di una prova decisiva, costituita dalla consulenza psichiatrica, al fine di verificare la sussistenza della capacità d'intendere e volere di Ri.Ma. al momento del fatto. Il giudice di appello ha negato la rinnovazione istruttoria sul punto, affermando che la relativa sollecitazione difensiva non poggerebbe su alcun aggancio favorevolmente valutabile. Tuttavia, avrebbe trascurato come gli stessi comportamenti assunti da Ri.Ma. nelle fasi antecedenti all'ingresso del negozio, esternanti una razionale placidità, stridendo inesorabilmente con l'efferatezza dell'azione omicidiaria, renderebbero necessaria la perizia, posto che - rimarca la difesa - "non può escludersi che un delitto di tale gravità sia connaturato da una (almeno potenziale) devianza psichica". Né varrebbe a escludere la necessità di tale accertamento - come hanno ritenuto i giudici di appello - quanto affermato dal dr. Di. in una precedente perizia, effettuata nello stesso procedimento penale in fase cautelare, il cui contenuto sarebbe stato del tutto travisato. Il medico, invero, non ha mai valutato la capacità di intendere e volere del ricorrente, limitandosi ad affermare la piena compatibilità delle sue condizioni psichiche con la misura della custodia cautelare in carcere. Lo stesso sanitario, peraltro, ha diagnosticato uno "stato ansioso depressivo reattivo" e ha ricordato i reiterati comportamenti disadattivi da questi attuati (sciopero della fame e della sete). Discostandosi da tali risultanze, il Giudice di appello avrebbe reso una sua propria motivazione e, comunque, travisato il contenuto della perizia del dr. Di., attraverso una non consentita estensione delle considerazioni medico di questi, limitate alla sola fase cautelare. 2.3. Con il terzo motivo la difesa lamenta vizio di motivazione con riferimento ad una pluralità di profili e, segnatamente: i) alla scriminante della legittima difesa, esclusa dalla Corte di assise di appello sulla scorta della dotazione da parte di .Ri.Ma. dell'acido muriatico. La circostanza in parola poggerebbe, però, su dati equivoci e ipotetici, quali la deposizione del m.llo Lo. che, nel visionare i filmati estratti dalle videocamere, avrebbe notato che Ri.Ma. recava con sé un sacchetto con una bottiglia, probabilmente di acido muriatico. Del pari priva di adeguato riscontro l'affermazione secondo la quale la presenza di tracce di acido muriatico sul corpo dell'imputato dimostrerebbe l'uso fattone ai danni della donna, attraverso un non meglio specificato "schizzo di ritorno"; ii) al mancato riconoscimento della fattispecie dell'omicidio preterintenzionale. Non è stata adeguatamente approfondita la tesi prospettata dalla difesa secondo la quale, la pacifica e riconosciuta situazione economica critica di Ri.Ma., cui si è addebitato di avere sottratto del denaro della Sc.An., potesse essere stata alla base dell'aggressione, degenerata - oltre l'intenzione - nella morte della donna; iii) alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante della premeditazione, basata su una costruzione meramente congetturale. L'assenza di video riprese, l'asincronia temporale tra l'orario indicato sullo scontrino di acquisto dell'acido muriatico e quello effettivo e, di più, la mera percezione soggettiva della dotazione da parte di Ri.Ma. di acido muriatico riferita dal m.llo Lo. di cui si è già detto, impongono di ritenere insussistenti gli elementi richiesti per la premeditazione. Del tutto inverosimile che Ri.Ma. abbia ritenuto di organizzare l'aggressione all'ex convivente ipotizzando d riempire di acido muriatico più siringhe, salvo a non ritenere tale piano "diabolico" il frutto, per l'appunto, di una mente "malata"; iv) alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all'articolo 112, comma 1 n. 2 e 3, cod. pen., non essendo sufficienti le affermazioni de) dr. Vi. secondo cui il figlio Al. sarebbe "schierato" con il padre, ciò che non implica un condizionamento di quest'ultimo nei riguardi del primo. Tali argomentazioni varrebbero, giusta la tesi difensiva, ad escludere altresì la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61, comma 1, n. 11-quinqiues, cod. pen.; v) alla ritenuta sussistenza dei delitti di lesioni personali e di maltrattamenti, la cui motivazione è stata fondata sulla deposizione di una teste, Sc.St., il cui narrato sarebbe stato inevitabilmente condizionato dal drammatico evento occorso alla sorella e che, pertanto, non può considerarsi teste neutrale. Così come la stessa denunzia da parte della vittima in punto di maltrattamenti e lesioni sarebbe frutto di pregresso astio, richiamandosi la testimonianza della teste Lo. su "strani" comportamenti di Sc.An. che l'avevano indotta a dare disposizioni al personale scolastico affinché il minore fosse affidato esclusivamente al padre. Non vi sarebbe, infine, prova - quanto al reato di maltrattamenti - del requisito dell'abitualità delle condotte; vi) alla ritenuta sussistenza del delitto di maltrattamenti anche per la porzione temporale originariamente esclusa dal Giudice di primo grado e, quanto al reato di omicidio, alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 576, comma 1, n. 5, cod. pen., frutto di travisamento del fatto, del tutto corrette essendo le argomentazioni in diritto svolte dal Giudice di primo grado, richiamate nel ricorso; vii) infine, all'immotivato diniego delle circostanze attenuanti generiche, essendosi la Corte territoriale di secondo grado limitata a enfatizzare la gravità del fatto, "senza fondare le proprie ragioni su valutazioni tecnico-giuridiche". 3. Il Sostituto Procuratore generale, Gialuigi Pratola, ha chiesto il rigetto del ricorso. 4. Il difensore delle parti civili, Sc.Vi., Gi.Ma. e Sc.Ni., ha depositato conclusioni scritte in data 26 ottobre 2023 cui si è riportato in occasione della discussione orale. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso proposto nell'interesse di Ri.Ma. è fondato limitatamente alla richiesta esclusione dell'aggravante di cui all'art. 576, comma 1, n. 5, cod. pen., mentre le altre censure sono in parte inammissibili, in parte infondate e, dunque, passibili di rigetto. Fatta eccezione di quanto si dirà con riferimento alla indicata aggravante, la sentenza della Corte territoriale di appello, adeguatamente e logicamente motivata, resiste a tutte le censure sviluppate nell'impugnazione che, nel denunciare formalmente delle pretese incongruenze motivazionali, ripropongono temi che i giudici di merito hanno disatteso con argomentazioni adeguate ed immuni da vizi logici o giuridici. 2. Il primo motivo, con il quale la difesa lamenta la violazione del diritto di difesa a causa della mancata partecipazione all'estrazione dei files e per la mancata allegazione da parte della Pubblica accusa dei supporti originali delle riprese di videosorveglianza i cui frames erano stati trasfusi nell'annotazione di polizia giudiziaria, è inammissibile. Si tratta, invero, di motivo del tutto a-specifico e, in parte, reiterativo di pedissequo motivo, articolatamente valutato dai Giudice di appello, nelle p. da 16 a 18 della sentenza impugnata. La Corte di assise di appello - con motivazione aderente alle risultanze processuali - ha evidenziato che nessuna violazione del diritto della difesa si era realizzata in quanto l'annotazione dei Carabinieri, contenente i frames necessari a documentare i movimenti di Ri.Ma. nel corso della mattinata del 15 giugno 2019, era stata acclusa tra gli atti funzionali alla richiesta di rinvio a giudizio e ha precisato che ciò che, almeno in un primo momento, era mancata era stata l'allegazione dei supporti informatici integrali all'interno dei quali erano stati caricati digitalmente i contenuti dei video estrapolati dalle varie videocamere. Ha, dunque, escluso - con motivazione non manifestamente illogica - che tale originaria mancata allegazione dei soli supporti informatici avesse conseguenze processualmente sanzionabili, posto che dopo l'emissione del decreto di citazione per il giudizio di appello e anteriormente rispetto alla prima udienza, detti supporti erano stati posti a disposizione della difesa che, dal canto suo, non aveva ravvisato in detti supporti alcuna delle anomalie denunciate con l'atto di appello. Si tratta di motivazione che resiste alle censure reiterative del ricorrente, che con essa non si confronta. Quanto, poi, alla specifica doglianza concernente la mancata partecipazione della difesa dell'estrapolazione dei relativi files, si tratta di motivo manifestamente infondato: va in proposito ricordato che le videoregistrazioni effettuate dai privati con telecamere di sicurezza sono prove documentali, acquisibili ex art. 234 cod. proc. pen., sicché i fotogrammi estrapolati da detti filmati e inseriti in annotazioni di servizio non possono essere considerati prove illegittimamente acquisite e non ricadono nella sanzione processuale di inutilizzabilità. (Sez. 5, n. 21027 del 21/02/2020, Nardi, Rv. 279345); inoltre, per ciò che qui più rileva, si tratta di prove acquisibili senza la necessità dell'instaurazione del contraddittorio previsto dall'art. 189 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 10 del 30/11/2016, dep. 02/01/2017, Di Benedetto, Rv. 268787). Sotto altro, concorrente profilo, il Collegio non può non rilevare che, allorché con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", essendo in ogni caso necessario valutare se le residue risultanze, nonostante l'espunzione di quella inutilizzabile, risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento; ciò in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Sez. 5 n. 31823 del 06/10/2020, Lucamarini, Rv. 279829; Sez. 3 n. 3207 del 02/10/2014, dep. 2015, Calabrese, Rv. 262011). Detta illustrazione, nel caso che ci occupa, è stata del tutto negletta dalla difesa. 3. È infondato il secondo motivo, con cui si avversa la motivazione in punto di omesso accertamento del vizio totale di mente. Questa Corte ha in più occasioni statuito che l'accerta merito della capacità di intendere e di volere dell'imputato costituisce questione di fatto la cui valutazione compete al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente motivata, anche con il solo richiamo alle valutazioni delle perizie, se immune da vizi logici e conforme ai criteri scientifici di tipo clinico e valutativo (Sez. 1, n. 11897 del 18/05/2018, dep. 2019, P., Rv. 276170; Sez. 1, n. 32373 del 17/01/2014, Secchiano, Rv. 261410; Sez. 1, n. 42996 del 21/10/2008, Marina, Rv. 241828), non dovendo la Corte di cassazione stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta, ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica. Da tale principio, che il Collegio condivide, non vi è ragione di discostarsi nel caso in esame, ove si consideri che la Corte di appello territoriale (p. 92) e la Corte di assise di appello (p. 19) hanno spiegato in modo esauriente, anche sulla base delle conclusioni formulate nella perizia del dr. Di., espletata con specifico riferimento a una istanza difensiva di carattere cautelare, le ragioni per le quali non v'era materia per una verifica della capacità d'intendere e volere e per i conseguenti pretesi supplementi istruttori. In particolare, il Giudice di primo grado ha richiamato le conclusioni del perito dr. Di., secondo cui Ri.Ma. era affetto da un disturbo "ansio-depressivo reattivo" che poneva in diretta conseguenza con l'avvio della detenzione, intervenuta nel giugno 2019, dunque in esito ai fatti per cui è processo, contestualmente escludendo pregressi disturbi mentali, sulla base tanto della valutazione clinica, quanto dell'anamnesi riferita dal periziando. Ha, poi, richiamato i coerenti esiti della visita del 15 giugno 2019 che ugualmente escludevano turbe di tipo psicotico e confermavano l'anamnesi psichiatrica negativa. Per tale via ha escluso la sussistenza di una patologia psichiatrica comportante il vizio di mente, anche parziale, in relazione alla commissione dei fatti incriminati. I Giudici di secondo grado hanno confermato tale valutazione, facendosi carico di rispondere alle censure di appello che la difesa reitera pedissequamente nel ricorso. In particolare la Corte di assise di appello ha rimarcato come la questione fosse stata affrontata funditus dal Giudice di primo grado, la cui motivazione ha richiamato, non senza porre in risalto come fosse del tutto generico il lamentato "colossale travisamento" in cui sarebbe incorso il primo Giudice e l'assenza di evidenze che rendessero necessario la richiesta rinnovazione istruttoria. I giudici di appello hanno precisato che, anche esaminando la consulenza di parte, doveva escludersi l'esistenza di qualunque dubbio sulla capacità di intendere e volere dell'imputato, in quanto la cennata consulenza di parte, sulle cui valutazioni faceva leva la richiesta difensiva, concludeva in modo generico, senza evidenziare alcun effettivo disturbo della personalità tale da condizionare la capacità di intendere e volere. Nel prendere, dunque, atto che le conclusioni del consulente di parte non apparivano in grado di dimostrare l'effettiva esistenza di un disturbo della personalità sufficientemente grave da poter incidere significativamente sulla capacità dell'imputato di comprendere o di indursi a porre in essere la condotta incriminata (Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005, Raso, Rv. 230317), ha ragionevolmente giudicato infondata la richiesta difensiva e perciò, correttamente, non ha proceduto all'accertamento d'ufficio sulla capacità di intendere e volere posta in dubbio sulla base di argomenti incongrui. Tanto considerato, la doglianza riproposta in questa sede dal ricorrente si risolve nella reiterata prospettazione di argomenti di merito, siccome volta a valorizzare in senso diverso da quello ponderato dai Giudici di merito di appello elementi di fatto che, ex se considerati, non si profilano idonei a scardinare la valutazione, adeguatamente espressa nella decisione, dell'assenza di un disturbo della personalità in concreto emerso tale da influire sulla capacità di intendere o di volere della persona interessata. È stata, in definitiva, osservata la condivisa linea esegetica in base alla quale, ai fini del riconoscimento dei vizio totale o parziale di mente, i disturbi della personalità (non sempre inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali) possono rientrare nel concetto di infermità, ma soltanto quando essi siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o facendola grandemente scemare, nonché a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Di conseguenza, non può annettersi rilievo, ai fini dell'imputabilità, ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, al pari degli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio d'infermità (Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005, Raso, Rv. 230317; Sez. 1, n. 35842 del 16/04/2019, Mazzeo, Rv. 276616; Sez. 1, n. 52951 del 25/06/2014, Guidi, Rv. 261339). Di siffatte indicate, gravi, anomalie i giudici di merito non hanno riscontrato, in modo effettivo, evidenze tali da dover orientare il loro orizzonte decisorio nel senso invocato dalla difesa dell'imputato e - quel che qui decisivamente rileva - il ricorso non ha esposto elementi nuovi e ulteriori rispetto a quelli già presi in considerazione e analizzati. 4. Manifestamente infondato il motivo attinente alla motivazione attraverso la quale la Corte di assise di appello, in accordo con il primo giudice, ha escluso l'applicazione della causa di giustificazione della legittima difesa. La prospettazione difensiva muove dall'assunto secondo cui, per un verso, non era stata acclarata con certezza la preventiva dotazione da parte di Ri.Ma. di acido muriatico e, per altro verso, che non poteva escludersi una colluttazione tra i due protagonisti la vicenda. I giudici di merito hanno disatteso tale impostazione in ragione dell'assenza di qualsiasi elemento obiettivo sulla scorta del quale fondare l'esistenza di un'aggressione da parte di Sc.An., vieppiù valorizzando il dato (questo sì acclarato con certezza) della natura auto-prodotta ("con calma e con esposizione volontaria e lineare dei polsi all'azione della lama", come si legge a p. 27 della sentenza impugnata che sul punto riproduce la relazione medico-legale) delle lesioni riscontrate su Ri.Ma. e sul figlio minore. Non è superfluo rammentare l'indirizzo ermeneutico secondo cui "L'accertamento riguardante la scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell'eccesso colposo deve essere effettuato con un giudizio ex ante calato all'interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in se considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all'azione che possano aver avuto concreta incidenza sull'insorgenza dell'erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un'ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d'animo e i timori personali" (Sez. 1, n. 13370 del 05/03/2013, R., Rv. 255268). È, dunque, questo il canone che ha indotto i giudici di merito a ritenere, alla luce del vaglio ponderato delle emergenze istruttorie, che il ricorrente sferrò i colpi di taglierino, uno dei quali mortale, in assenza di situazioni di pericolo, neanche erroneamente supposte e che costui si rese, piuttosto, protagonista di una condotta che non si presta, per le ragioni esposte, ad essere scriminata dall'invocata causa di giustificazione. 5. Quanto alla censura in punto di elemento psicologico, che la difesa assume dover essere qualificato come preterintenzione, la stessa è destituita di qualsivoglia fondamento. La Corte di Assise di Appello, seguendo un percorso motivazionale coerente e ancorato alle risultanze probatorie, in linea con la decisione del primo giudice, ha ricostruito l'episodio mortale come un'aggressione a tal punto voluta che fu premeditata, che Ri.Ma. realizzò, sfruttando la complicità del figlio minore di età, dotandosi di acido muriatico e siringa, nonché armandosi di taglierino, quest'ultimo impiegato con ferma decisione nell'inflizione di due fendenti. Ha, dunque, fondato l'animus necandi ed escluso la preterintenzionalità sulla scorta del dirimente dato obiettivo, emerso dalla consulenza, della direzione dei due colpi (alla giugulare, zona incontrovertibilmente vitale) e della particolare forza impressa dall'agente (attestata dalla profondità delle ferite). Ha quindi disatteso la tesi - prospettata con i motivi in sede di appello e qui riproposta, non a caso in termini meramente ipotetici - secondo la quale l'intenzione, poi degenerata, dell'imputato fosse solo quella di percuotere la donna, in ipotesi al fine di derubarla. Ciò ha fatto in ragione della complessiva ricostruzione dei fatti quale condotta premeditata e, comunque, caratterizzata anche nei momenti della sua esecuzione dal dolo di uccidere, come impone di ritenere l'inflizione di ben due fendenti. Si tratta di argomentazioni perfettamente in linea con l'elaborazione della giurisprudenza di legittimità secondo cui "Il criterio distintivo tra l'omicidio preterintenzionale e l'omicidio volontario risiede nel fatto che, nel primo caso, la volontà dell'agente esclude ogni previsione dell'evento morte, mentre, nel secondo, la previsione dell'evento è necessaria e deve essere accertata in concreto, non essendo sufficiente la semplice prevedibilità dello stesso" (Sez. 1, n. 4425 del 05/12/2013, dep. 2014, Cutrufello e altri, Rv. 259014), laddove le deduzioni difensive volte si risolvono nella prospettazione di una diversa lettura delle risultanze processuali, inammissibile in questa sede e, soprattutto, fondata su dati indimostrati. 6. Deve giudicarsi infondato il motivo riguardante l'aggravante della premeditazione. 6.1. È, invero, principio consolidato quello secondo cui gli elementi costitutivi della premeditazione sono un apprezzabile intervallo temporale tra l'insorgenza del proposito criminoso e l'attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l'opportunità del recesso (elemento di natura cronologica) e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzione di continuità nell'animo dell'agente fino alla commissione del crimine (elemento di natura ideologica), con l'effetto che tale circostanza aggravante va esclusa quando l'occasionalità del momento di consumazione del reato appaia preponderante, ossia tale da neutralizzare la sintomaticità della causale e della scelta del tempo, del luogo e dei mezzi di esecuzione del reato (Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, dep. 2009, Antonucci, Rv. 241575; Sez. 5, n. 42576 del 03/06/2015, Procacci, Rv. 265149). Con particolare riferimento all'elemento di natura cronologica, esso è rappresentato dal decorso di un intervallo di tempo apprezzabile fra l'insorgenza e l'attuazione del proposito delittuoso, con la specificazione che la consistenza minima dell'intervallo non può essere rigidamente quantificata in via generale e astratta: rileva in modo decisivo sul punto l'accertamento che tale lasso sia risultato in concreto sufficiente a far riflettere l'agente sulla grave decisione presa e a consentire il prevalere dei motivi inibitori su quelli a delinquere, per modo che egli - avendo avuto il tempo adeguato a permettergli di attivare la controspinta inibitoria della pulsione criminosa formatasi nel suo orizzonte volitivo, ma non essendosi avvalso di questa concreta possibilità di recedere dal suo proposito antisociale, mantenendolo fermo senza soluzione di continuità - si sia reso, in tal modo, responsabile di un comportamento più riprovevole e, quindi, più grave. Consegue che, nell'indagine da compiersi, rileva anche la valutazione dei mezzi usati e delle modalità caratterizzanti la condotta delittuosa dell'agente ed è compito del giudice di merito, cogliere e apprezzare tutte le peculiarità della specifica fattispecie, accertando se i predetti requisiti sussistano o se essi siano, invece, l'uno o l'altro, da escludere, cori l'avvertenza che quanto più è circoscritto il lasso temporale intercorso tra l'insorgenza nell'agente del proposito delittuoso e la sua attuazione, tanto più deve essere specifica l'individuazione e la dimostrazione degli altri indici sintomatici dell'avvenuta deliberazione del piano omicidiario e della ferma e pervicace volontà dell'agente stesso di portarlo a termine, senza cedimenti (Sez. 1, n. 41405 del 16/015/2019, Rossi, Rv. 277136, in motivazione). 6.2. In tale cornice ermeneutica, diversamente da quanto a-specificamente sostenuto nel ricorso, le sentenze di merito (rispettivamente a p. 95 quella di primo grado, a p. 36 quella di secondo) hanno chiarito che la deliberazione dell'omicidio risaliva quanto meno alle ore 9,30 della mattina del 15 giugno 2019, allorquando il ricorrente uscì di casa - come attestato dalle videocamere - per acquistare l'acido muriatico, quindi raggiunse, alle 11,48, unitamente al figlio il luogo di lavoro della ex convivente dove sostò per oltre un'ora, in attesa del momento propizio, ovverosia l'orario della pausa pranzo, al fine di cogliere la donna di sorpresa e in solitudine. Sicché è corretta l'affermazione dei giudici di merito secondo i quali l'azione era stata deliberata e seguita dalla ricerca dell'occasione propizia, quindi l'esecuzione accompagnata da un'accurata predisposizione di mezzi (l'acido muriatico, la siringa e il taglierino), com'è peraltro reso evidente dallo scambio di sms tra l'imputato e il figlio che, avendo fatto ingresso nel negozio prima di lui, segnalava al primo gli spostamenti della donna all'interno del negozio. Si tratta, invero, di acquisizioni di sicuro valore sintomatico della sussistenza degli elementi costitutivi dell'apprezzabile intervallo temporale tra l'insorgenza del proposito criminoso e l'attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l'opportunità del recesso (elemento di natura cronologica), e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzione di continuità nell'animo dell'agente fino alla commissione del crimine (elemento di natura ideologica). A ciò s'aggiunga che il Giudice di appello, a tali elementi, ha condivisibilmente aggiunto quello ulteriore del movente, costituito dall'avere il ricorrente instaurato una procedura per ottenere l'affidamento esclusivo del figlio, ciò che aveva reso, a suoi occhi, l'ex convivente come una sorta di "nemico" ovvero di "ostacolo" al rapporto privilegiato che egli aveva con il figlio. L'individuato movente del delitto, com'è noto, ben può costituire un elemento indiziante per ritenere sussistente l'aggravante della premeditazione, sebbene non sufficiente, da solo, a integrarla (Sez. 1, n. 5147 del 14/07/2015, dep. 2016, Scanni, Rv. 266206). 7. Le censure che si appuntano sul vizio di motivazione in punto di sussistenza dell'aggravante di avere, in qualità genitore, determinato a commettere il reato il figlio minorenne, sono inammissibili perché a-specifiche e meramente reiterative di analoghe censure vagliate dal Giudice di appello. La strumentalizzazione e l'induzione, da parte dell'imputato, del proprio figlio minore alla partecipazione al reato è, difatti, stata correttamente ritenuta sulla base della piana deposizione del dr. Vi.r neuropsichiatra infantile, che ha affermato il totale asservimento psicologico del giovane Al. al padre, non fisiologica per quella fascia di età. Le aggravanti di cui ai numeri 3 e 4 dell'art. 112 cod. pen. - com'è stato chiarito da un arresto risalente, ma mai superato - sono compatibili anche quando la determinazione avvenga nei confronti del minore da parte del genitore. La prima circostanza presuppone, invero, una relazione caratterizzata da un rapporto di supremazia di un soggetto nei confronti di un altro che, anche qualora derivi da una peculiare posizione nella famiglia, non si esaurisce nella titolarità della potestà genitoriale, ma comprende ogni situazione di reale ed effettiva subordinazione nell'ambito familiare, mentre la seconda sottende una situazione d'inferiorità derivante dalla minorata capacità di intendere e di volere, non collegata a una relazione con un terzo. Sicché la determinazione sarà ben più efficace quando - come nel caso di specie - sussistano entrambe le situazioni sopra indicate (Sez. 6, n. 3450 del 26/09/1990, dep. 1991, Orlando, Rv. 187761). La circostanza aggravante di cui all'art. 112, comma primo, n. 4, cod. pen., che contempla il caso in cui il concorrente maggiorenne abbia determinato il minore a commettere il reato, è del resto configurabile anche nell'eventualità in cui il primo, per lo stato di vulnerabilità del minore, si sia avvalso, in qualsiasi forma, del suo apporto o lo abbia utilizzato per l'esecuzione del reato (Sez. 4, n. 44610 del 21/09/2023, Bisiccè, Rv. 285267). In ogni caso, osserva il Collegio, come ogni doglianza con la quale il ricorrente pone in dubbio le conclusioni del consulente, non si confronta con il principio espresso da questa Corte secondo cui "l'accertamento della sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 112, comma primo, n. 4, cod. pen. prescinde dalla verifica circa la capacità del minore di resistere alle azioni suggestive altrui, atteso che la ratio della predetta aggravante è soltanto quella di inasprire il trattamento sanzionatorio nei confronti del maggiorenne che commetta, in concorso con minori, reati per i quali è previsto l'arresto in flagranza" (Sez. 2, n. 27975 del 01/03/2017, P., Rv. 270173). 8. È, invece, fondato il motivo inerente alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 576, primo comma, n. 5 cod. pen. che va, difatti, esclusa. Il Giudice di primo grado, aveva limitato l'epoca di commissione del reato sub c) fino al 30 settembre 2018 e, constatato che il reato di omicidio era stato commesso successivamente, aveva escluso il requisito della commissione di detto reato "in occasione" di quello di maltrattamenti (p. 97 sentenza primo grado). Diversamente, il Giudice di appello, nell'accogliere l'impugnazione della Parte Pubblica, ha condannare Ri.Ma. per il reato di maltrattamenti sino alla data dell'omicidio, e ritenuto sussistente l'aggravante, come si legge a p. 62 della sentenza, quale "effetto della consequenzialità logica e giuridica" dell'estensione della condanna al menzionato ulteriore segmento temporale. E, tuttavia, l'aggravante in parola non poteva essere ritenuta - così come avvenuto - sulla base di tale mera constatazione, dovendo il Giudice accertare la concreta sussistenza del requisito richiesto dalla norma penale del nesso di occasionalità, nel caso di specie obiettivamente non sussistente, posto che -secondo la stessa motivazione del giudice di appello e, soprattutto, secondo l'incontestata ricostruzione degli accadimenti fatta da entrambi i giudici di merito - emerge una cesura logica e temporale tra le abituali condotte di maltrattamento ai danni della Sc.An. e l'evento morte realizzato il (omissis), essendosi in tale iter abituale innestatosi un notevole inasprimento della condotta nei riguardi della vittima realizzato con l'omicidio. Per tale ragione la sentenza dev'essere annullata senza rinvio, limitatamente a detta aggravante. L'esclusione dell'aggravante non è suscettibile d'incidere sul trattamento sanzionatorio, stante la sussistenza di altra, già menzionata, aggravante che rendono il più grave reato di omicidio in ogni caso punibile con la pena dell'ergastolo. 9. Le plurime censure contenute nel terzo motivo di ricorso, con le quali la difesa contesta la motivazione dei Giudici di merito in punto d'inadeguata valutazione della deposizione di Sc.St., sorella della vittima, sulla quale è stata fondata la condanna per i reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni, rispettivamente contestati ai capi b) e c), si palesano interamente versate in fatto e completamente a-specifiche poiché, a fronte dell'articolata motivazione resa sul punto (p. 17 e s. della sentenza di primo grado e p. 42 e s. di quella di appello) dei Giudici di merito, non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata; le censure si palesano in parte reiterative, e in parte volte a sollecitare questa Corte a una non consentita rilettura delle risultanze di prova. In particolare la Corte di appello (p. 44 e s.), lungi dal trascurare gli elementi di dubbio emersi sulla testimonianza di Sc.St., ha invece posto l'accento sulla circostanza, rimasta incontestata, che i reati di lesioni e maltrattamenti, denunciati dalla persona offesa Sc.An., avevano trovato adeguata prova nella narrazione dei genitori della vittima, nei referti medici e perfino in alcuni appunti manoscritti che Ri.Ma., fratello dell'imputato, aveva redatto su quanto riferitogli dal nipote Al. Va poi detto che il Giudice di appello, in accoglimento della censura del Pubblico ministero, ha ritenuto configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche per la porzione temporale originariamente esclusa dal Giudice di primo grado, con motivazione (p. da 59 a 62) articolata, scevra da fratture razionali ovvero logiche e ossequiante della giurisprudenza di legittimità in materia (citata nello stesso provvedimento), con le quali il ricorso non si confronta adeguatamente e specificamente. Analoghe considerazioni valgono per l'aggravante dell'ari:. 61, comma 1, n. 11-quinquies, cod. pen., le cui doglianze sono state dal ricorrente (p. 39 del ricorso) agganciate alle considerazioni svolte a proposito dell'aggravante di cui all'art. 112 cod. pen. Il Collegio, nel rinviare a quanto già argomentato sul punto, rileva come, ancora una volta, il ricorso ometta di confrontarsi con le risultanze processuali e con la pacifica giurisprudenza di legittimità in virtù della quale, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante dell'essere stato il delitto commesso alla presenza di un minore, non è necessario che questi, esposto alla percezione della condotta illecita, abbia la maturità psico-fisica necessaria per comprendere la portata offensiva o lesiva degli atti commessi in sua presenza (Sez. 3, n. 18097 del 15/11/2019, dep. 2020, B., Rv. 280037), né è necessario che gli atti di violenza posti in essere alla sua presenza rivestano il carattere dell'abitualità, essendo sufficiente che egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta costituente reato (Sez. 6 n. 2003 del 25/10/2018, dep. 2019, Rv. Z., Rv. 274924). Piuttosto è il caso di precisare che l'aggravante pacificamente sussiste, essendo state le condotte di maltrattamento ritenute provate esclusivamente fino a giugno 2019, dunque prima dell'entrata in vigore della novella: in tema di maltrattamenti contro familiari e conviventi, stante la natura abituale del reato, che si consuma con la cessazione delle condotte vessatorie, è necessario sufficiente che anche solo una di esse sia stata attuata alla presenza di un minore dopo l'entrata in vigore della legge 19 luglio 2019, n. 69, perché trovi applicazione la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 572, comma secondo, cod. pen., introdotta da tale legge, in luogo di quella, previgente, di cui all'art. 61, comma primo, n. 11-quinquies, cod. pen. (Sez. 6, n. 21998 del 05/05/2023, G., Rv. 285118). 10. Quanto, infine, alla mancata concessione delle attenuanti generiche, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza. Di contro, è proprio la suindicata meritevolezza che necessita, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio. Ciò premesso, nel caso in esame, il ricorrente, a fronte della ritenuta gravità dei fatti, non ha indicato alcun elemento in base al quale sarebbe meritevole del beneficio, mentre le sentenze di merito hanno esaurientemente motivato in ordine all'assenza di indici giustificativi favorevoli e tali argomentazioni costituiscono la ragione, e segnano al tempo stesso il limite, di siffatto riconoscimento, in una materia che involge l'esercizio di valutazioni discrezionali tipicamente di merito, che, per pacifico indirizzo (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931-01; Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, Pennelli, Rv. 270450-01), sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette, come nella specie, da sufficiente complessiva illustrazione che ha valorizzato la particolare gravità dei fatti, l'intensità del dolo, la condotta successiva al crimine non improntata a lealtà, l'assenza di segni di resipiscenza e, più in generale, di elementi - rinvenibili dagli atti ovvero allegati dalla difesa - suscettibili di positiva valutazione. 11. Il ricorrente dev'essere condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle costituite parti civili che, tenuto conto dell'identità di posizione processuale e dell'impegno defensionale profuso, si liquide no nella misura e secondo le modalità di cui al dispositivo. In caso di diffusione del presente provvedimento, vanno omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all'aggravante di cui all'art. 576, comma 1, n. 5, c.p. che esclude, ferma la pena inflitta. Rigetta nel resto il ricorso. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Sc.Vi., Gi.Ma. e Sc.Ni. che liquida in complessivi euro 6.000,00, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 3 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. SIANI Vincenzo - Consigliere Dott. APRILE Stefano - Relatore Dott. MAGI Raffaello - Consigliere Dott. LANNA Angelo Valerio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Sc.El., nata a B il (omissis); avverso la sentenza del 21/04/2023 della CORTE d'ASSISE d'APPELLO di BRESCIA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere STEFANO APRILE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore MARIA FRANCESCA LOY che ha concluso per il rigetto del ricorso, riportandosi alla requisitoria già depositata e notificata alle parti. Udito il difensore: - avv. SA.Si., per Sc.El., che conclude insistendo per l'accoglimento dei motivi di ricorso, ai quali si riporta; - avv. PO.An., per Sc.El., che si riporta ai motivi di ricorso e ai motivi aggiunti e ne chiede l'accoglimento. RITENUTO INI FATTO 1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d'Assise d'appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza pronunciata in data 20 settembre 2021 dalla Corte d'Assise di Mantova, ha ridotto ad anni diciotto di reclusione, con il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alla contestata aggravante del rapporto di coniugio, la pena inflitta a Sc.El. per l'omicidio aggravato del coniuge Gi.St., commesso in data (omissis) nell'abitazione familiare mediante tre colpi di coltello al collo e all'addome (artt. 575, 577, primo comma, n. 1, cod. pen.). 1.1. Con concorde valutazione di entrambi i giudici di merito è stata affermata la responsabilità dell'imputata per l'omicidio del coniuge, che la stessa non contesta dal punto di vista della condotta materiale; i giudici di merito hanno escluso la legittima difesa, la circostanza attenuante della provocazione derivante dalle condotte vessatorie poste in essere dal coniuge a suo danno, nonché ritenuto l'imputata capace di intendere e volere, ma meritevole della concessione delle circostanze attenuanti generiche in via prevalente sull'aggravante del rapporto di coniugio. Nel corso del giudizio di appello è stata disposta nuova perizia genetica sul coltello rinvenuto all'atto della restituzione del veicolo in uso all'imputata, risultato essere quello impiegato per l'omicidio, nonché l'esame del perito e dei consulenti medico legali sulle cause della morte; si è proceduto, su sua richiesta, a nuovo esame dell'imputata. 1.2. I giudici di merito hanno valorizzato le dichiarazioni auto accusatorie rese dall'imputata a coloro che l'hanno soccorsa, dopo il tentativo di suicidio (giudicato simulato) commesso in data (omissis), dalle quali è emerso che la donna ha pugnalato "a freddo" il coniuge addormentato, così superando l'iniziale versione che addebitava al coniuge una aggressione omicida (l'uomo l'avrebbe trascinata nella stanza da letto e, dopo averle messo un cappio intorno al collo, avrebbe tentato di accoltellarla, sicché l'imputata, fintasi svenuta, aveva preso un coltello, che in precedenza aveva nascosto sotto un cuscino, e aveva colpito il marito con diverse coltellate). La ricostruzione dell'episodio avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 ottobre 2020, resa possibile tramite gli accertamenti di polizia giudiziaria riscontrati dagli scritti lasciati dall'imputata, ha condotto al rinvenimento, nell'abitazione familiare, di Gr.Li., anziana madre della vittima, che era stata abbandonata sporca e coperta di sangue nonché rinchiusa in casa da circa tre giorni a seguito del precipitoso allontanamento dell'imputata che aveva pure artefatto le targhe del veicolo e abbandonato il proprio telefono cellulare. Nel corso della perquisizione dell'abitazione coniugale veniva rinvenuto cadavere Gi.St., sdraiato sul letto matrimoniale; a fianco dell'uomo si trovava una corda nella quale era stato ricavato un cappio. Nelle immediate vicinanze venivano rinvenuti dei fogli manoscritti dall'imputata ritenuti particolarmente significativi per ricostruire il movente e lo sviluppo dell'azione ("con questa corda volevi impiccarmi ma io ti ho prevenuto stavolta"; "ho fatto questo gesto prima che lui lo facesse a me!"). Nelle successive dichiarazioni l'imputata riferiva che il marito le era saltato addosso mentre ella si trovava a letto, stringendole al collo il cappio della corda, tanto che l'imputata aveva reagito e lo aveva accoltellato. Nel corso di ulteriori successive dichiarazioni l'imputata riferiva che, una volta sormontata dal marito che cercava di strangolarla o impiccarla, ella aveva afferrato con la mano sinistra il coltello, che qualche giorno prima aveva messo sul pavimento appena sotto il letto, e aveva inferto una prima coltellata al marito che era ricaduto sul letto; dopo qualche istante l'uomo ancora sormontava l'imputata e tirava la corda per strangolarla, sicché l'imputata aveva inferto un'altra coltellata al marito il quale era ricaduto nuovamente; nella circostanza l'imputata aveva compreso che il marito era morto. 1.3. Gli accertamenti anatomopatologici evidenziavano quattro lesività esterne, delle quali le prime tre mortali che avevano attinto organi vitali con conseguente shock emorragico: una prima lesività era costituita da una ferita da punta e da taglio in regione latero cervicale sinistra che era giunta ad attingere la vena giugulare e parzialmente l'arteria carotide; una seconda e una terza lesività erano costituite da due lesioni contigue da punta e da taglio, verosimilmente conseguenza di due colpi in rapida successione e con arma non ancora completamente estratta tra il primo e il secondo colpo, che avevano prodotto una lesione anche a livello epatico con importanti perdite ematiche; una quarta lesività era costituita da una ferita superficiale da taglio, del tipo da difesa, in corrispondenza del lato interno del dito indice della mano destra. 1.4. Secondo la concorde ricostruzione dei giudici di merito l'uccisione sarebbe stata posta in essere "a freddo", mentre la vittima si trovava distesa sul letto e inerme, sia alla luce delle dichiarazioni inizialmente fornite, sia in considerazione dei manoscritti autografi rinvenuti, nonché sulla base della ritenuta incompatibilità della successiva ricostruzione fornita dall'imputata, ulteriormente modificata nel corso dell'esame effettuato in secondo grado in occasione del quale, per fornire una spiegazione alla emersa incompatibilità dell'utilizzo della mano sinistra per colpire il lato sinistro del collo del marito che la fronteggiava, la ricorrente aveva introdotto due elementi di novità costituiti: dal "cambio di mano" nell'impugnatura del coltello, passato dalla sinistra alla destra per colpire il lato sinistro del collo della vittima; ovvero dalla repentina torsione del capo della vittima verso la mano sinistra dell'imputata che impugnava il coltello e che, quindi, poteva attingere il lato sinistro del collo della vittima. 1.5. Sono state, infine, ritenute precluse le questioni concernenti la presunta incompatibilità del perito Ma., in precedenza consulente tecnico del pubblico ministero, in considerazione della mancanza di alcuna opposizione o contestazione all'atto di conferimento dell'incarico, come pure in merito alla presunta mancata comunicazione della data di svolgimento delle operazioni peritali che non è stata contestata neppure all'udienza di esame del perito. 2. Ricorre Sc.El., a mezzo dei difensori avv. An.Po. e avv. Si.Sa., che chiede l'annullamento della sentenza impugnata, sviluppando cinque motivi. 2.1. Il primo motivo denuncia legittimità costituzionale dell'articolo 577, primo comma, n. 1, cod. pen., con riguardo alla "automiatica" applicazione dell'aggravante per la semplice esistenza di un rapporto di coniugio tra le parti che, senza avere riguardo alla natura dei rapporti tra le stesse, preclude l'accesso al giudizio abbreviato. Il motivo di ricorso sottolinea l'illogicità del trattamento sanzionatorio collegato unicamente a una circostanza oggettiva, senza che si possa tener conto del disvalore nell'ambito del quale l'omicidio è stato commesso e, in particolare, dell'esistenza di elementi circostanziali in grado di attenuare la gravità del fatto. Sotto il profilo della irragionevolezza, il motivo di ricorso evidenzia come la condotta, quale quella in esame, della donna che uccide il proprio marito che la maltrattava è ben diversa da quella nella quale si trova la donna che venga uccisa in un contesto di maltrattamenti: in entrambi i casi è prevista, però, la pena dell'ergastolo. La circostanza che l'omicidio avvenga in un contesto matrimoniale non sembra, secondo la ricorrente, una ragione idonea per aggravare la condotta, quanto piuttosto a renderla meno riprovevole in considerazione del contesto di disperazione esistenziale riconnesso al degenerare del rapporto matrimoniale in dipendenza delle condotte del coniuge-vittima. Manca, secondo la ricorrente, quel senso di proporzionalità tra il fatto e la colpevolezza, tanto più che la sussistenza della circostanza aggravante impedisce l'accesso al rito abbreviato che comporta una rilevante riduzione del trattamento sanzionatorio. Il ricorso assume, inoltre, come tertium comparationis, la diversa ipotesi che la coppia fosse stata semplicemente convivente e non coniugata, circostanza che escluderebbe l'aggravante, ovvero che l'omicidio fosse stato attuato dall'uomo dopo essere stato lasciato e quindi quando la relazione era già interrotta. 2.2. Il secondo motivo denuncia la violazione di legge, in riferimento agli artt. 192, comma 2, e 530, comma 3, cod. proc. pen. e il vizio della motivazione con riguardo alla prova indiziaria concernente la dinamica del fatto, anche sotto il profilo del travisamento di elementi fattuali decisivi, e per l'utilizzo del sapere personale in luogo di quello tecnico scientifico, nonché la violazione del ragionevole dubbio in relazione al mancato riconoscimento della scriminante della difesa legittima e dell'eccesso colposo. Sono indiscutibili gli atteggiamenti violenti e maltrattanti tenuti dalla vittima nei confronti dell'imputata nonché che la stessa, come affermano i giudici di merito, ha agito con dolo di impeto, ma i giudici di merito non hanno dato credito a quanto riferito dalla ricorrente circa l'aggressione omicida posta in essere a suo danno dal marito mediante un tentativo di strangolamento o impiccagione con una corda e che, proprio in previsione di una tale aggressione, l'imputata aveva posizionato, vicino al letto ove è avvenuto il fatto, un coltello da utilizzare per difendersi. I giudici di merito hanno omesso, a fronte della generica confessione dell'imputata, qualunque accertamento sulla scena del crimine, con particolare riferimento alla Blood Pattern Analysis che avrebbe consentito di confermare la versione dell'imputata circa l'aggressione subita. Si è, invece, immotivatamente escluso che l'imputata fosse in posizione supina sul letto e che il coniuge le sarebbe balzato sopra afferrandola per il collo e infilandole una corda per strozzarla, mentre gli schizzi di sangue presenti sulla parete e sul letto confortano la versione dell'imputata secondo la quale ella avrebbe preso con la mano sinistra il coltello che si trovava a fianco al letto e con esso colpito al collo il coniuge che la sovrastava, attingendo il lato sinistro di esso. Vi è stato un travisamento là dove si esclude la presenza di macchie di sangue nel lato sinistro del letto che, al contrario, è intriso sia centralmente che nella piazza di sinistra, in particolare sulle lenzuola non lontano dalla vittima; analogamente, la presenza di una proiezione ematica, in posizione opposta rispetto a quella occupata dalla vittima supina, da'" conto della incompatibilità di tale proiezione con la posizione supina della vittima che la sentenza pretende di accreditare. I giudici di merito, dando conto di non comprendere l'obiezione difensiva, travisano invece la situazione di fatto, omettendo di valutare le tracce di sangue, traendo quindi elementi incerti per ricostruire la vicenda. Se, infatti, fosse vero che la vittima si trovava supina e che l'imputata l'ha colpita al lato sinistro del collo, con ogni ragionevole probabilità gli schizzi di sangue sarebbero giunti a ulteriore distanza e anche sul cuscino sinistro, in palese contrasto con l'affermazione che si legge in motivazione. Ipotizzando, inoltre, che la vittima fosse sdraiata sul fianco, il colpo in regione cervicale sinistra avrebbe comportato con ragionevole probabilità degli schizzi di sangue sulla vicina parete di fondo dal lato dei cuscini poiché il letto è privo di testiera. Risulta quindi doversi escludere che la vittima fosse supina come ipotizzato dai giudici di merito. Anche con riferimento alla direzione di penetrazione del colpo la sentenza riporta come l'imputata abbia affermato di avere colpito a vittima al collo impugnando il coltello con la mano sinistra. Tale affermazione è costante nelle dichiarazioni rese in primo e secondo grado, mentre i giudici di merito affermano, senza alcun riscontro tecnico, che il colpo sarebbe comunque penetrato con direzione, rispetto alla posizione del ferito, da destra verso sinistra e non già, come accertato dalla dottoressa De. da sinistra verso destra. Si tratta di un chiaro travisamento della affermazione del medico legale, ma anche dell'imputata. Il consulente So. ha affermato che l'impugnatura a pugnale con la mano sinistra, in una situazione di notevole agitazione e con il corpo della vittima che si muoveva stando al di sopra dell'imputata, ben può essere compatibile con la penetrazione da sinistra verso destra: la Corte si limita a proporre la propria valutazione personale senza tenere conto dei pareri tecnico scientifici. Analogo travisamento del fatto e difetto di motivazione si riscontra con riguardo alla posizione di caduta della vittima verso la parte destra che, secondo i giudici, sarebbe indice della falsità della versione dell'imputata poiché, secondo la scienza personale dei giudici, sarebbe evidente che un colpo inferto verso destra determina la caduta del corpo nella stessa direzione. Quanto alle lesioni riscontrate sul mento dell'imputata, è pacifico per entrambi i medici legali dell'accusa e della difesa che non potevano essere coeve o di poco precedenti all'arresto, avvenuto a tre giorni di distanza dall'omicidio, sicché ciò toglie ogni precisione e attendibilità al teste So. che invece asserisce di non averle viste subito dopo il fatto. In sostanza, i giudici di merito traggono, dalla asserita non linearità della versione dell'imputata, conclusioni che non si conciliano con gli altri elementi. 2.3. Il terzo motivo denuncia la nullità della perizia biologica eseguita sulla corda perché è stato nominato perito colui che in precedenza aveva svolto le funzioni di consulente tecnico del pubblico ministero, nonché il vizio della motivazione con riguardo alla rilevanza delle tracce biologiche rinvenute sulla suddetta corda. Con l'atto di appello si era denunciata la violazione dell'art. 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., con riguardo al conferimento di incarico peritale a colui che aveva già svolto le funzioni di consulente del pubblico ministero, ma la sentenza si limita a dedurre la mancata ricusazione. Sotto altro profilo, come già si era denunciato nell'atto di appello, il perito non ha dato tempestivo avviso delle attività peritali sicché esse, anche sotto tale profilo, sono nulle: sul punto la sentenza è totalmente silente. D'altra parte, i risultati della perizia omettono di considerare, quanto al rinvenimento di scarse tracce riconducibili all'imputata, il fenomeno di contaminazione indubbiamente avvenuto sia a causa della presenza di capelli dell'imputata, sia dell'intervento dei soccorritori e della polizia giudiziaria che hanno maneggiato la corda sottoposta a perizia. 2.4. Il quarto motivo denuncia la violazione di legge, in riferimento all'art. 62, primo comma, n. 2, cod. pen., e il vizio della motivazione con riguardo alla ricostruzione degli accadimenti che ha erroneamente portato alla esclusione della attenuante della provocazione. La difesa aveva contestato che fosse necessaria, per configurare l'attenuante, la contiguità temporale tra azione e reazione, ravvisando piuttosto la provocazione per accumulo o sedimentazione in considerazione dei ripetuti maltrattamenti subiti dalla vittima fino alla fatale sera del (omissis). Del resto, è apodittica l'affermazione secondo la quale lai reazione sarebbe sproporzionata perché non tiene in considerazione le gravi percosse subite, che hanno determinato anche la caduta di alcuni denti, e la totale sottoposizione alle azioni violente del coniuge, di indole aggressiva, di corporatura notevolmente sovrastante e aduso all'abuso di alcol e stupefacenti. 2.5. Il quinto motivo denuncia la violazione di legge, in riferimento agli art. 88 e 89 cod. pen., e il vizio della motivazione con riguardo alla capacità di intendere e volere, anche sotto il profilo del travisamento del contenuto della consulenza tecnica di parte. La sentenza si è limitata a prendere in esame i comportamenti, ritenuti coerenti e lineari, posti in essere dalla donna dopo l'omicidio per escludere il vizio di mente, senza tenere in considerazione l'affermazione "Mi sono uccisa", palesemente dimostrativa di un profondo disorientamento, che la donna ha proferito quando è stata rinvenuta nell'appartamento ove si era rifugiata. Numerosi testi hanno riferito che l'imputata non era perfettamente lucida e appariva disorientata, mentre la consulenza di parte ha accertato una cronica intossicazione da alcol sulla base di parametri oggettivi che i giudici di merito non hanno preso in considerazione. Tale alterazione patologica costituisce elemento rilevante sotto il profilo del vizio parziale o totale di mente al momento del fatto. Il rigetto della richiesta di procedere a perizia è pertanto del tutto erroneo e immotivato. 2.6. I difensori dell'imputata hanno depositato motivi aggiunti con i quali denunciano: - 2.6.1. l'illegittimità costituzionale della esclusione del giudizio abbreviato per i casi di omicidio aggravato dal rapporto di coniugio, richiamando i principi enunciati dalla Corte costituzionale con sentenza n. 197 del 2023 e, in particolare, la irragionevolezza del divieto di bilanciamento della indicata circostanza aggravante, sicché "di fatto" la possibilità di concedere le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla detta circostanza aggravante esclude l'applicabilità dell'ergastolo e quindi consente il giudizio abbreviato anche per tale reato, mentre la disposizione processuale dell'articolo 438 cod. proc. pen. non consente l'accesso al rito; - 2.6.2. il vizio della motivazione con riguardo alla ricostruzione storica dei fatti dai quali deriva la applicabilità della circostanza attenuante dell'articolo 62 n. 2 cod. pen.: i giudici di merito hanno dato atto della condizione di vessazione ed esasperato avvilimento dovuta ai reiterati maltrattamenti nella quale si trovava l'imputata, senza però concedere la circostanza attenuante invocata, così omettendo di valutare tutti gli elementi del fatto storico. Del resto, i giudici di merito hanno contraddittoriamente basato la concessione delle circostanze attenuanti generiche proprio sulla esistenza di un collegamento tra le gravi condotte lesive e prevaricatorie subite dall'imputata e il reato commesso, così palesando l'esistenza di un collegamento causale tra le stesse che ha portato all'esplosione della violenza omicida in occasione dell'episodio verificatosi la notte dell'omicidio quando anche la madre dell'imputato è stata fatta oggetto di violenze e aggressioni; - 2.6.3. la violazione dell'articolo 62, n. 2 cod. pen. con riguardo alla sproporzione del trattamento sanzionatorio derivante dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'articolo 577, terzo comma, cod. pen. essendo quindi stato modificato il quadro normativo entro il quale il giudice di merito è chiamato a determinare il concreto trattamento sanzionatorio; - 2.6.4. la violazione dell'articolo 62-bis cod. pen. in relazione all'art. 649 cod. proc. pen. poiché i giudici di merito hanno concesso le circostanze attenuanti generiche soltanto nella misura di un sesto, facendo leva sul comportamento di abbandono posto in essere ai danni dell'anziana suocera, condotta per la quale l'imputata è stata tratta a giudizio sicché, oltre a non essere stata storicamente accertata una tale condotta, risulta valorizzata due volte ai danni dell'imputata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso, che presenta numerose doglianze inammissibili, è nel complesso infondato. 1.1. Non può farsi a meno di notare, a livello metodologico, che le due decisioni, in quanto totalmente conformi anche per quello che riguarda la minuziosa ricostruzione del fatto e la valutazione del tutto simmetrica delle prove, si integrano pienamente (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218) sicché, nell'esaminare i motivi di ricorso, che denunciano presunte omesse risposte ai motivi di appello, si farà ampio riferimento alle considerazioni espresse dal primo giudice e richiamate dal secondo a fronte di deduzioni meramente reiterative o puramente confutative e perciò non dotate di alcuna capacità critica, a maggior ragione perché non viene denunciato un effettivo travisamento della prova, unico vizio che, ove esistente e specificamente denunciato, consentirebbe al ricorrente di introdurre censure sulla ricostruzione del fatto e la valutazione delle prove (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758). 2. Il terzo motivo, che denuncia la nullità della perizia biologica, è inammissibile. 2.1. Va premesso che "l'incompatibilità del perito - cui non si estende la disciplina prevista per il giudice, posto che il perito non concorre nella formazione del provvedimento giurisdizionale - se costituisce titolo per la ricusazione non determina tuttavia la nullità degli atti compiuti" (Sez. 1, n. 35239 del 13/07/2007, Nunnari, Rv. 237593; in precedenza, Sez. 1, n. 825 del 02/11/1995 - dep. 1996, Marino, Rv. 203490, aveva chiarito che "anche per il perito l'eventuale incompatibilità non dà luogo ad alcuna causa di nullità degli atti compiuti, ma dà solo titolo alla presentazione di istanza di ricusazione"). Il richiamato principio di diritto, cui ha fatto correttamente riferimento il giudice di merito, consente di escludere che l'eventuale esistenza della causa di incompatibilità si riverberi sulla perizia che è, pertanto, pienamente utilizzabile. 2.1.1. Oltre a tale considerazione, va rilevato che la questione è stata tardivamente proposta, essendo nel frattempo intervenuta la sanatoria delle eventuali nullità prevista dall'art. 182 cod. proc. pen. Si è da tempo chiarito, con orientamento che va convintamente ribadito, che "dà luogo a nullità relativa la violazione delle disposizioni circa l'incompatibilità del perito nominato dal giudice, sicché le relative questioni non possono essere avanzate oltre i termini fissati dall'art. 182, comma 2, cod. proc. pen., secondo cui, quando la parte vi assiste, l'eccezione va proposta prima del compimento dell'atto al quale si riferisce la nullità ovvero, se ciò non è possibile, immediatamente dopo" (Sez. 1, n. 1101 del 27/10/2009 - dep. 2010, Blefari Melazzi, Rv. 245938). Orbene, l'eccezione non risulta proposta né al momento del compimento dell'atto, né immediatamente dopo, ma soltanto con l'atto di appello, cioè quando era già intervenuta la sanatoria prevista dall'art. 182, comma 2, cod. proc. pen. 2.2. È, del pari, tardiva, nonché sanata, la questione dell'eventuale omesso avviso della data di inizio delle operazioni peritali. La difesa non ha eccepito l'irregolarità delle operazioni, né durante, né dopo il compimento delle stesse, pur essendosi proceduto all'esame del perito nel contraddittorio delle parti. Soltanto con l'atto di appello è stata sollevata la questione in esame che, quindi, era manifestamente infondata, sicché la Corte di secondo grado non era affatto tenuta a darvi risposta. 2.3. Sono, infine, inammissibili, per genericità, le questioni sulla rilevanza delle tracce biologiche rilevate sulla corda. Il motivo di ricorso si limita a denunciare un vizio di motivazione, neppure compiutamente articolato, mentre si duole, in sostanza, del fatto che, sulla base delle non contestate conclusioni peritali che hanno rilevato sulla corda delle semplici tracce genetiche "da contatto" riferibili all'imputata, non sarebbe possibile escludere che una quantità maggiore di dette tracce, pur presente, sia stata asportata per contaminazione. Cioè, il ricorso contesta la valutazione del giudice perché non avrebbe ritenuto possibile, contrariamente all'evidenza peritale circa la presenza di poche tracce da contatto superficiale (conclusione che la difesa non contesta), che sulla corda potevano essere state presenti maggiori e più significative tracce biologiche dell'imputata - in tesi dimostrative del tentativo di impiccamento o strangolamento - che sarebbero andate disperse. Si tratta, all'evidenza, di una critica ipotetica che muove da un assunto (l'esistenza di "maggiori" tracce) non soltanto indimostrato, ma escluso dagli accertamenti tecnici. Piuttosto, come logicamente chiosano i giudici di merito senza ricevere una critica specifica, la presenza di "maggiori" tracce biologiche, indicative cioè dell'impiccamento, era l'oggetto della prova a sostegno della versione difensiva che è risultata, perciò, significativamente indebolita in quanto basata esclusivamente sulla dichiarazione dell'imputata, a sua volta smentita dagli accertamenti peritali e dalle tracce biologiche. Del resto, il ricorso omette di criticare l'ulteriore elemento, ritenuto decisivo e convergente con quello peritale prima esposto, circa l'assenza di tracce di impiccamento o strangolamento sul collo dell'imputata: di ciò si dirà più approfonditamente in seguito: dunque, il presunto impiccamento, non solo non ha lasciato tracce sulla corda, ma neppure sul collo della vittima. 3. Il secondo motivo di ricorso, che riguarda la ricostruzione del fatto, è inammissibile. È bene sottolineare che i motivi in esame non riguardano la materiale responsabilità per la condotta di accoltellamento, che l'imputata ammette, ma, piuttosto, l'esistenza della scriminante della difesa legittima e, in subordine, la circostanza attenuate della c.d. provocazione. Per conseguire l'indicato obiettivo, il ricorso, tuttavia, si dilunga, in modo non consentito, in deduzioni di fatto volte a fornire una diversa ricostruzione della condotta, riversando sulla vittima la responsabilità de proprio omicidio poiché derivante dalla necessità di autoconservazione dell'imputata, necessità che si poggia, però, su elementi di fatto platealmente insussistenti e contrastati dagli elementi di generica. D'altra parte, sotto l'usbergo della denuncia della violazione di legge con riferimento agli artt. 192 e 530 cod. proc. pen., denuncia che non è consentita (Sez. U n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027), il ricorso insiste nel prospettare le varie versioni difensive avanzate dell'imputata e dalla difesa tecnica. 3.1. Va premesso che le operazioni di verifica da compiersi in sede di legittimità in rapporto ai motivi di ricorso (e alla tipologia di atti istruttori oggetto di valutazione), al fine di riconoscere o meno il vizio argomentativo del provvedimento impugnato, possono essere così riassunte: - verifica circa la completezza e la globalità della valutazione operata in sede di merito, non essendo consentito operare irragionevoli parcellizzazioni del materiale indiziario raccolto (ex multis, Sez. 2, n. 9269 del 5/12/2012, Della Costa, Rv. 254871), né omettere la valutazione di elementi obiettivamente incidenti nella economia del giudizio (Sez. 4, n. 14732 del 1/03/2011, Molinario, Rv. 250133, nonché Sez. 1, n. 25117 del 14/07/2006, Stojanovic, Rv. 234167); - verifica circa l'assenza di evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica tali da compromettere passaggi essenziali del giudizio formulato (si veda in particolare la ricorrente affermazione della necessità di scongiurare la formulazione di giudizi meramente congetturali, basati cioè su dati ipotetici e non su massime di esperienza generalmente accettate, rinvenibile di recente in Sez. 6, n. 6582 del 13/11/2012, Cerrito, Rv. 254572, nonché in Sez. 2, n. 44048 del 13/10/2009, Cassarino, Rv. 245627); - verifica circa l'assenza di insormontabili contraddizioni interne tra i diversi momenti di articolazione del giudizio (c.d. contraddittorietà interna); - verifica circa la corretta attribuzione di significato dimostrativo agli elementi valorizzati nell'ambito del percorso seguito e circa l'assenza di incompatibilità di detto significato con specifici atti del procedimento indicati e allegati in sede di ricorso (travisamento della prova), laddove tali atti siano dotati di una autonoma e particolare forza esplicativa, tale da disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante (ex multis, Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Rv. 251516). Il giudice di legittimità è, quindi, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti specifici atti del processo. Tale controllo è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale esistenza della motivazione, sul correlato rispetto delle regole normative di giudizio e sulla permanenza - a fronte delle specifiche deduzioni - della resistenza logica del ragionamento del giudice. 3.1.1. Il rispetto del canone decisorio secondo il quale la colpevolezza dell'imputato deve risultare "al di là di ogni ragionevole dubbio" (art. 533 cod. proc. pen. come novellato dalla L. n. 46 del 2006) non introduce un'ulteriore tipologia di vizio, tale da consentire l'esame del merito, ma si pone come criterio generale alla stregua del quale valutare la consistenza logica (e dunque la tenuta dimostrativa) delle affermazioni probatorie contenute nella sentenza impugnata (sicché il mancato rispetto del criterio rifluisce come ipotesi particolare di apparenza di motivazione, secondo quanto affermato da Sez. 6, n. 8705 del 24/01/2013, Farre, Rv. 254113). Il dubbio, idoneo a determinare l'ingresso di una reale ipotesi alternativa di ricostruzione dei fatti tale da determinare una valutazione di inconsistenza dimostrativa della decisione, è solo quello "ragionevole" e cioè quello che trova conforto nella buona logica, non certo quello che la logica stessa consente di escludere o di superare. D'altra parte la riconoscibilità dell'errore logico - dunque la presa d'atto dell'esistenza del limite alla affermazione di responsabilità dell'imputato -impone un confronto con le emergenze processuali, nel senso che per convalidare sul piano logico l'affermazione di responsabilità è necessario che il dato probatorio acquisito sia tale da lasciar fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili come possibili, ma l'effettiva realizzazione delle quali nella fattispecie concreta risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della ordinaria razionalità umana (Sez. 1, n. 31456 del 21/05/2008, Franzoni, Rv. 240763; recentemente Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, Guernelli, Rv. 259204 che ha escluso che possa aver rilievo, a fini inibitori della pronunzia di sentenza di condanna, un'ipotesi alternativa del tutto congetturale, pur se in astratto plausibile). È necessario, perciò, procedere alla verifica, in rapporto al contenuto dei motivi di ricorso, del corretto utilizzo delle massime logiche e di esperienza indicate come tali dal giudice di merito per attribuire o negare valenza ai singoli dati indizianti (Sez. 6, n. 31706 del 7/03/2003, P.G. in proc. Abbate, Rv. 228401), o una pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque e pur minima plausibilità. 3.1.2. Quando le valutazioni compiute in sede di merito trovano fondamento in elementi probatori di natura indiziaria, la cui effettiva sussistenza e/o valenza viene contestata nei singoli motivi di ricorso, è necessario approfondire innanzitutto la natura e la valenza dell'indizio. Va, in proposito, ricordato che la prova del fatto è sempre fondata su un giudizio di correlazione tra un fatto principale (la proposizione fattuale contenuta nella ipotesi di accusa) e fatti secondari, capaci, in rapporto al loro contenuto informativo, di evidenziare un significato di corrispondenza al vero dell'enunciato introdotto nell'atto di accusa. La classificazione logica e giuridica degli elementi probatori tra prova storica (o diretta) e prova critica (o indiziaria) si muove esclusivamente sul piano della loro idoneità rappresentativa (dello specifico contenuto informativo) rispetto al fatto da provare. Tale partizione non riguarda la tipologia della fonte probatoria (un testimone può essere portatore quanto dell'una che dell'altra classe di elementi), bensì il rapporto esistente tra la capacità dimostrativa del singolo elemento considerato e il fatto da provare nella sua oggettiva materialità, così come descritto nella imputazione. È definibile quale prova critico-indiziaria, ogni contributo conoscitivo che, pur non rappresentando in via diretta il fatto da provare, consenta - sulla base di una operazione di raccordo logico tra più circostanze - di contribuire al suo disvelamento (dal fatto noto - l'indizio - si perviene alla conoscenza di quello ignoto). L'indizio, pertanto, ha una sua propria autonoma capacità rappresentativa che, tuttavia, per la sua parzialità - e per il rappresentare una circostanza diversa (pur se logicamente collegata) rispetto al fatto da prevare - , consente esclusivamente di attivare, nella mente del soggetto chiamato a operare la ricostruzione, un meccanismo di inferenza logica capace di condurre a un accettabile risultato di conoscenza di ciò che rileva ai fini del giudizio. È proprio in ragione di tale differenza di capacità dimostrativa, che la prova indiziaria è oggetto di una particolare cautela valutativa da parte del legislatore che richiede particolari caratteristiche degli elementi posti a base della suddetta inferenza (gravità, precisione, concordanza; art. 192, comma 2, cod. proc. pen.), il tutto nell'ambito di una doverosa valutazione unitaria e globale dei dati raccolti (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678: "poiché l'indizio è significativo di una pluralità, maggiore o minore dì fatti non noti - tra cui quello da provare -, nella valutazione di una molteplicità di indizi è necessaria una preventiva valutazione di indicatività di ciascuno di essi - sia pure di portata possibilistica e non univoca - sulla base di regole collaudate di esperienza e di criteri logici e scientifici, e successivamente ne è doveroso e logicamente imprescindibile un esame globale e unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio possa risolversi, perché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, sì che il limite della valenza di ognuno risulta superato e l'incidenza positiva probatoria viene esaltata nella valutazione unitaria, in modo da conferire al complesso indiziario pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto"). Il singolo indizio, inteso come dato con contenuto informativo tale da concorrere all'accrescimento della verità contenuta nell'ipotesi di partenza, va pertanto sottoposto a verifica al fine di individuarne il grado di persuasività (Sez. 1, n. 42750 del 9/11/2011, Livadia, Rv. 251502) fermo restando che non può pretendersi che il giudizio di gravità (ossia il peso dimostrativo in rapporto al fatto da provare) sia uguale per ogni singolo dato indiziante, essendo del tutto logica la concorrenza di elementi indizianti di maggiore o minore gravità, ferma restando la necessaria precisione (intesa come direzione tendenzialmente univoca del contenuto informativo) e concordanza (il che implica, almeno tendenzialmente, la pluralità dei dati sottoposti a valutazione, la convergenza dimostrativa e l'assenza di dati antagonisti). Il diverso "grado" di gravità del singolo indizio influisce sulla valutazione complessiva, nel senso che "in tema di prova indiziaria, il requisito della molteplicità, che consente una valutazione di concordanza, e quello della gravità sono tra loro collegati e si completano a vicenda, nel senso che, in presenza di indizi poco significativi, può assumere rilievo l'elevato numero degli stessi, quando una sola possibile è la ricostruzione comune a tutti, mentre, in presenza di indizi particolarmente gravi, può essere sufficiente un loro numero ridotto per il raggiungimento della prova del fatto" (Sez. 5, n. 16397 del 21/02/2014, P.G. in proc. Maggi, Rv. 259552). La prova indiziaria, proprio in rapporto alle sue caratteristiche ontologiche, non può offrire una rappresentazione del fatto sovrapponibile a quella di una prova diretta, poiché la dimostrazione è figlia di un raccordo logico tra il fatto secondario e il fatto da provare. La prova logica non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica) posto che, tra l'altro, la stessa prova storica, se da un lato ha il pregio di rappresentare il fatto in via diretta (si pensi alla narrazione del teste che abbia assistito all'azione delittuosa o una videoripresa del delitto), dall'altro annida in sé rischi di errore (falsità della deposizione, errore percettivo del teste, alterazione del dato tecnologico, ecc.) tali da determinare la necessità di un approccio critico. 3.2. Tanto premesso sul metodo che sarà utilizzato per scrutinare la sentenza impugnata con riguardo al quadro probatorio e indiziario alla luce delle doglianze difensive, è opportuno riportare una breve sintesi degli elementi di fatto posti a base dell'affermazione di responsabilità di Sc.El.: - ha accoltellato mortalmente il proprio coniuge, utilizzando un coltello che aveva occultato nei pressi del letto matrimoniale; il primo colpo mortale ha attinto la vittima sul lato sinistro del collo, recidendo la vena giugulare e parzialmente l'arteria carotidea, così da produrre un'immediata incapacitazione della vittima, resa di fatto inerme per il crollo della pressione sanguigna e la gravissima perdita ematica; il secondo e il terzo colpo, inferti quasi in continuità, hanno attinto l'addome, provocando ulteriori ingenti perdite ematiche, anch'esse mortali; è stato registrato un solo segno "di difesa" sul dito della mano destra, segno che la vittima è stata colta di sorpresa e sopraffatta in pochi istanti; - ha alterato la scena del delitto; - ha lasciato dei manoscritti nei quali, tra l'altro, dichiara di avere agito in prevenzione di future aggressioni da parte del coniuge; - non ha comunicato con nessuno e ha lasciato il proprio cellulare in casa; - si è allontanata di nascosto, abbandonando una anziana disabile, ferita, chiusa in casa; - ha venduto un monile d'oro per procurarsi denaro; - ha alterato le targhe del veicolo usato per fuggire; - si è tagliata i capelli per non essere riconosciuta; - ha inscenato un suicidio. 3.3. Ciò premesso, le critiche contenute nel ricorso saranno singolarmente esaminate tenendo però presente il metodo di verifica che, a differenza di ciò che usualmente accade, ha natura indiziaria soltanto per quello che riguarda l'esclusione della legittima difesa. In ragione della specifica articolazione dei motivi di ricorso, nell'ambito dei quali alcuni frammenti della complessa ricostruzione indiziaria sono stati affrontati e - in ottica difensiva - confutati, non potrà indulgersi nella prospettata rivisitazione dei singoli elementi perché, se da un lato, il ricorso sollecita la condivisibile proiezione del controllo sulle singole attribuzioni di significato probatorio ai dati indizianti, dall'altro lato conduce a compiere un'operazione che tende a frammentare la critica senza tener conto della necessaria valutazione globale e unitaria dei dati indizianti e della ridotta incidenza che l'eventuale "caduta" di un singolo indizio sulla complessiva tenuta del giudizio di attribuzione del fatto all'imputato. 3.4. D'altra parte, trovandosi in presenza di una "doppia conforme di condanna" è necessario che il ricorso, il quale deduca l'errata interpretazione degli elementi di prova, sia redatto in modo specifico nonché con completa e puntuale citazione degli elementi di prova che sarebbero stati erroneamente interpretati o travisati, mentre la critica sulla complessiva valutazione del quadro indiziario deve essere compiuta, come si è detto, secondo un approccio complessivo volto a far cadere l'unitaria tenuta dei vari elementi logici. 3.5. Sulla base degli elementi di fatto descritti nel paragrafo 3.2., che la difesa non contesta nella loro obiettiva esistenza, salvo proporre, per alcuni, una differente interpretazione o criticare, per altri, la rilevanza e convergenza, i giudici di merito hanno escluso l'esistenza della legittima difesa. È, in proposito, inammissibile la denuncia di travisamento della prova poiché sottopone alla Corte di legittimità l'esame diretto di alcune fotografie della scena del crimine allo scopo di svalutare la concorde valutazione effettuata dai giudici di merito. Quale che sia, infatti, la ricostruzione difensiva che si poggia sulla diversa valutazione delle immagini fotografiche delle macchie di sangue repertate sulla scena del crimine, essa non è consentita perché, lungi dal denunciare un effettivo travisamento della prova, si propone unicamente di valutare diversamente una porzione degli elementi dell'accusa. Gli elementi probatori posti a fondamento della responsabilità e, dunque, dell'esclusione dell'invocata scriminante, sono molteplici, mentre il ricorso li esamina in modo parziale e parcellizzato, fondamentalmente dando credito a una delle varie ricostruzioni fornite dall'imputata, senza confrontarsi con la motivazione dei giudici di merito. Anzitutto, il ricorso omette di esaminare in modo specifico la rilevata inattendibilità della versione dell'imputata la quale ha, in un primo momento, riferito di avere colpito il coniuge, che la sovrastava frontalmente, con il coltello impugnato dalla mano sinistra, cioè attingendo il lato destro del collo del marito, in palese contrasto con le risultanze anatomopatologiche (la ferita è presente sul lato sinistro del collo); in un secondo momento, l'imputata ha riferito di avere colpito il coniuge al collo sinistro con il coltello impugnato con la mano sinistra - evenienza logicamente giudicata impossibile per due corpi che si fronteggiano -, salvo poi fornire due ulteriori, diverse e inconciliabili versioni secondo le quali, presa cognizione delle conclusioni peritali che escludevano la seconda versione, la donna, nonostante l'uomo la sovrastasse e cercasse di strangolarla, sarebbe riuscita a passare l'arma dalla mano sinistra alla mano destra ovvero, secondo una ulteriore inconciliabile variante, il colpo sarebbe stato comunque inferto con la mano sinistra mentre l'uomo rovesciava il capo verso destra e all'indietro, così esponendo la giugulare e la carotide sinistre, effettivamente attinte dalla coltellata mortale. È sufficiente, come logicamente hanno evidenziato i giudici di merito, sottolineare la mutevolezza e intrinseca illogicità di tali asserzioni dell'imputata per concludere per la totale inattendibilità della dedotta difesa legittima; non rilevano, in proposito, le congetturali affermazioni dell'imputata secondo le quali il coltello era facilmente accessibile (quasi "in bella vista") e che la stessa lo ha impugnato con la sinistra, pur essendo destrimane, perché esso si trovava dal lato sinistro del letto sul quale si era coricata, in quanto contrastano con la logica e le risultanze tecniche (colpo al collo inferto, secondo la posizione del ferito riferita dall'imputata, da sinistra verso destra e, inoltre, con andamento trasversale, lievemente obliquo dall'alto verso il basso, quasi orizzontale "da davanti all'indietro") che descrivono, piuttosto, una lesione portata verso un corpo coricato sul fianco destro e sul lato destro del letto, cioè dando le spalle all'imputata che era coricata sul lato sinistro del letto. La genericità del ricorso si evince poi quando lo stesso omette di criticare specificamente le ulteriori considerazioni che i giudici di merito hanno tratto dalla rilevata presenza di due ulteriori coltellate mortali portate all'addome dell'uomo. I giudici di merito, senza palesi vizi logici, hanno affermato, in piena aderenza con le risultanze tecnico scientifiche, la inattendibilità della versione dell'imputata secondo la quale la vittima, dopo il primo colpo al collo, si sarebbe riversata verso sinistra, cioè stranamente nella direzione del colpo, per poi sovrastare nuovamente l'imputata che gli avrebbe sferrato gli ulteriori colpi mortali all'addome. Ebbene, il ricorso non contesta specificamente le conclusioni cui sono giunti i giudici di merito, sulla base dei convergenti elementi di prova, che hanno escluso la possibilità che la vittima, ferita al collo in modo mortale e esposta a un'imponente sanguinamento, sia prima caduta su un lato, del resto coincidente con quello dal quale sarebbe provenuta la prima coltellata, per poi rialzarsi nuovamente e sormontare l'imputata senza lasciare su quel lato del letto alcuna significativa traccia ematica. Non risulta, quindi, specificamente contestata la logica conclusione cui sono pervenuti i giudici di merito secondo la quale la vittima si trovava supina, verosimilmente addormentata, ed è stata aggredita a freddo e ripetutamente dall'imputata mediante il coltello diretto verso organi vitali e grandi vasi arteriosi. È stata, del resto, ritenuta del tutto illogica la versione dell'imputata secondo la quale il coltello si trovava sotto il letto, ovvero, secondo la prima versione, sotto il cuscino, poiché la vittima se ne sarebbe agevolmente accorta tanto da non offrirsi inerme all'aggressione omicida della moglie. Sotto altro profilo, il ricorso omette completamente di criticare quegli argomenti logici, tratti dal comportamento successivo alla commissione del delitto, che sono stati giudicati rafforzativi del quadro indiziario: l'imputata è rimasta per ore nell'abitazione, ha modificato lo stato dei luoghi, tentando di cancellare le tracce, si è data alla fuga, ha abbandonato a sé stessa - chiusa in casa - l'anziana madre della vittima affetta da demenza, ha venduto un monile d'oro per acquisire una disponibilità economica, ha contraffatto le targhe del veicolo utilizzato per allontanarsi indisturbata, ha abbandonato il proprio telefono cellulare, si è tagliata i capelli per rendersi irriconoscibile e si è rifugiata in una località distante diversi chilometri prendendo in locazione temporanea un appartamento, salvo poi simulare il suicidio. Parimenti smentita dalle risultanze tecniche e dalle testimonianze, che il ricorso tralascia di criticare in modo specifico salvo apoditticamente svalutarne la credibilità, è la tesi del tentativo di impiccamento o strangolamento che la vittima avrebbe posto in essere ai danni dell'imputata, perché non sono state repertate tracce biologiche significative sulla corda (che avrebbe dovuto essere impregnata di tessuto cutaneo dell'imputata), né lesioni cutanee da sfregamento o strozzamento sul collo dell'imputata (causate dal reiterato tentativo asseritamente posto in essere dalla vittima), mentre l'unico, marginale, segno rinvenuto sul mento è stato riportato, secondo la testimonianza oculare di un terzo disinteressato (teste So.), che la difesa si limita a tacciare di scarsa attendibilità, a un momento successivo (il giorno (omissis) esso non era visibile, mentre è apparso soltanto nei rilievi fotodattiloscopici del 10 ottobre). Del resto, come sottolineano i giudici di merito senza ricevere una critica specifica, è proprio il manoscritto dell'imputata che ammette l'omicidio in "prevenzione" di un eventuale impiccamento che, secondo la logica motivazione dei giudici di merito, non è mai avvenuto. Tali conclusioni sono, in effetti, conformi alla giurisprudenza di legittimità che, in un caso analogo, ha affermato che "l'attualità del pericolo richiesta per la configurabilità della scriminante della legittima difesa implica un effettivo, preciso contegno del soggetto antagonista, prodromico di una determinata offesa ingiusta, la quale si prospetti come concreta e imminente, così da rendere necessaria l'immediata reazione difensiva, sicché resta estranea all'area di applicazione della scriminante ogni ipotesi di difesa preventiva o anticipata" (Sez. 1, n. 48291 del 21/06/2018, Gasparini, Rv. 274534, fattispecie nella quale la Corte ha confermato la decisione dei giudici di merito che avevano ravvisato gli estremi del delitto di omicidio doloso nella condotta dell'imputata, la quale, sottoposta da tempo a gravi violenze fisiche e psicologiche da parte del marito, aveva inferto a quest'ultimo, mentre si trovava addormentato, numerose ferite mortali con un coltello, nel timore di subire ulteriori aggressioni che si sarebbero verificate al risveglio della vittima). I giudici di merito, senza ricevere una specifica critica, sottolineano inoltre che l'imputata ha, dopo l'omicidio, realizzato, così manifestando ulteriormente il dolo di omicidio, una vera e propria messa in scena, modificando lo stato dei luoghi per giustificare la tesi dell'aggressione, mentre sarebbe stato logico, qualora fosse stata effettivamente aggredita dal marito, richiedere l'immediato intervento delle forze di polizia piuttosto che darsi alla fuga, alterando il numero di targa e tagliandosi i capelli. 4. Chiarito, dunque, che l'omicidio è avvenuto "a freddo", i giudici di merito non hanno affatto escluso l'esistenza di una condizione di maltrattamento realizzata da Gi.St. ai danni dell'imputata, ma hanno precisato che questa si era manifestata, da ultimo, soltanto il giorno precedente, sicché è stata giudicata priva di nesso con l'omicidio. In proposito i giudici di merito hanno anche soggiunto, a confutazione della tesi da ultimo avanzata dalla difesa tecnica, che la supposta condotta violenta compiuta, il giorno del fatto, dalla vittima ai danni della propria madre non ha avuto rilevanza rispetto all'omicidio compiuto dall'imputata, perché è proprio l'imputata che esclude l'episodio ai danni della anziana donna nonché qualunque relazione tra esso e l'omicidio. 4.1. Quanto alla provocazione, l'art. 62, primo comma, n. 2), cod. pen. stabilisce che la pena per qualsiasi reato sia attenuata, qualora il colpevole abbia "agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui". Tale previsione si fonda sull'assunto della minore rimproverabilità di chi non agisca frigido pacatoque animo, bensì in un impeto d'ira che riduca le sue capacità di autocontrollo, ma solo a condizione che questo stato emotivo sia stato causato da un precedente "fatto ingiusto" compiuto dalla vittima stessa - anche in modo incolpevole. Il precedente fatto ingiusto della vittima, pur non giustificando di per sé la reazione in assenza di tutti gli estremi della legittima difesa, la rende tuttavia meno censurabile. Decisiva è, dunque, non soltanto l'intensità dell'emozione soggettivamente vissuta dall'autore, ma anche la ragione obiettiva (ovvero la "causa psicologica") di tale emozione. In proposito, la costante giurisprudenza richiede un rapporto di obiettiva adeguatezza tra fatto ingiusto e reazione (Sez. 1, n. 19150 del 16/02/2023, Baldini, Rv. 284549; Sez. 1, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894 -02), sì da poter escludere che il primo abbia costituito un mero pretesto per il compimento del reato, come accade ogni qualvolta la provocazione risulti del tutto incongrua rispetto all'entità della reazione (Sez. 5, n. 8945 del 19/01/2022, Mangano, Rv. 282823; nello stesso senso, Sez. 5, n. 604 del 14/11/2013 - dep. 2014, D'Ambrogi, Rv. 258678). Inoltre, la recente giurisprudenza di legittimità ritiene che il fatto ingiusto sia integrato non soltanto da una puntuale condotta dalla vittima che immediatamente preceda la reazione dell'autore del reato, ma anche da una serie di condotte prevaricatrici susseguitesi nel tempo che,, cumulativamente considerate, siano in grado di spiegare la reazione del provocato; e ciò anche quando il singolo episodio scatenante, isolatamente considerato, non possa essere ritenuto adeguato a spiegare l'entità della reazione (Sez. 1, n. 19150 del 16/02/2023, Baldini, Rv. 284549; nello stesso senso: Sez. 1, n. 28292 del 09/05/2017, Di Sero, Rv. 270272; Sez. 5, n. 51237 del 04/07/2014, Basile, Rv. 261728). Il che è di particolare rilievo nelle ipotesi di omicidio maturate in contesti domestici o comunque nell'ambito di relazioni affettive, allorché la causa dell'atto omicida è spesso da ricercarsi nella complessiva dinamica dei rapporti tra autore e vittima, piuttosto che nell'ultimo episodio che immediatamente scatena la sua reazione. In questi contesti, accade in effetti con una certa frequenza che l'atto omicida sia compiuto in occasione dell'ennesima condotta aggressiva della vittima, ovvero subito dopo di essa, in esito a una lunga storia di abusi e maltrattamenti; e che la reazione ecceda a quel punto i limiti della legittima difesa - vuoi per difetto di necessità o proporzione della condotta rispetto all'aggressione, vuoi perché la stessa aggressione si sia in quel momento già esaurita -, ma resti connotata da una minore gravità rispetto alla generalità degli omicidi volontari, in considerazione tra l'altro del turbamento emotivo provocato nell'agente dalle condotte prevaricatrici compiute, a suo danno, dalla vittima. Si è chiarito che "Ai fini della configurabilità della circostanza attenuante della provocazione, pur nella forma c.d. "per accumulo", si richiede la prova dell'esistenza di un fattore scatenante che giustifichi l'esplosione, in relazione ed in occasione di un ultimo episodio, pur apparentemente minore, della carica di dolore o sofferenza che si affermi sedimentata nel tempo, la cui esistenza è, tuttavia, da escludersi, pur in presenza di fatti apparentemente ingiusti della vittima, allorché la reazione appaia sotto ogni profilo eccessiva e talmente inadeguata rispetto all'ultimo episodio dal quale trae origine, da fare escludere la sussistenza di un nesso causale tra offesa, sia pure potenziata dall'accumulo, e reazione" (Sez. 1, n. 28292 del 09/05/2017, Di Sero, Rv. 270272). La giurisprudenza ha chiarito che "Ai fini della configurabilità dell'attenuante della provocazione occorrono: a) lo "stato d'ira", costituito da un'alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il "fatto ingiusto altrui"; b) il "fatto ingiusto altrui", che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell'ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell'imputato e alla sua sensibilità personale; c) un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra l'offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l'una e l'altra condotta" (Sez. 1, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894). In particolare, è stato chiarito che non si richiede la proporzione tra fatto ingiusto della vittima e reazione del reo, bensì, in conformità al dato testuale, di un rapporto di causalità psicologica, in altre parole che il fatto ingiusto sia stato causa dello stato d'ira e della conseguente reazione. A fronte della molteplicità delle spinte emotive all'azione, molteplicità che spesso è presente nell'animo di chi reagisce alla condotta altrui, si rende necessario assumere un criterio per distinguere i casi nei quali il fatto ingiusto altrui sia solo occasione o pretesto per l'azione violenta dai casi nei quali ii fatto ingiusto altrui sia stato effettivamente la causa dello stato d'ira e della reazione violenta. A tal fine, si è rilevato che la sussistenza di un rapporto di adeguatezza o proporzionalità tra fatto ingiusto e reazione è significativo indicatore di una relazione di causalità psicologica. Nell'ambito di tale interpretazione della norma si è poi aggiunta la considerazione che il "fatto ingiusto altrui", ai fini dell'art. 62 n. 2) cod. pen., può essere integrato anche da una realtà complessa, caratterizzata da pregresse condotte che hanno determinato l'insorgere di una forte contrapposizione personale vissuta con esasperazione e da una ulteriore condotta, direttamente scatenante il fatto-reato, anche non grave, ma tale, inserendosi nel contesto di esasperazione, da determinare uno stato d'ira e una condotta violenta. È stato, quindi, ritenuto che "Ai fini della configurabilità della circostanza attenuante della provocazione, pur nella forma c.d. per accumulo, si richiede la prova dell'esistenza di un fattore scatenante che giustifichi l'esplosione, in relazione ed in occasione di un ultimo episodio, pur apparentemente minore, della carica di dolore o sofferenza che si affermi sedimentata nel tempo" (Sez. 1, n. 4695 del 13/01/2011, Galati, Rv. 249558). Dunque, a fronte di un contesto di esasperata conflittualità, esitato in una grave condotta violenta, non è sufficiente verificare la relazione tra la condotta violenta e l'atteggiamento, immediatamente precedente, della vittima, ma è necessario leggere la rilevanza causale dell'ultima manifestazione della vittima nel contesto della conflittualità esistente con l'imputato per verificare se quell'ultima azione, magari in sé meno grave di altre, avesse avuto, nella percezione soggettiva del reo, una valenza potenziata da tutta conflittualità pregressa e quindi avesse fatto insorgere uno stato d'ira che ha mosso il reo alla reazione. Anche nella provocazione così detta per accumulo è necessario verificare se vi sia stata relazione di causalità psicologica tra fatto ingiusto della vittima e reazione, ma nella valutazione del fatto ingiusto l'ultima condotta non va isolata dal contesto nel quale si è verificata. 4.2. Orbene, la Corte di secondo grado, senza misconoscere la esistenza della categoria della ed. provocazione per accumulo, ne ha escluso gli estremi con una motivazione completa e logica, pienamente aderente ai dati di fatto acquisiti. È dato per pacifico che l'imputata venisse da tempo minacciata, picchiata, moralmente vessata e umiliata e anche gravemente ferita (avulsione dei denti). Almeno dal punto di vista psicologico, i manoscritti dell'imputata mettono in stretta correlazione i maltrattamenti subiti con l'azione omicida. Secondo i giudici di merito è però carente, per ritenere la sussistenza della circostanza attenuante, quel nesso materiale, quella "scintilla" che collega le condotte della vittima alla "reazione" dell'imputata: le ultime percosse e vessazioni risalivano al giorno precedente; la sera dell'omicidio, infatti, i coniugi erano usciti insieme per andare a bere e usare sostanze stupefacenti, facendo tranquillamente rientro in casa senza che, anche secondo la versione dell'imputata, vi sia stata qualunque manifestazione di violenza o minaccia da parte della vittima, una volta esclusa, per le ragioni dette, la veridicità della aggressione omicida per impiccagione. Nella ricostruzione dei fatti, che il ricorso non critica in modo specifico, manca il "detonatore" dell'azione omicida che, piuttosto, pare essere stato realizzato "in prevenzione", come l'imputata ammette candidamente nei propri scritti. La difesa tecnica ha, infine, introdotto una circostanza di fatto che avrebbe potuto, secondo la prospettazione, fungere da detonatore dell'omicidio: i maltrattamenti posti essere, la sera del fatto, dalla vittima ai danni dell'anziana madre. Tuttavia, tale evenienza è ipotetica e non trova neppure conforto nelle dichiarazioni dell'imputata che non ha mai narrato dì una tale episodio violento e, comunque, in nessuna occasione ha posto in relazione il rapporto madre-figlio con i maltrattamenti da essa subiti, ascrivendo al primo la funzione dì detonatore della propria azione violenta. La condizione di timore, che verosimilmente albergava nella mente dell'imputata a causa delle condotte del coniuge, è stata giudicata del tutto assente la notte dell'omicidio, quando la coppia si era intrattenuta normalmente (forse pure "festosamente", alla luce delle libagioni e dell'assunzione di stupefacenti) e si è ritirata nella propria camera da letto in tutta serenità. Manca, cioè, ad avviso dei giudici di merito l'elemento scatenante: di certo non costituito dall'ipotizzata aggressione della vittima ai danni dell'imputata, evenienza esclusa con giudizio di fatto criticato in modo generico; come pure qualunque altra condotta che, pur adombrata dalla difesa tecnica senza neppure prendere atto che anche l'imputata non offre alcun elemento in tale senso, psicologicamente idonea ad attivare una reazione per accumulo. 4.3. Sul punto, quindi, il ricorso non è idoneo a superare le logiche conclusioni cui sono giunti, con logica valutazione conforme, entrambi i giudici di merito con riguardo alla insussistenza della circostanza attenuante dell'art. 62, primo comma, n. 2, cod. pen. 5. Il quinto motivo di ricorso, sulla mancata effettuazione della perizia per accertare la capacità di intendere e volere dell'imputata, è inammissibile. 5.1. La richiesta, infatti, è stata giudicata meramente esplorativa a fronte di numerosi e convergenti elementi a favore della piena capacità di intendere e volere. 5.2. È, infatti, generica e, dunque, inammissibile la doglianza concernente il vizio della motivazione della sentenza impugnata che, sulla base delle dichiarazioni testimoniali dei soccorritori e delle complessive risultanze del comportamento lucidamente tenuto dall'imputata immediatamente dopo la commissione del fatto, ha escluso il dubbio della incapacità di intendere e volere. Il motivo di ricorso si limita a non convenire con tali argomentate valutazioni. 5.2. Sotto altro profilo, il motivo di ricorso non si confronta con la motivazione del provvedimento impugnato che ha dato atto che l'acquisizione documentale effettuata (Sez. 5, n. 12896 del 30/01/2020, Mauro, Rv. 279039) ha consentito unicamente di certificare un pregresso abuso di alcol e cocaina fin dall'autunno 2020, peraltro pacificamente risultante dalle prove acquisite, e non già una cronica intossicazione da consumo di tali sostanze che abbia determinato un'alterazione patologica permanente, in conformità al costante orientamento giurisprudenziale (Sez. 6, n. 25252 del 03/05/2018, B., Rv. 273389). Inoltre, il motivo di ricorso non si confronta specificamente con la concorde affermazione di entrambi i giudici di merito secondo la quale, anche secondo il consulente di parte, non è emersa una alterazione patologica permanente derivante dall'abuso di alcol e stupefacenti; il consulente della difesa sostiene, tuttavia, che l'imputata versava in una situazione di cronica intossicazione sulla base di alcuni parametri oggettivi, senza però concludere per l'alterazione permanente. Tale aspetto, come hanno correttamente sottolineato i giudici di merito senza ricevère una critica specifica, è semmai rilevante come aggravante, a norma degli articoli 92 e seguenti del codice penale. Orbene, se è irrilevante la questione proposta in merito alla condizione di dipendenza, che non è comunque ritenuta tale da poter influire in maniera determinante sulla capacità di intendere e volere, mancando il carattere di non eliminabilità e l'impossibilità di guarigione (Sez. 6, n. 25252 del 03/05/2018, B., Rv. 273389), la assenza di cronicità dell'intossicazione, perciò non rilevante ai sensi dell'articolo 95 cod. pen., è stata giudicata confortata anche dalia valutazione del consulente che si è limitato unicamente a segnalare la presenza di alcuni parametri indicativi di intossicazione. Il ricorso, in effetti, non critica in modo specifico la conclusione dei giudici di merito che escludono che sia stata realmente posta in dubbio la capacità di agire, capacità che risulta dimostrata dagli accertamenti ed esami compiuti nell'immediatezza nonché dal comportamento tenuto dell'imputata che è apparso organizzato, lucido e congruo, indipendentemente dalla veridicità di quanto dalla stessa affermato, con evidente finalità difensiva, in merito alla presunta aggressione subita. Dunque, l'esistenza della natura cronica dell'intossicazione è, come hanno logicamente esposto i giudici di merito, meramente ipotizzata sulla base di alcuni non decisivi parametri. Si è, infatti, chiarito che "in tema di imputabilità, sebbene l'accertamento della capacità di intendere e di volere di chi è affetto da intossicazione cronica da sostanze stupefacenti spetti al giudice indipendentemente da ogni onere probatorio a carico dell'imputato, grava, tuttavia, su quest'ultimo l'onere di allegazione della documentazione attestante la sua tossicodipendenza cronica" (Sez. 5, n. 12896 del 30/01/2020, Mauro, Rv. 279039) che, nel caso di specie, è stata giudicata insussistente. 6. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sviluppata al primo motivo e ripresa nei motivi nuovi. 6.1. Si è recentemente chiarito che "È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 577, comma primo, n. 1, cod. pen. in relazione agli artt. 3 e 27, commi 1 e 3, Cost., nella parte in cui è prevista la pena predeterminata dell'ergastolo, in quanto la scelta di politica criminale del legislatore non è irragionevole o arbitraria, rientrando nella sua discrezionalità la previsione della pena perpetua per l'omicidio del coniuge e il giudizio di grave disvalore della fattispecie astratta" (Sez. 1, n. 46333 del 12/05/2023, F., Rv. 285534 - 02). Del resto, la Corte costituzionale (sentenza n. 197 del 2023), nel dichiarare l'illegittimità costituzionale del terzo comma dell'articolo 577 nella parte in cui vieta al giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti di cui agli articoli 62, primo comma, numero 2, e 62-bis cod. pen., ha chiarito che proprio la diversa natura delle condotte omicida impone, attraverso il bilanciamento delle circostanze, un trattamento sanzionatorio personalizzato, fermo restando che tale evenienza non ha riflessi sul rito individuato dalla legge processuale poiché essa, in disparte la pena in concreto irrogata in forza del meccanismo circostanziale previsto dalla legge, prende a riferimento le fattispecie astratte che ricadono, in virtù del principio di certezza del diritto e di uguaglianza, sotto il regime sanzionatorio della pena perpetua. La richiamata pronuncia ha chiarito che la soluzione "naturale" è quella di lasciare che si riespandano, per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale, quei poteri dei quali dispongono normalmente, in forza della previsione generale di cui all'art. 69 cod. pen., le Corti d'Assise: al prudente apprezzamento delle quali - "tecnico" e "umano" allo stesso tempo - il legislatore del 2019 ha scelto di affidare la generalità dei procedimenti per gli omicidi astrattamente punibili con la pena dell'ergastolo). 6.2. Quanto anzitutto alle irragionevoli equiparazioni che sarebbero prodotte dalla disciplina censurata, la difesa si duole della previsione dell'unica e indifferenziata pena dell'ergastolo a fatti dei quali assumono il differente disvalore (le diverse ipotesi di omicidio aggravato, o i diversi delitti puniti con l'ergastolo): la preclusione dell'accesso al giudizio abbreviato - e la conseguente impossibilità di operare il relativo sconto di pena, in caso di condanna -costituisce, in effetti, null'altro che il riflesso processuale della previsione edittale della pena dell'ergastolo per quelle ipotesi criminose. Ma, se così è, le questioni di legittimità costituzionale avrebbero dovuto rivolgersi propriamente nei confronti della previsione, da parte del legislatore, della pena detentiva perpetua per il reato contestato nel procedimento - l'omicidio del coniuge non divorziato -, giacché è proprio da tale previsione che deriva l'asserita diseguaglianza di trattamento sanzionatorio rispetto a fatti che si assumono più gravi (un omicidio perpetrato nell'ambito delle attività di un'organizzazione criminale). La difesa non contesta, però, la ragionevolezza della scelta legislativa di comminare l'ergastolo per i titoli di reato per i quali sta procedendo. 6.3. Di talché resta da chiedersi se - rispetto a fatti tutti assunti come legittimamente punibili con la medesima pena dell'ergastolo - possa ritenersi produttiva di irragionevoli equiparazioni di trattamento una disciplina processuale che precluda, in via generale, l'accesso al giudizio abbreviato a tutti indistintamente gli imputati di tali reati. La Corte costituzionale (sentenza n. 220 del 2020) ha affermato che "La risposta non può che essere negativa: la comminatoria edittale dell'ergastolo - che è pena anche qualitativamente diversa dalla reclusione, in ragione del suo carattere potenzialmente perpetuo, come evidenzia non a caso l'autonoma considerazione della stessa nell'elenco delle pene principali di cui all'art. 17 cod. pen. - segnala infatti un giudizio di speciale disvalore della figura astratta del reato che il legislatore, sulla base di una valutazione discrezionale che non è qui oggetto di censure, ha ritenuto di formulare; speciale disvalore che sta per l'appunto alla base della scelta del legislatore del 2019 di precludere l'accesso al giudizio abbreviato a tutti gli imputati di tali delitti. Una tale scelta non può certo essere qualificata né in termini di manifesta irragionevolezza, né di arbitrarietà e si sottrae pertanto, sotto lo specifico profilo qui esaminato, alle censure dei rimettenti". Ciò premesso, il giudice delle leggi ha precisato che "appare logico che soltanto laddove, in esito al dibattimento, risulti in concreto non sussistente quell'aggravante, la cui inesatta contestazione abbia precluso all'imputato l'accesso al giudizio abbreviato, egli debba poter "recuperare" lo sconto di pena connesso al rito medesimo ai sensi dell'art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen.; e che tale "recupero" non possa operare, invece, nei confronti di chi risulti effettivamente avere compiuto l'omicidio aggravato che gli era stato contestato, sia pure in presenza di circostanze attenuanti, che ben potranno essere valorizzate dal giudice del dibattimento in sede di commisurazione della pena". L'imputazione formulata dal pubblico ministero è, infatti, oggetto di un primo vaglio da parte del giudice per le indagini preliminari, che - al termine dell'udienza preliminare - è tenuto a provvedere sulla richiesta originaria formulata dall'imputato, e comunque sull'eventuale riproposizione della domanda di giudizio abbreviato (art. 438, comma 6, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 1, comma 1, lettera b), della legge n. 33 del 2019), e ad ammetterlo al rito alternativo richiesto, qualora lo stesso giudice dia al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione, tale da rendere ammissibile il giudizio abbreviato (art. 429, comma 2-bis, cod. proc. pen.). Il già menzionato art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen. prevede, poi, il "recupero" in sede dibattimentale della riduzione di pena conseguente al giudizio abbreviato, allorché in esito al giudizio non sia risultato provato il fatto così come contestato dal pubblico ministero; e già nella fase preliminare del dibattimento si deve ritenere che sia ben possibile per la corte di assise ammettere l'imputato al giudizio abbreviato, allorché tale rito gli sia stato erroneamente negato dal giudice dell'udienza preliminare. La preclusione all'accesso al giudizio abbreviato dipende, dunque, soltanto nella fase iniziale dalla valutazione del pubblico ministero sull'oggetto della contestazione; ma tale valutazione è poi oggetto di puntuale vaglio da parte dei giudici che intervengono nelle fasi successive del processo, ed è sempre suscettibile di correzione, quanto meno nella forma del riconoscimento della riduzione di pena connessa alla scelta del rito, come accade rispetto a ogni altro rito alternativo; senza alcuna violazione, dunque, della presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27, secondo comma, Cost. Ciò rende evidente la manifesta infondatezza della questione, potendosi recuperare la diminuente per il rito, quando esso sia stato tempestivamente e reiteratamente richiesto, allorquando l'aggravante che determina la pena dell'ergastolo sia esclusa, risultando, invece, irrilevante che, come è accaduto nel caso di specie, si sia proceduto al giudizio di bilanciamento, peraltro in termini di prevalenza già prima della sentenza Corte cost. n. 197 del 2023, della circostanza aggravante con le circostanze attenuanti. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 28 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. CRISCUOLO Anna - Consigliere Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Relatrice Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Bu.Ba., nato il (Omissis) in A avverso l'ordinanza del 28/11/2023 del Tribunale di Catanzaro; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dalla Consigliera Paola Di Nicola Travaglini; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Se.Vi., che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza sopra indicata il Tribunale di Catanzaro, adito da Bu.Ba., indagato per il delitto di maltrattamenti ai danni della moglie, aggravati dalla presenza del figlio minorenne, commessi dal 2017 con condotta in atto, ha rigettato il riesame avverso la misura cautelare dell'allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla persona offesa di almeno 500 metri, applicata dal Giudice per le indagini preliminari di Pa. il 6 novembre 2023. 2. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso Bu.Ba.. con atto sottoscritto dal suo difensore, articolando due motivi. 2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all'art. 572, comma 2, cod. pen., per mancanza di prova che le condotte contestate fossero state commesse alla presenza del figlio minorenne, stante la mancata indicazione di quest'ultimo in ciascuno degli episodi descritti nella prima querela proposta dalla moglie, in data 22 luglio 2023, come ulteriormente comprovato: a) dalle dichiarazioni rese sia dalla persona offesa che dalla sorella; b) dai 7 files audio delle conversazioni intercorse tra i coniugi in cui non si sente mai la voce del bambino; c) dai messaggi whatsapp e dalle telefonate depositate nella seconda denuncia del 20 ottobre 2023; d) dalle testimonianze e dagli accertamenti delle forze dell'ordine. 2.2. Vizio di motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari alla luce della volontà del ricorrente di addivenire ad una separazione legale con la moglie, come attestato dalla missiva in data 8 novembre 2023; dalle reciproche rimessioni di querela dell'agosto 2023, dopo che era stata la persona offesa a chiedere al ricorrente di tornare a casa per vivere tutti insieme, come risulta dai messaggi; dall'attuale domicilio di Bu.Ba. a C, distante 40 km. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza e genericità. 2. Il Tribunale del riesame ha fondato la gravità indiziaria del delitto di maltrattamenti, aggravati dalla presenza del figlio minorenne, ricostruendo in modo dettagliato i maltrattamenti di Bu.Ba. ai danni della moglie, articolatisi nell'arco di anni (dal 2017, con condotta perdurante), in base alle plurime querele di questa, confermate dalle dichiarazioni delle persone informate sui fatti, tutte univocamente convergenti nel dimostrare che l'uomo avesse imposto alla donna un rapporto sopraffattorio, alla presenza del figlio, con violenze fisiche e verbali, espresse con epiteti denigratori e sessisti, oltre che con il divieto alla moglie di lavorare, di uscire, anche con il bambino, sino al tentare di strangolarla quando vi si era opposta. L'ordinario registro relazionale del ricorrente era quello di non riconoscere alla donna alcuna autonomia e di "punirla" quando non soggiaceva ai suoi voleri, tanto da rendere priva di rilievo la richiesta difensiva di individuare singoli episodi, peraltro limitati a quelli di natura fisica, a cui il figlio della coppia avesse assistito atteso che, da sempre, questi era stato costretto a subire la violenza, soprattutto psicologica e verbale, del padre sulla madre. Il provvedimento impugnato ha fatto, dunque, corretta applicazione dell'art. 572 cod. pen. in ordine alla c.d. violenza assistita che, in attuazione delle fonti sovranazionali (artt. 22 e 46 della Convenzione di Istanbul; art. 22, comma 4, della Direttiva 2012/29/UE), punisce la sofferenza patita dal minorenne sotto due profili: direttamente, per il solo fatto di essere presente (art. 572, secondo ed ultimo comma, cod. pen.), e indirettamente, per la percepita afflizione cui è soggetta la propria madre (Sez. 6, n. 8323 del 9/02/2021, Rv. n. 281051). Infatti, la ratio della norma penale si correla all'esigenza di elevare la soglia di protezione di soggetti che, proprio per l'età in cui si trovano, risultano più vulnerati dai riflessi dell'azione aggressiva cui assistono, specie se di un genitore sull'altro (Sez. 3, n.21024 del 28/04/2022, Rv. n. 283204), con la chiara intenzione di rafforzarne anche il ruolo processuale. A fronte di questo contesto normativo, il ricorso tenta un'interpretazione che non colloca nel dovuto contesto la violenza domestica e la violenza assistita, riducendole alle sole aggressioni fisiche, nonostante dal provvedimento impugnato risulti che il ricorrente imponesse una ordinaria e quotidiana modalità discriminatoria nei confronti della moglie, e dunque, vista dal punto di vista del bambino, del padre nei confronti della madre. Lo screditamento, le umiliazioni e la limitazione della libertà della donna, che costituiscono forme di vera e propria violenza psicologica perpetrate davanti al figlio minorenne, non sono state in alcun modo prese in esame dalle censure, limitatesi a singoli episodi più eclatanti, nonostante costituisca ormai un dato acquisito, anche grazie agli esiti degli studi scientifici sul tema, che vivere con un padre che consumi dinamiche di maltrattamento, anche soltanto morale, ai danni della madre produce effetti negativi e devastanti sia sullo sviluppo psichico del minorenne sia sul suo processo di sana ed equilibrata crescita (Sez. 5, n. 74 del 20/11/2020, Rv. 280141; Sez. 6, n. 16583 del 28/03/2019, Rv. 275725) perché, da un lato, lo porta ad interiorizzare e normalizzare modelli diseducativi paterni e, dall'altro, a svalutare la figura materna. 3. In ordine alle esigenze cautelari, al di là dell'improprio richiamo del provvedimento alle "pulsioni aggressive" e alla "gelosia" di Bu.Ba.. anziché al fondamento discriminatorio che muove la violenza domestica, indicato dal Preambolo della Convenzione di Istanbul, non assumono rilievo né la separazione, né le condotte della persona offesa (rimessioni di querela e richiesta di riappacificazioni). 3.1. Di immediata evidenza il salto logico-giuridico dell'assunto difensivo che censura il provvedimento perché fonda correttamente la valutazione di adeguatezza della misura cautelare sul comportamento dell'indagato, sulla sua personalità, sulla gravità del fatto e sul rischio di reiterazione (Sez. 3, n. 209 del 17/09/2020, Rv. 281047), come richiesto dall'art. 274 cod. proc. pen., anziché sulle condotte di chi, da questa misura, deve essere protetta e che, nella specie, si trova oggettivamente e soggettivamente in condizione di particolare vulnerabilità proprio a causa sia della separazione in atto, osteggiata con minacce di morte del ricorrente - come risulta dal capo di incolpazione -; sia della presenza di un figlio piccolo e delle remissioni di querela. Infatti, il ricorso non considera che la finalità della misura cautelare è quella di evitare il concreto e attuale pericolo della reiterazione del delitto e nell'accertare che esso esista, l'Autorità giudiziaria non si affida alle condotte della vittima (Sez. 6, n. 46797 del 18/10/2023, Rv. 285542), spesso soggetta a pressioni, ma è obbligata a operare una corretta valutazione dei rischi di letalità, di gravità della situazione, di ripetizione dei comportamenti violenti, come sancito dall'art. 51 della Convenzione (Gestione dei rischi), esaminando esclusivamente i comportamenti dell'autore affinché non prosegua gli illeciti (Corte EDU sentenza Talpis contro Italia del 2 marzo 2017; I.M. e altri contro Italia del 10 novembre 2022; Landi contro Italia del 7 aprile 2022; M.S. contro Italia del 7 luglio 2022; De Giorgi contro Italia del 16 luglio 2022). 3.2. Peraltro, costituisce un elemento di particolare rilievo ai fini cautelari, risultante nel caso di specie, fatto proprio dalle Convenzioni internazionali, che la violenza domestica tra coniugi, fondata su motivi di genere e discriminatori, continui e si aggravi proprio con la scelta della donna di separarsi e non per motivi affettivi, ma perché costituisce un atto di affermazione di autonomia e libertà, negate nella relazione di coppia, soprattutto se si condivide un rapporto genitoriale. Infatti, in situazioni di pregressa violenza domestica, sono proprio i figli a costituire per l'agente l'occasione o lo strumento per proseguire i maltrattamenti ai danni della persona offesa (Sez. 6, n. 11723 del 22/02/2024, L., non mass; Sez. 6, n. 46797 del 18/10/2023, T., Rv. 285542). 3.3. Anche la circostanza che l'attuale domicilio di Bu.Ba. sia a distanza di 40 km dalla moglie, non basta a ridimensionare la pericolosità del ricorrente non solo perché la misura non ha il presidio del braccialetto elettronico, ma anche perché essa è stata disposta per un delitto che vede anche il figlio minorenne persona offesa e lo stesso Bu.Ba. si è mostrato del tutto indifferente alla precedente denuncia della persona offesa visto che ha continuato a reiterare gravissime violenze ai suoi danni (pag. 6 del provvedimento). 4. Alla stregua di tali argomenti il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente va condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento e al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo fissare nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 28 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. SARNO Giulio -Presidente Dott. PAZIENZA Vittorio - Consigliere Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. MACRÌ Ubalda - Consigliere Dott. ZUNICA Fabio - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Be.Pa., nato a R il (omissis); avverso la sentenza del 22-03-2023 della Corte di appello di Roma; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Fabio Zunica; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Domenico A.R. Seccia, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'avvocato Gl.Te., difensore di fiducia della parte civile, che ha chiesto di rigettare o di dichiarare inammissibile il ricorso e ha depositato conclusioni scritte e nota spese; udito l'avvocato Ni.Br., difensore di fiducia dell'imputato, che ha insistito nell'accoglimento del ricorso e dei motivi nuovi. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 25 ottobre 2021, il Tribunale di Roma condannava Be.Pa. alla pena di 7 anni di reclusione, in quanto ritenuto colpevole dei reati, unificati dal vincolo della continuazione, di cui agli art. 572 cod. pen. (capo A, commesso in danno della moglie Si.Mi. e della figlia minore Be.An. in epoca compresa tra il 2003 e il 28 maggio 2017), art. 582-585 cod. pen. (capo C, commesso in danno della moglie in data 26 gennaio 2014) e 609-bis, 609-ter comma 1 n. 5-quater cod. pen. (capo D, commesso sempre in danno della moglie in epoca compresa tra il 2014 e il 2017), mentre interveniva declaratoria di estinzione per prescrizione in ordine a un ulteriore episodio di lesioni personali (capo B, commesso in danno della moglie il 31 gennaio 2010). Be.Pa. veniva altresì condannato al risarcimento del danno, da liquidare in separata sede, nei confronti della parte civile Si.Mi., in proprio e nella qualità di esercente la responsabilità genitoriale sulla minore Be.An., essendo stata riconosciuta in favore della medesima parte civile una provvisionale dell'importo di 10.000 euro. Con sentenza del 22 marzo 2023, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado: assolveva l'imputato dal reato di maltrattamenti in famiglia di cui al capo A, limitatamente ai fatti commessi in danno della figlia, perché il fatto non sussiste, dichiarava non doversi procedere in ordine all'episodio di lesioni personali contestato al capo C, perché estinto per prescrizione e, per l'effetto, rideterminava la pena a carico dell'imputato in anni 5 e mesi 11 di reclusione, confermando nel resto la decisione del Tribunale. 2. Avverso la sentenza della Corte di appello capitolina, Be.Pa., tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tredici motivi. Con il primo, la difesa contesta la formulazione del giudizio di colpevolezza dell'imputato in ordine al reato di violenza sessuale, censurando la valutazione di attendibilità della persona offesa, non avendo i giudici di merito tenuto conto delle incongruenze del racconto della Si.Mi., la quale, a differenza di quanto affermato nella sentenza impugnata, non ha affatto riferito in dettaglio di molteplici episodi di violenza sessuale, essendosi limitata a descriverne solo due, quello in cantina e quello a Linosa, senza mai dire peraltro che il marito la malmenava prima di compiere gli abusi sessuali, per cui è illogica l'affermazione secondo cui la mancata reazione della donna era frutto del timore di ripercussioni fisiche; analogo vizio di motivazione sarebbe inoltre ravvisabile anche in ordine alla valutazione delle dichiarazioni della teste dottoressa Av., la quale, pur riferendo di incontrarsi con la Si.Mi. tutte le settimane, ha precisato di non aver mai visto lividi o segni sul corpo o sul viso della persona offesa, non essendo in grado di riferire neanche come di manifestavano le coercizioni sessuali, poiché la Si.Mi. in merito "non le diceva tantissimo" e "non entrava nello specifico". Con il secondo motivo, la difesa deduce il vizio di motivazione, la violazione della regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio e l'inosservanza dell'art. 609-bis cod. pen. rispetto alla ricostruzione dei due episodi di violenza sessuale riferiti dalla persona offesa; circa quello che sarebbe accaduto nell'agosto 2016 sull'isola di Linosa, si evidenzia che sia il Tribunale che la Corte di appello non hanno spiegato in che modo la violenza sessuale si sarebbe verificata; sarebbero state inoltre ignorate sul punto, sebbene confermate dalla documentazione proveniente dall'Ufficio Marittimo di Lampedusa e dalla compagnia marittima Liberty Lines, le dichiarazioni rese dall'imputato, secondo cui la moglie è partita qualche giorno prima da Linosa non perché violentata dal marito, ma solo perché temeva che, causa maltempo, le linee di navigazione tra Linosa e Lampedusa venissero annullate nel giorno della partenza del volo già prenotato da tempo. L'attendibilità della persona offesa sarebbe in ogni caso fortemente minata dalle fotografie certificate dal dr. Fi. (e riprodotte nel ricorso) riguardanti la vacanza fatta dai coniugi Be. in Grecia a fine agosto 2016, pochi giorni dopo la vacanza a Linosa dove sarebbe avvenuto l'abuso sessuale, fotografie che ritraggono la persona offesa serena e i coniugi in atteggiamenti molto affettuosi. Rispetto all'episodio di Linosa, inoltre, la difesa lamenta il mancato accoglimento da parte della Corte di appello della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale mediante l'escussione del teste Di.Si., gestore del centro diving di Lampedusa, e l'acquisizione presso la Compagnia Vueling Airlines della prenotazione del volo di rientro da Lampedusa a Roma della persona offesa e della piccola Be.An., potendo tali prove aiutare a comprendere l'effettiva ragione per cui la persona offesa si era allontanata da Linosa alcuni giorni prima, nonché lo stato fisico e comportamentale della donna in quei giorni. Quanto all'episodio che si sarebbe verificato nella cantina dell'abitazione coniugale nel marzo/aprile 2016, si osserva che non è stato descritto nella sentenza impugnata, né invero nell'imputazione, in che modo l'imputato avrebbe costretto la persona offesa a seguirlo in cantina e a compiere un rapporto orale che, peraltro, necessita di una piena partecipazione della persona offesa. Con il terzo motivo, oggetto di doglianza è il vizio di motivazione della sentenza impugnata rispetto all'assenza di consenso della persona offesa, non essendosi considerato, da un lato, che imputato e persona offesa erano marito e moglie, per cui è inverosimile che si scambiassero ogni volta il consenso all'atto sessuale, e, d'altro, che, nella fonia del 30 giugno 2017, la cui valutazione è stata omessa dai giudici di merito, la Si.Mi., parlando con Be.Pa., afferma: "tu mi hai chiesto di essere più femmina e io lo sono stata", affermazione che si pone come un chiaro ostacolo alla tesi secondo cui la donna non fosse consenziente rispetto al compimento dei rapporti sessuali con il marito, dovendosi ritenere che nel caso di specie vi fosse da parte della denunciante più che un'assenza di consenso, un'assenza di desiderio, elemento quest'ultimo non rientrante nel perimetro applicativo della fattispecie di cui all'art. 609-bis cod. pen. Con il quarto motivo, è stata eccepita la violazione degli art. 516-522 cod. proc. pen. e la conseguente nullità della sentenza impugnata, nella parte in cui ha riconosciuto la penale responsabilità dell'imputato con riferimento alle violenze sessuali definite "passive", atteso che tali condotte non mai state oggetto di imputazione, non essendo stato del resto specificato quando sarebbero iniziale le modalità violente degli abusi descritti nella contestazione. Il quinto motivo, molto articolato, è dedicato al reato di maltrattamenti in famiglia, censurandosi il vizio di motivazione rispetto ai rilievi difensivi con cui era stata rimarcata l'inattendibilità della persona offesa, partendo dal presupposto che nessun testimone, anche tra le persone a lei più vicine, come la madre, la collega di lavoro, l'amica storica o la psicologa, ha mai visto un livido o anche un solo graffio sul corpo della donna, essendo del resto presenti in atti solo due certificati medici, peraltro di epoca remota, nell'ambito di una contestazione di circa 15 anni. A proposito di uno dei due certificati, quello relativo alla distorsione della caviglia avvenuta nel 2014, la Corte non ha dato risposta alle doglianze difensive con cui si è evidenziato che nessun testimone ha visto la persona offesa zoppicare, non comprendendosi il motivo per cui la Si.Mi. abbia scelto di farsi refertare al Pronto Soccorso di un ospedale distante 15 km dalla sua abitazione, anziché da uno più vicino, così come non si comprende il motivo per cui Be.Pa., dopo averla raggiunta, non l'avesse poi picchiata. Quanto alla lesione al timpano del 31 ottobre 2010, si osserva che la Corte di appello ha del tutto ignorato la deposizione del dott. Co., il quale ha dimostrato che quella lesione non era così grave come la persona offesa lasciava intendere e che la stessa poteva essere stata causata da un evento traumatico non violento, a ciò aggiungendosi che la sentenza impugnata ha eluso l'obiezione difensiva circa l'utilizzo del palloncino Otovent travisando la prova, nel senso che non corrisponde al vero che la Si.Mi. ha utilizzato tale strumento, pacificamente incompatibile con una lesione timpanica dovuta a cause violente, dopo essere guarita, avendo la denunciante riferito di averlo usato sin da subito per fare ginnastica timpanica per fare le immersioni subacquee in agosto in Polinesia. Con il sesto motivo, il ricorrente censura, rispetto alla valutazione di attendibilità della persona, l'inversione del canone probatorio, nel senso che i testimoni sono stati ritenuti utili non ad apportare elementi conoscitivi sulla res iudicanda, ma a non confutare l'ipotesi accusatoria, dovendosi rilevare che le testi Ba.Ma., De.Cl. e Ma.Fr., rispettivamente madre, amica e collega di lavoro della persona offesa, hanno riferito solo irrilevanti valutazioni personali, avendo appreso dei fatti dopo la presentazione delle denunce, non essendo state le confidenze coeve alle condotte contestate. Con il settimo motivo, la difesa si duole della mancanza di motivazione della sentenza impugnata sui motivi di appello riguardanti l'inattendibilità della persona offesa alla luce delle smentite delle sue dichiarazioni effettuate dai testimoni: in particolare, non si è tenuto conto che la dottoressa Av. ha riferito che nel 2011 la Si.Mi. e il marito stavano bene, tanto è vero che hanno deciso di avere un figlio e che vi è stata serenità anche dopo la nascita della figlia, non avendo inoltre la psicologa mai visto segni sul corpo e sul viso della denunciante, sebbene si vedessero almeno una volta a settimana; allo stesso modo, anche il teste Sa.An., operaio, ha smentito le dichiarazioni della persona offesa, secondo cui ella non sarebbe stata d'accordo con l'esecuzione dei lavori edili nella casa coniugale, avendo il teste riferito che la donna non è stata mai insultata dal marito e anzi era pienamente coinvolta nei lavori di ristrutturazione, tanto è vero che le dava le direttive, come risulta dai messaggi vocali acquisiti. Ulteriori elementi di smentita del racconto della persona offesa sarebbero inoltre ravvisabili nelle dichiarazioni del dott. Al., psichiatra che ha avuto in cura Be.Pa. per 14 anni, il quale, contrariamente a quanto riferito dalla Si.Mi., ha escluso di essere stato chiamato da costei, perché preoccupata dagli atteggiamenti violenti dell'imputato e ha precisato che costei ogni tanto lo chiamava per sapere della terapia, ma senza mai dirle che il marito era violento. Con l'ottavo motivo, è stato eccepito il travisamento della perizia psichiatrica e delle relazioni tecniche, per avere la Corte di appello ritenuto, contrariamente a tali prove, che l'imputato fosse affetto da un disturbo della personalità compatibile con gli addebiti; si sottolinea in proposito che, a differenza di quanto sostenuto nella sentenza impugnata, il perito dott. Be. ha evidenziato che i comportamenti di cui Be.Pa. è accusato non sono minimamente correlagli alla sua situazione clinica e che anzi i tratti del suo disturbo di adattamento non hanno neppure condotto a una grave compromissione funzionale della sua vita. Piuttosto, secondo il perito, lo stato ansioso depressivo riscontrato nel ricorrente è correlato non tanto alla sua situazione clinica, quanto piuttosto alla vicenda giudiziaria che sta subendo in quanto la ritiene ingiusta e infamante. Peraltro, sia il dott. Al. che la dott.ssa Ca. hanno escluso che Be.Pa. avesse forme di aggressività fisica nei confronti della moglie, ma al più esclusivamente verbali, essendo state tali dichiarazioni ignorate dalla Corte di appello. Con il nono motivo, si contesta il giudizio sulla sussistenza del requisito della abitualità rispetto al reato di maltrattamenti in famiglia, rilevandosi che la Corte di appello ha omesso di motivare rispetto alle censure difensive, con cui era stata rimarcata l'assenza di una cornice unitaria abituale di condotte vessatorie e l'interruzione dell'abitualità negli anni antecedenti al 2012 o quantomeno al 2010, eccependosi inoltre il travisamento delle dichiarazioni della persona offesa, la quale non ha mai detto di aver interrotto nel 2012 la terapia con la dottoressa Av. soprattutto per dedicarsi alla figlia e agli innumerevoli impegni di lavoro, non avendo la Si.Mi. mai spiegato le ragioni per cui interruppe la terapia, fermo restando che tale circostanza è del tutto irrilevante, posto che ciò che rileva è la cessazione della condotta e non il motivo per cui la persona offesa non è più andata dallo psicologo, dovendosi rimarcare che almeno dal 2006 al 31 gennaio 2010 era cessata l'abitualità del reato e che vi sono stati al più 13 episodi in 14 anni, di cui solo due refertati, incidendo ciò sul requisito dell'abitualità. Con il decimo motivo, si censura il rigetto di applicazione dell'indulto di cui alla legge n. 241 del 2006, osservandosi che la persona offesa ha riferito di essere stata costretta nel 2006 a lasciare casa a seguito di una discussione con Be.Pa. per rifugiarsi in un albergo, non essendo avvenuti altri episodi rilevanti fino al 2010, per cui, per il principio del favor rei, il fatto descritto nel 2006 doveva essere collocato prima del 2 maggio, con conseguente applicazione dell'indulto per le condotte maltrattanti la cui abitualità è cessata nel 2006, mentre i fatti relativi al 2010 dovevano dar luogo a un distinto reato. Con l'undicesimo motivo, le critiche difensive investono la violazione dell'art. 61 n. 11-quinquies cod. pen., censurandosi il giudizio sulla sussistenza della aggravante dell'avere Be.Pa. commesso i fatti in presenza della figlia minore, pur assolvendo l'imputato dal reato di maltrattamenti in danno della minore. Si sottolinea al riguardo che il dibattimento non ha chiarito se la figlia Be.An. sia mai stata effettivamente presente quando si verificavano le condotte maltrattanti, avendo anzi la dottoressa Av. escluso tale circostanza. A ciò si aggiunge che la Corte di appello è incorsa in un travisamento probatorio nel ritenere che la persona offesa abbia riferito che la figlia fosse presente agli atteggiamenti violenti del padre, non essendo stato spiegato a quali atteggiamenti ci si riferisca, se a quelli fisici o verbali o a entrambi, precisandosi al riguardo che la aggravante in questione non può configurarsi con riferimento agli episodi di maltrattamento verbale, posto che l'art. 61 n. 11-quinquies cod. pen. fa riferimento ai soli reati che ledono la vita e l'incolumità individuale e contro la libertà personale, non ledendo i predetti beni giuridici le aggressioni verbali. Il dodicesimo motivo è dedicato al difetto di motivazione della sentenza impugnata rispetto allo specifico motivo, l'ottavo dell'atto di appello, concernente la prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravanti e sull'entità degli aumenti per la continuazione. Con il tredicesimo motivo, è stata eccepita la violazione dell'art. 597, commi 1 e 3 cod. proc. pen., per avere la Corte di appello riformato in peius, senza fornire alcuna motivazione, la provvisionale per il risarcimento del danno in assenza di impugnazione della parte civile e nonostante l'assoluzione dal capo A limitatamente ai fatti commessi in danno della minore Be.An. e la conseguente esclusione dell'aggravante ex art. 61 n. 11-quinquies cod. pen. 2.1. In data 11 gennaio 2024, il difensore dell'imputato ha trasmesso tre motivi nuovi. Con il primo, ci si duole del vizio di motivazione rispetto ai riscontri estrinseci alle dichiarazioni della parte civile, all'omessa valutazione degli elementi distonici in ordine al narrato della persona offesa e al mancato accertamento della coerenza delle dichiarazioni della vittima rispetto a tali elementi. Con il secondo motivo nuovo, si ribadisce la debolezza del riscontro relativo alla testimonianza della dottoressa Av., per nulla convergente con quella della vittima, e si censura di nuovo il difetto di valutazione della fonia del 30 giugno 2017, il cui contenuto sarebbe in contrasto con l'ipotesi di violenza sessuale. Con il terzo motivo nuovo, sono stati eccepiti il vizio di motivazione e la violazione degli art. 603, comma 2, 190 e 495 cod. proc. pen., nonché 6 della C.E.D.U, in relazione al rigetto della richiesta di assunzione di nuove prove che avrebbero consentito una diversa pronuncia di merito, almeno per quanto riguarda la vicenda che si sarebbe consumata sull'isola di Linosa. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile, perché manifestamente infondato. 1. Ritiene il Collegio che il primo, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto, il settimo, l'ottavo e il nono motivo del ricorso principale, nonché i tre motivi nuovi, vadano trattati unitariamente, sia perché tra loro sovrapponibili, in quanto tutti in vario modo riferiti al tema della valutazione delle prove e in particolare dell'attendibilità della persona offesa, sia perché accomunati dalla loro tendenza a sollecitare differenti apprezzamenti di merito, che tuttavia esulano dal perimetro del giudizio di legittimità. Al riguardo deve infatti richiamarsi la consolidata affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601 e Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482) secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, a fronte di un apparato argomentativo privo di profili di irrazionalità, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. È stato altresì precisato (Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, Rv. 281647 -04 e Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Rv. 270519), che il principio dell' "oltre ragionevole dubbio", introdotto nell'art. 533 cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del 2006, non ha mutato la natura del sindacato della Corte di Cassazione sulla motivazione della sentenza, che non può essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità, come avvenuto nel caso di specie, sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell'appello, giacché la Corte è chiamata a un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo la sua valutazione sconfinare nel merito. 2. Alla luce di tali premesse interpretative, le doglianze difensive non possono trovare ingresso in questa sede, in quanto sostanzialmente volte a prefigurare una rivalutazione delle fonti probatorie, la cui disamina da parte dei giudici di merito risulta adeguata, esauriente e immune da censure. E invero le due conformi sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi per formare un unico corpus argomentativo, hanno operato un'attenta disamina delle risultanze probatorie acquisite, valorizzando innanzitutto le dichiarazioni dibattimentali della persona offesa Si.Mi., moglie di Be.Pa., la quale ha diffusamente descritto l'evoluzione negativa del suo rapporto matrimoniale. In particolare, dopo aver premesso di essersi sposata il 21 luglio 2005 dopo una relazione iniziata nel 2003, la Si.Mi. ha riferito che sin da prima del matrimonio, il suo compagno, pur nel contesto di una relazione positiva, non aveva mancato di manifestare atteggiamenti di aggressività e di prevaricazione, insultandola, anche in presenza di altre persone, e in taluni casi anche malmenandola. Dopo il matrimonio, Be.Pa. continuava a rendersi autore di condotte aggressive, ma la Si.Mi. non aveva interrotto il legame, illudendosi di riuscire a contenere l'aggressività del marito anche perché costui, dopo averla malmenata, ogni volta le chiedeva scusa e le assicurava che non si sarebbero verificati altri episodi violenti. La donna non si confidava con nessuno, se non con la propria psicoterapeuta, la dottoressa Av., cui ella si era rivolta nel 2007 proprio per la difficoltà nel gestire il suo rapporto con il marito. Una delle aggressioni, in particolare, si verificava la sera del 31 gennaio 2010, quando Be.Pa., dopo una banale discussione, malmenava la moglie, e quella fu la prima e unica volta in cui costei reagì, sferrando un calcio nella mano al marito, il quale, nel reagire, la colpì sul volto all'altezza del timpano, causandole la rottura del timpano, motivo per cui ella si recò al Pronto Soccorso del Policlinico Um., dove le fu diagnosticata una "ipoacusia post traumatica", con prognosi di 15 giorni. Il rapporto tra i coniugi conobbe una tregua in occasione della nascita della loro unica figlia, Be.An., nata il 30 luglio 2011, anche se, durante la gravidanza, Be.Pa., pur non picchiando la consorte, non mancava di insultarla, anche se dopo la nascita della figlia la situazione sembrò migliorare. Si trattò tuttavia di una breve tregua, perché già pochi mesi dopo la nascita della figlia, l'imputato, indispettito dal rifiuto di rapporti intimi da parte della moglie, afflitta dai dolori residuati dal parto, divenne di nuovo aggressivo, non solo verbalmente, ma anche nella sfera intima, iniziando a pretendere rapporti sessuali senza preoccuparsi del consenso della Si.Mi., la quale a sua volta aveva iniziato a sopportare passivamente tali pretese sessuali per paura di essere malmenata, per poi tentare un confronto con il marito quando si calmava. La situazione peggiorava ulteriormente negli anni successivi (2014-2015), in cui Be.Pa. non solo non chiedeva più scusa per le proprie "intemperanze", ma aveva anche preso l'abitudine di costringere con la forza la moglie a compiere atti sessuali, dopo discussioni condite da insulti e denigrazioni. Il 26 gennaio 2014 accadeva inoltre che la Si.Mi., mentre a seguito dell'ennesima aggressione cercava di fuggire di casa portando la figlia in braccio, veniva raggiunta sulle scale del condominio dal marito, al che ella nella concitazione inciampava, riportando una contusione alla caviglia, giudicata guaribile in 7 giorni. Un'altra aggressione particolarmente violenta si verificava il 28 febbraio 2016, allorquando la Si.Mi., rivelato a Be.Pa. il suo proposito di separarsi, si chiuse in camera con la figlia Be.An., mentre l'imputato, dopo aver preso a calci la porta del salone, ripeté tale condotta anche verso la porta della camera dove la donna si era chiusa, trascinando la moglie nella cucina, dove la schiaffeggiava al volto. Poco dopo quell'episodio, la denunciante, tornata una sera dal lavoro, raggiunse il sottoscala del condominio, dove si trovò davanti il marito, il quale, dicendole che la poteva raggiungere dove e quando poteva, le imponeva un rapporto sessuale completo. Pur se angustiata dall'escalation negativa del rapporto, la Si.Mi. riteneva il marito meritevole di un'altra chance e così, nell'agosto del 2016, trascorse con Be.Pa. e la figlia una vacanza a Linosa, dove tuttavia vi furono altri momenti di tensione, culminati nella pretesa dell'imputato di avere un rapporto sessuale con la moglie, il che avvenne con violenza, dopo che Be.Pa. insultò pesantemente la consorte. Nei mesi seguenti le aggressioni, dopo alcuni periodi di calma apparente, si protrassero, fino a quando, il 28 maggio 2017, dopo l'ennesimo episodio, la Si.Mi. lasciò definitivamente la casa coniugale, per poi sporgere querela, il 16 giugno successivo, a carico del marito, nei cui confronti il 28 luglio 2017 fu applicato il divieto di avvicinamento alla persona offesa. Orbene, il racconto della denunciante è stato ritenuto ragionevolmente credibile dai giudici di merito, in quanto lineare e sufficientemente dettagliato, oltre che riscontrato dalle convergenti dichiarazioni rese sia dalla madre della vittima, Ba.Ma., sia dall'amica De.Cl., le quali, pur non avendo ricevute confidenze dirette dalla Si.Mi., restia a raccontare i suoi problemi familiari, tuttavia hanno assistito a talune pregresse condotte prepotenti dell'imputato, riferendo di aver chiaramente percepito il crescente disagio della persona offesa. Parimenti significative sono state ritenute sia le dichiarazioni della collega Ma.Fr., che, oltre a notare l'atteggiamento dimesso della Si.Mi., è poi venuta a sapere della situazione in cui costei si trovava, sia e soprattutto le dichiarazioni della dottoressa Av., alla quale la persona offesa fu indirizzata dallo stesso psichiatra di Be.Pa., il dr. Al., in quanto, a detta di costui, la donna viveva un difficile periodo con il marito, che aveva problemi di aggressività, e andava sostenuta in quella difficile relazione sentimentale, che ella non trovava la forza di troncare, perché nonostante tutto confidava nel miglioramento della situazione, il che, senza minare la credibilità della narrazione, spiega perché quella situazione si sia trascinata così a lungo. La dottoressa Av. ha dato conto delle rivelazioni della Si.Mi., la quale nel tempo le ha riferito delle coercizioni sessuali del marito e delle sue pesanti angherie. Dal canto suo, Be.Pa. è risultato affetto da un disturbo della personalità che, pur non incidendo sulla sua capacità di intendere e di volere, tuttavia, come riferito dal dr. Al. che lo aveva in cura, lo rendeva ossessivamente controllante nella vita familiare e di relazione, inducendolo a reazioni istintive, avendo il medico psichiatra altresì precisato che il suo paziente non seguiva in modo corretto la terapia farmacologica che egli gli aveva prescritto. 2.1. A fronte di un quadro probatorio esauriente, arricchito anche dai referti medici attestanti le lesioni personali patite dalla denunciante, sono stati ritenuti non indispensabili gli approfonditi istruttori sollecitati dalla difesa, come l'escussione del teste Di.Si., gestore del centro diving di Lampedusa, o come la acquisizione della prenotazione dei voli presso la Compagnia Vueling, trattandosi di prove vertenti su circostanze non indispensabili ai fini della ricostruzione dei fatti di causa e tali da non destrutturare il puntuale racconto della denunciante. Il rigetto delle sollecitazioni difensive, in quanto sorretto da considerazioni non illogiche, risulta dunque immune da censure, dovendosi al riguardo richiamare il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Rv. 266820), secondo cui la rinnovazione dell'istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell'istruttoria espletata in primo grado, è un istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente allorché il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti, come adeguatamente esposto nel caso di specie, fermo restando che il giudice di appello ha l'obbligo di motivare espressamente sulla richiesta dì rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo accoglimento, laddove, ove ritenga di respingerla, può anche motivarne implicitamente il rigetto, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità del reo (Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep. 2014, Rv. 259893). 2.2. In definitiva, in quanto ancorato a considerazioni scevre da aspetti di irrazionalità e coerenti con le acquisizioni probatorie, correttamente intese nel loro significato reale e logicamente correlate tra loro, il giudizio di attendibilità della persona offesa compiuto nelle due conformi sentenze di merito non presta il fianco alle censure difensive che, come detto, si articolano nella proposta di una lettura alternativa (e invero frammentaria) del materiale istruttorio disponibile, operazione, come detto, non consentita in questa sede, a fronte della disamina razionale ed esauriente compiuta dal Tribunale e dalla Corte di appello che non solo non hanno operato alcuna forzatura interpretativa delle fonti di prova, ma al tempo stesso non hanno affatto mancato di confrontarsi con le varie obiezioni difensive, superandole con argomentazioni pertinenti. In tal senso, è stato ad esempio sottolineato (pag. 44 della sentenza impugnata) sia che i testi della difesa, come Be.La., Sa.An. ed Ci.Em., non hanno fornito alcun apprezzabile contributo dichiarativo, perché all'oscuro del menage familiare, sia che i referti medici non erano affatto in contrasto con la descrizione delle violenze subite dalla persona offesa, ma anzi ne confermavano il racconto, tanto rispetto alla tempistica delle aggressioni quanto in ordine al loro contenuto (pag. 45 della decisione gravata), avendo peraltro riferito la Si.Mi. di aver coperto i segni di una delle violenze con il trucco, motivo per cui ella poté essere fotografata sorridente il giorno del compleanno. 2.3. Ciò posto, deve solo aggiungersi che anche la qualificazione giuridica dei fatti appare immune di censure, risultando comprovati sia i maltrattamenti subiti dalla moglie dell'imputato, sia i due episodi di violenza sessuale della primavera e dell'agosto 2016, descritti dalla Si.Mi. in modo chiaro e puntuale. Rispetto al reato ex art. 609-bis cod. pen., che è stato circoscritto dai giudici di merito ai soli due episodi costrittivi avvenuti nel 2016, in coerenza peraltro con il tenore della contestazione elevata al capo D, resta solo da precisare che, in entrambi gli episodi, il dissenso della persona offesa è stato esplicito e chiaramente percepibile dall'imputato, che ha forzato la vittima con la violenza. Né può del resto sottacersi che le pretese sessuali dell'imputato, lungi dall'essere condivise, avuto riguardo alle modalità con cui venivano imposte, si sono inserite in un contesto di prolungata sopraffazione della persona offesa, estesa anche alla sfera dei rapporti intimi, dovendosi in ogni caso escludere, anche in condizioni normali, l'esistenza di un diritto potestativo del marito al soddisfacimento dei propri istinti sessuali nei confronti della moglie, richiedendo il lecito compimento del rapporto sessuale la presenza del consenso dei protagonisti del rapporto (cfr. Sez. 3, n. 46051 del 28/03/2018 non mass.), dovendosi altresì ribadire che il consenso al compimento degli atti sessuali, anche ove inizialmente prestato, deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità (cfr. Sez. 3, n. 15010 del 11/12/2018, dep. 2019, Rv. 275393, Sez. 3, n. 5768 del 16/01/2014, Rv. 258935 e Sez. 3, n. 39428 del 21/09/2007, Rv. 237930). 2.4. Quanto al reato di maltrattamenti in famiglia, deve invece escludersi che i momenti di calma apparenti che pure in talune brevi fasi non sono mancati nel rapporto di coppia si pongano in senso ostativo alla configurabilità della fattispecie ex art. 572 cod. pen., avendo questa Corte affermato il condiviso principio (cfr. Sez. 2, n. 11290 del 03/02/2023, Rv. 284454), correttamente applicato dai giudici di merito, secondo cui, in tema di maltrattamenti contro familiari e conviventi, la consistenza dello iato temporale tra le condotte realizzate in danno delle medesime persone offese non rileva al fine di escludere l'abitualità del reato, anche se l'interruzione temporale può valere a qualificare le distinte serie di condotte illecite quali reati autonomi, uniti dal vincolo della continuazione, evenienza questa non verificatasi nel caso dì specie, atteso che, come ben argomentato dalla Corte territoriale, la dinamica del rapporto tra Be.Pa. e la moglie è stata contraddistinta da una costanza e da un crescendo di atteggiamenti prevaricatori del primo verso la seconda, per cui, stante la brevità dei periodi di concordia e la netta prevalenza delle condotte vessatorie dell'imputato, l'abitualità di queste ultime è stata ragionevolmente ritenuta sussistente dai giudici di merito, a nulla rilevando che, in certi momenti, vi fossero momenti di pace, come quelli documentati fotograficamente dalla difesa. Del resto, questa Corte ha più volte affermato (cfr. Sez. 6, n. 15147 del 19/03/2014, Rv. 261831 e Sez. 6 n. 8396 del 07/06/1996, Rv. 205563) che il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato anche quando le sistematiche condotte violente e sopraffattrici non realizzano l'unico registro comunicativo con il familiare, ma sono intervallate da condotte prive di tali connotazioni o dallo svolgimento di attività familiari, anche gratificanti per la parte lesa, poiché le ripetute manifestazioni di mancanza di rispetto e di aggressività conservano il loro connotato di disvalore in ragione del loro stabile prolungarsi nel tempo. Ne consegue che, anche in punto di qualificazione giuridica dei fatti di causa, oltre che rispetto alla valutazione delle prove raccolte, non si ravvisano criticità. Di qui la manifesta infondatezza delle censure in punto di responsabilità. 3. Ad analoga conclusione deve pervenirsi rispetto alle restanti censure. 3.1. In particolare, quanto al decimo motivo, deve osservarsi che il rigetto della richiesta di applicazione dell'indulto appare immune da censure. Ed invero la Corte territoriale (pag. 51 della sentenza impugnata) ha correttamente applicato il principio di diritto elaborato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 364 del 17/09/2019, dep. 2020, Rv. 278392-11 e Sez. 6, n. 18616 del 16/04/2013, Rv. 254845), secondo cui, in tema di indulto ex lege n 241 del 31 luglio 2006, nel caso di reato abituale, la cui consumazione sia cessata dopo la scadenza del termine di operatività del provvedimento di concessione, non può procedersi al riconoscimento del beneficio in modo frazionato, con riferimento cioè alla sola parte della condotta posta in essere nel periodo precedente. Alla stregua di tale premessa ermeneutica, è stata dunque legittimamente disattesa la richiesta difensiva, in quanto, all'esito di un giudizio di fatto non suscettibile di essere messo in discussione in questa sede, l'ultimo episodio di maltrattamenti integrante l'unitario reato abituale di cui all'art. 572 cod. pen. si è verificato il 28 maggio 2017, ossia ampiamente dopo lo sbarramento temporale del 2 maggio 2006 fissato dalla legge n. 241 del 2006. 3.2. Manifestamente infondato è anche l'undicesimo motivo. Pur pervenendo all'assoluzione dell'imputato dal reato di maltrattamenti in famiglia limitatamente alle condotte poste in essere in danno della figlia minore, ciò in ragione della natura sporadica e occasionale degli episodi di violenza fisica ad essa riferiti, la Corte territoriale, rispetto alle condotte maltrattanti poste in essere in danno della moglie, ha invece ritenuto sussistente l'aggravante di cui all'art. 61 n. 11-quinquies cod. pen., evidenziando (pag. 46 della decisione impugnata) che in numerose occasioni l'imputato ha tenuto atteggiamenti violenti anche alla presenza della minore, come riferito dalla Si.Mi., la quale ha precisato che le aggressioni sono avvenute per la maggior parte tra le mura domestiche o in vacanza, ossia in contesti in cui era necessariamente presente la figlia Be.An., che, in ragione della sua età (la bimba è nata nel (omissis)), non godeva ancora di autonomia all'epoca in cui sono avvenuti i fatti, avendo la minore riferito alla nonna materna di aver avuto per questo "tanta paura". L'impostazione dei giudici di merito anche in tal caso appare corretta, dovendosi solo precisare che l'aggravante in esame sarebbe stata applicabile anche se la minore avesse assistito a un solo episodio di violenza, avendo questa Corte chiarito (Sez. 6, n. 2003 del 25/10/2018, dep. 2019, Rv. 274924) che, in tema di maltrattamenti in famiglia, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante dell'essere stato il delitto commesso alla presenza del minore, prevista dall'art. 61, n. 11-quinquies, cod. pen., non è necessario che gli atti di violenza posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell'abitualità, essendo sufficiente che egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta costituente reato. Né il giudizio sulla configurabilità della predetta aggravante si pone in contrasto con la parziale pronuncia assolutoria riferita all'art. 572 cod. pen. commesso in danno della figlia, proprio perché, come precisato da questa Corte (Sez. 6, n. 8323 del 09/02/2021, Rv. 281051), il reato di maltrattamenti, aggravato dalla circostanza dell'essere stato commesso alla presenza di un minore, si differenzia dal reato di maltrattamenti in famiglia in danno di minore, vittima di violenza ed. assistita, perché, ai soli fini della configurabilità dell'aggravante, non è necessario che gli atti di sopraffazione posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell'abitualità. 3.3. Anche il dodicesimo motivo è manifestamente infondato. Nel rideterminare la pena a seguito della parziale assoluzione dal reato di cui all'art. 572 cod. pen. e della declaratoria di estinzione del reato di lesioni personali cui al capo C, la Corte territoriale, ribadito il giudizio di equivalenza operato dal Tribunale tra le riconosciute attenuanti generiche e l'aggravante ex art. 61, n. 11-quinquies, cod. pen., è partita dalla pena minima di 5 anni di reclusione per il più grave reato di violenza sessuale, applicando su di essa un duplice aumento per la continuazione, ossia 6 mesi per la continuazione interna al reato ex art. 609-bis cod. pen. di cui al capo D e 5 mesi per la continuazione con il reato di maltrattamenti in danno della moglie di cui al capo A, con pena finale rideterminata dunque nella misura di anni 5 e mesi 11 di reclusione. In replica poi alle richieste difensive di mitigazione della pena mediante la prevalenza delle attenuanti generiche e la riduzione degli aumenti per la continuazione, la Corte territoriale ha evidenziato (pag. 52 della sentenza impugnata) che "la mancata formulazione del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche e l'entità degli aumenti a titolo di continuazione si giustificano in ragione della gravità, del numero e della reiterazione degli episodi delittuosi per lungo arco di tempo, oltre che per la particolare intensità del dolo". Tali valutazioni risultano non illogiche e dunque non censurabili in questa sede, dovendosi considerare, da un lato, che gli aumenti per la continuazione risultano contenuti e, dall'altro, che la mancata prevalenza delle attenuanti generiche risulta congruamente motivata, dovendosi richiamare in proposito l'affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, Rv. 279838 - 02), secondo cui, in tema di circostanze, il giudizio di bilanciamento tra le aggravanti e le attenuanti costituisce esercizio del potere valutativo riservato al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato alla stregua anche solo di alcuni dei parametri previsti dall'art. 133 cod. pen., senza che occorra un'analitica esposizione dei criteri di valutazione adoperati. 3.4. Venendo infine al tredicesimo motivo, concernente la violazione dell'art. 597, commi 1 e 3, cod. proc. pen. rispetto alla conferma dell'importo della provvisionale, se ne deve parimenti rimarcare la manifesta infondatezza. I giudici di secondo grado (pag. 52 e 53 della decisione impugnata) hanno infatti ritenuto adeguato l'importo di 10.000 euro liquidato dal Tribunale, "potendosi ritenere nella suddetta misura provati almeno in parte i danni morali e materiali cagionati alla persona offesa dalle condotte maltrattanti poste in essere ai suoi danni dall'imputato, gravemente mortificanti la sua figura di donna, di madre, di moglie, oltre che lesive della sua sfera psichica, fisica e sessuale". Anche in tal caso la motivazione della sentenza impugnata non presenta alcuna criticità, non ravvisandosi peraltro alcuna violazione del principio di reformatio in peius, atteso che la quantificazione, si ribadisce provvisoria, del danno subìto dalla persona offesa non appare condizionata né dalla parziale assoluzione del reato di cui al capo A, né tantomeno dall'estinzione del reato di cui al capo C. A ciò deve solo aggiungersi che, proprio in ragione della natura provvisoria della statuizione civilistica adottata, la censura difensiva risulta inammissibile in questa sede, dovendosi richiamare sul punto la consolidata affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019, Rv. 277773 - 02 e Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, Rv. 263486), secondo cui non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento. 4. In definitiva, stante la manifesta infondatezza delle doglianze sollevate, il ricorso proposto nell'interesse di Be.Pa. deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento, nonché di provvedere, nei modi di cui al dispositivo, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone infine che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Roma con separato decreto di pagamento ai sensi degli art. 82 e 83 D.P.R. n. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. VILLONI Orlando - Presidente Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Pu.Fa. , nato a R il (Omissis) avverso la sentenza emessa Corte di appello di Roma il 24/02/2023; visti gli atti ed esaminato il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere, Pietro Silvestro lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, dott. Alessandro Cimmino, che ha chiesto il rigetto del ricorso; lette le conclusioni dell'Avv. Gi.Ve., difensore della parte civile, Be.An. che ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, comunque, rigettato; lette le conclusioni dell'Avv.ta An.Ti., difensore di fiducia dell'imputato, che ha insistito per l'accoglimento dei motivi di ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Roma ha sostanzialmente confermato la sentenza con cui Pu.Fa. è stato condannato per il reato di cui all'art. 572, comma 2, cod. pen. per avere maltrattato la moglie (reato commesso "dall'anno 2007 con condotta in atto"). 2. Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato articolando tre motivi. 2.1. Con il primo si deduce vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità; la Corte non si sarebbe confrontata con i motivi di appello in ordine alla valutazione delle dichiarazioni della persona offesa e con gli elementi di prova derivanti dalle altre prove, con particolare riguardo alle dichiarazioni dei testi Ga.Ma.,e altri. Si era eccepito che, con riguardo al periodo 1997- 2016, le dichiarazioni della persona offesa non consentissero di ritenere provata l'abitualità della condotta e il dolo per non essere stata capace la donna di indicare episodi specifici e di collocarli nel tempo. Né, diversamente dagli assunti della Corte, il riscontro alle dichiarazioni della persona offesa potrebbe essere costituito, da una parte, dalle stesse dichiarazioni dell'imputato rese l'1.10.2019 in cui questi, in realtà, avrebbe ammesso l'addebito solo per i fatti accaduti nei mesi di giugno, luglio e settembre 2019, e, dall'altra, dalla messaggistica inviata alla persona offesa tramite whatsapp. La Corte, si aggiunge, non avrebbe inoltre spiegato perché sarebbero inattendibili le dichiarazioni dei testi a discarico, che avrebbero invece riferito come il rapporto fra i due coniugi fosse stato sempre paritario e non di sudditanza, con reciprocità di offese (vengono riportate in parte le dichiarazioni). 2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge quanto al giudizio di responsabilità penale e alla qualificazione dei fatti che, al più, dovrebbero essere ricondotti al reato di cui all'art. 612 bis cod. pen., limitatamente al periodo giugno-settembre 2019, successivo alla cessazione della convivenza. Sarebbe dunque viziata l'affermazione della Corte secondo cui una visione unitaria del reato di maltrattamenti in famiglia dovrebbe condure a ritenere sussistente la fattispecie in questione anche per il periodo successivo alla cessazione della convivenza; si sostiene che per detto periodo sarebbe invece cessata ogni prossimità di rapporto e vi sarebbe stata l'interruzione di ogni vincolo solidaristico tra le parti; né vi sarebbe prova della esistenza di uno stato di prostrazione della donna e del figlio, quest'ultimo mai ascoltato e neppure sarebbe stata provata la presenza del minore ai litigi. 2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge in relazione alla mancata esclusione della circostanza aggravante di cui al comma 2 dell'art. 572 cod. pen. Il minore non sarebbe stato mai presente ad episodi di maltrattamento, almeno per i fatti accaduti dopo l'entrata in vigore della legge n. 69 del 19.7.2019, collocandosi l'ultimo episodio accaduto alla presenza del minore nel luglio del 2019. 3. E' pervenuta una memoria di replica dell'imputato con cui si riprendono e si sviluppano ulteriormente gli argomenti posti a fondamento del ricorso, con particolare riguardo alla sussistenza dell'aggravante. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato, ai limiti della inammissibilità. 2. È inammissibile il primo motivo di ricorso. I giudici di merito, con una motivazione adeguata e priva di contraddizioni, hanno ricostruito i fatti, indicato le ragioni per cui le dichiarazioni della persona offesa devono ritenersi attendibili e, soprattutto, riscontrate non solo da numerose prove dichiarative provenienti da soggetti rispetto ai quali nessun interesse a mentire è stato anche solo rappresentato, ma anche da altre prove, costituite dai messaggi inviati dall'imputato alla persona offesa e dalle stesse dichiarazioni ammissive del ricorrente. In tale contesto, diversamente dagli assunti difensivi, si è spiegato perché le dichiarazioni a discarico non siano in grado di scalfire il quadro accusatorio (cfr., pag. 7 sentenza di primo grado); si è accertato come la convivenza, interrotta nel 2016, sia stata poi ripresa dal 2017 al 2019 e come, anche successivamente, la condotta di maltrattamenti in danno del coniuge sia stata protratta almeno fino a settembre del 2020, cioè nel corso del processo; si sono correttamente ricondotti i fatti al reato contestato, del quale sussistono i requisiti oggettivi e oggettivi Rispetto a tale articolato quadro di riferimento, il motivo di ricorso rivela la sua strutturale inammissibilità. 3. Le censure dedotte si sviluppano sul piano della ricostruzione fattuale e sono sostanzialmente volte a sovrapporre un'interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dai giudici di merito, piuttosto che a far emergere un vizio della motivazione rilevante ai sensi dell'art. 606 cod. proc. pen. Secondo i principi consolidati dalla Corte di cassazione la sentenza non può essere annullata sulla base di mere prospettazioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferire rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perché considerati maggiormente plausibili, o perché assertivamente ritenuti dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, rv. 234148). L'odierno ricorrente ha riproposto con il ricorso per cassazione la versione dei fatti dedotta in primo e secondo grado e disattesa dai Giudici del merito; compito del giudice di legittimità nel sindacato sui vizi della motivazione non è tuttavia quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. E' possibile che nella valutazione sulla "tenuta" del ragionamento probatorio, la struttura motivazionale della sentenza di appello si saldi con quella precedente per formare un unico corpo argomentativo, atteso che le due decisioni di merito possono concordare nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, (cfr., in tal senso, tra le altre, Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, rv. 2574595; Sez. 2, n. 5606 dell'8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez. 1, n. 8868 dell'8/8/2000, Sangiorgi, rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, rv. 209145). Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorché i giudici di secondo grado, come nel caso in esame, esaminino le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con riferimenti alle determinazioni ed ai passaggi logico-giuridici della decisione di primo grado e, a maggior ragione, ciò è legittimo quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione del primo giudice (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv. 221116). Nel caso di specie, i giudici di appello, che pure hanno fatto riferimento alle argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione adeguata e autonoma sui punti specificamente indicati nell'impugnazione di appello, di talché la motivazione risulta esaustiva ed immune dalle censure proposte. 4. Alla luce della ricostruzione fattuale recepita dai Giudici di merito, il secondo motivo di ricorso è infondato avendo la Corte di cassazione chiarito in più occasioni che sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, quando si sia in presenza di condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, come nel caso di specie, sorte in ambito domestico, proseguano anche dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta "persona della famiglia" fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza. Si è infatti precisato che la separazione è condizione che non elide lo "status" acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lascia integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall'art. 143, comma 2, cod. civ. (Cfr., fra le altre, Sez. 6, n. 45400 del 30/09/2022, R., Rv. 284020). 5. È infondato anche il terzo motivo di ricorso. A differenza degli assunti difensivi, i Giudici di merito hanno accertato la presenza del figlio minore della coppia ai maltrattamenti nei riguardi della di lui madre e la commissione di atti di maltrattamento nei riguardi di questi anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 69 del 2019. I Giudici, peraltro, hanno fatto corretta applicazione del principio per cui in tema di maltrattamenti contro familiari e conviventi, stante la natura abituale del reato, che si consuma con la cessazione delle condotte vessatorie, è sufficiente che anche solo una di esse sia stata posta in essere alla presenza di un minore dopo l'entrata in vigore della legge 19 luglio 2019, n. 69, perché trovi applicazione la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 572, comma secondo, cod. pen., introdotta da tale legge, in luogo di quella, previgente, di cui all'art. 61, comma primo, n. 11-quinquies, cod. pen. (Sez. 6, n. 21998 del 05/05/2023, G, Rv. 285118; Sez. 6, n. 19832 del 06/04/2022, S., Rv. 283162). 6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al risarcimento delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalla parte civile Be.An., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Roma con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. m. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato al risarcimento delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalla parte civile Be.An., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Roma con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. m. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. GIORDANO Anna Emilia - Presidente Dott. COSTANTINI Antonio - Relatore Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. RADDUSA PATERNÒ Benedetto - Consigliere Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ro.Ma., nato a M il (Omissis) avverso la sentenza del 13/07/2023 della Corte appello di Roma; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Antonio Costantini; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberto Aniello, che ha chiesto l'inammissibilità del ricorso; letta la memoria e le conclusioni dell'avvocato Fa.Do., in difesa di Ro.Ma., che, in replica alle conclusioni del Procuratore generale, insiste per l'accoglimento dei motivi di ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Ro.Ma., per il tramite del difensore, ricorre avverso la sentenza della Corte di appello di Roma che ha confermato la decisione del Tribunale di Tivoli che lo aveva condannato alla pena di anni due e mesi otto di reclusione: 1) per il delitto di cui agli art. 81, 572, primo e secondo comma, cod. pen. (capo A a partire dal 2019) di maltrattamenti nei confronti della moglie e della figlia minore che venivano fatte oggetto di violenze, minacce e ingiurie anche poste in essere alla presenza di detta figlia; 2) per i delitti di lesioni aggravate di cui agli art. 81, 583, 585, 576, 577 e 61 n. 2 cod. pen. (capi B e C, rispettivamente, il 9 febbraio 2020 ed il 6 luglio 2021). Sono state revocate le statuizioni civili della sentenza impugnata, essendo venute meno, nelle more, le costituzioni di parte civile delle persone offese. 2. Il ricorrente articola quattro motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo la difesa deduce vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. con riferimento all'omessa assoluzione del ricorrente in ordine ai fatti di maltrattamento ai danni della figlia minore. Si censura la omessa motivazione, nonostante fosse stata espressamente richiesta detta assoluzione esplicitando le relative doglianze, in ordine alla ritenuta responsabilità per il delitto in esame, specie all'esito dell'esame della minore che aveva smentito la madre allorché aveva affermato di non aver mai assistito alle violenze denunciate da costei; in detto periodo, infatti, non abitava con i genitori ma presso la casa dei nonni paterni. La decisione ha analizzato le dichiarazioni della figlia minore solo nella parte in cui avrebbero costituito conferma di quelle rese dalla madre, eludendo i rilievi in ordine alla sussistenza del differente fatto storico ex art. 572 cod. pen. -senza neppure rinviare alla decisione di primo grado - in cui la minore risultava persona offesa. 2.2. Con il secondo motivo si deducono vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. in ordine alla ritenuta aggravante di cui all'art. 572, primo e secondo comma, cod. pen. quanto ad aggravante della violenza assistita da parte della figlia minore e, contestuale, violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in ordine all'art. 63, primo comma, cod. pen. in ordine alla qualificazione, "ai sensi dell'art. 572 commi 1 e 2, c.p. dei fatti addebitati al capo sub A) dell'imputazione come maltrattamenti in danno della coniuge aggravati dalla commissione in presenza della minore". Nonostante la Corte di appello avesse rilevato l'esistenza di una evidente contraddizione nelle dichiarazioni rese dalla figlia minore che in due occasioni aveva affermato di non aver mai personalmente assistito alle violenze ai danni della madre e di aver saputo delle stesse solo perché confidatele da costei, erronea risulta la parte della decisione che ha confermato l'aggravante ex art. 572, secondo comma, cod. pen.. L'esclusione della citata aggravante - assume la difesa - avrebbe, inoltre, costituito violazione dell'art. 63, primo comma, cod. pen., là dove la pena sarebbe stata parametrata a quella prevista dal primo comma dell'art. 572 cod. pen. con la elisione dell'aumento di cinque mesi operato dal Tribunale. 2.3. Con il terzo motivo si deducono vizi cumulativi della motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in ordine al capo A) nella parte in cui è stata ritenuta intrinsecamente ed estrinsecamente attendibile la moglie e la figlia del Ro.Ma.. Proprio il mendacio della moglie in ordine alla presenza della figlia in occasione delle asserite violenze rivoltele avrebbe dovuto costituire oggetto di approfondito esame e non, invece, fondando la credibilità della persona offesa su mere congetture disarticolate dal contesto fattuale, riduttivamente apprezzando quello che costituiva il punto nodale in ordine alla smentita attendibilità. Non era possibile, come invece effettuato dalla Corte di appello, frazionare la valutazione operata sulla genuinità del propalato della donna che invero risulta irreparabilmente compromessa dal tenore del contrasto tra le due dichiarazioni in punto di violenza assistita, superato dai Giudici di merito con valutazioni in contrasto con quelle utilizzate per negare la credibilità dei testi sentiti dalla difesa; il contenuto delle relazioni specialistiche indicavano la minore, ormai diciassettenne, quale immatura, avvezza a racconti irreali, alla menzogna e vittima del negativo condizionamento da parte della genitrice. 2.4. Con il quarto motivo si deducono vizi di motivazione in ordine ai delitti di lesioni aggravate di cui ai capo B) e C). Anche con riferimento a tali capi di imputazione contestati valgono le osservazioni evidenziate in ordine all'erronea attendibilità assegnata alle dichiarazioni delle persone offese. Con riferimento al capo B), la certificazione medica a cui al Corte ha fatto non pertinente rinvio attesta la mancanza di lesioni cutanee, palesando solo riferiti dolori diffusi alle braccia ed al capo; le lesioni venivano, altresì, smentite dai soggetti escussi dalla difesa che non ebbero mai a notare segni di violenza sulla persona offesa, né la relazione dei servizi sociale avevano mai segnalato quotidiani episodi violenti. Con riferimento al capo C) si deduce l'incongruenza in ordine alla conferma dell'ecchimosi riportata al braccio asseritamente cagionata a mezzo della chiusura dello sportello; la motivazione elude il problema connesso al fatto che la donna affermava che agli accadimenti in questione fosse presente la suocera e la figlia che si sarebbe adoperata a difenderla; il dato risulta smentito dalla dichiarazione della minore che invece aveva dichiarato di non aver mai visto condotte violente del padre nei confronti della madre, da quelle della suocera che aveva negato di avervi assistito ed il contenuto della annotazione redatta sul punto dalla polizia giudiziario che attesta la presenza di un leggero livido alla gamba destra. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile sotto plurimi motivi. 2. Il terzo motivo di ricorso con cui si contesta la responsabilità sotto il profilo della ritenuta attendibilità delle persone offese - che per motivi logici è necessario trattare per primo - è declinato in fatto e riproduttivo di identica deduzione che, con argomentazioni logiche e prive di lacune, è stata confutata dalla Corte di appello che ha già analizzato e correttamente valorizzato i plurimi apporti probatori in ordine alla configurabilità della contestata ipotesi di maltrattamenti ex art. 572, primo e secondo comma, cod. pen. ai danni della moglie e della figlia del ricorrente, senza omettere di fornire risposta alle prospettate ragioni che, secondo la difesa del Ro.Ma., avrebbero dovuto far ritenere non credibili le dichiarazioni della moglie e della figlia rese in plurimi contesti (sommarie informazioni ed incidente probatorio). I Giudici di merito hanno ritenuto attendibili le dichiarazioni della moglie, dando conto del contenuto delle stesse, ritenute coerenti e dettagliate, ancorate a plurimi e significativi riscontri con le convergenti e omogenee dichiarazioni rese dalla figlia. La decisione impugnata si è confrontata con le problematiche psicologiche della moglie del ricorrente ed alle disturbate dinamiche nei rapporti con la figlia emerse nell'ambito del procedimento svoltosi dinanzi al Tribunale per i Minorenni, rilevando come gli stessi non fossero idonei a scalfire la genuinità del contenuto delle dichiarazioni di entrambe le persone offese in quanto tra loro sovrapponibili, confortate dall'esistenza dei certificati medici e dal contenuto della relazione della polizia giudiziaria nella parte in cui si dà atto della presenza di lividi sul corpo della donna, trovata piangente, e dell'alito vinoso del ricorrente, dato, quest'ultimo, che corroborava la parte delle propalazioni delle due donne che attribuiva la condotta maltrattante anche all'abuso di sostanze alcoliche da parte dell'uomo. È stato ritenuto coerente con le premesse, pertanto, che la donna si fosse decisa a sporgere denuncia solo il giorno dopo l'intervento delle forze dell'ordine nel corso del quale, sia la moglie che la figlia, avevano nell'immediatezza rappresentato le condizioni di vita cui entrambe erano costrette a causa della condotta maltrattante del ricorrente specie a causa della sua frequente ubriachezza. Puntuale risulta anche la positiva valutazione del nucleo rilevante delle dichiarazioni rese dalle persone offese rispetto alla documentazione afferente al procedimento svoltosi dinanzi al Tribunale per i Minorenni a quelle di numerose persone, compreso la madre ed il fratello del ricorrente, oltre che di vicini di casa che conoscevano la coppia e le loro problematiche eminentemente di tipo economico; il loro contenuto, è stato ritenuto, da un canto non neutro, dall'altro, non in grado di comprendere le condotte che si svolgevano necessariamente tra le mura domestiche e che si è solitamente restii a raccontare a terzi. Adeguata risulta anche la risposta fornita dalla Corte di appello in ordine alle ragioni per cui la personalità problematica della minore, persona condizionabile dalla madre, non avevano attinenza con l'ipotizzata calunniosa falsità delle dichiarazioni che la vedevano assistere e patire le condotte maltrattanti del padre, ma non anche alle aggressioni ai danni della madre che le venivano da costei raccontate, spiegando come proprio il contenuto centrale afferente alle condotte maltrattanti fosse stato comunque indirettamente confermato dalla minore non potendosi ipotizzare che costei avesse potuto mentire in ordine a quanto riferitole dalla madre, né che quest'ultima avesse inventato dal nulla episodi raccontati alla figlia per una implausibile precostituzione di un elemento di prova; costituisce giustificazione logica quella fornita dai Giudici di merito, secondo cui il citato atteggiamento risultava incompatibile con la stessa personalità istintiva, immediata e diretta della persona offesa che aveva, tra l'altro, revocato la costituzione di parte civile, unitamente alla figlia, nel presente procedimento, cosi venendo meno l'ipotetico movente economico alla base delle accuse. La Corte di appello si è confrontata anche con la rilevata discrasia in ordine al propalato della donna che aveva riferito di aggressioni a cui aveva assistito anche la figlia che invece aveva negato di essere stata presente a violenze fisiche nei confronti della madre, rilevando come ciò, sulla base delle complessive risultanze comunque evocate non facesse venire meno la apprezzata credibilità che il ricorrente vorrebbe minare attribuendo al contenuto di tale contrasto una ampiezza non corrispondente al reale significato che si preciserà nel prossimo punto. A fronte di motivazione completa e priva di fratture logiche, con ampi riferimenti e rinvìi alla decisione di primo grado che aveva evidenziato le ragioni che avevano portato a corroborare il narrato delle persone offese e sul perché le problematiche, pur rilevate, non avessero messo in discussione la complessiva condotta maltrattante del ricorrente, il ricorrente contrappone una lettura tesa ad assegnare maggiore rilevanza ad aspetti afferenti alla personalità dei propalanti ed al rilevato parziale contrasto delle dichiarazioni su un determinato punto, senza neppure confutare il contenuto delle dichiarazioni nella parte in cui sono state tra loro riscontrate anche attraverso il vaglio di elementi esterni alle stesse, richiedendo a questa Corte legittimità una rinnovata - ma preclusa - valutazione degli elementi probatori adeguatamente effettuata nella competente sede di merito. 3. Il primo ed il secondo motivo di ricorso - che risulta opportuno trattare unitariamente - con cui si deduce l'omessa motivazione circa la ritenuta responsabilità per il delitto di maltrattamenti nei confronti della figlia minore e la insussistenza dell'aggravante di cui all'art. 572, secondo comma, cod. pen. è indeducibile in quanto motivo non dedotto in appello, sede in cui il ricorrente, attraverso il primo motivo ha messo in discussione solo l'attendibilità delle dichiarazioni rese dalle due persone offese e non ex se la sussistenza del reato nei confronti della figlia minore. Non corrisponde al vero, infatti, che il ricorrente, come affermato nel ricorso, dalle pagine 17 e seguenti del motivo di appello avesse formulato questione afferente tale responsabilità, emergendo invero come tutto il primo motivo, nel quale venivano analizzate le plurime testimonianze a sostegno della inattendibilità delle persone offese, mai hanno riguardato la concreta questione posta in questa sede se non indirettamente attraverso il prospettato mendacio di entrambe le persone offesa cui sopra si è detto. Non pregevole risulta il rilievo contenuto nel ricorso secondo cui la Corte di appello, pur avendo riscontrato che la figlia non era presente durante le aggressioni fisiche ai danni della madre, non potesse aver assistito alle condotte maltrattanti, visto che il tenore delle stesse era limitato alla diretta visione delle aggressioni fisiche, aspetto che non implica il venir meno del complessivo compendio dichiarativo delle persone offese che hanno concordemente riferito di ingiurie, minacce e costrizioni rivolte nei confronti di entrambi e segnatamente della minore quando si frapponeva tra i genitori in difesa della madre, per impedire che costei venisse aggredita. 4. Declinato in fatto risulta il quarto motivo con cui si tenta di accreditare una differente ed alternativa ricostruzione dei fatti in ordine alle lesioni di cui alle contestazioni enunciate nei capi B) e C), correttamente motivate con le reiterate e univoche dichiarazioni della persona offesa che trovano conferma nella relazione redatta dai verbalizzanti che ebbero a notare le ecchimosi sul corpo della donna e nella certificazione medica che attestava la consistenza delle lesioni. 5. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, secondo quanto previsto dall'art. 616, comma 1, cod. proc. pen.. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 04 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. CRISCUOLO Anna - Relatore Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Lo.Da., nato a M il (Omissis) avverso l'ordinanza del 15/11/2023 del Tribunale del riesame di Milano Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Anna Criscuolo; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Vincenzo Senatore, che ha concluso chiedendo la trasmissione degli atti al Pm presso il Tribunale di Cassino e l'inammissibilità del ricorso nel resto; letta la memoria di replica del difensore avv. En.Br., che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Il difensore di Lo.Da. ricorre per l'annullamento dell'ordinanza in epigrafe con la quale il Tribunale del riesame di Milano ha confermato l'ordinanza del G.i.p. del medesimo Tribunale che in data 23 ottobre 2023 aveva applicato all'indagato la misura del divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai suoi prossimi congiunti - figlio e genitori della ex compagna -, prescrivendogli di mantenere la distanza di almeno un chilometro dalla abitazione della persona offesa e vietandogli di comunicare con la stessa con qualsiasi mezzo -, per i reati di cui agli artt. 572, secondo comma, cod. pen. e 612-bis, primo e secondo comma, cod. pen. Il ricorso si articola in cinque motivi. 1.1. Con il primo motivo si eccepisce l'incompetenza territoriale del Tribunale di Milano, spettando la competenza al Tribunale del luogo in cui l'azione diviene complessivamente riconoscibile e qualificabile come maltrattamento e si identifica nel luogo in cui la condotta viene consumata all'atto della presentazione della denuncia, nel caso di specie, Gaeta e, quindi, il Tribunale di Cassino. Ad analoga conclusione si perviene anche in considerazione del fatto che gli ulteriori episodi si ricollegano ai precedenti e radicano la competenza nel luogo dell'ultima condotta idonea ad integrare la fattispecie, nel caso di specie individuabile in Gaeta o al più in Napoli, luogo in cui fu sporta l'ultima denuncia, ma non in Milano, ove è stata ritenuta radicata la competenza, erroneamente correlandola al luogo di radicamento della famiglia, che non trova riscontro nella norma penale. 1.2. Con il secondo si denuncia l'inesistenza del provvedimento emesso dal G.i.p., la radicale nullità e il difetto di motivazione da parte del Tribunale del riesame sul punto. Il provvedimento applicativo del divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai sui prossimi congiunti, incomprensibilmente impone il divieto a costoro, ma non al Lo.Da. nei cui confronti non esiste, quindi, alcun provvedimento coercitivo; in ogni caso il provvedimento contiene una prescrizione non attuabile da parte dell'effettivo destinatario. Il Tribunale ha tentato di superare l'eccezione, evidenziando che nell'intero provvedimento il Lo.Da. è individuato quale destinatario della misura e che dal verbale di esecuzione risulta che è stato invitato a lasciare l'abitazione - invito cui ha ottemperato -, ma la motivazione è inidonea a colmare l'inesistenza del provvedimento nella parte precettiva, stante la confusione e l'incertezza, rilevabile anche nel verbale di notifica nel quale si dà atto dell'applicazione della misura dell'allontanamento dalla casa familiare, mai applicata all'indagato. Sussiste la nullità eccepita per violazione dell'art. 109 cod. proc. pen., che prescrive che la lingua del processo è l'italiano. 1.3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell'art. 292, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. e il vizio di motivazione per mancanza di autonoma valutazione, non rilevata dal Tribunale, che non ha dichiarato la nullità dell'ordinanza emessa dal G.i.p. 1.4. Con il quarto motivo si denuncia la mancanza di gravi indizi di colpevolezza e l'illogicità della motivazione per avere il Tribunale travisato i fatti, affermato la costanza dei maltrattamenti in assenza di riscontri concreti, non rilevato la totale inattendibilità della persona offesa, ignorato le gli elementi positivi offerti dalla difesa né tenuto conto delle registrazioni effettuate dal ricorrente in occasione di un incontro con il figlio. Il Tribunale non ha adeguatamente motivato sull'abitualità delle condotte né sull'attualità delle esigenze, attualità inesistente, atteso che il ricorrente ha subito la sottrazione del figlio ed è stato costretto a trasferte sino a Napoli, ove l'ex convivente si è trasferita con il minore, solo per vederlo per qualche ora; non fa uso di stupefacenti ed è ben inserito nel tessuto sociale e associativo imprenditoriale. 1.5. Con l'ultimo motivo si denuncia la violazione dell'art. 277 cod. proc. pen. e l'illogicità della motivazione per avere il Tribunale respinto la richiesta di modifica della misura cautelare, ritenendo incompatibile l'esigenza dell'indagato di vedere il figlio con la necessità di evitare contatti con la persona offesa o con i suoi familiari, pur potendo salvaguardarsi il rapporto con il figlio mediante il coinvolgimento di terzi o di servizi sociali. 2. Con memoria di replica la difesa ha sviluppato e ulteriormente argomentato i motivi, insistendo per l'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito illustrati. E' fondato il primo motivo con il quale si eccepisce l'incompetenza del Tribunale di Milano in favore del Tribunale di Cassino; tuttavia, a differenza di quanto prospettato nel ricorso, l'accoglimento del motivo non comporta l'annullamento dell'ordinanza impugnata, come già correttamente indicato nel provvedimento (pag. 4 e 5). E ciò in applicazione dei principi affermati da questa Corte in ordine alla competenza per territorio del reato di maltrattamenti ed ai poteri del giudice dell'impugnazione, che rilevi l'incompetenza del giudice emittente. 2. Erroneamente è stata ritenuta la competenza dell'autorità giudiziaria milanese in ordine al reato di maltrattamenti, ancorandola al luogo di radicamento della famiglia - cioè Milano, dove la persona offesa e il ricorrente convivevano stabilmente dal dicembre 2021 e dove si era verificata la maggior parte delle condotte maltrattanti- piuttosto che al luogo in cui si era verificata - l'ultimo episodio - ovvero Gaeta, dove la famiglia aveva deciso di trascorrere un breve periodo di vacanza nell'agosto 2023 -, ritenendo di dover accordare prevalenza al luogo in cui l'abitualità del reato si era manifestata, piuttosto che al luogo in cui si erano verificati fatti occasionali. Ma, in tal modo il Tribunale ha scisso la sequenza delle condotte vessatorie, che unitariamente valutate integrano il reato di maltrattamenti in famiglia. E', infatti, noto che il reato di maltrattamenti ha natura abituale, essendo la risultante di una serie di fatti che, isolatamente considerati, potrebbero anche non essere punibili o integrare altri reati, ma che, invece, costituiscono segmenti della condotta di maltrattamenti quando concorrono a realizzare una reiterata e persistente azione vessatoria, lesiva della personalità della vittima. E' stato chiarito che il nesso che unifica le condotte, reiteratamente poste in essere dall'agente con l'intento di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, le collega in una sequenza ininterrotta in cui ogni condotta successiva si salda alle precedenti, dando vita ad un illecito strutturalmente unitario (Sez. 6, n. 56961 del 19/10/2017, F., Rv. 272200). Proprio dalla struttura unitaria, perdurante e continuativa del reato discende che esso si perfeziona con il compimento dell'ultimo atto della serie, sicché ai fini della determinazione della competenza per territorio del reato di maltrattamenti, il luogo in cui essa si radica è quello in cui l'azione diventa complessivamente riconoscibile e qualificabile come maltrattamento e si identifica nel luogo in cui la condotta viene consumata all'atto della presentazione della denuncia (Sez. F, n. 36132 del 13/08/2019, G., Rv. 276785) cioè nel luogo in cui si realizza l'ultimo dei molteplici fatti caratterizzanti il reato (Sez. 6, n. 24206 del 26/03/2019, L. Rv. 276752). Ancora di recente e proprio in tema di conflitto di competenza per territorio è stato riaffermato che la consumazione del delitto di maltrattamenti in famiglia deve ritenersi avvenuta nel luogo di realizzazione dell'ultima condotta che integra il reato, anche nel caso in cui la stessa sia successiva al perfezionamento della fattispecie ai sensi dell'art. 572 cod. pen. (Sez. 1, n. 26549 del 02/05/2023, G., Rv. 284893; Sez. 1 n. 7185 del 16/02/2024 n. m.), precisando che la prosecuzione delle condotte consente di inglobare e ricondurre ad unità anche gli ultimi episodi sicché il luogo di commissione degli stessi, coincidendo con la consumazione del reato, radica la competenza per territorio e, al fine di sgombrare il campo da equivoci, è stato chiarito che, a prescindere dal luogo in cui è sporta la denuncia (che può anche essere presentata in luogo diverso da quello in cui sono state realizzate le ultime condotte), ai fini della competenza per territorio rileva il luogo individuato, in base alla denuncia, come quello in cui la condotta di maltrattamenti si è consumata. Nel caso di specie la denunciante ha descritto una sequenza di condotte violente e aggressive, progressivamente acuitasi e culminata negli episodi verificatisi in Gaeta nell'agosto 2023, che l'avevano determinata a sporgere denuncia e ad interrompere la convivenza, sicché alla luce dei principi appena illustrati la competenza spetta al Tribunale di Cassino nel cui circondario si trova Gaeta, individuabile come il luogo di consumazione del reato. 3. Tuttavia, a differenza di quanto sostenuto nel ricorso, la violazione delle regole sulla competenza non comporta la nullità dell'ordinanza cautelare, ma solo l'inefficacia differita della stessa ai sensi dell'art. 27 cod. proc. pen. secondo il meccanismo che il giudice del riesame o il giudice di legittimità sono tenuti ad attivare in supplenza, nel caso in cui sia rilevata l'incompetenza del giudice emittente. Sul punto e, in particolare, sulla latitudine del sindacato sul provvedimento applicativo di una misura cautelare attribuito al giudice dell'impugnazione che rilevi l'incompetenza di quello che l'ha adottato, ivi compreso il potere di caducare la misura, le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 19214 del 23/04/2020, PMT c/Giacobbe, Rv. 279092) hanno risolto il contrasto registratosi sul tema e, dando continuità ai principi già affermati (Sez. U, n. 14 del 20/07/1994, De Lorenzo, Rv. 198217; Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, De Lorenzo, Rv. 199393), hanno stabilito che per il principio della continuità del controllo di legalità sulle misure coercitive ed in coerenza con il dettato dell'art. 291, comma 2, cod. proc. pen., il giudice della impugnazione non può prescindere dalla verifica delle condizioni applicative della misura anche quando dichiari l'incompetenza e debba rendere operativo il disposto dell'art. 27 cod. proc. pen. In tal senso viene riconosciuto al giudice dell'impugnazione il potere-dovere di verificare - nei limiti dei poteri cognitivi attribuitogli dalla legge processuale a seconda che si tratti del giudice del riesame o di quello di legittimità- la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, nonché l'urgenza di queste ultime e, quindi, quello di annullare il titolo cautelare nel caso in cui tale verifica abbia esito negativo ovvero, nel caso contrario, di provvedere ai sensi dell'art. 27 cod. proc. pen., laddove ravvisi l'urgenza di anche solo una delle esigenze cautelari riscontrate (In motivazione la Corte ha specificato che il giudice, anche dell'impugnazione, che dichiari la propria incompetenza ex art. 27 cod. proc. pen., deve trasmettere gli atti al pubblico ministero che ha richiesto la misura, cui spettano le conseguenti determinazioni). Nel caso di specie detta verifica ha esito positivo, avendo il Tribunale congruamente motivato sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari nonché sull'urgenza dell'intervento cautelare (pag. 5, 9 e 10), risultando, pertanto, giustificata l'ultrattività provvisoria della misura cautelare. Sono, infatti, infondati gli altri motivi di ricorso. 4. Il secondo motivo è infondato, in quanto, pur essendo innegabile l'erronea formulazione del dispositivo - che individua nei prossimi congiunti i destinatari del divieto di avvicinamento alla persona offesa -, la logica interpretazione del provvedimento, che va letto nella sua interezza, non lascia dubbi sull'individuazione del ricorrente quale destinatario della misura cautelare imposta a tutela della persona offesa, del figlio e dei genitori della stessa. E ciò a prescindere dalla violazione della norma indicata dalla difesa, per la ovvia ragione che il dispositivo va letto unitamente alla motivazione, trattandosi di ordinanza e non di sentenza, in cui prevale il dispositivo sulla motivazione. Non incide sulla legittimità ed esistenza della misura applicata al ricorrente, che è unicamente quella di cui all'art. 282-ter cod. proc. pen., l'errore contenuto nel verbale di esecuzione della misura, atteso che il titolo cautelare non ha affatto disposto la misura ulteriore dell'allontanamento dalla casa familiare, ascrivibile solo ad una erronea interpretazione dell'organo esecutivo; né il Tribunale del riesame, deputato al controllo della legittimità del titolo genetico, avrebbe potuto emendare l'errore, eliminando una misura mai disposta dal giudice della cautela. 5. Infondata è anche l'eccepita nullità dell'ordinanza per mancanza di autonoma valutazione nel titolo genetico, non rilevata dal Tribunale del riesame. Premesso che in tema di misure cautelari personali, il requisito dell'autonoma valutazione del giudice cautelare, di cui all'art. 292, comma 2, lett. c) bis cod. proc. pen., è compatibile con la redazione dell'ordinanza con la tecnica c.d. dell'"incorporazione" quando dal contenuto complessivo del provvedimento emerga la conoscenza degli atti del procedimento, e, ove necessaria, la rielaborazione critica degli elementi sottoposti al vaglio del riesame, giacché la valutazione autonoma non necessariamente comporta la valutazione difforme (Sez. 5, Sentenza n. 1304 del 24/09/2018, dep. 2019, Pedato, Rv. 275339), il Tribunale ha fatto corretta applicazione di tale principio, affermando che l'autonoma valutazione non è esclusa dal riferimento alle fonti indiziarie e, in particolare, alle dichiarazioni della persona offesa e a quelle dei testimoni, non dovendo necessariamente essere originale l'esposizione del compendio indiziario, risultando, invece, decisiva e riscontrata nel caso di specie la valutazione delle stesse e le autonome considerazioni espresse dal giudice della cautela, indicative dell'apprezzamento operato in termini di gravità indiziaria, di inquadramento giuridico dei fatti e di prognosi cautelare. 6. Analogamente infondato è il quarto motivo con il quale si contesta la sussistenza della gravità indiziaria per inattendibilità della persona offesa e mancata considerazione degli elementi positivi offerti dalla difesa. Le censure lambiscono l'inammissibilità nella misura in cui risultano meramente oppositive e sollecitano una revisione degli indizi e degli elementi di fatto valorizzati dai giudici di merito, preclusa in questa sede a fronte di una motivazione lineare ed esaustiva. A differenza di quanto prospettato dal ricorrente, il Tribunale ha ritenuto coerente e scevro da intenti di rivalsa il narrato della persona offesa, che pur sufficiente da solo a fondare il giudizio di gravità cautelare, nel caso di specie risultava persino riscontrato da elementi esterni di natura oggettiva (relazioni degli interventi effettuati presso l'abitazione estiva il (Omissis)) e dichiarativa (dichiarazioni di terzi, allarmati dall'aggressività del ricorrente ed indotti a chiedere l'intervento delle forze dell'ordine; di amici della coppia, che riferivano dello stillicidio di ingiurie cui era sottoposta la persona offesa, v. pag. 8 -; dei genitori della persona offesa relative all'atteggiamento di scarsa considerazione e disinteresse manifestato dal ricorrente dopo la nascita del bambino). Il Tribunale ha, inoltre, dato atto che risalivano al periodo precedente all'inizio della convivenza - pur essendo già presenti durante la gravidanza - le manifestazioni di insofferenza, di denigrazione e di disprezzo verso la compagna, divenute progressivamente più intense e sfociate in sfuriate violente e aggressive sia verbali che fisiche durante la convivenza e anche nei periodi di vacanza. L'evoluzione ingravescente delle condotte del ricorrente descritta nell'ordinanza (pag. 8 - 9), culminata nella determinazione della persona offesa di sporgere denuncia dopo l'episodio del 20 agosto 2023 e proseguita anche in occasione delle trasferte a Napoli - ove ella si era trasferita con il figlio presso i suoi genitori -, minacciando di farle perdere la custodia del figlio, sempre a causa della sua inadeguatezza e di farla sottoporre a valutazioni psicologiche per accertarla al fine di costringerla a riappacificarsi, è stata correttamente ritenuta idonea ad integrare l'abitualità tipica del reato di maltrattamenti, specie in ragione della frustrazione, indotta dalla costante svalutazione, nella persona offesa e dello stato d'ansia generato dall'intento ritorsivo di sottrarle la potestà sul figlio. Infondata è anche l'ulteriore censura di mancata valutazione degli elementi positivi offerti dalla difesa, risultanti dal file audio prodotto, invece, valutati, ma letti in termini opposti a quelli proposti, avendo il Tribunale valorizzato la sequenza delle pretese reciproche e attribuito rilievo all'intimazione del ricorrente di riportare il bambino a Milano non disgiunta dalla sollecitazione alla persona offesa ad avviare un percorso psicologico (v. pag. 9 ordinanza impugnata). 7. Anche in punto di esigenze cautelari l'ordinanza si sottrae a censure. Il Tribunale ha ravvisato un concreto e attuale pericolo di reiterazione, desunto dalla risalenza, costanza e continuità delle condotte maltrattanti, e ha coerentemente fondato la prognosi negativa sull'indole irascibile e violenta dell'indagato e sulla sua incapacità di autocontrollo, ritenendo indispensabile, adeguata ed idonea a contenere il rischio di recidiva la misura applicata, che, inibendo i contatti con la persona offesa, con il figlio ed i genitori presso i quali vive, evita il ripetersi delle condotte aggressive tenute dal ricorrente in più occasioni anche alla presenza del minore. Con valutazione non illogica né arbitraria, perciò incensurabile in questa sede, nel bilanciamento degli interessi sottesi alla richiesta di modifica della misura, la tutela della integrità psichica del minore è stata ritenuta prevalente ed ostativa alle modifiche richieste senza prospettare la possibilità di interventi moderatori in occasione degli incontri con il minore. Risulta, peraltro, giustificata alla luce degli ultimi e più recenti episodi, in ragione della pregnanza e dell'intensità delle esigenze cautelari l'urgenza dell'intervento cautelare, legittimante la protrazione provvisoria del titolo cautelare. 8. Al rigetto del ricorso, come anticipato, non consegue l'annullamento dell'ordinanza impugnata, ma, in applicazione dei principi suindicati, ritenuta la competenza dell'autorità giudiziaria di Cassino, va disposta la trasmissione degli atti al P.M. presso il Tribunale di Cassino a cura del P.M. procedente. P.Q.M. Ritenuta la competenza per territorio del Tribunale di Cassino, rigetta il ricorso quanto ai presupposti di cui agli artt. 273 e 274 cod. proc. pen. Letto l'art. 27 cod. proc. pen. dispone la immediata comunicazione della decisione al P.M. presso il Tribunale di Milano. Così deciso il 28 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. GIORDANO Emilia Anna - Presidente Dott. COSTANTINI Antonio - Relatore Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. PATERNÒ RADDUSA Benedetto - Consigliere Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Sc.An., nato a M il (omissis); avverso l'ordinanza del 21/11/2023 del Tribunale del riesame di Reggio Calabria; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Antonio Costantini; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberto Aniello, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso; lette le conclusioni dell'avvocato Gi.Ne., che ha richiesto la declaratoria di estinzione ed inefficacia della misura cautelare. RITENUTO IN FATTO 1. Sc.An., con il patrocinio del difensore, ricorre avverso l'ordinanza del Tribunale di Reggio Calabria che ha confermato la decisione del Tribunale di Reggio Calabria che aveva rigettato l'istanza con cui aveva chiesto la declaratoria di inefficacia della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla moglie e dal figlio e di Ri.Ma. e dichiarato inammissibile per omessa notifica alle persone offese della richiesta di revoca della predetta misura emessa dal Giudice delle indagini preliminari il 13 gennaio 2021 per i delitti di maltrattamento e atti persecutori ai danni dei predetti. Il Tribunale, quanto a richiesta di inefficacia della misura, ha rilevato non fossero decorsi i termini massimi di legge alla luce del decreto che ha disposto il giudizio e della successiva sentenza di condanna alla pena di quattro anni e mesi due di reclusione, mentre, quanto alla richiesta di revoca del divieto di avvicinamento alle persone offese, ha dato atto della intervenuta notifica a mezzo PEC nei confronti dei difensori delle persone offese, ma ha rilevato l'infondatezza della gravosità della misura e l'irrilevanza del mero decorso del tempo, rigettando la richiesta. 2. Avverso tale decisione la difesa reitera la richiesta di declaratoria di inefficacia della misura cautelare del divieto di avvicinamento alle persone offese eseguita il 13 gennaio 2021 per decorrenza, alla data del 11 ottobre 2023, dei termini massimi di fase, essendo intervenuta sentenza di condanna da parte del Tribunale. Nel merito il ricorrente insiste nella richiesta di revoca della misura facendo presente che i coniugi erano ormai da tempo separati e che la moglie ed il figlio vivono in altro comune; nonostante il ricorrente si rechi, su autorizzazione del giudice, "sotto la casa di abitazione della moglie", non risulta aver mai contravvenuto all'ordinanza mantenendo un comportamento esemplare. L'attenuazione delle esigenze cautelari emerge, altresì, dalle gravi condizioni di salute in cui versa il ricorrente non potendosi escludere che, in ipotesi di ricovero urgente Sc.An., corra il rischio di imbattersi nella moglie o nel figlio così contravvenendo inconsapevolmente al divieto imposto dalla misura. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile in quanto generico e manifestamente infondato. 2. Deve, innanzitutto, essere ribadito il principio di diritto ormai pacifico di questa Corte secondo cui la cognizione del giudice di appello ex art. 310 cod. proc. pen. è limitata ai punti della decisione impugnata attinti dai motivi di gravame (e a quelli con essi strettamente connessi e da essi dipendenti), ma non è condizionata dalle deduzioni in fatto e dalle argomentazioni in diritto poste dal giudice della decisione impugnata a sostegno del proprio assunto (Sez. U, n. 8 del 25/06/1997, Gibilras, Rv. 208313). Rientra, infatti, nei poteri del giudice chiamato a decidere in sede di appello ex art. 310 cod. proc. pen. l'accertamento della ricorrenza, nell'ambito della concreta fattispecie, degli elementi previsti dalla legge per l'applicabilità di una determinata norma, indipendentemente dal fatto che una tale doverosa indagine sia stata trascurata nel precedente grado o, più semplicemente, che il rigetto dell'istanza abbia trovato altra motivata giustificazione sì da rendere superfluo l'approfondimento di altri aspetti normativi. 3. Ciò premesso in termini generali ed al fine di meglio comprendere il perimetro entro il quale deve muoversi il giudizio ex art. 310 cod. proc. pen., si osserva come Tribunale abbia correttamente spiegato quali fossero le ragioni che, da un lato, facevano ritenere non perento il termine di fase della misura cautelare del divieto di avvicinamento alle persone offese, dall'altro, le ragioni che portavano a ritenere non attenuate le esigenze cautelari alla base della misura disposta. 3.1. Ed invero, quanto al primo aspetto, l'ordinanza impugnata ha scandito con precisione le scansioni processuali rilevanti onde poter rilevare la mancata scadenza della stessa, rilevando come dalla sua esecuzione in data 13 gennaio 2021, sino alla data del decreto di rinvio a giudizio del 9 novembre 2021, e da tale data, sino a quello della sentenza emessa il 31 ottobre 2023, non fossero utilmente decorsi i termini massimi, rispettivamente, di un anno e due anni, ex art. 303, comma 1, lett. a), n. 2, e 308, comma 1, cod. proc. pen. (in fase di indagine) ed ex art. 303, comma 1, lett. b), n. 2, e 308, comma 1, cod. proc. pen. (dal decreto di rinvio a giudizio alla sentenza di primo grado). 3.2. Quanto alla permanenza delle esigenze cautelari, adeguata si rivela la motivazione resa sul punto dal Tribunale adito ex art. 310 cod. proc. pen., che ha dato conto della gravità delle contestazioni mosse e pervenute a condanna, dell'irrilevanza del mero decorso del tempo, della sufficiente libertà di cui può godere il ricorrente per potere, se del caso, far fronte alle prospettate esigenze di salute connesse a patologie neppure documentate. 4. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si stima adeguata, di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, secondo quanto previsto dall'art. 616, comma 1, cod. proc. pen. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 4 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. GIORDANO Emilia Anna - Presidente Dott. COSTANTINI Antonio - Relatore Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. PATERNÒ RADDUSA Benedetto - Consigliere Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Se.Al., nato a P il (omissis); avverso l'ordinanza del 04/12/2023 del Tribunale del riesame di Palermo; visti gli atti, la ordinanza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Antonio Costantini; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberto Aniello, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Se.Al., a mezzo del difensore di fiducia avvocato Da.Ch., ricorre avverso la decisione con cui il Tribunale del riesame di Palermo ha rigettato il ricorso avverso l'ordinanza del 16 novembre 2023 con cui è stata disposta la misura della custodia in carcere in ordine al delitto di maltrattamenti ex art. 572 cod. pen. ai danni della convivente fatta oggetto di plurime ingiurie, minacce e violenze. 2. Il ricorrente articola un unico motivo con cui deduce vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. quanto a gravità indiziaria ex art. 572 cod. pen. specie con riferimento al requisito della necessaria stabile convivenza tra ricorrente e persona offesa. La motivazione della decisione in punto di gravità indiziaria ex art. 273 cod. proc. pen. - secondo la difesa - si rivela lacunosa quanto ad integrazione del delitto di cui all'art. 572 cod. pen., non palesando l'ordinanza un coerente ed organico apprezzamento degli elementi di prova secondo quanto statuito da questa Corte di legittimità in ipotesi di cessazione della convivenza more uxorio tra le parti. Il Tribunale della cautela ha assegnato valenza dirimente alla sola assidua frequentazione dell'abitazione dell'indagato da parte della persona offesa (si riporta parte dell'ordinanza a pag. 5), pur avendo rilevato che gran parte delle presunte violenze avvenissero in contesti estranei all'ambiente familiare condiviso e dal rapporto more uxorio, né sono state individuate le condotte che erano state commesse al di fuori di tale rapporto, evenienza che implica il venir meno del delitto di maltrattamento contestato invece di quello ex art. 612-bis cod. pen. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito esposte. 2. Innanzitutto si rileva la genericità del ricorso che non opera alcun confronto con la risposta che in ordine alla questione dedotta in sede di gravame, tesa a censurare proprio la sussistenza dei gravi indizi circa l'integrazione del reato sul presupposto dell'assenza di convivenza tra il ricorrente e la persona offesa, ha smentito tale evenienza, enunciando, oltre alla pregressa giurisprudenza di questa Corte ormai superata, quella più recente ma comunque consolidatasi in questi ultimi anni che richiede che le condotte commesse ai danni della vittima siano realizzate nell'ambito di un effettivo rapporto more uxorio tra le parti. 3. Secondo il precedente indirizzo ermeneutico portato avanti da questa Corte, infatti, l'art. 572 cod. pen., che punisce i maltrattamenti in famiglia, sarebbe applicabile, non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l'insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472). Partendo da tale impostazione, questa Corte ha però recentemente inteso limitare il significato da assegnare al rapporto di natura familiare citato dalla norma in esame, specie quando questo non sia fondato sul matrimonio, apprezzando la concreta, effettiva e significativa convivenza more uxorio. Superando di fatto un conflitto giurisprudenziale in precedenza esistente sulla rilevanza dell'effettiva convivenza ai fini dell'integrazione della fattispecie di cui all'art. 572 cod. pen., è stato escluso, in ipotesi di cessata convivenza, l'integrazione del delitto di maltrattamenti in famiglia, potendosi realizzare - al più - la fattispecie aggravata del reato di atti persecutori allorché si realizzino condotte illecite poste in essere da uno dei conviventi "more uxorio" ai danni dell'altro (Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398). Si è intesa in tal modo valorizzare la cessazione della convivenza ed il venir meno della comunanza di vita e di affetti, nonché il rapporto di reciproco affidamento non più in essere (Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., 282254). Su tale nuovo orientamento ha certamente avuto rilevante impatto il monito contenuto nella sentenza n. 98 del 2021 della Corte costituzionale che, seppure pronunciatasi in occasione della valutazione di costituzionalità relativa a norma di natura processuale, ha avuto modo di soffermarsi sulla non corretta operazione ermeneutica che si realizza allorché, esorbitando dal chiaro dato letterale dell'art. 572 cod. pen., pena la violazione del principio di tassatività sancito dall'art. 25 Cost., si assegna al significato delle parole delle disposizioni penali un ambito di applicazione più ampio. La Corte delle leggi ha, infatti, osservato come il termine "convivenza" non possa essere dilatato sino al punto di farvi rientrare quei casi in cui un rapporto affettivo si sia protratto per qualche mese ovvero sia stato caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro, di fatto escludendo che in dette ipotesi possa apprezzarsi un rapporto caratterizzato da una relazione idonea a far ritenere che la parte offesa sia persona appartenente alla medesima famiglia ovvero convivente. In assenza di qualsivoglia convivenza che abbia preceduto agiti violenti, non può ritenersi integrata la fattispecie di maltrattamenti in famiglia nella condotta che consta di una lunga relazione sentimentale mai approdata verso una decisione di comune convivenza (in tal senso ha avuto modo di esprimersi questa Corte allorché ha rilevato come non fosse configurabile una relazione di natura familiare nel caso di due persone che, coltivando una relazione clandestina, utilizzino un appartamento esclusivamente quale base dei loro incontri, cfr., Sez. 6, n. 34086 del 21/10/2020, G., Rv. 280125). 4. Proprio prendendo in esame tale ultima restrittiva interpretazione, la decisione, pur richiamando l'indirizzo giurisprudenziale precedente (pagg. da 4 a 6), come detto, ormai superato, motiva correttamente (pagg. da 6 a 8) sulle ragioni che fanno ritenere il rapporto intercorrente tra il ricorrente e la persona offesa quale convivenza more uxorio: richiama le già evocate condotte maltrattanti poste in essere ai danni della donna che veniva percossa, minacciata e si rendeva destinataria di continue mortificazioni spesso originate da "insana" (in tali termini la decisione) gelosia nei confronti della persona offesa che veniva limitata in ogni contatto sociale e familiare; valorizza la circostanza che gran parte degli episodi si siano realizzati nel contesto di detta convivenza (come appurato dall'intervento delle forze di polizia in data 7 novembre 2023) e che proprio l'accertato stato di gravidanza nel settembre del 2023 e la rassicurazione ricevuta da Se.Al. all'esito del fermo rimprovero ricevuta dal parte del padre del ricorrente in ordine alla corretta condotta che avrebbe da quel momento in poi dovuto assumere nei confronti della donna, induceva costei a fare ritorno presso l'abitazione anche in considerazione del progetto di vita comune tra indagato e persona offesa. La Corte territoriale, pertanto, contrariamente a quanto genericamente dedotto nel ricorso, ha valorizzato plurimi elementi che portavano a ritenere -compatibilmente al grado di accertamento che si richiede in questa fase cautelare - la relazione esistente tra i due quale convivenza more uxorio rilevante ai fini dell'integrazione del delitto di maltrattamenti, sia in considerazione della non certo breve coabitazione iniziata a partire dall'ottobre del 2022 e durata almeno sino a novembre 2023, sia perché è stata valorizzata, al fine di dimostrare gli elementi significativi della gravità indiziaria in ordine alla sussistenza del presupposto in esame, l'accertata assidua frequentazione dell'abitazione ma sul presupposto di una programmato progetto di vita comune. Il ricorrente, invero, attraverso la frammentaria estrapolazione di una unica frase apprezzata dal Tribunale nel suo complesso onde dare contezza dei plurimi elementi sintomatici della apprezzata convivenza, tenta di accreditare una differente lettura che è stata invece svolta con logicità e completezza nei limiti del vaglio dell'attuale parentesi cautelare. 5. Generica e priva di concreto interesse risulta la parte del ricorso con cui si rivolgono critiche all'ordinanza che si assume non avrebbe evidenziato quali delle condotte contestate si siano realizzate durante la convivenza more uxorio della coppia e quali al di fuori di essa, sia perché la Corte ha, di fatto, evidenziato condotte che si sono realizzate durante la convivenza sino alla data prossima all'esecuzione della misura cautelare, sia perché non si comprende quale utile risultato possa conseguire il ricorrente in ordine alla misura cautelare in atto sofferta, visto che l'eventuale eliminazione di talune condotte poste in essere a convivenza ormai cessata, vedrebbe semmai integrato un ulteriore reato (art. 612-bis cod. pen.) non oggetto di contestazione, senza che ciò possa riverberare effetti di sorta sulla provvisoria contestazione ex art. 572 cod. pen. che costituisce titolo posto a fondamento della misura cautelare impugnata. 6. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende, secondo quanto previsto dall'art. 616, comma 1, cod. proc. pen. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 4 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. BONI Monica - Presidente Dott. FIORDALISI Domenico - Consigliere Dott. CASA Filippo - Consigliere Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Consigliere Dott. RUSSO Carmine – Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Be.Al. nato a C il (omissis) avverso la sentenza del 24/05/2023 della CORTE APPELLO di CATANZARO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere CARMINE RUSSO; udito il PG, Simone Perelli, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. udito il difensore della parte civile Ci.Ro. avv. St.Ni., che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. udito il difensore dell'imputato, avv. Ma.Ai., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 1° giugno 2022 il Tribunale di Catanzaro, in rito abbreviato derivante da conversione del rito immediato, ha condannato Be.Al. alla pena di 8 anni di reclusione, oltre statuizioni accessorie, per i reati di maltrattamenti in danno della ex compagna Ci.Ro. (art. 572 cod. pen.), lesioni aggravate in danno della stessa (artt. 582, 585, 576 cod. pen.), tentato omicidio, sempre in danno della ex compagna (artt. 56 e 575 cod. pen.), nonché per due condotte di evasione dagli arresti domiciliari {artt. 81 e 385 cod. pen). Con sentenza del 24 maggio 2023 la Corte di appello di Catanzaro ha confermato la sentenza di primo grado. 2. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso l'imputato, per il tramite del difensore, con i seguenti motivi di seguito descritti nei limiti strettamente necessari ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen. Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, perché la sentenza impugnata non avrebbe assolto all'obbligo capillare e rigoroso di motivazione in merito alla credibilità intrinseca ed estrinseca della persona offesa costituita parte civile; in particolare sul tentato omicidio e sulle evasioni la motivazione è del tutto deficitaria in quanto non sorretta da criteri logico-giuridici, posto che si basa solo sulle dichiarazioni di una persona offesa che ha un interesse specifico in quanto costituita parte civile; a conferma delle dichiarazioni di questa risulta acquisito un verbale di pronto soccorso, che però è del tutto neutro, in quanto non ancorato al risultato di esami oggettivi, anzi negativo in ordine a lesioni; sul tentato omicidio la motivazione confonde anche tempi e luoghi dell'accadimento con quelli della presunta evasione: se si guardano le date delle contestazioni di cui al tentato omicidio ed all'evasione, si nota che l'episodio dell'incontro con la ex compagna presso la cartolibreria avviene il 27 gennaio ed è documentato dai filmati estrapolati dalle telecamere esterne; la sentenza d'appello ricava la presenza dell'imputato presso l'abitazione della ex compagna nel giorno successivo, 28 gennaio, presenza che però non è documentata da telecamere. Inoltre, la pronuncia è illogica anche in punto di qualificazione giuridica del fatto come tentato omicidio, e non come lesioni, va osservato, infatti, che, se l'imputato avesse realmente tentato di ostruire le vie aeree strangolando la ex compagna, la stessa non avrebbe potuto urlare e lo strozzamento avrebbe lasciato segni diversi dalla semplice distorsione che si può ricavare dal referto medico; le stesse dichiarazioni del testimone non parlano mai di strangolamento ma solo di un forte strattonamento, le versioni del testimone e della persona offesa sono sul punto inconciliabili. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione in punto di trattamento sanzionatorio sia con riferimento al giudizio di bilanciamento tra le attenuanti generiche e la recidiva, sia con riferimento alla quantificazione degli aumenti per la continuazione interna. In particolare, desta perplessità l'applicazione della recidiva in questa vicenda per l'assunto della manifesta crudeltà nonostante che per l'evasione l'imputato fosse regolarmente autorizzato ad uscire dall'abitazione percorrendo l'itinerario più breve, sia perché sussisteva un clima di litigiosità reciproca e non una aggressione unilaterale. 3. La difesa dell'imputato ha chiesto la discussione orale. Il Procuratore generale, dr. Simone Perelli, ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. Il difensore della parte civile Ci.Ro. avv. St.Ni., per il tramite del sostituto processuale, ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. Il difensore dell'imputato, avv. Ma.Ai., ha insistito per l'accoglimento del ricorso. Prima dell'udienza tutte le parti (Procuratore generale, difensore della parte civile, e difensore dell'imputato) avevano fatto pervenire anche note scritte di conclusioni. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è infondato. 1. Il primo motivo, che ha ad oggetto il giudizio di responsabilità, è infondato. 1.1. Il motivo contesta, anzitutto, l'insufficienza del giudizio di credibilità della persona offesa formulato dalla motivazione della sentenza impugnata. La sentenza di primo grado ha motivato il giudizio di credibilità in questi termini: "le dichiarazioni rese dalla persona offesa appaiono spontanee, precise e coerenti e non risultano motivi che possano far dubitare della genuinità del suo narrato; le dichiarazioni sono, inoltre, riscontrate da una serie di elementi esterni che saranno meglio specificati che contribuiscono a cementare la piattaforma probatoria a carico dell'odierno imputato". La sentenza di appello aggiunge che la persona offesa ha puntualmente descritto la condotta denigratoria, minacciosa e violenta posta in essere dall'imputato nei suoi confronti fin dal 2015, e che non risultano ragioni di astio o di interesse che possano far dubitare della credibilità della donna. La sentenza aggiunge che l'attendibilità del narrato della persona offesa ha trovato plurimi episodi di conferma, perché l'episodio del 27 ottobre 2021 è stato ripreso da una telecamere di videosorveglianza, ed una parte dell'episodio è avvenuto in presenza dei Carabinieri; inoltre, secondo la motivazione della sentenza di appello, anche il verbale di pronto soccorso è un ulteriore serio elemento di conferma delle dichiarazioni della persona offesa, e significativi sono anche i messaggi audio inviati dall'imputato alla donna nella serata successiva al giorno dell'episodio di violenza; la pronuncia di appello aggiunge che tale Ri.Pa. riferisce di aver assistito a un episodio di violenza fisica un danno della vittima e che la madre della persona offesa è testimone oculare almeno di tre episodi di violenza fisica. Il ricorso non prende posizione su ciascuno dei singoli elementi di riscontro individuati dalla pronuncia di appello alle dichiarazioni della vittima del reato. Il ricorso non prende posizione, ad esempio, sull'argomento usato dalla pronuncia di appello sulla esistenza di telecamere di una stazione di servizio che hanno ripreso l'episodio di lesioni del 27ottobre, né sulla circostanza che una parte dell'episodio stesso è avvenuto anche in presenza dei Carabinieri, nel frattempo intervenuti, né prende posizione sui messaggi audio inviati dal ricorrente alla vittima il giorno successivo al fatto che confermerebbero l'uso di violenza, né sulle dichiarazioni della testimone Ri.Pa., che pure hanno un ruolo nel percorso della sentenza di appello, né su quelle della madre della vittima, che pure nel percorso logico della pronuncia di appello corroborano il giudizio di credibilità della persona offesa. Su tale punto, pertanto, il ricorso si rivela) privo del requisito della specificità estrinseca dei motivi di impugnazione (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 08/01/2019, Delle Cave, Rv. 276916, nonché, in motivazione, Sez. U, Sentenza n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Gattelli, Rv. 268823), atteso che lo stesso non si confronta con il percorso logico del provvedimento impugnato. 1.2. Il motivo di ricorso attacca poi la sentenza impugnata sull'episodio specifico del tentato omicidio del 28 gennaio 2022. In particolare, deduce che la motivazione confonde tempi e luoghi dell'accadimento con quelli della presunta evasione: se si guardano le date delle contestazioni di cui al tentato omicidio ed all'evasione, si nota che l'episodio dell'incontro con la ex compagna presso la cartolibreria avviene il 27 gennaio ed è documentato dai filmati estrapolati dalle telecamere esterne; la sentenza d'appello ricava la presenza dell'imputato presso l'abitazione della ex compagna nel giorno successivo, 28 gennaio, presenza che però non è documentata da telecamere. L'argomento è infondato. La questione dell'attribuzione all'imputato della responsabilità per l'aggressione in danno di Ci.Ro. del 28 gennaio 2022 è risolto dalla sentenza impugnata mediante il giudizio di credibilità della persona offesa, che ha individuato nel ricorrente, suo ex compagno, l'autore dell'aggressione, corroborato dalla circostanza che il giorno precedente al fatto le immagini della telecamera di sicurezza di una cartolibreria avevano ritratto l'imputato, evaso dai domiciliari, cercare la Ci.Ro. Il ricorso evidenzia l'errore della Corte di appello sulla distanza temporale tra l'episodio della cartolibreria e quello dell'aggressione (che in sentenza sono indicati come avvenuti a poche ore di distanza dello stesso giorno, e che invece il ricorso evidenzia essere avvenuti ad un giorno di distanza), errore che, però, non incide sul percorso logico della decisione, perché la pronuncia di appello usa il pacifico riconoscimento nel ricorrente dell'uomo coinvolto nell'episodio della cartolibreria soltanto quale conferma del fatto che questi avesse avuto conoscenza del nuovo indiRi.Pa. di casa della vittima. Il ricorso deduce che l'aggressione del 28 gennaio non è ripresa da alcuna telecamera di sicurezza, nonostante esistessero telecamere condominiali all'esterno dell'edificio, di cui però non risulterebbe traccia agli atti, ma l'argomento non è idoneo a viziare la sentenza impugnata, che non ha indicato l'esistenza di telecamere di sicurezza condominiali come ulteriore riscontro alle dichiarazioni della persona offesa, ma si è limitata ad evidenziare che la certezza dell'esistenza dell'aggressione è documentata dalla deposizione del teste Vi., che è accorso in aiuto della vittima quando ne ha udito le urla. 1.3. Il motivo di ricorso attacca poi la sentenza impugnata anche sulla qualificazione giuridica dell'episodio del 28 gennaio 2022. Il ricorso evidenzia, in particolare, il contrasto tra le dichiarazioni della persona offesa che ha riferito che l'ex compagno ha tentato di strangolarla e quelle del testimone che non ha parlato di strangolamento ed ha riferito che la vittima urlava. Secondo il ricorso, si tratterebbe di una dichiarazione che inficia il percorso logico della decisione di condanna, perché una persona vittima di un tentativo di strangolamento non sarebbe in grado di urlare. L'argomento è infondato. Su tale argomento aveva preso posizione, in realtà, già la sentenza di primo grado, che a pag. 7 evidenzia che il testimone Vi. ha visto soltanto una parte dell'azione e non si è soffermato sulla stretta alla gola, che è riferita soltanto dalla vittima che, però, ha dimostrato di essere attendibile anche sugli altri episodi, e quindi può essere ritenuta attendibile anche su questo. Sullo stesso argomento prende posizione anche la pronuncia di appello, che rileva che l'azione si è svolta in un arco di tempo ristrettissimo, avuto riguardo anche alle conseguenze prodotte. Le conclusioni cui sono giunti i giudici del merito, le cui sentenze possono essere lette congiuntamente, formando un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595), sono prive di elementi di illogicità. Una volta effettuato il giudizio di credibilità del dichiarante (che, come evidenziato prima, è risultato credibile sui vari episodi di maltrattamento e sulla esistenza in sé dell'episodio di aggressione del 28 gennaio), non occorre che vi sia conferma di ogni segmento dell'azione per ritenere tale dichiarante credibile anche sui segmenti su cui non vi è conferma (Sez. 5, Sentenza n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312), talché in modo non illogico i giudici del merito hanno ritenuto esistente un tentativo di strangolamento sulle sole dichiarazioni della persona offesa. Né si può sostenere, come fa il ricorso, che le dichiarazioni del testimone Vi. abbiano tolto credibilità alle dichiarazioni della vittima, perché, come evidenziato nelle pronunce dei giudici del merito, il testimone ha visto soltanto una parte dell'azione, ed in ogni caso sostenere che una persona che subisce un tentativo di strangolamento non sia in grado di urlare significa anche partire dal postulato che la stretta al collo della vittima sia stata efficace, postulato che è in contrasto con quanto risulta dagli atti in cui si discute di un tentativo non andato a buon fine per la resistenza della vittima e l'immediato intervento di un terzo, talché la vicenda è compatibile con quella ricostruita in sentenza di un comportamento consistito nel portare le mani al collo della vittima, e stringerle attorno ad esso, che in modo non illogico è stato qualificato come un tentativo di omicidio/non avvenuto per cause non imputabili al ricorrente. Il motivo è complessivamente infondato. 2. Il secondo motivo ha ad oggetto il trattamento sanzionatorio. Il ricorso lamenta, in particolare, la mancata prevalenza delle attenuanti generiche e la eccessività degli aumenti per continuazione. Il motivo è inammissibile. Il calcolo della pena del giudice di primo grado è il seguente: pena base per il tentato omicidio 10 anni di reclusione, attenuanti generiche equivalenti alla recidiva (su cui vi è ampia motivazione sulla maggiore capacità criminale del precedente maltrattamento in danno di precedente compagna), aumento di 1 anno per il reato di maltrattamenti, e di 6 mesi per ciascuno degli altri reati, riduzione per il rito, per giungere alla pena finale di 8 anni di reclusione. Il ricorso sostiene che l'errore sulla mancata prevalenza delle attenuanti riposa sull'eccessività del giudizio dosimetrico, ma sul punto va ricordato che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che, per giustificare la soluzione dell'equivalenza, si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Cass. Sez. U, sent. n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931), e nel caso in esame il ricorso non evidenzia un vizio logico di tale giudizio discrezionale ma lamenta soltanto la eccessività del trattamento. Il ricorso contesta anche l'eccessività degli aumenti per continuazione, però non espone argomenti a sostegno, limitandosi a sostenere che la pena avrebbe potuto essere determinata in senso favorevole all'imputato, con un argomento che quindi non soddisfa l'onere di specificità dei motivi di ricorso. Il motivo è, pertanto, inammissibile. 3. Ai sensi dell'art. 616, comma 1, cod. proc. pen., alla decisione consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. 4. Nel giudizio di cassazione si è costituita anche la parte civile Ci.Ro. In ossequio al principio della soccombenza, l'imputato ricorrente deve, pertanto, essere condannato ex art. 541, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese di parte civile, che, in quanto ammessa al gratuito patrocinio, va disposto in favore dello Stato. Alla liquidazione delle stesse ed alla emissione del decreto di pagamento provvederà ex art. 83 d.P.R. 115 del 2002 il giudice che ha emesso la sentenza passata in giudicato (cfr. Sez. U, Ordinanza n. 5464 del 26/09/2019, dep. 2020, De Falco, Rv. 277760 - 01, secondo cui "in tema di liquidazione, nel giudizio di legittimità, delle spese sostenute dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, compete alla Corte di cassazione, ai sensi degli artt. 541 cod. proc. pen. e 110 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, pronunciare condanna generica dell'imputato al pagamento di tali spese in favore dell'Erario, mentre è rimessa al giudice del rinvio, o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato, la liquidazione delle stesse mediante l'emissione del decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 del citato d.P.R."). 5. In caso di diffusione del presente provvedimento devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, Ci.Ro., nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello del Catanzaro con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d.p.r. 115/2002, dispone il pagamento in favore dello Stato. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 15 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,   ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione Puglia 15 giugno 2023, n. 13, recante «Disposizioni per prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno di anziani e persone con disabilità e modifica alla legge regionale 9 agosto 2006, n. 26 (Interventi in materia sanitaria)», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 17 agosto 2023, depositato in cancelleria il successivo 18 agosto, iscritto al n. 25 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 2023. Visto l'atto di costituzione della Regione Puglia; udita nell'udienza pubblica del 20 marzo 2024 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta; uditi l'avvocato dello Stato Giancarlo Caselli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Isabella Fornelli per la Regione Puglia; deliberato nella camera di consiglio del 20 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.- Con ricorso iscritto al n. 25 del reg. ric. 2023, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione Puglia 15 giugno 2023, n. 13, recante «Disposizioni per prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno di anziani e persone con disabilità e modifica alla legge regionale 9 agosto 2006, n. 26 (Interventi in materia sanitaria)», per violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, con riguardo alle materie «ordinamento civile» e «ordinamento penale», e per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia al regolamento (UE) n. 679/2016 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), sia alla direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio. 1.1.- La disposizione impugnata si colloca nel contesto di una legge regionale che intende prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno di anziani e persone con disabilità nell'ambito delle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali a carattere residenziale, semi-residenziale o diurno (art. 1 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023). A tal fine, l'art. 4 della medesima legge regionale prevede l'installazione di sistemi di videosorveglianza quale requisito necessario a conseguire l'accreditamento istituzionale con il Servizio sanitario regionale e a ottenere o mantenere l'autorizzazione all'esercizio dell'attività da parte delle strutture private richiedenti. L'impugnato art. 3 regola la «[i]nstallazione dei sistemi di videosorveglianza e [la] tutela della privacy». In particolare, il legislatore regionale, oltre a stabilire che l'installazione dei sistemi di videosorveglianza sia effettuata in conformità al decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, recante «Disposizioni per l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazioni di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)», al regolamento n. 679/2016/UE, nonché alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, introduce alcune puntuali previsioni, riguardanti: l'installazione dei sistemi di videosorveglianza, che deve avvenire con modalità atte a garantire la sicurezza dei dati trattati e la loro protezione da accessi abusivi; la necessità che l'attivazione degli impianti sia preceduta dall'acquisizione del consenso degli ospiti o dei loro tutori; l'esigenza di una adeguata segnalazione dei sistemi di videosorveglianza a tutti i soggetti che accedono all'area interessata; l'esecuzione delle registrazioni, che deve essere effettuata in modalità criptata; la visione delle registrazioni stesse, che viene riservata esclusivamente all'autorità giudiziaria. 2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che la disposizione si ponga in contrasto con tre parametri costituzionali. 2.1.- Anzitutto, l'art. 3 invaderebbe la materia «ordinamento civile», di cui all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., poiché detterebbe una disciplina concernente il trattamento dei dati personali, ambito che questa Corte avrebbe già ascritto alla citata competenza legislativa esclusiva dello Stato (viene richiamata in proposito la sentenza n. 271 del 2005). La disposizione impugnata opererebbe un generico richiamo alle disposizioni del regolamento generale sulla protezione dei dati e del d.lgs. n. 101 del 2018, anziché rinviare all'intero plesso normativo di riferimento, e oltretutto evocherebbe le citate fonti con riguardo alla sola fase di installazione del sistema di videosorveglianza. La disciplina regionale alluderebbe poi alla mera necessità del consenso degli ospiti (o dei tutori), senza indicare le modalità con cui il consenso deve essere prestato, né i caratteri che deve presentare; così come non sarebbero regolati i tempi di conservazione delle videoriprese. Inoltre, l'art. 3 trascurerebbe del tutto la posizione dei lavoratori e le garanzie loro assicurate dalla disciplina statale con l'art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), che regola le condizioni di ammissibilità dei controlli a distanza dei lavoratori sul luogo di lavoro. Ne deriverebbe una violazione anche del principio di proporzionalità, in quanto si farebbe ricorso a uno strumento di monitoraggio particolarmente invasivo senza che sia dimostrato che esso risulti sempre quello più adeguato. In generale, secondo il ricorrente, la Regione sarebbe intervenuta «in un ambito riservato al legislatore statale cui spett[erebbe] il bilanciamento [degli] interessi giuridici in gioco». Da ultimo, il ricorso rinviene ulteriori indici della competenza esclusiva statale sia nell'art. 5-septies, comma 2, del decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici), convertito, con modificazioni, nella legge 14 giugno 2019, n. 55, che prevede un fondo destinato a finanziare l'installazione dei sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso presso le strutture di residenza e cura degli anziani, sia nell'art. 4, comma 2, lettera r), della legge 23 marzo 2023, n. 33 (Deleghe al Governo in materia di politiche in favore delle persone anziane), che annovera la presenza di sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso fra i criteri di accreditamento e autorizzazione di tali strutture (la delega conferita al Governo dall'art. 4 appena citato è stata esercitata, in epoca successiva al ricorso statale, con l'art. 31 del decreto legislativo 15 marzo 2024, n. 29, recante «Disposizioni in materia di politiche in favore delle persone anziane, in attuazione della delega di cui agli articoli 3, 4 e 5 della legge 23 marzo 2023, n. 33»). 2.2.- Quanto alla materia «ordinamento penale», ad avviso dell'Avvocatura, la disposizione impugnata si limiterebbe ad attribuire all'autorità giudiziaria la competenza all'accesso alle videoriprese, senza individuare l'intero plesso normativo di riferimento, da rinvenirsi anche nel decreto legislativo 18 maggio 2018, n. 51, recante «Attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio». 2.3.- Infine, a fronte di una disciplina del trattamento dei dati personali prevalentemente regolata da fonti dell'Unione europea, il Presidente del Consiglio dei ministri lamenta la violazione anche dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al regolamento n. 679/2016/UE e alla direttiva 2016/680/UE. 3.- La Regione Puglia si è costituita in giudizio con atto depositato il 20 settembre 2023. 3.1.- In rito, solleva tre eccezioni. 3.1.1.- Con la prima, contesta che nella delibera del Consiglio dei ministri non vi sarebbe alcun riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. e alla violazione dei parametri sovranazionali. La difesa regionale fa pertanto valere, rispetto al citato parametro, la ritenuta eccedenza della censura contenuta nel ricorso rispetto alla volontà dell'organo politico (sono richiamate in proposito le sentenze n. 147 del 2022 e n. 109 del 2018 di questa Corte). 3.1.2.- Con la seconda eccezione di inammissibilità, concernente la questione sollevata in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., con riguardo alla materia «ordinamento civile», la Regione Puglia rileva il mancato riferimento a norme interposte e, ancor prima, una inadeguata individuazione della specifica materia rientrante nell'alveo della menzionata competenza. 3.1.3.- Infine, la difesa regionale adduce l'inconferenza di tutti parametri costituzionali evocati, osservando che una disciplina relativa l'installazione degli impianti di videosorveglianza afferirebbe alla materia «ordine pubblico e sicurezza» (art. 117, secondo comma, lettera h) o, in subordine, alla «tutela della salute», materia attribuita dal terzo comma dell'art. 117 Cost. alla competenza legislativa concorrente delle regioni. 3.2.- Nel merito, la Regione Puglia sostiene la non fondatezza delle questioni sollevate, sottolineando come la disposizione impugnata si inquadri nell'ambito di una legge regionale che nasce in conseguenza «di gravissimi episodi di maltrattamento e di abuso riportati dalle cronache che riferiscono di anziani e disabili che all'interno delle strutture sociosanitarie o assistenziali hanno subito inaccettabili violenze fisiche e psicologiche». In simile contesto, l'impugnato art. 3 introdurrebbe un obbligo di installazione di sistemi di videosorveglianza, allo scopo di prevenire i maltrattamenti e per individuarne gli autori. La previsione corrisponderebbe, al contempo, all'interesse degli operatori sociosanitari che svolgono il proprio lavoro con impegno e correttezza e la cui immagine e professionalità sarebbero lese dalle condotte di colleghi irresponsabili. La Regione Puglia aggiunge che, ai sensi dell'art. 4 della stessa legge regionale, l'installazione degli impianti di videosorveglianza entra a far parte dei requisiti delle strutture private per ottenere l'accreditamento presso il Servizio sanitario regionale, nonché per conseguire o mantenere l'autorizzazione all'esercizio delle attività. Questo, oltre a confermare l'ascrivibilità della disposizione impugnata alla materia «tutela della salute», dimostrerebbe la mancata interferenza con l'àmbito materiale del trattamento dei dati personali, anche perché non sarebbe stata introdotta «una nuova disciplina» in materia, essendo «richiama[ta] espressamente la normativa statale e comunitaria sul punto». Dopo aver evocato alcuni passaggi della sentenza di questa Corte n. 271 del 2005, dai quali, a suo avviso, si comprenderebbe come non sussista una incompetenza del legislatore regionale a disciplinare il trattamento dei dati personali, quando siano integralmente rispettate le norme statali sulla loro protezione, la difesa regionale passa in rassegna i vari profili oggetto di impugnazione, sottolineando per ciascuno di essi la ritenuta conformità alle norme contenute nel regolamento n. 679/2016/UE e nel decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, recante «Codice in materia di protezione dei dati personali, recante disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento nazionale al regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE». Quanto alla omessa menzione del d.lgs. n. 51 del 2018, la Regione sostiene che tale disciplina riguarderebbe il trattamento dei dati personali delle persone fisiche da parte delle autorità competenti, a fini penalistici, e si collocherebbe, pertanto, al di fuori del perimetro applicativo dell'art. 3 impugnato. Né la disposizione oggetto di scrutinio contrasterebbe con il d.l. n. 32 del 2019, come convertito, o con la legge di delega n. 33 del 2023, posto che, al contrario, tali normative mostrerebbero un «favore per l'adozione, da parte delle strutture ivi indicate, di sistemi di videosorveglianza per la medesima finalità di tutela, consacrata nell'art. 1 della legge regionale 13/2023 in disamina, ed in tale quadro normativo ben si incaston[erebbe] allora la norma inopinatamente impugnata, che riprende a livello regionale quanto già previsto a livello statale». Da ultimo, la difesa regionale rammenta che anche la Regione Lombardia avrebbe normato nel medesimo settore e negli stessi termini adottati dalla legislazione pugliese, senza, tuttavia, suscitare alcuna impugnativa da parte statale. 4.- Successivamente, in data 27 febbraio 2024, la Regione Puglia ha depositato una memoria integrativa, con la quale ha reiterato le eccezioni di rito e di merito già proposte in sede di costituzione. 5.- All'udienza del 20 marzo 2024, l'Avvocatura generale dello Stato e la difesa regionale hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi. Considerato in diritto 1.- Con ricorso iscritto al n. 25 reg. ric. 2023, depositato il 18 agosto 2023, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023, per violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. con riguardo alle materie «ordinamento civile» e «ordinamento penale», nonché per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al regolamento n. 679/2016/UE e alla direttiva 2016/680/UE. 1.1.- L'impugnato art. 3 regola la «[i]nstallazione dei sistemi di videosorveglianza e [la] tutela della privacy», con cinque commi che, oltre a prevedere il rispetto - nella sola fase dell'installazione - del d.lgs. n. 101 del 2018, del regolamento n. 679/2016/UE e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, dettano specifiche prescrizioni concernenti la raccolta e il trattamento dei dati personali. 2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che le norme si pongano in contrasto con tre parametri costituzionali. 2.1.- Anzitutto, l'art. 3 violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., invadendo la materia, di esclusiva competenza legislativa statale, «ordinamento civile», alla quale sarebbe ascrivibile il trattamento dei dati personali. La disciplina impugnata, da un lato, opererebbe un rinvio limitato solo ad alcune fonti previste dal legislatore statale e con riferimento alla mera fase di installazione del sistema di videosorveglianza, e, da un altro lato, introdurrebbe puntuali prescrizioni, il cui implicito effetto sarebbe quello di derogare alla complessiva regolamentazione della materia disposta dal legislatore statale competente. 2.2.- Di seguito, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, sarebbe altresì violata la materia «ordinamento penale», di cui al medesimo art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto l'art. 3, comma 5, della legge reg. Puglia n. 13 del 2023 attribuirebbe all'autorità giudiziaria il compito di accedere alle videoriprese, senza individuare l'intero plesso normativo di riferimento, da rinvenirsi anche nel d.lgs. n. 51 del 2018. 2.3.- Infine, il ricorso lamenta anche la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al regolamento n. 679/2016/UE e alla direttiva 2016/680/UE. 3.- La Regione Puglia si è costituita in giudizio, sollevando tre eccezioni di inammissibilità e chiedendo nel merito il rigetto del ricorso. 3.1.- Con la prima eccezione di rito, la Regione contesta l'eccedenza della censura contenuta nel ricorso rispetto alla volontà dell'organo politico, assumendo che nella delibera del Consiglio dei ministri non vi sarebbe alcun riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. e alla violazione dei parametri sovranazionali. 3.1.1.- L'eccezione non è fondata. Una piana lettura della delibera del Consiglio dei ministri palesa come l'organo politico ravvisi nell'art. 3 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023 una disciplina che si porrebbe «in contrasto con i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario in riferimento alle disposizioni del Regolamento (UE) n. 2016/679 (cfr. art. 117, comm[a] primo […], Cost.» (pagina 12 della delibera). È, dunque, evidente che l'organo politico ha manifestato la volontà di censurare la violazione dei «vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario», di cui all'art. 117, primo comma, Cost. 3.2.- La seconda eccezione di inammissibilità attiene all'asserita mancanza, nel ricorso statale, di riferimenti alle norme interposte e, ancor prima, l'omessa esatta individuazione della materia specifica rientrante nell'ordinamento civile. 3.2.1.- Anche questa eccezione va disattesa. A prescindere dall'improprio utilizzo della locuzione “norma interposta” per una competenza legislativa statale esclusiva, è comunque agevole osservare che il ricorso contiene il riferimento a numerose norme di livello primario che costituirebbero espressione di tale competenza nel settore del trattamento dei dati personali. Inoltre, attraverso il richiamo ai contenuti della sentenza di questa Corte n. 271 del 2005, il Presidente del Consiglio dei ministri ha adeguatamente specificato in che termini e per quali ragioni l'oggetto della disposizione regionale impugnata rientrerebbe nella materia «ordinamento civile». 3.3.- Infine, con una terza eccezione di rito, la Regione Puglia sostiene l'inesatta individuazione del parametro costituzionale violato, che non combacerebbe con quelli di cui il ricorrente lamenta la lesione, posto che l'ambito normato dall'art. 3 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023 sarebbe, viceversa, ascrivibile all'art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., con riguardo alla materia «ordine pubblico e sicurezza», o, in subordine, alla competenza legislativa regionale concorrente nella materia «tutela della salute», di cui all'art. 117, terzo comma, Cost. 3.3.1.- L'eccezione non è fondata. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'eventuale «inconferenza del parametro indicato dal ricorrente rispetto al contenuto sostanziale della doglianza costituisce motivo di non fondatezza della questione (sentenze n. 132 del 2021 e n. 286 del 2019)» (di recente sentenze n. 163 e n. 53 del 2023), sicché l'eccezione attiene al merito e non al rito. 4.- Nel merito, le questioni sollevate in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., con riguardo alla materia «ordinamento civile», e all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al regolamento n. 679/2016/UE, sono fondate. 5.- Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, la protezione delle persone con riguardo al trattamento dei dati personali afferisce alla materia «ordinamento civile», sia per quanto concerne le norme sostanziali, che disciplinano le modalità di raccolta e il trattamento dei dati personali, sia per quanto riguarda le «tutele giurisdizionali delle situazioni soggettive del settore» (sentenza n. 271 del 2005; in senso analogo, anche sentenza n. 177 del 2020). Tali profili attengono, infatti, al «riconoscimento di una serie di diritti alle persone fisiche e giuridiche relativamente ai propri dati, diritti di cui sono regolate analiticamente caratteristiche, limiti, modalità di esercizio, garanzie, forme di tutela in sede amministrativa e giurisdizionale» (ancora sentenza n. 271 del 2005). Al contempo, l'Unione europea, nell'esercizio della sua competenza in materia di protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale e di libera circolazione dei dati (art. 16 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea), ha ampiamente regolamentato la materia, lasciando limitati spazi alla normazione degli Stati membri. L'attuale disciplina della protezione dei dati personali si compone, pertanto, di una complessa trama di fonti, il cui fulcro è rappresentato dalla normativa eurounitaria di carattere generale affidata al regolamento n. 679/2016/UE, che trova completamento e integrazione nelle fonti nazionali, a partire dal d.lgs. n. 196 del 2003 (come modificato e integrato) e dal d.lgs. n. 101 del 2018, che ha coordinato le disposizioni nazionali vigenti in materia di protezione dei dati personali con il regolamento generale sulla protezione dei dati (sentenza n. 260 del 2021). Né mancano discipline di settore, quale la direttiva n. 680/2016/UE, cui il legislatore nazionale ha dato attuazione con il d.lgs. n. 51 del 2018. Dalle richiamate fonti si evince una regolamentazione della videosorveglianza che scandisce molteplici fasi: dalle condizioni che consentono l'installazione, agli strumenti e alle modalità di raccolta dei dati; dalla informativa preventiva, al consenso dei titolari dei dati che vengono raccolti; dal successivo trattamento dei dati, all'accesso ai supporti contenenti questi ultimi e alla loro utilizzazione. In particolare, la videosorveglianza presso le strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali investe due campi d'azione particolarmente delicati: da un lato, determina un monitoraggio che comprende la raccolta e il trattamento di dati sensibili relativi a persone anziane, malate o disabili, con inevitabili ricadute sulla riservatezza e sulla dignità di persone fragili; da un altro lato, implica un controllo sull'attività lavorativa del personale operante all'interno delle strutture (medici, infermieri, operatori socio-sanitari e socio-assistenziali, personale amministrativo, addetti alle pulizie e altri) e di eventuali lavoratori esterni, la cui attività si svolge, in tutto o in parte, presso le strutture medesime. Da ultimo, non può tacersi il rilievo che, nella disciplina della materia, rivestono i provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali (Sezione II, Capo VI, del regolamento n. 2016/679/UE), a partire dal provvedimento di carattere generale in materia di videosorveglianza, adottato l'8 aprile 2010, e dal provvedimento del 22 febbraio 2018, che contiene le indicazioni preliminari volte a favorire la corretta applicazione delle disposizioni del regolamento n. 679/2016/UE. 6.- A fronte della complessità e ampiezza dei profili implicati nel trattamento dei dati personali, che richiedono delicati bilanciamenti fra diritti spesso di rango inviolabile, l'intervento della Regione vìola i vincoli derivanti dall'UE e invade la competenza legislativa esclusiva spettante allo Stato, in quanto si sovrappone con proprie previsioni autonome e con un rinvio selettivo al delicato intreccio di fonti dettate dall'Unione europea e dallo Stato. 6.1.- Come si inferisce, infatti, sin dalla sua rubrica, l'art. 3 regola l'«[i]nstallazione dei sistemi di videosorveglianza e [la] tutela della privacy». La disciplina si articola in cinque commi che, oltre a prevedere - con riferimento alla sola fase dell'installazione - il rispetto del d.lgs. n. 101 del 2018, del regolamento n. 679/2016/UE, nonché della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (comma 3), stabiliscono le seguenti puntuali prescrizioni: «1. Le strutture private adibite all'attività di cui all'articolo 1 provvedono autonomamente all'installazione delle telecamere a circuito chiuso e ne danno comunicazione alle aziende sanitarie locali in caso di strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali. 2. I sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso di cui al comma 1 devono essere installati con modalità atte a garantire la sicurezza dei dati trattati e la loro protezione da accessi abusivi. Nelle strutture di cui all'articolo 1 è vietato l'utilizzo di webcam. 3. […] Per l'attivazione è necessario acquisire il consenso degli ospiti o dei loro tutori. 4. La presenza dei sistemi di videosorveglianza è inoltre adeguatamente segnalata a tutti i soggetti che accedono all'area video sorvegliata. 5. Le registrazioni sono effettuate in modalità criptata e possono essere visionate esclusivamente dall'autorità giudiziaria, a seguito di segnalazioni da parte dei soggetti interessati, familiari o degenti». 6.2.- Una tale disciplina non può essere ricondotta - come invece sostiene la difesa della Regione Puglia - all'esercizio della competenza legislativa regionale concorrente nella materia «tutela della salute». Simile affermazione si potrebbe comprendere, ove riferita all'art. 4 della medesima legge reg. Puglia n. 13 del 2023, che prevede l'installazione degli impianti di videosorveglianza quale requisito ai fini dell'accreditamento o dell'autorizzazione all'esercizio delle attività socio-sanitarie e socio-assistenziali, disposizione che trova corrispondenza anche in quanto disposto a livello statale sia dall'art. 31, comma 7, lettera d), del d.lgs. n. 29 del 2024, che ha attuato l'art. 4, comma 2, lettera r), della legge n. 33 del 2023, annoverando la previsione di sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso fra i criteri per l'accreditamento e l'autorizzazione di strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali per anziani, sia dall'art. 5-septies, comma 2, del d.l. n. 32 del 2019, come convertito, che istituisce un fondo destinato a finanziare l'installazione dei sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso presso le strutture di residenza e cura degli anziani Viceversa, la competenza legislativa concorrente nella materia «tutela della salute» non è in alcun modo pertinente rispetto all'art. 3. Infatti, tale competenza può consentire alla Regione di prevedere un onere concernente l'installazione di impianti di videosorveglianza, al più evocando - tramite un rinvio mobile - il doveroso rispetto di tutta la disciplina dettata dall'Unione europea e dallo Stato nel campo della videosorveglianza e del trattamento dei dati personali, ma certo non autorizza la Regione a operare una cernita delle fonti rilevanti e a dettare essa stessa le regole concernenti i citati ambiti. 6.2.1.- L'invasione della competenza legislativa statale si rileva già solo in presenza di una novazione delle fonti (di recente, sentenza n. 239 del 2022 e, nella materia «ordinamento civile», sentenze n. 153 del 2021 e n. 234 del 2017), che nel tempo sono suscettibili di modificazioni e integrazioni da parte dei legislatori competenti. 6.2.2.- Inoltre, e soprattutto, non spetta alla Regione operare una selezione di fonti e di regole - quale emerge nella disciplina in esame - che, all'interno dell'articolato plesso normativo contemplato sia dall'Unione europea sia dal legislatore statale, sono chiamate a disciplinare questa complessa e delicata materia. In tal modo, la Regione non solo si sovrappone alle normative eurounitaria e statale, travalicando le proprie competenze, ma oltretutto effettua una arbitraria scelta, il cui contenuto precettivo equivale a ritenere vincolanti le sole regole individuate dal legislatore regionale e non anche le altre. 6.2.2.1.- Non è innocuo, in tale prospettiva, che l'art. 3 abbia individuato, quali fonti da rispettare, il d.lgs. n. 101 del 2018, il regolamento n. 679/2016/UE e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, così escludendo il d.lgs. n. 196 del 2003 e le altre fonti, emanate dall'UE e attuate dal legislatore statale. In particolare, quanto al d.lgs. n. 196 del 2003, esso è tuttora vigente e le sue previsioni sono state solo in parte abrogate o modificate dal d.lgs. n. 101 del 2018, che ha operato opportuni raccordi con il regolamento n. 679/2016/UE (così la sentenza n. 260 del 2021). Fra le previsioni del citato codice della privacy è doveroso, in particolare, richiamare l'art. 114, secondo cui: «[r]esta fermo quanto disposto dall'articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300», il quale detta le condizioni che consentono l'installazione di impianti audiovisivi «dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori», vale a dire proprio la fattispecie regolata dal legislatore regionale. 6.2.2.2.- Quanto alla raccolta e al trattamento dei dati personali, la disposizione impugnata, da un lato, opera un richiamo al regolamento n. 679/2016/UE e al d.lgs. n. 101 del 2018 riferendosi alla sola fase dell'installazione della videosorveglianza e, da un altro lato, entra nel vivo della disciplina sul trattamento dei dati personali, prevedendo che sia acquisito il consenso degli ospiti o dei loro tutori (art. 3, comma 3, della legge reg. Puglia n. 13 del 2023) e che l'installazione sia genericamente effettuata con modalità che garantiscano la sicurezza dei dati e la loro protezione da accessi abusivi (art. 3, comma 2). Ma, di nuovo, la selezione di fonti e di regole applicabili non prende in considerazione l'imponente corpo normativo che, in ambito eurounitario e statale, oltre a richiedere di regola il consenso di tutti coloro i cui dati vengono trattati (artt. 6 e 7 del regolamento n. 679/2016/UE, nonché art. 9 dello stesso regolamento rispetto ai dati sensibili), disciplina dettagliatamente: l'informativa; le modalità di raccolta del consenso e le sue caratteristiche; le cautele richieste in ordine ai dati sensibili; il trattamento dei dati successivo alla raccolta, a partire dalla durata e dalle modalità di conservazione dei dati; la garanzia per i titolari dei dati raccolti di poter accedere agli stessi e di poterne bloccare la diffusione. Né può tacersi che, nella scansione delle varie fasi del trattamento dei dati personali, le fonti emanate dai legislatori competenti riconoscono ai loro titolari specifiche situazioni giuridiche soggettive (a essere informati, a manifestare o revocare il consenso alla raccolta e al trattamento dei dati, a opporsi alla loro divulgazione, a prendere visione dei dati raccolti), che si riflettono su altrettanti strumenti di tutela. 6.2.2.3.- Analogamente, anche i commi 1 e 4 dell'art. 3 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023 - che prevedono, rispettivamente, l'autonoma installazione delle telecamere da parte delle strutture private, con mera comunicazione alle aziende sanitarie locali, nonché una semplice segnalazione dei sistemi di videosorveglianza a tutti i soggetti che accedono all'area - disattendono il necessario rispetto di tutte le fonti eurounitarie e statali, comprese le dettagliate prescrizioni richieste dal già citato provvedimento generale del Garante per la protezione dei dati personali dell'8 aprile 2010. 6.3.- In sostanza - come questa Corte ha già avuto modo di puntualizzare (sentenza n. 271 del 2005) - il contrasto con i vincoli derivanti dall'UE e con la competenza legislativa statale esclusiva emerge tanto a fronte di rinvii parziali, quanto in presenza di una disciplina puntuale che individui solo una limitata porzione di regole, trascurando le altre che sono oggetto della fitta disciplina eurounitaria e statale. 7.- In conclusione, l'art. 3 della legge reg. Puglia n. 13 del 2023 è costituzionalmente illegittimo per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al regolamento n. 679/2016/UE e alla direttiva 2016/680/UE, e con l'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., con riguardo alla materia «ordinamento civile». È assorbita ogni ulteriore censura. 8.- Resta fermo che l'accoglimento delle questioni sollevate sull'art. 3 non incide sull'onere di installare impianti di videosorveglianza, previsto dall'art. 4 della stessa legge reg. Puglia n. 13 del 2023, e che l'installazione debba essere effettuata nel pieno rispetto di tutte le previsioni dettate dall'Unione europea e dal legislatore statale, nel campo della videosorveglianza e del trattamento dei dati personali. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione Puglia 15 giugno 2023, n. 13, recante «Disposizioni per prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno di anziani e persone con disabilità e modifica alla legge regionale 9 agosto 2006, n. 26 (Interventi in materia sanitaria)». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Emanuela NAVARRETTA, Redattrice Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2024 Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10070 del 2023, proposto da Ho. An. O.D.V., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato St. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Agricoltura della Sovranità Alimentare e delle Foreste, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; nei confronti -OMISSIS-, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. -OMISSIS-/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Agricoltura della Sovranità Alimentare e delle Foreste; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 26 marzo 2024 il Cons. Giordano Lamberti e dato atto che nessuno è presente per le parti costituite; Rilevato che: - con ricorso al Tar per il Lazio, l’appellante (HA) ha impugnato il silenzio-rigetto e il successivo atto di diniego relativi all’istanza di accesso documentale del 28 gennaio 2023, volta ad ottenere l’ostensione delle copie integrali del fascicolo del procedimento disciplinare (conclusosi con condanna in primo grado e successiva archiviazione da parte della Commissione di Disciplina di Appello) relativo al prelievo del 4 agosto 2021 effettuato sul cavallo -OMISSIS-, all’esito del quale era risultata la positività al nandrolone dopo la corsa nell’ippodromo di Napoli; - l’istanza di accesso è stata motivata sulla base della considerazione per cui sussisterebbe un interesse dell’associazione a conoscere il fascicolo del procedimento disciplinare, anche a prescindere dalla sua archiviazione in Commissione di disciplina di Appello, in quanto ciò non precluderebbe la riedizione dell’azione disciplinare, la quale, anzi, in alcuni casi sarebbe imposta per legge. L’associazione ha inoltre dedotto l’interesse a costituirsi parte civile nell’eventuale procedimento penale relativo ai prelievi effettuati sul cavallo in questione, nonché a denunciare al Ministero fatti disciplinarmente rilevanti nei rapporti di lavoro; - con la medesima istanza di accesso ha chiesto altresì alla Procura della Disciplina Ippica di fare le indagini del caso, a prescindere dall’archiviazione, prospettando che, se c’era stata somministrazione indebita di ormone al cavallo, andava condannato il responsabile del maltrattamento dell’animale; - il Tar adito, con la sentenza indicata in epigrafe, ha respinto il ricorso, rilevando che gli interessi posti a sostegno dell’istanza di accesso erano del tutto eventuali ed ipotetici e le esigenze difensive allegate, oltre ad essere riferite a procedimenti e processi futuri ed eventuali, si presentavano del tutto generiche, non essendo stata fornita la prova di quel nesso di “strumentalità necessaria” tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare; - l’associazione ha proposto appello avverso tale statuizione, deducendo che: - “la Legge 241/1990 non dice che, il richiedente accesso, per ottenerlo, deve dimostrare che l’epilogo della sua iniziativa, necessitante la conoscenza di documenti della p.a., deve essere certo”; - nel ricorso al Tar aveva dedotto specifici elementi, provanti l’obbligo di riedizione del procedimento disciplinare, così testualmente indentificati: “Ad essa Procura, con la PEC 28-1-23 chiedente accesso, HA invocava indagini di giustizia; gli chiedeva di non abdicare ai suoi poteri sol perché la Commissione di Appello aveva disposto l’archiviazione per la responsabilità oggettiva di posizione dell’allenatore, per errata comunicazione della positività al fine di consentirgli di chiedere le II analisi…HA ricordava alla Procura della Disciplina ippica che altri potevano essere i responsabili di una possibile somministrazione vietata di ORMONE al cavallo, che, come osservava giustamente nel merito l’allenatore inquisito, se effettivamente fosse stata fatta illegalmente, chiamava a rispondere chi mesi e mesi prima aveva fatto gli ormoni al cavallo, posto che per SCIENZA l’ormone non sviluppa i muscoli in un giorno. Il… risulta allenare di quel cavallo solo da pochi giorni prima la corsa in cui fu fatto il prelievo”; - “il RICORSO al TAR allegava col DOC 3 il REGOLAMENTO CONTROLLO SOSTANZE PROIBITE dove, se è scritto che l’allenatore ha responsabilità oggettiva per la positività, prevede che va comunque punito e severamente l’operatore ippico che ha somministrato”; - la mancata applicazione da parte del Tar dell’art 64 codice processo amministrativo, ribadendo che HA aveva il diritto all’accesso per l’aspetto penale delle iniziative che può intraprendere, contrariamente a quanto ha ritenuto la sentenza appellata, secondo cui il ricorso di I grado non avrebbe ben prospettato l’azione civile in campo penale; - il Tar avrebbe errato nel sostenere che, per avere l’accesso difensivo, ci doveva essere una costituzione di parte civile o comunque una iniziativa in atto; Ritenuto che l’appello sia infondato, dovendosi integralmente confermare la valutazione del giudice di primo grado, espressione dei principi più volte espressi in materia dalla giurisprudenza di questo Consiglio; Considerato, infatti, che: - è la stessa appellante ad aver riferito i fatti rilevanti che avevano determinato l’apertura del procedimento disciplinare (poi archiviato); questi sono pertanto già noti alla parte che ben può rappresentarli nelle sedi più opportune (disciplinari e/o penali) ove li ritenga pregiudizievoli dei propri diritti; - l’appellante non spiega invece quale ulteriore documento, contenuto nel fascicolo disciplinare, sarebbe necessario alla tutela delle proprie prerogative statutarie e neppure quale ulteriore elemento possa eventualmente emergere dalla visione del fascicolo che non sia già a sua conoscenza; - ai fini dell’accesso documentale, devono sussistere: a) un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato; b) un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione; c) in ipotesi di accesso difensivo, che lo stesso sia necessario per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Inoltre, l’istanza di accesso a documenti amministrativi deve riferirsi a ben specifici documenti e non può comportare la necessità di un’attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta; parimenti, la richiesta di ostensione degli atti non può costituire uno strumento di controllo generalizzato dell’amministrazione nei cui confronti l’accesso viene esercitato e l’onere della prova, anche dell’esistenza dei documenti rispetto ai quali si esercita il diritto di accesso, incombe sulla parte che agisce in giudizio (cfr. Consiglio di Stato 6822/2021); - ai fini dell’accesso difensivo è necessaria la sussistenza di una strumentalità fra accessibilità dei documenti amministrativi e esigenze di tutela, che si traduce in un onere aggravato sul piano probatorio, nel senso che grava sulla parte interessata l’onere di dimostrare che il documento al quale intende accedere è necessario (o, addirittura, strettamente indispensabile se concerne dati sensibili o giudiziari) per la cura o la difesa dei propri interessi (cfr. Consiglio di Stato, Ad. plen., n. 19/2020). - l’istanza di accesso dell’appellante, per come formulata, svela, invece, da un lato, un tentativo esplorativo – e dunque inammissibile – di cercare tra la (imprecisata) documentazione richiesta fatti o elementi potenzialmente utili, ipotizzando che questi possano dar luogo ad una riapertura del procedimento disciplinare, che è cosa diversa dal richiedere uno specifico atto necessario alla propria difesa; dall’altro, il tentativo di sostituirsi agli organi di settore, ovvero di controllarne l’operato, senza alcun reale collegamento con la propria sfera giuridica. Il collegamento tra la documentazione richiesta e il diritto di difesa della parte è infatti rappresentato solo in termini ipotetici, deducendo aspetti di possibile collegamento, motivati in ragione degli astratti motivi che potrebbero dar luogo alla riapertura del procedimento disciplinare, ma senza delineare alcuna fattispecie precisa a tal fine idonea; vale un analogo discorso in riferimento all’ipotizzata azione in sede penale (Cons. Stato Sez. VI, 12/01/2023, n. 413: “le finalità dell’accesso devono essere dedotte e rappresentate dalla parte in modo puntuale e specifico nell’istanza di ostensione e suffragate con idonea documentazione, in modo da consentire all'Amministrazione detentrice del documento il vaglio del nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta, di astratta pertinenza con la situazione finale controversa, con la precisazione che deve escludersi la sufficienza di un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente o ancora instaurando, poiché l'ostensione del documento passa attraverso un rigoroso vaglio circa il nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale controversa”); - le spese di lite, ad una valutazione complessiva del giudizio, possono essere compensate; P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) respinge l’appello e compensa le spese di lite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le persone fisiche citate. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Oreste Mario Caputo, Consigliere Giordano Lamberti, Consigliere, Estensore Davide Ponte, Consigliere Marco Poppi, Consigliere

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