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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE II SEZIONE CIVILE in composizione monocratica e nella persona del dott.ssa Martina Fusco, in funzione di giudice unico, pronuncia ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c. la seguente SENTENZA nella controversia civile iscritta al n. 2926 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2015, vertente TRA (...), elett.te dom. presso lo studio dell'avv. (...), dal quale è rapp.to e difeso, giusta procura in atti ATTORE E (...), in persona del legale rapp.tep.t., elett.te dom.to presso lo studio dell'avv. (...), dalla quale è rapp.to e difeso, giusta procura in atti CONVENUTO Oggetto: impugnativa delibera assembleare RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE La presente decisione è adottata ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c. e, quindi, è possibile prescindere dalle indicazioni contenute nell'art. 132 c.p.c. Infatti, l'art. 281-sexies c.p.c., consente al giudice di pronunciare la sentenza in udienza al termine della discussione dando lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, senza dover premettere le indicazioni richieste dal secondo comma dell'art. 132 c.p.c., perché esse si ricavano dal verbale dell'udienza di discussione sottoscritto dal giudice stesso. Pertanto, non è affetta da nullità la sentenza, resa nella forma predetta, che non contenga le indicazioni riguardanti il giudice e le parti, le eventuali conclusioni del P.M. e la concisa esposizione dei fatti e dei motivi della decisione (Cass. civ., Sez. III, 19 ottobre 2006, n. 22409). Ancora, in tale sentenza è superflua l'esposizione dello svolgimento del processo e delle conclusioni delle parti, quando questi siano ricostruibili dal verbale dell'udienza di discussione e da quelli che lo precedono (Cass. civ., Sez. III, 11 maggio 2012, n. 7268; Cass. civ., Sez. III, 15 dicembre 2011, n. 27002). Con atto di citazione regolarmente notificato, (...) impugnava la delibera assembleare del 13/02/2015 approvata dall'assemblea del (...), cui l'attore non aveva partecipato. A sostegno della propria domanda, in particolare, deduceva quale primo motivo di impugnazione, l'inadempimento dell'amministratore di condominio alla richiesta di consegna della documentazione richiesta; quale secondo motivo di impugnazione, allegava numerosi vizi della delibera impugnata - di approvazione del bilancio consuntivo. In particolare: - erronea applicazione dell'aliquota per la determinazione della rivalsa da addebitare, a titolo di contributo iscrizione Gestione Separata - Inps, per il compenso dell'amministratore; - erronea determinazione del compenso amministratore; - erronea rendicontazione della quota per la manutenzione ascensore Scala A; - erronea rendicontazione della quota per la pulizia Scala A e per la pulizia Piazzale; - erronea rendicontazione della quota dovuta per la verifica biennale dell'ascensore Scala A. Concludeva, quindi, chiedendo la declaratoria di nullità della delibera impugnata, con vittoria di spese. Si costituiva in giudizio il (...) convenuto, il quale, in persona del proprio amministratore e l.r.p.t, contestava tutto quanto ex adverso dedotto ed eccepito, ed in particolare rimarcava la legittimità di tutto gli addebiti rendicontati in bilancio; specificava, inoltre, che tutta la documentazione richiesta era stata in effetti consegnata all'attore. Concludeva, pertanto, per il rigetto della domanda, con vittoria di spese. Veniva espletata l'istruttoria ritenuta rilevante, ed in particolare veniva disposta CTU volta alla verifica della regolarità delle rendicontazioni effettuate in sede di bilancio approvato. Depositata la perizia, la causa veniva ritenuta matura per la decisione. L'udienza del 23/05/2024, disposta per la discussione ex art 281 sexies c.p.c., veniva sostituita dal deposito di note di trattazione scritta; nessuna delle parti costituite proponeva opposizione alla suddetta modalità di trattazione nel termine stabilito dalla legge e, anzi, entrambe depositavano note, in cui concludevano riportandosi a tutte le difese in atti. Il giudizio viene pertanto deciso con la presente pronuncia, allegata al provvedimento ex art 127 ter c.p.c.. Preliminarmente, non può dubitarsi della legittimazione attiva dell'attore; ed infatti, l'art. 63 co 4 delle disp. att. del codice civile stabilisce, nel caso di vendita di un immobile facente parte di condominio, la solidarietà dell'alienante e dell'acquirente rispetto ai debiti di natura condominiale relativi all'annualità in corso e a quella precedente alla data della vendita. Permane, pertanto, l'interesse dell'attore alla pronuncia in esame. Nel merito, la domanda va rigettata per le ragioni che qui si diranno. Quanto alla mancata consegna di documenti, va rilevato in primo luogo che per la costante giurisprudenza di legittimità "se ciascun comproprietario ha la facoltà di richiedere e di ottenere dall'amministratore del condominio l'esibizione dei documenti contabili in qualsiasi tempo e senza avere neppure l'onere di specificare le ragioni della richiesta finalizzata a prendere visione o estrarre copia dai documenti, è altresì certo che l'esercizio di tale facoltà non deve risultare di ostacolo all'attività di amministrazione, nè rivelarsi contraria ai principi di correttezza" (tra le altre, in questi termini, Cass. Civ. Sez. VI-2, 28/07/2020, n. 15996; Cass. Civ. Sez. 2, 21/09/2011 n. 19210; Cass. civ. Sez. 2, 29/11/2001, n. 15159). In sostanza, se è vero che in capo all'amministratore grava l'onere di esibizione dei documenti contabili, è anche vero che le richieste del singolo condomino non posso costituire violazione del principio di leale collaborazione tra le parti, rappresentando un ostacolo per lo svolgimento dell'attività dell'amministratore. Ebbene nel caso in esame, deve rilevarsi che l'amministratore, tenuto conto della puntuale richiesta da parte del (...) ha prontamente provveduto a rilasciare allo stesso copia della documentazione richiesta, necessaria alla verifica di quanto oggetto del bilancio consuntivo ad approvarsi. Irrilevanti, e contrarie al principio di buona fede, appaiono le ulteriori doglianze mosse dalla parte attrice, a fronte della consegna della documentazione. Quanto, infatti, al registro dell'anagrafe condominiale, l'amministratore ha prontamente provveduto alla consegna dell'elenco dei nominativi dei condomini e a fronte di ciò, l'attore non ha esplicitato le ragioni per cui la documentazione in effetti consegnata, non sarebbe stata idonea. Parimenti è a dirsi quanto al contratto di manutenzione ascensore: la documentazione consegnata, appare idonea, prima facie, alla verifica della rispondenza dei costi con la contabilizzazione operata in consuntivo, ragion per cui non si ravvisa l'incidenza della mancata consegna del contratto sulla validità della delibera assembleare. Ancora, infine, medesimo ragionamento è possibile operare in ordine alla mancata consegna della movimentazione del conto corrente condominiale in quanto dalla documentazione consegnata dall'amministratore è possibile rinvenire il complesso di rapporti dare-avere di cui il condominio era titolare all'epoca. Per altro, tutte le suddette conclusioni sono consolidate proprio dal comportamento dell'attore che, nell'avviare il presente procedimento, ha pedissequamente sottoposto a critica l'operato dell'amministratore proprio sulla base della documentazione dallo stesso pervenuta. Alla luce di ciò, deve senza dubbio ritenersi che la perduranza della richiesta da parte del (...), anche a seguito della consegna da parte dell'amministratore della documentazione, da cui emergono i dati necessari per una consapevole partecipazione all'assemblea di approvazione del consuntivo, rappresenti un ostacolo all'attività dell'amministratore, e una violazione del principio di correttezza, anche alla luce del rapporto di collaborazione verosimilmente richiesto nell'ambito dei rapporti condominiali. Venendo al merito, la questione è stata correttamente rimessa all'accertamento del consulente tecnico d'ufficio, cui è stato, in particolare, demandato, di verificare la rispondenza tra la documentazione contabile in atti e le risultanze del bilancio consuntivo approvato e oggetto di impugnativa. Quanto al primo punto contestato, è stato chiesto al consulente di accertare la regolarità della rivalsa esposta nel compenso amministratore rispetto alla deliberazione assembleare di conferimento dell'incarico. Il CTU sul punto ha in primo luogo premesso che "i professionisti che esercitano un'attività per la quale non è prevista un'apposita cassa di previdenza sono tenuti all'iscrizione alla gestione separata dell'Inps. La gestione separata è un regime contributivo che prevede il pagamento di un contributo annuo, calcolato in percentuale sul reddito imponibile del professionista (...) i soggetti tenuti all'iscrizione alla gestione separata, hanno la facoltà di addebitare in fattura al proprio committente una maggiorazione del 4% del compenso concordato, fermo restando che resta a suo carico l'obbligo del pagamento dei contributi Inps. Addebitando la rivalsa il professionista, in pratica, fa concorrere alla propria contribuzione previdenziale il soggetto committente, chiamato a versare il 4% del compenso, a titolo di rivalsa del contributo previdenziale Inps." Venendo al caso in esame, la consulente ha chiarito che dal consuntivo comparato dal 01/01/2014 al 31/12/2014, risulta un compenso all'amministratore del (...) per complessivi Euro 2.017,39 calcolando la rivalsa al 6% (Euro114,19) e quindi in violazione dell'indicazione normativa del 4%, articolo 1, comma 212, della Legge n. 622/1996: ne discende che il compenso base, senza rivalsa, è pari ad Euro 1.903,20. Calcolando, al contrario, la rivalsa al 4%, la stessa sarebbe pari Euro 76,13: la differenza totale ammonta, quindi, ad Euro38,06, di cui, a credito del condominio (...), Euro 1,48 (Millesimi 34,70 su 997,739). In ordine a tale conclusione, deve in primo luogo anticiparsi, come più in avanti si avrà modo di argomentare approfonditamente, che trattasi dell'unico punto rispetto al quale la CTU ha, in effetti, rilevato una incongruenza. Può, però, ritenersi, che tale incongruenza, per la sua entità minima, non può in alcun modo incidere sulla validità della delibera assembleare impugnata. Sul punto vale specificare che secondo la maggioritaria giurisprudenza di legittimità, "il condomino che intenda impugnare una delibera dell'assemblea, per l'assunta erroneità della disposta ripartizione delle spese, deve allegare e dimostrare di avervi interesse, il quale presuppone la derivazione dalla detta deliberazione di un apprezzabile pregiudizio personale, in termini di mutamento della sua posizione patrimoniale." Cass. civ. ordinanza n. 6128 del 09/03/2017. Per la scarsa entità della differenza sostanziale riscontrata (pari ad Euro 1.48), deve escludersi che il credito derivante possa comportare un apprezzabile mutamento della posizione patrimoniale dell'attore, con conseguente rigetto del relativo punto. Come anticipato, tutti gli altri punti della delibera impugnati, sono stati considerati validi dall'analisi del CTU. Quanto al secondo punto oggetto di contestazione, l'incongruenza degli importi fatturati nel registro di contabilità e nel consuntivo in ordine al compenso dell'amministratore, il CTU ha chiarito che "che il principio di competenza economica è una prassi amministrativa che consiste nel considerare, nel conto economico di un bilancio d'esercizio, solo i costi e i ricavi che si riferiscono e hanno effetto in quel periodo di tempo, a prescindere dalle manifestazioni finanziarie già avvenute o che devono ancora avvenire". Ciò posto, dal bilancio comparato dal 01/01/2014 al 31/12/2014 emerge un costo per compenso amministratore per Euro 2.017,39, che fa correttamente riferimento alle spese di competenza dell'esercizio: la somma non indicata nel registro di contabilità (in cui si fa riferimento solo alla somma di Euro 1.849,27) non è ivi annotata poiché nella compilazione del registro, si fa riferimento al principio di cassa, per cui mancano gli esborsi in effetti non ancora perfezionatisi. "Nel riepilogo finanziario/Stato Patrimoniale, invece, sono stati correttamente inseriti i costi di competenza dell'esercizio ma che alla data del riepilogo non risultano ancora pagati nella voce debiti v/fornitori. È corretto, pertanto, riportare tra i debiti verso fornitori l'importo di Euro 168,12 (ovvero Euro 2.017,39 - Euro 1.849,77). Gli importi sono stati correttamente ripartiti." Con riferimento al terzo punto oggetto di contestazione, la consulente ha chiarito che dalla documentazione in atti risultano tutti i giustificativi relativi alla voce "Manutenzione ordinaria Scala A" - per la cui indicazione specifica si rimanda al corpo della relazione peritale. Pertanto, l'importo di Euro 446,20 risulta correttamente giustificato e correttamente imputato. Parimenti, con riferimento al quarto punto oggetto di contestazione, inerente la spesa di pulizia della scala "A" e del piazzale, la consulente ha chiarito che dalla documentazione in atti risultano le seguenti fatture: - fattura n. 391 del 05/12/2014 relativa al servizio di pulizia per Euro 317,20; - fattura n. 25 del 02/01/2015 relativa al servizio di pulizia del mese di dicembre 2014 per Euro 317,20. Anche nel caso di specie l'amministratore di condominio non ha riportato nel registro di contabilità le voci di costo contestate in ragione dell'applicazione del principio di cassa, in quanto tali uscite non erano state ancora effettuate; le voci sono però presenti nel riepilogo finanziario/Stato Patrimoniale. Pertanto, anche tale importo risulta correttamente ripartito tra i condomini. Infine, con riferimento al quinto punto oggetto di contestazione, con riferimento alle spese di verifica biennale ascensore scala "A", il consulente ha chiarito che nella documentazione in atti risulta la fattura n. 5221 del 07/10/2014 della (...) s.p.a. di complessivi Euro 294,91 e relativa alla verifica periodica dell'impianto ascensore Scala A e (...). Dal bilancio comparato risulta che l'amministratore ha imputato tale costo di competenza dell'anno 2014 per il 50% alla: tabella B "Scala e Ascensore Scala A per Euro 152,25 e alla tabella B "Scala e Ascensore Scala B per Euro 152,25. Anche in questo caso, l'amministratore di condominio non ha riportato nel registro di contabilità la voce di costo contestata in ragione dell'applicazione del principio di cassa. Pertanto, anche il suddetto importo, è stato correttamente ripartito. Delle conclusioni cui è giunto il CTU nella propria relazione peritale non si ha alcun motivo di dubitare. Ed infatti, ferma la coerenza tra le premesse metodologiche e le conclusioni stesse, non può non sottolinearsi il chiaro riferimento a tutta la documentazione depositata in atti e, soprattutto, ai principi generali in materia di tenuta della contabilità applicabili al caso in esame. In particolare, in risposta alle contestazioni sollevate da parte attrice in sede di osservazioni, la dott. (...) ha rilevato che "l'art. 1130 bis c.c. dispone anche che nel registro di contabilità devono essere annotate le voci di entrate e di uscita (principio di cassa), per cui se ne deduce che al rendiconto condominiale si applica il criterio misto di cassa (per la tenuta del registro di contabilità) e di competenza (per la redazione del riepilogo finanziario). In tal senso Trib. Roma sentenze nn. 246/2019 e 1918/2019. Nel caso di specie l'amministratore di condominio non ha riportato nel registro di contabilità le voci di costo contestate poiché per il principio di cassa tali uscite non sono state ancora effettuate. Nel riepilogo finanziario/Stato Patrimoniale sono stati correttamente inseriti i costi di competenza dell'esercizio ma che alla data del riepilogo non risultano ancora pagati nella voce debiti v/fornitori." Proprio in applicazione dell'art. 1130 bis del Codice civile - a norma del quale "Il rendiconto condominiale contiene le voci di entrata e di uscita ed ogni altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, ai fondi disponibili ed alle eventuali riserve che devono essere espressi in modo da consentire l'immediata verifica. Si compone di un registro di contabilità, di un riepilogo finanziario, nonché di una nota sintetica esplicativa della gestione con l'indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti" -, pertanto, si impone, nell'ambito dei rapporti condominiali, l'utilizzo del criterio di cassa per la compilazione del registro di contabilità, senza, però, che l'applicazione del suddetto principio, possa incidere sulla ripartizione di tutte le spese di competenza dell'annualità in corso, laddove di tali spese vi sia idoneo giustificativo, pur non essendo stato già operato l'esborso pecuniario relativo. La domanda va, per tutte le ragioni anzidette, integralmente rigettata. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo ai sensi del DM 147/2022, secondo il valore della controversia, prendendo come riferimento i parametri minimi, stante l'assenza di questioni in fatto e in diritto di particolare complessità. Parimenti in capo all'attore soccombente vengono definitivamente poste le spese di CTU, come liquidate in separato decreto del 14/01/2021. P.Q.M. Il Tribunale di Nocera Inferiore, seconda sezione civile, in composizione monocratica, definitivamente pronunziando sulla domanda promossa come in epigrafe, disattesa ogni altra istanza ed eccezione, così provvede: a) rigetta la domanda; b) condanna parte attrice al pagamento, in favore di parte convenuta delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 1.278,00 oltre Iva e Cpa, come per legge, e rimb. spese forf. (nella misura del 15% del compenso); c) pone definitivamente in capo a parte attrice le spese di CTU, come liquidate in separato decreto. Depositato telematicamente in data 31 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Milena FALASCHI - Presidente Aldo CARRATO - Consigliere Rel. Antonio SCARPA - Consigliere Chiara BESSO MARCHEIS - Consigliere Remo CAPONI - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso (iscritto al N.R.G. 31743/2018) proposto da: BANFI LORENZO MAURO e REALI DAVID, rappresentati e difesi, in virtù di distinte procure speciali allegate al ricorso, dagli Avv.ti Claudio Bonora, Roberto Ferretti e Federico Sorrentino, elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, Lungotevere delle Navi, n. 30; - ricorrenti - contro BANCA D’ITALIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura rilasciata su separato foglio allegato materialmente al controricorso, dagli Avv.ti Stefani Ceci, Monica Marcucci e Nicola De Giorgi, elettivamente domiciliata presso i medesimi, in Roma, v. Nazionale, n. 91; - controricorrente - avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 4459/2018 (pubblicata il 2 luglio 2018); udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 aprile 2024 dal Consigliere relatore Aldo Carrato; R.G.N. 31743/2018 P.U. 11/04/2024 SANZIONI AMMINISTRATIVE udito il P.M., in persona del Sostituto P.G. Alberto Cardino, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso; udito l’Avv. Claudio Bonora, per i ricorrenti, e l’Avv. Nicola De Giorgi, per la controricorrente. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con provvedimento del 23 ottobre 2012 n. 890349, approvato con deliberazione del Direttorio n. 689/2012, la Banca d’Italia definitiva il procedimento sanzionatorio instaurato, tra gli altri, contro Lorenzo Mauro Banfi e David Reali, quali componenti del collegio sindacale della Banca Network Investimenti spa, a seguito degli accertamenti ispettivi di vigilanza eseguiti dal 30 maggio al 30 settembre 2012, all’esito dei quali veniva irrogata, nei riguardi di ciascuno degli stessi, la sanzione pecuniaria di euro 15.000,00. Ai citati sanzionati era stato contestato l’illecito riconducibile alle carenze nei controlli imposti dall’art. 53, comma 1, lett. b) e d) del d. lgs. n. 385/1993, nonché delle norme contenute nel tit. IV cap. 11 delle Istruzioni di vigilanza delle banche – circ. 229/1999, nonché nel tit. I cap. I, parte IV, delle nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, circ. 263/2006 – disposizioni di vigilanza del 4 marzo 2008 in materia di organizzazione e governo societario delle banche. Il Banfi e il Reali proponevano opposizione avverso la suddetta delibera sanzionatoria dinanzi al TAR Lazio, il quale – con sentenza del 25 febbraio 2015 – dichiarava il proprio difetto di giurisdizione. A seguito della riassunzione avanti alla Corte di appello di Roma, nella resistenza della Banca d’Italia e con l’intervento del PG presso la stessa Corte laziale, le opposizioni venivano integralmente respinte con sentenza n. 4459/2018, ravvisandosi l’insussistenza: a) della dedotta violazione dell’art. 14 della legge n. 689/1981, avuto riguardo all’asserita tardività della contestazione dell’addebito, avvenuta oltre il novantesimo giorno dall’accertamento del 30 settembre 2011; b) della denunciata violazione della mancata corrispondenza tra contestazione e condotta sanzionata; c) della prospettata carenza, erroneità e motivazione dell’impugnata delibera sanzionatoria; d) dell’erroneità dell’accertamento di condotte illecite ascrivibili a componenti del collegio sindacale della Banca Network Investimenti; e) della sproporzione ed incongruità della misura delle sanzioni irrogate. 2. Contro la suddetta sentenza di rigetto della Corte di appello di Roma hanno formulato un congiunto ricorso per cassazione Banfi Lorenzo Mauro e Reali David, affidato a otto motivi (di cui il primo riferibile, in via esclusiva, al solo Reali). Ha resistito con controricorso la Banca d’Italia. Il PG e i difensori di entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo David Reali denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 140 c.p.c., per aver la Corte di appello ritenuto – con la sentenza impugnata - tempestiva la notifica del verbale di avvio del procedimento sanzionatorio, da considerarsi, invece, affetta da nullità. In particolare, il Reali lamenta che la procedura notificatoria di cui all’art. 140 c.p.c. non era stata correttamente eseguita, in quanto esso ricorrente non aveva reperito l’avviso del deposito presso la Casa comunale, che avrebbe dovuto essere affisso sulla porta della sua casa di abitazione. Per contro, si evidenzia che la Corte di appello aveva preso in esame la questione della scissione degli effetti della notificazione fra mittente e destinatario, la quale, tuttavia, non era stata dallo stesso sollevata in giudizio con l’atto di opposizione. 1.1. Il motivo non coglie nel segno e va disatteso. Diversamente da quanto con esso prospettato, la Corte di appello non è incorsa nella dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., dal momento che ha posto riferimento alla richiamata rilevata distinzione relativa alla scissione degli effetti della notificazione fra notificante e notificatario proprio per desumerne che, nella fattispecie, non si era venuta a verificare la supposta violazione dell’art. 140 c.p.c. La Corte laziale, proprio sulla base di questo ormai pacifico presupposto giuridico (che trova applicazione anche nell’ambito dei procedimenti sanzionatori amministrativi: cfr. Cass. SU n. 12332/2017, Cass. n. 28388/2017 e Cass. n. 20515/2020), ha ritenuto legittima e tempestiva la notificazione dell’atto di contestazione dell’addebito nei confronti del Reali, rilevando che, a fronte della definizione dell’accertamento avvenuto il 30 settembre 2011, si era provveduto all’invio del suddetto atto di contestazione, da parte della Banca d’Italia, con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario il 21 dicembre 2011 e, quindi, entro il termine decadenziale di legge. A tal proposito la Corte di appello ha opportunamente richiamato, considerandolo applicabile, quanto statuito dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 12332/2017, con cui è stato affermato che il principio della scissione degli effetti della notificazione tra il notificante ed il destinatario dell'atto trova applicazione anche per gli atti del procedimento amministrativo sanzionatorio - non ostandovi la loro natura recettizia – tutte le volte in cui dalla conoscenza dell'atto stesso decorrano i termini per l'esercizio del diritto di difesa dell'incolpato e, ad un tempo, si verifichi la decadenza dalla facoltà di proseguire nel procedimento sanzionatorio in caso di omessa comunicazione delle condotte censurate entro un certo termine, dovendo bilanciarsi l'interesse del notificante a non vedersi imputare conseguenze negative per il mancato perfezionamento della fattispecie "comunicativa" a causa del fatto di terzi che intervengano nella fase di trasmissione del contenuto dell'atto e quello del destinatario a non essere impedito nell'esercizio di propri diritti, compiutamente esercitabili solo a seguito dell'acquisita conoscenza del contenuto dell'atto medesimo. Pertanto, a questi fini, non rileva che l’esecuzione della notificazione sia avvenuta ai sensi dell’art. 140 c.p.c., senza trascurare il dato che lo stesso ricorrente ha attestato di aver ricevuto il plico, con effetto perciò sanante e tale da consentirgli il pieno dispiegamento delle sue attività difensive (cfr. Cass. n. 11713/2011 e Cass. n. 19522/2016). Oltretutto, per quanto evincibile dagli atti acquisiti in causa (esaminabili anche nella presente sede, vertendosi in un caso di denuncia di un vizio processuale), è emerso che il timbro apposto dall’ufficiale giudiziario che aveva proceduto alla notificazione dell’atto di contestazione degli addebiti ai sensi dell’art. 140 c.p.c. reca la data del 28 dicembre 2011 e nella stessa data il medesimo aveva compiuto le attestazioni relative all’affissione dell’avviso di deposito alla porta del destinatario e all’invio di altro avviso R.R. con spedizione presso il domicilio dello stesso Reali comunicandogli l’avvenuto deposito, così risultando completata la procedura notificatoria prevista dal citato art. 140 del codice di rito (peraltro, per vincere tali attestazioni effettuate dall’ufficiale giudiziario, occorreva proporre – rimedio che non risulta, invece, essere stato esperito dal Reali - querela di falso, stante la natura fidefaciente della relazione di notificazione: v., ad es., Cass. n. 1699/2019 e, già, Cass. n. 1125/1998). Pertanto, deve ritenersi che, ai fini del rispetto del termine di cui all’art. 14 della legge n. 689/1981, non costituisce elemento integrante della notificazione l’effettiva conoscenza acquisita dal destinatario in una data successiva, la quale – semmai – esercita la sua efficacia sulle attività di cui costui ha diritto di avvalersi, quali la presentazione delle proprie controdeduzioni, il cui termine di 30 giorni previsto dal TUB viene a decorrere dalla data di ricezione del plico, avvenuta, nel caso di specie, il 10 gennaio 2012 (come dallo stesso ricorrente ammesso: cfr. pag. 8 del ricorso). 2. Con il secondo motivo di ricorso sia il Banfi che il Reali deducono la violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della legge n. 241/1990 e dell'art. 97 Cost., sul presupposto che la Corte di appello avrebbe, erroneamente, ritenuto corretta la motivazione del provvedimento sanzionatorio. La censura è priva di pregio. A tale proposito, occorre rilevare che l’atto sanzionatorio, pur se sostanzialmente riproduttivo degli esiti delle operazioni ispettive, non può certo, per tale motivo soltanto, essere considerato insufficientemente motivato (v., ad es., Cass. n. 10745/2015), rispondendo, pertanto, per quanto in modo essenziale, alle doglianze mosse dai ricorrenti, non risultando, perciò, integrata la violazione del diritto di difesa ed al contraddittorio degli stessi. Va, oltretutto, ricordato che – sul piano generale – il provvedimento sanzionatorio con cui la P.A., disattendendone le deduzioni difensive, irroga al trasgressore una sanzione amministrativa è censurabile dal giudice dell'opposizione, sotto il profilo del vizio motivazionale, unicamente nel caso in cui sia del tutto privo di motivazione (ovvero quando questa sia solo apparente) e non anche se la stessa risulti insufficiente, atteso che l'eventuale giudizio di inadeguatezza motivazionale involge una valutazione di merito che non compete al giudice ordinario, concernendo il giudizio di opposizione non l'atto della P.A., ma il rapporto sottostante (Cass. SU n. 1786/2010, Cass. n. 2959/2016 e Cass. n. 12503/2018). Nel caso di specie, oltretutto, vengono in rilievo sanzioni amministrative irrogate ex art. 144 TUB, le quali non sono comparabili a quelle di cui all’art. 187-ter TUB, e quindi non possono considerarsi del tutto soggette al regime di garanzie proprio del processo penale (Cass. n. 3656/2016 e Cass. n. 16517/2020). 3. Con il terzo motivo i due ricorrenti denunciano la nullità della sentenza o del procedimento per omessa pronuncia sull’eccezione di violazione dei principi di colpevolezza e personalità, previsti dagli artt. 3 e 6 della legge n. 689/1981, stante l’uniformità degli addebiti mossi indistintamente a tutti i membri degli organi amministrativi e di controllo della BANCA NETWORK INVESTIMENTI – BNI S.p.a. Diversamente da quanto denunciato, il Collegio rileva che – per come chiaramente emergente dallo sviluppo motivazionale contenuto nelle pagg. 10-11 della sentenza impugnata - risultano essere stati evidenziati i puntuali doveri incombenti sugli organi di controllo societari e, in particolare, le carenze concretamente rilevate nello svolgimento di tale specifica attività rispetto agli organi di amministrazione. Da ciò consegue l’insussistenza del dedotto vizio di omessa pronuncia. 4. Con il quarto motivo i ricorrenti prospettano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2403 c.c., dell'art. 53, comma 1, lett. b) e d), TUB, nonché delle norme contenute nel Titolo IV, Capitolo 1 delle Istruzioni di vigilanza per le Banche di cui alla Circolare n. 229/99 della Banca d'Italia; nel Titolo I, Capitolo 1, parte quarta delle Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le Banche, di cui alla circolare n. 263/06 della Banca d'Italia e, infine, nelle Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche, adottate dalla Banca d'Italia con provvedimento del 4 marzo 2008, in ordine al contenuto degli obblighi di controllo del Collegio sindacale. In sostanza, con tale censura, i ricorrenti denunciano, nel ripercorrere le motivazioni del provvedimento sanzionatorio, che la Corte di appello avrebbe avvalorato l’attribuzione ai sindaci della citata banca (qualità rivestita dal Banfi e dal Reali) della funzione di valutare nel merito la convenienza ed opportunità delle scelte gestorie societarie, obliterando, però, di considerare che al collegio sindacale non compete l’organizzazione delle funzioni di controllo interno, spettanti alla governance bancaria. La censura è priva di fondamento. La sentenza impugnata si è, infatti, uniformata alla giurisprudenza – ormai costante – di questa Corte, alla stregua della quale sono stati enunciati i seguenti principi: - in tema di sanzioni amministrative pecuniarie applicabili ai sensi degli artt. 144 e 145 TUB, il componente del collegio sindacale è imputabile a titolo di dolo o di colpa per l'omesso o il difettoso compimento, cosciente e volontario, dei doveri di controllo e di ispezione di cui all'art. 2403, terzo comma, c.c., non diversamente da quanto previsto dalla disciplina generale dell'illecito amministrativo di cui alla legge n. 689 del 1981 che esclude forme di responsabilità oggettiva; - in materia di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia bancaria, i componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo "quoad functione", gravando sui sindaci, da un lato, l'obbligo di vigilanza in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell'adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società, secondo i parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare di vigilanza e, dall'altro lato, l'obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d'Italia. In altri termini, diversamente da quanto prospettato con il motivo in esame, non si tratta di imputare ai sindaci una responsabilità per il compimento di operazioni irregolari o illecite da parte di altri, né di sottoporre gli organi amministrativi ad un controllo sul merito delle scelte gestionali, ma di esigere l’esercizio tempestivo dei poteri ispettivi che la legge pone a carico dei sindaci, esercizio che, nella specie, la Corte di appello di Roma ha accertato essere mancato con una motivazione del tutto logica e sufficiente, perciò insindacabile nella presente sede di legittimità. Al riguardo, la citata Corte (v., soprattutto, pagg. 13-14 della motivazione della sentenza qui impugnata) ha adeguatamente evidenziato l’assenza di iniziative volte a far emergere e a rimuovere le anomalie e le irregolarità rilevate (sul punto, v. Cass. SU n. 20934/2009 e, già con specifico riferimento alle sanzioni ex art. 144 TUB, Cass. n. 5239/2008), non essendosi i medesimi attivati per far emergere gli indici di criticità correlati all’attività gestoria bancaria (tra i quali la larga diffusione di condotte scorrette dei promotori, la vendita di prodotti rischiosi senza adeguate cautele, il ritardo nella segnalazione dell’applicazione della normativa antiriciclaggio). 5. Con il quinto motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione della disciplina normativa regolatrice del riparto dell’onere probatorio, di cui all’art. 2697 c.c. ed all'art. 3 della legge n. 689/1981 (in rapporto all’art. 115 c.p.c.), sostenendosi che la Corte di appello avrebbe conferito rilevanza unicamente alle risultanze degli accertamenti ispettivi, senza considerare le controdeduzioni documentali degli stessi ricorrenti, fra le quali il rapporto della BANCA D’ITALIA 18.10.2012 prot. 0873007/12, che aveva escluso qualsivoglia responsabilità, e degli organi gestori e degli organi di controllo, per le perdite patrimoniali subite da BNI. Contrariamente a quanto sostenuto con la formulata censura, deve evidenziarsi che la Corte di appello non si è limitata a recepire acriticamente e pedissequamente le risultanze degli accertamenti ispettivi, ma ha provveduto a vagliare autonomamente e in modo tra loro coordinato varie circostanze fattuali, fra cui: il significativo contenzioso sviluppatosi a seguito della offerta di prodotti finanziari non adeguati, nel periodo di operatività dell’organo sindacale di controllo; il non aver impedito, quindi, un’estesa diffusione di vendita incauta di prodotti ad elevata rischiosità per la clientela (oltretutto riferita ad una banca di piccole dimensioni) e – come già evidenziato - il ritardo nell’adozione della normativa antiriciclaggio. Peraltro, è appena il caso di aggiungere che il riferimento al su citato rapporto della Banca d’Italia concerne unicamente lo specifico problema della diminuzione della patrimonialità della BNI, ma non esclude in alcun modo che all’organo di controllo fossero addebitabili specifiche omissioni nelle loro funzioni. 6. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, con riferimento all’arco temporale degli accertamenti ispettivi. Si deduce che tali accertamenti avrebbero posto riferimento unicamente a fatti occorsi fra il maggio 2010 e il settembre 2011, senza considerare quelli anteriori, sui quali la stessa Banca d’Italia aveva condotto un accertamento ispettivo diverso da quello oggetto della presente causa, riferibile sino alla data del 17.10.2008, conclusosi senza la contestazione di addebiti. Diversamente da quanto opinato dai ricorrenti, la Corte di appello ha adeguatamente chiarito che l’esclusione della responsabilità del sindaco Favalesi era giustificata dal fatto che egli aveva cominciato a svolgere il suo incarico dal 27 aprile 2010, nel mentre il Banfi e il Reali lo avevano assunto a far data dal 26.9.2007 e che le loro omissioni di vigilanza - nel corso del periodo in cui essi avevano rivestito tale qualità - erano state verificate con gli accertamenti ispettivi che erano stati poi posti a fondamento della impugnata delibera sanzionatoria. La circostanza della contestata “perimetrazione temporale” risulta, dunque, essere stata esaminata. 7. Con il settimo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 53, 144 e 145 TUB in relazione al rilievo ispettivo n. 11), con il quale si contestava la mancata osservanza delle prescrizioni antiriciclaggio, di cui all’art. 7, d.lgs. 231/2007, fattispecie estranea al potere di controllo degli Istituti di credito e di normazione secondaria della Banca d’Italia, di cui al citato art. 53 TUB. A tal proposito va rilevato che l’area applicativa dell’art. 53 TUB concerne il controllo interno (comma 1, lett. d) e il contenimento del rischio (comma 1, lett. b) e la violazione della relativa normativa secondaria trova la disciplina sanzionatoria nell’art. 144 TUB. Nel caso, non risulta essere stato applicato il procedimento sanzionatorio previsto dall’art. 56 del d.lgs. 231/2007, che pertanto non viene in rilievo nella vicenda dedotta in causa. 8. Con l’ottavo ed ultimo motivo i ricorrenti denunciano l’omessa pronuncia sulla dedotta incompetenza della Banca d’Italia all’irrogazione di sanzioni concernenti la prestazione di servizi di investimento, da intendersi, invece, devoluta alla competenza CONSOB dal TUF. La doglianza è priva di fondamento, dal momento che la Corte di appello ha preso specifica posizione sulla questione (v. ultima parte di pag. 11 e la prima della successiva pag. 12), rilevando che le sanzioni irrogate al Banfi e al Reali attenevano alla violazione della disciplina dell’attività di controllo interno e non invadevano, pertanto, la sfera di attribuzioni propria della CONSOB. Più specificamente nella sentenza impugnata è stato correttamente posto in risalto che non aveva rilievo che la contestata carenza nei controlli interni concernesse anche l’attività di collocamento tra i clienti della banca di prodotti finanziari soggetta a vigilanza della CONSOB, poiché la contestazione e la conseguente sanzione applicata avevano riguardato i controlli interni della banca e l’adeguatezza dell’attività di controllo da esercitarsi sulle funzioni societarie e non esorbitavano, quindi, dai compiti di vigilanza sulle banche assegnati alla Banca d’Italia. È da escludersi, quindi, la sussistenza della dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c. 9. In definitiva, il ricorso va integralmente respinto, con conseguente condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo. Infine, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 3.700,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte di cassazione, in data 11 aprile 2024. Il Consigliere estensore La Presidente Aldo Carrato Milena Falaschi
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3652 del 2020, proposto da R. Ca. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fr. Lo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Me., In. Pu., con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via (...); nei confronti Sindaco del Comune di (omissis) in Qualità di Ufficiale di Governo, non costituito in giudizio; Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia Sezione Prima n. 451/2019 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di (omissis) e di Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 8 maggio 2024 il Cons. Davide Ponte e nessuno è comparso per le parti costituite in collegamento da remoto attraverso videoconferenza, con l'utilizzo della piattaforma "Mi. Te.". Viste le conclusioni delle parti come da verbale.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. R. Ca. S.r.l. appella la sentenza del Tar per il Friuli Venezia Giulia n. 451 del 2019, recante il rigetto del suo ricorso per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell'adozione dell'ordinanza sindacale contingibile e urgente n. 73/2017, annullata dallo stesso TAR con sentenza n. 26/2018, con la quale è stato ordinato, da un lato, l'immediata adozione degli accorgimenti utili a limitare le emissioni sonore inquinanti rilevate dall'ARPA FVG e, dall'altro, la predisposizione di un piano di bonifica finalizzato al contenimento e abbattimenti delle emissioni sonore. 2. Parte appellante formulava i seguenti motivi di appello: - Violazione di legge per violazione e falsa applicazione degli artt. 30, c.p.a., 1223, 2043 c.c. e 40 e 41 c.p. per l'erronea ritenuta insussistenza del nesso causale - Travisamento di fatto; - Violazione di legge per violazione e falsa applicazione dell'art. 63, commi 3 e 4 c.p.a. Mancata assunzione delle prove richieste - Omissione di pronuncia e difetto di motivazione; - Violazione di legge per violazione e falsa applicazione dell'art. 1227, comma 2, c.c. e dell'art. 30, comma 3, c.p.a. - Travisamento di fatto - Carente e contraddittoria motivazione. 3. Si è costituito in resistenza all'appello il Comune di (omissis). 4. All'udienza di smaltimento dell'8 maggio 2024 la causa passava in decisione. 5. Il ricorso non è fondato nei termini che seguono. Preliminarmente occorre osservare che gli elementi costitutivi della fattispecie aquiliana sono così individuabili: a) il fatto illecito; b) l'evento dannoso ingiusto ed il danno patrimoniale conseguente; c) il nesso di causalità tra il fatto illecito ed il danno subito; d) la colpa dell'apparato amministrativo. Nel caso di specie nulla quaestio con riferimento al piano soggettivo. 5.1 Con riferimento al nesso di causalità, per mezzo della prima censura parte appellante deduce che il TAR si sarebbe affidato agli atti della difesa comunale che non ha offerto alcun riscontro tecnico idoneo a dimostrare l'inefficacia delle misure assunte dall'azienda in ottemperanza dell'ordinanza sindacale, né ha chiesto di darne dimostrazione, nel corso del giudizio, offrendo mezzi di prova. 5.2 Sotto tale profilo si deve rilevare che correttamente parte appellante dimostra il nesso di causalità alla luce dell'ordinanza che riconduce i livelli di inquinamento acustico precipuamente allo scarico dei materiali e alla movimentazione degli stessi sullo spazio esterno posto sul retro della proprietà, su via (omissis). Ritiene infatti parte appellante che l'unica misura che avrebbe potuto e dovuto adottare l'azienda in recepimento dell'ordinanza sindacale era solamente la cessazione completa dell'attività nell'area nord e la sua allocazione, in quell'area disponibile più lontana dal lamentato punto di impatto, nell'area sud. Né il Tar né la difesa comunale di contro hanno offerto alcun riscontro tecnico idoneo a dimostrare l'inefficacia delle misure assunte. 6. Guardando al piano del danno subito, con il secondo motivo di appello parte appellante ritiene la sentenza erronea per non aver accolto l'istanza di istruttoria volta a dimostrare le spese e i costi sostenuto per dar luogo all'esecuzione dell'ordinanza. 6.1 Il motivo non è fondato. Preliminarmente occorre ricordare come è noto il principio per cui l'onere della prova dei presupposti del risarcimento del danno (salve talune ipotesi speciali di responsabilità ) incombe sul danneggiato e non sul supposto danneggiante. L'azione risarcitoria innanzi al giudice amministrativo, infatti, non è retta dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, tipico del processo impugnatorio, bensì dal generale principio dell'onere della prova ex artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., per cui sul ricorrente grava l'onere di dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti della domanda al fine di ottenere il riconoscimento di una responsabilità dell'amministrazione per danni derivanti dall'illegittimo od omesso svolgimento dell'attività amministrativa, da ricondurre al modello della responsabilità per fatto illecito delineata dall'art. 2043 c.c. (Consiglio di Stato, Sez. IV, 08/02/2016, n. 486; Consiglio di Stato, Sez. IV, 28/01/2016, n. 327). 6.1 Nel caso di specie, parte appellante non assolve tale onere probatorio con riferimento al danno patrimoniale subito e oggetto di richiesta di risarcimento. Sotto un primo profilo, si deve rilevare che la stessa produce voci di spesa sostenute che tuttavia non hanno una valenza probatoria sufficiente in quanto dalla stessa parte predisposte. Sotto ulteriore profilo, la difesa comunale contesta puntualmente la rilevanza probatoria dei documenti su cui si basa la richiesta in quanto facenti capo a spese non riferibili all'esecuzione dell'ordinanza. A dimostrazione di quanto oggetto di contestazione vi è la reiterata istanza istruttoria volta a colmare l'onere probatorio incombente sulla parte appellante. Al riguardo assume rilievo preminente il principio per cui non si può liquidare il danno con una valutazione equitativa, poiché l'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c. non può essere assolto mediante consulenza tecnica d'ufficio, che non è un mezzo di prova, ma uno strumento di valutazione delle prove già fornite dalle parti (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. III, 15/10/2021, n. 6949). 7. Parimenti infondato è il terzo motivo di appello. La sentenza impugnata ha fatto buon governo dei principi in termini di imputabilità del danno al presunto danneggiato. In generale, l'art. 30, comma 3, c.p.a., che prevede la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l'impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, è ricognitivo di principi già evincibili alla stregua di un'interpretazione del comma 2 dell'art. 1227 c.c.: detto articolo, infatti, operando sui criteri di determinazione del danno conseguenza ex art. 1223 c.c., regola la c.d. causalità giuridica, relativa al nesso tra danno evento e conseguenze dannose da esso derivanti ed introduce un giudizio basato sulla cd. causalità ipotetica, in base al quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse tenuto il comportamento collaborativo cui deve attenersi. Nel caso di specie il Tar ha evidenziato la carenza nella diligente e tempestiva tutela dei propri interessi, in termini coerenti ai principi predetti. 8. Per le ragioni esposte, deve rigettarsi l'appello. Sussistono giusti motivi per compensare le spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 8 maggio 2024, svoltasi in collegamento da remoto, con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere, Estensore Sergio Zeuli - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. RANALDI Alessandro - Relatore Dott. MICCICHÈ Loredana - Consigliere Dott. ANTEZZA Fabio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Th.Ou. nato il (Omissis) avverso la sentenza del 28/11/2023 della CORTE APPELLO di L'AQUILA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSANDRO RANALDI; lette le conclusioni del PG. RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Con sentenza del 28.11.2023, la Corte di appello dell'Aquila, in parziale riforma della sentenza di primo grado - emessa con rito abbreviato - riqualificata l'imputazione nell'ipotesi di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90, ha rideterminato la pena nei confronti di Th.Ou. in anni due di reclusione ed Euro 3.000 di multa, confermando nel resto. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, lamentando quanto segue. I) Violazione di legge con riferimento all'articolo 73, comma 5, d.P.R. 309/90, per erronea qualificazione delle condotte contestate nel capo di imputazione come fattispecie autonome ed indipendenti rispetto alla complessiva condotta rientrante nell'ambito della citata norma incriminatrice. Il) Violazione di legge, con riferimento al trattamento sanzionatorio applicato. La Corte d'appello avrebbe dovuto individuare la pena base in relazione all'episodio più grave ed effettuare un aumento unico per la continuazione e per tutti gli altri episodi contestati o eventualmente effettuare minimi aumenti in relazione ai fatti riferibili ai singoli cessionari. III) Vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'articolo 62, n. 4, cod. pen. per la speciale tenuità del fatto e del beneficio della sospensione condizionale della pena. IV) Violazione di legge quanto alla conferma della misura di sicurezza dell'espulsione dell'imputato dal territorio nazionale sul falso presupposto della ritenuta pericolosità sociale dello stesso. V) Violazione di legge in ordine alla mancata applicazione delle sanzioni sostitutive. 3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. 4. La difesa del ricorrente ha depositato memoria di replica, insistendo nelle rassegnate conclusioni. 5. Il proposto ricorso deve essere dichiarato inammissibile. 5.1. Il motivo sub I) è manifestamente infondato, risultando in atti pacificamente contestati plurimi episodi di cessione di sostanze stupefacenti del tipo hashish, commessi dal prevenuto nei confronti di diversi soggetti acquirenti. 5.2. Il motivo sub II) è privo di pregio, atteso che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, la Corte territoriale ha correttamente applicato il disposto di cui all'art. 81 cod. pen., determinando per la continuazione un aumento di pena fino al triplo in considerazione del numero elevato delle fattispecie criminose di cessione oggetto di contestazione. 5.3. Anche il motivo sub III) è manifestamente infondato, atteso che non è certamente illogica la motivazione della sentenza impugnata, laddove ha negato la sussistenza dei presupposti, nel caso concreto, della circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen., avuto riguardo all'elevato numero di cessioni da cui l'imputato ha conseguito un lucro non qualificabile come di speciale tenuità, tenuto conto della frequenza e costanza delle stesse, anche in rapporto alla detenzione di un numero apprezzabile di dosi già pronte per l'immediata cessione ad altri tossicodipendenti (cfr. Sez. 6, n. 31603 del 16/05/2017, Rv. 270571 - 01). 5.4. I motivi sub IV) e V) prospettano non consentite censure di merito, a fronte di sentenza che ha logicamente motivato in ordine alla elevata pericolosità sociale del prevenuto, stante la sua abituale attività di spacciatore, fra l'altro posta in essere nonostante lo stesso fosse sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari. Per le stesse ragioni è stato plausibilmente ritenuto che, nei confronti dell'imputato, le sanzioni sostitutive invocate non riuscirebbero ad ottemperare alla finalità rieducativa che le sono proprie. 6. Stante l'inammissibilità del ricorso, e non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. sent. n. 186/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria, che si stima equo quantificare nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 10 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA SEZIONE SESTA CIVILE composta dai magistrati: dott. (...) - Presidente relatore dott. (...) - (...) dott. (...) - (...) all'udienza del 29.05.2024 ha pronunciato - ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c. - la seguente SENTENZA definitiva nella causa civile in grado di appello iscritta al n. (...) registro generale degli affari contenziosi dell'anno 2019, vertente tra (...) c.f. (...), rappresentato e difeso dall'Avv.to (...) c.f. (...) con studio in (...) in virtù di mandato in atti presso cui è elett.te domiciliato, - (...) - e (...) S.p.A. (già (...) S.p.A.) (Codice Fiscale e P. IVA (...)), iscritta al n. (...)/99 del Registro delle (...) di (...) - REA n. (...), con sede (...)(...) n. (...) ((...)) che agisce a mezzo del procuratore speciale (...) in persona del legale rappresentante pro tempore (...) Dott. (...) con sede (...)(...) n.7 ((...)), (...) di iscrizione nel (...) di (...) e (...), iscritta presso la C.C.I.A.A. di (...) al n. 2015 ((...)- Racc. (...)), rappresentata e difesa unitamente e disgiuntamente dagli Avv.ti (...) ((...) - pec: (...)) e (...) ((...)# - pec: (...)) ed elettivamente domiciliat (...)(...) via (...) n. 26 ((...)), giusta procura allegata ex art. 83, comma 3, c.p.c., al ricorso per decreto ingiuntivo; - APPELLATA - MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Par. 1. - Con atto di citazione notificato in data (...), l'avvocato (...) ha proposto appello avverso la sentenza definitiva del Tribunale ordinario di (...) n. (...)/2019, pubblicata in data (...), resa all'esito del procedimento r.g. n. (...)/2016, promosso dall'odierno appellante nei confronti di E-(...) s.p.a. Par. 2. - I fatti di causa sono esposti nella sentenza impugnata come qui di seguito viene riportato. "Con atto di citazione in opposizione ritualmente notificato, l'Avv. (...) ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. (...)/2016 (R.G. n. (...)/2016) emesso dal Tribunale di (...) in data (...), avente ad oggetto la restituzione, in favore di E (...) S.p.a., della somma di Euro 228.085,92 da quest'ultima versata all'Avv. (...) ex art. 93 c.p.c. in forza di numerose sentenze di primo grado successivamente riformate in appello, oltre interessi come da domanda e spese della procedura. A fondamento dell'opposizione l'Avv. (...) ha dedotto: 1) preliminarmente l'incompetenza per territorio del Tribunale di (...) in favore del Tribunale di Napoli; 2) nel merito, l'inammissibilità della domanda di restituzione delle somme percepite a titolo di onorari in quanto non formulata nell'atto di appello; 3) l'assoluta genericità della domanda e infondatezza della stessa in ragione del diritto del difensore al compenso e della mancanza di adeguata prova del credito; 5) l'erroneità delle somme ingiunte in quanto comprensive di IVA e spese di precetto. E-(...) S.p.a. si costituiva in giudizio e, contestato tutto quanto ex adverso dedotto ed eccepito, ha concluso chiedendo il rigetto dell'opposizione e la conferma del decreto ingiuntivo o, in subordine, la condanna dell'opponente alla restituzione della somma accertata all'esito dell'istruttoria. Rigettata la richiesta di concessione della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo, la causa veniva istruita con la produzione di documenti e trattenuta in decisione all'udienza del 11.02.2019 con concessione dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica". Par. 3. - Il Tribunale adito, con l'impugnata sentenza, ha così deciso: "- In parziale accoglimento dei motivi di opposizione, revoca il decreto ingiuntivo n. (...)/2016 (R.G. n. (...)/2016) emesso dal tribunale di (...) in data (...); - Condanna l'Avv. (...) alla restituzione, in favore dell'opposta, del complessivo importo di Euro 223.842,97, oltre interessi legali dalla domanda al saldo effettivo; - (...) l'Avv. (...) alla refusione, in favore della parte opposta, delle spese del giudizio che ex D.M. n. 37/2018 liquida in Euro 13.430,00 per compensi, oltre spese generali, iva e cpa, come per legge". Par. 4. - Con l'atto di appello l'avvocato (...) ha chiesto di accogliersi le seguenti conclusioni : "(...) la Corte adita: a) Preliminarmente, sospendere l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado n. (...)/2019, RG (...)/2016, emessa dal Tribunale di (...) dott.ssa (...) pubblicata il 24 settembre 2019, non notificata, con fissazione immediata dell'udienza di sospensiva ex artt.283 c.p.c. e 351 c.p.c. b) Nel merito, in via preliminare, accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui il giudice ha rigettato l'eccezione di incompetenza territoriale in favore del Tribunale di Napoli e, per l'effetto, dichiararla, secondo quanto previsto al punto n. 1 del presente atto; c) accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado per omessa indicazione nell'atto di appello della domanda di ripetizione di somme e conseguente decadenza dalla proposizione della stessa: per l'effetto, dichiarare la domanda monitoria inammissibile per quanto esposto al punto n. 2 del presente atto; d) accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado per mancato assolvimento dell'onere della prova da parte di E- (...) in merito agli importi da restituire, secondo quanto esposto al punto n. 3 del presente atto; e) accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado per omessa pronuncia in merito al diritto ai compensi ed all'onorario, maturati in capo al professionista, per quanto esposto al punto n. 4 del presente atto; f) Per l'effetto, revocare integralmente il decreto ingiuntivo n. (...)/2016 emesso dal Tribunale di (...) g) (...) e per l'effetto, in accoglimento di tutti i motivi di appello suesposti, riformare integralmente la sentenza n. (...)/2019 RG (...)/2016 emessa dal Tribunale di (...) dott.ssa (...) il 24 settembre 2019; h) Con condanna alle spese del doppio grado di giudizio". Par. 5. - (...) E-(...) spa, costituitasi con comparsa di risposta depositata in data (...), ha resistito all'impugnazione chiedendo di accogliersi le seguenti conclusioni: "voglia l'Ecc.ma Corte di Appello di (...) ogni contraria reiectis, disattesa l'istanza ex art. 283 c.p.c. in quanto del tutto infondata in fatto e diritto sia sotto il profilo del fumus sia sotto quello del periculum, rigettare l'appello proposto dall'avv. (...) avverso la Sentenza del Tribunale di (...) n. (...)/2019, con integrale conferma della decisione di primo grado. (...) di spese, compensi di lite e rimborso forfettario spese generali" Par. 6. - All'odierna udienza i difensori delle parti hanno precisato le conclusioni, riportandosi ai rispettivi scritti, e hanno discusso oralmente la causa. Par. 7. - (...) è articolato in cinque motivi. Par. 7.1. - Con il primo motivo viene dedotta la "1. Incompetenza territoriale. Erroneità della sentenza". Si legge sul punto nella sentenza impugnata "(...) preliminare di incompetenza per territorio del Tribunale di (...) non può trovare accoglimento per i seguenti motivi. (...) E- (...) S.p.a. ha agito in giudizio per ottenere il pagamento di un'obbligazione pecuniaria (restituzione di somme versate in ottemperanza a sentenze di primo grado poi riformate in appello) liquida ed esigibile in quanto determinabile sulla base di quanto statuito nelle sentenze di primo grado riformate in appello. Quindi, per il combinato disposto degli articoli 20 c.p.c. e 1182 c.c., tale obbligazione pecuniaria deve essere eseguita al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza. (...) dovuto è, infatti, indicato nelle lettere di pagamento ed è facilmente determinabile sulla base di meri calcoli matematici (v. Cass. SS.UU. n.17989/16 nonché sentenze del Tribunale di (...) in analoghi casi di opposizione a decreto ingiuntivo proposte da avvocati antistatari ed aventi analogo oggetto, v. Tribunale di (...) n.21234/2018; 22585/2018; 17820/2018; 22241/2018; 4506/2018 etc.). Pertanto, poiché la creditrice E-(...) s.p.a. ha sede a (...) può ritenersi radicata la competenza territoriale del (...) adito". Deduce l'appellante che "Gli appelli proposti da E (...) alle sentenze di primo grado (favorevoli all'avv. (...) si sono conclusi con pronunce nelle quali è stato stabilito che nulla fosse dovuto a titolo di risarcimento o a qualsiasi altro titolo all'appellante con riserva di ripetizione delle somme eventualmente pagate in esecuzione della sentenza impugnata". La deduzione è infondata. Invero "Il credito restitutorio, relativo alle somme corrisposte, derivante dalla riforma della sentenza, trova titolo proprio in quest'ultima pronuncia ed ha per oggetto l'identica somma effettivamente incassata dalla parte tenuta alla restituzione, rivestendo quindi il debito in questione carattere liquido "ab origine", a nulla rilevando, ai fini della individuazione del giudice territorialmente competente, le eventuali contestazioni riferite all'"an" e al "quantum" (Cass., Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 7722 del 20/03/2019, Rv. 653444 - 01) Quindi l'accoglimento dell'appello determina la riforma della sentenza impugnata che non può più spiegare alcun effetto anche in ragione delle spese di lite liquidate. Ne deriva il diritto alla restituzione di quanto pagato. Dunque, la domanda di restituzione non può che avere ad oggetto delle somme determinate e liquide. Si tratta pertanto di obbligazioni pecuniarie da adempiere al domicilio del creditore a norma dell'art. 1182, comma 3, c.c. Giova rilevare che, ai fini della competenza territoriale, i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice in base allo stato degli atti, ai sensi dell'art. 38, comma 4, c.p.c. e ricorrono quando non è necessario ulteriore titolo negoziale o giudiziale, in quanto il titolo indica il criterio per determinare il compenso, a nulla rilevando le eventuali contestazioni riferite all'"an" e al "quantum". (Cfr. Cass., Sez. 2 -, Ordinanza n. (...) del 09/12/2021 - Rv. 663393 - 01, Cass., Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 7722 del 20/03/2019 - Rv. 653444 - 01). Par. 7.2. - Con il secondo motivo viene dedotta la "2.Erroneità della sentenza. Omessa indicazione della domanda di ripetizione nell'atto di appello. Decadenza". Si legge sul punto nella sentenza impugnata che "(...) domanda di restituzione formulata in sede di appello può avere fini cautelativi e anticipatori, ma, di contro, la mancata esplicitazione della richiesta, non è preclusiva di tale domanda, ben potendo essere chiesta anche in sede di ricorso monitorio (v. Cass. Sent n. 6579/2003; Cass., Ord. n. 28167/2013; Cass. 24.10.2018, n. 26926; Cass. 28 ottobre 2014 n. 22866; Cass. 15 aprile 2010 n. 9062). Ne consegue che nel caso in esame la società opposta non doveva necessariamente proporre nel giudizio di appello una specifica domanda di ripetizione delle spese corrisposte a titolo di spese del giudizio al procuratore distrattario e, pertanto, la relativa richiesta di restituzione delle spese a seguito di riforma della sentenza di primo grado ben può essere fatta valere in via monitoria; Cass. ord. n. 28167 del 17 dicembre 2013; Cass. 26 aprile 2003 n. 6579). La sentenza resa all'esito del giudizio d'appello, infatti, salvo che abbia contenuto in rito, si sostituisce in tutto e per tutto a quella di primo grado ponendosi quale nuova fonte di regolamentazione del rapporto litigioso e la nuova regolamentazione offerta dalla sentenza di appello elide ovviamente anche il capo di sentenza impugnata inerente le spese di lite, con l'ineludibile corollario dell'obbligo restitutorio a carico dell'accipiens delle spese di giudizio ove la decisione sia stata provvisoriamente eseguita". Deduce l'appellante che "la domanda di condanna alla restituzione delle somme versate in primo grado (a titolo di sorta o di onorari) non viene formulata, e viene rinviata ad un successivo ed eventuale momento, pertanto, è inammissibile in sede monitoria, perché mai proposta in appello e, per ciò inammissibile". Il motivo è infondato. Invero "Il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una decisione successivamente cassata, ovvero di sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello, sorge per il solo fatto della cassazione o della riforma della sentenza e può essere richiesto automaticamente, se del caso, anche con procedimento monitorio" (Cass., Sez. L, Sentenza n. 6579 del 26/04/2003, Rv. 562476 - 01). La giurisprudenza richiamata dall'appellato (Cassazione civile, sez. III, 08/07/2010, n.16152 e Cassazione civile, sez. III, 30/04/2009, n. 10124) appare inapplicabile alla fattispecie in esame in quanto riguarda la proponibilità della domanda nel giudizio di appello ma non esclude affatto che la domanda possa essere riproposta in un nuovo giudizio. Par. 7.3. - Con il terzo motivo viene dedotta la "3. Erroneità della sentenza. Mancato assolvimento dell'onere della prova da parte di E- (...) degli importi da restituire". Si legge sul punto nella sentenza impugnata che "Nel ricorso per decreto ingiunto la società opposta ha, infatti, precisato la sua domanda, indicando i nomi delle parti, la data di invio della lettera e di pagamenti degli importi corrisposti in esecuzione della sentenza di primo grado, le modalità di pagamento e la data e il numero della sentenza di riforma in appello di cui si allega lo schema .... Al ricorso risultano allegate le lettere raccomandate attestanti il pagamento delle spese legali e le sentenze d'appello menzionate nella tabella sopra riportata che giustificano la richiesta di restituzione delle stesse (v. lettere di pagamento dal nn.2 al n.64 e sentenze di appello dal doc. n. 65 al 478 allegati al ricorso). In particolare, si è riscontrato che nelle n.63 lettere raccomandate con ricevuta di ritorno la società opposta ha comunicato all'Avv. (...) il pagamento di compensi dovuti per le singole cause indicate nel ricorso, nonché per altri procedimenti le cui sentenze di primo grado non sono state riformate in appello e non sono oggetto del presente giudizio (v. doc. n.2-64 lettere a/r con relative ricevute di ricevimento, successivamente integrate con i documenti n.1-8 all. alle memorie ex art. 183 VI comma n.2). (...) ha, inoltre, fornito prova del pagamento delle somme indicate nelle predette lettere, allegando gran parte delle copie di assegni circolari inviati con le predette lettere o le matrici degli assegni circolari o richieste di pagamento di assegni con il sistema C.I.T. (v. doc. n.2-64 e doc. 9-26 all. memoria ex art. 183 VI comma n.2 c.p.c. di parte opposta). Quanto alle matrici degli assegni circolari, si ritiene che le stesse possano assumere valore probatorio del pagamento, in quanto recanti la data, il nominativo del beneficiario e l'importo corrisposto (v. Trib. (...) - Sezione Ottava - G.U. D.ssa (...) - (...) /2018 pubbl. il (...) secondo cui "(...) ha dimostrato la fondatezza della pretesa creditoria, tenuto conto che già in fase monitoria ha depositato le fotocopie dei cedolini degli assegni circolari n(....), recanti il nome del beneficiario, Avv(....), e soprattutto la dicitura "non trasferibile", in ragione della quale l'unico legittimato all'incasso era il suddetto beneficiario"). La società opposta ha, inoltre, precisato che molti dei predetti assegni sono stati pagati con il sistema "check truncation" che prevede che i titoli, anziché essere trasmessi materialmente dalla banca negoziatrice a quella trattaria, vengano trattenuti presso la prima e che il regolamento avvenga attraverso la trasmissione di dati in rete o su supporto magnetico. (...) è, infatti, custodito dalla banca negoziatrice e si intende pagato bene se entro un certo numero di giorni la banca negoziatrice non riceve contestazioni (D.L. 31 maggio 2011, n. 70, così come convertito dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, che ha modificato l'art. 31 del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736 (c.d. Legge Assegni). Una ulteriore conferma del pagamento delle spese di lite in favore dell'avv. (...) può, inoltre, essere desunta dalle allegate attestazioni del versamento in suo favore delle ritenute d'acconto, versamenti che ovviamente non avrebbero avuto ragion d'essere se in precedenza (...) non avesse corrisposto le spese di lite al netto di detta imposta (doc. nn. 64-67 e doc. n. 27 all. memoria ex art. 183 VI comma c.p.c.). Priva di pregio è risultata, infine, la contestazione dell'Avv. (...) relativa alla mancata indicazione di n. 30 cause nelle lettere allegate in atti e comprovanti il pagamento delle spese di lite in suo favore. Dall'attento esame delle lettere di pagamento, sono infatti risultate specificamente indicate le posizioni contestate: quanto a (...) (...) 049); (...) (...) 041); (...) (...) 043); (...) (...) 043); (...) (...) 002); (...) (...) 039); (...) (...) 041); (...) (...) 041); (...) (...) 041); (...) (...) 002); (...) (...) 011); (...) (...) 047); (...) (...) 051); (...) (...) 043); (...) (...) 049); (...) (...) 033); (...) (...) 049); (...) (...) 011); (...) (...) 043); (...) (...) 053); (...) (...) 002); (...) (...) 047); (...) (...) 039); (...) (...) 002); (...) (...) 053); (...) (...) 041); (...) (...) 002); (...) (...) 002); (...) (...) 048); (...) (...) 002); (...) (...) 041); (...) (...) 007). Con riguardo alle contestazioni mosse dall'opponente nella memoria ex art. 183, VI comma, n. 3, c.p.c., relative all'indicazione, nelle lettere di pagamento, di controversie non oggetto della richiesta di restituzione, si ribadisce che le n. 63 lettere sono state inviate all'esito di plurimi giudizi di primo grado introdotti dall'Avv. (...) per conto di differenti clienti e che soltanto alcune delle sentenze di primo grado sono state riformate e poste a base della domanda (v. ad es. all.to 057 lettera del 29.02.2007 prodotta in relazione alle domande proposte nei confronti di (...) e (...) in quanto nei confronti di (...) non è proposta alcuna domanda nel ricorso). Ne consegue che sulla base della predetta documentazione può ritenersi adeguatamente provato il pagamento dei compensi relativi alle controversie indicate nelle predette missive, atteso che alcuna prova contraria è stata fornita da controparte in merito al mancato invio o ricezione o incasso dei pagamenti indicati nelle predette missive per le cause nelle stesse elencate. In ordine alla prova fornita da parte opposta per ottenere la restituzione delle spese legali corrisposte in relazione a tutte le sentenze di primo grado indicate in ricorso e riformate in appello, si può osservare che, all'esito dell'istruttoria e sulla base dell'ulteriore documentazione allegata dalle parti, alcune delle contestazioni solevate da parte opponente sono risultate fondate. Nelle memorie ex art. 183, comma VI, nn. 1-2-3, c.p.c., l'Avv. (...) ha, infatti, dedotto che non aveva ricevuto il pagamento delle spese legali relative alla controversia di (...) in quanto patrocinata dall'Avv. (...) e che alcune delle sentenze di primo grado per le quali aveva ricevuto il pagamento delle spese legali, non erano state riformate in appello o era stata disposta la compensazione delle spese del solo grado di appello. Parte opposta ha ritenuto condivisibili alcuni dei rilievi di controparte relativi alle posizioni di (...) (importo euro 522,80), (...) (importo euro 1.319,17), (...) (importo euro 440,34), (...) (importo euro 633,26), (...) (importo euro 1.132,81), per un importo complessivo di euro 4.038,38 che viene quindi detratto dall'importo ingiunto di euro 228.085,92. Infatti, dall'esame dei documenti è emerso che non è stata allegata la sentenza relativa alla controversia di (...) e di (...) e quanto alla causa di (...) risulta patrocinata dall'Avv. (...) Infine, con riguardo alla causa relativa ai (...) e (...) nulla sarebbe dovuto dall'Avv. (...) stante il rigetto dell'appello. La contestazione sollevata dall'avv. (...) in ordine al diritto della società opposta di ottenere la restituzione dei compensi relativi alla causa (...) c/ E- (...) e (...) non può trovare accoglimento. Dall'esame della motivazione delle sentenze d'Appello emerge chiaramente che la sentenza gravata è stata riformata anche in punto di spese, (v. all. 433 sentenza (...) in cui si afferma che "in conseguenza della riforma della pronuncia di prime cure, non si è più in presenza di un'ipotesi di soccombenza dell'(...) S.p.a." nonché all. nn. 171 e 178) e, di conseguenza le spese corrisposte al procuratore antistatario non sono più dovute e devono essere restituite. Quanto invece alla contestazione relativa alla restituzione delle spese del giudizio di primo grado relative al giudizio promosso a nome del (...) si rileva che, nel dispositivo della sentenza di appello, il capo delle spese di primo grado è stato riformato con compensazione delle stesse nella misura del 50% con espressa condanna dell'opposta al pagamento in favore del procuratore antistatario della restante quota del 50% (v. all n. 259 comparsa). Pertanto, si ritiene che la società opposta possa richiedere soltanto la restituzione del 50% dell'importo indicato nel ricorso e precisamente di Euro 204,57. (...) ha inoltre contestato il mancato deposito delle sentenze di appello relative a giudizi (...)(...)(...)(...) La contestazione è infondata e difatti dette sentenze risultano prodotte in atti e precisamente: per (...) (...) 139 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 140 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 157 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 158 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 215 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 230 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 305 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 306 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 257 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 393 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 310 Fascicolo monitorio), per (...) (e non (...) (...) 361 Fasciolo Monitorio). In parziale accoglimento dell'opposizione ed accertato che non sono dovuti gli importi richiesti in relazione alle controversie promosse a nome dei (...)(...) e (...) si revoca il decreto ingiuntivo opposto e si condanna l'Avv. (...) alla restituzione, in favore dell'opposta, del complessivo importo di Euro 223.842,97, oltre interessi legali dalla domanda al saldo effettivo". (...) contesta l'esistenza della prova dei pagamenti. Il motivo è innanzitutto inammissibile. Infatti, l'appellante a fronte della ricostruzione certosina dei singoli rapporti effettuata dal (...) (elenco da pagina 5 a pagina 22) si limita a contestazione generiche senza far riferimento a singole poste. Se non fosse inammissibile il motivo sarebbe comunque infondato. (...) contesta la valorizzazione effettuata dal (...) dei versamenti delle ritenute d'acconto. La contestazione è infondata. Invero le ritenute presuppongono l'avvenuto pagamento di compensi altrimenti non avrebbero avuto senso. Aggiunge l'appellante che "In merito all'assenza di alcuna prova contraria, si rileva che non comprende come l'avv. (...) avrebbe potuto provare un fatto negativo, come il mancato pagamento di quanto sostenuto da controparte". Anche in questo caso, trattandosi di versamenti di assegni, l'appellante avrebbe potuto fornire tale prova attraverso il deposito di documentazione bancaria. Deduce ancora l'appellante che "l'avv. (...) nel medesimo periodo a cui risalgono i fatti di causa, ha incassato dalla medesima (...) anche somme relative ad altri giudizi, pertanto sarebbe stata necessaria l'imputazione dei pagamenti e delle relative ritenute di acconto ai giudizi oggetto del presente procedimento". Neppure in questo caso non sono indicate quali somme sono state ricevute e relativamente a quali rapporti. (...) contesta inoltre la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che "il pagamento di "molti" assegni sarebbe avvenuto con il sistema check truncation" in quanto "non vi è prova alcuna, fornita da E- (...) nel giudizio, di quali e quanti assegni siano stati emessi e negoziati con tale procedura, dei relativi importi e causali. In più, la mancata partecipazione al contenzioso da parte degli istituti bancari impedisce di conoscere se e quali titoli emessi con questa procedura siano stati effettivamente incassati dall'avv. (...)". La contestazione è infondata in quanto essi possono desumersi dalle comunicazioni bancarie che attestano l'incasso dei titoli con detta procedura. (...) ancora l'appellante che "la somma ingiunta, ed alla quale il giudice ha condannato la società alla restituzione, inoltre, è erroneamente inclusiva di (...) anche sul punto la sentenza dovrà essere riformata". La doglianza è infondata. Invero "Le domande di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, non costituisce domanda nuova, ed è perciò ammissibile in appello anche nel corso del giudizio, quando (come nella specie) l'esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell'impugnazione. Quanto all'entità della restituzione, essa deve includere anche gli accessori, come gli interessi e le spese, atteso che la riforma o la cassazione della sentenza provvisoriamente eseguita ha un effetto di "restitutio in integrum" e di ripristino della situazione precedente" (Cass., Sez. 1, (...) n. 11491 del 16/05/2006 - Rv. 590956 - 01). (...) le imposte erroneamente versate potranno essere oggetto di una richiesta di rimborso agli uffici finanziari. Par. 7.4. - Con il quarto motivo di appello viene dedotta la "4. Erroneità della sentenza. Omessa pronuncia. Il diritto al compenso e agli onorari". Deduce l'appellante che "spetta all'avvocato (...) il compenso per l'attività svolta nell'interesse dei clienti pur in presenza di sentenze di primo grado che siano state riformate; un'eventuale soccombenza dovrà ripercuotersi unicamente sulle parti in precedenza vittoriose". Il motivo è infondato. Infatti "(...) di distrazione delle spese processuali consiste nel sollecitare l'esercizio del potere/dovere del giudice di sostituire un soggetto (il difensore) ad altro (la parte) nella legittimazione a ricevere dal soccombente il pagamento delle spese processuali e non introduce, dunque, una nuova domanda nel giudizio, perché non ha fondamento in un rapporto di diritto sostanziale connesso a quello da cui trae origine la domanda principale; ne consegue da un lato che non sono applicabili le norme processuali sui rapporti dipendenti e che l'impugnazione della sentenza non deve essere rivolta anche contro il difensore distrattario, benché il capo della sentenza reso sull'istanza di distrazione sia destinato a cadere nello stesso modo in cui cade quello sulle spese reso nell'ambito dell'unico rapporto processuale, dall'altro che il difensore distrattario subisce legittimamente gli effetti della sentenza di appello di condanna alla restituzione delle somme già percepite in esecuzione della sentenza di primo grado, benché non evocato personalmente in giudizio" (Cass., Sez. 3, (...) n. 9062 del 15/04/2010 - Rv. 612482 - 01) Quindi, a seguito della riforma della sentenza impugnata, il difensore manterrà il proprio diritto ad ottenere il pagamento dei compensi professionali ma tale obbligo graverà sul suo assistito e non certo sulla parte vittoriosa nel giudizio di appello. Par. 8. - In conclusione, l'appello deve essere respinto. Par. 9. - Le spese processuali del grado seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo sulla base della legge 27/2012 e degli articoli 1-11 DM 55/14 - così come modificati dal DM Giustizia 147/2022 - in relazione al valore della causa (da Euro 52.000,01 ad Euro 260.000,00, tabella 12, 5° scaglione, compensi medi, escluso compenso della fase istruttoria/trattazione non espletata) e precisamente: Euro 2.977,00 per la fase di studio della controversia, Euro 1.911,00 per la fase introduttiva del giudizio ed Euro 5.103,00 per la fase decisionale per un compenso tabellare finale ex art. 4, comma 5, di Euro 9.991,00 oltre a spese generali, iva e cpa come per legge. Par. 10. - L' appellante è altresì tenuto, ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater D.P.R. 115/12, al versamento dell'ulteriore somma pari all'ammontare del contributo unificato dovuto. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello proposto da (...) nei confronti di (...) spa avverso la sentenza definitiva del (...) ordinario di (...) n. (...)/2019, così provvede: 1. rigetta l'appello; 2. condanna (...) a rifondere ad E-(...) spa le spese del grado, liquidate in complessivi Euro 9.991,00 per compensi, oltre a spese generali (15%), iva e cpa come per legge. 3. dichiara l'appellante (...) tenuto al versamento dell'ulteriore somma pari all'ammontare del contributo unificato dovuto.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. CRISCUOLO Anna - Presidente - Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina Anna R. - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Relatore Dott. RICCIO Stefania - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Mi.Gi., nato a B il Omissis avverso la sentenza del 06/07/2023 della Corte di appello di Torino; Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dalla Consigliera Paola Di Nicola Travaglini; sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Nicola Lettieri che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso; letta la memoria difensiva dell'Avvocato Ca.Ma., nell'interesse della parte civile costituita in persona dell'amministratore di sostegno e curatore speciale di Bo.Em., che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con pronuncia del 20 gennaio 2020, la Corte di appello di Torino, in riforma della sentenza di condanna del Tribunale di Biella del 19 novembre 2018, assolveva Mi.Gi. e Ni.Fl. dal delitto di circonvenzione di incapace ai danni di Bo.Em.., ritenendo l'assenza di prove della loro responsabilità per mancata valutazione della documentazione clinica dell'epoca non acquisita. La Corte di cassazione, con sentenza della Seconda Sezione n. 35741 del 28 settembre 2020, annullava con rinvio la pronuncia assolutoria e la Corte di appello, dopo avere svolto una perizia medico legale in ordine alla condizione psichiatrica della persona offesa all'epoca dei fatti, dichiarava non doversi procedere nei confronti di Ni.Fl. per intervenuta prescrizione e, attesa la rinuncia di Mi.Gi. alla causa estintiva, confermava la condanna nei suoi confronti, pronunciata dal Tribunale di Biella, incluse le statuizioni civili. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso Mi.Gi., a mezzo del difensore, deducendo i seguenti motivi. 2.1. Violazione di legge per inosservanza dell'art. 82, comma 2, cod. proc. pen. per non avere la Corte di appello revocato la costituzione di parte civile di Bo.Em. che, parallelamente al processo penale, aveva promosso l'azione davanti al giudice civile. 2.2. Vizio di motivazione in quanto la sentenza impugnata aveva fatto proprie, in modo acritico, le conclusioni del perito, fondate sulla sola documentazione del consulente di parte, e senza l'acquisizione di tutta la documentazione medica riguardante la storia clinica della persona offesa e le dichiarazioni del suo medico curante. 2.3. Vizio di motivazione in ordine alle prove del primo grado di giudizio che, con riferimento ai profili sanitari, solo successivamente erano state acquisite e, pur essendo note e prive di affidabilità scientifica, come risulta anche dalla consulenza tecnica di ufficio del Dottor Ro.. Lo stesso era avvenuto con riferimento alle prove relative alle operazioni bancarie e alla cassetta di sicurezza della persona offesa. 3. Il giudizio di cassazione si è svolto a trattazione scritta, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, convertito dalla l. n. 176 del 2020, in mancanza di richiesta nei termini di discussione orale. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Il primo motivo è aspecifico. La doglianza non si confronta con la sentenza nella parte in cui, a pagina 11, rappresenta come dagli stessi documenti prodotti dalla difesa emergesse come l'oggetto della causa civile fosse completamente diverso rispetto a quello del processo penale in quanto relativo all'annullamento della donazione della persona offesa a favore di Mi.Gi. della nuda proprietà di un appartamento sito in Biella, non oggetto di contestazione. 3. Il secondo e il terzo motivo, esaminabili congiuntamente attenendo entrambi alla valutazione delle prove, sono generici. La coerente ricostruzione operata dalla sentenza di merito, tenendo conto delle indicazioni della sentenza rescindente - che aveva censurato il ribaltamento della decisione avvenuto senza colmare la lacuna relativa alla circonvenibilità della persona offesa (pag. 9) -, è contestata dal ricorso per un'asserita insufficienza e contraddittorietà della motivazione senza l'indicazione di quale sia il vizio che la inficia e senza l'esame degli argomenti sviluppati dalla della sentenza impugnata. La Corte di merito, al contrario, ha fondato la decisione, previa attivazione dei poteri di integrazione probatoria, disponendo una perizia medico-legale che ha accertato la condizione di fragilità psichica, cognitiva, emotiva e personologica della persona offesa, ritenuta dal perito di immediata riconoscibilità e comprovata dalla sistematica attività di spoliazione delle sue risorse economiche, inclusa la cointestazione con Mi.Gi. di un conto corrente sul quale erano stati versati quasi Euro 270.000, gran parte dei quali non più rinvenuti. Alla luce di questi elementi la censura non ha spiegato in quali termini la presunta mancata acquisizione di tutta la documentazione medica relativa alla condizione sanitaria della persona offesa, soprattutto quella riguardante la tiroide, avesse inciso sugli esiti peritali concernenti la sua circonvenibilità, atteso che alle operazioni aveva preso parte il consulente tecnico della difesa. Negli stessi termini deve concludersi con riferimento ai motivi di ricorso concernenti la cointestazione dei conti correnti, i prelievi di somme allo sportello e l'esistenza di una cassetta di sicurezza intestata alla persona offesa che pongono, in modo confuso, questioni di puro merito non consentite in questa sede e alle quali la sentenza impugnata, integrandosi con la conforme decisione di primo grado, ha fornito puntuale risposta attraverso l'esame approfondito di tutte le prove, documentali e testimoniali, assunte. 4. Alla declaratoria di inammissibilità, fondata sugli argomenti esposti, segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della Cassa delle ammende, oltre alla rifusione alla parte civile costituita, che ha depositato memoria difensiva, delle spese di rappresentanza e difesa del presente grado, che liquida in euro 3686,00 oltre accessori di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile costituita, che liquida in euro 3686,00 oltre accessori di legge. Così deciso il 23 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. CALASELICE Barbara - Relatore Dott. POSCIA Giorgio - Consigliere Dott. LANNA Angelo Valerio - Consigliere Dott. ALIFFI Francesco - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Mi.Gi. nato a N il (Omissis) avverso la sentenza del 08/03/2023 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere BARBARA CALASELICE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore To.St. che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi. uditi i difensori, avv.ti L. Pe. e R. Qu. che hanno concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO Con la sentenza impugnata, la Corte di assise di appello di Napoli ha confermato la condanna, pronunciata dalla Corte di assise in sede, in data 14 dicembre 2021, nei confronti di Mi.Gi., in relazione al concorso nel reato di omicidio pluriaggravato di Ma.Pa., nonché per il ferimento di Va.An., con le circostanze aggravanti di aver commesso il fatto con premeditazione, nonché della modalità camorristica e del fine di agevolare il clan Am.-Pa., sottogruppo della Gr.Vi., perché l'omicidio veniva consumato allo scopo di eliminare Ma.Pa. che aveva minacciato di collaborare con la giustizia, esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 1 cod. pen. (capo A: artt. 110, 575, 577 n. 3 e 4 in relazione all'art. 61 n. 1, 416-bis. l, cod. pen.; artt. 110, 82, comma primo e secondo, 582, 585, 416-bis. 1 cod. pen.). Veniva, altresì, confermata la penale responsabilità dell'imputato per i relativi reati concernenti le armi usate per il delitto (capo B: artt. 81, comma secondo, 110, 61 n. 2, cod. pen., artt. 10, 12 e 14 legge 497 del 1974), aggravato ai sensi dell'art. 7 della legge n. 203 del 1991. 1.1. Il primo giudice aveva condannato l'imputato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per anni uno, oltre alle pene accessorie di legge, fondando l'affermazione di responsabilità sulle immagini registrate dal sistema di videosorveglianza installato nei pressi del luogo teatro dei fatti, delle dichiarazioni di Va.An., testimone oculare, vittima del ferimento per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione nel reato, nonché sulla base delle risultanze degli accertamenti autoptici. Ancora, vengono poste a base della condanna le intercettazioni svolte all'epoca dei fatti, le dichiarazioni di collaboratori di giustizia, tra i quali Ce.Ca., Ac.An., Ma.Fa., ma in particolare quelle di Gu.Ro., reputate riscontrate dalle dichiarazioni, tra gli altri, di Pa.Ma. e Va.An., quest'ultimo esaminato in dibattimento ai sensi dell'art. 210 cod. proc. pen., in base alle quali si individuava, peraltro, la causale dell'omicidio in dinamiche interne al clan nel quale Ma.Pa. militava e al quale appartenevano anche l'esecutore materiale e il mandante Mi.Gi.. Questi, inserito nel clan La. con un ruolo centrale nella gestione del commercio degli stupefacenti, a seguito della faida di camorra del 2004-2005 era passato nelle file del clan Am.-Pa.. Il movente, sulla base del contenuto delle intercettazioni e di un foglio con annotazioni reperito addosso alla vittima dopo l'agguato, nonché delle dichiarazioni dei collaboratori, veniva individuato in circostanze riconducibili al gruppo camorrista al quale apparteneva Ma.Pa. e al timore che questi si determinasse a collaborare con l'autorità giudiziaria. L'omicidio, secondo la ricostruzione dei giudici di primo grado, era avvenuto mentre Va.An. stava accompagnando la vittima a un incontro chiarificatore a proposito delle lamentele dello stesso Ma.Pa. circa il fatto che gli Am.-Pa. non lo remunerassero, a suo parere, in maniera adeguata. La Corte territoriale ha rigettato le eccezioni di nullità della sentenza, per essere stata dichiarata l'assenza dell'imputato, alle udienze del 6 luglio e del 15 settembre 2021, anche se questi, ristretto agli arresti domiciliari, aveva rappresentato le proprie condizioni di salute e la sua impossibilità a comparire alle udienze. Inoltre, i giudici di secondo grado hanno reputato le dichiarazioni di Gu. attendibili e credibili, nonché riscontrate da quelle rese da Pa.Ma., Il., Es.Ca., Ce.Ca. e Va.An., queste ultime apprezzate, in particolare, come lineari e prive di elementi contraddittori, confermando anche il trattamento sanzionatorio irrogato dal primo giudice. 2. Ricorre tempestivamente, avverso la descritta sentenza, l'imputato, per il tramite dei difensori, avv. L. Pe. e R. Qu., con distinti atti di impugnazione, per motivi di seguito riassunti, nei limiti necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Il ricorso a firma dell'avv. L. Pe. denuncia sei vizi. 2.1.1. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 125, 192, 546, cod. proc. pen., 575 cod. pen. e vizio di motivazione in relazione al capo 1 e alla condotta di partecipazione. La sentenza sarebbe viziata da assenza di motivazione quanto alle tesi difensive, nonché da erronea applicazione della legge penale, quanto all'individuazione del concorso nel reato di omicidio e in quello di lesioni personali cagionate ad Va.An.. Si contesta travisamento della prova nonché violazione del canone di cui all'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., rispetto al quale, si riportano dettagliatamente i principi interpretativi in tema di chiamata di correo o in reità, secondo Sez. U Aquilina, nonché in relazione alla natura dei riscontri estrinseci. La penale responsabilità di Mi.Gi. è ritenuta esclusivamente sulla base delle dichiarazioni di Gu.Ro. che sarebbero riscontrate, secondo i giudici di merito, da quanto esposto da Va.An., presente all'agguato. Le altre dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, invece, farebbero esclusivamente riferimento al contesto in cui si sono verificati i fatti e vengono utilizzate dai giudici di appello per sostenere l'attendibilità di Gu. o il presunto ruolo di rilievo di Mi.Gi. nel clan di riferimento. Tuttavia, la Corte territoriale non avrebbe chiarito quale riscontro individualizzante a tali dichiarazioni fosse reperibile, quanto alla partecipazione di Mi.Gi. nella veste di mandante, affidandosi esclusivamente al contenuto delle dichiarazioni di Gu., non idonee, già intrinsecamente, a fondare la configurabilità della partecipazione del ricorrente al reato in qualità di mandante. La Corte territoriale non affronterebbe, approfonditamente, il tema della credibilità soggettiva dei dichiaranti e risponderebbe in modo soltanto apparente alla critica difensiva relativa all'inaffidabilità del narrato di Va.An. e di come questo non potesse costituire riscontro rispetto alle dichiarazioni di Gu.. Circa l'attendibilità di Va.An., la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare le specifiche censure difensive, contenute sia nei motivi principali di appello, sia nella memoria depositata nel giudizio di secondo grado, con riferimento alle contraddizioni del narrato in sede di escussione dibattimentale e anche rispetto alle affermazioni rese nella fase delle indagini preliminari. Va.An., secondo la Corte territoriale, avrebbe riferito che era stato Mi.Gi. a chiedere espressamente di andare a prendere Ma.Pa. e di condurlo dagli Am.-Pa.a M (cfr. p. 25 della sentenza di appello), con affermazione che non prende in esame circostanze di fatto, evidenziate dalla difesa e che minavano l'attendibilità del dichiarante. Si fa riferimento in particolare: - alle sommarie informazioni testimoniali rese nell'immediatezza dei fatti, in data 2 ottobre 2010, da Va.An. quando questi non aveva dichiarato alcun elemento indiziante a carico di Mi.Gi.; - alla versione, resa nelle indagini preliminari, in sede di interrogatorio del 27 marzo del 2019, verbale acquisito al dibattimento, nel quale lo stesso Va.An. affermava che St.Ra. gli avrebbe riferito della richiesta di Mi.Gi. di recarsi a prelevare Ma.Pa., onde condurlo presso un garage di M in quanto Ri.Ma. voleva parlargli; - all'ulteriore versione, resa nel corso della deposizione testimoniale del 23 novembre 2021, come da verbale di dibattimento che si allega al ricorso in ossequio al principio di autosufficienza; - alle evidenti contraddizioni emerse nel corso della deposizione testimoniale in ordine alla presenza all'interno del garage ove avrebbe parlato con Mi.Gi. riportando per stralcio una parte del verbale; - alla valutazione, già operata dalla Corte di appello di Napoli, con sentenza del 3 dicembre 2020, acquisita al dibattimento, da cui emerge che Va.An. non si era adoperato fattivamente, né per la cattura degli autori, né per ricostruire le vicende criminose tanto che gli era stata negata la circostanza attenuante speciale della collaborazione; - alla dichiarazione di Va.An. che riferisce di una riunione, precedente all'omicidio, nel corso della quale avrebbe portato a conoscenza degli esponenti del clan Am.-Pa. le lamentele avanzate da Ma.Pa., cui avrebbero preso parte Gu., Ce.Ca., Ri.Ma., Ma.Fa. e lo stesso Mi.Gi., che avrebbe anche preso la parola per chiedere cosa volesse da loro Ma.Pa., circostanza smentita dalle dichiarazioni di Ce.Ca.; - al fatto che questa stessa riunione, tenuta 10-15 giorni prima dell'omicidio, veniva sconfessata dallo stesso Gu.Ro. che, invece, aveva affermato di aver saputo della richiesta di Ma.Pa. di incontrare i vertici del clan solo in occasione dell'incontro con Ri.Ma., avvenuto il giorno prima dell'omicidio. Si tratta di un complesso di circostanze di fatto che la Corte territoriale avrebbe del tutto omesso di considerare nella motivazione relativa alle dichiarazioni di Va.An., senza affrontare il tema delle contraddizioni tra il suo dichiarato e quello di Gu., tema centrale in relazione al momento partecipativo di Mi.Gi. e, in particolare, a quello della credibilità del Va.An.. La Corte territoriale, infatti, non ha spiegato, per la difesa, il motivo della introduzione, nel suo narrato, di circostanze palesemente false quale quella relativa alla riunione tenuta 10-15 giorni prima in cui è collocata la presenza di Mi.Gi. e l'interlocuzione con Ma.Pa. avvenuta in quella sede, riunione che invece non si sarebbe mai verificata. In definitiva, per la difesa, è stata omessa ogni indagine della credibilità soggettiva di Va.An., essendosi la Corte territoriale limitata a riepilogare le dichiarazioni rilasciate nel dibattimento. La sentenza impugnata si è limitata a poche righe, prive di adeguata argomentazione che desse conto del vaglio di affidabilità delle dichiarazioni del dichiarante, in violazione del canone di cui all'art 192 cod. proc. pen. secondo il quale il giudice deve, in primo luogo, risolvere il problema della credibilità del dichiarante in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socioeconomiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati correità e alla genesi della sua confessione. In secondo luogo, deve essere verificata l'intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante alla luce di criteri di precisione coerenza e spontaneità, con infine, l'esame dei riscontri esterni. A questi è possibile fare riferimento soltanto dopo aver chiarito eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterna ad essa. Quanto alla chiamata di Gu.Ro. si evidenzia che questa sarebbe priva di riscontro. Dalla lettura delle dichiarazioni di Gu. che si allegano, rese all'udienza del 15 settembre 2021, emergerebbe il nucleo essenziale del racconto del dichiarante. Secondo la Corte territoriale, anche se era stato Ri.Ma. a dire a Gu. che potevano uccidere Ma.Pa. lungo il tragitto che questi, insieme a To. o biondo, avrebbero fatto per andare al covo, non per questo Mi.Gi. doveva essere considerato estraneo al mandato omicidiario. Secondo Gu., il giorno prima dell'omicidio lui stesso si era recato a casa di Ri.Ma. alla presenza di Mi.Gi. e in quell'occasione era stato proprio Gu. a chiedere l'autorizzazione ad uccidere Ma.Pa., autorizzazione concessa da Mi.Gi. insieme a Ri.Ma.. Si rimarca che però nessuna delle circostanze indicate è oggetto del racconto di Va.An., sicché il nucleo centrale delle dichiarazioni di Gu. non trova conferma nelle dichiarazioni di Va.An.. Anzi, quest'ultimo riferisce di una riunione avvenuta 10-15 giorni prima dell'omicidio in relazione alla quale aveva accompagnato St.Ra.a M e che, mentre si trovava ad aspettare in macchina, fuori al garage di Sa., St.Ra. che in quel momento stava parlando con Mi.Gi., gli aveva chiesto di andare a prendere Ma.Pa. perché aveva chiesto di parlare con loro, precisando che era stato proprio Mi.Gi. a insistere dicendo "vallo a prendere e fallo venire da noi". Si rileva che nessuna delle circostanze narrate da Gu. viene riferita da Va.An. e che il narrato di Gu., quindi, per la difesa resta privo di adeguato riscontro, in presenza, anzi, del silenzio sulla partecipazione di Mi.Gi. di tutti gli altri collaboratori e, addirittura, di un riscontro negativo proveniente da Ce.Ca.. Tale discrasia viene giustificata in base al fatto che Va.An. era rimasto, sin dal primo momento, estraneo alla fase deliberativa e organizzativa dell'omicidio, affermazione in contrasto con quanto dichiarato dallo stesso Va.An. il quale, anzi, sul movente e la genesi del delitto ha fatto riferimento a una riunione deliberativa tenutasi a suo dire 10-15 giorni prima dell'omicidio. La difesa, infine, ribadisce che, sul punto relativo al mandato omicidi ario, Ce.Ca. ha escluso la presenza di Mi.Gi. e soprattutto il suo intervento di qualsiasi tipo nella fase organizzativa e deliberativa del delitto. Ce.Ca., peraltro, riferisce, nei verbali acquisiti al dibattimento, di una riunione in cui era stato presente e cioè quando Gu. si recò presso il covo di M degli Am.-Pa., per chiedere l'autorizzazione di Ri.Ma.. La Corte territoriale sul punto relativo all'omessa indicazione di Mi.Gi. come presente a tale riunione da parte di Ce.Ca. ha motivato ritenendo che quest'ultimo si fosse limitato a dichiarare la sua presenza a tale riunione senza aver indicato chi fossero gli altri, presenti nel covo, in quella occasione. Su tale punto però la Corte territoriale non solo devia, secondo il ricorrente, il tema della normale indicazione di Mi.Gi., nel corso del suo interrogatorio, ove fosse stato presente alla riunione, ma anche rispetto a quello relativo all'indicazione di Ri.Ma., da parte di Ce.Ca., quale esclusivo mandante. Si esclude poi che le dichiarazioni di Pa.Ma.abbiano, sul tema del mandato, valore di riscontro, trattandosi di circolarità della fonte, perché quanto il dichiarante riferisce è stato appreso dallo stesso Gu.. Si ribadisce che la fonte ha come conoscenza le dichiarazioni dello stesso Gu. e che, comunque, Pa.Ma. espone una sua valutazione quando afferma che la deliberazione di un omicidio non può che provenire da "loro" (i vertici del gruppo, Ri.Ma. e Mi.Gi.) e che di questo non si poteva parlare soltanto con "i ragazzi". Si rimarca, poi, che la motivazione non affronta in alcuna parte il tema dell'indipendenza della chiamata di Pa.Ma., richiamando giurisprudenza sulla circolarità della notizia. Si deduce, in definitiva, il contrasto della motivazione rispetto al materiale probatorio, la mancanza di logicità della stessa in ordine alle censure difensive, il travisamento delle dichiarazioni dei due collaboratori, Va.An. e Gu., nonché la circolarità del patrimonio cognitivo, quanto al mandato omicidiario, privo di riscontro e, anzi, smentito dalle dichiarazioni di Ce.Ca.. 2.1.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 125, 192, 546, cod. proc. pen., 575 cod. pen., nonché vizio di motivazione in relazione al capo 1 quanto al contributo concorsuale. Si deduce che non è stata data risposta all'appello nella parte in cui si sosteneva che le dichiarazioni di Gu. non esponevano un contributo di Mi.Gi., rispetto al mandato omicidiario, in quanto questo risulta conferito esclusivamente da Ri.Ma.. Lo stesso Gu., infatti, ha riferito che quando si era recato da Ri.Ma. per riferire dell'atteggiamento di Ma.Pa. alla presenza di Mi.Gi. era stato proprio Ri.Ma. a dargli il consenso all'omicidio. Anzi Mi.Gi., presente al colloquio, aveva suggerito di assecondare la volontà di Ma.Pa. di poter interloquire con i vertici del clan, suggerimento che non era stato seguito, tanto che Ri.Ma. aveva in prima persona deciso in maniera autonoma ed esclusiva l'omicidio. Rispetto a tale motivo di appello la Corte si sarebbe limitata a esporre le dichiarazioni di Pa.Ma., Es.Ca., Il..,i quali hanno soltanto riferito sulla presunta posizione verticistica di Mi.Gi.. Si sostiene che la mera istigazione a commettere un delitto è irrilevante se non accompagnata dalla sua effettiva commissione ai sensi dell'articolo 115 cod. pen. Il contributo morale, poi, può ritenersi sussistente nei casi in cui tanto nel momento deliberativo del reato, quanto in quello esecutivo emerga la piena adesione del soggetto, in termini di agevolazione nell'avanzamento dei momenti salienti di preparazione del reato. Tale contributo morale atipico deve rivestire efficienza causale qualificata rispetto alla realizzazione del delitto, diversamente da talune norme che puniscono i meri accordi non portati ad esecuzione allo scopo di tutelare interessi di particolare rilievo. Si evidenzia che la diretta attribuzione ai capi dell'associazione per delinquere della responsabilità per i delitti scopo, commessi dagli associati, determinerebbe una mera responsabilità da posizione in violazione dei principi di materialità e di offensività. I reati associativi sono un'autonoma incriminazione e non è sufficiente la posizione apicale, anche se, nell'associazione, il soggetto rivesta la qualità di promotore o organizzatore, per ritenere la responsabilità di questo anche dei singoli delitti scopo commessi da altri. Tali delitti potranno essere attribuiti ai vertici solo a seguito di un accertamento complesso che tenga conto dell'esistenza di un'effettiva condotta offensiva, incriminata ai sensi dell'art. 110 cod. pen., dovendo risultare la partecipazione psichica del capo del clan alla commissione del fatto. Si richiama giurisprudenza di legittimità (sent. n. 34368/2022) secondo la quale è configurabile il concorso morale nel delitto di omicidio nei confronti dell'appartenente all'organismo di vertice di un'organizzazione criminale di tipo mafioso che presta, tacitamente, il proprio consenso all'esecuzione dello specifico delitto, mantenendo il comportamento silente nel corso di una riunione. Tale principio non sembrerebbe aderente, per la difesa, alle circostanze di fatto acclarate nel presente giudizio laddove, dalla lettura delle dichiarazioni di Gu., emerge che Mi.Gi., ove presente all'incontro, non solo mantenne un atteggiamento passivo ma venne escluso da Ri.Ma., nel momento in cui lo stesso Ri.Ma. autorizzò Gu. all'omicidio di Ma.Pa.. Mi.Gi. sarebbe, anzi, rimasto del tutto estraneo al colloquio fra Gu. e Ri.Ma. e quindi all'oscuro delle decisioni assunte dal capo, essendo convinto che Ma.Pa. sarebbe stato condotto dai vertici del clan per avere un colloquio chiarificatore. Si riportano, a tal fine, stralci delle dichiarazioni di Gu. per sostenere il contrasto con il contenuto della deposizione del collaboratore, rispetto alla motivazione della sentenza secondo la quale Mi.Gi. era stato senz'altro d'accordo alla realizzazione dell'agguato e la sua estraneità riguardava soltanto le modalità, i tempi e il modo attraverso i quali compiere l'agguato. Si ritiene, in sostanza, non superato il canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio. 2.1.3. Con il terzo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché vizio di motivazione, avendo la Corte ritenuto sussistente la recidiva senza dare conto delle ragioni giustificative della decisione. La recidiva viene ritenuta sulla base soltanto dei precedenti del casellario giudiziale, con motivazione della Corte territoriale che si sottrae alle censure difensive. Non è stata valutata dalla Corte territoriale la necessità che i fatti per i quali si procede devono essere espressione di accentuata pericolosità sociale dell'imputato e di una perdurante inclinazione al delitto. La verifica circa il rapporto tra fatto per cui si procede e precedenti condanne è mancata, essendosi concentrata la Corte di assise di appello sui precedenti senza motivare sulla natura, l'epoca, il concreto disvalore di questi, richiamando la decisione Sez. U Calibè. Le argomentazioni della Corte territoriale che si è limitata a ricordare i precedenti di Mi.Gi. sono, dunque, per la difesa, assolutamente in contrasto con i consolidati principi interpretativi della Corte di legittimità. 2.1.4. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 125, 192, 546, cod. proc. pen., 575 cod. pen. e vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, circa la misura della pena e di quella degli aumenti ex art. 81 cod. pen. sul più grave reato di omicidio. Non è stato applicato il minimo edittale e non sono state riconosciute le circostanze attenuanti generiche. Rispetto alla prima deduzione manca del tutto la motivazione del provvedimento impugnato così come nella giustificazione del diniego delle circostanze attenuanti generiche non vi sono ragioni specifiche. La sentenza indica soltanto che la determinazione e quantificazione della pena decisa dalla Corte di primo grado appare corretta, essendo stati congruamente determinati gli aumenti per i reati satellite. Si richiama giurisprudenza di legittimità secondo la quale è illegittima la motivazione della sentenza di appello che si limita a condividere il presupposto dell'adeguatezza della pena in concreto irrogata dal giudice di primo grado, omettendo ogni apprezzamento sulla sussistenza di fattori attenuanti indicati nei motivi di impugnazione. Alcuna motivazione svolge la Corte territoriale, poi, quanto alla misura degli aumenti di pena determinata per i reati satellite. Si richiama, sul punto, giurisprudenza di legittimità secondo la quale è necessario indicare la ragione specifica dell'entità degli aumenti operati ex art. 81 cod. pen. 2.1.5. Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 81 cod. pen. in relazione alla richiesta di continuazione tra i fatti in contestazione e quelli giudicati con sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli in data 11 giugno 2013. 2.1.6. Con il sesto motivo si denuncia vizio di motivazione quanto al diniego della continuazione tra i fatti sub iudice e la sentenza irrevocabile di cui al quinto motivo di ricorso. La motivazione che svolge la Corte territoriale circa l'insussistenza della continuazione, tra l'ipotesi associativa, già definita con sentenza irrevocabile, e i reati relativi all'omicidio di Ma.Pa., si è limitata a indicare che la difesa non ha fornito elementi concreti per dimostrare che Mi.Gi., già all'epoca della sua partecipazione al clan Am.-Pa., avesse ideato e comunque voluto l'omicidio di Ma.Pa.. Si tratterebbe, infatti, per la Corte territoriale, di un evento occasionale ideato ed attuato sulla base di un'azione epurativa interna al sodalizio, autorizzata dai vertici del clan Am.-Pa. in quel dato momento storico, non essendo sufficiente identificare l'identità del disegno criminoso con l'accertata volontà del soggetto ad agire, nel tempo, come camorrista secondo strategie e logiche proprie dell'adesione al clan. La motivazione, secondo la difesa, non corrisponde ai canoni interpretativi giurisprudenziali in tema di riconoscimento della continuazione e non risponde a quanto evidenziato con il gravame sul punto. La nozione di continuazione non può ridursi a considerare che tutti i reati sono stati dettagliatamente progettati e previsti nelle modalità di esecuzione, nei tempi posto che la norma parla di mero disegno per l'attenuazione del trattamento sanzionatorio. Ciò che occorre è una programmazione e deliberazione iniziale di una pluralità di condotte, con rappresentazione sommaria. Con particolare riferimento ai reati commessi da soggetto partecipe al sodalizio criminoso, si è posta la questione se la previsione del programma delittuoso del sodalizio, elemento costitutivo del reato associativo, significhi l'esistenza di un disegno criminoso comune alla partecipazione al clan e alla commissione di reati rientranti nel programma nell'associazione. La stessa fattispecie associativa richiede, infatti, l'elemento della finalità di compiere più delitti, ed è stato precisato che si deve trattare di un programma criminoso indeterminato. Tale programma, proprio perché indeterminato, non integra la responsabilità concorsuale nei reati fine ma, nel momento della condivisione di questo programma, se esiste la finalità della futura commissione di reati che risultano specificati, sussiste anche il vincolo della continuazione. In attuazione di tali principi, si deve ritenere che l'eliminazione fisica di un associato che commetta o che minacci di commettere la più intollerabile forma di tradimento del patto di omertà, cioè quella di collaborare con la giustizia, non può essere considerata un'eventualità imprevedibile. Peraltro, si tratta di un omicidio perpetrato per la messa in pericolo di un elemento cardine della stessa sussistenza del vincolo associativo per il quale è intollerabile che uno degli adepti possa ribellarsi, trattandosi di intrinseca regola. L'omicidio si inserisce nella sequenza caratterizzante le innumerevoli azioni militari del clan di riferimento, rientra quindi nell'unitaria programmazione già anticipata al momento dell'adesione al sodalizio, di più violazioni della legge penale ivi compresi gli omicidi nei confronti di soggetti traditori del patto di omertà. La difesa ha allegato questo dato con la produzione della sentenza irrevocabile. 2.2. Con il ricorso a firma dell'avv. R. Qu., si denunciano sei vizi. 2.2.1. Con il primo motivo si denuncia la nullità delle ordinanze dibattimentali del 15 febbraio 2023, 22 febbraio 2023 e 8 marzo 2023, per violazione degli artt. 178 lett. c) e 420-ter cod. proc. pen., nonché nullità derivata della sentenza di condanna, resa in data 8 marzo 2023. L'imputato, sottoposto per questo processo agli arresti domiciliari, è affetto da grave patologia cronica (cardiopatia dilatativa post ischemica, in lista di attesa per trapianto cardiaco, aneurismi dell'aorta addominale e patologie secondarie) che lo rendono soggetto critico ad alta complessità clinica, con necessità di monitoraggio e con rischio di improvvisa evoluzione negativa quoad vitam. Si richiama, all'uopo, la documentazione sanitaria e la memoria difensiva prodotta in sede di riesame, nonché la consulenza tecnica di parte (del dottor Do., specialista in cardiologia e malattie dei vasi), le conclusioni della recente consulenza tecnica di parte resa dal dott. Ta., in vista della celebrazione dell'udienza del giorno 8 marzo 2023. Si richiamano anche le conclusioni cui è giunto il Tribunale di sorveglianza di Bari nel 2015, quando è stato disposto il differimento dell'esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare. Si evidenzia che il Giudice per le indagini preliminari, nel presente procedimento, ha sostituito la misura carceraria con gli arresti domiciliari proprio per le condizioni di salute dell'imputato. Ciò premesso si rileva che, all'udienza del 15 Febbraio 2023, l'imputato ha rappresentato di non poter presenziare per ragioni di salute e la difesa ha depositato certificato medico attestante le patologie e la necessità di ricovero urgente per accertamenti. In quella sede, la documentazione prodotta veniva ritenuta dalla Corte di assise di appello, non attestante l'impossibilità dell'imputato a comparire all'udienza e si disponeva visita immediata del detenuto con certificazione da trasmettere ad horas da parte dell'AsI competente. Si riporta, poi, stralcio della certificazione sanitaria a p. 4 del ricorso e le conclusioni del Procuratore generale circa l'esistenza del legittimo impedimento a comparire dell'imputato, mentre si dà atto che il Collegio pronunciava ordinanza di rigetto dell'istanza di rinvio per impedimento a comparire dell'imputato, dichiarandone l'assenza. Secondo la Corte di appello, il sanitario si sarebbe limitato a riportare le risultanze della precedente documentazione sanitaria e di una sintomatologia soltanto riferita; inoltre l'imputato non si sarebbe conformato alle prescrizioni del medico curante, necessarie all'acquisizione di dati oggettivi, attraverso opportuni esami strumentali e clinici e dalla certificazione prodotta dalla difesa, non essendo emerse, dalla disposta visita medico-legale, condizioni di salute tali da integrare impedimento assoluto a comparire. La motivazione dell'ordinanza, a parere della difesa, trascura di considerare l'esito accertamento cui è pervenuto il sanitario incaricato d'ufficio che ha giudicato le precarie condizioni di salute dell'imputato, idonee a destare un allarme attuale, prescrivendone il ricovero e sconsigliando di sottoporlo a stati emozionali, tanto che lo stesso Procuratore generale aveva ritenuto l'impedimento come assoluto e la necessità di rinviare l'udienza. Anche alla successiva udienza, del 22 febbraio 2023, a fronte della comunicazione nella quale veniva rappresentata la volontà dell'imputato di presenziare, ma la sua impossibilità per ragioni di salute in quanto ricoverato presso il reparto cardiologia dell'ospedale San G con allegata certificazione medica, la Corte di assise di appello non riteneva legittima l'assenza dell'imputato ma rinviava, comunque, l'udienza disponendo che il sanitario che attualmente aveva in cura il paziente, facesse pervenire relazione sanitaria onda indicare le patologie, l'esito degli esami strumentali e dettagliata diagnosi e prognosi, nel caso di avvenuta dimissione le prescrizioni consigliate al paziente. Da ultimo, per l'udienza del giorno 8 marzo 2023, veniva inviata dai Carabinieri relazione contenente la dichiarazione dell'imputato di non presenziare all'udienza, a causa della sua patologia e di uno stato di malessere. La difesa produceva memoriale, a firma dell'imputato, con il quale chiedeva di essere assistito da personale medico infermieristico idoneo per partecipare al processo in condizioni di tranquillità per la sua salute, anche in considerazione del malessere, accusato nei giorni precedenti, che lo aveva costretto a ricovero ospedaliero, nonché della relazione, redatta dal medico legale dottor Ta., nella quale il sanitario curante, rilevato che gli ultimi accertamenti eseguiti presso il presidio ospedaliero avevano confermato una situazione cardiaca peggiorata, riteneva che si trattasse di paziente ad alto rischio, al quale andava evitato ogni impulso emozionale quale la partecipazione all'udienza. La difesa chiedeva, quindi, rinvio per legittimo impedimento. Inoltre, si dava atto della relazione sanitaria pervenuta, come richiesta dalla Corte di assise d'appello, dalla AsI competente che rispondeva ai quesiti posti, in merito alla prognosi, in assenza di trapianto cardiaco, circa l'esito sfavorevole senza indicare una tempistica di decesso. Si indicavano per le condizioni del malato, l'esistenza di un rischio di scompenso ricorrente e refrattario, motivo per cui la prognosi era indicata come gravata da un rischio di morte elevato. Quanto alle possibilità terapeutiche, veniva indicato il trapianto cardiaco come unica possibilità di sopravvivenza. La difesa, quindi, deduceva l'impossibilità assoluta a comparire e partecipare pienamente al processo e chiedeva rinvio per legittimo impedimento. La Corte territoriale emetteva ordinanza di rigetto osservando che non poteva considerarsi assoluto l'impedimento derivante da una patologia cronica, essendo necessario, per essere ritenuto assoluto, che l'impedimento fosse riferito a una situazione oggettiva, non ascrivibile all'imputato né dallo stesso dominabile o contenibile. Inoltre, si escludeva che la situazione cardiaca fosse peggiorata come risultante dalla relazione del sanitario Ta., per l'assenza di allegazione della cartella clinica e dell'esito degli esami strumentali e diagnostici eventualmente eseguiti. Si segnalava, inoltre, che la Corte aveva consentito all'imputato di raggiungere l'udienza libero e senza scorta, con facoltà ad assumere ogni opportuna cautela per prevenire o contenere stati emozionali, con eventuale negativa incidenza sullo stato di salute del soggetto. Si tratta di motivazione che non sì confronta, a parere della difesa, con l'elevato rischio morte accertato dai medici dell'Asl. Inoltre, lo stesso presidente del Collegio, all'udienza del 22 febbraio 2023, aveva manifestato l'esigenza di un doveroso accertamento di ufficio sulle condizioni di salute dell'imputato per poi ometterne l'esecuzione. Si contesta, inoltre, che non è stato disposto l'accompagnamento con medico legale al seguito, cautela che avrebbe almeno garantito adeguato presidio sanitario, in caso di improvviso aggravamento delle condizioni di salute dell'imputato. Si richiama giurisprudenza di legittimità che ha dichiarato nullo il giudizio di appello per inosservanza degli artt. 178 lett. c) e 420-ter cod, proc. pen., in base alla certificazione acquisita che, pur non attestando l'impossibilità assoluta di deambulare, era comunque relativa a condizioni di salute tali da integrare un legittimo impedimento a partecipare all'udienza, tenuto conto, in quel caso, che il dolore toracico e gli episodi di ipertensione, riscontrati in persona affetta da cardiopatia ischemica cronica, sono stati considerati stato morboso che incide sullo stato di salute e non permette la partecipazione al processo (Sez. 6 rv. 220247). Si richiama inoltre giurisprudenza secondo la quale ai fini del legittimo impedimento non rileva solo l'incapacità di recarsi fisicamente in udienza, ma anche quella di partecipare attivamente al processo, per l'esercizio costituzionale del diritto di difesa. Sicché una volta che si accerti l'impossibilità della partecipazione intesa in questo senso, al giudice corre l'obbligo di rinviare il dibattimento per il tempo necessario a che la causa impeditiva venga a cessare (Sez. 3, n. 10482 del 2016; Sez. 4, n. 25424 del 2020). In definitiva, la difesa si duole del fatto che il 15 febbraio 2023 i giudici, pur avendo disposto specifico accertamento medico, superando la richiesta del Procuratore generale di riconoscere la legittimità dell'impedimento, hanno ritenuto di non tenere conto degli esiti attestanti l'attualità della condizione invalidante, la necessità del ricovero, l'inopportunità della sottoposizione del paziente a stati emozionali, disponendo procedersi oltre in assenza. Ancora, si rileva che, all'udienza del 22 febbraio 2023, nonostante il documentato ricovero dell'imputatola Corte territoriale, disattendendo l'istanza del Procuratore generale circa lo svolgimento di specifici accertamenti, non riconosceva la legittimità dell'impedimento ma disponeva rinvio, inoltrava richiesta al medico curante di Mi.Gi., senza chiedere una specificazione in ordine alla capacità del paziente a recarsi in giudizio, riservandosi di disporre un accertamento di ufficio, cioè anticipando la necessità di una perizia, mai effettivamente svolta. Da ultimo, il Collegio pur avendo a disposizione i chiarimenti al medico curante, dai quali si doveva ricavare la gravità del quadro clinico, la necessità di riposo e l'immanente rischio morte improvvisa, reiterava le precedenti ordinanze disponendo procedersi oltre pronunciando sentenza. Tanto, avendo autorizzato l'imputato a recarsi personalmente senza scorta all'udienza e con facoltà di assumere ogni opportuna cautela per contenere o prevenire stati emozionali, quindi nella piena consapevolezza da parte del Collegio giudicante dei gravi rischi connessi alle condizioni di salute dell'imputato, ma senza precisare quali cautele dovessero essere ritenute idonee a prevenire e contenere questi stati emozionali, onde consentire a Mi.Gi. di partecipare attivamente e all'udienza, con pienezza delle sue facoltà psicofisiche. 2.2.2. Con il secondo motivo si denuncia nullità della sentenza per vizio di motivazione, in relazione alla violazione degli artt. 178 lett. c) cod. proc. pen. e 420-ter cod. proc. pen. La difesa con il primo motivo di appello aveva eccepito la nullità relativa alla declaratoria di assenza dell'imputato e dello svolgimento del processo di primo grado, nonostante gravi e documentate patologie che ne avevano determinato l'assoluto impedimento a comparire. Si era rappresentato che, all'udienza del 6 luglio 2021, la Corte di assise aveva ritenuto Mi.Gi. rinunciante a comparire ma in realtà alcuna formale rinuncia era stata prodotta, per essersi l'imputato limitato a rappresentare alla scorta, il rifiuto di trasporto a causa dell'incombente pericolo comportato dal trasferimento in udienza senza presidi medico-sanitari idonei a tutelarlo adeguatamente. Alla successiva udienza, del 15 settembre 2021, Mi.Gi. aveva dichiarato di voler partecipare ma di rifiutare la traduzione dal domicilio chiedendo di essere messo in condizioni di partecipare a distanza, in quanto la sua patologia rendeva indispensabile il trasporto a mezzo di ambulanza. Tuttavia, la Corte di assise interpretando anche questa dichiarazione come rinuncia, pur avendo preso atto delle esigenze implicate dalle condizioni di salute dell'imputato e dalla relativa necessità di predisporre una modalità di collegamento che consentisse di ovviare all'impedimento, rimetteva la decisione al nucleo traduzioni. La difesa assume che l'onere di assicurare la partecipazione, piena, effettiva e cosciente, dell'imputato al processo non è onere che riguarda il nucleo traduzioni, tanto che il Comandante del Nucleo comunicava alla Corte di non essere in grado di valutare le condizioni di salute del detenuto, chiedendo l'autorizzazione ad accertamenti direttamente tramite l'Ufficio di medicina legale della AsI di competenza, al quale inoltrare la richiesta anche per il trasporto a mezzo ambulanza ove ritenuta necessaria. Inoltre, si ribadisce che, dal verbale di udienza del 12 ottobre 2021, risulta che l'imputato, rilevato che era stato disposto il trasporto senza ambulanza quindi con mezzi ordinari, rifiutava di venire in udienza ma senza rinunciare alla presenza, trattandosi di soggetto cardiopatico con rischio di morte istantanea. Sulla base di tale dichiarazione si rileva che nessun approfondimento clinico è stato disposto dalla Corte territoriale, per valutare l'effettiva necessità del trasporto con ambulanza o di adeguato presidio medico infermieristico. A fronte di tale iter la Corte di assise di appello ha ritenuto di escludere che nel giudizio di primo grado fosse documentato un effettivo stato di infermità dell'imputato. Si tratta di affermazione contraddetta dalla documentazione versata in atti. Nel fascicolo del dibattimento del primo grado invece era presente tutta la documentazione clinica depositata dalla difesa dalla quale emergeva la gravità del quadro patologico dell'imputato, l'attuale e imminente rischio di morte improvvisa, certificati da molteplici autorità sanitarie. In particolare, il giudice per le indagini preliminari in fase cautelare aveva disposto l'incompatibilità del di indagato con il regime carcerario e la misura cautelare della custodia domiciliare. 2.2.3. Con il terzo motivo si denuncia vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, comma 3, cod. proc. pen., 110, 575 cod. pen. in ordine alle dichiarazioni dei collaboratori circa la presunta partecipazione di Mi.Gi. quale mandante. Nell'ambito del presente procedimento hanno rilasciato dichiarazioni diciassette collaboratori di giustizia ma l'unico che collega alla fase deliberativa la persona dell'imputato è Gu.Ro.. Questi ha riferito che, nell'incontro presso il covo del clan Am.-Pa. con Ri.Ma., per ottenere il nulla osta all'esecuzione dell'omicidio era presente anche Mi.Gi. il quale sapendo che Ma.Pa. aveva chiesto di poter interloquire con i vertici del sodalizio, aveva suggerito di commettere l'omicidio dopo questo incontro. Tuttavia, Ri.Ma. avrebbe preso in disparte Gu. intimandogli di non badare a quanto detto da Mi.Gi., così estromettendolo dalla discussione e prendendosi, in prima persona, la responsabilità in esclusiva dell'ideazione del piano omicidiario. L'imputato rimasto estraneo, quindi, al colloquio tra Gu. e Ri.Ma., era all'oscuro delle decisioni assunte dal capo essendo convinto che Ma.Pa. sarebbe stato condotto dai vertici del gruppo presso il covo onde avere un colloquio chiarificatore. Si riportano a p. 20 e ss. stralci delle dichiarazioni rese da Gu. al dibattimento, in data 15 settembre 2021, all. 12. La circostanza che viene riportata in sentenza secondo la quale Mi.Gi. non voleva condizionare la decisione di uccidere all'esito dell'incontro con Ma.Pa. ma che questa decisione era stata assunta, dovendosi attuare solo dopo questo incontro chiarificatore, per la difesa è frutto di un'interpretazione soggettiva fatta comunque dal collaboratore Gu.. In particolare, tra i capi del gruppo Am.-Pa., nell'ottobre del 2010, il dichiarante nomina esclusivamente Ri.Ma. e Ce.Ca. ci. '71 senza menzionare Mi.Gi.. In seconda battuta, invece, l'imputato viene indicato come consigliere di Ri.Ma.. La difesa, però, sostiene che, secondo le emergenze processuali, Ri.Ma. era unico vertice del clan, che non emerge alcun ruolo di consigliere rivestito da Mi.Gi., non essendo questi mai stato condannato per aver rivestito un ruolo di vertice, come promotore o organizzatore dell'associazione. Il nullaosta per uccidere Ma.Pa. proveniva da Ri.Ma., in quanto si trattava dell'unica persona che poteva deliberare una decisione del genere. In ogni caso, si sostiene che, nel momento in cui il Gu. si era allontanato dall'abitazione di Mi.Gi., questi era rimasto del tutto all'oscuro circa le determinazioni assunte da Ri.Ma. e che, anzi, l'imputato era rimasto nella convinzione che Ma.Pa. sarebbe stato condotto da loro per essere ascoltato in merito alle rivendicazioni nei confronti del clan. Si rimarca che si era dedotto, con i motivi di appello, che non vi fosse prova della presenza di Mi.Gi. all'incontro tra Ri.Ma. e Gu., secondo il narrato di Ce.Ca. reso nel corso dell'interrogatorio reso in data 28 luglio 2014 (di cui si riportano stralci da pagina 24 e ss. del ricorso). Ce.Ca., peraltro, è elemento di vertice del sodalizio e in stretti rapporti con il capo Ri.Ma.. Questi è stato presente all'incontro deliberativo e ha affermato la presenza, a quell'incontro, del solo Ri.Ma., risultando testimone del nullaosta rilasciato da quest'ultimo a Gu. per l'esecuzione dell'omicidio. Peraltro, si sostiene nel ricorso che l'incontro di cui parlano Ce.Ca., da una parte, e Gu., dall'altra, è sicuramente lo stesso e che, quindi, se effettivamente Mi.Gi. fosse stato presente a quell'incontro, Ce.Ca. non avrebbe esitato a riferirlo. A tali rilievi, devoluti con l'atto di gravame, la Corte di assise di appello ha risposto ritenendo che Ce.Ca. non era stato dettagliato perché non era stato richiesto dagli inquirenti quali fossero gli altri soggetti presenti. Su tale punto la difesa evidenzia che, invece, l'oggetto dell'interrogatorio riguardava l'indicazione degli appartenenti al clan che avevano preso parte alla deliberazione omicidiaria, dettagliando i ruoli, il grado di partecipazione e ogni altro elemento utile a individuare i responsabili. Non si comprende, quindi, come mai Ce.Ca., considerato braccio destro di Ri.Ma., nonostante la sua presenza alla richiesta di nullaosta all'omicidio avanzata da Gu., non abbia fatto riferimento a qualsiasi tipo di apporto di Mi.Gi.. A fronte di tale dubbio la motivazione della Corte di assise di appello, per la difesa, si presenta superficiale ed elusiva, senza confrontarsi adeguatamente con le contraddizioni concernenti la prova della partecipazione alla deliberazione del delitto da parte di Mi.Gi.. 2.2.4. Con il quarto motivo si denuncia vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, comma 3, cod. proc. pen., 110, 575 cod. pen. in ordine alla valutazione di attendibilità soggettiva di Va.An. e alla idoneità delle dichiarazioni a fornire riscontro circa la partecipazione concorsuale dell'imputato. La difesa sottolinea che il procedimento a carico dell'imputato originariamente archiviato è stato riaperto nel 2019 a seguito delle dichiarazioni rese da Va.An. nel corso delle indagini che lo vedevano indagato per altri titoli di reato e che riguardavano il suo coinvolgimento inconsapevole nell'omicidio di Ma.Pa.. Si tratta di dichiarazioni che hanno costituito l'unico elemento di riscontro alle affermazioni di Gu., a carico di Mi.Gi.. Le motivazioni di merito, a parere del ricorrente, non avrebbero valutato la credibilità soggettiva di Va.An. e la Corte di assise di appello offrirebbe di tali dichiarazioni, una lettura parcellizzata e parziale. Si richiama altra pronuncia della Corte di appello di Napoli nella quale Va.An. è stato considerato meritevole delle circostanze attenuanti generiche escludendo la circostanza attenuante della collaborazione ritenendo che alcuna collaborazione concreta e fattiva fosse stata assicurata ed escludendo un apporto significativo da parte del medesimo Va.An. per catturare gli autori del reato e per ricostruire le vicende criminose ed illecite del clan. Secondo il difensore, poi, la credibilità soggettiva di Va.An. rispetto alle accuse a carico dell'odierno ricorrente sono caratterizzate addirittura dal richiamo a circostanze che si sono rivelate false. Le prime dichiarazioni, rese nell'immediatezza dei fatti, non avevano espresso alcuna affermazione di coinvolgimento di Mi.Gi.. Solo a distanza di nove anni, nel corso dell'interrogatorio avente ad oggetto altre attività delittuose, Va.An. ha precisato che gli era stato detto da St.Ra., da parte di Mi.Gi., di prelevare Ma.Pa. e di portarlo a M nel covo del clan perché Ri.Ma. gli voleva parlare. Infine, si sottolinea che solo nel corso del dibattimento Va.An. riferisce, per la prima volta, di una presunta interlocuzione diretta tra lui e Mi.Gi., nonché di una riunione, di 10 o 15 giorni precedenti all'omicidio, in cui Va.An. si sarebbe recato presso il covo di Ri.Ma., per rappresentare una richiesta di incontro da parte di Ma.Pa., riunione alla quale era presente anche Mi.Gi.. Tanto, rendendo una dichiarazione inconciliabile con quella di Gu. secondo la quale questi avrebbe appreso, per la prima volta, dell'omicidio in occasione dell'incontro col Ri.Ma. tenutosi il giorno precedente all'esecuzione. A fronte di tali critiche, le argomentazioni della Corte di assise di appello sarebbero contraddittorie perché, da un lato, l'episodio viene menzionato per avvalorare la credibilità di Va.An., dall'altro, rispondendo a specifica doglianza ci si limita ad affermare che il punto non è dirimente. Si riporta giurisprudenza di legittimità circa la frazionabilità del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia e si rimarca che è stato accertato in dibattimento che Va.An. ha mentito proprio in relazione al coinvolgimento dell'imputato, avendo attribuito a Mi.Gi. la presenza e anche l'interlocuzione nel corso di una riunione avente ad oggetto circostanze rilevanti nella ricostruzione del piano omicidiario, riunione risultata mai avvenuta e, quindi, palesandosi una falsità della dichiarazione incidente sicuramente sulle altre parti del narrato. Peraltro, si rimarca che lo stesso Va.An. in dibattimento avrebbe affermato che tutto quanto ha preso sulla fase deliberativa, organizzativa, esecutiva del delitto era avvenuto tramite St.Ra.. Del resto, la riunione con i vertici del sodalizio sarebbe stata smentita dagli altri collaboratori che sono indicati come presunti partecipi oltre a Mi.Gi.. Infine, si rimarca che quand'anche Va.An. avesse ricevuto direttamente da Mi.Gi. l'incarico di andare a prelevare la vittima, lo stesso Mi.Gi. era risultato all'oscuro, anche secondo le dichiarazioni di Gu., delle determinazioni assunte da Ri.Ma. di uccidere Ma.Pa. nel tragitto per arrivare al covo del clan. Si esclude pertanto che si sia raggiunta la cosiddetta convergenza del molteplice, difettando un riscontro esterno e individualizzante in relazione alla partecipazione di Mi.Gi. alla riunione deliberativa dell'omicidio con il ruolo di mandante. Anzi, l'unico collaboratore che ne assume la presenza resterebbe Gu., smentito addirittura, su tale punto, da quanto dichiarato da Ce.Ca.. 2.2.5. Con il quinto motivo,si denuncia inosservanza dell'art. 603, comma 5, cod. proc. pen. e vizio di motivazione in ordine alla richiesta di rinnovazione istruttoria in appello. La difesa, al fine di risolvere i censurati contrasti tra dichiarazioni dei collaboratori, aveva avanzato istanza di rinnovazione istruttoria procedendo a nuovo esame di Gu. e Va.An.. Secondo la sentenza di primo grado, Gu. avrebbe interloquito con Ri.Ma. sulla questione in più occasioni e con la presenza di persone diverse. Si tratta però di ricostruzione smentita da Ce.Ca. che afferma chiaramente di essere stato presente alla richiesta del nullaosta all'omicidio. La Corte di assise di appello, invece, secondo la difesa, si limita a sostenere che Ce.Ca. non avrebbe elencato tutti i presenti all'incontro perché tale circostanza non gli era stata richiesta. La rinnovazione dell'esame dibattimentale, secondo la difesa avrebbe consentito di comprendere per quali ragioni Va.An. avesse raccontato di un incontro, antecedente e propedeutico all'omicidio, smentito dagli altri partecipanti, onde verificare se tali dichiarazioni fossero state frutto di una deliberata volontà di alterazione della realtà, oppure di mera fallacia del ricordo. Quindi sarebbe stato anche utile l'esame per comprendere se le parole attribuite a Mi.Gi., il giorno dell'omicidio, gli erano state riferite da St.Ra. o apprese per interlocuzione diretta. Invece, la Corte di assise di appello non ha instaurato il contraddittorio tra le parti per interloquire sul punto e ha omesso di pronunciare la relativa ordinanza dibattimentale, in violazione dell'art. 603, comma 5, cod. proc. pen., rispondendo con motivazione apparente, senza giustificare la conclusione di superfluità e di irrilevanza della richiesta rinnovazione istruttoria. 2.2.6. Con il sesto motivo si denuncia erronea applicazione dell'art. 81, comma secondo, cod. pen. e vizio di motivazione circa il mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati contestati e quelli giudicati con sentenza definitiva del 15 aprile 2015. Nei motivi di appello la difesa aveva chiesto, in via gradata, l'applicazione della continuazione tra i reati contestati e quelli oggetto della sentenza della Corte di appello di Napoli dell'I 1 giugno del 2013, divenuta definitiva in data 15 aprile del 2015, depositata nel corso del giudizio di primo grado, con la quale l'imputato era stato condannato per partecipazione ad associazione denominata clan Am.-Pa. e associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, già riconosciuta la continuazione con precedente condanna emessa dalla Corte di assise di appello di Napoli. A tal fine si era rappresentato che l'omicidio commesso in danno di Ma.Pa. non era un evento occasionale ed estemporaneo ma costituiva fedele e coerente esecuzione del programma criminoso del sodalizio, potendo considerarsi preordinato, nelle sue linee essenziali, fin dall'inizio tenuto conto che l'associazione aveva di mira l'obbligo di omertà tra gli associati e che, invece, Ma.Pa. aveva dimostrato di voler violare il patto di omertà. L'eliminazione fisica dell'associato che commette o minaccia di commettere tradimento al patto originario, non può che essere considerato un'eventualità prevedibile, compresa nel programma fin dall'inizio elaborato. La motivazione della Corte territoriale, invece, sostiene che la difesa non ha indicato alcun elemento dimostrativo dell'ideazione dell'omicidio già al momento dell'adesione di Mi.Gi. al clan. A tal fine la difesa evidenzia che, secondo la giurisprudenza di legittimità, perché possa ritenersi sussistente l'unicità del disegno criminoso è sufficiente l'accertamento di una rappresentazione preventiva della serie di reati come facenti parte di un unico programma, anche se le singole fattispecie possono costituire l'aspetto esecutivo solo eventuale di questo programma, perché legate allo svolgimento dei fatti così come si sarebbero potuti verificare. 3. Le difese hanno fatto pervenire tempestive richieste di trattazione orale, ex art. 23, comma 8, del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato, quanto alla disciplina processuale, in forza dell'art. 1 del D. L. 1 aprile 2021, n. 44, come convertito, nonché dall'art. 16, comma 1 e 2,D.L. 30 dicembre 2021 n. 228, convertito dalla legge n. 15 del 25 febbraio 2022. All'odierna udienza, all'esito della discussione, le parti presenti hanno concluso nel senso riportato in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Gli atti di impugnazione sono infondati. 2.Il ricorso proposto con atto a firma dell'Avv. L. Pe. è infondato. 2.1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Si contesta violazione e falsa applicazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione al capo 1 e alla condotta di partecipazione. Per la difesa, la sentenza sarebbe viziata da assenza di motivazione e, comunque, da travisamento della prova, nonché da erronea applicazione della legge penale, quanto all'individuazione del concorso di persona nei reati da parte dell'imputato. Si contesta, inoltre, violazione dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen. per asserita non conformità della motivazione ai criteri interpretativi in tema di chiamata di correo o in reità, secondo Sez. U, ricorrente Aquilina, nonché in relazione alla natura dei riscontri estrinseci. Vi sarebbe, come utile elemento a carico, a parere della difesa, solo la dichiarazione accusatoria di Gu.Ro. e il narrato di Va.An., risultando le altre fonti dichiarative relative solo a circostanze di contorno e si contesta, comunque, il giudizio sulla loro credibilità soggettiva. Circa la dedotta carente valutazione della credibilità soggettiva di Gu., il Collegio osserva che si tratta di dichiarante diretto perché partecipe nella veste di esecutore materiale all'omicidio Ma.Pa.. Tale giudizio è espresso (cfr. p. 19 e ss.), nella sentenza di secondo grado, con ragionamento completo e ineccepibile, affermando che il ruolo apicale di Gu. non era mai stato messo in discussione nemmeno dalla difesa con l'atto di appello, che la sua capacità di interloquire anche per gli omicidi del clan, con i vertici del sodalizio, tra cui annoverava anche il ricorrente, era emersa senza contestazioni, rimarcando peraltro l'assenza di specifica deduzione quanto all'esistenza di ragioni di astio, rancore e vendetta da parte di Gu. verso l'imputato, trattandosi, in ogni caso, di reato di omicidio per il quale erano stati già condannati, come esecutori materiali, lo stesso Gu., Ma., Gr.Al., nonché Ri.Ma., Ce.Ca. e Pa.Ma. nella qualità di mandanti. Circa la dedotta mancata verifica della credibilità soggettiva di Va.An., a fronte delle evidenziate contraddizioni del narrato tra ciò che è stato dichiarato dal collaboratore nelle indagini e quanto riferito, nove anni dopo, prima in sede di interrogatorio reso al Pubblico ministero il 27 marzo 2019 (acquisito agli atti) e, poi, al dibattimento, il 23 novembre 2021, come da verbale allegato in ossequio al principio di autosufficienza, questo Collegio osserva che i giudici di secondo grado non si sono sottratti a tale esame (cfr. p. 23 e ss.). Va.An. viene indicato, con ragionamento completo e privo di contraddizioni, come affiliato al gruppo degli Am.-Pa. dal 2004, braccio destro di St.Ra., gestore delle piazze di spaccio delle ed.(Omissis). Questi, secondo la motivazione lineare e priva di illogicità manifesta della Corte territoriale, ha raccontato, conformemente al narrato di Gu., dei partecipi all'azione di fuoco dalla parte del clan della Gr.Vi., ha riferito della genesi dell'agguato e dell'insoddisfazione di Ma.Pa. nutrita verso i vertici di tale fazione, manifestata proprio a Va.An. chiedendo a quest'ultimo e a St.Ra. di poterne parlare direttamente con Ri.Ma.. Lo stesso Va.An. ha ricordato, secondo i giudici di secondo grado, dell'accordo siglato, tra gli Am.-Pa. e Gu., per uccidere Ma.Pa. approfittando della richiesta di incontro che proprio Ma.Pa. aveva fatto arrivare, tramite Va.An., ai vertici della fazione Am.-Pa., riportando una dinamica dei fatti che i giudici di merito hanno reputato convergente, con ragionamento immune da illogicità manifesta, con le risultanze investigative acquisite. Va.An., peraltro, secondo i giudici di secondo grado, racconta di due incontri, un primo, avvenuto in M, al quale aveva partecipato Mi.Gi. (assieme a Ce.Ca., Ri.Ma., Gu. e Ma.: cfr. p. 24), un secondo, verificatosi dopo circa dieci - quindici giorni. In quest'ultima occasione, secondo la ricostruzione recepita dalla sentenza impugnata, Va.An. aveva accompagnato St.Ra. a M e mentre lo stava aspettando in auto, fuori al garage di Sa. (detto An. il chiattone), si era sentito chiamare da St.Ra. che, in quel momento, a sua volta, stava parlando con Mi.Gi., dicendo che doveva andare a prendere Ma.Pa. per portarlo da loro, circostanza sulla quale proprio Mi.Gi. aveva insistito. La Corte di assise di appello, peraltro, con ragionamento non manifestamente illogico, reputa coerente con la dinamica dei rapporti interni ai due gruppi che Va.An. abbia riferito pochi particolari sul mandato omicidiario, trattandosi di fase organizzativa alla quale questi era rimasto estraneo. La Corte territoriale, in ogni caso, ha risposto (cfr. p. 26) alla deduzione svolta dall'appellante circa la presunta contraddittorietà delle dichiarazioni di Va.An., con ragionamento completo e non manifestamente illogico, dunque non censurabile nella presente sede di legittimità. Va.An., in definitiva, sin dal primo momento, secondo la ricostruzione convergente dei provvedimenti di merito, ha ricondotto anche all'odierno ricorrente l'incarico di andare a prelevare Ma.Pa. e la Corte territoriale reputa coerente che la scelta sia ricaduta proprio su Va.An., in quanto affiliato agli Am.-Pa., risultando persona di cui Ma.Pa. si sarebbe potuto fidare. Circa la non decisività dell'eccezione relativa alla carenza di riscontri (da parte di Ce.Ca. e Gu.) alle dichiarazioni di Va.An. riguardo alla seconda riunione descritta, la Corte territoriale, poi, a p. 27 della pronuncia, rende adeguata spiegazione, con ragionamento lineare e logico che, dunque, in questa sede non può essere rivisitato. Quanto all'eccezione relativa al diverso giudizio svolto, in altro procedimento, sul peso della collaborazione di Va.An., si osserva che le conclusioni cui giunge la Corte territoriale risultano in linea con l'insegnamento di questa Corte di legittimità secondo il quale (tra le altre, Sez. 1, n. 8799 del 23/01/2018, dep. 2019, Petruolo, Rv. 276166) il giudizio di credibilità del dichiarante e di attendibilità delle dichiarazioni deve essere l'esito di una motivata valutazione autonoma del giudicante e non può essere soddisfatto dal mero rinvio a quanto avvenuto in separati procedimenti che si risolva in un acritico recepimento di valutazioni operate da altri giudicanti. Circa la dedotta carenza di riscontri esterni alla chiamata in correità di Gu., si osserva che già la sentenza di primo grado (come, poi, quella impugnata), sottolineava come lo stesso Gu. non avesse affermato che solo Ri.Ma. era d'accordo all'uccisione di Ma.Pa.. Anzi, si era sottolineato che la direttiva, impartita da Ri.Ma. di uccidere la vittima designata mentre lo andavano a prendere per portarlo al covo, riguardava solo il momento e le modalità dell'omicidio. Gu., infatti, aveva precisato che all'eliminazione di Ma.Pa. era d'accordo anche l'imputato il quale, presente in quel momento, aveva soltanto espresso la proposta, quanto alle modalità esecutive, prima di sentirlo e, poi, di ucciderlo, inquadrando l'omicidio in un più ampio contesto, cioè in un accordo tra gli Am.-Pa.e la fazione della V. In definitiva, secondo le convergenti motivazioni delle sentenze di merito (nel senso che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale, Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 - 01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615 - 01), il ricorrente aveva dato l'ordine a Va.An., assieme a St.Ra., di andare a prendere Ma.Pa. e, comunque, aveva partecipato alla deliberazione dell'uccisione solo esprimendo, quanto alla concreta modalità di esecuzione, la preferenza che a tale epilogo si giungesse dopo l'audizione della vittima designata e non durante il tragitto, come disposto da Ri.Ma.. Peraltro, anche rispetto all'asserita omessa indicazione, da parte di Ce.Ca., della presenza di Mi.Gi. alla riunione, svoltasi alla presenza del collaboratore Ce.Ca., in cui Gu. aveva chiesto a Ri.Ma., nel covo di M degli Am.-Pa., l'autorizzazione a compiere l'agguato, la Corte territoriale rende una giustificazione (Ce.Ca., per i giudici di secondo grado, avrebbe riferito soltanto in relazione alla propria posizione) immune da illogicità manifesta che la difesa attacca con ragionamento in fatto che pretenderebbe, comunque, la rivisitazione della deposizione di Ce.Ca., operazione inibita al Giudice di legittimità. Con riferimento alle dichiarazioni di Pa.Ma., individuate dalla difesa ricorrente quale riscontro non utile per circolarità della fonte, si osserva che Pa.Ma., secondo la parte della deposizione riportata dalla difesa, ha affermato, in più punti, che quanto riferiva era stato appreso dal suo clan, non dallo stesso Gu. ("dal mio clan, dai miei capi"). Inoltre, la difesa riporta, nel ricorso, stralci del verbale di dichiarazioni, rese in data 15 settembre 2021 (verbale che si allega al ricorso per l'autosufficienza), anche se il dichiarante sembra concludere nel corso del controesame, o almeno nello stralcio riportato dalla difesa, di un ordine arrivato da Ri.Ma.. Va anche precisato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte che il Collegio richiama in quanto condivisibile (Sez. 1, n. 34712 del 02/02/2016, Ausilio, Rv. 267528; Sez. 2, Sez. 2, n. 35923 del 11/07/2019, Campo, Rv. 276744), in tema di chiamata in correità, gli altri elementi di prova da valutare, ai sensi dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., unitamente alle dichiarazioni del chiamante, non devono avere necessariamente i requisiti richiesti per gli indizi a norma dell'art. 192, comma 2, cod. proc. pen., essendo sufficiente che essi siano precisi nella loro oggettiva consistenza e idonei a confermare, in un apprezzamento unitario, la prova dichiarativa dotata di propria autonomia rispetto a quella indiziaria. Detti riscontri possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia rappresentativo che logico, a condizione che sia indipendente anche da altre chiamate in correità, purché la conoscenza del fatto da provare sia autonoma e non appresa dalla fonte che occorre riscontrare, e a condizione che abbia valenza individualizzante, dovendo cioè riguardare non soltanto il fatto-reato, ma anche la riferibilità dello stesso all'imputato, mentre non è richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova "autosufficiente" perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata di correità (conf. Sez. 6, n. 45733 del 2018, Rv. 274151; Sez. 4, n. 5821 del 2004, dep. 2005, Rv. 231301; Sez. U, n. 20804 del 2013, Rv. 255143). Così delimitata la nozione di riscontro, si osserva che, nel caso di specie, la Corte territoriale ha esaminato, puntualmente, elementi di fatto aventi tale spessore. A ciò si aggiunga che, pacificamente, questa Corte di legittimità considera che il riscontro utile, a mente dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., può provenire anche da dichiarazioni di altri collaboratori (tra le altre, Sez. 1, n. 41238 del 26/06/2019, Vaccaro, Rv. 277134; Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, Rv. 255145) posto che ben possono plurime chiamate in reità o correità, anche de relato, rappresentare reciproco riscontro sul fatto e sulla sua riferibilità all'incolpato. Infine, si rileva che, con riferimento ai riscontri esterni alla chiamata di Gu.Ro., nulla viene rilevato con il motivo di ricorso, con riferimento al movente, circa il ritrovamento del biglietto, addosso alla vittima, relativo alle somme che pretendeva il Ma.Pa. (cfr. p. 19 della sentenza di primo grado, circostanza ribadita anche dalla sentenza di appello) e in ordine al contenuto di conversazioni captate, riportate nella sentenza di primo grado, oltre a tutte le risultanze di prova generica, quanto all'azione delittuosa, circa la dinamica dell'agguato, i veicoli utilizzati e, nel complesso, alle modalità di esecuzione, circostanze considerate di pieno conforto alle dichiarazioni eteroaccusatorie di Gu.. Infine, deve essere rimarcato che il travisamento della prova in caso di ed. doppia conforme affermazione di responsabilità, per essere ammissibile, secondo il costante indirizzo di questa Suprema Corte (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, dep. 2014, Capuzzi, Rv. 258438) può essere dedotto con il ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto, come oggetto di valutazione, nella motivazione del provvedimento di secondo grado. Inoltre il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo, specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la decisiva forza dimostrativa del dato probatorio, fermi restando il limite del devolutum e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774), decisività che non si rinviene, nella specie, analizzando il complessivo ragionamento, non manifestamente illogico, dei giudici di merito. 2.2. Il secondo motivo è infondato. Si deduce violazione e falsa applicazione di legge penale, nonché vizio di motivazione in relazione al capo 1, quanto al contributo concorsuale offerto da Mi.Gi.. Si deduce che non è stata data risposta a quanto devoluto con l'atto di appello, nella parte in cui si sosteneva che le dichiarazioni di Gu. non esponevano, in ogni caso, alcun contributo di Mi.Gi. rispetto al mandato omicidiario, in quanto questo risultava conferito esclusivamente da Ri.Ma.. Lo stesso Gu., infatti, ha affermato, secondo il ricorrente, che quando si era recato da Ri.Ma. per riferire dell'atteggiamento di Ma.Pa. alla presenza dell'imputato, era stato Ri.Ma. a dargli il consenso a compiere l'omicidio. Anzi il ricorrente, presente al colloquio, aveva suggerito di assecondare la volontà di Ma.Pa. di poter interloquire con i vertici del clan, suggerimento che non era stato seguito, tanto che Ri.Ma. aveva deciso, in maniera autonoma ed esclusiva, l'attuazione dell'omicidio. Del resto, per il ricorrente, il richiamo operato dalla Corte territoriale alle deposizioni di Pa.Ma., Es.Ca., Il. sarebbe superfluo perché questi avevano riferito solo sulla (presunta) posizione verticistica dell'imputato. Su tale punto, il Collegio osserva che è noto l'indirizzo di legittimità secondo il quale il reato non può consistere nella mera intenzione e che "il disposto dell'art. 115 cod. pen. sulla non punibilità dell'accordo criminoso costituisce non altro che una applicazione dell'anzidetto principio generale: nel senso che, come non è rilevante la sola intenzione del soggetto monoagente per la configurabilità di un reato, così, di regola, non è rilevante l'intenzione rimasta nella fase di solo accordo tra più soggetti in ordine alla forma concorsuale nella commissione di un reato. Ma, appunto per la precisata limitazione alla sola fase intenzionale dell'accordo, si è ben fuori della previsione dell'art. 115 cod. pen. allorquando a quella fase siano seguiti, comunque, atti concreti a realizzare l'accordo" (cfr. Sez. 6, n. 36534 del 10/11/2020, Di Pancrazio, Rv. 280119 - 01, in mot.). Del resto, le Sezioni Unite di questa Corte, ricorrente Aquilina (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Rv. cit.) hanno affermato il condivisibile principio secondo il quale non costituisce riscontro estrinseco ed individualizzante di una chiamata in correità o in reità de relato con cui si attribuisce all'accusato il ruolo di mandante di un omicidio l'esistenza di un semplice interesse da parte del predetto alla commissione del delitto. Si osserva però, che le sentenze di merito non escludono in alcuna parte del loro ragionamento, lineare e logico, la convergenza da parte dell'imputato, con il proposito omicida pacificamente attribuito a Ri.Ma.. Queste segnalano, soltanto, che il ricorrente odierno aveva manifestato che la materiale eliminazione di Ma.Pa. doveva avvenire solo dopo averlo sentito, una volta che l'incaricato lo avesse condotto al cospetto di appartenenti agli Am.-Pa., nel covo di M. I giudici di merito a ciò aggiungono che era stato Ri.Ma. a prendere l'iniziativa di fare presente a Gu. che l'agguato doveva avvenire nel percorso che avrebbe condotto Ma.Pa. al covo, quindi durante tale tragitto (cfr. pp. 18 e 24 della sentenza di primo grado). Questo, invero, è un tema saliente quanto alla configurabilità del mandato omicidiario ascritto al ricorrente e che viene ribadito da entrambe le decisioni di merito, punto delle motivazioni che, in definitiva, il motivo di ricorso non affronta direttamente né con argomenti specifici, soffermandosi a valorizzare un solo segmento del narrato, quello nella parte in cui Gu.Ro. riferisce che Ri.Ma. lo aveva preso in disparte, alla presenza del Mi.Gi., ma senza che questi potesse sentire, per dirgli dell'eliminazione di Ma.Pa. durante il tragitto. In definitiva, osserva questo Collegio che, secondo i convergenti provvedimenti di merito i quali vanno, ovviamente, letti nel loro complesso, il consenso all'omicidio richiesto da Gu., proviene anche da Mi.Gi., secondo il narrato dello stesso Gu. (da eseguire dopo averlo portato al cospetto dei vertici del clan), ma è Ri.Ma. che fissa le modalità esecutive, momento e luogo dell'agguato (durante il tragitto, senza prima sentire le rimostranze di Ma.Pa., quando Va.An. era andato a prenderlo con il suo motorino per portarlo nel covo del gruppo). La difesa, poi, trascura il significativo dato, che risulta dalla sentenza di primo grado (cfr. p. 19), secondo il quale sarà lo stesso Gu., dopo l'agguato, a parlarne con Mi.Gi., nel covo di M, il quale quasi verrà rimproverato del fatto che la vittima designata avrebbe dovuto essere portata prima a parlare da loro. La pronuncia illustra anche che era stato spiegato a Mi.Gi. da Gu. che a decidere detta modalità era stato Ri.Ma., spiegazione alla quale il medesimo Mi.Gi. aveva annuito senza altro aggiungere. Su tale punto, si osserva, poi, che secondo i provvedimenti di merito le affermazioni del dichiarante Pa.Ma. confermano quanto esposto da Gu., posto che questi afferma di essere stato al corrente del fatto che Gu. era andato a M a parlare con i vertici del clan Am.-Pa., Ri.Ma. e Mi.Gi., per ricevere il consenso all'eliminazione di Ma.Pa., componente della Gr.Vi. e che questi minacciava di collaborare in quanto non soddisfatto dei suoi introiti. Tali circostanze che, secondo la difesa, lo stesso Pa.Ma. assume di aver appreso da Gu. sono però convergenti con il narrato di tutti gli altri dichiaranti che, quanto al movente, sono conformi a quanto affermato da Gu. (si veda quanto indicano le sentenze di merito essere stato riferito da Ac.An., Ma.) nel senso che, per l'omicidio, questi doveva avere il consenso dei vertici del clan Am.-Pa., tra cui, senz'altro, secondo i collaboratori di giustizia, doveva annoverarsi Mi.Gi.. Quindi, non manifestamente illogica è la motivazione della sentenza impugnata laddove afferma che non sarebbe stato possibile e, comunque, non coerente con il narrato di Gu., concludere nel senso che era stato Ri.Ma. ad escludere del tutto Mi.Gi. dalla decisione di eliminare Ma.Pa.. Circa la qualità del concorso, non solo morale, nella specie si ravvisa, come in modo ineccepibile hanno fatto i giudici di merito, anche il concorso materiale per avere Mi.Gi. organizzato l'agguato, concordando la strategia utile (mandando un insospettabile, Va.An., a prelevarlo) a fare in modo che Ma.Pa., nascosto in quanto latitante in un luogo noto a pochi, uscisse allo scoperto. Infine, si rileva con ragionamento che questo Collegio riporta anche alle residue doglianze esposte con il primo motivo di ricorso, che la difesa sollecita la rilettura di fonti di prova che allega e che, nel valutare singoli segmenti delle dichiarazioni accusatorie, in parte indicate come non riscontrate, non ne illustra, specificamente, la decisività ai fini di una diversa, più favorevole decisione per l'imputato, tenuto conto, peraltro, che le fonti dichiarative a carico, prese in considerazione dai giudici di merito, sono molteplici e che il riscontro, secondo la già citata giurisprudenza di legittimità, può essere rinvenuto anche nell'incrocio reciproco delle dichiarazioni eteroaccusatorie (cfr. Sez. 1, n. 46176 del 2018, Vaccaro, non massimata; Sez. U, del 29/11/2012, dep. 2013, ricorrente Aquilina, Rv. cit. secondo cui "la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova di responsabilità penale dell'accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore"). I rilievi, peraltro, sono, in parte, versati in fatto e, in parte, sovrapponibili ai motivi di appello cui la Corte territoriale, nel complesso, ha risposto con ragionamento ineccepibile e immune da illogicità manifesta anche in relazione ai dettagliati argomenti devoluti, in cui si prende in esame l'attendibilità estrinseca dei collaboratori, l'attendibilità intrinseca e i riscontri. Su tale punti, poi, si osserva in via generale, che il giudice di appello non deve prendere in esame, nel rispondere all'atto di impugnazione, ogni specifica argomentazione, purché svolga, come ha fatto nella specie la Corte di assise di appello, il complessivo giudizio, secondo i canoni interpretativi fissati da Sez. U, ricorrente Aquilina, sulle dichiarazioni dei collaboratori, secondo le prescritte cadenze argomentative che nella specie appaiono lineari ed immuni da illogicità manifesta e che, nel loro complesso, finiscono per risultare incompatibili con le censure dedotte con il gravame. Infine, si osserva che coerente, rispetto al canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio, previsto dall'art. 533 cod. proc. pen., risulta la motivazione, sia nel contenuto che nella forma utilizzata dall'estensore. Il criterio di attribuzione della responsabilità, cui ha fatto ricorso la Corte d'assise di appello, si fonda, infatti, su parametri del tutto in linea con quello normativo di indispensabile valutazione della colpevolezza penale. Si tratta, come è noto, di parametro di verifica, obbligatoriamente prescritto dall'art. 533 cod. proc. pen. che, connesso alla presunzione di innocenza o non colpevolezza, richiede il superamento dell'oltre ogni ragionevole dubbio e non già la mera plausibilità o la semplice verosimiglianza, sia pur dotata di forte plausibilità, della ricostruzione adottata, così assicurando lo standard richiesto dal legislatore, in conformità all'art. 27 Cost. (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430, in mot.). Proprio in adesione a tale canone di giudizio, i giudici di appello hanno ragionato in termini di certezza della colpevolezza, senza accedere ad alcun dubbio, né ai fini del ritenuto concorso di persona nei reati, il ragionamento svolto procede in termini di mera verosimiglianza, criterio insufficiente all'affermazione di responsabilità, ma conclude per la penale responsabilità del ricorrente in termini di assoluta certezza. 2.3. Il terzo motivo è manifestamente infondato. La Corte territoriale (cfr. p. 29) ha respinto la richiesta difensiva di esclusione della recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale, dando conto con ragionamento ineccepibile, non manifestamente illogico, dei precedenti penali per fatti anche gravi (dal 2000 al 2004) dell'imputato e dell'incremento di pericolosità che quello sub iudice rappresenta, motivazione espressa che, dunque, si sottrae alle censure difensive perché conforme ai noti canoni interpretativi fissati in punto recidiva, da questa Corte di legittimità. Con precipuo riguardo alla recidiva si afferma, invero, che il giudice può adempiere all'onere motivazionale anche implicitamente, ove la sentenza dia conto della ricorrenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, che sono alla base dell'aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all'art. 99 cod. pen. (così, Sez. 6, n. 20271 del 27/04/2016, Duse, Rv. 267130; Sez. 3, n. 4135 del 12/12/2017 - dep. 2018, Alessio, Rv. 272040; così anche, Sez. 2, n. 39743 del 17/09/2015, Del Vento, Rv. 264533; Sez. 2, n. 40218 del 19/06/2012, Fatale, Rv. 254341). 2.4. Il quarto motivo è infondato. La misura della pena complessiva e di quella irrogata a titolo di aumento ex art. 81 cod. pen. sul più grave reato di omicidio, in relazione ai reati satellite, nonché il diniego delle circostanze attenuanti generiche sono statuizioni che trovano esauriente e adeguata motivazione, in linea con l'insegnamento di questa Corte di legittimità. Si valorizza, infatti, l'esistenza di precedenti penali e, quindi, si valuta la personalità dell'agente, nonché la specificità del fatto in contestazione rispetto alla quale, in più parti della motivazione della sentenza, si rimarca la consistente gravità. Quindi, la Corte territoriale ha dato conto, in più punti del complessivo dispiegarsi della motivazione, delle ragioni che sostengono le determinazioni sull'entità della pena irrogata anche per le singole porzioni di pena ex art. 81 cod. pen., non palesandosi siffatta commisurazione abnorme o ingiustificata. In tal senso, il richiamo alla gravità dei fatti soddisfa lo standard declinato dall'art. 133 cod. pen. (Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013 , dep.2014, Waychey, Rv. 258410, N. 9120 del 1998 Rv. 211582) e giustifica, altresì, la negazione delle circostanze attenuanti generiche (Sez. 2, n.24995 del 14/05/2015, P.G., Rechichi e altri, Rv. 264378, N. 45623 del 2013 Rv. 257425, N. 933 del 2014 Rv. 258011), trattandosi di un dato polivalente, incidente sui diversi aspetti della valutazione del complessivo trattamento sanzionatorio. Del resto, sotto il profilo dell'entità degli aumenti operati ex art. 81 cod. pen., dettagliatamente specificati dalla Corte territoriale anche quanto alla continuazione interna (cfr. p. 30), la censura non è specifica perché si limita al richiamo alla nota giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01) secondo la quale in tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l'aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, senza precisare la ragione della censura, tenuto conto dell'entità contenuta degli aumenti ex art. 81 cod. pen. e senza, specificamente, dedurre un (eventuale) carente rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati o un superamento dei limiti di legge. Peraltro, è noto che la sussistenza di circostanze attenuanti, rilevanti ai sensi dell'art. 62-bis cod. pen., è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di tal ché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in sede di legittimità neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (Sez. 6, n.7707 del 04/12/2003, dep. 2004, Rv. 229768; Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931), a condizione che la valutazione tenga obbligatoriamente conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall'interessato (Sez. 3, n.23055 del 23/04/2013, Banic, Rv. 256172). In particolare, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente nemmeno lo stato di incensuratezza dell'imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986; conf. n. 44071 del 2014 Rv. 260610). 2.5. Il quinto e sesto motivo sono infondati. Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 81 cod. pen. in relazione alla richiesta di continuazione tra i fatti in contestazione e quelli giudicati con sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli, resa in data 11 giugno 2013 divenuta irrevocabile in data 15 aprile 2015 e con il sesto motivo, si deduce vizio di motivazione su tale punto. Il Collegio osserva che la motivazione sulla mancanza di allegazione circa la sussistenza del disegno criminoso tra reato associativo, al quale Mi.Gi. ha aderito sicuramente prima dell'omicidio risalente al 2010 (cfr. p. 29 della sentenza di secondo grado dove si dà atto, peraltro, che a carico di Mi.Gi. risulta altra sentenza di condanna per partecipazione ad associazione mafiosa, fatti commessi dal 2000 al 2004) è conforme ai principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di continuazione tra reato associativo e reati fine. Invero, è noto che grava sul condannato che invochi l'applicazione della disciplina del reato continuato, l'onere di allegare elementi specifici e concreti a sostegno, non essendo sufficiente il mero riferimento alla contiguità cronologica degli addebiti e all'identità dei titoli di reato, in quanto indici sintomatici non di attuazione di un progetto criminoso unitario, quanto di un'abitualità criminosa e di scelte di vita ispirate alla sistematica e contingente consumazione degli illeciti (tra le altre, Sez. 1, n. 35806 del 20/04/2016, D'Amico, Rv. 267580). Del resto, la prova del medesimo disegno criminoso è stata esclusa dal giudice del merito con adeguata analisi (cfr. p. 28 della sentenza impugnata), estrinsecata attraverso una motivazione non manifestamente illogica, seppure succinta, ma immune da violazione di legge e coerente con i principi giurisprudenziali (Sez. 6, n. 4680 del 20/01/2021, Raiano, Rv. 280595; Sez. 5, n. 54509 del 08/10/2018, Lo Giudice, Rv. 275334; 6, n. 13085 del 03/10/2013, dep. 2014, Am., Rv. 259481) secondo i quali non è configurabile la continuazione tra il reato associativo e quei reati fine che, pur rientrando nell'ambito delle attività del sodalizio criminoso ed essendo finalizzati al suo rafforzamento, non erano programmabili al momento dell'ingresso nel sodalizio, perché legati a circostanze ed eventi contingenti e occasionali. Non è manifestamente illogica la motivazione resa, sul punto, dalla Corte territoriale nella parte in cui valorizza la natura estemporanea della deliberazione omicidiaria, in quanto attuata nei confronti di un affiliato che manifestava dissenso perché si reputava mal "retribuito". Peraltro, si tratta di eliminazione descritta come utilizzata, secondo delle strategie del clan del tutto contingenti, per sugellare l'alleanza tra gli Am.-Pa.e la fazione della ed. V, vicende e dinamiche specifiche, sviluppatesi senz'altro in epoca successiva all'adesione di Mi.Gi. al sodalizio. Infatti, la complessiva prova raccolta, di cui hanno reso conto le sentenze di merito, ha fatto emergere che l'omicidio era stato deliberato anche come espressione di un patto tra le fazioni della ed. Gr.Vi. e gli Am.-Pa., quindi inserendo il fatto in un più ampio contesto di accordi interni tra le due costole dell'organizzazione camorristica, secondo dinamiche, alleanze e in base a uno scenario complessivo degli equilibri tra gruppi, senz'altro diverso da quello che si presentava al momento dell'affiliazione al clan di riferimento da parte di Mi.Gi.. A fronte di tale ricostruzione recepita nei provvedimenti di merito, quindi, la minaccia di pentimento che la difesa valorizza in via esclusiva, intendendola quale manifestazione evidente dalla violazione del patto di omertà insisto, naturalmente e in via generale, nella decisione di aderire a un sodalizio di stampo mafioso ex art. 416-bis cod. pen., resta sullo sfondo e non può essere valorizzata ai fini di reputare il giudizio di merito, svolto in punto continuazione tra i reati sub iudice e quelli oggetto di precedente giudicato, del tutto arbitrario o motivato con ragionamento viziato da illogicità manifesta, unico vulnus rilevabile in questa sede di legittimità. 3.Il ricorso proposto dall'Avv. R. Qu. è infondato. 3.1. Le eccezioni di nullità delle ordinanze dibattimentali del 15 febbraio 2023, 22 febbraio 2023 e 8 marzo 2023, per violazione degli artt. 178 lett. c) e 420-ter cod. proc. pen., nonché quella di nullità derivata della sentenza di appello, resa in data 8 marzo 2023, dedotta con il primo motivo di ricorso sono infondate. In ordine all'ordinanza del 15 febbraio 2023, la difesa si duole del fatto che la Corte di assise di appello, pur avendo disposto specifico accertamento medico, superando la richiesta del Sostituto Procuratore generale di udienza di riconoscere la legittimità dell'impedimento a comparire dedotto dall'imputato per ragioni di salute, in base alla documentazione prodotta, ha ritenuto di non tenere conto degli esiti attestanti l'attualità di condizioni invalidanti con necessità di ricovero e l'inopportunità della sottoposizione a stati emozionali, disponendo procedersi nell'assenza dell'imputato. L'esame dei verbali di udienza e delle ordinanze pronunciate all'esito, oggetto di impugnazione - preliminare e doveroso in ragione della natura delle eccezioni formulate (nel senso che, in materia processuale, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto e che, nella ricerca degli eventuali errores in procedendo, opportunamente denunciati con specifico motivo di ricorso, occorre verificare, ex actis, l'osservanza della legge processuale: Sez. U., n. 42792 del 31/10/2001, Rv 220092) - ha consentito di acclarare, quanto all'ordinanza in questione, che la certificazione sanitaria prodotta, in uno agli esiti dell'accertamento del sanitario pubblico, condotto ad horas, non hanno attestato condizioni di salute tali da rappresentare assoluto impedimento a comparire all'udienza del 15 febbraio 2023, come esposto con ragionamento non manifestamente illogico, dalla Corte territoriale procedente. Invero, è noto che l'art. 420-ter cod. proc. pen., nel disciplinare le conseguenze dell'impedimento a comparire dell'imputato o del difensore, prevede, al primo comma, quando sia certo l'impedimento a comparire, che quando l'imputato, anche se detenuto, non si presenta all'udienza e risulta che l'assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice, con ordinanza, anche d'ufficio, rinvia ad una nuova udienza. Al riguardo questa Corte ha, da tempo, chiarito che l'assoluta impossibilità a comparire, derivante da infermità fisica dell'imputato, determinante il diritto al rinvio dell'udienza, a salvaguardia del diritto di difesa dell'imputato, costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost., non va intesa come impedimento esclusivamente meccanico dell'imputato a fare ingresso nell'aula d'udienza, in quanto la facoltà di comparire, che è estrinsecazione dell'esercizio del diritto di difesa, implica che l'imputato sia in grado di presenziare al processo a suo carico in modo vigile e attivo (Sez. 6, n. 43885 del 05/11/2008, Lamberti, Rv. 241913 - 01; Sez. 3, n. 47975 del 26/06/2012, Liccardo, Rv. 253991 - 01; Sez. 5, n. 15646 del 05/02/2014, Coviello, Rv. 259841 - 01). Tale impedimento deve essere ravvisato anche quando derivi da una malattia a carattere cronico o ingravescente, purché determini un impedimento effettivo, legittimo e di carattere assoluto, purché riferibile a una situazione non dominabile dall'imputato e a lui non ascrivibile, dunque incolpevole (Sez. 6, n. 39930 del 30/10/2001, Puzzo, Rv. 220247 - 01; Sez. 5, n. 39217 del 11/07/2008, Crippa, Rv. 242327 - 01; Sez. 3, n. 10482 del 15/12/2015, dep. 14/03/2016, Ingoglia, Rv. 266494 - 01). La patologia che costituisce legittimo impedimento ex art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., è, dunque, soltanto quella che impedisce fisicamente all'interessato di presentarsi all'udienza se non a prezzo di un grave e non altrimenti evitabile rischio per la propria salute (Sez. 4, n. 7979 del 28/01/2014, Rasile, Rv. 259287; Sez. 6, n. 11678 del 19/03/2012,, Bracchi, Rv. 252318), situazione cui la giurisprudenza ha assimilato quella che comporti la possibilità di presentarsi in udienza senza consentire, però, una partecipazione vigile e attiva (Sez. 6, n. 43885 del 05/11/2008, Lamberti, Rv. 241913; Sez. 6, n. 12836 del 04/02/2005, Quistelli, Rv. 231720). Ai fini del legittimo impedimento, non possono assumere rilievo, per converso, patologie, anche gravi e fastidiose, che tuttavia consentirebbero all'interessato di presentarsi in udienza (Sez. 6, n. 4284 del 10/01/2013, G., Rv. 254896; Sez. 5, n. 44845 del 24/09/2013, Hrvic, Rv. 257133), né può rappresentare legittimo impedimento assoluto (cfr. Sez. 6, n 54424 del 27/04/2018, Calabro, Rv. 274680 - 07), la prescrizione di "riposo assoluto" (nel precedente citato si è ritenuto che il certificato medico che si limiti ad attestare la generica necessità di "riposo assoluto" non comporta l'impossibilità di partecipare all'udienza, trattandosi di prescrizione che non implica, in caso di mancata osservanza, il rischio di un danno o di un pericolo grave per la salute del soggetto). Si deve evidenziare, invero, che, nel caso in esame, la Corte di assise di appello ha dato atto non solo dell'esistenza di condizioni di salute croniche (Mi.Gi. risultava, all'epoca dell'accertamento, cardiopatico in lista di attesa per trapianto), natura della patologia, di per sé, non in grado di escludere il carattere assoluto dell'impedimento a comparire per ragioni di salute (Sez. 3, n. 6357 del 16/10/2018, dep. 2019, Santi, Rv. 275000 - 01) ma soprattutto che, alla visita praticata dal sanitario pubblico, non erano emerse patologie da ultimo lamentate e che, comunque, per quelle pregresse, il ricovero era stato consigliato per accertamenti e si era segnalata soltanto come non opportuna e quindi non interdetta in assoluto la sottoposizione dell'imputato a stati emozionali, peraltro soltanto genericamente indicati. Nel caso in esame, in ogni caso, la Corte territoriale, preliminarmente, ha dato atto della rinuncia a comparire dell'imputato (cfr. seconda pagina del verbale dell'udienza del 15 febbraio 2023). Quindi, la Corte d'assise di appello ha reso conto, a fronte della produzione di documentazione sanitaria attestante, secondo il difensore, l'impedimento a comparire per il giorno dell'udienza, che questa indicava l'esistenza di bronchite acuta in atto con affezione febbrile, senza indicazione del grado. Inoltre, detta documentazione, secondo quanto riportato nel verbale di udienza, ha attestato che il sanitario aveva prescritto riposo assoluto per dieci giorni, senza altro indicare circa la concreta impossibilità dell'imputato a presenziare. Sicché, risulta dagli atti che la Corte territoriale ha disposto l'accertamento ad horas, da parte di sanitario dell'ASI, competente per territorio. Emerge, inoltre, da quanto esposto dai giudici di secondo grado, che l'imputato, nel giorno dell'accertamento coincidente con quello di udienza, all'atto della visita condotta dal sanitario pubblico all'uopo officiato, non ha presentato lo stato febbrile indicato (con stato febbrile pari a 36 ), né è stato attestato dal sanitario che aveva eseguito l'accertamento, una condizione di impedimento assoluto a presenziare all'udienza. In particolare, si attesta che l'imputato è indicato come soggetto in lista di attesa per trapianto di cuore, con diagnosi di cardiopatia dilatativa post ischemica, soggetto ad ossigenoterapia al bisogno. Il sanitario ha dato conto di sintomi riferiti (all'atto della visita, notevole spossatezza, con difficoltà respiratoria, precordialgia con dolore irradiato alla spalla sinistra), precisando che si trattava di sintomatologia già presente nelle giornate precedenti, come da certificato del medico curante di Mi.Gi. che ne aveva richiesto il ricovero urgente in cardiologia per accertamenti, come consigliato, all'esito, anche dallo stesso sanitario pubblico, il quale ha precisato la mera inopportunità di sottoporre a stati emozionali l'imputato. Quindi, in linea con l'indirizzo interpretativo sopra riportato, l'ordinanza censurata, in modo ineccepibile, ha evidenziato che non erano risultate confermate le patologie dedotte da ultimo come contingente impedimento a comparire (bronchite con stato febbrile), che, comunque, la sottoposizione dell'imputato a stati emozionali, vista la pregressa patologia cardiologica, era stata indicata dal sanitario pubblico come non opportuna, ma non impedita assolutamente e che il ricovero era stato consigliato, sulla base di sintomatologia riferita, soltanto per svolgere accertamenti strumentali e clinici, così non considerando, con ragionamento non manifestamente illogico, l'impedimento dedotto come assoluto quanto alla comparizione in udienza. In relazione alla successiva ordinanza, del 22 febbraio 2023, la difesa rileva che la Corte di assise di appello, disattendendo l'istanza del Procuratore generale circa lo svolgimento di specifici accertamenti, nonostante il documentato stato di ricovero dell'imputato, ha disposto il rinvio del dibattimento, inoltrando la richiesta di chiarimenti al sanitario che aveva in cura l'imputato, circa le sue condizioni di salute. Ciò, senza interessare il citato sanitario in ordine a chiarimenti relativi alla capacità di presenziare in giudizio, comunque, riservandosi, all'esito, di disporre un accertamento di ufficio - dunque anticipando la necessità di una perizia medica - accertamento, però, nel prosieguo mai disposto. Questo Collegio rileva che, nel caso al vaglio, deve riscontrarsi l'inammissibilità dell'eccezione formulata rispetto a tale ordinanza, posto che la Corte di assise di appello ha rinviato la celebrazione dell'udienza proprio per acquisire dettagliata relazione, attraverso il medico curante prof. Ta., avente ad oggetto la diagnosi e la prognosi, l'eventuale dimissione, la terapia adottata, le prescrizioni mediche disposte per il paziente (cfr. verbale di udienza del 22 febbraio 2023). Ciò, quindi, anche al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per procedere ad eventuale accertamento peritale. Orbene, rispetto a tale ordinanza che ha, comunque, disposto il rinvio del dibattimento, la difesa non illustra l'interesse all'impugnazione del provvedimento, unitamente alla sentenza, tenuto conto che, in quell'udienza sono stati disposti soltanto gli indicati accertamenti sanitari, onde acclarare le condizioni di salute dell'imputato, all'attualità con rinvio del dibattimento. Tanto, a fronte di certificazione attestante il ricovero in atto, ma indicata dalla Corte d'assise di appello, con ragionamento immune da illogicità manifesta, come generica quanto all'impossibilità del detenuto domiciliare. Risulta, infatti, allegata al verbale di udienza, certificazione dell'Ospedale San Giuliano in G, che, a fronte della cardiopatia dilatativa post ischemica già diagnosticata al paziente - risultando l'imputato ivi ricoverato in data 20 febbraio 2023 - aveva precisato, quanto alla trasportabilità di Mi.Gi., che questa non era "indicata" per le condizioni del paziente. Su tale ultimo punto, si osserva che è principio affermato da questa Corte di legittimità quello secondo il quale è legittimo il provvedimento con cui il giudice di merito rigetta l'istanza di rinvio per impedimento dell'imputato a comparire sulla base di un certificato medico attestante il ricovero in ospedale, privo di indicazioni in ordine all'effettiva, assoluta impossibilità di comparire o, comunque, di partecipare lucidamente ed attivamente al processo (Sez. 5, n. 44317 del 21/05/2019, Bianculli, Rv. 277849 - 01; Sez. 6, n. 36373 del 04/04/2014, Casciello, Rv. 260614). Il mancato espletamento di perizia medico - legale, poi, da parte della Corte territoriale nel prosieguo, è questione genericamente dedotta e che, invero, attinge un potere discrezionale dell'Autorità giudiziaria procedente. Sul punto, si rimarca che è principio pacifico affermato da questa Corte di legittimità quello secondo il quale, in tema di impedimento a comparire dell'imputato, è legittimo il provvedimento con il quale il giudice, acquisito il certificato medico prodotto dal difensore, valuti, anche indipendentemente da verifiche fiscali e facendo ricorso a nozioni di comune esperienza, purché debitamente esposte nella motivazione, l'insussistenza di una condizione tale da comportare l'impossibilità per l'imputato di comparire in giudizio, se non a prezzo di un grave e non altrimenti evitabile rischio per la propria salute (Sez. 5, n. 44369 del 29/04/2015, Romano, Rv. 265819 - 01; Sez. 4, n. 7979 del 28/01/2014, Basile, Rv. cit., in cui la patologia certificata dal Pronto Soccorso consisteva in un attacco d'asma, con dimissioni disposte dopo 42 minuti dal ricovero, senza alcuna specificazione in ordine all'impossibilità di presentarsi in udienza). Quanto all'ordinanza resa all'udienza del giorno 8 marzo 2023, si osserva che, secondo la difesa, il Collegio procedente, pur avendo a disposizione i richiesti chiarimenti del medico curante dell'imputato, Prof. Ta., oltre a un memoriale depositato dal medesimo Mi.Gi., documenti dai quali si doveva necessariamente ricavare la gravità del quadro clinico, la necessità di riposo e l'immanente rischio di morte improvvisa, si procedeva in assenza, giungendo a pronunciare la sentenza che ha definito il secondo grado di giudizio. Tanto, limitandosi la Corte territoriale ad indicare di aver autorizzato l'imputato, detenuto agli arresti domiciliari, a recarsi in udienza libero e senza scorta, con facoltà di assumere ogni opportuna cautela per contenere o prevenire stati emozionali, quindi nella piena consapevolezza, da parte del giudicante, di gravi rischi connessi alle peggiorate condizioni di salute dell'imputato, ma senza precisare le cautele idonee a prevenire e contenere detti stati emozionali, onde assicurare la partecipazione attiva al dibattimento, con pienezza delle facoltà psico-fisiche del soggetto. Questo Collegio osserva che, diversamente da quanto opinato con il ricorso, l'ordinanza resa dalla Corte di assise di appello rende conto della patologia cronica dell'imputato, che questi era stato dimesso in data 1 marzo 2013, rifiutando di sottoporsi a coronariografia. L'ordinanza evidenzia, inoltre, che non era risultato alcun aggravamento delle condizioni di salute accertate e che non era stata allegata documentazione sanitaria relativa all'intervenuto ricovero e agli esiti degli eventuali accertamenti svolti in quella occasione (cartella clinica e esito esami strumentali e diagnostici), precisando che unico fattore di rischio che si poteva ricavare dalla relazione sanitaria prodotta, era l'incidenza di impulsi emozionali idonei a determinare un eventuale peggioramento delle condizioni di salute, impulsi individuati, secondo la prospettazione difensiva, sic et simpliciter nella partecipazione al dibattimento. In definitiva, la Corte di assise di appello ha riscontrato, con ragionamento non manifestamente illogico, l'assenza di prova circa il dedotto impedimento assoluto a comparire, non risultando acclarato un peggioramento delle condizioni di salute di Mi.Gi., rilevando, peraltro, che unica - eventuale - causa di peggioramento di dette condizioni di salute veniva indicata nella presenza all'udienza, per la quale, in ogni caso, la stessa Corte territoriale aveva autorizzato il detenuto agli arresti domiciliari ad intervenire libero e senza scorta, Né risulta, specificamente, dedotta l'inosservanza di ogni opportuna cautela, di tipo sanitario, per prevenire l'eventuale incidenza negativa della comparizione rispetto alle condizioni di salute pregresse, in quanto non consentita o negata dall'Autorità giudiziaria procedente. 3.2. Il secondo motivo è infondato. La difesa eccepisce la nullità della sentenza per vizio di motivazione con riferimento al primo motivo di appello, con il quale si deduceva la nullità della declaratoria di assenza dell'imputato, dello svolgimento del processo di primo grado, nonostante gravi e documentate patologie che ne avrebbero determinato l'assoluto impedimento a comparire. Si era rappresentato che, all'udienza del 6 luglio 2021, la Corte di assise aveva ritenuto Mi.Gi. rinunciante a comparire ma che, in realtà, alcuna formale rinuncia era stata prodotta per essersi l'imputato limitato a rappresentare alla scorta il rifiuto alla traduzione a causa del dedotto, incombente, pericolo derivante dal trasferimento in udienza senza presidi medico-sanitari idonei a tutelarlo adeguatamente. La difesa, poi, eccepisce che alla successiva udienza, del 15 settembre 2021, l'imputato aveva dichiarato di voler partecipare ma di rifiutare la traduzione dal domicilio, chiedendo di essere messo in condizioni di partecipare a distanza, in quanto la sua patologia rendeva indispensabile il trasporto a mezzo di ambulanza. Tuttavia, la Corte di assise, interpretando anche questa dichiarazione come rinuncia a comparire, pur avendo preso atto delle esigenze di salute dell'imputato e della relativa necessità di predisporre una modalità di collegamento che consentisse di ovviare all'impedimento, rimetteva la decisione al Nucleo traduzioni. Inoltre, si ribadisce che, dal verbale di udienza del 12 ottobre 2021, risulta che l'imputato, visto che ne era stata disposta la traduzione con i mezzi ordinari (senza ambulanza), rifiutava di venire in udienza ma senza rinunciare alla presenza, trattandosi di soggetto cardiopatico con problemi di possibile morte istantanea. Sulla base di tale dichiarazione si lamenta, infine, che nessun approfondimento clinico è stato disposto dalla Corte di assise, onde valutare l'effettiva necessità del trasporto con ambulanza o di adeguato presidio medico infermieristico. A fronte di tali articolate deduzioni, la Corte di assise di appello ha escluso l'eccepita nullità (cfr. p. 16 e ss. della sentenza di secondo grado). Questo Collegio osserva, in via generale, con riguardo all'art. 420-ter cod. proc. pen. che è noto che (Sez. U, n. 35399 del 2010, Rv. 247837-01; Rv. 247836-01 e Rv. 247835-01), nel giudizio ordinario, deve sempre essere assicurata, in mancanza di espressa rinunzia, la presenza dell'imputato. Sicché, in applicazione della norma generale citata, qualora l'imputato non si presenti e, comunque risulti o appaia probabile che la sua assenza sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice anche d'ufficio deve disporre il rinvio della trattazione. La rinuncia a presenziare è indubbiamente un atto personale dell'imputato. Tuttavia, non sono previste formule sacramentali o ad substantiam actus. Spetta, piuttosto, al giudice di merito valutarne la forma, il contenuto e la sua provenienza (Sez. 1, n. 11943 del 12/01/2016, Nacci, Rv. 266616 - 01, in motivazione). Non si può, poi, prescindere dal legittimo e naturale affidamento che ciascuno può riporre sugli effetti e le conseguenze che derivano dal formale compimento di determinati atti o, in generale, da specifici comportamenti processuali delle parti. Regola siffatta vale vi è più, nel rapporto imputato-difensore. Infatti, lo stesso legislatore, consapevole della peculiarità del binomio processuale testé indicato, ha espressamente previsto l'estensione al difensore dei diritti dell'imputato, con l'unica eccezione che si tratti di posizioni giuridiche processuali riservate personalmente a quest'ultimo. Ogni possibile situazione di conflitto è, comunque, superabile riconoscendosi all'imputato il potere di togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all'atto compiuto dal difensore (art. 99 cod. proc. pen.), prima che sia intervenuto un provvedimento del giudice. Sicché, in modo ineccepibile i giudici di merito danno conto nei verbali delle udienze, di aver prestato affidamento sul contenuto della dichiarazione del difensore e sull'effettiva e fedele trasmissione della volontà del detenuto rappresentato con mandato fiduciario dal professionista presente in udienza, come da dichiarazione resa all'udienza del 12 settembre 2021 (cfr. p. 4 del verbale di udienza). Deve annotarsi come, nella specie, non si sia al cospetto dell'esercizio da parte del difensore d'una facoltà personalissima dell'imputato, volontà autonomamente espressa dal professionista nell'esercizio del potere di difesa tecnica ed in "rappresentanza" del titolare. Nel caso di specie, tuttavia, risulta che il difensore si è limitato a comunicare il volere del suo assistito, senza porre in essere un atto rappresentativo in senso stretto, esternando una sua volontà che produce effetti nell'altrui sfera giuridica. In quella udienza (12 settembre 2021), infatti, rispetto all'interlocuzione delle parti, sollecitata dal Collegio circa l'interpretazione della volontà dell'imputato manifestata al responsabile del Nucleo Traduzioni come rinuncia a comparire, la difesa ha espressamente dichiarato : "va bene l'interpretazione che ne dà la Corte su questo la difesa non ha nulla da osservare solo chiede, come ha già indicato la Corte, di voler rappresentare questo problema all'autorità preposta perché ne faccia l'uso che ritiene ... che è necessario". Inoltre, si osserva che anche all'udienza del 12 ottobre 2021 (cfr. p. 4 del verbale stenotipico, circa l'intervento del difensore di fiducia, Avv. Qu.) risulta che la difesa presente ha esposto che la dichiarazione resa dall'imputato al Nucleo traduzioni doveva essere ritenuta quale rinuncia a comparire all'udienza. Del resto, secondo l'impostazione della giurisprudenza sovranazionale (cfr. sentenza Hermi c. Italia della Corte EDU) legittimamente, il giudice può ravvisare, interpretando il comportamento dell'imputato, la sussistenza di una rinuncia a comparire all'udienza. Su tale punto, questa Corte ha, altresì, chiarito (Sez. 2, n. 40846 del 9/10/2007, Ambrosino, Rv. 237961 - 01) che è legittimo il provvedimento di rigetto della richiesta di rinvio dell'udienza, motivato adducendo l'intrasportabilità dell'imputato detenuto, se l'assenza di questi sia dipesa dal suo rifiuto alla traduzione predisposta, non giustificata da documentazione medica circa l'incompatibilità di detta traduzione con lo stato patologico lamentato. Ciò posto, si osserva che, con ragionamento non manifestamente illogico e completo, la Corte territoriale ha escluso che, nel giudizio di primo grado, sia emerso un documentato e comprovato stato di salute dell'imputato allegato, all'atto dell'esecuzione della traduzione disposta, per le udienze indicate, dall'Autorità giudiziaria procedente, tale da rendere assoluto il suo impedimento a comparire alle udienze. In ogni caso, si rileva che l'eccezione devoluta anche nella presente sede, non si confronta con il dato, emergente dalla complessiva motivazione della Corte di assise di appello e comunque, dai verbali del giudizio di primo grado, dai quale emerge che, nel corso del dibattimento di primo grado, la difesa, sollecitata a interloquire sulla questione relativa alla manifestazione della volontà dell'imputato quale rinuncia a comparire, nonché circa le modalità di traduzione dell'imputato all'udienza, nulla aveva eccepito ed anzi aveva confermato la rinuncia a comparire, intervenendo comunque chiedendo alla Corte d'assise di sollecitare gli organi competenti rispetto alle modalità di traduzione. La Corte territoriale, peraltro, rende conto che, a fronte delle varie comunicazioni provenienti dal Nucleo traduzioni alla Corte di assise (cfr. atti), non risultava idonea certificazione sanitaria, allegata dal detenuto agli arresti domiciliari circa condizioni di salute implicanti un impedimento assoluto a partecipare al processo, con riferimento ai giorni di udienza. Né a tale documentato stato specificamente dedotto per i giorni dell'udienza fa riferimento, specificamente, il ricorrente. Tanto, quindi, pur a fronte della già descritta patologia cronica che necessitava di intervento di trapianto, da cui l'imputato risultava affetto, patologia nota, come deduce il ricorrente, risultando il detenuto agli arresti domiciliari per la presente causa per ragioni di salute. 3.3. Il terzo motivo è inammissibile. La difesa denuncia vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, comma 3, cod. proc. pen., 110, 575 cod. pen. in ordine alle dichiarazioni dei collaboratori circa la presunta partecipazione dell'imputato nella veste di mandante. In primo luogo, si deve richiamare la motivazione già resa in relazione ai primi due motivi del ricorso a firma dell'avv. L. Pe., ai Par. 2.1. e 2.2. risultando, parte delle deduzioni svolte, corrispondenti a quelle proposte dal codifensore. In secondo luogo, si osserva che esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (tra le molte altre, Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944). Il motivo, nel suo complesso, invero, richiede una rivalutazione delle dichiarazioni di Gu. che, in parte, riporta per stralcio e che allega (cfr. p. 20 e ss. del ricorso). Inoltre, la censura non tiene in conto che la motivazione convergente dei provvedimenti di merito annovera, secondo quanto riferito anche da altri collaboratori, diversi da Gu., tra i vertici del clan Am.-Pa., non solo Ri.Ma. e Ce.Ca. classe '71, ma anche Mi.Gi.. Peraltro, la difesa sottolinea un dato, quello dell'immediato allontanamento dell'imputato dal covo di M degli Am.-Pa., mentre la motivazione della sentenza di primo grado sottolinea che, dopo l'esecuzione, Gu. aveva incontrato Mi.Gi. in quella sede e che questi gli aveva contestato che la vittima designata non era mai arrivata al covo ("questo è perché lo dovevate portare qua"), contestazione alla quale Gu. aveva spiegato le direttive sulle modalità di esecuzione del delitto, ricevute dal Ri.Ma., rispetto alle quali lo stesso Mi.Gi. nulla aveva replicato annuendo. La difesa, poi, sollecita una diversa interpretazione, da parte di questa Corte, del silenzio serbato dal collaboratore Ce.Ca. rispetto alla circostanza della presenza di Mi.Gi. alla riunione (pur non espressamente negata) in senso favorevole all'imputato. Tale operazione è, come noto, inibita al Giudice di legittimità e, comunque, la censura non tiene conto del fatto che già il giudice di primo grado ha esposto, sulla base dell'esame del complesso delle fonti dichiarative, che più erano stati gli incontri preliminari all'omicidio di Ma.Pa. mentre, per la difesa, l'incontro di cui parlano Ce.Ca., da una parte, e Gu. dall'altra, dovrebbe essere sicuramente lo stesso. 3.4. Il quarto motivo è infondato. Si lamenta vizio di motivazione in ordine all'attendibilità soggettiva di Va.An. e all'idoneità delle dichiarazioni a fornire riscontro circa la partecipazione concorsuale dell'imputato. Il Collegio osserva che si tratta di censure, in sostanza, corrispondenti a quelle svolte nel ricorso a firma dell'avv. L. Pe., nei motivi primo e secondo, sicché si richiamano tutte le argomentazioni già espresse ai Par. 2.1. e 2.2. Circa l'inattendibilità acclarata in altro procedimento, che peraltro nemmeno risulta in questo caso perché la Corte di appello, nel diverso procedimento richiAm., non si sofferma sull'inattendibilità o scarsa credibilità del narrato del dichiarante ma sulla specifica reticenza del racconto (cfr. p. 11 della sentenza della Corte di appello di Napoli del 3 dicembre 2020), la giurisprudenza di legittimità è nel senso che questa non vincola il giudizio di attendibilità e credibilità del chiamante in reità o correità in altro processo. Peraltro, in questo caso, si fa riferimento a sentenza di merito della quale non si precisa, con il ricorso, se si tratti di provvedimento divenuto definitivo. In ogni caso, si osserva che della prima riunione, deliberativa dell'omicidio, la Corte di assise nemmeno tiene conto, in modo decisivo, ai fini della condanna di Mi.Gi., rilevando l'apporto dell'imputato assicurato attraverso il rafforzamento del proposito di Ri.Ma., oltre che nella condotta materiale di aver partecipato ad organizzare la strategia operativa dell'agguato, perché Ma.Pa. da tempo era nascosto come latitante in un luogo che pochi conoscevano, allo scopo di farlo uscire allo scoperto. 3.5. Il quinto motivo è inammissibile. In primo luogo, si osserva che la richiesta di prova, svolta ai sensi dell'art. 603 cod. proc. pen. risulta avere contenuto esplorativo, posto che la difesa ha chiesto il nuovo esame dibattimentale di Gu. e Va.An., già escussi nel corso del giudizio di primo grado, per apprendere circostanze peraltro nemmeno indicate con univocità nel ricorso (cioè se le parole attribuite a Mi.Gi. il giorno dell'omicidio erano state riferite da St.Ra. o apprese per interlocuzione diretta, se la partecipazione all'incontro antecedente e propedeutico all'omicidio, fosse o meno frutto di deliberata volontà di alterazione della realtà, oppure di una fallacia del ricordo). La Corte territoriale, in ogni caso, rispetto a tale richiesta, ha reputato la prova non indispensabile per la decisione motivando, sebbene in modo sintetico, a p. 27 e ss. della pronuncia impugnata. In secondo luogo, non si ravvisa alcuna violazione dell'art. 603, comma 5, cod. proc. pen. posto che, nel giudizio d'appello, il rispetto del contraddittorio richiede che le parti siano poste in condizione di interloquire e far valere le loro ragioni in ordine all'assunzione di una prova, mentre non impone che l'interlocuzione sia effettiva (Sez. 5, n. 32427 del 11/05/2015, Rv. 268848 - 01, fattispecie relativa alla acquisizione di documentazione nel dibattimento di secondo grado, in cui la Corte ha considerato realizzato il contraddittorio a seguito della sollecitazione del giudice alle parti a concludere e, quindi, ad interloquire anche sull'acquisizione della documentazione, senza ritenere, invece, necessario che fosse disposta con ordinanza la rinnovazione parziale dell'istruttoria dibattimentale). In ogni caso, lo stesso art. 603 comma 5 cod. proc. pen. non statuisce alcuna nullità, che deve essere tassativa, per il fatto che non intervenga subito il provvedimento, rimandandone l'adozione unitamente al merito. Nel caso di specie, peraltro, la risposta alla sollecitata integrazione istruttoria è negativa nel senso del rigetto, provvedimento tempestivamente impugnato con il ricorso. Su tale ultimo punto, si rimarca che la rinnovazione, ancorché parziale, del dibattimento ha carattere eccezionale e può essere disposta solo qualora il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. Ne deriva che mentre la rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dare conto dell'uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non potere decidere allo stato degli atti, nel caso, viceversa, di rigetto, la relativa motivazione può essere anche implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 4, n. 1184 del 03/10/2018, dep. 2019, Motta Pelli Srl, Rv. 275114 - 01; Sez. 5, n. 15320 del 10/12/2009, dep. 2010, Pizzuti, Rv. 246859 - 01). Comunque, è noto che, in punto rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello, può essere censurata la mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale qualora si dimostri l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello tra le altre, Sez. 6, n. 1256/14 del 28 novembre 2013, Cozzetto, Rv. 258236). In tal senso, deve allora rilevarsi come il ricorso, non solo non abbia disvelato le ragioni della presunta decisività delle escussioni di cui non è stato ammesso l'espletamento dal giudice dell'appello ma, altresì, non si è confrontato con il complesso della motivazione nella parte in cui la sentenza ha evidenziato l'esatto contrario, in ragione della ritenuta completezza dell'istruttoria svolta. 3.6. Il sesto motivo pone censure corrispondenti ai motivi quinto e sesto del ricorso a firma dell'avv. L. Pe., sicché si richiamano le argomentazioni svolte nel Par 2.5. È appena il caso di precisare che è noto che l'esistenza di un disegno unitario, requisito di natura psicologica e, quindi, interiore all'agente, postula la rappresentazione dei singoli episodi criminosi, individuati soltanto nelle loro linee essenziali, come dedotto dalla difesa. Ma è altrettanto pacifico che tale rappresentazione deve sussistere sin dall'inizio dell'attività illecita. È necessario, cioè, che l'autore abbia previsto e deliberato in via generale l'iter criminis e che i reati attraverso i quali attuarlo, nella loro oggettività, si devono presentare compatibili giuridicamente e posti in essere in un contesto temporale di successione o contemporaneità. Ciò che la disciplina normativa richiede è, dunque, un disegno unitario non generico ma, anzi, sufficientemente preciso e rintracciabile sin dalla commissione del primo reato, pur senza pretendere che tutti i singoli reati siano stati progettati e previsti nelle specifiche connotazioni modali e temporali delle condotte. A tal fine l'analisi da condurre non può prescindere dall'effettiva disamina della sentenza irrevocabile che ha giudicato le singole vicende, per verificare la ricorrenza o meno degli indici che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto significativi in ordine alla riconducibilità delle singole violazioni all'esecuzione di una medesima, unitaria e originaria risoluzione criminosa, disamina che, nella specie, ha condotto come detto al citato Par. 2.5., ad escludere la sussistenza di un unitario programma iniziale che comprendesse anche i delitti per i quali si procede. 4. Segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali del presente giudizio. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Cosi deciso in data 18 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. GUARDIANO Alfredo - Presidente Dott. SGUBBI Vincenzo - Consigliere Dott. RENOLDI Carlo - Consigliere - Relatore Dott. BIFULCO Daniela - Consigliere Dott. FRANCOLINI Giovanni - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Di.Sa. , nato il (Omissis) a G . avverso la sentenza della Corte di appello di Caltanissetta in data 18/04/2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi; letta la requisitoria scritta con cui il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Aldo Ceniccola, ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza in data 18 aprile 2023, la Corte di appello di Caltanissetta ha confermato la sentenza del Tribunale di Gela in data 7 aprile 2022 con la quale Di.Sa. era stato condannato alla pena di 8 mesi e 10 giorni di reclusione in quanto riconosciuto colpevole, con le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata recidiva, dei reati, unificati dal vincolo della continuazione, previsti dagli artt. 48 e 479 cod. pen. , perché, dopo aver predisposto il modulo del consenso con la falsa firma della moglie, Ma.Cr. , lo consegnava al dipendente dell'ufficio anagrafe del comune di Gela, Em.Li. , incaricato della pratica, il quale, indotto in errore, rilasciava una carta d'identità valida per l'espatrio (capo B); nonché dall'art. 483, secondo comma, cod. pen. in relazione all'art. 76, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, perché, essendo genitore di un figlio minorenne (Di.Ga. di 12 anni) e non avendo l'assenso del coniuge né l'autorizzazione del giudice tutelare, richiesta dall'art. 3, lett. b), legge n. 1185 del 1967, attestava falsamente nell'istanza di rilascio della carta d'identità valida per l'espatrio, davanti all'incaricato dell'ufficio anagrafe del comune di Gela, di non trovarsi nelle condizioni ostative al rilascio di cui alle lettere b), d), e), e g), legge 21 novembre 1967, n. 1185 (capo C); fatti commessi in Gela il 27 dicembre 2013. 2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso Di.Sa. a mezzo dei difensori di fiducia, avv.ti Sa.Ma.' e Fr.En., deducendo quattro motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. , la inosservanza o erronea applicazione della legge processuale penale per la mancata assunzione dei testi di difesa ammessi e, poi, revocati dal Giudice di primo grado con ordinanza del 7 aprile 2022, con illegittimità della sentenza impugnata per violazione dei principi del giusto processo e del diritto alla difesa. Tali testimoni avrebbero dovuto riferire su temi che il Tribunale aveva ritenuto rilevanti, tanto da averne autorizzato la citazione. In particolare, i figli conviventi della coppia, al corrente degli avvenimenti legati al rinnovo del documento di identità, avrebbero fornito un contributo decisivo per verificare quanto riferito dalla persona offesa, condizionata dall'acredine verso l'imputato. Né la doglianza potrebbe ritenersi tardivamente dedotta, in quanto proposta dopo l'immediata chiusura della istruttoria di primo grado e già in fase di discussione all'udienza del 7 aprile 2022, per poi ribadirla con un motivo di appello. Il ricorso stigmatizza, infine, che il Tribunale, pur prendendo atto delle giustificazioni scritte dei testimoni, abbia proceduto alla definizione del giudizio. 2.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. b), d), ed e), cod. proc. pen. , la inosservanza o erronea applicazione dell'art. 603 cod. proc. pen. con riferimento all'art. 495, comma 2, cod. proc. pen. , la mancata assunzione di una prova decisiva richiesta dalla difesa e l'assenza di motivazione sulla richiesta di riapertura dell'istruttoria di secondo grado. La Corte territoriale, violando l'art. 603 cod. proc. pen. , non avrebbe accolto la richiesta di riapertura della istruzione dibattimentale per la escussione dei testi ingiustamente revocati dal Tribunale di Gela, con violazione dell'art. 495, comma 2, cod. proc. pen. Resterebbe, inoltre, integrata la mancata assunzione delle prove decisive, avendone l'imputato fatto richiesta nel corso dell'istruzione dibattimentale e rientrando la prova nei limiti dell'art. 495, comma 2, cod. proc. pen. Peraltro, la sentenza sarebbe insanabilmente viziata per la totale assenza di motivazione in ordine alla richiesta di riapertura della istruttoria, che non affronterebbe mai la questione, facendo riferimento soltanto alla mancata assunzione dei testi in primo grado e alla legittimità dell'ordinanza del 7 aprile 2022. 2.3. Con il terzo motivo, il ricorso denuncia, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. , la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 525 e 511 cod. proc. pen. , per essere stati i contenuti della prova orale valutati da un giudice diverso da quello che l'aveva ammessa e dichiarata inutilizzabile con ordinanza del 4 marzo 2020 del Tribunale di Gela, disponendo l'esclusione dell'elaborato peritale e ordinando un nuovo esame dibattimentale del perito. A fronte dell'annullamento delle operazioni peritali, la dott.ssa Am.Ma. non sarebbe stata però escussa, sicché il consenso prestato dalle parti alla rinnovazione degli atti all'udienza del 17 febbraio 2021 dinanzi al giudice Da. non avrebbe potuto determinare l'utilizzabilità dell'esame reso dal perito il 13 giugno 2018. Inoltre, all'atto del mutamento del Giudice, all'udienza del 17 febbraio 2021 le parti si sarebbero riportate alle pregresse richieste istruttorie, tra le quali non vi era l'audizione del perito, ammesso ex art. 507 cod. proc. pen. con ordinanza del 20 settembre 2017. E dal momento che, dopo il mutamento del giudice, all'udienza del 26 settembre 2018, davanti alla dott.ssa Kildani, la difesa non aveva prestato il consenso alla utilizzazione degli atti istruttori svolti e che le parti avevano chiesto solo l'escussione dei propri testi, nessuna utilizzabilità della perizia avrebbe potuto consentirsi, non essendovi tra le richieste istruttorie delle parti quella di perizia grafologica o l'esame del perito. 2.4. Con il quarto motivo, il ricorso deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. , la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione ai contenuti delle prove e degli atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame. La sentenza farebbe riferimento a un fatto diverso da quello indicato ne! capo di imputazione, che riguarderebbe il rilascio non della carta di identità per il figlio, quanto del documento d'identità per sé. Inoltre, quanto alle dichiarazioni di Ma.Cr. , in modo contraddittorio la Corte riterrebbe che non sussistano elementi per viziarne la genuinità, pur riconoscendo l'esistenza di un "rapporto di acredine" (pag. 5) e finendo illogicamente per negare che tale rapporto possa aver condizionato la ricostruzione dei fatti. Inoltre, la persona offesa sarebbe apertamente smentita dalle dichiarazioni del dipendente comunale Em.Li. , che riferirebbe di non avere mai incontrato la Ma.Cr. e di non ricordare che ella si sia recata in ufficio per chiedere spiegazioni. Nel corso del controesame del 20 settembre 2017 e in esito a una contestazione circa quanto riportato in denuncia, la Ma.Cr. avrebbe dichiarato che la richiesta di sottoscrivere il modulo le pervenne da Di.Sa. il 29 dicembre 2013, due giorni dopo la data in contestazione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati. 2. Secondo la ricostruzione dei fatti compiuta in sede di merito, a fronte del diniego della ex moglie, Ma.Cr. , di prestare il proprio consenso ai fini del rilascio al loro figlio minorenne della carta di identità valido per l'espatrio, Di.Sa. aveva consegnato a un impiegato dell'ufficio anagrafe del comune di Gela un modulo di autodichiarazione recante la firma contraffatta della donna, presentando, nel medesimo frangente, i documenti di costei. In questo modo, l'imputato aveva indotto in errore il dipendente comunale in relazione all'esistenza delle condizioni per il rilascio, a beneficio del figlio minorenne, di una carta di identità valida per l'espatrio. A sostegno di tale ricostruzione, oltre alle dichiarazioni della Ma.Cr. , le sentenze di merito hanno valorizzato quelle rese dal perito grafologo, Am.Ma. , e dal teste Em.Li. , impiegato comunale presso l'ufficio anagrafe del comune di Gela. 3. Da tale esposizione preliminare devono trarsi due corollari. 3.1. li primo concerne la manifesta infondatezza del quarto motivo di ricorso in relazione ai perimetro della contestazione. Infatti, dalla esposizione che precede, confermata dalla piana lettura del capo di imputazione, non emerge affatto che, come invece sostenuto dal ricorrente, essa riguardasse il rilascio della carta di identità del ricorrente e non quella del figlio minorenne. 3.2. Il secondo attiene alla decisività, nella complessiva ricostruzione dei fatti, delle dichiarazioni rese dal perito grafologo, la dott.ssa Am.Ma. , la quale aveva confermalo, con assoluta certezza, che la scrittura del documento, compresa la sottoscrizione a nome di "Ma.Cr. ", fosse riconducibile a Di.Sa. (v. pag. 5 della sentenza di appello). Rispetto a tali dichiarazioni, il terzo motivo di ricorso censura, fondatamente, l'errore commesso dalla Corte di appello per aver ritenuto utilizzabili le dichiarazioni che il perito aveva reso in dibattimento in data 13 giugno 2018. Tale decisione, invero, non considera il fatto che il Giudice di primo grado, all'udienza del 4 marzo 2020, aveva non soltanto ordinato l'espunzione dell'elaborato peritale dal fascicolo del dibattimento, ma aveva anche disposto la rinnovazione dell'esame del perite che tuttavia non era mai avvenuta. Rispetto a tale situazione, peraltro, il consenso alla rinnovazione degli atti prestato dall'imputato all'udienza del 17 febbraio 2021 non poteva avere dispiegato alcun effetto sanante. Infatti, secondo quanto emerge dalla lettura del verbale dell'udienza del 4 marzo 2020, a fronte del dissenso espresso dal Difensore di Di.Sa. all'utilizzabilità della relazione peritale e delle dichiarazioni rese dalla dott.ssa Am.Ma. in sede di esame testimoniale, il Tribunale monocratico (allora composto dalla dott.ssa Gu.) aveva disposto la espunzione dal fascicolo del dibattimento della perizia, ordinando "ex art. 507 c.p.p. l'audizione del perito Am.Ma.", con ciò accogliendo la richiesta difensiva di non utilizzare, ai fini della decisione, le prove raccolte dinnanzi a un giudice diverso. Successivamente, però, all'udienza del 17 febbraio 2021, le parti avevano prestato il proprio consenso alla utilizzazione da parte del nuovo giudice, la dott.ssa Da., delle prove che erano state, in precedenza, assunte. Tuttavia, tale consenso concerneva l'utilizzazione delle prove assunte dinnanzi alla dott.ssa Gu., che aveva composto il Tribunale prima della dott.ssa Da., ma non anche di "recuperare" le attività istruttorie compiute in momenti ancora antecedenti, rispetto alle quali la difesa dell'imputato, come detto, aveva espressamente negato tale consenso all'udienza del 4 marzo precedente. In altri termini, il dissenso espresso dall'imputato all'utilizzabilità della relazione peritale e delle dichiarazioni rese dal perito, così come il provvedimento con il quale il Tribunale ne aveva ordinato l'espunzione dal fascicolo del dibattimento, disponendo altresì il nuovo esame del perito, non sono stati in aicun modo incisi dal successivo consenso alla rinnovazione degli atti prestato dall'imputato, come invece ritenuto dalla Corte di appello. Ne consegue che la decisione del Tribunale e della Corte di appello di fondare la decisione anche sulle risultanze dell'esame peritale deve essere censurata, con conseguente illogicità della motivazione, atteso il ruolo decisivo che, nella complessiva articolazione del ragionamento probatorio, hanno assunto le dichiarazioni della dott.ssa Am.Ma. , rendendosi, dunque, necessario un nuovo vaglio dei complessivo materiale istruttorio da parte del Giudice di merito. 4. Dall'accoglimento del terzo motivo di ricorso consegue che devono ritenersi assorbiti, ma non preclusi, i due ulteriori motivi di ricorso, con cui la difesa deduce il vizio di motivazione sia del provvedimento di revoca dell'ordinanza di ammissione della prova testimoniale richiesta dalla difesa, sia del rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in sede di appello. Invero, entrambe le decisioni sono state fondate sulla ritenuta completezza delle acquisizioni istruttorie e, dunque, sulla asserita superfluità delle acquisizioni testimoniali invocate dalla difesa dell'imputato. Tale motivazione, che sarebbe stata certamente adeguata ove la piattaforma istruttoria fosse stata quella posta a fondamento della decisione qui impugnata, si rivela nondimeno carente per effetto della inutilizzabilità della relazione e dell'esame peritali, sicché la relativa valutazione dovrà essere nuovamente articolata in sede di giudizio di rinvio, allorché il Giudice di merito dovrà valutare se procedere nuovamente all'esame del perito se integrare in qualche modo l'istruttoria, valutando altresì, alla luce della decisione sul punto, se sia necessario procedere all'esame dei testi della difesa o se debba essere confermato il giudizio di superfluità espresso in precedenza. 5. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, sicché la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio, per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Caltanissetta. 5.1. Ai sensi dell'art. 52, D.Lgs. n. 196 del 2003, in caso di diffusione del presente provvedimento sarà necessario omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, in quanto imposto dalla legge venendo in rilievo la presenza, nell'odierno giudizio, di soggetti minorenni. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Caltanissetta. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in data 22 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1702 del 2021, proposto da Au. Po. Sa. (C.A.) Società Cooperativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Au. Zi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania sezione - Salerno, sez. I, n. 740/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 marzo 2024 il Cons. Giuseppina Luciana Barreca e udito per la parte appellante l'avvocato Zi.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale amministrativo regionale della Campania - sezione staccata di Salerno ha respinto il ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo proposto dalla cooperativa C.A. s.r.l. - Cooperativa Au. Po. Sa. (d'ora innanzi anche C.A.) contro il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per l'annullamento del decreto ingiuntivo del T.A.R. Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sezione Prima, n. 1260/2015 del 20/11/2015, recante intimazione alla C.A. di pagamento, in favore del Ministero, della somma di euro 192.445,37, oltre interessi, a far data dalla messa in mora, e fino al soddisfo, nonché delle spese e dei compensi della procedura, liquidati in complessivi euro 750,00, oltre accessori di legge. 1.1. Nella sentenza è premesso che: - la presente controversia rinviene la sua scaturigine nei decreti legge emessi tra il 1990 e 1995 con cui lo Stato italiano riconobbe, con distinti provvedimenti normativi, alle imprese esercenti l'autotrasporto di merci per conto di terzi, per gli esercizi fiscali 1992-1993-1993, un credito d'imposta da fare valere ai fini del pagamento dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche, dell'imposta locale sui redditi e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché in sede di versamento delle ritenute alla fonte operate dai sostituti d'imposta, sulle retribuzioni dei dipendenti e sui compensi da lavoro autonomo; - successivamente in esecuzione delle decisioni della Commissione delle Comunità europee n. 93/496/CEE del 9 giugno 1993 e n. 97/270/CE del 22 ottobre 1996, e delle sentenze della Corte di Giustizia Europea del 29 gennaio 1998 e del 19 maggio 1999, che avevano dichiarato l'illegittimità degli aiuti di Stato concessi sotto forma di credito di imposta agli autotrasportatori negli anni 1992-1993-1994, lo Stato italiano era stato condannato a recuperare gli importi illegittimamente erogati; - nell'anno 2000 la Commissione europea, pertanto, aveva attivato nei confronti dello Stato la procedura di infrazione ex art. 228 TCE a causa della mancata esecuzione della sentenza della Corte di giustizia del 29 gennaio1998, non avendo proceduto al recupero degli aiuti illegittimamente concessi; - per evitare la procedura di infrazione, nell'anno 2002, sentite anche le associazioni di categoria dell'autotrasporto, allo scopo di dare esecuzione alle pronunce richiamate, era stato emanato il decreto legge 20 marzo 2002, n. 36, convertito con modificazioni dalla legge 17 maggio 2002, n. 96, recante "Disposizioni urgenti per ottemperare ad obblighi comunitari in materia di autotrasporto", con cui erano state dettate le modalità per il recupero delle somme già destinate agli autotrasportatori sotto forma del riconoscimento di un credito di imposta per gli anni 1992,1993 e 1994; - in applicazione delle suddette disposizioni, il Ministero dei Trasporti, con nota del 23/03/2007 (ricevuta in data 06/04/2007) prot. n. 0028659, aveva richiesto alla società ricorrente la restituzione del credito d'imposta relativo al triennio 1992-1993-1994, per l'importo complessivamente determinato in Euro 192.445,37; - successivamente, nell'anno 2013, il Ministero dei Trasporti aveva proposto domanda monitoria innanzi al Tribunale Ordinario di Salerno iscritta al n. 1204/2013 R.G. ottenendo l'emissione del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo n. 0973/2013, ritualmente opposto dalla odierna ricorrente; - all'esito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il Tribunale Ordinario di Salerno aveva pronunciato, in data 28/02/2014, la sentenza n. 0723/2014, dichiarando il proprio difetto di giurisdizione e revocando l'opposto decreto ingiuntivo; - il Ministero, allora, aveva ottenuto dal T.A.R. il decreto ingiuntivo n. 1260/2015 con cui era stato intimato alla odierna ricorrente il pagamento della somma di Euro 192.445,37 oltre interessi a far data dalla messa in mora, nonché le spese di procedura liquidate in complessivi Euro 750,00 oltre accessori di legge. 1.2. Avverso il predetto decreto ingiuntivo, la C.A. ha proposto ricorso in opposizione notificato al Ministero resistente in data 19/02/2016 e depositato in data 03/02/2016, con cui ha eccepito: 1) in via pregiudiziale: Inefficacia del decreto n. 1260/2015 per violazione degli artt. 643 comma 2 e 644 c.p.c.; 2) in via pregiudiziale: Inammissibilità del ricorso per decreto ingiuntivo avanti il T.A.R. per formazione del giudicato e acquiescenza del Ministero alla sentenza declinatoria di giurisdizione con indicazione del giudice tributario, come quello dotato di potestas iudicandi; 3) in via pregiudiziale: Nullità e/o illegittimità del decreto ingiuntivo n. 1260/2015 per difetto di giurisdizione del giudice adito per non appartenere la presente controversia alla giurisdizione del giudice amministrativo; prevalenza del richiamo alla natura tributaria del credito sulla configurazione dell'attività di recupero dell'aiuto di Stato; 4) Estinzione del diritto alla restituzione dell'aiuto di Stato; 5) Estinzione del credito per decadenza e/o prescrizione ex art. 57 D.p.r.633/1972 e/o 43 D.p.r. 600/1973 e degli artt. 17 e 25 D.p.r. 602/1973; 6) Nel merito: Infondatezza del credito ingiunto; 7) Nullità e/o illegittimità del D.I. n. 1260/15 per inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa. Difetto assoluto della esistenza del diritto. Assoluta carenza di prova dell'esistenza del diritto; 8) Nullità e/o illegittimità del D.I. n. 1260/15 per violazione dell'art. 633, comma 1, n. 1 c.p.c. Assoluto difetto dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità del credito. Carenza di prova scritta; 9) Profili di illegittimità costituzionale del D.L. 36/2002 conv. nella legge n. 96/2002 per contrasto con il parametro di cui all'art. 3 Cost.; 10) Illegittimità del Regolamento CE n. 1998/06. 1.3. Il tribunale - dato atto della resistenza del Ministero e dell'attività istruttoria svolta dal collegio mediante ordine rivolto al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti di esibire, ai sensi dell'art. 63, comma 2, c.p.a. e dell'art. 210 c.p.c., la documentazione comprovante l'avvenuta erogazione in favore della opponente del contestato aiuto di Stato che si intendeva recuperare e, di conseguenza, la titolarità del diritto di credito azionato nonché ogni altro atto e dato utile ai fini della determinazione del relativo quantum - ha, in limine, disatteso l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dall'opponente, ritenendo la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e non vincolante la sentenza con cui il Tribunale di Salerno, in data 28.2.2014 (erroneamente indicata come 2.8.2014), aveva declinato la giurisdizione in favore del giudice tributario. 1.3.1. Ha quindi respinto l'eccezione di inefficacia del decreto per omessa notifica del ricorso, ritenendo che, ai sensi degli artt. 643 e 644 c.p.c., l'omessa allegazione del ricorso non potesse comportare l'inefficacia del decreto che era stato ritualmente notificato. 1.4. Nel merito, dopo avere ricostruito la disciplina degli aiuti di Stato, come interpretata dalla giurisprudenza comunitaria e da quella interna, il tribunale ha respinto tutti i restanti motivi di opposizione a decreto ingiuntivo ed ha reputato non sussistenti "margini per ritenere rilevante e non manifestamente infondata la sollevata questione di costituzionalità per contrasto del D.l. 36/2002 con gli artt. 3 e 41 della Costituzione". Ancora, ha disatteso la richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 del Trattato CE, relativamente al Regolamento CE n. 1998/2006, come interpretato e richiamato dall'amministrazione. 1.5. Respinto perciò il ricorso in opposizione proposto dalla C.A. s.r.l. - Cooperativa Au. Po. Sa., il T.a.r. ha confermato il decreto ingiuntivo emesso nei confronti di quest'ultima su richiesta del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. 1.5.1. Le spese processuali sono state compensate per giusti motivi. 2. La C.A. ha proposto appello con quattro motivi. 2.1. Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha depositato atto di costituzione di mera forma. 2.2. All'udienza dell'8 marzo 2024 la causa è stata discussa e assegnata a sentenza, previo deposito di memoria dell'appellante. 3. Col primo motivo la Cooperativa appellante si duole del mancato accoglimento dell'eccezione di rito, concernente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. 3.1. Si critica la sentenza di primo grado che, a fondamento della ritenuta giurisdizione esclusiva, ha posto l'art. 49 della legge n. 234 del 2012 e ha disatteso la statuizione della sentenza del Tribunale di Salerno del 28 febbraio 2014 di indicazione del giudice tributario, come giudice fornito di giurisdizione. 3.1.1. Quanto alla richiamata disposizione, che, intervenendo sull'art. 133 del codice del processo amministrativo, vi ha aggiunto la lettera z-sexies, l'appellante sostiene che -in base a quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 5-6 luglio 2004, n. 204 e dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 29 gennaio 2014, n. 6 - la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sussisterebbe soltanto laddove vi sia una correlazione ovvero un intreccio tra diritti dei singoli e interessi pubblici, tale da giustificare ex art. 103 Cost., l'eccezione alla giurisdizione ordinaria sui diritti soggettivi; nel caso di specie, sarebbero in rilievo soltanto diritti soggettivi, atteso che la p.a. ha il compito di procedere al recupero degli aiuti di Stato, senza effettuare alcun apprezzamento discrezionale circa l'an, il quid e il quomodo dell'erogazione, con esclusione dell'esercizio di un potere amministrativo. La conseguenza sarebbe l'operatività dei "normali" criteri di riparto della giurisdizione, fondati sulla natura delle situazioni soggettive azionate. Aggiunge l'appellante che in materia di aiuti di Stato vi sarebbe un indirizzo giurisprudenziale diffuso secondo cui quando il recupero dei contributi discende in modo diretto e automatico dall'accertamento di presupposti vincolanti si sarebbe in presenza di posizioni di diritto soggettivo, sottratte alla giurisdizione amministrativa (Cons. Stato, IV, 29 dicembre 2006, n. 8225 e id., III, 8 settembre 2015, n. 4192, citate nel ricorso in appello). Viene poi citata la sentenza del Tribunale civile di Roma n. 20770/2012 del 26/31 ottobre 2012, che ha ritenuto devoluto alla giurisdizione del giudice tributario il recupero degli aiuti di Stato erogati sotto forma di crediti di imposta, ai sensi dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato all'art. 12, comma 2, della legge n. 448 del 2001. 3.1.2. L'appellante evidenzia che i principi espressi in tale ultimo precedente di merito (il quale peraltro richiama la sentenza n. 9841/2011 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) sono stati condivisi, in riferimento al caso di specie, dal Tribunale ordinario di Salerno che, con la sentenza 28 febbraio 2014, n. 723, nel pronunciare il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice tributario, relativamente al primo dei decreti ingiuntivi emessi su richiesta del M.I.T. nei confronti della C.A., aveva valorizzato la natura tributaria dell'aiuto di Stato, erogato mediante credito d'imposta, fruibile quindi esclusivamente nell'ambito del rapporto tributario e rientrante nell'area delle "agevolazioni" i cui provvedimenti di revoca o di diniego possono essere impugnati dinanzi al giudice tributario ai sensi della lettera h) dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992. 3.2. Il motivo è infondato. L'art. 49, comma 2, della legge 24 dicembre 2012, n. 234, così come modificato dall'art. 35, comma 3, della legge 7 luglio 2016, n. 122, ha aggiunto, all'art. 133 c.p.a. la seguente disposizione, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: "z sexies) le controversie relative agli atti ed ai provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione dell'articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione di recupero di cui all'articolo 16 del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015 (n. d.r. nella versione originaria il riferimento era "all'articolo 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999"), a prescindere dalla forma dell'aiuto e del soggetto che l'ha concesso". Trattandosi di norma processuale - in mancanza di una disposizione transitoria nella legge n. 234 del 2012 - essa, in base al principio tempus regit actum, è applicabile a tutte le controversie introdotte dopo la sua entrata in vigore. Poiché non è in contestazione che la presente controversia riguardi un decreto ingiuntivo richiesto in esecuzione di una decisione di recupero di aiuti di Stato e poiché il decreto ingiuntivo opposto è stato richiesto e ottenuto dopo l'introduzione della modifica del codice del processo amministrativo, trova applicazione l'art. 133, lett. z sexies c.p.a. 3.2.1. L'appellante non contesta l'applicabilità ratione temporis di tale disposizione, ma sembra sostenere che, malgrado la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la disposizione sarebbe derogata dalla natura di diritto soggettivo della posizione della società ricorrente dedotta in giudizio, poiché la controversia non concernerebbe l'esercizio di un potere amministrativo. L'assunto è infondato. Va condivisa la tradizionale impostazione secondo cui, in tema di aiuti di Stato, la situazione soggettiva dei beneficiari è di interesse legittimo quando l'erogazione dei contributi comporti valutazioni ed apprezzamenti discrezionali, mentre è di diritto soggettivo quando le disposizioni comunitarie e nazionali determinano in modo diretto ed automatico obbligazioni di diritto pubblico. Tuttavia nel caso di specie, in cui l'aiuto di Stato è consistito in crediti d'imposta utilizzabili in presenza di presupposti vincolanti ed in cui è in contestazione l'obbligazione di restituzione del beneficio già accordato, la controversia ha ad oggetto di diritti soggettivi di natura patrimoniale. Tuttavia, proprio in ragione delle incertezze in tema di individuazione del giudice avente giurisdizione derivanti in concreto dalla possibile varietà delle forme di erogazione dell'aiuto di Stato e dalla diversità dei soggetti concedenti, l'art. 49 della legge n. 234 del 2012 ha previsto la giurisdizione esclusiva come incondizionata, precisando che la devoluzione al giudice amministrativo opera "a prescindere dalla forma dell'aiuto e del soggetto che l'ha concesso". Inoltre, l'art. 50 della stessa legge ha stabilito che "I provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione dell'articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea possono essere impugnati davanti al tribunale amministrativo regionale competente per territorio". In definitiva si tratta di una materia "particolare", ai sensi dell'art. 103 della Costituzione, indicata come devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo da apposita legge, della cui tenuta costituzionale non pare legittimo dubitare (cfr. in tale senso, anche Cass. S.U., ord., 13 dicembre 2016 n. 25516). Alla norma in commento non si attagliano le censure che hanno portato alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della normativa oggetto della sentenza della Corte Costituzionale 5-6 luglio 2004, n. 204: questa decisione è da ritenersi impropriamente richiamata dall'appellante. Peraltro, nell'atto di appello non è esplicitata alcuna questione di illegittimità costituzionale, malgrado la stessa sia stata specificamente affrontata ed esclusa dalla sentenza di primo grado (nella cui condivisibile motivazione è detto, a proposito dell'art. 49 della legge n. 234/2012, che "La varietà delle forme di aiuto e l'intreccio di norme, di ordinamenti, di amministrazioni e di situazioni giuridiche concrete, spiega, in termini costituzionali (art. 103 Cost.), la scelta da parte del legislatore della attribuzione della giurisdizione esclusiva ad un giudice unico delimitando, d'altro canto, alcuni confini di tale giurisdizione, operando quest'ultima entro un ambito preciso poiché gli atti ed i provvedimenti nazionali di recupero sono adottati, per definizione dell'art. 48 e dell'art. 49 l. 234/2012, "in esecuzione" di una decisione di recupero della Commissione europea."). Non è pertinente nemmeno il richiamo da parte dell'appellante della sentenza dell'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato del 29 gennaio 2014, n. 6 poiché tale decisione atteneva al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche per le quali non vi è un'apposita previsione di giurisdizione esclusiva. Le altre sentenze richiamate dall'appellante riguardanti il riparto di giurisdizione in materia di recupero degli aiuti di Stato, comprese quelle che hanno ritenuto la giurisdizione del giudice tributario (cfr. Cass. S.U. 5 maggio 2011, n. 9841), attengono tutte a controversie instaurate prima dell'entrata in vigore dell'art. 49 della legge n. 234 del 2012 (mentre non è rilevante il precedente di questo Consiglio di Stato, III, 8 settembre 2015, n. 4192 poiché non concernente il recupero di aiuti di Stato, ma la concessione di aiuti comunitari). 3.2.2. La sentenza del Tribunale civile di Salerno del 28 febbraio 2014, n. 723, indicando come giudice avente giurisdizione il giudice tributario, si è basata sulla giurisprudenza non più attuale, senza tenere conto della norma sopravvenuta dell'art. 49 della legge n. 234 del 2012. Comunque il Tribunale di Salerno si è pronunciato in merito ad un decreto ingiuntivo, pur riguardante il medesimo credito di recupero di aiuti di Stato, diverso dal decreto ingiuntivo oggetto del presente giudizio di opposizione, in quanto il Ministero, dopo la declinatoria di giurisdizione, ha avanzato un nuovo ricorso per decreto ingiuntivo al giudice amministrativo, avente la giurisdizione esclusiva. Giova precisare, riguardo alla detta sentenza del Tribunale di Salerno, che non è stata riproposta in appello l'eccezione di giudicato sollevata come motivo di ricorso in primo grado, né è stato censurato il rigetto del T.a.r., che (in linea con la giurisprudenza di legittimità di cui a Cass. S.U. 2 marzo 2018, n. 4997 e altre) ha escluso la portata vincolante delle sentenze del giudice di merito che declinano la giurisdizione senza decidere nel merito e ha precisato che, anche quando la pronuncia sulla giurisdizione si coniughi con una di merito, l'efficacia di giudicato presuppone l'identità, non solo soggettiva, ma anche oggettiva di cause; evenienza, quest'ultima da escludere per quanto detto sulla diversità dei decreti ingiuntivi opposti. 3.3. Il primo motivo di appello va quindi respinto. 4. Prima di trattare dell'eccezione di prescrizione, di cui al secondo motivo, conviene, per comodità espositiva, dire dei motivi terzo e quarto di appello, da trattare congiuntamente perché connessi. 4.1. Col terzo motivo, l'appellante denuncia violazione e falsa applicazione del d.l. 20 marzo 2002, n. 36 ed eccesso di potere e carenza di istruttoria per aver omesso il Ministero di compiere le necessarie e adeguate attività di verifica preordinate all'accertamento del credito d'imposta oggetto di recupero. Richiamato il contenuto della sentenza della Corte di Giustizia CE, sez. VI, 29 gennaio 1998 (punti 18-21) in tema di accertamenti da effettuarsi presso le singole imprese destinatarie degli aiuti e di effettiva possibilità per lo Stato italiano di recuperare il credito di imposta utilizzato, l'appellante sostiene che l'attività istruttoria poi compiuta dal Ministero non solo non appare conforme all'istruttoria prevista ex lege, ma neppure proverebbe e dimostrerebbe in maniera irrefutabile che la Cooperativa ricorrente abbia effettivamente utilizzato - e in quale misura - nel periodo 1992-1994 il credito d'imposta oggetto di recupero. Il Ministero si sarebbe limitato ad accertare soltanto il possesso da parte della ricorrente di un certo numero di mezzi per l'esercizio dell'attività di autotrasporto, pervenendo, fra l'altro, anche a tale riguardo, a conclusioni inattendibili. In particolare, ad onta di quanto dichiarato nelle informative fornite alla Commissione, nell'operato e nelle produzioni ministeriali non vi sarebbe traccia del coinvolgimento degli uffici competenti (centri di servizio, uffici delle imposte dirette, uffici IVA) e tanto meno della complessiva attività ricostruttiva e di verifica del credito d'imposta effettivamente utilizzato, come confermato dalla scarna e non intellegibile documentazione offerta ex adverso in comunicazione. 4.1.1. Con riferimento al d.l. 20 marzo 2002, n. 36, convertito dalla legge 17 maggio 2002, n. 96, emanato a distanza di anni dalle decisioni della Corte di Giustizia imponenti l'obbligo di recupero, l'appellante sostiene che il Ministero ha adottato il provvedimento amministrativo di quantificazione del credito d'imposta da restituirsi da parte della C.A. a conclusione di un accertamento difforme da quanto previsto dalla normativa speciale, svoltosi in sede istruttoria con gravi lacune, con evidenti incongruenze e incompletezza dei dati tecnici relativi alla posizione fiscale della ricorrente, necessari a supporto dell'atto amministrativo adottato e dei relativi conteggi. Dopo aver premesso che l'onere della prova incomberebbe, nel caso di specie, sull'amministrazione procedente, la Cooperativa osserva che, comunque, dato il decorso del termine di cui all'art. 2220 cod. civ. relativo all'obbligo di tenuta delle scritture contabili, l'impresa non era in condizioni di ricostruire il proprio storico contabile e fiscale, per gli anni 1992-1994, senza peraltro che nel caso di specie si possa richiamare in senso contrario l'art. 22, comma 2, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sulla conservazione oltre il termine delle scritture contabili in caso di avvio di un procedimento di verifica, in quanto quest'ultimo non era stato medio tempore instaurato. Quindi, ad avviso dell'appellante, non sarebbero più accertabili né esisterebbero evidenze né dell'effettivo numero degli automezzi di proprietà dell'impresa oggetto di accertamento, né dell'effettivo periodo di possesso, né dei corrispondenti crediti d'imposta, né delle dichiarazioni dei redditi di quegli anni. 4.1.2. In conclusione, i provvedimenti amministrativi che hanno determinato il credito d'imposta oggetto di recupero sarebbero affetti da carenza istruttoria e motivazionale relativamente al credito d'imposta concretamente fruito. 4.2. Col quarto motivo si critica la sentenza nella parte in cui ha ritenuto assolto da parte del Ministero dei Trasporti l'onere probatorio circa l'effettiva percezione da parte di C.A. dell'aiuto di Stato illegittimo, nonché circa il quantum effettivamente fruito a titolo di "bonus fiscale". Secondo l'appellante il credito d'imposta utilizzato sarebbe stato considerato dal T.a.r. solo in via presuntiva superiore all'importo de minimis di cui all'art. 3 del Regolamento Europeo n. 1407/2013 (fissato in Euro 100.000 nell'arco di tre esercizi finanziari), pur in assenza di idonea documentazione a supporto. 4.2.1. Ancora, ad avviso dell'appellante, la sentenza sarebbe contraddittoria perché, dopo aver ritenuto onerata della prova di non aver fruito del credito d'imposta la Cooperativa, ha poi genericamente affermato che il Ministero aveva compiutamente assolto all'onere della prova con la produzione dei documenti di cui all'ordinanza n. 1005/2018. Dopo aver ribadito che l'onere della prova della fruizione del beneficio spettava al Ministero, l'appellante contesta che la documentazione prodotta nel corso del giudizio consentisse di ritenere provata l'effettiva fruizione del beneficio fiscale, così come dell'importo ingiunto col d.i. opposto, per le ragioni illustrate in ricorso. Prosegue, quindi, escludendo che si possa configurare un'inversione dell'onere della prova in capo a C.A., per i motivi pure illustrati in ricorso. Conclude ribadendo le eccezioni formulate ab initio in punto di infondatezza del credito azionato, mancante dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità in violazione dell'art. 633, comma 1, c.p.c., e tale rimasto anche all'esito della fase a contraddittorio pieno. 4.3. I motivi - che si completano con ulteriori rilievi concernenti l'uso asseritamente illegittimo da parte del Ministero delle prerogative riconosciutegli dalla normativa speciale del d.l. n. 36 del 2002 - sono infondati. 4.3.1. In punto di fatto va premesso che, a seguito delle decisioni della Commissione delle Comunità Europee e delle successive sentenze della Corte di Giustizia (su cui si tornerà ), e dell'apertura della procedura d'infrazione attivata nel 2002 ai sensi dell'art. 228 TCE, è stato emanato il d.l. 20 marzo 2002, n. 36 (Disposizioni urgenti per ottemperare ad obblighi comunitari in materia di autotrasporto), convertito con modificazioni dalla legge 17 maggio 2002, n. 96, col quale sono stati individuati criteri e modalità per effettuare il recupero delle somme indebitamente erogate agli autotrasportatori. Il compito è stato affidato al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che - tenuto conto che, per effetto delle disposizioni legislative richiamate all'art. 1, il credito fiscale era stato istituito in favore delle imprese esercenti l'autotrasporto di merci per conto terzi iscritte all'Albo nazionale di cui alla legge 6 giugno 1974, n. 298 e s.m.i. ed era stato commisurato al numero degli automezzi utilizzati nella loro attività caratteristica (con importo stabilito in percentuale rispetto al costo effettivo dei carburanti e lubrificanti, al netto di IVA, e con l'individuazione di limiti massimi per ciascuna delle quattro categorie in cui erano stati ripartiti i veicoli) - doveva individuare i soggetti beneficiari e gli importi da restituire, inserendoli in un apposito elenco, secondo modalità tecniche da stabilirsi con decreto dirigenziale. Il Ministero doveva quindi comunicare agli interessati l'inserimento nell'elenco, per eventuali osservazioni, e successivamente comunicare le modalità di pagamento degli importi determinati; in mancanza del pagamento, era prevista la richiesta ministeriale dell'emissione del decreto ingiuntivo. 4.3.1. Risulta dagli atti depositati in primo grado dall'Avvocatura distrettuale dello Stato che gli elenchi sono stati formati utilizzando gli elementi desumibili dalla banca dati del Ministero dei Trasporti quanto all'individuazione dei soggetti passivi dell'attività di recupero e del numero di veicoli da ciascuno dei posseduti, ripartiti per classi di appartenenza; gli importi da recuperare, unitari e complessivi, suddivisi per anno di riferimento, sono stati determinati prendendo come base la quota dovuta per ciascun veicolo, in relazione alla fascia di appartenenza (calcolata ripartendo le somme complessivamente disponibili per ciascuno degli anni in contestazione, secondo i criteri specificati negli atti prodotti dal Ministero), moltiplicata per il numero di veicoli posseduti da ogni singola impresa. 4.4. Il metodo di calcolo è, in effetti, di tipo probabilistico-induttivo e si spiega - in riferimento alla previsione dell'art. 249, comma 4, del TCE, che obbliga lo Stato membro ad adottare ogni misura idonea ad assicurare l'esecuzione della decisione di recupero di aiuti di Stato illegali - con l'esigenza di superare le difficoltà di recupero (già rappresentate in sede giudiziaria alla Corte di Giustizia, come da relative sentenze, e successivamente fatte oggetto di consultazioni, oltre che con la Commissione europea, con le associazioni di categoria dell'autotrasporto) con criteri di calcolo che consentissero di contenere i tempi dei relativi accertamenti e assicurassero la parità di trattamento dei soggetti passivi dell'azione di recupero, garantendone la partecipazione al relativo procedimento. Dato ciò, non sono fondate le doglianze di parte appellante, sia perché la Cooperativa, già in ambito procedimentale, avrebbe potuto confutare i dati posti a fondamento del calcolo degli uffici del Ministero, sia perché quest'ultimo, nel corso del giudizio, ha dato prova dell'effettiva utilizzazione del credito d'imposta da parte della C.A. per gli anni in contestazione. 4.4.1. Quanto al primo profilo, fermo restando che l'amministrazione era vincolata al compimento dell'istruttoria imposta dalle richiamate disposizioni del d.l. n. 36/2002 (cui hanno dato attuazione i decreti dirigenziali 29 gennaio 2007 n. 291 e 10 ottobre 2007 n. 3442), il Ministero dei Trasporti risulta avervi adempiuto (sia pure non nel rispetto dei termini che era stati fissati, senza tuttavia previsione di sanzioni per l'inosservanza), mediante l'adozione nei confronti della C.A. dei seguenti atti (tutti prodotti in primo grado): 1) nota prot. 56269 del 27 novembre 2006 di comunicazione di avvio di procedimento di recupero; 2) nota prot. 28659 del 23 marzo 2007 con indicazione degli importi da restituire; 3) decreto prot. 04561 del 20 dicembre 2007 di determinazione dell'importo da restituire senza interessi; 4) nota prot. 6806 del 24 gennaio 2008 recante modalità e termini di pagamento; 5) nota prot. 18658 dell'11 agosto 2011 di invito a provvedere al pagamento, in mancanza del quale si sarebbe provveduto con domanda di ingiunzione. A seguito della ricezione della nota del 23 marzo 2007, che nel ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo la ricorrente dichiara di aver avuto in data 6 aprile 2007, la Cooperativa inviò le proprie osservazioni, delle quali dà atto il decreto ministeriale del 20 dicembre 2007. Tuttavia, non si attivò per smentire, mediante la produzione di idonea documentazione, né i dati (tratti dalle banche dati del Ministero) concernenti il possesso dei mezzi di trasporto né il dato (pur presuntivo) dell'utilizzazione del credito d'imposta nei limiti consentiti. In proposito non è fondato l'assunto dell'appellante di non essere stata in grado di ricostruire analiticamente il proprio storico contabile e fiscale in ordine agli anni d'imposta in contestazione per il decorso del termine decennale di conservazione delle scritture contabili di cui all'art. 2220 cod. civ. In senso sfavorevole alla difesa della Cooperativa depone l'art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, che impone al contribuente la conservazione delle scritture contabili obbligatorie sino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta. Sull'interpretazione della norma si è pronunciata, in riferimento proprio alla fattispecie oggetto del presente contenzioso, la sentenza della Corte di Cassazione, V, 27 febbraio 2003, n. 5899, secondo cui il detto art. 22, comma 2 "va interpretato nel senso che l'ultrattività dell'obbligo di conservazione oltre il termine decennale di cui all'art. 2220 c.c., termine pure specificamente previsto, agli effetti tributari, dall'art. 8, comma 5, della L. n. 212 del 2000, opera solo se l'accertamento, iniziato prima del decimo anno, non sia ancora stato definito a tale scadenza. Ne deriva, diversamente, la protrazione dell'obbligo per una durata direttamente dipendente dalla volontà dell'Ufficio attesa la possibilità per l'Amministrazione finanziaria di procedere ad accertamento nei termini di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973. In questo caso, a fronte della concessione degli aiuti negli anni 1992, 1993, 1994, poi dichiarati illegittimi con le decisioni della Commissione... n. 93/496/CE del 9 giugno 1993 e n. 97/270/CE del 22 ottobre 1996, si deve ritenere che la legittimità degli aiuti e quindi la pendenza dell'accertamento tributario, essendo aiuti di Stato fiscali fosse sub iudice appunto dalle date in cui la Commissione ne ha contestato la contrarierà al diritto Unionale. E tale pendenza, in allora esistente e tuttora perdurante, sino alla definizione del giudizio, rendeva e rende, non essendo definito l'accertamento, perdurante l'obbligo del contribuente di conservare la documentazione contabile ad esso connessa.". Siffatta conclusione - ritenuta dalla sentenza coerente con i principi dell'ordinamento tributario - è vieppiù condivisibile in un contesto, quale quello degli aiuti di Stato, in cui è richiesto all'operatore economico beneficiario di un aiuto di collaborare con l'autorità amministrativa per consentire la verifica della legittimità di tale fruizione (cfr. Cons. Stato, III, n. 2401/15 e le altre sopra citate). Tenendo conto delle censure dell'appellante, è bene precisare che non si tratta di un'inversione dell'onere della prova sulla fruizione del beneficio, dato che questa è da ritenersi provata per il tramite delle presunzioni che il d.l. n. 36/2002 ha basato sulla qualità del soggetto passivo dell'azione di recupero e sul possesso dei mezzi di trasporto, cui era correlato il credito d'imposta; piuttosto spettava al beneficiario fornire la prova contraria alla presunzione di legge, dimostrando di non aver fruito affatto del credito d'imposta, oppure di averne fruito entro il limite del c.d. de minimis, o comunque in misura inferiore a quella presunta ex lege. 4.4.2. Non solo la C.A. non ha fornito tale prova negativa, ma - a seguito dell'istruttoria disposta dal collegio in primo grado - è stata l'amministrazione - per il tramite di apposita nota dell'Agenzia delle Entrate - Direzione provinciale di Salerno e relativi allegati contenenti le "copie dichiarazioni dei redditi quadri R" estratte dall'anagrafe tributaria - a fornire la prova che negli anni 1992 - 1993 - 1994 la Cooperativa ha effettivamente utilizzato i crediti d'imposta "per le imprese autotr. merci conto terzi" in misura del tutto compatibile (ed anzi superiore) rispetto a quella calcolata col metodo induttivo introdotto dal legislatore e richiesta col decreto ingiuntivo. Le generiche contestazioni di utilizzabilità delle risultanze dell'anagrafe tributaria, già formulate in primo grado dalla C.A., e riproposte in appello, vanno disattese per le ragioni già ritenute dal T.a.r. ("La Corte di legittimità ha già chiarito, con ferma giurisprudenza, che le risultanze dell'anagrafe tributaria sono assistite da una presunzione di identità con i dati presenti nel modello cartaceo sottoscritto dal contribuente; ne consegue che, ove sia eccepita una discordanza di dati in sede di gravame, non è l'Amministrazione finanziaria a dover fornire la prova della conformità, ma il contribuente a dover dimostrare la difformità, ai sensi dell'art. 2697 c.c., comma 2, trattandosi di deduzione dell'inefficacia del fatto costitutivo della pretesa tributaria azionata, ed essendo egli onerato, in base all'ordinaria diligenza, di conservare una copia del modulo cartaceo anche oltre il termine di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 (cfr.: Cass. 11/12/2013, n. 27712; Cass. 30/8/2013, n. 20047; Cass. 10/1/2013, n. 385; 27/7/2012, n. 13440)"), che qui si confermano in quanto non validamente confutate dall'appellante (oltre che corroborate da giurisprudenza successiva: cfr. Cass. V, 12 luglio 2018, n. 18403). 4.5. Il terzo ed il quarto motivo di appello vanno quindi respinti. 5. Col secondo motivo si lamenta la violazione e la falsa applicazione del regolamento (CE) n. 659/1999, quanto all'errata individuazione del dies a quo della prescrizione, e conseguentemente l'errato calcolo di quest'ultima. Viene criticata la sentenza appellata nella parte in cui, premessa l'operatività del termine ordinario decennale di prescrizione, ha affermato che "la decisione comunitaria in ordine al recupero dell'aiuto erogato ha acquisito definitività in ragione della sentenza della Corte di Giustizia Europea pronunciata nell'anno 1998... il termine per il recupero degli aiuti illegittimamente erogati ha iniziato a decorrere da tale anno" e che "prima della notifica dell'opposto decreto ingiuntivo, tale termine è stato interrotto dal Ministero resistente, una prima volta, con nota prot. N. 28659 del 23/3/2007, - con cui informava l'odierna opponente dell'avvio della procedura di recupero -, e, successivamente, sia con la nota prot. n.6806 del 24/01/2008, - con cui comunicava alla società "C.A." le modalità di pagamento dell'importo da restituire -, sia con nota n. 18659 dell'11 Agosto 2011, con cui costituiva in mora la società ricorrente.". 5.1. L'appellante segnala un primo errore, nell'individuazione della decorrenza utile del termine di prescrizione dalla conclusione del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia con la sentenza del 1998. Sostiene che l'art. 15, comma 2, del regolamento CE n. 659/1999 non attribuisce al procedimento davanti alla Corte di Giustizia ed alla sentenza conclusiva di tale procedimento un'efficacia interruttiva della prescrizione, bensì ricollega alla pendenza del procedimento un'efficacia sospensiva del periodo limite (i.e. della prescrizione), mantenendo ferma la regola che "il periodo limite inizia il giorno in cui l'aiuto illegale viene concesso al beneficiario come aiuto individuale o come aiuto rientrante in un regime di aiuti". Applicando correttamente la disposizione comunitaria in esame, secondo l'appellante, si avrebbe che sommando il primo periodo decorso dalla notifica della decisione della Commissione all'avvio del procedimento avanti la Corte di Giustizia e il secondo periodo decorrente dalla pronuncia della Corte di Giustizia al primo atto interruttivo della prescrizione da parte del MIT, del quale vi sarebbe prova dell'invio e della ricezione - che l'appellante fissa nel mese di marzo 2011 - si sarebbe consumato il "periodo limite" richiamato dalla disposizione comunitaria, con conseguente prescrizione della pretesa avente ad oggetto il recupero delle somme portate dal credito d'imposta qualificato aiuto di Stato. 5.1.2. L'appellante segnala quindi un secondo errore della sentenza, perché, decidendo come sopra, si sarebbe posta di fatto in contrasto con l'orientamento della Corte di Cassazione, la cui consolidata giurisprudenza è nel senso che, agli effetti del recupero di benefici, sgravi o crediti d'imposta costituenti aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune, opera il termine ordinario di prescrizione decennale di cui all'art. 2946 cod. civ., decorrente dalla notifica alla Repubblica Italiana della decisione comunitaria di recupero (Cass. civ. sez. lav., 14 febbraio 2019, n. 4432 ed altre, indicate in ricorso). 5.2. Il motivo è fondato per quanto riguarda l'azione di recupero degli aiuti erogati col credito d'imposta utilizzato nell'anno 1992, mentre è infondato per le due annualità successive. Tale conclusione è dovuta alle ragioni che di seguito si espongono, solo in parte di accoglimento delle censure dell'appellante. 5.2.1. La sentenza di primo grado è corretta nella parte in cui ricostruisce il rapporto esistente tra l'azione della Commissione europea in tema di recupero di aiuti illegali, disciplinata ratione temporis dal Regolamento (CE) n. 659/1999 (cui è succeduto il Regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio del 13 luglio 2015), e la procedura di recupero regolata dal diritto nazionale. Alla prima si riferisce l'art. 15 del Regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999, intitolato "Periodo limite" che prevede quanto segue: "1. I poteri della Commissione per quanto riguarda il recupero degli aiuti sono soggetti ad un periodo limite di 10 anni. 2. Il periodo limite inizia il giorno in cui l'aiuto illegale viene concesso al beneficiario come aiuto individuale o come aiuto rientrante in un regime di aiuti. Qualsiasi azione intrapresa dalla Commissione o da uno Stato membro, che agisca su richiesta della Commissione, nei confronti dell'aiuto illegale interrompe il periodo limite. Ogni interruzione fa ripartire il periodo da zero. Il periodo limite viene sospeso per il tempo in cui la decisione della Commissione è oggetto di un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee. 3. Ogni aiuto per il quale è scaduto il periodo limite è considerato un aiuto esistente.". La disposizione regola l'istituto della prescrizione in ambito comunitario, come fatto palese dall'analoga previsione contenuta nel successivo Regolamento (UE) 2015/1589, nel cui articolo 17 il "periodo limite" è indicato in rubrica come "Prescrizione" ed è precisato nel paragrafo primo che "I poteri della Commissione per quanto riguarda il recupero degli aiuti sono soggetti ad un termine di prescrizione di dieci anni". In proposito la Corte di Giustizia, a seguito di rinvio pregiudiziale del Tribunal Administrativo e Fiscal (Tribunale amministrativo e tributario) di Coimbra in Portogallo, ha confermato che l'art. 17, par. 1, del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015, recante modalità di applicazione dell'art. 108 TFUE, dev'essere interpretato nel senso che il termine di prescrizione di dieci anni, che tale disposizione prevede per l'esercizio dei poteri della Commissione europea in materia di recupero degli aiuti, si applica soltanto ai rapporti tra la Commissione e lo Stato membro destinatario della decisione di recupero adottata da tale istituzione. Essa ha anche precisato, per un altro profilo, che contrasta con l'art. 16, par. 2, del regolamento, secondo il quale all'aiuto da recuperare si aggiungono gli interessi, e con il principio di effettività, di cui al par. 3 dello stesso articolo, l'applicazione di un termine di prescrizione nazionale al recupero di un aiuto qualora tale termine sia scaduto prima ancora dell'adozione della decisione della Commissione che dichiara tale aiuto illegale e ne ordina il recupero, oppure sia scaduto, principalmente, a causa del ritardo con cui le autorità nazionali hanno dato esecuzione a tale decisione (sentenza del 30 aprile 2020 in causa C-627/18). Si tratta di un indirizzo della Corte di Giustizia, contenuto anche in altre precedenti decisioni (Corte di Giustizia, 20 marzo 1997, C-24/95; Corte di Giustizia, 23 gennaio 2019, C-387/17). 5.2.2. La giurisprudenza interna ha espresso principi conformi alla giurisprudenza comunitaria. Infatti, con riferimento all'art. 15 del Regolamento (CE) n. 659/1999 (ma anche con decisioni riguardanti il Regolamento del 2015 tuttora in vigore) si è affermato che il termine ivi previsto per la decisione di recupero degli aiuti di Stato concerne i rapporti tra Commissione e Stati membri. L'azione appena detta presuppone l'accertamento, da parte della Commissione, dell'illegalità dell'aiuto e va tenuta distinta dall'azione di recupero in ambito interno. L'azione dello Stato membro nei confronti del beneficiario dell'aiuto illegale è infatti disciplinata dall'art. 14 (Recupero degli aiuti) del Regolamento n. 659/1999 (cui corrisponde l'art. 16 del Regolamento n. 2015/1589), che prevede quanto segue: " 1. Nel caso di decisioni negative relative a casi di aiuti illegali la Commissione adotta una decisione con la quale impone allo Stato membro interessato di adottare tutte le misure necessarie per recuperare l'aiuto dal beneficiario (in seguito denominata "decisione di recupero"). (...) 3. Fatta salva un'eventuale ordinanza della Corte di giustizia delle Comunità europee emanata ai sensi dell'articolo 185 del trattato, il recupero va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dello Stato membro interessato, a condizione che esse consentano l'esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione. A tal fine e in caso di procedimento dinanzi ai tribunali nazionali, gli Stati membri interessati adottano tutte le misure necessarie disponibili nei rispettivi ordinamenti giuridici, comprese le misure provvisorie, fatto salvo il diritto comunitario.". In proposito la Corte di Cassazione in numerose sentenze - in prevalenza riferite alla materia tributaria, per aiuti di Stato incompatibili goduti con agevolazioni fiscali, ed alla materia contributiva, per aiuti di Stato incompatibili goduti con sgravi contributivi - ha affermato quanto segue: - se è vero che il termine dell'art. 15 del Regolamento n. 659/1999 concerne i rapporti tra Commissione e Stati membri, quel termine non è senza conseguenze nell'ambito nazionale dei rapporti tra Stato e beneficiario dell'aiuto; proprio perché l'adozione da parte della Commissione di una decisione che dichiari l'incompatibilità dell'aiuto e ne ordini il recupero, determina, per il beneficiario dell'aiuto illegittimamente attribuito, la cessazione dello stato di incertezza che giustifica l'esistenza di un termine di prescrizione, divengono rilevanti nell'ordinamento nazionale l'interruzione del termine di prescrizione che è connessa all'inizio dell'azione della Commissione e la sospensione del medesimo termine per il tempo in cui la decisione della Commissione è oggetto di un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee, previste nel regolamento comunitario (così in motivazione Cass. 19 novembre 2010, n. 23418); in proposito si è precisato che, a ragionare diversamente, per quanto riguarda l'ordinamento italiano, coincidendo il termine ordinario di prescrizione nel diritto nazionale (dieci anni ex art. 2946 c.c.) con il termine di prescrizione assegnato dal diritto comunitario alla Commissione per iniziare l'azione di recupero degli aiuti (dieci anni ex art. 15 del regolamento n. 659 del 1999), l'impossibilità dell'effettivo recupero dell'aiuto illegale ben potrebbe essere la regola e non l'eccezione (così Cass. n. 23418/2010 cit.; Cass. sez. lav. 21 marzo 2013, n. 7162 ed altre successive); - alcune massime della Corte di Cassazione contengono poi l'affermazione perentoria della disapplicazione delle norme interne in tema di prescrizione (così Cass. n. 23418/2010, secondo cui "in tema di recupero di aiuti di Stato, la normativa nazionale sulla prescrizione deve essere disapplicata per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario, qualora tale normativa impedisca il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione della Commissione divenuta definitiva", riportata anche nella sentenza qui appellata e ripresa da Cons. Stato, III, 13 maggio 2015, n. 2401 ed altre, su cui infra); si tratta però di un'affermazione che non va intesa in senso assoluto: essa va combinata con l'orientamento - su tale punto univoco - della stessa Cassazione secondo cui l'azione di recupero in ambito interno è soggetta alla regola ordinaria della prescrizione decennale; - tuttavia, in ragione di quanto sopra, la decorrenza del termine di prescrizione va "spostata" dalla data dell'erogazione del beneficio alla data di notifica allo Stato italiano della decisione della Commissione che dichiara l'illegittimità dell'aiuto (così, tra le altre, Cass. V, 12 settembre 2012, n. 15207, nella quale si precisa che "In tema di recupero di aiuti di Stato, l'azione di recupero è soggetta al termine ordinario di prescrizione stabilito dall'artt. 2946 cod. civ., in quanto idoneo a garantire sia l'interesse pubblico di assicurare l'effettività del diritto comunitario mediante il ripristino dello "status quo ante" alla violazione della concorrenza, sia l'interesse privato ad evitare l'esposizione ad iniziative senza limiti di tempo, non essendo invece applicabile il termine di cui all'art. 15 del Regolamento CEE del Consiglio del 22 marzo 1999, n. 659, il quale si riferisce esclusivamente ai rapporti tra Commissione e Stato membro. Ne consegue che il momento di inizio del termine di decorrenza della prescrizione va individuato non nella data della fruizione dell'aiuto, ma in quella della notifica della decisione della Commissione allo Stato membro, essendo solo da quel momento l'aiuto erogato qualificabile come illegale"; cfr., nello stesso senso, Cass. V, 22 luglio 2015, n. 15414; Cass. sez. lav., 22 giugno 2017, n. 15491; Cass. sez. lav., 27 luglio 2020, n. 15972; Cass. V, 22 giugno 2022, n. 20173; e numerose altre fino alla più recente Cass., V, 27 febbraio 2023, n. 29549, in fattispecie coincidente con quella oggetto del presente giudizio, decisa dal giudice tributario, non risultando posta la questione di giurisdizione). Giova precisare che, mentre la giurisprudenza meno recente della Corte di Cassazione è stata nel senso di riconoscere l'effetto sospensivo del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia (cfr. le sentenze su citate, a far data dalla sentenza n. 23418/2010), si è da ultimo affermato il contrastante principio per cui, pur decorrendo la prescrizione decennale dalla notifica della decisione della Commissione allo Stato membro e, cioè, dal momento in cui l'aiuto erogato è qualificabile come illegittimo, il termine di prescrizione non subirebbe interruzione o sospensione a seguito dell'impugnazione alla Corte di Giustizia, da parte dello Stato, della decisione della Commissione (così Cass. sez. III, 25 luglio 2022, n. 23058, seguita da Cass. n. 29549/2023 cit.). 5.3. Si ritiene di dover disattendere tale ultimo orientamento e di dover invece ribadire, con riferimento alla vigenza del Regolamento (CE) n. 659/1999 e della normativa interna applicabile ratione temporis al caso di specie (vale a dire quella precedente, come si dirà, l'entrata in vigore della legge n. 234 del 2012), i seguenti criteri interpretativi: - le norme interne sulla prescrizione vanno disapplicate nel periodo compreso tra l'erogazione dell'aiuto di Stato e l'intervento della Commissione che, in caso di aiuto non notificato, ha il termine di dieci anni decorrente da tale erogazione per attivarsi ai sensi del ridetto art. 15; invero, se in tale periodo decorresse il termine parimenti decennale della prescrizione di diritto interno, la decisione della Commissione rischierebbe di essere vanificata, compromettendo il rispetto dell'obbligo da parte dello Stato italiano, destinatario della decisione di recupero, ai sensi dell'art. 249, quarto co. Trattato CE, di adottare ogni misura idonea ad assicurare l'esecuzione della decisione; - di conseguenza soltanto dalla notificazione della decisione della Commissione allo Stato italiano (o, in mancanza, dalla sua pubblicazione sulla G.U.U.E.) inizia a decorrere il termine ordinario di prescrizione decennale; - tuttavia (contrariamente al più recente indirizzo della Cassazione) l'impugnazione da parte dello Stato italiano dinanzi alla Corte di Giustizia della decisione di recupero della Commissione non può essere senza effetti interni, sia pure indiretti: essa mantiene sub iudice la qualificazione di illegittimità degli aiuti di Stato oggetto del procedimento comunitario e rende quindi non ancora definitivo l'obbligo dello Stato italiano di provvedere al recupero, pur se ordinato dalla Commissione; - l'effetto che lo Stato membro può provocare chiedendo la verifica da parte dell'organo giurisdizionale europeo della decisione della Commissione è quello sospensivo (arg. ex art. 15, comma 2, del Regolamento che distingue tra effetto interruttivo dell'azione della Commissione ed effetto sospensivo del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia): la pendenza del procedimento sospende quindi l'obbligo di recupero, sicché -contrariamente a quanto ritenuto dal T.a.r. - la sentenza della Corte di Giustizia che lo conferma non segna l'avvio di un nuovo termine di prescrizione ma soltanto la ripresa del suo decorso; - una volta emessa la sentenza della Corte di Giustizia che conferma la decisione di recupero della Commissione, in ambito interno lo Stato italiano si viene definitivamente a trovare nella situazione di cui all'art. 2935 cod. civ., che consente ai soggetti competenti secondo l'ordinamento nazionale di fare valere, nei confronti dei beneficiari dell'aiuto illegittimo il diritto alla restituzione, cui corrisponde, in ambito sovranazionale, l'obbligo di recupero comminato dagli organi comunitari. 5.3.1. Quest'ultima affermazione comporta che le norme interne sulla prescrizione applicabili ratione temporis nel caso di specie non vadano del tutto disapplicate. La loro applicazione, nei limiti ed alle condizioni sopra specificati, non appare in violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia in materia di necessario adempimento degli Stati all'obbligo di recupero degli aiuti illegali; essa, infatti, nel rispetto del principio di "effettività " non rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'attuazione degli obblighi comunitari poiché fissa allo scopo un (ulteriore) termine decennale, atto a garantire l'applicazione effettiva del diritto comunitario, in quanto ragionevolmente coincidente con lo stesso termine che l'art. 15 assegna agli organi comunitari per l'accertamento dell'illegalità dell'aiuto non notificato. Si tratta inoltre - come osservato dai numerosi precedenti della Corte di Cassazione in subiecta materia - di un termine che, in ossequio al principio della certezza del diritto (rilevante anche in ambito unionale), considera l'interesse del beneficiario dell'aiuto a non vedersi esposto senza limiti di tempo all'azione di restituzione dello Stato. In tal modo viene altresì assicurato il rispetto dei principi di "equivalenza" e di "non discriminazione", in quanto all'azione diretta ad attuare l'obbligo di matrice comunitaria si applicano le norme nazionali in materia di prescrizione stabilite per le analoghe azioni di carattere nazionale. 5.3.2. Riguardo all'applicazione delle norme interne in tema di prescrizione va tuttavia precisato che l'art. 51 (Estinzione del diritto alla restituzione dell'aiuto di Stato oggetto di una decisione di recupero per decorso del tempo) della legge 24 dicembre 2012, n. 234, come modificato dall'art. 35 della legge 7 luglio 2016, n. 122, prevede quanto segue: "Indipendentemente dalla forma di concessione dell'aiuto di Stato, il diritto alla restituzione dell'aiuto oggetto di una decisione di recupero sussiste fino a che vige l'obbligo di recupero ai sensi del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015 (n. d.r. nella versione originaria il riferimento era al regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999)". La norma è interpretabile nel senso dell'imprescrittibilità del diritto alla restituzione dell'aiuto in esecuzione di una decisione di recupero di aiuti di Stato illegittimi. Essa tuttavia non è applicabile nel presente giudizio, sicché la questione interpretativa non necessita di approfondimento. Invero, il precedente art. 48 del capo VIII (Aiuti di Stato) della stessa legge n. 234 del 2012 è riferito alle procedure di recupero riguardanti le decisioni di recupero adottate in data successiva a quella di entrata in vigore della legge (19 gennaio 2013), mentre nel caso di specie le decisioni di recupero sono di gran lunga anteriori e la procedura di recupero non è quella prevista, in via generale, dall'art. 48, ma quella, in particolare, dettata dal già detto d.l. n. 36/2002. In ogni caso, alla data di entrata in vigore dell'art. 51, il diritto alla restituzione degli aiuti illegali corrisposti sotto forma di credito d'imposta per l'anno 1992, come si dirà, era da reputarsi già estinto per prescrizione, sicché ne risulta impedita l'applicazione della norma con effetti retroattivi (arg. ex art. 11 disp. att.c.c.). 5.3.3. La questione dei rapporti tra il Regolamento (CE) n. 659/1999 e le norme interne in tema di prescrizione è stata affrontata da diverse pronunce del Consiglio di Stato tutte relative alla stessa fattispecie di aiuti di Stato, consistiti in sgravi contributivi. Le sentenze dichiarano di porsi in linea di continuità con la richiamata giurisprudenza della Corte di Cassazione, valorizzandone l'affermazione della disapplicazione delle norme in tema di prescrizione, tuttavia andando oltre la portata effettiva di tale affermazione, di cui si è detto sopra. Ne risulta affermata una sorta di imprescrittibilità interna dell'azione di recupero degli aiuti di Stato nei confronti dei beneficiari (così Cons. Stato, III, n. 2401/2015 cit., punto 9, nonché Id., III, nn. 3016/2015, 3035/2015, 3596/2015, 3599/2015, 3601/2015 e 3677-3679/2015). Con riguardo alla stessa vicenda oggetto dei precedenti appena citati, la medesima Sezione III ha però inteso precisare che "l'obbligazione restitutoria sorta in capo ai beneficiari degli sgravi contributivi non ha fonte immediatamente legale, ma presuppone il perfezionamento di una apposita fattispecie costitutiva, rappresentata dall'adozione del provvedimento di recupero, all'esito del procedimento disciplinato dall'art. 1, commi 351-354, l.n. 288/2012. Ne consegue che proprio l'interposizione, tra il momento di fruizione dell'aiuto di Stato e quello dell'insorgenza dell'obbligo di recupero, di un provvedimento amministrativo, inteso a verificare, all'esito di un apposito procedimento amministrativo e della relativa istruttoria, la sussistenza dei presupposti per il recupero quali delineati dalla decisione della Commissione e dalle successive pronunce del giudice comunitario, impone di escludere che il dies a quo del termine prescrizionale possa coincidere, come sostenuto dalla parte appellante, con la pubblicazione della suddetta decisione e che, a quella data, il credito restitutorio dello Stato fosse immediatamente esigibile, nelle more del compimento della istruttoria "caso per caso", volta appunto a verificare la sussistenza dei presupposti per il recupero." (Cons. Stato, III, 19 dicembre 2017, n. 5976). 5.4. In primo grado, l'Avvocatura distrettuale dello Stato - al fine di resistere all'eccezione di prescrizione sollevata dalla ricorrente - ha sostenuto un'interpretazione analoga, osservando che il dies a quo del termine di prescrizione, nel caso di specie, sarebbe da individuare - in forza del noto brocardo actio nondum nata non praescribitur - nel giorno in cui è stata emanata la normativa preordinata al recupero delle somme erogate, cioè il d.l. 20 marzo 2002, n. 36 (del quale si è detto trattando dei motivi terzo e quarto di appello), momento in cui sarebbe sorto il diritto di credito dello Stato al recupero dei contributi erogati. 5.4.1. L'assunto non è condivisibile perché, nel caso in oggetto, le decisioni della Commissione e le pronunce del giudice comunitario non hanno condizionato l'esigibilità del credito restitutorio dello Stato all'accertamento di determinati presupposti (come nel caso preso in esame dai citati precedenti di questo Consiglio di Stato), ma ne hanno imposto il recupero immediato ed incondizionato. La successione e il contenuto delle pronunce in ambito comunitario sono sintetizzabili come segue: 1) la prima decisione della Commissione europea riguarda i crediti d'imposta per l'annualità 1992 ed è stata adottata il 9 giugno 1993 (decisione n. 93/496/CEE), contenendo la dichiarazione di illegittimità e di incompatibilità con il mercato comune dell'aiuto concesso sotto forma di credito d'imposta a valere sull'imposta sul reddito o sulle imposte comunali o sull'IVA, indebitamente introdotto con il decreto ministeriale 28 gennaio 1992 a favore degli autotrasportatori professionisti in Italia, e l'ordine di recuperare l'aiuto entro due mesi dalla notifica della decisione e "secondo le norme procedurali e sostanziali di diritto interno"; 2) la decisione non è stata impugnata dallo Stato italiano; è stata invece la Commissione delle Comunità Europee a promuovere, ai sensi dell'art. 93 n. 2 del Trattato CE, un ricorso, depositato il 18 agosto 1995, diretto a far dichiarare che, non avendo adottato le misure necessarie per adeguarsi alla decisione della Commissione 9 giugno 1993, 93/496/CEE, relativa all'aiuto di Stato n. C 32/92 (ex N N 67/92) - Italia (Credito d'imposta a favore degli autotrasportatori professionisti) (GU L 233, pag. 10), la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del Trattato CE; il ricorso è stato deciso con sentenza della Corte (sesta sezione), 29 gennaio 1998, nella causa C-280/95, con la quale è stato dichiarato che, non essendosi conformata alla decisione della Commissione, "la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del Trattato CE"; 3) la seconda decisione della Commissione delle Comunità Europee riguarda i crediti d'imposta per le annualità 1993-1994 ed è stata adottata il 22 ottobre 1996 (decisione n. 97/270/CE), contenendo la dichiarazione di illegittimità e di incompatibilità con il mercato comune dell'aiuto concesso sotto forma di credito d'imposta e l'ordine di recuperare l'aiuto, da rimborsare "secondo le regole di procedura e di applicazione della legislazione italiana"; 4) la decisione è stata impugnata dallo Stato italiano, con ricorso depositato il 10 gennaio 1997, ai sensi dell'art. 173 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 230 CE) e l'impugnativa è stata respinta con la sentenza della Corte (Sesta Sezione), 19 maggio 1999 in causa C-6/97, con la quale è stata, tra l'altro, esclusa l'impossibilità di recuperare l'aiuto. La portata delle pronunce della Commissione e della Corte è tale da consentire di configurare come immediatamente esigibile il credito di rimborso dell'aiuto mediante richiesta ai trasportatori italiani che avevano usufruito del bonus fiscale (cfr. punto 33 della sentenza del 1999) sì da doversi escludere, ai fini del decorso iniziale della prescrizione, che si dovesse attendere che lo Stato dettasse regole apposite per il recupero del singolo aiuto, quali sono state poi introdotte -peraltro al solo fine di agevolare il computo delle somme da richiedere - dal d.l. del 2002. 5.4.2. Dopo le pronunce della Corte di Giustizia e l'entrata in vigore di tale normativa speciale si colloca il primo atto interruttivo della prescrizione nei confronti della C.A. Si tratta della nota prot. n. 28659 del 23 marzo 2007, con la quale il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti informava la Cooperativa dell'avvio della procedura di recupero. In proposito va respinta la censura dell'appellante - peraltro esplicitata soltanto in appello - secondo cui la nota non sarebbe conosciuta dalla destinataria, perché non è stata fornita la prova in giudizio della ricezione da parte della Cooperativa. La smentita si rinviene per tabulas nel ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo, dove è detto che la nota è stata ricevuta dalla ricorrente il 6 aprile 2007 e negli atti prodotti in primo grado dal Ministero opposto, dai quali si evince che detta nota venne seguita dalla risposta dell'interessata che fece pervenire delle osservazioni procedimentali (delle quali si dà atto nel decreto del Ministero dei Trasporti del 20 dicembre 2007 prot. 4561). Seguirono poi gli ulteriori atti di interruzione del corso della prescrizione e di messa in mora specificati sopra e nella sentenza di primo grado. 5.4.3. Orbene, considerato che la decisione della Commissione riguardante gli anni 1993-1994 è intervenuta il 22 ottobre 1996 ed è stata impugnata con ricorso del 10 gennaio 1997, che ha dato luogo alla sentenza del 19 maggio 1999, tenendo conto del periodo precedente la proposizione del ricorso e dell'effetto sospensivo determinato dalla pendenza del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia fino a tale ultima data, è da escludere che alla data del primo atto interruttivo del 23 marzo/6 aprile 2007 fosse decorso il periodo di prescrizione di dieci anni, né questo era decorso quando con la nota del 24 gennaio 2008 n. 6806 erano comunicate alla CAPS le modalità di pagamento dell'importo da restituire. 5.4.4. I dati di fatto sopra riportati inducono invece a diversa conclusione con riferimento all'annualità 1992, atteso l'ordine di recupero intimato con la decisione della Commissione del 9 giugno 1993. Considerato che questa non è stata mai impugnata dallo Stato italiano, dovrebbe ritenersi che dalla data della sua comunicazione (non nota, ma di certo anteriore al 26 agosto 1993, data della prima informativa indirizzata dallo Stato italiano alla Commissione della quale è detto nella sentenza del 1998, punto 6) fossero decorsi più di dieci anni quando intervenne l'atto interruttivo (23 marzo/6 aprile 2007). Peraltro, anche a voler attribuire - interpretando estensivamente il testo dell'art. 15 del Regolamento - effetto sospensivo alla pendenza del procedimento introdotto dinanzi alla Corte di Giustizia, non dallo Stato membro, ma dalla Commissione (per farne accertare l'inadempimento dell'obbligo di recupero), nel caso di specie il periodo di sospensione andrebbe dal 18 agosto 1995 (data del ricorso della Commissione) fino alla sentenza del 29 gennaio 1998. Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, ed in accoglimento del motivo di appello, occorrerebbe aggiungere al periodo di oltre nove anni compreso tra tale ultima data (29 gennaio 1998) e l'atto interruttivo del marzo/aprile 2007, il periodo decorso nell'inerzia dello Stato italiano dal 26 agosto 1993 fino al 18 agosto 1995, col complessivo superamento del termine decennale. In sintesi, sia tenendo conto della mancata impugnativa della decisione del 9 giugno 1993 da parte dello Stato sia considerando utile l'impugnativa della Commissione, si avrebbe che l'azione di recupero per il credito d'imposta riferito all'annualità 1992, in ambito interno, era prescritta quando venne avanzata la richiesta di rimborso nei confronti della C.A. 6. Va pertanto accolto il secondo motivo di appello, limitatamente alla prescrizione del recupero delle somme dovute per l'anno 1992, e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, l'opposizione va accolta parzialmente quanto all'eccezione di prescrizione sollevata con riferimento alle somme ingiunte in restituzione per l'anno 1992. Per l'effetto, ai sensi degli artt. 118 c.p.a. e 653, comma 2, c.p.c., il decreto ingiuntivo va revocato e la società C.A. va condannata a corrispondere al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti la somma corrispondente alle due annualità predette (Euro 83.263,10 + Euro 66.044,38), escluso l'importo corrispondente all'annualità 1992 (Euro 43.137,89), oltre interessi come già richiesti col decreto ingiuntivo. 7. L'accoglimento parziale dell'appello e dell'opposizione a decreto ingiuntivo consente di compensare integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio di opposizione, nonché della fase monitoria. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie parzialmente, nei limiti specificati in motivazione e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, revoca il decreto ingiuntivo opposto e condanna la Cooperativa appellante al pagamento in favore del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti degli importi specificati in motivazione, oltre interessi legali come già richiesti col decreto ingiuntivo. Compensa interamente tra le parti le spese dei due gradi del giudizio di opposizione e della fase monitoria. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere, Estensore Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Elena Quadri - Consigliere Marina Perrelli - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA in nome del Popolo Italiano LA CORTE DI APPELLO DI BRESCIA Sezione Prima Penale Composta dai signori: 1 - dott. Anna Maria Dalla Libera Presidente 2 - dott. Guido Taramelli Consigliere relatore 3 - dott. Roberto Gurini Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA nella causa penale trattata con il rito dibattimentale; contro (...) Elettivamente domiciliato c/o lo studio del difensore avv. (...) di Milano Difensori di fiducia avv. (...), entrambi del Foro di Milano LIBERO PRESENTE IMPUTATO B) del reato di cui agli articoli 81 cpv, 110 e 326 c.p., poiché, quale (...), ricevuta una proposta di incontro privato da parte del dr. sost. proc. in Milano titolare del p.p. (...)/17 mod. 21 r.g.n.r., rassicurandolo di essere autorizzato a ricevere copia degli atti indicati ai capo sopra riportato e riferendogli che il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile in quanto (...), concorreva nel reato descritto al capo che precede, rafforzando il proposito criminoso di ed entrando così in possesso del contenuto di atti coperti da segreto investigativo. Ciò faceva al di fuori di una procedura formale - non essendo applicabile quella descritta dalle circolari n. 510 del 1994 e n. 13682 del 1995 dettate dal CSM in merito alla trasmissione, da parte del p.m. procedente, di informazioni relative ad un procedimento penale a carico di un magistrato, da indirizzare formalmente al comitato di Presidenza del CSM - e senza che vi fosse una ragione ufficiale che legittimasse (...) a disvelare atti coperti dal segreto investigativo anziché investire organi istituzionali competenti a risolvere questioni attinenti alla gestione dell'indagine. In esecuzione di un medesimo disegno criminoso, una volta ricevuti i citati documenti segreti, violando i doveri inerenti alle proprie funzioni ed abusando della sua qualità di (...), pur avendo l'obbligo giuridico ed istituzionale di impedirne l'ulteriore diffusione, ne rivelava il contenuto a terzi, e segnatamente: consegnava al (...), informalmente e senza alcuna ragione ufficiale, ma allo scopo di "metterlo in allarme circa la frequentazione dei consiglieri (...) e (...), copia degli atti in questione, dopo averlo informato del loro contenuto, incaricandolo di custodirli e di consegnarli al comitato di Presidenza qualora glieli avesse richiesti; riferiva al (...), sempre in assenza di una ragione ufficiale, ma per suggerirle di "prendere le distanze dai consiglieri (...) e (...)", il contenuto delle dichiarazioni rese dall'invitandola a leggerle; riferiva, in assenza di una ragione d'ufficio, al dichiarato scopo di ottenere un giudizio sull'attendibilità dell'Avv. (...), le medesime circostanze al (...), facendogli leggere le dichiarazioni del predetto; informava di quanto appreso dal dr (...) il (...), consegnandogli copia degli atti sopra indicati, al di fuori di qualunque ufficialità al punto che (...), ritenendo irricevibili quegli atti ed inutilizzabili le confidenze ricevute, immediatamente distruggeva detta documentazione; riferiva confidenzialmente analoghe circostanze anche al consigliere del C.S.M., consentendogli la lettura di passi dei verbali; riferiva al (...), in assenza di qualunque ragione d'ufficio, dì un'indagine segreta su una presunta loggia massonica aggiungendo che "in questa indagine è coinvolto"; riferiva al senatore (...), in assenza di qualunque ragione istituzionale e nell'ambito di un colloquio privato, allo scopo di spiegare il motivo dei contrasti insorti con il consigliere (...) che vi era un'indagine in corso su una presunta loggia coperta cui avrebbe fatto parte il citato consigliere; riferiva, in violazione dell'obbligo di segretezza, il contenuto dei verbali resi da (...) alle collaboratrici amministrative (...) e (...); riferiva inoltre, in violazione dell'obbligo di segretezza e al di fuori di una formale procedura, al primo (...) dell'esistenza di atti di un'indagine penale presso la Procura di Milano, nell'ambito della quale (...) aveva riferito dell'esistenza di una loggia coperta in cui sarebbero stati implicati numerosi esponenti delle istituzioni, tra cui i (...) e (...). In Milano e Roma, da aprile a settembre 2020. APPELLANTE avverso la sentenza emessa dal Tribunale collegiale di Brescia, in data 20 giugno 2023, che dichiarava (...) responsabile dei reati a lui ascritti e, concesse attenuanti generiche, ritenuto il vincolo della continuazione, lo condannava alla pena di anni 1 e mesi 3 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Concedeva all'imputato il benefìcio della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato di casellario giudiziale. Condannava l'imputato al risarcimento del danno cagionato alla costituita parte civile, che si liquidava definitivamente in euro 20.000,00. Condannava altresì l'imputato alla refusione delle spese di lite sostenute dalla parte civile, (...), che si liquidavano in euro 5.000,00 oltre accessori di legge. PARTE CIVILE (...), domiciliato ex lege dal difensore Fa.Re. Foro di Messina Assistito e rappresentato dall'avv. Fa.RE. del Foro di Messina In esito all'odierna udienza dibattimentale; Udita la relazione del Consigliere dr. Gu.TA.; Udita la requisitoria del S.P.G. dr. En.Be.CE., che ha chiesto la conferma della impugnata sentenza; Udita la difesa della Parte Civile, che ha concluso come da note difensive depositate; Udita la difesa dell'appellante, che si è riportata ai motivi di appello, chiedendone l'accoglimento; la Corte osserva: MOTIVI DELLA DECISIONE La sentenza di primo grado La decisione della Corte di Appello Tanto premesso, ritiene questa Corte territoriale di non condividere le doglianze dell'impugnazione. La produzione documentale delle parti Deve, anzitutto, darsi formalmente atto dell'acquisizione della copiosa documentazione prodotta dalle parti nel corso del giudizio di appello. Sono documenti venuti in essere per lo più successivamente alla sentenza impugnata e che hanno ad oggetti fatti, che hanno un'evidente connessione con alcune circostanze oggetto del presente processo, così da renderli necessari al fine del decidere. Il concorso dell'extraneus nel reato di cui all'art.326 c.p. Ritiene, in prima battuta, questa Corte territoriale di affrontare la tematica concernente l'asserita inesistenza del concorso dell'extraneus nel delitto di rivelazione del segreto d'ufficio commesso dall'intraneus; in tesi difensiva il reato si sarebbe perfezionato nel momento in cui la notizia segreta sarebbe stata rilevata dall'intraneus al primo, di tal che la successiva condotta dell'extraneus costituirebbe un post factum non punibile. Nel caso di specie, peraltro, non potrebbe sussistere un concorso di reato nel proposito criminoso altrui, ai sensi dell'art. 110 c.p., dal momento in cui il dott. (...) è stato assolto giustappunto per mancanza di finalità illecita. Né sarebbe stata contestata l'ipotesi mediata di cui all'art.48 c.p. in ordine all'induzione dolosa di taluno mediante inganno a commettere per errore il reato. Osserva, al riguardo, il collegio che le contestazioni dell'appellante non tengono conto della giurisprudenza della Corte di Cassazione sul tema. Invero afferma la Suprema Corte che "integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti d'ufficio la divulgazione da parte dell'extraneus" di una notizia segreta, riferitagli come tale, realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell'originario propalatore? (Cass pen., sez.V, 17.11.2020, n.1957). Da ciò si evince che, se la condotta dell'intraneus si consuma nel momento in cui svela all'extraneus la notizia riservata, la condotta di quest'ultimo di successiva rivelazione ad altri di detta circostanza costituisce tutt'altro che un post factum non punibile, ma determina la realizzazione di altra e ulteriore condotta di rivelazione distinta da quella dell'originario autore del reato. E, nel caso di specie, è incontestato e incontestabile che il dott. (...) ha messo a conoscenza delle notizie acquisite in via riservata dal dott. (...) una serie di soggetti terzi non esaustivamente limitata ai nominativi elencati nel capo di incolpazione (si pensi ad esempio al Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott. (...) al collega della corrente di (...), dott. (...)). Non solo, ma ai fini della sussistenza del concorso nel reato dell'extraneus è anche necessario che questi non si sia limitato a ricevere la notizia, ma abbia istigato o indotto il pubblico ufficiale ad attuare la rivelazione, non essendo sufficiente ad integrare il reato la mera rivelazione a terzi della notizia coperta da segreto (cfr Cass. pen., sez.VI, 17.4.2018, n.34928). Ed anche sul punto risulta in modo incontrovertibile dalla citata sentenza della Corte di Appello di Brescia del 3.11.2022, che il dott. (...) ha effettivamente indotto il dott. (...) a rivelargli le propalazioni dell'avv.to (...) in ordine alla sussistenza della cd. "Loggia Ungheria" in ragione della prospettazione - tutt'altro che fondata, per come si dirà - che il segreto investigativo, non essendo opponibile al C.S.M., per ciò stesso non poteva esserlo nei confronti del singolo consigliere, che ne faceva parte. Ne consegue che non vi era alcuna necessità da parte della Pubblica accusa di costruire la contestazione secondo lo schema dell'autorità mediata ai sensi dell'art.48 c.p. per punire l'extraneus a titolo di concorso nel reato, posto che è sufficiente che questi, dopo avere agevolato la rivelazione del segreto da parte del suo depositario, ne abbia disvelato il suo contenuto a terzi. Né assume rilievo l'intervenuta assoluzione del dott. (...), posto che la stessa non è avvenuta per insussistenza del fatto, ma per carenza dell'elemento soggettivo. Sul tema si rileva che "ai fini della configurabilità della responsabilità dell'extraneus" per concorso nel reato proprio, è indispensabile, oltre alla cooperazione materiale ovvero alla determinazione o istigazione alla commissione del reato, che l'intraneus" esecutore materiale del reato sia riconosciuto responsabile del reato proprio, indipendentemente dalla sua punibilità in concreto per l'eventuale presenza di cause personali di esclusione della responsabilità" (Cass. pen., sez. II, 17.10.2018, n. 219). Ed, invero, la formula assolutoria adottata dai giudici di merito del processo svoltosi a carico del dott. (...) opera esclusivamente sul piano personale, posto che la mancanza di colpevolezza è stata ancorata all'affidamento non colpevole della prospettazione proveniente dall'autorevole componente del C.S.M. dell'epoca secondo cui egli, in quanto tale, era pienamente autorizzato a ricevere notizie coperte da segreto investigativo. A ciò aggiunge la Corte bresciana che, nemmeno poteva ipotizzare il dott. che il destinatario delle sue rivelazioni, vincolato all'obbligo del segreto delle notizie apprese nella veste di (...), non avrebbe mantenuto il segreto, riferendo la notizia e consegnando gli atti ad altri. L'assoluzione dell'intraneus sul piano personale e non oggettivo impone, pertanto, di verificare la necessità di pervenire alla medesima soluzione per l'extraneus senza poterne escludere automaticamente la colpevolezza. Vale al riguardo il principio di diritto, secondo cui l'assoluzione per difetto dell'elemento soggettivo in capo al concorrente "intraneo" nel reato proprio non esclude di per sè la responsabilità del concorrente "estraneo", che resta punibile nei casi di autorità mediata di cui all'art. 48 c.p., o in tutti gli altri casi in cui la carenza dell'elemento soggettivo riguardi solo il concorrente "intraneo" e non sia quindi a lui estensibile (Cass pen., sez. IV, 20.4.2018 n.36730; sez. IV, 28.9.2017 n. 57706; sez. IV, 8.7.2016, n. 6872). L'oggetto della rivelazione del segreto d'ufficio Alla luce delle contestazioni dell'appellante deve, quindi, affrontarsi il tema relativo all'oggetto materiale della condotta di rivelazione del segreto necessaria a integrare la sussistenza del reato. A tal proposito si assume, in chiave difensiva, che la condotta addebitabile in astratto al dott. non potrebbe ricomprendere altro che quella della materiale consegna dei verbali o dell'integrale esibizione degli stessi, in quanto la secretazione si è riferita unicamente a tali atti, per come apposta dal pubblico ministero procedente e non già alla mera notizia della loro esistenza. Così non è. A ben vedere, infatti, viene riproposta una tematica già disattesa dal Tribunale, che, con argomentazione esaustiva, ha affermato come oggetto del reato sia l'informazione e non già il corpo materiale mediante la quale questa è veicolata. La norma di cui aU'art.326 c.p. non parla, infatti, di atti, ma di notizie, con ciò rimandando al contenuto dell'atto investigativo e non già alla veste formale con la quale viene trasmesso, di tal che il reato è integrato allorché vengano riportate notizie inerenti all'ufficio pubblico ricoperto e che siano destinate a rimanere segrete, a prescindere dalla forma con le quali vengano rivelate. E, nel caso di specie, è indubbio che il dott. (...) abbia portato a conoscenza di una selezionata platea di soggetti, più o meno qualificati, informazioni riservate quali: la notizia dell'esistenza di un indagine; l'indicazione dell'autorità procedente; il contenuto delle dichiarazioni rese da un soggetto in tale indagine, nella parte in cui indicava chi erano i partecipi di una loggia massonica, con indicazione specifica di alcuni dei soggetti accusati; il nominativo della fonte dichiarativa. Non appare poi seriamente contestabile che, al momento della loro rivelazione dal dott. (...) al dott. (...) e da questi a terzi, tali notizie erano coperte da segreto istruttorio, essendo state secretate dal pubblico ministero procedente ai sensi dell'art. 329 co. III c.p.p. nel cd. procedimento contenitore (...) della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano; senza contare poi, che a far data dal 12.5.2020, tali notizie avevano dato vita ad un'autonoma iscrizione nel registro degli indagati, per applicazione della ed. "legge Anselmi" limitatamente al nominativo dei tre soggetti rei confessi - (...), e (...) -, con conseguente obbligo del segreto ai sensi dell'art. 329 co. I c.p. E per quanto in tesi difensiva ci si ostini a sostenere che, alla data del 4.5.2020, epoca della rivelazione dal dott. (...) al dott. (...) non vi era stata ancora alcuna iscrizione nel registro degli indagati per effetto delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie di (...) ben ci si guarda dal confrontarsi con le analoghe condotte tenute dall'imputato verso i terzi dopo la data del 12.5.2020, a iscrizione già avvenuta, e protrattesi sinanco al settembre 2020. Il contenuto della rivelazione al (...) Il contenuto dell'oggetto della rivelazione involge, quindi, la necessità di valutare la contestazione in fatto introdotta dall'appellante con i motivi aggiunti in merito alle rivelazioni effettuate dal dott. (...) a fine estate 2020 al (...) all'epoca (...). La prospettazione dell'appellante vuole che il ricordo del parlamentare sia fallace, nella parte in cui questi avrebbe ricordato che il dott. (...) nel mostrargli i verbali contenenti il nome di (...) da parte di un soggetto, che stava collaborando con l'autorità giudiziaria e che tacciava il magistrato di appartenere ad una loggia segreta di tipo massonico, avrebbe fatto riferimento ad un'indagine di una non meglio precisata "Procura del Nord". Ad avviso del deducente il teste avrebbe fatto confusione, sovrapponendo al suo ricordo le notizie, nel frattempo, apprese dalla stampa, posto che non avrebbe avuto senso logico che il dott. (...) avesse mostrato i verbali al teste, sul cui frontespizio era riportata l'intestazione "Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano" per fare cenno ad una indagine presso una non meglio precisata "Procura del Nord"; a ciò si aggiunge che il dott. (...) giammai avrebbe potuto fare cenno ad un'indagine, che non sapeva nemmeno se avesse avuto corso. Sul punto osserva il collegio che il ricordo sbiadito appare essere quello del dott. (...) ("ma perché avrei dovuto farlo?...Che cosa aggiungeva... non lo ricordo, ma logicamente lo nego"), piuttosto che del teste (...), il quale ha ricordato con precisione tempi e modalità con le quali il (...) lo ha messo al corrente dell'esistenza della notizia riservata sul conto del collega (...). E a conferma della veridicità del suo racconto, il teste ha tratteggiato le modalità del suo incontro con l'imputato, in termini di atteggiamento prudenziale del suo contraddittore, in tutto sovrapponibile a quello descritto dagli altri destinatari delle sue rivelazioni e in relazione ai quali non viene sollevata alcuna contestazione circa la veridicità di quanto da loro riferito. Il teste (...) peraltro, ha specificato che l'imputato gli avrebbe fatto vedere dei fogli velocemente, non consentendogli di leggere altro che il nome di (...), il che rende del tutto possibile che il concentrato sul nominativo indicatogli dal suo interlocutore, non si sia soffermato sull'intestazione dei documenti a lui esibiti in fretta e furia. A ciò si aggiunge che, peraltro, la questione riguarda un particolare del tutto secondario, non smentito altrimenti dall'imputato e che rende ben possibile il fatto che il dott. (...) abbia volutamente cercato di non essere troppo preciso con la sua controparte, diversamente da come si era comportato con altri soggetti con cui aveva più confidenza; significativo, a tal proposito, è il fatto che l'imputato, in tale occasione e a differenza di altre occasioni, non abbia riferito al parlamentare nemmeno il nominativo del cosiddetto collaborante, che, nella sua prospettazione, era la fonte dichiarativa delle accuse mosse nei confronti del dott. (...) Non solo, ma, a ben vedere, l'accenno da parte del dott. (...) all'esistenza di un'indagine presso una "Procura del Nord" emerge parimenti anche dalla deposizione del teste (...), a conferma del fatto che il riferimento ad una determinata area geografica da parte del prevenuto per indicare l'organo inquirente, che aveva raccolto o stava raccogliendo le accuse sulla presunta appartenenza del dott. (...) ed altri ad una loggia segreta, è stata indicazione tutt'altro che eccentrica. Nè la genericità di tale indicazione inficia la sussistenza del reato di rivelazione del segreto, posto che, comunque, sono stati portati a conoscenza di un terzo non legittimato a riceverne la notizia dati coperti da segreto, quali l'esistenza di un'indagine, l'oggetto della stessa con il relativo titolo di reato e il nominativo di uno di coloro che vi erano implicati. Irricevibile è, poi, la considerazione, secondo la quale il dott. Non avrebbe mai potuto parlare di un'indagine in corso, in quanto non sapeva nemmeno se quell'indagine fosse partita o meno. La tesi difensiva si scontra con le affermazioni stesse del dott. (...), il quelle, in sede di esame, ha espressamente dichiarato il contrario, sostenendo che, dopo avere parlato con il (...), il (...) aveva proceduto all'iscrizione, come poi confermatogli di lì a breve, sempre nel maggio 2020, dal dott. (...). Peraltro e a riscontro di tale considerazione vi è il dato oggettivo emergente dall'annotazione di P.G. dell'8.6.2021 a firma del per (...) come riportato nella sentenza di assoluzione del dott. (...) emessa della Corte di Appello di Brescia il 3.11.2022, secondo cui, il 19.5.2020, si registra un contatto telefonico tra il dott. (...) e il dott. (...). Posto il dato pacifico secondo il quale tra i due non vi era alcun rapporto di frequentazione abituale, né di amicizia, appare del tutto evidente che l'unica ragione d'essere di tale comunicazione sia stata quella di uno scambio di informazioni in merito all'eventuale sblocco di quella situazione di stallo all'indagine a suo tempo segnalata dal dott. (...) all'autorevole collega. L'iscrizione nel registro degli indagati da parte della Procura della Repubblica di Milano del 12.5.2020 Sul tema della natura del reato di pericolo del delitto di rivelazione del segreto d'ufficio l'appellante ripropone la tesi dell'inesistenza del danno all'indagine per effetto delle sue condotte rivelatone, che, anzi, piuttosto che danneggiare l'attività investigativa, l'avrebbero promossa per effetto dello sprone operato dal (...) nei confronti del (...) grazie al suo fattivo intervento, così da mettere il procedimento "sui binari della legalità". Nessuno degli interessati sarebbe, peraltro, venuto a conoscenza delle notizie riservate comunicate dal dott. (...) concernenti le propalazioni dell'avv.to (...), che, viceversa, sono state oggetto di divulgazione coram populo per effetto della comunicazione in forma anonima dei verbali di interrogatorio ai due giornalisti (...) e (...) e della trasmissione in diretta su Radio Radicale della seduta dell'assemblea plenaria del C.S.M. del 18.2.2021, nella quale il (...) aveva riferito di avere ricevuto un plico contenente i predetti verbali con una nota accompagnatoria, nella quale si accusava sostanzialmente il (...) e lo stesso (...) di omissioni investigative. Quanto al tema fattuale introdotto dall'appellante, che ripetutamente rivendica a suo merito l'iscrizione del 12.5.2020 della notizia di reato per violazione dell'art.2 delle legge 17/85 da parte del (...) è bene sgombrare il campo da possibili suggestioni di parte, che sembrano peraltro avallate dalla sentenza assolutoria della Corte di Appello di Brescia emessa nei confronti del dott. (...) (pg.38-40). A tenore della citata pronuncia la prospettazione del dott. (...) - secondo cui l'impressione che la decisione da parte dei colleghi di pervenire finalmente all'iscrizione nel registro degli indagati dei nominativi dei tre rei confessi per applicazione della cd. "legge Anselmi", per come decisa nella riunione presso la (...) e materialmente effettuata il sarebbe stata determinata da un input esterno - è confermata da quanto riferito dal dott. (...), dal dott. (...) e dai tabulati telefonici dell'utenza in uso al dott. (...) Invero i predetti elementi probatori collocherebbero con certezza l'intervento del (...) presso il (...) prima dell'8.5.2020, così che, ragionevolmente, si dovrebbe supporre che tale iscrizione sia stata la conseguenza logica del suo antefatto. Così non può essere. Il teste (...) ha, infatti, dichiarato che, una volta informato dal dott. (...) della situazione di possibile impasse esistente presso la (...) aveva avuto nel mese di maggio un colloquio telefonico con il dott. (...), che gli era sembrato avere le idee particolarmente chiare sull'indagine menzionatagli e, successivamente, il 16 giugno, era tornato con lui sull'argomento in occasione di un incontro di persona a Roma. Dal canto suo il teste (...) ha collocato tale contatto telefonico alla data del 25 maggio 2020, confermando poi il colloquio avvenuto di persona a Roma il successivo 16 giugno. Ha escluso, viceversa, che negli sms del 7 maggio 2020, scambiatisi con il dott. (...), l'argomento trattato fosse stato quello avente ad oggetto l'indagine sulla cd. "Loggia Ungheria", spiegando, viceversa, che oggetto di tali messaggi era il ben più urgente disegno di legge del Ministro sulla scarcerazione dei mafiosi a seguito della pandemia per "Covid 19". Del tutto inconferente sul punto appare, viceversa, la deposizione del teste (...), che ha ancorato il ricordo delle confidenze ricevute dal dott. (...) - con le quali questi gli aveva esternato la sua preoccupazione per l'indagine a carico del collega osteggiata dalla Procura della Repubblica di Milano e, nell'occasione, gli aveva fatto vedere i verbali, rappresentandogli di averne già fatto parola con il dott. (...) e il dott. (...) nel primo giorno del suo rientro a Roma dopo il lockdown. A ben vedere, infatti, tale data non è quella riportata nella citata sentenza della Corte di Appello di Brescia -indicata, all'evidenza per un mero errore materiale nell'8 maggio 2020, così da indurre a collocare il colloquio tra il dott. (...) e il dott. (...) tra il 4 e il 6 maggio-, ma è l'8 giugno 2020, posto che il teste indica con precisione proprio tale data per il suo rientro a Roma dopo il lockdown, specificando che questo era avvenuto in ritardo rispetto alla ripresa dei lavori in presenza presso il (...) risalente al 4 maggio 2020, in ragione delle gravi problematiche connesse (...) (vds deposizione teste (...) udienza 23.2.2023 pg. 14). Orbene e a prescindere dalla considerazione del G.I.P. del Tribunale di Brescia, che, nell'archiviare la posizione del dott. (...) per il reato di cui all'art. 328 c.p. ritiene implausibile che un'eventuale comunicazione riservata sul procedimento "Ungheria" possa essere stata affidata a dei semplici messaggi di testo susseguitisi nell'arco di pochissimi secondi, come quelli documentati il 7 maggio 2020 tra i due Procuratori, in ottica difensiva dovrebbe ipotizzarsi che il teste (...) affermi il falso per ragioni di comprensibile autotutela. Rileva il collegio, tuttavia, come non vi siano elementi concreti che smentiscano quanto affermato dal teste, tanto più che la sua spiegazione ha una sua dignità storica alla luce del tragico periodo emergenziale, che, all'epoca, il Paese stava attraversando e che ben può spiegare come i vertici operativi delle più importanti sedi investigative d'Italia potessero confrontarsi sulle tematiche di maggiore attualità nell'imminenza della cessazione del primo periodo di sospensione dei termini processuali. Non solo, ma è lo stesso dott. (...) - a meno di non volere ritenere che anche il (...), questa volta senza interesse alcuno, abbia anch'egli dichiarato il falso- a corroborare la deposizione del (...), allorché riferisce di avere avuto sul tema della "Loggia Ungheria" un colloquio telefonico con il dott. (...) e non già un semplice scambio di sms, come quello per l'appunto registrato il 7 maggio 2020. Peraltro il teste (...) ha dichiarato solo di essersi informato dell'esistenza dell'indagine e del suo contenuto e non già di avere ordinato una qualche iscrizione, rimanendo peraltro confortato dalle rassicuranti risposte ricevute dal suo interlocutore. A ciò si aggiunga che è la stessa cronistoria delle attività investigative sorte a seguito delle rivelazioni dell'avvocato (...) per come ripercorsa dal decreto di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Brescia a smentire l'assunto dell'appellante e a far ritenere che l'iscrizione nel registro degli indagati di (...), e (...) sia stata decisa a prescindere dall'intervento del dott. (...) presso il (...). Invero già il 29 aprile 2020 il dott. (...), ricevuta la scheda di iscrizione spedita dal dott. (...), aveva indetto una riunione per discutere del procedimento penale e di eventuali iscrizioni, riunione poi postergata al giorno successivo e ulteriormente rinviata al giorno 8 maggio 2020 per cause indipendenti dalla volontà del medesimo accusato. Da ciò si desume che l'iscrizione dei nominativi dei tre rei confessi di appartenere alla ed. "Loggia Ungheria" sia stata maturata prima e, comunque, a prescindere dall'intervento del dott. (...) presso il (...) e sia stata, viceversa, il frutto di quel confronto tra investigatori determinato dalla improvvisa iniziativa del dott. (...) e dalla sua eccentricità - al sol considerare che la scelta degli otto nominativi da iscrivere riportati nella scheda di iscrizione appariva del tutto casuale e priva di logica, per come emerge anche dalle affermazioni dello stesso teste (...). La natura di reato di pericolo del reato di rivelazione del segreto d'ufficio Quanto alla natura di reato di pericolo del reato di cui all'art.326 c.p. si osserva, poi, come ormai sia pacifica la giurisprudenza sulla natura del reato in contestazione, all'indomani dell'intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, con la nota sentenza n.4694 del 27.10.2011, con cui si è affermato che "il delitto di rivelazione di segreti d'ufficio riveste natura di reato di pericolo effettivo e non meramente presunto nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta". Al collegio pare di particolare pregnanza il passaggio motivazionale della sentenza citata, nella parte in cui, dopo avere affermato che le ipotesi di non punibilità del reato di cui all'art.326 c.p. per inoffensività del fatto risultano comunque limitate a casi assai circoscritti, viene evidenziato che quando è la legge a prevedere l'obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere questione circa l'esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l'esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell'obbligo del segreto (cfr Cass pen., sez.VI, 11.10.2005, n.42726). Se così è, è evidente che, nel momento in cui è lo stesso art.329 c.p.p. a indicare che, come nel caso di specie, gli atti di indagine sono atti coperti da segreto tout court e che, anche quelli non più coperti da segreto, possono essere secretati con decreto motivato del pubblico ministero in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini, la valutazione circa la sussistenza del pericolo della loro divulgazione è già stata fatta, a monte, dalla norma primaria senza che possa essere rimesso all'interprete la valutazione del rischio. Da ciò consegue che le rivelazioni rese dal dott. (...), in quanto concernenti atti coperti da segreto ex art.329 c.p., erano, per ciò stesso, potenzialmente pericolose per l'indagine a prescindere dalla loro successiva e ulteriore divulgazione. Peraltro, per come condivisibilmente affermato dal giudice di prime cure, la fuga di notizie mediante la trasmissione dei plichi anonimi ai giornalisti (...) e (...) e, non a caso, al consigliere (...), non può certo considerarsi una vicenda estranea e avulsa dalla responsabilità dell'imputato in termini anche di prevedibilità e permea di significato la nozione di pericolo concreto evocato dalla norma incriminatrice. Sul punto lo stesso decreto di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Perugia della posizione di (...) e altri per il reato di cui all'art.2 della cd. "legge Anselmi" condivide le difficoltà evidenziate dal P.M. nella richiesta di archiviazione, già di per sé non semplici per il titolo di reato -che non consentiva di attivare intercettazioni- e per l'unicità della fonte dichiarativa -che riferiva principalmente di circostanze apprese de relato-, in ragione della fuga di notizie "senza eguali precedenti, che ha inevitabilmente inciso sullo sviluppo delle investigazioni negativamente" (pg.39). Senza peraltro trascurare, sempre sul pericolo concreto di inquinamento probatorio, quanto riportato dal Tribunale in merito al fatto che il dott. (...) aveva consegnato per la loro lettura i verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...) al collega consigliere, dott. (...), soggetto menzionato dallo stesso legale come uno dei destinatari, a suo insaputa, dei favori della "Loggia Ungheria" per intralciare un'indagine promossa da un pool di magistrati di Roma, tra cui vi era lo stesso dott. (...) (vds deposizione teste (...) del 15.11.2022). Il contemperamento tra le esigenze investigative e il perseguimento delle finalità del C.S.M. La questione in oggetto discende ancora una volta dal principio affermato dalla menzionata sentenza delle Sezioni Unite, secondo cui il reato non sussiste, oltre che nella generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico, qualora le notizie d'ufficio ancora segrete siano rivelate a persone autorizzate a riceverle (e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta). Posto che il segreto investigativo, in tesi difensiva, non sarebbe opponibile al C.S.M. e, per ciò stesso, al singolo consigliere, che di tale consesso faccia parte e che i terzi, a cui la notizia è stata riferita, erano soggetti autorizzati a riceverle per i loro fini istituzionali, il reato non sussisterebbe. Questo collegio non condivide la tesi propugnata. L'assunto, secondo il quale il segreto investigativo non è opponibile al singolo consigliere dell'organo di autogoverno della magistratura, in quanto il segreto investigativo non sarebbe opponibile al C.S.M., poggia su una forzatura interpretativa, che, per quanto suggestiva, è da ritenersi erronea. E', innanzitutto, indubbio che la secretazione accordata al segreto investigativo riceve una tutela particolarmente rafforzata dalla sua previsione con legge primaria, quale giustappunto sono gli artt. 326 c.p. e 329 c.p.p. Nel contemperare, poi, le opposte esigenze di tutela investigativa da parte degli organi inquirenti e di necessità per il C.S.M. di apprendere fatti, che possano avere rilievo per la tutela dei suoi fini istituzionali, si sono succedute una serie di circolari, per come ampiamente riportate dal Tribunale. Si tratta questa volta di una serie di norme di rango secondario, che disciplinano casi, modalità e tempi con i quali gli Uffici di Procura sono tenuti, in deroga alle norme di carattere primario poste a tutela del segreto investigativo, a trasmettere al C.S.M. atti funzionali allo svolgimento delle proprie attività. E poiché si tratta di norme di carattere secondario che derogano ad un principio generale stabilito da norma di rango superiore, queste sono, per ciò stesso, norme di stretta interpretazione e la cui valutazione non può, per ciò stesso, essere rimessa alla soggettiva valutazione dell'interprete. Orbene richiamando sul punto quanto argomentato dal Tribunale, si può ritenere che il (...) non abbia alcun accesso incondizionato e immediato agli atti di indagine, per come, viceversa, sostenuto dall'appellante. Già con deliberazione n.510 in data 15 gennaio 1994 il Consiglio Superiore della Magistratura aveva disposto che il pubblico ministero procedente desse immediata comunicazione al Consiglio di tutte le notizie di reato, nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio, salvo che sussistano e vengano comunicate ragioni che possano rendere inopportuna la immediata comunicazione, per il positivo sviluppo delle indagini e/o per la sicurezza delle persone. Con la successiva deliberazione del 17 maggio 1995, concernente lo svolgimento di ispezioni ed inchieste ministeriali, il C.S.M. ha ribadito il suo costante orientamento sul punto della non opponibilità, in linea di principio, del segreto investigativo, prevedendo, tuttavia, la rimessione alla valutazione del magistrato procedente della sussistenza di specifiche ragioni per il mantenimento del segreto anche nei confronti degli organi titolari del potere-dovere di vigilanza. Infine la successiva circolare n. 13682 del 5 ottobre 1995 ("Informative concernenti procedimenti penali a carico di magistrati'') ha specificato che le notizie di reato, nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio vengano comunicate dai Procuratori Generali e dai Procuratori della Repubblica con plico riservato al Comitato di Presidenza, salvo che sussistano e vengano comunicate ragioni che possono rendere inopportuna la immediata comunicazione, per il positivo sviluppo delle indagini e/o per la sicurezza delle persone. Sul punto ritiene il collegio come non vi possano essere fraintendimenti sull'organo deputato a interloquire con il C.S.M. a proposito dell'opponibilità o meno del segreto investigativo. Per quanto la sezione disciplinare del C.S.M. nel procedimento a carico del dott. (...) nel giungere al proscioglimento limitatamente ad uno degli addebiti formulatigli, ha fatto riferimento a problematiche di natura interpretativa, posto che la circolare 510/1994 fa riferimento al pubblico ministero che procede, mentre le successive e, da ultimo la 13682/1995, parlano di Procuratore delle Repubblica e di Procuratore Generale, non si vede francamente perché non si dovrebbe assecondare l'ultima e più recente indicazione dello stesso organo di autogoverno, del tutto conforme a quei principi di stretta interpretazione valevoli per le eccezioni al principio generale, peraltro introdotto da norme di rango inferiore e, per di più, coerente con la successiva introduzione di un modello fortemente gerarchizzato della Procura della Repubblica per effetto del D.Lgs. 20.2.2006, n.106 recante "Disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del Pubblico Ministero, a norma dell'art. 1 comma 1, lett. d) della legge 2005 n.150". Confortano tale ricostruzione ermeneutica, del resto, le affermazioni stesse del teste dott. (...), il quale ha specificato che, nelle sue funzioni di (...) riceve generalmente le notizie dalle (...) il che comporta, che già a monte, è stato vagliato il tema della non opponibilità dell'atto di indagine al C.S.M. Diversamente se l'atto non perviene dall'organo deputato a interloquire con il C.S.M., egli stesso - o anche le singole commissioni in sede di istruttoria- avvia una preliminare interlocuzione con la competente Procura della Repubblica per comprendere la natura di tali atti e se questi siano o meno coperti da segreto investigativo. E, nel caso di specie, va ricordato quanto di fatto è avvenuto all'indomani delle rivelazioni al (...) del dott. (...) circa la ricezione dei verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...), allorché è stata addirittura (...) a chiedere gli atti di indagine alla (...) che, puntualmente, ne ha rifiutato la consegna, opponendo il segreto. Il C.S.M., pertanto, non ha alcun accesso incondizionato agli atti di un'indagine. Infatti le Procure possono omettere - o eventualmente opporsi o ritardare - la trasmissione delle informative per esigenze investigative o per la tutela di terzi e ciò, lo si ribadisce, alla luce del principio di gerarchia esistente tra le fonti normative primarie poste a tutela delle indagini e quelle di rango subordinato che disciplinano l'attività del C.S.M. Non solo, ma anche a voler opinare il contrario, e cioè che possa spettare al pubblico ministero procedente opporre il segreto investigativo e non già al Procuratore della Repubblica, di tal che, se è questi a disvelare la notizia, vi sarebbe implicitamente il suo consenso alla rivelazione dell'atto di indagine, nel caso di specie non si potrebbe nemmeno ritenere sussistente la legittimazione del dott. (...) al disvelamento degli atti di indagine secretati, trattandosi solo del contitolare del procedimento penale n. (...) in quanto in co-assegnazione con la dott.ssa (...) E posto che la circolare 510 non fa alcun riferimento a poteri disgiunti, ma solo al pubblico ministero che procede, l'eventuale discovery agli atti investigativi sarebbe dovuto provenire necessariamente da entrambi i titolari del procedimento e non già da uno solo di essi. Quindi, nel caso di specie, il dott. (...) non era in alcun modo autorizzato a ricevere atti e notizie coperti dal segreto investigativo, anche perché il suo contraddittore non aveva comunque legittimazione alcuna a tal proposito. Ma vi è di più. Per come puntualizza il giudice di prime cure, le circolari menzionate sono particolarmente restrittive anche per quanto riguarda l'oggetto e le modalità di trasmissione al C.S.M. delle notizie coperte da segreto. Quanto all'oggetto delle informative queste devono, infatti, concernere notizie di reato iscritte ex art. 335 c.p.p. o anche a mod. 45, ove si ravvisino fatti privi di rilievo penale "che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio". L'invio degli atti deve avvenire, poi, mediante plico riservato con destinatario il (...) La migrazione di atti coperti da segreto deve, dunque, avvenire attraverso il canale comunicativo tracciato dalle normative in materia e giammai può avvenire attraverso quelle comunicazioni riservate e confidenziali, di cui tutti i testi hanno parlato, per come espressamente riportato nella sentenza impugnata. Non solo, ma anche a voler sostenere che non necessariamente i verbali contenenti le dichiarazioni "esplosive" dell'avv.to (...) dovevano essere spediti in plico chiuso al (...) vi era la necessità che quanto da essi rappresentato venisse formalmente acquisito al protocollo del (...) per l'inoltro al (...), cosa che viceversa non è in alcun modo avvenuto. E in tale modo la violazione delle circolari è stata tutt'altro che formale, ma è stata sostanziale, in quanto con l'agire sotto traccia è stato impedito alla Procura della Repubblica di Milano di poter opporre il segreto investigativo, per come avrebbe fatto sicuramente, secondo quanto manifestato dal teste (...) e avvenuto, poi concretamente, da parte del Procuratore della Repubblica di Perugia, una volta che l'indagine era stata spostata per competenza nel capoluogo umbro. Né, infine, convince la tesi secondo la quale i soggetti terzi, cui sarebbe stata destinata da parte del dott. (...) la notizia "riservata", l'avrebbero dovuta conoscere per i propri fini istituzionali. A prescindere dalle considerazioni spese a proposito dell'opponibilità del segreto investigativo al C.S.M., l'inconsistenza della tesi difensiva si evidenzia, in maniera eclatante, con riferimento alla comunicazione dell'indagine alle collaboratrici di ufficio dell'imputato, dott.sse (...) e (...); non si vede, francamente, la ragione per la quale costoro dovessero essere messe al corrente del contenuto accusatorio riportato nei verbali dell'avv.to (...), tanto più che si trattava di atti che mai erano stati formalmente acquisiti dal C.S.M. e che, pertanto, non erano atti dell'ufficio. Peraltro costoro non solo sono state messe a conoscenza dell'asserita esistenza della loggia massonica ventilata dal legale e dei soggetti che ne erano coinvolti, ma sono anche state compiutamente edotte dei meccanismi di condizionamento che questa avrebbe posto in essere per favorire la nomina di alcune cariche istituzionali di particolare rilievo, così da arrivare, addirittura, a convincersi che la mancata conferma del dott. (...) nell'incarico di consigliere del C.S.M., al raggiungimento dell'età pensionabile, fosse stata determinata, giustappunto, dalla trame di detta associazione segreta. Senza peraltro dimenticarsi del soggetto del tutto estraneo al C.S.M. o del (...), anch'egli non facente certo parte all'epoca dell'organo di autogoverno della magistratura. L'assenza di alternative comportamentali Questa Corte territoriale dissente, poi, dalla tesi difensiva più volte richiamata, che rimarca come il dott. (...), venuto suo malgrado a conoscenza delle scottanti dichiarazioni dell'(...) consapevole del possibile attacco che poteva essere sferrato all'ordine giudiziario e sconcertato per le oscure manovre, che avrebbero indotto a non investigare oltre sulla cd. "Loggia Ungheria", non avesse altra alternativa che quella di rispedire al mittente il dott. (...). Si assume, viceversa, che l'imputato abbia avvertito la gravità della situazione denunciata ed, anziché disinteressarsi della questione, si sia fatto carico di tale pesante fardello al fine di rimuovere un'indagine apparentemente incagliata e rimettere il procedimento nei binari della legalità. Orbene ed anche a non volere condividere la tesi esposta dal (...), secondo cui non poteva certo sfuggire ad un magistrato così esperto la problematicità delle dichiarazioni accusatorie rese dall'avv.to (...) rappresentative di una congerie di circostanze slegate una dall'altra, fondate per lo più su notizie apprese de relato e per la quale la competenza territoriale era di altro distretto, appare impensabile che una persona professionalmente attrezzata come il dott. (...) non si sia rappresentata che la strada per porre rimedio alla riferita inerzia dei vertici della Procura della Repubblica di Milano non era certo quella di rivolgersi al (...), le cui competenze, all'evidenza, esulano dal provvedere alle iscrizioni delle notizie di reato. E', infatti, l'art. 6 del già citato D.Lgs. 106/2006 che pone in capo al Procuratore Generale della Corte di Appello il compito, tra gli altri, di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell'azione penale e l'osservanza delle disposizioni relative all'iscrizione delle notizie di reato. Al riguardo il dott. (...) assume che tale soluzione non gli sarebbe venuta in mente (vds deposizione (...) udienza (...)) e che aveva ritenuto sufficiente avere il supporto di una persona esperta e autorevole, come il dott. (...), peraltro, (...). A ben vedere nemmeno nel procedimento, che lo vedeva imputato, il dott. (...) ha dato una qualche plausibile giustificazione di una dimenticanza tanto eclatante, tant'è che nelle stesse sentenze, che pur hanno avallato la sua versione, non si rinviene alcuna giustificazione in ordine alla ragione per la quale questi non abbia ritenuto di percorrere la strada maestra tracciata dall'ordinamento per porre rimedio all'asserito ostracismo del Procuratore della Repubblica di Milano al suo anelito investigativo e, cioè, quella di rivolgersi al soggetto istituzionale che, per disposizione normativa, ha il compito di vigilanza ed ha gli strumenti per intervenire, ivi compreso il potere di avocazione previsto dall'art.412 c.p.p. Non solo, ma lo stesso dott. (...), il quale ha creduto alla versione del collega -sostanzialmente sulla scorta della sua sola parola, non avendo egli mosso alcun passo formale sino ad allora, nemmeno quello di procedere alla identificazione dei ed "ungheresi"-, non è stato in grado di illustrare se avesse compreso la ragione compiuta, per la quale il dott. (...) si era rivolto a lui e non già al (...) o a chi, in quel periodo, ne faceva le veci. Se, tuttavia, si può anche non pretendere che l'imputato si faccia carico di giustificare l'incedere altrui, una spiegazione plausibile la si sarebbe aspettata in merito alla sua personale decisione di avallare la scelta del più giovane collega e di non indirizzarlo al (...) o di consigliarlo in tal senso (vds deposizione (...), udienza 24.5.2022 pg.87). Sul tema la spiegazione resa dal dott. (...) e, cioè che, all'epoca, la (...) era retta (...) soggetto noto per alcuni suoi macroscopici errori giuridici e tale da non riscuotere affidamento (udienza (...) esame (...)), non appare per nulla appagante. Si tratta, all'evidenza, di una giustificazione di facciata per avallare la scelta di disattendere le chiare indicazioni ordinamentali di sistema, che prescindono, proprio perché sono poste a presidio del corretto funzionamento di insieme dell'organizzazione giudiziaria, dalle capacità personali del singolo; ciò a maggior ragione, nel caso di specie, ove la questione concernente la potenziale tardività di un'iscrizione nel registro degli indagati rispetto all'emersione della fonte dichiarativa e l'adozione dei conseguenti provvedimenti, non era certo una problematica così difficile da risolvere e tale da richiedere l'intervento di un giurista particolarmente raffinato. L'imputato e il (...) A ciò deve aggiungersi che, per quanto l'imputato si sia speso nel sostenere di essersi dato da fare per risolvere la questione dello stallo investigativo presso la Procura della Repubblica di Milano, andando direttamente dal (...), senza percorrere la via formale, così da evitare che il dott. (...) potesse venire a conoscenza delle accuse mosse a suo carico, nessuno dei componenti del predetto ha affermato di avere avuto l'intendimento che il dott. (...) volesse che la notizia riferita uscisse dall'ambito prettamente confidenziale, con il quale gli era stata riportata. Tralasciando la circostanza per la quale il dott. (...) non ha compulsato il (...) il dott. (...), il cui collocamento a riposo è comunque avvenuto ben dopo il 4 maggio 2020, risultando il suo pensionamento dopo la metà del mese di luglio 2020, ai singoli componenti del (...) che pur è organo collegiale, l'imputato si è rivolto partitamente, attraverso contatti de visu, informalmente e con modalità, a ben vedere, diverse a seconda del tipo di interlocutore, con il quale di volta in volta si interfacciava. Al (...), dott. (...), il dott. (...), verosimilmente sfruttando il suo ascendente di magistrato di lungo corso rispetto ad un cd. "avvocato di provincia", per come si è autodefinito il teste, sollecita l'attivazione presso il (...) consegna brevi manu i verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...), così da accreditare la sua versione, ma si guarda bene dal riferirgli di mettersi in contatto con gli altri componenti del Comitato; sul punto il teste (...) ha dichiarato che l'imputato gli aveva detto che avrebbe parlato lui con il (...) per cui aveva inteso che tanto bastava, visti i poteri di indagine che a questi competevano. Viceversa con il dott. (...) e, successivamente, con il dott. (...), una volta che questi era divenuto subentrando al dott. (...), il dott. (...) risulta molto più accorto, tant'è che al (...) non rappresenta di avere già parlato dell'indagine milanese con il (...) e di averlo in qualche modo sollecitato ad andare dal (...). Il teste (...), peraltro, ha specificato che il collega non si era rivolto a lui (...), ma gli aveva esternato solo una sorta di preoccupazione per lo stallo dell'indagine milanese, ragion per cui egli si era determinato di conseguenza, senza farne cenno alcuno al dott. (...) inoltre, nell'occasione, nessun cenno gli era stato fatto alla fonte della notizia confidenziale, né tanto meno alla disponibilità dei verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...). Lo stesso teste (...) ha escluso che il dott. (...) si fosse a lui proposto in quanto (...) interpretando piuttosto il gesto del collega come un atto di cortesia verso un compagno di concorso di vecchia data, così da anticipargli un possibile problema che avrebbe potuto insorgere e prepararlo all'evenienza; ed anche in questo caso, a detta del teste, nessuna menzione gli era stata fatta dei verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...) e del fatto che questi erano stati già consegnati al dott. (...), né tanto meno che di tali riservate notizie gli (...) del (...) fossero già al corrente. Si è, quindi, in presenza di un comportamento, che, in qualche modo, appare funzionale ad evitare la circolarità della notizia tra i componenti di un organo che è collegiale e che funziona come tale e che, di conseguenza, appare tanto più eccentrico e lontano dall'affermazione dell'imputato di essersi voluti rivolgere al (...). Non solo, ma quel che colpisce del comportamento del dott. (...) è che con i colleghi, quali il dott. (...) e il dott. (...), egli è risultato particolarmente "abbottonato", tanto da non riferire loro quale fosse la sua fonte di informazione. E ciò è tanto più singolare se si considera che l'imputato, nelle altre propalazioni, non ha avuto remore con i (...) a lui più vicini a rivelare che la fonte delle sue informazioni era un (...), arrivando sin anco a farne il nome (teste (...)) o ad esibire loro i verbali consegnatigli dallo stesso (testi (...)). La ragione di tale agito nei confronti dei componenti del (...) che a prima vista sembrerebbe avere una certa incoerenza, appare viceversa avere una sua logica e, cioè, quella di evitare che il (...) potesse venire a sapere quale era la fonte della conoscenza della sua indagine, cosa che sarebbe accaduta se questi avesse parlato della circostanza con l'avvocato (...). Posto, infatti, che il dott. (...) nella sua qualità di (...) è anche il titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, non appare un fuor d'opera ritenere che il silenzio sul punto del dott. (...) e il suo relazionarsi paratitamente con i singoli componenti del (...) tacendo agli uni quello che era stato detto all'altro, sia stato fatto appositamente per tutelare il dott. (...) dalle conseguenze relative alla sua irrituale iniziativa. Prova ne è che, successivamente all'emersione pubblica del retroscena della vicenda, il (...) ha esercitato, ancorché senza successo per un capo, l'azione disciplinare nei confronti del dott. (...), per come si evince dalla stessa sentenza della Corte di Appello di Brescia che ha assolto quest'ultimo. L'elemento soggettivo del reato Quanto al profilo del dolo, va evidenziato che il reato di cui all'art. 326 c.p. è punibile a titolo di dolo generico, consistente nella volontà consapevole della rivelazione e nella coscienza che la notizia costituisce un segreto di ufficio, essendo, perciò, irrilevante il movente ovvero la finalità della condotta e senza che possa aver alcun valore esimente l'eventuale errore sui limiti dei propri e degli altrui poteri e doveri in ordine a dette notizie (Cass. pen., sez.VI, 13.1.1999, n.2183; sez. VI, 11.2.2002, n.9331). Nel caso di specie nemmeno l'appellante profila la sussistenza di errori sulle proprie e sulle altrui attribuzioni, cosa che, del resto, sarebbe impensabile stante il suo spessore professionale. E' indubitabile, infatti, che il dott. (...), ancorché compulsato dal dott. (...) ai primi di aprile 2020 in ordine alla situazione di impasse nella quale si sarebbe trovato per effetto degli asseriti comportamenti ostruzionistici dei suoi superiori, era ben consapevole di ricevere notizie coperte da segreto investigativo ed in relazione alle quali, giammai, vi sarebbe potuto essere consenso alla loro rivelazione in ragione della mancanza di legittimazione del suo interlocutore per le ragioni sovra rappresentate. Così come ben era cosciente, per come desumibile dalla spiegazione concernente la scelta di non rivolgersi all'(...) che all'epoca reggeva la (...), che questi era il soggetto cui competeva, per legge, di porre rimedio alle eventuali inerzie investigative della Procura della Repubblica. La piena conoscenza dei limiti delle proprie attribuzioni da parte dell'imputato esclude, radicalmente, che egli possa poi avere ritenuto di adempiere un dovere, che in alcun modo l'ordinamento gli attribuiva. E per quanto si voglia opinare circa il fatto che l'imputato si sarebbe trovato a gestire una situazione, per la quale non aveva interesse alcuno, che non era stata da lui sollecitata e che gli veniva rappresentata in termini di estrema gravità, appare difficile sostenere che egli non abbia avuto il tempo di comprendere appieno quanto riferitogli, di valutarlo, di riflettere sul da farsi e di determinarsi conseguentemente. Le stesse differenti modalità di rapportarsi diversamente con i membri del (...) appaiono indicative di una scelta ben ponderata e tutt'altro che casuale. Non può nascondersi, del resto, che i contatti con il dott. (...), a dire dei due protagonisti, risalgono in pieno periodo emergenziale, quando l'isolamento sociale imposto dal potere esecutivo per frenare il contagio aveva determinato un rallentamento dei ritmi di vita e di lavoro quotidiani anche in ambito giudiziario. La stessa attività del C.S.M. in presenza, peraltro, era stata sospesa. Non può allora ritenersi appagante la spiegazione, secondo la quale le successive propalazioni del dott. (...) sarebbero state dettate dalla volontà di riportare la vicenda sui binari della legalità e sventare un gravissimo attacco all'Ordinamento giudiziario. Sarebbe stato sufficiente per questo, cosi da avallare quanto meno la buona fede dell'imputato, che egli avesse indirizzato il dott. (...) alla (...) e, se tale strada nell'ottica personale del dott. (...) non fosse stata percorribile in ragione della ritenuta incapacità del suo reggente, che lui stesso avesse compulsato il (...) nella sua collegialità, rimettendo a tale organo se e in che modo dovesse avvenire la formalizzazione della vicenda e i conseguenti comportamenti da adottare sia per smuovere l'eventuale stallo all'indagine meneghina sia per tutelare i soggetti, che ne erano coinvolti, ivi compresa la figura del dott. (...). Viceversa l'imputato si è determinato ad una sovraesposizione personale del tutto singolare, non necessitata e che, per quanto ponderata, si è risolta di fatto in una serie di irrituali e illecite confidenze, che poi hanno sortito quell'effetto finale di una fuga di notizie "senza eguali precedenti", già stigmatizzata dall'Autorità giudiziaria umbra. L'imputato e la parte civile Non è compito di questa Corte comprendere la ragione degli agiti del dott. (...), il quale, senza necessità alcuna, ha sapientemente portato a conoscenza di una selezionata platea di destinatari notizie coperte da segreto investigativo attraverso una serie di incontri informali, pur consapevole di gettare una sinistra luce sull'operato della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano e sui (...), dottori (...) e (...). Il reato di cui all'art. 326 c.p. è del resto un reato a dolo generico e il movente è, perciò, irrilevante, come lo è la finalità della condotta. E sul punto appare del tutto inutile ritornare sull'argomento relativo agli asseriti moventi personali, che avrebbero spinto il dott. (...) a ottenere e poi divulgare i verbali dell'avv. (...) Già il Tribunale, senza smentita alcuna, ha rimarcato come gli elementi raccolti non abbiano consentito di comprovare con sufficiente certezza che il comportamento del dott. (...) sia stato determinato sin dall'origine dall'animus nocendi nei confronti della parte civile per personalismi e/o intenti ritorsivi verso la stessa in ragione dei dissapori, che si erano via via andati creando, pur a fronte di un'originaria affinità e comunanza di intenti. Né, del resto, vi è dimostrazione che l'imputato già sapesse delle accuse rivolte al collega dall'avv.to (...), al momento della riunione di "corrente" del 3 marzo 2020, nel corso della quale si registra l'aggressione verbale del dott. (...) al dott. (...), reo, ai suoi occhi, di dissentire dalla proposta di sostenere la candidatura del dott. (...) al vertice della (...) Il danno alla parte civile Nel contestare la sussistenza del danno alla parte civile assume l'appellante, che avere informato i (...) di un fatto veritiero, quale l'esistenza di un'indagine per una presunta partecipazione a una loggia segreta, non potrebbe essere inteso nell'accezione di disseminare "tossine denigratorie". A ciò si aggiunge che quasi tutti i testi sentiti avrebbero escluso sostanzialmente di avere cambiato atteggiamento nei confronti del consigliere (...), dopo quanto appreso dall'imputato. Osserva il collegio come, a prescindere dal fatto che l'azione del dott. (...) sia stata tutt'altro che necessitata e che le notizie confidenziali si sono estese ben oltre il perimetro della stretta cerchia (...) non vi siano margini di incertezza sul fatto che l'imputato abbia operato in modo tale da insinuare, quanto meno, il dubbio nella maggior parte dei destinatari delle sue confidenze circa l'appartenenza ad una loggia massonica del dott. (...), così andando a lederne l'onore e il prestigio. Per quanto si voglia contestare che tale incedere integri l'espressione usata dal Tribunale, è indubitabile che attribuire ad un magistrato la possibile appartenenza ad una loggia massonica equivale a consegnargli la patente di soggetto inaffidabile e infedele, in quanto, uniformandosi alle regole della fratellanza, antepone queste a quello dello Stato repubblicano, di cui è servitore. Si tratta di un'accusa gravissima, tenuto conto del ruolo e dalla qualifica professionale rivestiti dal destinatario di questa e che, per ciò stesso, è in grado di minarne la sua credibilità, per come di fatto è avvenuto. E la reazione sdegnata del dott. (...), all'esito della riunione informale tenutasi tra consiglieri del C.S.M., dopo l'intervento al del dott. (...) dell'aprile del (...) in cui la parte civile ha appreso come una buona parte dei consiglieri fosse a conoscenza delle accuse mossegli dall'avv.to (...), è significativa in ragione della comprensione da parte della parte civile del motivo, per il quale, sin dalla primavera precedente, era stato isolato e ciò in ragione dell'opera diffamatoria posta in essere dal dott. (...). Peraltro lo sdegno della parte civile non sorge certo per il fatto di non essere stato avvisato delle accuse potenzialmente calunniose -visto che nei confronti dell'avv.to (...) è stata promossa azione penale giustappunto per il reato di cui all'art. 368 c.p.-, ma perché persone, con cui aveva un rapporto di colleganza ed anche di militanza correntizia, avevano dubitato della sua integrità morale, così da prendere per buona l'accusa di essere un massone e assumere nei suoi confronti un atteggiamento distaccato rispetto ai normali rapporti di confidenza che si creano tra coloro che, generalmente, condividono il lavoro quotidiano. E, per quanto in chiave difensiva, si voglia sostenere che quasi tutti i testi avrebbero affermato di non avere cambiato atteggiamento verso il (...) basta riportare le affermazioni di un teste neutrale come il dott. (...), il quale giustappunto e a riscontro di quanto riferito dalla parte civile, ha ricordato come ben prima di ricevere il plico anonimo, avesse constatato un certo isolamento del collega all'interno del consiglio. Il teste (...) ha, del resto, dichiarato di avere "prudenzialmente" preso le distanze dal collega. Il teste (...) ha ricondotto il suo atteggiamento distaccato già alla vicenda (...), ma certo le confidenze del dott. (...) non devono averlo certo incoraggiato verso la parte civile. Il teste (...) ha ammesso di avere avuto una fisiologica diffidenza verso il collega, anche se poi, cercando di ridimensionare tale affermazione, ha ricondotto tale suo approccio anche con tutti gli altri consiglieri; tale ultima giustificazione, tuttavia, appare incongrua al sol considerare come l'asserito e generalizzato atteggiamento di distacco verso i colleghi mal si concili con l'abitudine di recarsi tutte le mattine presso lo studio del (...) per consumare un cioccolatino e intrattenersi con lui in amabile conversazione, per come riferito dall'imputato medesimo. Il teste (...) ha poi rimarcato che, in ragione della notizia ricevuta, ebbe a tenere un atteggiamento di prudenza verso il dott. (...) Non solo, ma se non bastasse appare vieppiù significativo l'episodio della confidenza fatta al (...). Posto che il dott. (...) non aveva necessità alcuna di indicare nell'asserita appartenenza massonica del collega il motivo per il quale non voleva partecipare al prospettato incontro pacificatore, ben potendo limitarsi a rappresentare l'esistenza di motivi personali che gli impedivano di partecipare al prospettato incontro pacificatore, la ragione di tale incedere risiede altrove. Se, infatti, si tiene a mente che nelle intenzioni del parlamentare vi era la conclamata volontà di proporre al dott. (...) una collaborazione con la (...) è evidente che la rivelazione del dott. (...) sia stata funzionale a scongiurare tale iniziativa. E' poi evidente che se l'intenzione del dott. (...) fosse stata unicamente quella di rimettere la vicenda sui binari della legalità, egli avrebbe ben dovuto acquietarsi, una volta compulsato il (...) e il (...). Il fatto che, viceversa, l'imputato abbia avvertito l'esigenza di continuare a ledere l'onore della parte civile -e non solo- è comprensibile solo nella mirata strategia volta ad isolare la parte civile nei suoi rapporti istituzionali. Sul tema è lo stesso Tribunale a rimarcare l'"entusiasmo" con il quale il dott. (...) ha cavalcato la notizia della possibile appartenenza massonica del dott. (...), frutto di una convinzione che è ben lungi dalla prospettazione difensiva formulata in sede di arringa, secondo cui egli si sarebbe limitato ad avanzare prudenziali dubbi sulle accuse mosse dall'avv.to (...) Basti pensare che egli, di fronte alle titubanze avanzate dal dott. (...), che a pelle escludeva la possibile appartenenza del dott. (...) a logiche massoniche, ribatte con convinzione che "quando i massoni vanno in sonno, rimangono sempre massoni" o all'esigenza di apprendere il grado di affidabilità dell'avv.to (...) quale fonte dichiarativa dal collega (...) che già, nel corso delle sue indagini come pubblico ministero, vi aveva avuto a che fare o all'invito rivolto al dott. (...) di prendere le distanze dal dott. (...), in quanto l'indagine sulla sua possibile appartenenza massonica avrebbe preso una brutta piega per lo stesso. Per tali ragioni, di conseguenza, non può che condividersi l'assunto, secondo il quale il comportamento dell'imputato ha leso la parte civile, oltre che nella sua sfera morale -si pensi alla reazione emotiva e psicologica della persona offesa descritta dai testi (...) e (...) all'indomani della diffusione delle notizie sulla cd. Loggia Ungheria-, anche sotto il profilo della sua reputazione. La contestazione della continuazione tra la rivelazione al (...) e le altre condotte di disvelamento del segreto Da ultimo va affrontata la questione introdotta dall'appellante il 6.12.2023 in sede di motivi aggiunti e con la quale si deduce l'erroneità dell'applicazione dell'istituto della continuazione alla condotta di rivelazione del segreto di ufficio operata dal dott. (...) nei confronti del (...), già (...) della (...) rispetto alle precedenti condotte rivelatorie contestate all'imputato al capo B). Sul punto non può che ritenersi condivisibile l'assunto del Procuratore Generale in merito all'inammissibilità di detto motivo di gravame. E' principio giurisprudenziale condiviso quello per cui "in materia di impugnazioni, la facoltà del ricorrente di presentare motivi nuovi incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, di cui i primi devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, ma sempre ricollegabili ai capi e ai punti già dedotti, sicché sono ammissibili soltanto motivi aggiunti con i quali si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori, ma non anche motivi con i quali si intenda allargare l'ambito del predetto "petitum", introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l'impugnazione" (cfr Cass pen., sez. VI, 30.9.2020, 36206). I motivi nuovi di impugnazione devono, quindi, essere inerenti ai temi specificati nei capi e punti della decisione investiti dall'impugnazione principale già presentata, essendo necessaria la sussistenza di una connessione funzionale tra i motivi nuovi e quelli originari. E, a tal proposito, va richiamato il costante indirizzo interpretativo secondo il quale i motivi "nuovi" che possono essere presentati dalla parte che ha proposto l'impugnazione fino al quindicesimo giorno precedente l'udienza di trattazione del gravame (art. 585 co. IV c.p.p. in relazione all'art. 167 disp. att. c.p.p.) debbono consistere in una ulteriore illustrazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta rivolta al giudice dell'impugnazione, peraltro sempre nei limiti dei capi o punti della decisione oggetto del gravame. In altri termini con i motivi nuovi non possono impugnarsi parti del provvedimento gravato, che non siano stati oggetto della preventiva impugnazione. Diversamente argomentando verrebbero frustrati i termini, la cui inosservanza è sanzionata con l'inammissibilità dell'impugnazione, prescritta dalla legge per la proposizione del gravame (cfr Cass. pen., sez. IV, 17.1.1997, n.90; Cass. pen., Sez. Unite, 25.2.1998, n. 4683; Cass pen., sez.III, 22.1.2004, n. 14776). Nel caso in esame è oggettivo il dato per cui, nell'impugnazione principale proposta nell'interesse del dott. (...), non è stata dedotta la questione secondo la quale la contestata rivelazione del segreto d'ufficio al (...) non rientrerebbe nel medesimo disegno criminoso volto, in tesi accusatoria, a minare la reputazione del dott. (...), così da isolarlo all'interno dei suoi rapporti di ufficio e interpersonali e che già sarebbe stato il filo conduttore delle altre condotte di rivelazione del segreto in contestazione al capo B) della rubrica imputativa. Di qui l'inammissibilità di tale domanda difensiva proposta nei motivi aggiunti di appello in ragione dell'assoluta novità del suo contenuto rispetto alle ragioni affidate all'impugnazione principale. Per effetto del rigetto integrale del gravame l'appellante va, conseguentemente, condannato al pagamento delle spese processuali e, in ossequio al principio della soccombenza, alla refusione delle spese di assistenza tecnica della parte civile, per come liquidate in dispositivo sulla scorta dei parametri tabellari forensi. PQM Visti gli artt. 592 e 605 c.p.p., conferma la sentenza emessa il 20.6.2023 dal Tribunale di Brescia appellata da (...), che condanna al pagamento delle ulteriori spese processuali del grado. Condanna (...) al pagamento in favore della parte civile (...) delle spese di rappresentanza, assistenza e difesa, che liquida in euro 946, oltre IVA, CPA e accessori di legge. Visto l'art. 544 co. III c.p.p., indica in giorni 90 il termine per il deposito della motivazione. Brescia, 7 marzo 2024
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 815 del 2022, proposto da: Pi. Pe. e Lo. Qu., rappresentati e difesi dall'avvocato Ba. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio fisico eletto presso l'avvocato Ni. La. in Roma, via (...); contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Fr. De Ma. e Ba. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio fisico eletto presso l'avvocato Da. Va. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, Sezione Seconda, n. 00512/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 maggio 2024 il Cons. Francesco Cocomile; Per parti nessun difensore è comparso; Viste le istanze di passaggio in decisione dei sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. e del Comune di (omissis); Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO 1. - Gli odierni appellanti Pi. Pe. e Lo. Qu. sono proprietari di un edificio residenziale e di un terreno, situati nel Comune di (omissis), in via (omissis). L'area è classificata tra gli ambiti del tessuto urbano consolidato ed è sottoposta a vincolo paesistico ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. c), dlgs n. 42/2004 (i.e. fascia di (omissis) metri dal torrente Ze.). Un secondo vincolo paesistico è stato imposto dalla Regione con DGR 30 settembre 2004 n. 7/18877, adottata ai sensi dell'art. 136, comma 1, lett. c) e d), dlgs n. 42/2004, in quanto è stato riconosciuto il notevole interesse geomorfologico, naturalistico e storico-culturale del sistema collinare di (omissis), (omissis) e (omissis). La Polizia locale a seguito di sopralluogo in data 29 marzo 2012 accertava la realizzazione senza titolo edilizio e senza autorizzazione paesistica delle seguenti opere: (i) copertura, mediante una soletta in cemento armato, di un tratto della (omissis) ulteriore rispetto a quanto assentito con la concessione edilizia n. 1194 del 4 febbraio 1993 e con la concessione edilizia n. 1357 del 2 agosto 1996 (la soletta non autorizzata ha una lunghezza di circa 9 metri); (ii) realizzazione di un deposito/ripostiglio in legno, avente superficie pari a circa 12 mq e altezza di gronda pari a 2,20 metri, collocato al di sopra della soletta che copre la (omissis); (iii) realizzazione di altri due depositi in legno, il primo avente superficie pari a circa 17 mq e altezza di gronda pari a 2,50 metri, con un piccolo portico di 9 mq e altezza di gronda pari a 2,50 metri, il secondo, situato in adiacenza a un manufatto di altra proprietà (con sporto di 2,10 metri), avente superficie pari a circa 15 mq e altezza di gronda pari a 2,30 metri, con apposita pavimentazione dell'area circostante; (iv) prosecuzione della recinzione esistente per una lunghezza di 8,50 metri, con posa di un cancello per accesso carraio di larghezza pari a 3,50 metri (nella DIA prot. n. 3361 di data 8 ottobre 1996 era rappresentato soltanto il muretto lungo il confine est del mappale n. 305/c); (v) incremento volumetrico dell'edificio residenziale, attraverso la realizzazione di un loggiato coperto al primo piano e di un corrispondente porticato al piano terra, aventi ciascuno superficie pari a circa 11 mq (con sporto di 2,80 metri) e altezza di gronda pari a 5,50 metri (3,24 metri all'interpiano), in difformità da quanto assentito nella concessione edilizia n. 995 di data 2 febbraio 1990; (vi) realizzazione di un manufatto in muratura, composto da un locale per bricolage di circa 24 mq, un piccolo portico di circa 6 mq, un'autorimessa di circa 16 mq, e un ripostiglio di circa 1,50 mq, il tutto situato in adiacenza a un manufatto di altra proprietà . Il Responsabile dei Servizi Edilizia Pubblica e Privata con provvedimento n. 9 del 17 settembre 2012 ordinava ai ricorrenti la demolizione delle opere abusive ai sensi dell'art. 31, comma 2, d.p.r. n. 380/2001. I sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. impugnavano detta ordinanza dinanzi al T.A.R. Lombardia, sede di Brescia con gravame r.g. n. 1378/2012, ma il Tribunale respingeva il ricorso con sentenza n. 420 del 21 marzo 2015 (passata in giudicato). Il Responsabile dell'Area Tecnica, con nota prot. n. 9711 del 10 novembre 2017 (notificata il 21 novembre 2017), ribadiva ai ricorrenti la necessità di procedere alla demolizione delle opere abusive, in considerazione della citata sentenza del T.A.R. Brescia n. 420/2015, del divieto di edificazione nei nuclei di antica formazione, dei vincoli paesistici, della classificazione nella zona 1 del PAI, e del divieto di opere nei pressi dei corsi d'acqua stabilito dall'art. 96 del RD 25 luglio 1904 n. 523. Per il caso di mancata ottemperanza all'ordine di demolizione, veniva prospettata la sanzione della perdita della proprietà del terreno ai sensi dell'art. 31, comma 3, d.p.r. n. 380/2001, oltre alla sanzione pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, da applicare nella misura massima all'interno delle aree sottoposte a vincolo paesistico o idrogeologico. Con verbale di constatazione e verifica del 9 marzo 2018 la Polizia locale accertava l'ottemperanza solo parziale all'ordine di demolizione. La situazione era descritta nei termini seguenti: (a) il punto (i) non è stato ottemperato, e dunque è rimasta al suo posto, al di sopra della (omissis), una superficie non assentita pari a 30,60 mq (9 x 3,40 metri); (b) il punto (iii) è stato ottemperato parzialmente, in quanto non è intervenuta la demolizione del secondo deposito, avente superficie pari a circa 15 mq; (c) il punto (v) non è stato ottemperato completamente, in quanto è stato conservato l'incremento volumetrico corrispondente alla superficie di 11 mq, con sporto di 2,80 metri; (d) il punto (vi) è stato ottemperato parzialmente, in quanto non è stato demolito il ripostiglio avente superficie pari a circa 1,50 mq. Constatato il carattere parziale dell'ottemperanza, il Responsabile dell'Area Polizia locale, con provvedimento prot. n. 2517 del 21 marzo 2018, applicava ai sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. la sanzione amministrativa pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, nella misura massima di Euro 20.000,00. Per lo stesso motivo il Responsabile dell'Area Tecnica, con ordinanza n. 4 del 23 marzo 2018, disponeva l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 31, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 delle opere non demolite, per una superficie pari a circa 58,10 mq, e dei mappali n. 1284, n. 2508 e n. 1290, aventi superficie non superiore a 10 volte il sedime delle opere abusive, per creare un'area funzionale all'accesso al medesimo sedime. In data 28 maggio 2018 i ricorrenti richiedevano la sanatoria edilizia e paesaggistica della copertura abusiva della (omissis). Entrambe le istanze venivano respinte dal responsabile dell'Area Tecnica, con distinti ma complementari provvedimenti rispettivamente prot. n. 6716 e prot. n. 6720 del 30 luglio 2018, nei quali si evidenziava in particolare che lo studio del reticolo idrografico comunale include la (omissis) nel reticolo idrico minore. 2. - Con ricorso introduttivo, integrato da motivi aggiunti, proposto dinanzi al T.A.R. Lombardia, Sezione staccata di Brescia, i sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. contestavano i menzionati provvedimenti, formulando censure che possono essere sintetizzate come segue: (i) violazione del giusto procedimento, in quanto il Comune avrebbe dovuto attendere la presentazione delle domande di sanatoria, e far decorrere il termine di demolizione dalla reiezione delle stesse, in modo da valutare adeguatamente le allegazioni riguardanti la natura privata della (omissis) e il contenuto della concessione edilizia n. 1357 del 2 agosto 1996 (che avrebbe autorizzato la copertura integrale della suddetta Roggia); (ii) travisamento, in quanto, alla data del sopralluogo della Polizia locale, sui manufatti non interamente rimossi erano in corso le operazioni di demolizione, e le strutture rimaste intatte erano comunque finalizzate a trasformare i manufatti in opere del tutto diverse, che avrebbero richiesto un'autonoma valutazione ed eventualmente un nuovo ordine di demolizione; (iii) difetto di istruttoria, in quanto la (omissis) non avrebbe natura pubblica, essendo priva di acqua e non interessata da concessioni di derivazione; (iv) sviamento, in quanto l'acquisizione gratuita del sedime servirebbe a sanare l'occupazione illegittima della proprietà dei ricorrenti per la posa di un tratto della fognatura comunale (v. relazione del geom. Ni. Be.); (v) erronea applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 nella misura massima, sia perché la disposizione è stata introdotta dall'art. 17, comma 1, lett. q-bis), decreto-legge n. 133/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164/2014, e dunque è successiva all'ordinanza di demolizione n. 9/2012, sia perché le opere abusive sono anteriori alla costituzione del vincolo paesistico di cui alla DGR 30 settembre 2004 n. 7/18877, e si collocano inoltre nel centro storico, dove le fasce di rispetto sono escluse ai sensi dell'art. 142, comma 2, lett. a), dlgs n. 42/2004. Oltre all'annullamento degli atti impugnati, veniva chiesta la condanna del Comune a restituire, previa rimessione in pristino, il terreno illegittimamente occupato e utilizzato per la realizzazione della fognatura comunale. Era, inoltre, richiesta la condanna del Comune al risarcimento di tutti i danni derivanti dall'illegittima occupazione e dalla trasformazione di tale terreno. 3. - L'adito T.A.R., nella resistenza dell'intimata Amministrazione, con la sentenza segnata in epigrafe, respingeva il ricorso. 4. - Con rituale atto di appello i sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. chiedevano la riforma della predetta sentenza, deducendo i seguenti motivi: "I. Error in iudicando. Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Illogicità manifesta. Necessaria rinnovazione dell'ordine di demolizione per la presentazione della domanda di fiscalizzazione e/o sanatoria. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 31, 34 e 36 D.p.r. 380/2001. II. Error in iudicando. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2700 c.c. Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Illogicità manifesta. Difetto di motivazione. Travisamento dei fatti. Illegittimità derivata dell'ordinanza di sgombero. III. Error in iudicando. Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Illogicità manifesta. Difetto di motivazione. Travisamento. Violazione di legge in relazione all'omessa determinazione catastale dell'area oggetto di acquisizione ai fini della trascrizione. IV. Error in iudicando. Violazione e/o falsa applicazione del comma 4 bis dell'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001. Violazione del principio di legalità e di irretroattività . Eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione. V. Error in iudicando. Sulla condanna del Comune a restituire ai ricorrenti, previa sua rimessa in pristino, oltre risarcimento dei danni per il periodo di illecita occupazione. VI. Error in iudicando. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 96 R.D. 523/1904 e 115 T.U. Ambiente. Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Difetto di motivazione. Travisamento. Potere di revoca. VII. Error in procedendo: omesso esame del primo motivo relativo al ricorso per motivi aggiunti. Difetto di motivazione e istruttoria. Violazione dell'art. 97 della Costituzione e dei principi di buon andamento e efficacia della Pubblica Amministrazione. Eccesso di potere per erroneità e travisamento dei fatti. Difetto di motivazione e istruttoria. VIII. Error in procedendo: omesso esame relativo al secondo motivo di impugnazione proposto con ricorso per motivi aggiunti. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 36 D.p.r. 380/2001. Eccesso di potere per erroneità e travisamento dei fatti. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 21 quinques della L. n. 241/1990. IX. Error in procedendo: omesso esame relativo al quarto motivo di impugnazione proposto con ricorso per motivi aggiunti - Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 167 D. Lgs 42/2004 - Eccesso di potere per erroneità e travisamento dei fatti. X. Error in iudicando. Violazione e/o falsa applicazione del R.D. 523/1904 e D. Lgs 154/2006. Eccesso di potere per erroneità e travisamento dei fatti. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione.". 5. - Resisteva al gravame il Comune di (omissis), chiedendone il rigetto. 6. - All'udienza pubblica del 7 maggio 2024 la causa veniva trattenuta in decisione. 7. - Ciò premesso, ritiene questo Giudice che l'appello debba essere in parte respinto e in parte accolto. 7.1. - Con il primo motivo gli appellanti contestano la circostanza che "Il Giudice a quo non ha preliminarmente colto che l'ordinanza di sgombero e acquisizione al patrimonio comunale prot. n. 2570/18 era illegittima perché non è stata preceduta dalla doverosa rinnovazione dell'ordinanza di demolizione delle opere residue, necessaria in seguito all'esame della domanda di fiscalizzazione (doc. 4 fasc. primo grado) e sanatoria (doc. 13 fasc. primo grado)." (cfr. pag. 4 dell'atto di appello). Il motivo non può trovare accoglimento. In primo luogo in punto di fatto va rilevato che il Pe. ha presentato al Comune di (omissis) la domanda di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 d.p.r. n. 380/2001 e la richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica solo in data 28 maggio 2018, dunque a seguito dell'adozione del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale del 23 marzo 2018 e del provvedimento di irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, entrambi gravati con il presente giudizio. Del pari la richiesta di fiscalizzazione, presentata in data 4 settembre 2017, fu espressamente rinunciata dai ricorrenti in data 1° marzo 2018, tanto è vero che solo dopo detta rinuncia il Comune effettuava in data 9 marzo 2018 il sopralluogo che accertava definitivamente l'inottemperanza ai provvedimenti repressivi. Non vi era, pertanto, la necessità di rinnovazione del procedimento sanzionatorio con l'adozione di un nuovo provvedimento di ripristino dopo quello (n. 9/2012) già confermato con sentenza del T.A.R. Brescia n. 420/2015 passata in giudicato. Seguendo l'impostazione di parte appellante, infatti, si dovrebbe giungere alla conclusione che un ordine di demolizione la cui legittimità è coperta da giudicato non potrebbe essere eseguito per il solo fatto della presentazione di una successiva domanda di fiscalizzazione (peraltro oggetto di successiva rinuncia), così inammissibilmente eludendo il giudicato stesso. Il motivo è comunque infondato in diritto, posto che - come evidenziato da Cons. Stato, Sez. VI, 29 settembre 2020, n. 4829 - "... la presentazione di una istanza di sanatoria non comporta l'inefficacia del provvedimento sanzionatorio pregresso, non essendoci pertanto un'automatica necessità per l'amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di demolizione; nel caso in cui venga presentata una domanda di accertamento di conformità in relazione alle medesime opere (da verificare nel caso di specie da parte degli organi comunali), l'efficacia dell'ordine di demolizione subisce un arresto, ma tale inefficacia opera in termini di mera sospensione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 16/03/2020, n. 1848)...". Sul tema specifico, inoltre, Cons. Stato, Sez. VI, 23 ottobre 2023, n. 9148 ha sottolineato: "... deve trovare applicazione l'indirizzo giurisprudenziale in forza del quale la presentazione di una istanza di sanatoria ex art. 36 d.p.r. 380/2011 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso ma determina una mera sospensione dell'efficacia dell'ordine di demolizione con la conseguenza che, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 27 settembre 2022, n. 8320). Infatti, per i principi di legalità e di tipicità del provvedimento amministrativo e dei suoi effetti, soltanto nei casi previsti dalla legge una successiva iniziativa procedimentale del destinatario dell'atto può essere idonea a determinare ipso iure la cessazione della sua efficacia. Diversamente da quanto previsto in materia di condono, nel caso di istanza di accertamento di conformità non vi è alcuna regola che determini la cessazione dell'efficacia dell'ordine di demolizione i cui effetti sono, quindi, meramente sospesi fino alla definizione del procedimento ex art. 36 d.p.r. n. 380/2001 (Cons. Stato, Sez. VI, 25 ottobre 2022, n. 9070)....". In conclusione, diversamente da quanto sostenuto da parte appellante, non vi è necessità di rinnovazione dell'ordine di demolizione una volta rigettata l'istanza di condono. Inoltre, deve rilevarsi che in caso di abusi edilizi l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. II, 4 aprile 2024, n. 3085 e Cons. Stato, Sez. II, 8 aprile 2024, n. 3202). 7.2. - Con il secondo motivo di appello i sig.ri Pe. e Qu. contestano i rilievi effettuati dalla Polizia locale in data 9 marzo 2018, sostenendo di aver integralmente ottemperato alla sentenza del T.A.R. Lombardia, sede di Brescia, n. 420/2015, dal momento che i manufatti abusivi sarebbero stati tutti smontati e si troverebbero ancora sulla medesima area di costruzione. L'unico manufatto non demolito, secondo la ricostruzione della parte appellante, sarebbe la copertura della (omissis). Il motivo non è meritevole di positivo apprezzamento. Invero, con detto motivo gli appellanti mirano a rimettere in discussione il giudicato di cui alla citata sentenza n. 420/2015. Già limitandosi alla contestazione relativa allo smontaggio dei manufatti abusivi diversi dalla copertura della Roggia, la stessa risulta infondata. In primo luogo deve essere evidenziato che il verbale della Polizia locale del 9 marzo 2018 (che accertava l'ottemperanza solo parziale all'ordine di demolizione) fa fede fino a querela di falso, querela che non risulta i sig.ri Pe. e Qu. abbiano presentato. Pertanto, nulla può essere eccepito circa la correttezza dei rilievi effettuati dai Pubblici Ufficiali. In secondo luogo la situazione di fatto è mostrata chiaramente dalle fotografie allegate al menzionato verbale di sopralluogo del 9 marzo 2018, da cui si evince che gli odierni appellanti continuavano a quella data ad occupare illegittimamente le aree (peraltro sottoposte a vincolo paesaggistico di inedificabilità assoluta PAI e inserite in Nuclei di Antica Formazione) con i medesimi manufatti abusivi che risultano semplicemente appoggiati, ancorché non più ancorati al suolo. È evidente dunque che una simile situazione integra gli estremi dell'inottemperanza all'ordine di demolizione n. 9/2012 ingiunto a suo tempo dall'Amministrazione comunale e confermato dal T.A.R. con la sentenza n. 420/2015 che merita dunque di essere ribadita, data la persistenza delle opere abusive ed il mancato ripristino dello stato dei luoghi. E ciò a maggior ragione, in terzo luogo, in relazione alla specifica fattispecie del manufatto abusivo rappresentato dal loggiato che - come appare anche in tal caso chiaramente dal supporto fotografico - è rimasto con delle rilevanti travi a vista, totalmente avulse dal contesto edilizio e urbano esistente, la cui proiezione continua a insistere sull'area oggetto di abuso e ben può permettere in futuro di installare nuove coperture abusive. Anche in questo caso, dunque, il manufatto abusivo è stato demolito solo parzialmente, come correttamente rilevato dalla Polizia locale nel verbale del 9 marzo 2018. A tal riguardo, va sottolineato che, come evidenziato da T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 29 dicembre 2011, n. 3368 (con motivazione condivisa da questo Giudice e correttamente richiamata a pag. 3 dell'impugnata ordinanza di sgombero, acquisizione al patrimonio comunale e immissione in possesso n. 4 del 23 marzo 2018), "... l'adempimento dell'ordinanza di demolizione, per evitare l'acquisizione gratuita, deve essere integrale; del resto, anche in materia civile, l'adempimento parziale viene assimilato sostanzialmente all'inadempimento, giacché è reputato adempiente il solo debitore che esegue esattamente la prestazione dovuta (così argomentando dagli articoli 1181 e 1218 del codice civile)....". 7.3. - Parimenti infondato è il terzo motivo di appello, con cui viene contestata l'estensione dell'area oggetto di acquisizione al patrimonio comunale. Gli appellanti lamentano che la pretesa illegittima qualificazione come abusivi dei manufatti rimasti e accatastati per essere successivamente smaltiti renderebbe illegittima altresì l'individuazione dell'area. Tuttavia, in forza di quanto rimarcato in precedenza, detti manufatti risultavano ancora da qualificarsi come abusivi al momento dell'accertamento, non rilevando il fatto che, in ragione della loro demolizione ancora parziale, avrebbero potuto essere in futuro smaltiti. Inoltre, la qualificazione abusiva al momento dell'accertamento risulta altresì dalla circostanza che la mancata rimozione dei manufatti de quibus ha comportato l'omesso ripristino dello stato dei luoghi cui era finalizzata l'ordinanza di demolizione n. 9 del 17 settembre 2012 adottato dall'Amministrazione comunale e confermata dal T.A.R. Brescia con sentenza n. 420/2015 (non appellata). Ne consegue che le opere per cui è causa hanno in realtà mantenuto la loro natura abusiva e che l'area di sedime determinata partendo da essi risulta correttamente individuata. Quanto alla lamentata valutazione dei manufatti nella loro originaria consistenza e non già nell'asseritamente diverso stato in cui si troverebbero in seguito alla parziale rimozione, deve evidenziarsi che - come dimostrato dal supporto fotografico - i beni abusivi insistevano sulle medesime porzioni di territorio, sebbene in taluni casi smontati o sradicati nei propri supporti. Pertanto, l'area di pertinenza è stata correttamente individuata nell'area sulla quale si proiettano tali manufatti parzialmente demoliti. Significativo è il caso del porticato, citato dalla parte istante a pag. 9 dell'atto di appello, poiché proprio le travi ancora esistenti, totalmente ancorate al tetto e ben sporgenti rispetto alla sagoma dell'edificio, si proiettano a terra, configurando proprio quell'area di sedime che l'art. 31, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 considera acquisita di diritto dall'Ente locale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione. Va, infatti, osservato che, in virtù delle "Definizioni uniformi" contenute nell'Allegato A ("Quadro delle definizioni uniformi") al modello tipo di Regolamento edilizio assunto dalla Conferenza Unificata Stato, Regioni, Comuni in data 20 ottobre 2016, per "sedime" deve appunto intendersi "l'impronta a terra dell'edificio o del fabbricato, corrispondente alla localizzazione dello stesso sull'area di pertinenza". Va, altresì, evidenziato che comunque l'art. 31, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 statuisce che, oltre al bene e all'area di sedime, è acquisita di diritto anche l'area "necessaria, secondo le vigenti disposizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive". Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 21 luglio 2023, n. 7160), il Comune può dunque legittimamente acquisire aree ulteriori rispetto a quelle di sedime degli abusi purché fornisca adeguata motivazione sul punto. A tal riguardo l'ordine di sgombero n. 4/2018 è compiutamente motivato, giustificando l'acquisizione delle aree ulteriori al fine di creare un'area unitaria di accesso ai manufatti (v. pag. 4 del provvedimento n. 4 del 23 marzo 2018 ove si specifica che: "i predetti mappali risultano altresì funzionali a creare un'area unitaria volta determinare un passaggio ed accesso diretto alle aree di sedime di proprietà dei responsabili e su cui insistono gli abusi non ottemperati ed anche alla soletta di copertura della (omissis) di altrui proprietà, di cui al punto n. 1) sopra esplicitato, ed al deposito attrezzi/ripostiglio tipo pensilina chiusa di cui al punto n. 3) e posto oltre la roggia medesima, risultando dunque gli stessi pari all'area minima per consentire l'accesso a tutti i manufatti abusivi"). Né gli appellanti hanno mai contestato la legittimità di tale motivazione. Anche questo motivo, dunque, è infondato. 7.4. - Fondato è invece il quarto motivo di appello, volto a censurare il profilo della applicazione, con l'impugnato provvedimento del 21 marzo 2023, della sanzione accessoria ex art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 di Euro 20.000,00 nei confronti dei sig.ri Pe. e Qu., assumendo che ciò rappresenterebbe una violazione dei principi di legalità e irretroattività della legge, anche per la ritenuta natura istantanea dell'illecito sanzionato con la sanzione pecuniaria. Preliminarmente, si evidenzia che in forza del citato comma 4-bis dell'art. 31 d.p.r. n. 380/2001 (inserito dall'art. 17, comma 1, lett. q-bis), decreto-legge n. 133/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164/2014) "L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima. La mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.". Detto motivo merita accoglimento, dovendosi condividere le argomentazioni svolte sul punto dalla parte appellante. In primis va rimarcato che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa comunale a pag. 12 della memoria del 5 aprile 2024, gli appellanti hanno sicuramente legittimazione attiva alla contestazione della sanzione pecuniaria de qua, in quanto gli stessi sono indiscutibilmente i destinatari di detta sanzione alla luce del contestato provvedimento del 21 marzo 2018. Nel merito deve evidenziarsi che l'impugnato provvedimento del 21 marzo 2018 dispone la sanzione pecuniaria di Euro 20.000,00, ingiungendone appunti il pagamento ai sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu.. Tuttavia, la sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 16 dell'11 ottobre 2023 ha evidenziato a tal riguardo che "... la sanzione pecuniaria prevista dall'art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 non può essere irrogata nei confronti di chi - prima dell'entrata in vigore della legge n. 164 del 2014 - abbia già fatto decorrere inutilmente il termine di 90 giorni e sia risultato inottemperante all'ordine di demolizione, pur se tale inottemperanza sia stata accertata dopo la sua entrata in vigore....". Ciò per salvaguardare i principi di irretroattività, desumibile nella materia sanzionatoria dall'art. 1 legge n. 689/1981, oltre che dall'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, di certezza dei rapporti giuridici, di tipicità e di coerenza. Nella fattispecie in esame opera detta statuizione dell'Adunanza Plenaria poiché prima dell'entrata in vigore della legge n. 164/2014 i sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. avevano già fatto decorrere inutilmente il termine di 90 giorni per ottemperare alla demolizione (risalente - come visto - al 17 settembre 2012) ed erano risultati inottemperanti a detto ordine, pur se tale inottemperanza è stata accertata solo dopo l'entrata in vigore della disposizione del 2014 con il verbale del 9 marzo 2018 e con il successivo provvedimento di acquisizione del 23 marzo 2018. Sul punto si richiamano le argomentazioni di cui a Cons. Stato, Sez. II, 22 febbraio 2024, n. 1767 rese su fattispecie analoga (par. 10.2.5 della motivazione). Ne discende che il motivo di appello sub 4) va accolto, con la conseguenza che la sentenza di primo grado n. 512/2021 va in parte qua riformata e che va annullato il censurato provvedimento del 21 marzo 2018 che irroga ai sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. la sanzione pecuniaria di Euro 20.000,00. 7.5. - Con il quinto motivo di appello i sig.ri Pe. e Qu. lamentano l'asserita erroneità della statuizione di primo grado nella parte in cui ha rigettato sia la richiesta di restituzione del terreno di loro proprietà, illegittimamente occupato e utilizzato per la realizzazione della fognatura comunale, sia la relativa richiesta di risarcimento, in asserita violazione dei principi in materia di occupazione abusiva perpetrata dalla P.A., ritenuta un illecito permanente rientrante nel genus dell'art. 2043 cod. civ. Il motivo tuttavia non supera le condivisibili considerazioni svolte dal Giudice di primo grado nella sentenza appellata, secondo cui "... La circostanza che un tratto della fognatura comunale attraversi senza titolo la proprietà dei ricorrenti in corrispondenza dell'area acquisita al patrimonio del Comune non ha alcuna conseguenza ai fini del presente giudizio. La realizzazione di un'opera pubblica nel sottosuolo senza che sia contestualmente imposta una servitù di conduttura ricade nella previsione generale dell'art. 42-bis del DPR 8 giugno 2001 n. 327, che prevede l'obbligo per l'amministrazione di scegliere entro un termine ragionevole tra l'acquisizione della proprietà o della servitù e la restituzione del terreno ai proprietari. Nella prima ipotesi è dovuto un indennizzo pari al valore venale del bene. Deve poi essere corrisposto un risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo.... Questa disciplina non è utile ai ricorrenti nel caso in esame, in quanto l'acquisizione del terreno con il meccanismo dell'art. 31 comma 3 del DPR 380/2001 si colloca su un piano del tutto autonomo, e prevale sulle altre forme di acquisizione coattiva della proprietà, essendo espressione del potere-dovere di repressione degli abusi edilizi, che viene esercitato senza margini di libero apprezzamento e discrezionalità amministrativa. Una volta accertata l'inottemperanza a un ordine di demolizione, la perdita della proprietà segue automaticamente e senza indennizzo, e dunque gli autori delle opere abusive non possono chiedere la restituzione del terreno ex art. 42-bis del DPR 327/2001.... Rimane il problema del risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo prima dell'acquisizione della proprietà da parte del Comune, ma sotto questo profilo la domanda dei ricorrenti non può essere accolta, sia per l'eccessiva genericità della descrizione dei fatti, sia per la disconnessione rispetto alla causa petendi su cui si basa la parte impugnatoria del ricorso....". In ogni caso è evidente che nel momento in cui si riconosce la piena legittimità - in forza delle argomentazioni in precedenza esposte - dell'agere della pubblica amministrazione alla stregua dell'art. 31 d.p.r. n. 380/2001 con l'adozione dell'ordinanza di sgombero, acquisizione al patrimonio comunale ed immissione in possesso n. 4 del 23 marzo 2018 (il che esclude che vi sia stata qualsivoglia occupazione sine titulo da parte della P.A. del fondo dei sig.ri Pe. e Qu.), non può ammettersi alcuna forma di risarcimento né in forma specifica, né per equivalente nei confronti degli appellanti, che evidentemente non possono considerarsi vittime di alcun illecito aquiliano. Il motivo è dunque infondato e va respinto. 7.6. - Con il sesto motivo di appello i sig.ri Pe. e Qu. censurano la sentenza nella parte in cui afferma l'impossibilità per gli stessi appellanti di ottenere la sanatoria della copertura della (omissis), in ragione della formazione del giudicato di cui alla sentenza n. 420/2015. In particolare gli appellanti sostengono la sanabilità della copertura della (omissis), poiché detta Roggia non sarebbe un corso d'acqua, bensì un canale privato completamente chiuso dove, dunque, non passerebbe acqua. Tale argomento, tuttavia, non può essere positivamente apprezzato da questo Collegio. La (omissis) risulta essere di proprietà della Mo. Ni. (circostanza non contestata dagli appellanti), essendo stata costruita in passato per portare acqua a un mulino privato; ciò, tuttavia, non costituisce alcuna esimente dall'obbligo di demolire l'illegittima copertura della medesima. Inoltre, dalla documentazione fotografica prodotta si evince in modo chiaro come in tale canale l'acqua scorra, sicché il medesimo non può dunque sfuggire al divieto di copertura dei corsi d'acqua previsto dalla normativa vigente (cfr. art. 115, comma 1, dlgs n. 152/2006: "Al fine di assicurare il mantenimento o il ripristino della vegetazione spontanea nella fascia immediatamente adiacente i corpi idrici, con funzioni di filtro per i solidi sospesi e gli inquinanti di origine diffusa, di stabilizzazione delle sponde e di conservazione della biodiversità da contemperarsi con le esigenze di funzionalità dell'alveo, entro un anno dalla data di entrata in vigore della parte terza del presente decreto le regioni disciplinano gli interventi di trasformazione e di gestione del suolo e del soprassuolo previsti nella fascia di almeno 10 metri dalla sponda di fiumi, laghi, stagni e lagune, comunque vietando la copertura dei corsi d'acqua che non sia imposta da ragioni di tutela della pubblica incolumità e la realizzazione di impianti di smaltimento dei rifiuti."). Infatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte appellante, il vigente studio del reticolo idrografico comunale classifica la (omissis) quale corso d'acqua facente parte del reticolo idrico minore comunale. D'altronde, la Roggia è stata interessata anche recentemente da un intervento dell'Amministrazione finalizzato a garantire lo scorrimento dell'acqua nel suo corso, anche per ragioni igienico - sanitarie (cfr. documento n. 17 depositato dalla difesa comunale in primo grado in data 2 luglio 2018). Pertanto, la richiesta di sanatoria di detto abuso risalente al 28 maggio 2018 costituisce in realtà una illegittima modalità per aggirare il limite temporale di presentazione della domanda stessa (ex artt. 31, comma 3, e 36, comma 1, d.p.r. n. 380/2001), che come emerge per tabulas è stata notificata al Comune solo dopo l'adozione dell'ordinanza di sgombero e acquisizione delle aree n. 4 del 23 marzo 2018 e del provvedimento sanzionatorio del 21 marzo 2018 e, quindi, oltre il termine normativamente previsto. Inoltre, è necessario ribadire che la natura abusiva della copertura della Roggia è stata sancita dalla sentenza del T.A.R. Brescia n. 420/2015, non impugnata e passata oramai in giudicato. In materia di giudicato, la giurisprudenza amministrativa da tempo consolidata ritiene che "... il giudicato copre il dedotto ed il deducibile in relazione al medesimo oggetto e, pertanto, non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio ma anche tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che sebbene non dedotte specificatamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia..." (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 13 dicembre 2019, n. 8482). L'eventuale adesione alla tesi sostenuta dai ricorrenti, secondo cui la (omissis) sarebbe un tombotto privato (cfr. pag. 21 dell'atto di appello) realizzato in ossequio alla previsione della normativa vigente (i.e. art. 115, comma 1, dlgs n. 152/2006), significherebbe non tenere conto del suddetto giudicato e dar seguito a una ricostruzione fattuale e giuridica non corretta, con il rischio di generare un potenziale contrasto di giudicati. Le considerazioni degli appellanti sono comunque infondate anche in fatto per le ragioni evidenziate e il motivo deve essere, pertanto, respinto. Infine, va evidenziato che ogni eventuale questione relativa alla sussistenza, con riferimento a detto motivo di appello incidente sulla materia delle acque (di cui si discute il carattere pubblico ovvero privato), della giurisdizione dell'adito Giudice amministrativo (rispetto all'ambito di cognizione riconosciuto ex lege al Tribunale superiore delle acque pubbliche) non può essere trattata, in quanto coperta dal giudicato implicito interno, non essendo stata la giurisdizione contestata in alcun modo in sede di appello (cfr. ex multis Cass. civ., Sez. un., 14 dicembre 2022, n. 36695). 7.7. - Con i motivi settimo, ottavo, nono e decimo gli appellanti lamentano che la sentenza gravata avrebbe del tutto omesso di pronunciarsi su ben quattro motivi di impugnazione sollevati con il ricorso per motivi aggiunti proposto in primo grado (avverso i provvedimenti del 30 luglio 2018 di diniego di sanatoria) e che i sig.ri Pe. e Qu. ripropongono in questa sede. Le censure, tuttavia, sono infondate e vanno respinte per le considerazioni che seguono. In particolare gli appellanti sostengono (cfr. pag. 23 dell'atto di appello) che "il Giudice di prime cure ha del tutto omesso di pronunciarsi sul palese difetto di forma dei dinieghi alla sanatoria impugnati, privi di adeguata motivazione e non preceduti dalla doverosa istruttoria - vizi questi che ne avrebbero comportato l'immediata caducazione". Le argomentazioni articolate dai sig.ri Pe. e Qu. sono infondate in punto di fatto: si è già avuto modo di evidenziare come le domande di sanatoria (risalenti al 28 maggio 2018) siano successive all'accertamento di inottemperanza (del 9 marzo 2018) e dunque, anche in ragione dei principi di cui alla già citata sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 16/2003, era doverosa l'adozione del provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria. Peraltro, gli appellanti si concentrano su asseriti difetti d'istruttoria, laddove i provvedimenti comunali (risalenti al 30 luglio 2018) di rigetto delle istanze di autorizzazione in sanatoria della Roggia evidenziano non solo l'assenza dei presupposti in fatto invocati dalla stessa parte appellante, ma anche la dirimente circostanza che le domande di sanatoria risultavano presentate tardivamente (i.e. in data 28 maggio 2018) dopo il termine di cui all'art. 36, comma 1, d.p.r. n. 380/2001, a fronte della allora già intervenuta adozione delle sanzioni amministrative (in data 21 marzo 2018). È sufficiente rilevare come con riferimento a tale profilo, che dà conto della totale assenza dei presupposti per ritenere ammissibili le domande di sanatoria, nulla hanno eccepito i sig.ri Pe. e Qu. nel presente giudizio, sicché anche in ragione della natura plurimotivata del provvedimento gravato in primo grado, la doglianza è infondata e va respinta. Sul punto si richiama Cons. Stato, Sez. III, 16 giugno 2023, n. 5964: "... il provvedimento impugnato in primo grado è atto plurimotivato, rispetto al quale la giurisprudenza ha stabilito che "per sorreggere l'atto in sede giurisdizionale è sufficiente la legittimità di una sola delle ragioni espresse; con la conseguenza che il rigetto delle doglianze svolte contro una di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento", sicché "il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze" (cfr., di questa Sezione, pareri n. 357/2022 e n. 205/2022, nonché sentenze Sez. VI, 18 luglio 2022, n. 6114 e Sez. V, 14 aprile 2020, n. 2403, 13 settembre 2018, n. 5362, 3 settembre 2003, n. 437" (ex multis, Consiglio di Stato, Sezione I, parere n. 11/2023)....". A nulla vale il tentativo di parte appellante di sostenere una asserita violazione del principio costituzionale di buon andamento sancito dall'art. 97 Cost., lamentando così l'insufficiente motivazione degli impugnati provvedimenti di diniego del 30 luglio 2018. È noto oramai l'indirizzo della giurisprudenza amministrativa che ammette la motivazione c.d. per relationem disciplinata dall'art. 3, comma 3, legge n. 241/1990, purché siano espressamente indicati gli estremi o la tipologia dell'atto richiamato (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 3 dicembre 2019, n. 8276: "... Secondo l'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato e conosciuto, nel caso di provvedimento motivato per relationem, non occorre necessariamente che l'atto richiamato dalla motivazione debba essere portato nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, essendo invece sufficiente che siano espressamente indicati gli estremi o la tipologia dell'atto richiamato, dovendo essere l'atto stesso messo a disposizione ed esibito ad istanza di parte. Pertanto, si deve ribadire che, in sede di adozione di un atto amministrativo, va ammessa la motivazione per relationem, purché l'atto indicato al quale viene fatto riferimento, sia reso disponibile agli interessati e non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con altri pareri o determinazioni rese all'interno del medesimo procedimento...."), ciò che di fatto si è verificato nel caso di specie. Si pensi, a titolo esemplificativo, al richiamo nei rispettivi provvedimenti della comunicazione ex art. 10-bis legge n. 241/1990 con cui l'Amministrazione ha avuto cura di rendere edotti i sig.ri Pe. e Qu. dei motivi ostativi all'accoglimento della richiesta. Pertanto, i provvedimenti definitivi di diniego adottati dal Comune in data 30 luglio 2018 sono conformi non solo al paradigma legale dell'art. 3, comma 3, legge n. 241/1990, ma anche a quanto previsto per il diniego in materia di sanatoria qualora si tratti di opere realizzate in zone vincolate. Inoltre, priva di pregio risulta l'ulteriore argomentazione che fa leva sul principio della conservazione degli atti. Si tenta di far apparire le domande di sanatoria alla stregua di istanze di revoca dell'ordinanza di demolizione n. 9 del 17 settembre 2012 poiché, secondo la ricostruzione degli stessi interessati, si sarebbero verificati nuovi fatti non noti al momento dell'adozione del provvedimento. Tuttavia, dalla lettura delle istanze del 28 maggio 2018 è evidente che le stesse sono state presentate ai sensi rispettivamente dell'art. 36 d.p.r. n. 380/2001 e dell'art. 146 dlgs n. 42/2004 (disposizioni espressamente richiamate nelle suddette istanze), trattandosi quindi di chiare domande di accertamento di conformità edilizia e paesaggistica e non di richieste di autotutela cui comunque l'Amministrazione non sarebbe tenuta a fornire risposta. Come correttamente evidenziato dalla P.A. nei censurati provvedimenti di diniego di sanatoria del 30 luglio 2018, la richiesta di sanatoria - si ribadisce - è stata presentata tardivamente in data 28 maggio 2018 solo dopo l'adozione dell'ordinanza di sgombero e acquisizione delle aree (risalente al 2012) e oltre il termine ultimo previsto dall'art. 36, comma 1, d.p.r. n. 380/2001 (i.e. irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria risalente al 21 marzo 2018). Peraltro, la natura abusiva della copertura della Roggia era stata confermata - come visto - dalla sentenza del T.A.R. Lombardia, sede di Brescia n. 420/2015, passata in giudicato e le doglianze articolate dagli appellanti paiono finalizzate a superare le preclusioni derivanti dalla formazione di detto giudicato. Infine, in relazione ai motivi di appello sub 9) e 10) (i.e. asserita erroneità dell'affermazione, contenuta negli impugnati provvedimenti di diniego, circa l'assenza di titolarità dei sig.ri Pe. e Qu. rispetto alla presentazione della richiesta di permesso di costruire in sanatoria e circa l'esistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta sull'area in esame), va evidenziato che, a prescindere dalla fondatezza o meno di detti due motivi di appello, rimane insuperabile il fatto che, essendo i provvedimenti sfavorevoli de quibus plurimotivati, le precedenti condivisibili ragioni ostative di infondatezza, consentono l'assorbimento dei suddetti ultimi due motivi di appello (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 16 giugno 2023, n. 5964). I motivi in esame vanno dunque respinti. 8. - Da quanto in precedenza esposto discende che l'appello dei sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. deve essere in parte respinto e in parte accolto. Pertanto la sentenza di primo grado va in parte qua riformata e l'impugnato provvedimento del 21 marzo 2018 (di irrogazione ai sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. della sanzione pecuniaria di Euro 20.000,00) va annullato. 9. - In considerazione della peculiarità e complessità della presente controversia sussistono giuste ragioni per disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite. P.Q.M. il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello r.g. n. 815/2022, come in epigrafe proposto, così provvede: 1) accoglie nei limiti di cui in motivazione l'appello e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie parzialmente il ricorso di primo grado e annulla il censurato provvedimento del 21 marzo 2018 (di irrogazione ai sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. della sanzione pecuniaria di Euro 20.000,00); 2) respinge per il resto l'appello. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Dario Simeoli - Presidente FF Cecilia Altavista - Consigliere Alessandro Enrico Basilico - Consigliere Stefano Filippini - Consigliere Francesco Cocomile - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. RAGO Geppino - Presidente Dott. BORSELLINO Maria Daniela - Consigliere Dott. COSCIONI Giuseppe - Consigliere Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. NICASTRO Giuseppe - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI PALERMO, Te.Sa., nato a P il (omissis), Sc.Lu., nato a P il (omissis), Ma.Vi., nato a P il (omissis), Di.Pi., nato a P il (omissis), Ur.En., nato a P il (omissis), Lu.Pi., nato a P il (omissis), Mi.Al., nato a P il (omissis), Mi.Pa., nato a P il (omissis), Mi.Lo., nato a P il (omissis), Te.Ca., nato a P il (omissis); avverso la sentenza del 11/04/2022 della Corte d'appello di Palermo; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE NICASTRO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale FULVIO BALDI, il quale ha concluso chiedendo che: a) in accoglimento del ricorso del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo, la sentenza impugnata venga annullata con rinvio in relazione al trattamento sanzionatorio nei confronti di Mi.Al.; b) la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio nei confronti di Mi.Lo. limitatamente alle statuizioni civili in favore delle associazioni che non si erano costituite e che il ricorso dello stesso Mi.Lo. sia dichiarato inammissibile nel resto; c) la sentenza impugnata sia annullata con rinvio nei confronti di Te.Sa. e di Sc.Lu. limitatamente al trattamento sanzionatorio e che i ricorsi degli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. siano dichiarati inammissibili nel resto; d) i ricorsi di Di.Pi., Lu.Pi., Ma.Vi., Mi.Al., Mi.Pa., Te.Ca. e Ur.En. siano dichiarati inammissibili; udito l'Avv. FE.DA., in sostituzione dell'Avv. AL.GA., in difesa della parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.", la quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo, il rigetto o la declaratoria di inammissibilità di tutti gli altri ricorsi e la conferma delle statuizioni civili e ha depositato conclusioni scritte e nota spese; udito l'Avv. ET.BA., il quale si è associato alle conclusioni del Pubblico Ministero e ha depositato conclusioni scritte e nota spese per tutte le parti civili che rappresenta, in proprio o in sostituzione; udito l'Avv. AN.BA., in difesa di Te.Sa., il quale, dopo la discussione, ha chiesto l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. VI.GI., sempre in difesa di Te.Sa., il quale si è riportato integralmente ai motivi di ricorso e si è associato alle conclusioni del codifensore; udito l'Avv. DI.BE., in difesa di Sc.Lu., il quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. VI.GI., in difesa di Sc.Lu., Lu.Pi. e Te.Ca., il quale ha insistito nei motivi dei ricorsi, dei quali ha chiesto l'accoglimento; udito l'Avv. DE.SP., in sostituzione dell'Avv. EL.GA., in difesa di Mi.Lo., la quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Ur.En., la quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Mi.Al., la quale, dopo la discussione, si è riportata ai motivi di ricorso, del quale ha chiesto l'accoglimento; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Di.Pi. e di Mi.Pa., la quale, dopo la discussione, si è riportata ai motivi dei ricorsi chiedendone l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 11/04/2022, la Corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del 28/09/2020 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, emessa in esito a giudizio abbreviato: 1) confermava la condanna di Te.Sa. alla pena di 16 anni e 8 mesi di reclusione per i reati di: a) promozione, direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 1) dell'imputazione; b) autoriciclaggio (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione; c) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 14) dell'imputazione; d) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 15) dell'imputazione; 2) confermava la condanna di Sc.Lu. per i reati di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 1) dell'imputazione; b) autoriciclaggio (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione; c) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 14) dell'imputazione; d) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 15) dell'imputazione; e) violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo di soggiorno di cui al capo 27 dell'imputazione (aggravata ex art. 416-bis 1 cod. pen.). La Corte d'appello di Palermo, inoltre, unificati dal vincolo della continuazione i reati sub iudice con quelli già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, e ritenuto più grave quello di cui al capo 1) dell'imputazione, aumentava la pena inflitta allo Sc.Lu. per i fatti già giudicati di 8 anni, 6 mesi e 20 giorni di reclusione e, per l'effetto, dichiarava che la pena complessiva diveniva pari a 22 anni, 10 mesi e 20 giorni di reclusione; 3) confermava la condanna di Ma.Vi. per il reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424, secondo comma, cod. pen.) in concorso di cui al capo 21) dell'imputazione, riducendo a 2 anni di reclusione la pena inflitta all'imputato per tale reato, "tenendo conto della riqualificazione della recidiva allo stesso contestata in reiterata"; 4) confermava la condanna di Di.Pi. alla pena di 12 anni di reclusione per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione; b) estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione; c) traffico illecito di sostanze stupefacenti (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 12) dell'imputazione; 5) assolveva Ur.En. dal reato di usura continuata in concorso di cui al capo 19) dell'imputazione e confermava la condanna dello stesso imputato per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione (art. 418, secondo comma, cod. pen.), riducendo a 2 anni di reclusione la pena inflitta all'Ur.En. (pena sospesa), tenuto conto della predetta assoluzione e della considerazione come non contestata, con riferimento al reato di assistenza agli associati, la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen.; 6) confermava la condanna di Lu.Pi. alla pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti in concorso, aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen., di cui al capo 12) dell'imputazione; 7) assolveva Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione per non avere commesso il fatto e confermava la condanna dello stesso 7Mi.Al. per i reati di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione; b) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) di cui al capo 15) dell'imputazione. Riduceva a 11 anni e 8 mesi di reclusione la pena irrogata all'imputato; 8) confermava la condanna di Mi.Pa. alla pena di 11 anni e 4 mesi di reclusione per i reati di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione e di estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione; 9) riqualificata la condotta di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso contestata a Mi.Lo. al capo 2) dell'imputazione in concorso esterno in tale associazione, ed escluse, nei confronti dello stesso Mi.Lo., le circostanze aggravanti di cui al quarto e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., rideterminava in 8 anni di reclusione la pena inflitta all'imputato per il predetto reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione; 10) confermava la condanna di Te.Ca. alla pena di 4 anni e 6 mesi di reclusione per il reato di estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. 2. Avverso l'indicata sentenza della Corte d'appello di Palermo, hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo e, per il tramite dei propri rispettivi difensori, Te.Sa., Sc.Lu., Ma.Vi., Di.Pi., Ur.En., Lu.Pi., Mi.Al., Mi.Pa., Mi.Lo. e Te.Ca. 3. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo, che è relativo alla posizione del solo Mi.Al., è affidato a un unico motivo con il quale il ricorrente deduce la contraddittorietà e/o la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte d'appello di Palermo ha dichiarato, nel dispositivo, di assolvere il Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione (art. 12-quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modif. dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, ora art. 512-ò/s cod. pen.) e nella parte in cui ha rideterminato la pena applicata allo stesso Mi.Al.in 11 anni e 8 mesi di reclusione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe: a) in primo luogo, da un lato, nel dispositivo, dichiarato di assolvere il Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione e non di non applicare alcun aumento di pena per tale reato e, dall'altro lato, nella motivazione, motivato in realtà nel senso che l'appello del Mi.Al. era fondato solo "limitatamente alla dosimetria della pena" (pag. 165 della sentenza impugnata) e della conferma della responsabilità dello stesso Mi.Al. anche per il predetto reato di cui al capo 14) dell'imputazione (pagg. 170 e 171 della sentenza impugnata); b) in secondo luogo, da un lato, affermato, come si è detto, che l'appello del Mi.Al. era fondato in ordine alla "dosimetria della pena" e, dall'altro lato, in realtà confermato la pena di 11 anni e 8 mesi di reclusione che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per i reati di cui ai capi 2) e 15) dell'imputazione, al netto dell'aumento di pena per il reato di cui al capo 14) dell'imputazione (pag. 476 della sentenza impugnata). 4. I ricorsi di Te.Sa. Te.Sa. ha proposto due ricorsi, uno a firma dell'avv. Vi.Gi. e uno a firma dell'avv. An.Ba.. 4.1. Il ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. è affidato a undici motivi. 4.1.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione dell'art. 416-bis , primo, secondo, terzo, quarto e quinto comma, cod. pen., e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di promozione, organizzazione e direzione di un'associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione. 4.1.1.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sussistenza di un sodalizio di tipo mafioso. Il ricorrente deduce che, dalle risultanze processuali, non sarebbero emersi fatti concreti e specifici dimostrativi né dell'esteriorizzazione, da parte dei sodali, della forza di intimidazione del vincolo associativo, né della condizione di assoggettamento e di omertà in capo ai terzi, né di una ripartizione di ruoli e di rispettati vincoli gerarchici tra gli associati. Il Te.Sa. rappresenta che tali elementi dell'associazione di tipo mafioso non potrebbero essere logicamente ritenuti esistenti, contrariamente a quanto mostrerebbe di ritenere la Cotte d'appello di Palermo, sulla base né dei precedenti penali propri e di alcuni dei coimputati per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., né delle asseritamente "datate" "indeterminate" e "generiche" propalazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se. - atteso anche che esse "nulla aggiungono su fatti concreti ed attuali" -, né di "alcuni incontri effettuati tra i vari coimputati e dai loro reciproci contatti", né dei tre modesti contestati episodi estorsivi di cui ai capi 5), 9) e 11) dell'imputazione, con riguardo a due dei quali era peraltro intervenuta l'assoluzione dell'unico imputato, mentre del terzo non era il Te.Sa. a risponderne. 4.1.1.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sua partecipazione, con ruolo apicale, all'associazione di tipo mafioso. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo il fatto della partecipazione", con la conseguenza che la stessa Corte d'appello avrebbe perciò omesso di accertare, come sarebbe stato invece necessario fare, se tale partecipazione si fosse effettivamente protratta anche dopo la scarcerazione del Te.Sa. - sulla base di elementi che dimostrassero una nuova adesione, dopo la scarcerazione, e un apprezzabile e dinamico contributo causale teleologicamente orientato alla realizzazione degli scopi associativi - o se, invece, la stessa partecipazione fosse venuta meno per una qualsiasi causa diversa dalla collaborazione con la giustizia. In secondo luogo, il ricorrente lamenta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se. e deduce in proposito che la stessa Corte d'appello avrebbe omesso di operare la necessaria rigorosa valutazione della credibilità dei predetti collaboratori e dell'attendibilità delle loro dichiarazioni - connotazioni che, comunque, difetterebbero nella specie, stante anche l'asserita mancanza di spontaneità e precisione delle stesse dichiarazioni -, tenuto anche conto del fatto che il Ga.Vi. e il Fl.Se. aveva appreso quanto da loro riferito da terzi (da Sa.Ni. per quanto riguarda il Ga.Vi. e da Di.Gi. e da La.To. per quanto riguarda il Fl.Se.), con la conseguenza che la valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori avrebbe dovuto essere compiuta anche in relazione alle fonti originarie dell'accusa, le quali, invece, non erano mai state sentite. Il ricorrente rappresenta poi specificamente: a) quanto alle dichiarazioni del Ga.Vi., che esse non avrebbero "offerto alcuno spunto investigativo, né hanno fatto riferimento a fatti specifici con riguardo al comportamento contestato al Sig. Te.Sa. nel capo di imputazione 1) e nell'arco temporale delineato da questa contestazione", sicché esse costituirebbero "un mero dato neutro", "atteso che l'asserita vicinanza in passato del Sig. Te.Sa. ai Sig.ri Ta. non è comprovante dell'attuale e concreta sua intraneità nel presunto sodalizio mafioso nell'arco temporale delineato nel capo di incolpazione 1)"; b) quanto alle dichiarazioni del Fl.Se., che questi si sarebbe "limitato a riferire notizie risalenti nel tempo - già coperti da giudicato - limitatamente al fatto che terze persone nominavano qualche volta in maniera vaga e astratta il nome del Sig. Te.Sa., senza pertanto descrivere fatti specifici" e che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare che il Fl.Se. aveva affermato di conoscere il Te.Sa. solo di nome, che aveva appreso dai menzionati Di.Gi. e La.To. La sentenza impugnata sarebbe poi affetta da contraddittorietà e da illogicità "nella parte in cui il propalante Sig. Fl.Se. collocava il Sig. Te.Sa. in una famiglia mafiosa diversa (Br.) da quella in cui si presume faccia parte (Co.)". In terzo luogo, il ricorrente contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, quali riscontri alle dichiarazioni dei due menzionati collaboratori di giustizia, sia degli incontri dell'imputato con altri sodali sia del contenuto delle conversazioni intercettate. Sotto il primo aspetto, il Te.Sa. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare le doglianze, che erano state avanzate nel proprio atto di appello, circa il fatto che non vi era prova né che i menzionati incontri, in particolare quelli con Sc.Lu., il Vi. e Mu.Gi., fossero effettivamente avvenuti, né, in ogni caso, delle motivazioni e dell'oggetto degli stessi. Sotto il secondo aspetto del contenuto delle conversazioni intercettate, il ricorrente contesta l'idoneità di esso a costituire prova della propria partecipazione, con ruolo apicale, all'associazione. Il ricorrente deduce in particolare che: a) il significato delle conversazioni del 4/12/2015, del 11/12/2015 e del 12/12/2015 presso Largo (omissis) - inteso dalla Corte d'appello di Palermo nel senso che l'imputato aveva il "ruolo di coordinatore delle attività estorsive ai danni dei commercianti della zona" (così il ricorso) - sarebbe stato frainteso, atteso, in particolare, che dalle stesse conversazioni non emergerebbe la consegna di denaro provento dell'attività estorsiva da parte del Di.Gi. e da parte del Gi.Sa. al Te.Sa., che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato la "massima di esperienza secondo cui è incompatibile con l'assunzione del ruolo di dirigente di una consorteria criminosa che un soggetto subordinato e dedito alla riscossione del c.d. "pizzo" possa pretendere autonomamente e contravvenendo alle direttive il raddoppio di una presunta pretesa estorsiva" e che il Te.Sa. "assiste ai racconti dei suoi interlocutori in modo passivo e inerme, tali da dimostrare che non dava direttive o ordini sul da farsi ai propri sottoposti; così derivando un travisamento della prova"; b) con riguardo alla conversazione dell'11/11/2017, la Corte d'appello di Palermo "non riscontrava la circostanza che la persona imputata si fosse limitato semplicemente a dire, senza particolare interesse, al Sig. Ca. che i Sig.ri Ca. e Mi. avrebbero fatto meglio a curarsi ognuno il proprio orticello senza calpestarsi i piedi, piuttosto che usare il suo nome indebitamente senza escogitare, a differenza di quanto prospettato dal Decidente, eventuali ritorsioni, ma soprattutto senza impartire alcuna direttiva e senza esercitare alcun controllo del territorio" e che la stessa Corte d'appello non avrebbe considerato che al Te.Sa. non era stato contestato il reato di cui all'art. 291-quater del D.P.R. 23 gennaio 1972, n. 43, in ordine al quale gli altri imputati erano stati assolti; c) con riguardo alle conversazioni del 8/11/2017 e del 11/11/2017 con il coimputato Sc.Lu., che da esse non emergerebbero elementi confermativi dell'interessamento della presunta associazione mafiosa nel settore dei giochi e delle scommesse né del fatto che la stessa vi avesse investito i propri supposti proventi illeciti, e che la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con le deduzioni difensive dell'imputato, prospettate nel suo atto di appello, con le quali era stato evidenziato come dalla menzionate conversazioni fosse emerso che il mercato dei giochi e delle scommesse era dominato da diverse imprese che operavano nel settore (in particolare, da "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.") e che l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite economiche (circostanza, quest'ultima, che sarebbe stata confermata anche dalla conversazione del 21/11/2017); d) con riguardo "all'asserito investimento dei proventi derivanti dai reati commessi in attuazione del programma delittuoso del presunto sodalizio criminoso", dalle risultanze probatorie non emergerebbe che la presunta associazione criminosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti o dall'attività del gioco e delle scommesse ("si è notato come la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"), dovendosi, altresì, considerare che il Te.Sa. non era stato rinviato a giudizio per alcun reato di estorsione ai danni di commercianti, che lo Sc.Lu. era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e che, dall'intercettata conversazione del 01/07/2016, ignorata dalla Corte d'appello di Palermo, risultava che "il Sig. Te.Sa. richiedeva al Sig. De.Gi. la restituzione dei propri soldi personali perché non era soddisfatto della gestione di quest'ultimo a causa delle ingenti perdite e dei presunti ammanchi di cassa"; e) quanto alla "vicenda della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"", durante l'incontro del 06/07/2016 con i rapinatori sarebbe emerso "soltanto il fatto che il Sig. Te.Sa. chiedeva spiegazioni ai rapinatori in ordine al loro comportamento riprovevole in relazione al quale uno di essi (Ma.) aveva posto in essere un comportamento aggressivo e violento nei confronti di un'impiegata della sala bingo "Taj Mahal", che peraltro era una persona cara all'odierno imputato", cioè "una situazione prettamente e squisitamente personale" del Te.Sa., "il quale aveva l'esclusivo interesse a chiedere spiegazioni sul motivo che ha portato i rapinatori a percuotere l'impiegata dell'esercizio commerciale in cui si è perpetrata al rapina". In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe, per tali ragioni, anapodittica e manifestamente illogica e avrebbe posto a fondamento della contestata affermazione di responsabilità "mere congetture e sospetti". 4.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , primo e secondo comma, cod. pen., nonché agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla mancata riqualificazione del reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione come partecipazione a tale associazione anziché come direzione e organizzazione della stessa. Dopo avere citato diverse sentenze della Corte di cassazione sul tema, il Te.Sa. deduce che dalle prove che sono state valorizzate dalla Corte d'appello di Palermo non emergerebbero elementi tali da fare ritenere che egli avesse assunto un ruolo apicale, "attivo e dinamico", all'interno della famiglia mafiosa di Co. e lamenta il carattere anapodittico e manifestamente illogico della motivazione della sentenza impugnata là dove essa argomenta in ordine all'assunzione di detto ruolo. A proposito delle singole prove valorizzate dalla Corte d'appello di Palermo, il ricorrente rappresenta: a) la non decisività e la non persuasività delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se., atteso che essi "non hanno rivelato fatti specifici e concreti comprovanti la contestazione"; b) che l'attribuito ruolo apicale non potrebbe trovare fondamento logico neppure nel contenuto delle intercettazioni telefoniche e tra presenti "in ordine ai presunti incontri avvenuti tra il Sig. Te.Sa. e altri sospettati sodali", né nell'impiego di denaro in presunte attività nel settore del gioco e delle scommesse; c) che, in particolare, con riguardo alla conversazione del 04/12/2015 (riportata alle pagg. 95-96 della sentenza impugnata), in essa il Gi.Sa. e il Di.Gi. "riferivano all'odierno impugnante delle pretese estorsive di soggetti non meglio identificati e di avere agli stessi consegnato delle somme di denaro di presunta provenienza illecita, cosicché la dimostrazione dell'asserito ruolo apicale assunto dal Sig. Te.Sa. è smentita", atteso che "se il Sig. Te.Sa. avesse assunto una posizione apicale in seno alla consorteria mafiosa, non avrebbe avuto senso che i Sig.ri Di.Gi. e Gi.Sa. consegnassero il denaro proveniente da attività predatorie ad altri soggetti, né che questi ultimi avessero avuto l'autorità di pretendere somme più ingenti"; d) che il ruolo apicale dell'imputato non potrebbe essere desunto neppure dall'incontro con i rapinatori della sala bingo "Taj Mahal", atteso che "in quell'occasione il Sig. Te.Sa. aveva soltanto l'interesse a rimproverare i rapinatori per il loro comportamento aggressivo e violento posto in essere nei confronti di una giovane impiegata di detta impresa, che era molto amica" sua e che dalle emergenze processuali non risulterebbe "dimostrato che altri soggetti presunti appartenenti alla famiglia di Vi. si siano recati dallo stesso al fine di chiedere spiegazioni in ordine all'esecuzione di detta rapina, atteso che, ammesso e non concesso, la stessa comunque non è stata commissionata dalla presunta famiglia mafiosa di Co., né tanto meno può imputarsi alla figura dell'odierno impugnante, il quale è allo scuro di tutto". Il ricorrente lamenta ancora che: a) la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare che la figura del Te.Sa. non era emersa nell'ambito del procedimento penale cosiddetto "Cupola 2.0", nel quale risultavano diversi incontri tra esponenti della consorteria mafiosa, tra i quali Se.Mi., indicato come il nuovo capo della ricostituita commissione provinciale di "Cosa Nostra", il che contrasterebbe che l'assunto secondo cui il Te.Sa. sarebbe stato "a capo della famiglia de qua") b) i collaboratori di giustizia Co., Bi. e Ma., così come "gli altri citati in sentenza", "nulla riferiscono di posizioni apicali in ordine all'odierno appellante". 4.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 648-ter 1 e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio aggravato in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune sentenze della Corte di cassazione su tale reato, il ricorrente lamenta il carattere astratto, generico, apparente, illogico e contraddittorio della motivazione della sentenza impugnata, la quale si rivelerebbe inconsistente e carente nella valutazione dei fatti processuali e avrebbe travisato il significato delle conversazioni intercettate. A proposito degli elementi di prova valorizzati dalla Corte d'appello di Palermo, il ricorrente rappresenta, con riguardo al delitto presupposto e alla provenienza dallo stesso del denaro trasferito e impiegato nell'impresa individuale "Ca.Ro.", che: a) la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con la deduzione difensiva secondo cui i reati di estorsione e di traffico illecito di sostanze stupefacenti, indicati nel capo 13) d'imputazione, non avevano trovato riscontro, atteso che il G.u.p. del Tribunale di Palermo aveva assolto Sc.Lu. dal reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti e che tale reato, così come quello di estorsione, non era stato contestato al Te.Sa. (così come allo Sc.Lu. non era stata addebitata alcuna condotta estorsiva); b) la stessa Corte d'appello non avrebbe "consideralo il fattore temporale secondo cui tali fatti-reato siano oltretutto successivi al tempus commissi delicti della presunta condotta di autoriciclaggio"; c) la sentenza impugnata non avrebbe neppure considerato "l'irrisorietà del valore economico dei presunti profitti illeciti riconducibili ai reati presupposti contestati ai capi 5), 9) e 11) (ad imputati diversi dal Sig. TE.Sa. e dal Sig. Sc.Lu.)", con la conseguente irrisorietà dei profitti illeciti che la presunta organizzazione criminale avrebbe potuto ricavare dalla commissione di tali reati; d) non potrebbe "imputarsi come delitto presupposto la fattispecie prevista dall'art. 416-bis c.p. se non si prova in concreto se effettivamente dalla perpetrazione del reato associativo si siano ricavati profitti illeciti"; e) diversamente da quanto anapoditticamente ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, come sarebbe risultato dalle intercettate conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., nonché dalla conversazione del 21/11/2017, "in realtà il mercato dei giochi e delle scommesse nel territorio in cui presumibilmente operava il sodalizio criminoso era dominato da diverse imprese operanti nel settore delle scommesse, su tutte la ditta "Am.Fi. Giochi di Am.Fi." e, viceversa, che la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"; f) non sarebbe "dirimente" neppure il fatto che l'imputato fosse disoccupato e privo di un patrimonio in conseguenza dell'applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, atteso che le argomentazioni dei giudici di merito non avevano "dimostrato (...) che la presunta somma di denaro oggetto di contestazione fosse di sicura provenienza illecita e non invece, secondo una lettura alternativa, frutto di un prestito di un parente o amico dell'imputato, ovvero di una somma di denaro che non era stata precedentemente sequestrata nell'ambito del procedimento di prevenzione"; g) la Corte d'appello di Palermo, con l'interpretare la frase intercettata "i piccioli della gente" nel senso che nell'impresa "Ca.Ro." erano stati investiti i soldi di provenienza illecita prelevati dalla cassa dell'associazione mafiosa, avrebbe travisato il significato di detta frase, la quale andrebbe invece "intesa nel senso che gli interlocutori (Sig.ri Te.Sa. e Sc.Lu.), non soddisfatti della gestione da parte del Sig. De.Gi., gli facevano presente che quest'ultimo si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa". Con riguardo "all'aspetto soggettivo" del reato, il ricorrente deduce che non sarebbe stato dimostrato che l'imputato "abbia presumibilmente trasferito una somma di denaro nella ditta "Ca.Ro.", con consapevolezza e volontà, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della sua provenienza". Il ricorrente conclude affermando l'insufficienza delle risultanze delle effettuate intercettazioni a giustificare una sua condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. 4.1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 512-bis e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori in concorso di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune sentenze della Corte di cassazione su tale reato - e, poi, anche sulla distinzione tra sospetti e indizi e sulla valutazione della prova indiziaria - il ricorrente lamenta il carattere carente, anapodittico, illogico e contraddittorio della motivazione della sentenza impugnata. Anzitutto, con riguardo all'elemento materiale dei reati, il ricorrente deduce: a) quanto a quello di cui al capo 14) dell'imputazione: a.1) il già evidenziato (nell'ambito dell'esposizione del terzo motivo) travisamento, per le ragioni che si sono pure dette, della frase "i piccioli della gente"; a.2) che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di confrontarsi con il dato dal quale sarebbe risultato che l'imputato (come anche lo Sc.Lu.) aveva prestato una somma di denaro a De.Gi., il quale gestiva l'impresa "Ca.Ro." che operava nell'ambito del noleggio di slot machines e, quindi, del gioco e delle scommesse, così travisando i fatti e la prova allorquando imputava la riconducibilità di detta impresa allo stesso imputato, il quale, "allorquando si accorgeva della mala gestio del Sig. De.Gi. gli richiedeva indietro il proprio denaro personale che gli aveva in precedenza dato a credito, stante lo stato di insolvenza che da lì a poco stava travolgendo il Sig. De.Gi.", con la conseguenza che, date tali circostanze, la Corte d'appello di Palermo avrebbe "bypassato di accertare" se l'imputato fosse il gestore occulto dell'impresa de qua; b) quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, che la Corte d'appello di Palermo "non delinea alcun contributo causale e/o morale" dell'imputato "nella costituzione della società (...) Srl" - in particolare, non avrebbe "spiegato sulla base di quali elementi e circostanze desumeva che il contratto di locazione (dell'immobile di corso (omissis), n. (omissis)) fosse stato stipulato nell'interesse e per conto dell'odierno ricorrente" - e non avrebbe considerato che (...) Srl "non è stata mai avviata", in quanto "non aveva mai ricevuto l'autorizzazione all'esercizio dell'attività di noleggio di slot machines, né (...) aveva nel suo patrimonio aziendale dette macchinette e tutta l'attrezzatura necessaria per l'assistenza tecnica". Il ricorrente deduce poi che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che il trasferimento fraudolento di valori è un reato a concorso necessario e a dolo specifico, con la conseguenza che, "non sussistendo la responsabilità penale nei confronti degli altri concorrenti necessari (atteso che il Ca.Ro. non era stato imputato e il La.Pa. e il Na.Gi. erano stati assolti per carenza del dolo specifico), ne deriva il venire meno della stessa anche nei confronti dell'odierno ricorrente dal momento che il delitto de quo non può ritenersi integrato con il venir meno del concorso necessario e del dolo specifico in capo agli altri concorrenti nel reato". Secondo il ricorrente, sarebbe carente, anche in capo a sé, l'elemento psicologico dei reati, atteso che "dal compendio probatorio non è possibile desumere elementi idonei a fornire la prova logica di commettere il fraudolento trasferimento dei beni allo scopo di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione". 4.1.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 512-bis, 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192, 521, 546 e 604, comma 4, cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di trasferimento di valori e di autoriciclaggio, in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 13) e 14)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto il concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione. Il ricorrente rappresenta in proposito che, come aveva dedotto nel non esaminato quinto motivo del proprio atto di appello, ai fatti contestati in detti capi d'imputazione - dovendosi ritenere che, come era stato dedotto nel non esaminato motivo del proprio atto di appello, la ridefinizione del fatto di cui al capo 13) da parte del giudice di primo grado violasse l'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. - sarebbe applicabile la sola fattispecie di autoriciclaggio, di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., attesi, da un lato, la clausola di riserva "salvo che il fatto costituisca più grave reato" contenuta nell'art. 512-bis cod. pen. e, dall'altro lato, che la fittizia intestazione dell'impresa "Ca.Ro." aveva costituito "un segmento della più articolata condotta di autoriciclaggio", che sarebbe nella specie un reato a formazione progressiva, con la conseguenza che il più grave reato di autoriciclaggio dovrebbe assorbire il reato di trasferimento fraudolento di valori. 4.1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 416-bis e 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di associazione di tipo mafioso e di autoriciclaggio in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 1) e 13)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto, con una motivazione apparente, anapodittica, illogica e giuridicamente errata, il concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il Te.Sa. rappresenta in proposito che tra i due reati si configurerebbe invece un concorso apparente di norme, in quanto quello di associazione di tipo mafioso, che costituirebbe, nella specie, un'ipotesi di reato complesso, punirebbe già la condotta di impiego, sostituzione e trasferimento in attività economiche, finanziarie e imprenditoriali del denaro o delle altre utilità provenienti dallo stesso reato, al fine di ostacolarne l'identificazione della loro provenienza delittuosa, come sarebbe confermato, oltre che dalla stessa definizione di associazione di tipo mafioso fornita dal terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen. e dalla comune ratio dei due reati, dalle previsioni di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. -comma nel quale "sono assenti forme di esclusione o limitazione della responsabilità per tale ipotesi" e che integrerebbe "una sorta di "progressione criminosa" rispetto al reato-base" - e al settimo comma dello stesso articolo, con la conseguenza che l'associato non potrebbe rispondere del reato di autoriciclaggio del denaro proveniente dalla commissione del delitto di associazione di tipo mafioso, pena la violazione dei principi del ne bis in idem sostanziale e del favor rei, oltre che dei principi di legalità costituzionale e convenzionale. Secondo il ricorrente, inoltre, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, il concorso apparente di norme non potrebbe essere negato per il solo fatto che, nella specie, non è prevista una clausola di riserva. Il Te.Sa. rappresenta ancora che il concorso tra i due reati in considerazione sarebbe stato escluso anche dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione Iavarazzo (Sez. U., n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, Rv. 259587-01). Il ricorrente chiede che, qualora l'adita Corte di cassazione dovesse ravvisare un contrasto giurisprudenziale sul punto, la questione venga rimessa alle Sezioni unite. 4.1.7. Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , quarto e quinto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente lamenta che, a proposito della sussistenza di tale circostanza aggravante, la Corte d'appello di Palermo avrebbe fornito una motivazione contraddittoria, generica e carente, oltre che viziata da un'erronea applicazione della legge penale, non avendo adeguatamente considerato che, dal compendio probatorio, non era risultato che egli avesse mai fatto uso di armi o che gliene fossero state sequestrate in occasione delle perquisizioni personale e domiciliare che erano state eseguite in occasione della sua sottoposizione alla misura della custodia cautelare in carcere, né che altri coimputati o la famiglia di Co. avessero fatto uso o disponessero di armi nel periodo di tempo di cui all'imputazione, ciò che non era emerso neppure dall'esito delle attività di intercettazione. Il ò1Te.Sa. rappresenta che non potrebbero deporre in senso contrario né il riferimento, fatto dalla Corte d'appello di Palermo, a "vicende passate, da collocare addirittura a molti anni prima e riguardanti anche le vicende di altre compagini associative" - in particolare, il rinvenimento, molti anni addietro, di munizioni all'interno di un autoarticolato di uno dei coimputati -, trattandosi di episodi che non lo riguardavano specificamente e ormai "coperti" da sentenza definitive, né la circostanza che il coimputato Ro. avesse fatto riferimento, in una conversazione con il padre, ad alcune armi (peraltro mai ritrovate), atteso che la disponibilità delle stesse non poteva essere attribuita alla famiglia di Co., dato che il Ro. non ne era partecipe. La Corte d'appello di Palermo non avrebbe spiegato neppure da quali elementi si potesse desumere che egli era a conoscenza dell'esistenza di armi a disposizione della famiglia o per quali ragioni tale esistenza si dovesse ritenere da lui ignorata per colpa. 4.1.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , sesto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere il controllo finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema di tale circostanza aggravante, il ricorrente lamenta che, a proposito della sussistenza di essa, la Corte d'appello di Palermo avrebbe fornito una motivazione carente, contraddittoria e illogica, oltre che viziata da un'erronea applicazione della legge penale. Il ricorrente deduce che, dall'acquisito compendio probatorio, non sarebbero emersi - né la Corte d'appello di Palermo avrebbe dato adeguatamente conto di tale emersione - né l'investimento, da parte propria, nell'economia lecita, dei proventi dell'attività illecita del sodalizio criminoso, né che tale investimento "avesse assunto una misura e/o una quantità tale da controllare o tentare di controllare precisi settori merceologici nel territorio di riferimento", in modo da alterare le regole che governano l'economia, la concorrenza e la correttezza dei rapporti commerciali, dovendosi ritenere ricorrere, al più, una mera infiltrazione nel tessuto economico. Il ricorrente deduce in particolare in proposito che: a) come risulterebbe dalle intercettate conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., nonché dall'intercettata conversazione del 21/11/2017, nel territorio di riferimento il mercato dei giochi e delle scommesse era in realtà dominato da diverse imprese, su tutte la "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.", mentre l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite; b) dal quadro probatorio non sarebbe emerso che l'associazione mafiosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti e dal settore del gioco e delle scommesse, mentre la Corte d'appello di Palermo avrebbe al riguardo omesso di considerare che il Te.Sa. non era stato rinviato a giudizio per alcun reato di estorsione perpetrato dalla consorteria mafiosa ai danni di commercianti e che il coimputato Sc.Lu. era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990; c) la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente argomentato in ordine al ritenuto investimento, da parte dell'organizzazione mafiosa, di proventi illeciti nelle imprese che operavano nel settore del gioco e delle scommesse, tenuto conto che dalle emergenze processuali non sarebbe emerso che le imprese "Ca.Ro." e (...) Srl "siano finanziate dai proventi illeciti della presunta compagine associativa e, conseguentemente, che abbiano assunto una posizione predominante - che come abbiamo visto è del tutto smentita avendo il Giudicante travisato la prova - nel mercato del gioco e delle scommesse nel territorio di pertinenza della famiglia di Co."; d) la Corte d'appello di Palermo avrebbe travisato il significato dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, nella quale il Te.Sa., alla presenza dello Sc.Lu., aveva in realtà chiesto al De.Gi. di restituirgli i propri soldi personali in quanto non era soddisfatto della gestione dello stesso De.Gi. a causa delle ingenti perdite e degli ammanchi di cassa, come sarebbe confermato anche da un'ulteriore conversazione intercettata tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., anch'essa travisata, "in cui il ricorrente voleva restituito il suo denaro", nonché dalla frase "io ci ho messo un sacco di soldi", mentre la frase "i piccioli della gente" sarebbe stata male interpretata dalla Corte d'appello di Palermo, dovendosi essa intendere non nel senso che nell'impresa erano stati investiti i soldi di provenienza illecita tratti dalle casse dell'associazione criminosa ma nel senso che gli interlocutori Te.Sa. e Sc.Lu., "non soddisfatti della gestione del Sig. De.Gi., gli facevano presente che quest'ultimo si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa". 4.1.9. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma, 99, 132 e 133 cod. pen., all'art. 27 Cost. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica. 4.1.9.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente, dopo avere evidenziato che, nel capo 1) dell'imputazione, il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al 2 luglio 2019 (precedente condanna di Te.Sa. per 416 bis c.p. in data 18.05.2001 (...))", "ponendosi così in continuazione con la precedente condotta associativa", anche sulla premessa che il predetto reato è un reato permanente e, quindi, unico, costituendo "un segmento della condotta associativa successiva ad un evento interruttivo - costituito da fasi di detenzione o da condanne -", deduce l'incompatibilità tra la "presenza di un unicum delittuoso" o, comunque, la continuazione, e la recidiva. 4.1.9.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente deduce l'inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata in quanto la Corte d'appello di Palermo si sarebbe basata genericamente sulla semplice circostanza che la condotta tenuta dall'imputato sarebbe indicativa di una maggiore colpevolezza e propensione all'illecito, senza tenere conto del "comportamento" dello stesso imputato e del contesto sociale ed economico in cui i reati erano stati commessi. A tale proposito, il ricorrente deduce che il quartiere palermitano di Co. "versa in un precario degrado economico e sociale, nel quale mancano i servizi essenziali e in cui vive un'ampia fascia di popolazione in stato di semi-povertà" e che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare "in ordine alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, oltre all'eventuale occasionalità della ricaduta, al fine di stabilire propensione a delinquere da parte dell'impugnante". 4.1.10. Con il decimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, senza motivare, abbia implicitamente ritenuto la sussistenza delle aggravanti dell'agevolazione mafiosa e del metodo mafioso, nonostante non fosse "dato rilevare alcun elemento tale da dimostrare (...) che il Te.Sa. abbia agito al fine di agevolare l'associazione mafiosa "Cosa Nostra", né che lo stesso abbia assunto un atteggiamento tale da incutere timore e imporre la coartazione del soggetto passivo tipico del c.d. metodo mafioso". Il ricorrente rappresenta al riguardo che: a) nell'intercettata conversazione del 01/07/2016, il Te.Sa. chiedeva al De.Gi. la restituzione di propri soldi personali, come sarebbe risultato anche da un'altra conversazione tra lo stesso Te.Sa. e lo Sc.Lu.; b) non sarebbe significativa, al fine di ritenere l'aggravante dell'agevolazione mafiosa, la frase "tutti i soldi in comune sono", atteso che essa "può interpretarsi nel senso che i soldi che il Sig. Te.Sa. ed altri presunti soci avevano conferito nell'impresa venivano gestiti in comune in quanto facenti parte del capitale sociale"; c) la frase "io ci ho messo un socco di soldi" significava che il Te.Sa. aveva "consegnato una propria somma di denaro rilevante e non di una moltitudine di persone, né di una presunta associazione delittuosa"; d) la frase "i piccioli della gente" andava intesa nel senso che gli interlocutori Te.Sa. e Sc.Lu. facevano presente al De.Gi. che egli "si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa", con la conseguenza che "il presunto interesse per il settore delle scommesse non era finalizzato ad agevolare l'associazione mafiosa, né imporlo con il c.d. metodo mafioso"; e) l'asserito rapporto di conoscenza tra Te.Sa., Sc.Lu. e De.Gi., "pur se negativamente qualificati, non può in alcun modo comportare la prova che l'impugnante abbia posto in essere la condotta incriminata di per sé per agevolare la consorteria mafiosa". 4.1.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma "e ss.", 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente motivato la determinazione della misura sia della pena base per il più grave reato di associazione di tipo mafioso sia degli aumenti per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, pervenendo a irrogare, per tutti tali reati, delle pene eccessive e inadeguate, in relazione all'effettiva gravità dei fatti e ala "scarsa pericolosità del soggetto agente", "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato". 4.2. Il ricorso a firma dell'avv. An.Ba. è affidato a cinque motivi. 4.2.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., e la mancanza della motivazione con riguardo alla mancata applicazione di quest'ultima disposizione in tema di concorso tra più circostanze aggravanti a effetto speciale. Il ricorrente rappresenta che il proprio motivo di appello sul trattamento sanzionatorio era stato "implementato e illustrato con motivi nuovi espressamente incentrati sulla applicabilità al ricorrente dell'art. 63 comma 4 c.p." e lamenta che, in ordine a tale aspetto, la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso qualsiasi motivazione. Il Te.Sa. deduce che per ciascuna delle aggravanti a lui attribuite, cioè quelle di cui ai commi quarto e sesto dell'art. 416-bis cod. pen. e la recidiva reiterata specifica, da ritenere tutte a effetto speciale, il giudice di primo grado aveva applicato il relativo aumento di pena, così non osservando il disposto del quarto comma dell'art. 63 cod. pen. 4.2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 533 dello stesso codice e all'art. 416-bis, primo e sesto comma, cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante, prevista dal sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti. Il ricorrente rappresenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe preso posizione sul fatto che tale circostanza aggravante era stata esclusa dalla sentenza del 01/12/2020 del G.u.p. del Tribunale di Palermo sui partecipanti alla ricostituita "commissione". Ciò rappresentato, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata e, premessa l'inammissibilità del riferimento al fatto notorio che sarebbe stato operato dalla Corte d'appello di Palermo, deduce l'inadeguatezza della predetta motivazione in ordine all'effettivo reimpiego di profitti illeciti e l'improprietà del richiamo "alle sale "Bingo" ed alla raccolta di scommesse" (così il ricorso), in quanto esse costituirebbero "singole iniziative", non rappresenterebbero ""strutture produttive" capaci di generare "beni o servizi" del genere tutelato dall'aggravante" e sarebbero gestite in modo solo apparentemente legale ma, in realtà, illecito. Il ricorrente contesta altresì l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui "è con riferimento a "Cosa Nostra", e non alle singole unità operative, che deve essere valutata (...) anche l'esistenza delle contestate circostanze aggravanti". 4.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 533 dello stesso codice e all'art. 416-bis, primo e quarto comma, cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante, prevista dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata al riguardo, lamentando che la Corte d'appello di Palermo avrebbe affermato la sussistenza della menzionata circostanza aggravante "su un piano meramente presuntivo anziché essere derivata da circostanze accertate in giudizio", facendo inammissibilmente leva sul fatto notorio e, comunque, argomentando in modo inadeguato in ordine sia alla materiale disponibilità di armi da parte dei partecipanti alla specifica struttura associativa in cui si sarebbe concretamente realizzata la condotta partecipativa sia in ordine alla consapevolezza di detta disponibilità, nonché trascurando il fatto che nessuno dei contestati reati-fine era stato commesso con l'uso di armi. 4.2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 648-ter 1 cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza del delitto di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente contesta l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui la già ricordata sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione Iavarazzo non avrebbe escluso il concorso tra il delitto di autoriciclaggio e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di autoriciclaggio abbia a oggetto denaro beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa. Il Te.Sa. lamenta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, ai fini della prova della provenienza del denaro trasferito e impiegato nell'impresa individuale "Ca.Ro." da un delitto non colposo, del fatto che l'imputato "non disponeva di propri capitali" (così il ricorso), atteso che tale argomentazione, "oltre a sottendere un inammissibile ribaltamento dell'onere probatorio", trascurerebbe il fatto che "la gran parte delle disponibilità finanziarie facenti capo alle organizzazioni mafiose proviene dall'esercizio di lecite attività imprenditoriali e che nulla esclude l'eventualità - per i singoli affiliati - di conseguire proventi da attività sommerse o da illeciti di natura contravvenzionale". Il ricorrente rappresenta in proposito come la Corte d'appello di Palermo abbia trascurato il fatto che, come era stato riferito dal collaboratore di giustizia Ga.Vi., egli era titolare di un'officina ("lavorava, aveva tipo una cosa di meccanico di macchine lattoniere, una cosa del genere"), ancorché tale attività fosse esercitata in forma "sommersa". 4.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 99 cod. pen., inosservanza della legge penale e vizio della motivazione con riguardo all'applicazione della recidiva reiterata specifica "a due segmenti di un'unica condotta anziché a due distinti reati". Dopo avere rammentato che il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al 2 luglio 2019 (precedente condanna di Te.Sa. per 416-bis c.p. in data 18.05.2001 (...))", il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non abbia motivato in ordine alla doglianza, che era stata sollevata con il proprio atto di appello, secondo cui lo stesso contestato reato non costituiva un reato autonomo ma "il successivo segmento della condotta giudicata nel 2001" - con sentenza di condanna che aveva determinato T'interruzione" ma non la "cessazione" della permanenza - con la conseguenza che la commissione del reato in contestazione non poteva costituire il presupposto per l'applicazione della recidiva. 5. I ricorsi di Sc.Lu. Sc.Lu. ha proposto due ricorsi, uno a firma dell'avv. Vi.Gi. e uno a firma dell'avv. Di.Be.. 5.1. Il ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. è affidato a tredici motivi. 5.1.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione dell'art. 416-bis, primo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, cod. pen., e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione. 5.1.1.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sussistenza di un sodalizio di tipo mafioso. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte, in ordine a tale aspetto, da Te.Sa., nel ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.1.1. 5.1.1.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sua partecipazione all'associazione di tipo mafioso. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo il fatto della partecipazione", con la conseguenza che la stessa Corte d'appello avrebbe perciò omesso di accertare, come sarebbe invece stato necessario fare, se tale partecipazione si fosse effettivamente protratta anche dopo la scarcerazione dello Sc.Lu. - sulla base di elementi che dimostrassero una nuova adesione, dopo la scarcerazione, e un apprezzabile e dinamico contributo causale teleologicamente orientato alla realizzazione degli scopi associativi - o se, invece, la stessa partecipazione fosse venuta meno per una qualsiasi causa diversa dalla collaborazione con la giustizia. In secondo luogo, il ricorrente lamenta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia So.Sa. e deduce in proposito che la stessa Corte d'appello avrebbe omesso di operare la necessaria rigorosa valutazione della credibilità del predetto collaboratore e dell'attendibilità delle sue dichiarazioni - connotazioni che, comunque, difetterebbero nella specie, stante anche l'asserita mancanza di spontaneità e precisione delle stesse -, tenuto anche conto del fatto che il So.Sa. avrebbe appreso quanto da lui riferito da terzi, con la conseguenza che la valutazione delle dichiarazioni del collaboratore avrebbe dovuto essere compiuta anche in relazione alle fonti originarie dell'accusa. Il ricorrente rappresenta poi specificamente che: a) il So.Sa. si sarebbe limitato a riferire che aveva dedotto che lo Sc.Lu. era intraneo alla consorteria mafiosa perché era "compare di Pi.", che egli identificava come il capo mandamento di V, sostenendo che era stato lo Sc.Lu. a fare incontrare il Pi. con il Ta.Pi., senza, tuttavia, specificare "il motivo, il giorno e il luogo", così rendendo una dichiarazione astratta e generica; b) lo stesso So.Sa. aveva altresì riferito di avere appreso che lo Sc.Lu. aveva collocato delle slot machines nel Comune di V, coinvolgendolo anche in una presunta condotta estorsiva "mai accertata e riscontrata processualmente". Poiché, con tali dichiarazioni, il So.Sa. non avrebbe in realtà fatto riferimento ad alcun fatto specifico in ordine alle condotte contestate all'imputato nel capo 1) dell'imputazione e nell'arco temporale in esso indicato e poiché le circostanze riferite dal collaboratore di giustizia non avevano trovato riscontro nel processo, né il Pi. e il Ta.Pi. erano stati sentiti, ne discenderebbe che le stesse dichiarazioni si dovrebbero ritenere costituire "un mero dato neutro" e che anche la valutazione di attendibilità delle medesime si dovrebbe ritenere "superficiale". In terzo luogo, il ricorrente contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, quali riscontri alle dichiarazioni del menzionato collaboratore di giustizia, sia degli incontri dell'imputato con altri sodali sia del contenuto delle conversazioni intercettate. Sotto il primo aspetto, lo Sc.Lu. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare le doglianze, che erano state avanzate nel proprio atto di appello, circa il fatto che non vi era prova né che i menzionati incontri, in particolare quelli con il Te.Sa., il Su., il Bi., il Cl., il Ta., il Na. e il Sa., fossero effettivamente avvenuti, né, in ogni caso, delle motivazioni e dell'oggetto degli stessi. Sotto il secondo aspetto del contenuto delle conversazioni intercettate, il ricorrente contesta l'idoneità dello stesso a costituire prova della propria partecipazione all'associazione. Il ricorrente deduce in particolare che: a) con riguardo alle conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 con il coimputato Te., che da esse non emergerebbero elementi confermativi dell'interessamento della presunta associazione mafiosa nel settore dei giochi e delle scommesse né del fatto che la stessa vi avesse investito i propri supposti proventi illeciti, e che la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con le deduzioni difensive dell'imputato, prospettate nel suo atto di appello, con le quali era stato evidenziato come dalla menzionate conversazioni fosse emerso che il mercato dei giochi e delle scommesse era dominato da diverse imprese che operavano nel settore (in particolare, da "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.") e che l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite economiche (circostanza, quest'ultima, che sarebbe stata confermata anche dalla conversazione del 21/11/2017); b) con riguardo "all'asserito investimento dei proventi derivanti dai reati commessi in attuazione del programma delittuoso del presunto sodalizio criminoso", dalle risultanze probatorie non emergerebbe che la presunta associazione criminosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti o dall'attività del gioco e delle scommesse ("si è notato come la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"), dovendosi, altresì, considerare che lo Sc.Lu. non era stato ritenuto responsabile di alcun reato di estorsione ai danni di commercianti ed era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 e dai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione, e che, da II'intercettata conversazione del 01/07/2016, ignorata dalla Corte d'appello di Palermo, risultava che "gli interlocutori richiedevano, ognuno per la propria parte, i propri soldi al Sig. De.Gi."; c) l'affermazione di responsabilità per i reati di autoriciclaggio e di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi, rispettivamente, 13), 14) e 15) dell'imputazione, non poteva costituire una conferma della partecipazione alla consorteria mafiosa, "in quanto si trattava di condotte delittuose di matrice esclusivamente personale e singola e non relative a un programma associativo"; d) quanto alla "vicenda della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"", durante l'incontro del 06/07/2016 con i rapinatori sarebbe emerso "soltanto il fatto che il coimputato chiedeva spiegazioni ai rapinatori in ordine al loro comportamento riprovevole in relazione al quale uno di essi (Ma.) aveva posto in essere un comportamento aggressivo e violento nei confronti di un'impiegata della sala bingo "Taj Mahal", che peraltro era una persona cara e amica del coimputato", e lo Sc.Lu. aveva mantenuto una mera "presenza (...) passiva", non intervenendo nella conversazione intrattenuta dagli altri soggetti presenti; e) la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente considerato "l'episodio dell'incendio delle autovetture della ditta di onoranze funebri del ricorrente", il quale episodio, come era stato evidenziato nel proprio atto di appello, "deponeva in senso contrario ad una presunta intraneità (...) nel sodalizio criminoso", dovendosi ritenere del tutto singolare che un sodale ritenuto vicino al capo mandamento di Br. potesse subire un atto incendiario di tal genere davanti alla propria abitazione, in quello che era reputato essere il territorio di riferimento dell'associazione mafiosa cui sarebbe appartenuto. In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe, per tali ragioni, anapodittica e manifestamente illogica e avrebbe posto a fondamento della contestata affermazione di responsabilità "mere congetture e sospetti". 5.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 648-ter 1 e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio aggravato in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel terzo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.3. Con l'aggiunta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato il fatto che la famiglia dello Sc.Lu. era titolare di un'agenzia di onoranze funebri, della quale l'imputato era un impiegato e, quindi, che questi disponeva di entrate lecite, finendo così con l'attribuire allo Sc.Lu. delle entrate di denaro di provenienza illecita alle quali, in realtà, egli non aveva mai fatto riferimento nelle conversazioni intercettate. 5.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 512-bis e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori in concorso di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel quarto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.4. Con l'aggiunta che l'acquisito compendo probatorio deporrebbe "per un proscioglimento" dello Sc.Lu. dal reato di cui al capo 15) dell'imputazione in quanto: a) egli non avrebbe intrattenuto alcun rapporto con Na.Gi. e La.Pa., asseriti fittizi intestatari di (...) Srl; b) non sarebbe mai stato contattato per problematiche attinenti all'attività imprenditoriale; c) non avrebbe intrattenuto rapporti con gli esercenti presso i quali avrebbero dovuto essere installate le slot machines; d) non era menzionato nelle intercettate conversazioni riguardanti (...) Srl 5.1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), e), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 512-bis, 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192, 521, 546 e 604, comma 4, cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di trasferimento di valori e di autoriciclaggio, in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 13) e 14)". Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel quinto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.5. Con la precisazione che il ricorrente deduce che la Corte di cassazione, a seguito della presentazione di un motivo nuovo non dedotto in appello, può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto, ancorché soltanto nei limiti in cui esso sia stato storicamente ricostruito dal giudice di merito. 5.1.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 416-bis e 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di associazione di tipo mafioso e di autoriciclaggio in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 1) e 13)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto, con una motivazione apparente, anapodittica, illogica e giuridicamente errata, il concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni identiche a quelle dedotte da Te.Sa. nel sesto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.6. 5.1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 75, comma 2, del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, e agli artt. 43, 47 e 81, secondo comma, cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato dì violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di cui al capo 27) dell'imputazione. Nel citare diversa giurisprudenza della Corte EDU, della Corte costituzionale e delle Sezioni unite della Corte di cassazione sul tema di detto reato, il ricorrente rappresenta che: a) "in assenza del contenuto dei dialoghi intrattenuti tra i coimputati nel corso di incontri conviviali", difetterebbe "la prova della "pericolosità" di tali episodici incontri", i quali, anche per il fatto di essere "saltuari" e "caratterizzati dalla spontaneità, senza una pregressa programmazione", non sarebbero stati "finalizzati a violare alcuna prescrizione imposta dal Giudice della prevenzione"; b) dal compendio probatorio era emerso che egli si era recato più volte nella propria casa di villeggiatura nel Comune di A, unitamente al proprio nucleo familiare, "senza per tale motivo mettere in concreto pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice de qua". Il ricorrente lamenta quindi che la Corte d'appello di Palermo non abbia escluso la sussistenza del reato in applicazione del principio di necessaria offensività, cioè senza verificare se il proprio comportamento avesse messo in pericolo o leso il bene giuridico tutelato "così da essere connotato da un'eloquente volontà di ribellione all'obbligo imposto in modo da vanificare lo scopo della misura", in assenza di "indicazioni univoche e chiare in ordine alla condotta posta in essere (...) da cui possa evincersi che la violazione sia avvenuta in concreto con l'intenzione di sottrarsi ai controlli ed al fine di tenere condotte illecite". 5.1.7. Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis, quarto e quinto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel settimo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.7. 5.1.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere il controllo finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nell'ottavo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.8. Il ricorrente evidenzia altresì: a) che egli non era stato riconosciuto responsabile di alcun reato di estorsione perpetrato dalla presunta associazione mafiosa ai danni di commercianti ed era stato assolto, oltre che dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, anche dai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione; b) la frase, da lui pronunciata nel corso dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, "io non ce ne metto più" (di soldi), la quale andrebbe anch'essa intesa nel senso che sia lo Sc.Lu. sia il Te.Sa. avevano consegnato una propria rilevante somma di denaro, "non facente capo ad una moltitudine di persone, né ad una presunta associazione delittuosa". 5.1.9. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma, 99, 132 e 133 cod. pen., all'art. 27 Cost. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica. Il ricorrente - nell'evidenziare che, nel capo 1) dell'imputazione, il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al due luglio 2019 (precedente condanna (...) di Sc.Lu. in data 24.05.2006)" e che la Corte d'appello di Palermo ha riconosciuto la continuazione tra i reati sub iudice e quelli già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007 - deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel nono motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.9. 5.1.10. Con il decimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel decimo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.10. Con riguardo ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, il ricorrente evidenzia anche la frase, da lui pronunciata nel corso dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, "io non ce ne metto più" (di soldi), la quale confermerebbe anch'essa che sia lui sia il Te.Sa. avevano consegnato una propria rilevante somma di denaro "non facente capo ad una moltitudine di persone, né ad una presunta associazione delittuosa". Con riguardo al reato di cui al capo 27) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anche la contraddittorietà e l'illogicità della motivazione della Corte d'appello di Palermo, la quale avrebbe del tutto omesso di confrontarsi con la doglianza difensiva secondo cui le violazioni delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno sarebbero state poste in essere "nel proprio esclusivo interesse e non con il proprio fine di agevolare l'associazione criminale "cosa nostra" (paradigmatici, in tal senso, i riferimenti alla frequentazione della propria abitazione di villeggiatura sita ad A o, ancora, di ristoranti e agriturismi, in alcun modo riconducibili alla consorteria)". 5.1.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma "e ss.", 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. "in ordine all'illegittima individuazione del reato più grave, alla quantificazione della pena e del calcolo stabilito per il reato continuato e le circostanze aggravanti". Il ricorrente deduce anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe dovuto "scorporare" i reati posti in continuazione già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, "e comparare questi con quelli di cui alla sentenza impugnata, al fine di individuare la proporzionalità degli aumenti e anche il reato più grave e motivare sulla consistenza di ciascun aumento per i reati-satellite", e lamenta che la stessa Corte d'appello "non ha specificamente motivato circa la determinazione della pena, omettendo di indicare, nel dettaglio, non solo i singoli aumenti per ciascuno dei reati posti in continuazione previo "scorporo", allo scopo di verificare la proporzionalità dei singoli aumenti, di ciascuno di essi ma, altresì, le ragioni giustificative degli aumenti operati", avendo "optato per un aumento non contenuto né proporzionato rispetto alla pena base". In secondo luogo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe errato nell'individuare quale reato più grave quello sub iudice di cui al capo 1) dell'imputazione "in ragione dell'inasprimento della pena edittale, nonché della contestata recidiva ex art. 99 comma IV c.p.", atteso che, al fine di detta individuazione, "avrebbe dovuto comparare la gravità in concreto delle singole condotte e non limitarsi a fare una rilevazione relativa alla pena vigente nel singolo momento in cui i reati posti in continuazione sono stati commessi"; comparazione sulla base della quale il reato più grave avrebbe dovuto essere ritenuto quello associativo già giudicato, "perché la condotta posta in essere dall'odierno imputato aveva un disvalore maggiore, per la caratura dei soggetti coinvolti, per i fatti e le dinamiche emersi nell'ambito del pregresso processo, per l'intensità del dolo e la durata della condotta delittuosa, per la commissione del reato-fine di estorsione, per il ruolo ricoperto in seno alla famiglia di Co.". 5.1.12. Con il dodicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 63, quarto comma, 81, secondo comma, 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione con la quale la Corte d'appello di Palermo, in ragione dell'"assenza di elementi positivamente valutabili" e "della elevata offensività della condotta ascritta all'imputato", ha confermato il diniego allo stesso delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente rappresenta al riguardo come la gravità del reato non si possa ritenere di ostacolo alla concessione del detto beneficio e come la Corte d'appello di Palermo, nel negarlo, avrebbe omesso di valutare gli elementi positivi, che erano stati evidenziati dalla propria difesa, della sua età anziana, delle sue gravi condizioni di salute (che avevano portato alla sostituzione della misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari e che ne comprovavano la "scarsa pericolosità"), della sua "situazione familiare", del suo contesto socio-ambientale di vita e del "percorso rieducativo intrapreso (...) nell'espiazione della pena". Sotto un secondo profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare in ordine al percorso logico-giuridico che aveva seguito nel determinare la misura della pena irrogata, la quale sarebbe "inadeguata e sproporzionata rispetto alla gravità dei fatti e non idonea alla rieducazione e al reinserimento sociale del reo". Sotto un terzo profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe erroneamente applicato il quarto comma dell'art. 63 cod. pen. Lo Sc.Lu. rammenta che la misura della pena è stata così determinata: a) pena base 12 anni di reclusione per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. aggravato ai sensi del quarto comma dello stesso articolo; b) aumento di un terzo (quindi, di 4 anni di reclusione, arrivando così a 16 anni di reclusione) per la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen.; c) ulteriore aumento di 2 anni di reclusione, ai sensi dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. per la recidiva reiterata specifica (arrivando così a 18 anni di reclusione). Ciò rammentato, il ricorrente afferma l'erronea applicazione del quarto comma dell'art. 63 cod. pen. in quanto la Corte d'appello di Palermo, a norma di tale comma, "avrebbe potuto operare solo un aumento facoltativo di un terzo". Sotto un quarto profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo: a) avrebbe omesso di argomentare in ordine agli aumenti di pena, ai sensi del secondo comma dell'art. 81 cod. pen., "in modo distinto per i reati meno gravi"; b) nel riconoscere la continuazione con i reati già giudicati con la menzionata sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, non avrebbe "operato una riduzione degli aumenti per i reati-satellite posti in continuazione, così apparendo irragionevole e sproporzionato un simile trattamento sanzionatorio dal momento che veniva, in sede di appello, ritenuto responsabile di una condotta sanzionata in maniera più mite e, per l'effetto, dovevano essere rivisti gli aumenti per le altre condotte poste in continuazione"; c) ribadisce che, come già dedotto con l'undicesimo motivo, la Corte d'appello di Palermo avrebbe dovuto "scorporare" i reati posti in continuazione già giudicati "e comparare questi con quelli di cui alla sentenza impugnata, al fine di individuare la proporzionalità degli aumenti e anche il reato più grave e motivare sulla consistenza di ciascun aumento per i reati-satellite". 5.1.13. Con il tredicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 132, 133, 202, 203, 228, 230 e 233 cod. pen. e all'art. 27 Cost., per avere la Corte d'appello di Palermo confermato l'applicazione, nei propri confronti, delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, con l'affermare al riguardo che "trattasi di misura obbligatoria e determinata nella sua durata dall'art. 230 comma uno n. 1) c.p. in relazione alla pena detentiva inflitta all'imputato superiore a dieci anni di reclusione e quindi in misura non inferiore ad anni tre", si sarebbe sottratta all'obbligo - che sarebbe previsto anche per l'applicazione di misura di sicurezza nel caso di condanna per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., ai sensi dell'art. 417 dello stesso codice - di motivare in ordine al positivo accertamento della pericolosità sociale del condannato. Inoltre, la citata motivazione della Corte d'appello di Palermo non potrebbe valere per la misura di sicurezza del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo, atteso che "l'applicazione di quest'ultima misura è discrezionale, cosicché il Giudice di merito avrebbe dovuto motivare sul punto le ragioni di una siffatta condanna"; motivazione che, invece, difetterebbe anche in ordine alla pericolosità sociale del condannato Sc.Lu. 5.2. Il ricorso a firma dell'avv. Di.Be. è affidato a undici motivi. 5.2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. Il ricorrente sostiene anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo la partecipazione all'associazione mafiosa", atteso che tale partecipazione deve essere, invece, "dimostrata, senza avvalersi di automatismi e presunzioni, nella sua concretezza e con riferimento al periodo della imputazione". A proposito di tale necessaria dimostrazione, il ricorrente asserisce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe indicato, in concreto, in che modo gli elementi da essa valorizzati potessero dimostrare la sua partecipazione all'associazione, nei necessari termini di un ""apporto quotidiano"" e di un "inserimento stabile ed organico", e contesta, in particolare, che tale dimostrazione potesse risultare sulla scorta del contenuto delle dichiarazioni che erano state rese dal collaboratore di giustizia So.Sa. durante il suo interrogatorio del 19/06/2016 e dei propri incontri con altri presunti sodali, atteso anche che tali incontri, il più delle volte, erano rimasti ""muti"", in quanto non accompagnati da intercettazioni. Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, in termini accusatori, del contenuto dell'intercettata conversazione del 30/01/2015 tra egli stesso e Da.Cl. - nel corso della quale quest'ultimo diceva allo Sc.Lu.: "se tu hai bisogno di me, nel mio piccolo" - e deduce in proposito che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe spiegato quale valenza si potesse attribuire, al fine di provare la propria reintroduzione nel sodalizio, al "mero riconoscimento di disponibilità da parte di un conoscente dello Sc.Lu., una volta che quest'ultimo aveva scontato il proprio periodo di detenzione" (disponibilità che "peraltro (...) avrebbe potuto essere stata legata a convinzioni dell'interlocutore dello Sc.Lu. ingenerate dalla sue condotte pregresse, oggetto del precedente giudizio)". Lo Sc.Lu. sostiene poi, con riguardo alla valorizzazione dei propri incontri con altri soggetti che avrebbero asseritamente fatto parte del sodalizio, che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, la mancata conoscenza delle conversazioni che ebbero luogo durante tali incontri, per non essere state le stesse intercettate, renderebbe "gli stessi logicamente inutilizzabili, potendo questi ultimi avere avuto - come è effettivamente accaduto - un tenore di tutt'altro tipo, totalmente estraneo alle logiche ed alle dinamiche dell'associazione mafiosa". Né, sempre contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, si comprenderebbe "come il distanziamento tra gli interlocutori o il fatto che alcuni incontri siano avvenuti in appartamenti o in luoghi privati possa essere sintomatico di una afferenza delle conversazioni effettuate alle questioni tipiche del sodalizio". Quindi, la Corte d'appello di Palermo avrebbe "adottato un ragionamento prettamente presuntivo, conferendo valore probatorio a dati del tutto privi di tale significato". Il ricorrente sostiene ancora che, come aveva rappresentato nel proprio atto di appello, i cui rilievi sarebbero stati ignorati dalla Corte d'appello di Palermo, nelle rare occasioni in cui furono effettuate delle intercettazioni delle conversazioni che ebbero luogo nel corso dei menzionati incontri, "queste si rivelano in concreto poco comprensibili o comunque neutre". Dopo avere rammentato che, nel proprio atto di appello, aveva dedotto come egli fosse rimasto estraneo alle fattispecie estorsive che erano state contestate ad altri coimputati e fosse stato assolto dal reato dì traffico illecito di sostanze stupefacenti, oltre che dai reati di trasferimento illecito di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione, lo Sc.Lu. contesta la motivazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui tale rilievo non coglierebbe nel segno "avendo l'imputato riportato condanna per i delitti di cui agli artt. 648-ter e 512-bis c.p. contestati ai capi 13), 14) e 15)", atteso che queste ultime fattispecie di reato si dovevano ritenere avere "matrice esclusivamente personale, in alcun modo elevabili a elementi di conferma di una partecipazione dell'odierno ricorrente al sodalizio mafioso", e che la risposta della Corte d'appello di Palermo allo stesso rilievo sarebbe comunque "approssimativa e dunque solo apparente". Il ricorrente deduce infine che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe riconosciuto adeguato rilievo all'episodio dell'incendio delle autovetture intestate all'impresa di onoranze funebri a lui riconducibile, episodio che si porrebbe "in palese contrasto con l'impostazione della Corte, secondo la quale l'imputato sarebbe un soggetto molto vicino al capo mandamento di Br.". Lo Sc.Lu. contesta la motivazione resa al riguardo dalla Corte d'appello di Palermo ("potendo invece l'episodio inserirsi agevolmente nel gioco dei rapporti di forza all'interno della famiglia mafiosa"), in quanto fondata "sulla base di una ipotesi (...) non supportata - e non sorretta dal punto di vista motivazionale - da elemento alcuno". 5.2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante, di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente lamenta anzitutto che sarebbero inconferenti, alla luce della citata giurisprudenza della Corte di cassazione, i riferimenti, operati dalla Corte d'appello di Palermo, "alla "notorietà" della stabile dotazione di armi da parte del sodalizio "cosa nostra" per giustificare, in ossequio ad inaccettabili automatismi, l'applicazione dell'aggravante al singolo appartenente". Il ricorrente deduce poi che gli elementi addotti dalla stessa Corte d'appello di Palermo al fine di "corroborare il c.d. fatto notorio della disponiblità di armi da parte di "cosa nostra"" sarebbero "incongrui", tanto da configurare una motivazione meramente apparente, in quanto basata su "di un ragionamento meramente presuntivo". Il ricorrente rappresenta al riguardo, anzitutto, che sarebbero "privi di concreto valore probatorio" gli elementi costituiti dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Va.Pa. e dal contenuto di alcune intercettate conversazioni tra soggetti asseritamente facenti parte del sodalizio (tra Va.Pa., Ro. e Li.Ma.; tra Di.Sa. e la cognata Pi.Ma.; tra Di.Sa. e il cognato Co.Sa.), atteso che si trattava di "affermazioni rese da soggetti terzi, in alcun modo riconducibili allo Sc.Lu. ed alle quali non ha fatto peraltro seguito alcun riscontro concreto" -avendo la stessa sentenza impugnata dato atto che la perquisizione che era stata effettuata nell'abitazione dei Ro. aveva avuto esito negativo - e, quindi, di elementi inidonei a dimostrare che lo Sc.Lu. avesse avuto contezza diretta della dotazione di armi o l'avesse colpevolmente ignorata. Parimenti, sarebbero inidonei a giustificare l'applicazione della circostanza aggravante de qua il contenuto dell'intercettata conversazione tra Ro.Pa. e suo padre Ro.Pi. e il fatto che, a seguito dell'arresto del Ta.Pi., lo Sc.Lu. e Te.Sa. avrebbero sostituito lo stesso Ta.Pi. nella gestione degli affari inerenti alla famiglia di Co.. Il ricorrente rappresenta in proposito che: a) la Corte d'appello di Palermo ha confermato la sua assoluzione dal delitto di direzione e promozione dell'associazione mafiosa, ruolo che, comunque, non potrebbe, da sé solo, costituire prova della disponibilità di armi da parte del sodalizio e della consapevolezza di ciò da parte dell'imputato; b) quanto alla menzionata intercettata conversazione tra Ro.Pa. e Ro.Pi., in cui egli viene menzionato, si tratterebbe "di una intercettazione dal contenuto decisamente lacunoso e vago, in alcun modo idonea a provare l'asserita disponibilità di armi da parte dell'odierno ricorrente o comunque la mera consapevolezza, da parte di quest'ultimo, in ordine al relativo possesso da parte degli altri associati", e che sarebbe assolutamente illogico considerare quale elemento a proprio carico una captazione nel corso della quale gli stessi interlocutori definiscono "minchiate" i racconti su armi nella disponibilità dello Sc.Lu. o, comunque, del sodalizio. 5.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante, di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, disattendo anche la citata giurisprudenza della Corte di cassazione sul tema della menzionata circostanza aggravante: a) avrebbe omesso "di fornire l'indicazione di una prova puntuale e concreta dell'immissione, da parte dell'odierno ricorrente, di capitale di provenienza delittuosa nelle attività economiche" del settore delle slot machines, ritenendo dimostrata tale immissione sulla base di captate affermazioni proprie ("I picciuli della gente... G.") e di Te.Sa. ("tutti i soldi in comune sono") "generiche e decontestualizzate"; b) avrebbe affermato in modo del tutto sommario e anapodittico, in assenza di richiami a prove concrete, che l'attività a sé riconducibile avrebbe alterato la concorrenza e il mercato delle cosiddette "macchinette", finendo per prevalere sulle altre presenti nello stesso territorio. Posto che la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato anche quanto da essa considerato in ordine all'affermazione di responsabilità per i reati di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, il ricorrente richiama anche le doglianze, "da intendersi qui riportate", svolte nei successivi motivi relativi a tali affermazioni di responsabilità. 5.2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Dopo avere argomentato che, con riguardo a tale affermazione di responsabilità, non ricorrerebbe una cosiddetta "doppia conforme" e avere in particolare precisato che la Corte d'appello di Palermo ha individuato, quale delitto presupposto dell'autoriciclaggio, esclusivamente quello di associazione mafiosa, il ricorrente contesta anzitutto l'errata applicazione dell'art. 648-ter 1 cod. pen. con riguardo all'affermazione della stessa Corte d'appello secondo cui "appare sufficiente che agli stessi imputati sia stato contestato (...) il delitto di cui all'art. 416-bis c.p.", atteso che, così ritenendo, si verrebbe a "creare una sorta di automatismo tra la contestazione del reato associativo e l'investimento in attività economiche - con modalità tali da integrare il delitto di autoriciclaggio - dei proventi del delitto associativo (che avrebbero dovuto essere, quantomeno, previamente individuati)". In secondo luogo, lo Sc.Lu. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe motivato in modo solo apparente in ordine all'elemento del reato di autoriciclaggio costituito, in particolare, dall'immissione di utili di provenienza illecita derivanti dalla partecipazione al sodalizio mafioso nell'attività economica relativa alla gestione delle slot machines. In terzo luogo, il ricorrente deduce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di tenere conto di due doglianze, che erano state prospettate nel proprio atto di appello e che avrebbero dovuto indurre a escludere la propria responsabilità, costituite dalla rappresentazione dei fatti che: a) non gli era imputato l'investimento di una somma di denaro determinata (come era per il coimputato Te.Sa.) ma di "una somma non meglio specificata" (così il capo d'imputazione); b) la propria famiglia era titolare di una nota agenzia di pompe funebri, presso la quale egli era impiegato, fonte di redditi acclarati, consistenti e, evidentemente, leciti. 5.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15 dell'imputazione. Il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo, in contrasto con l'orientamento della citata giurisprudenza della Corte di cassazione, avrebbe ritenuto la propria responsabilità per i predetti due reati sulla base del solo preteso esercizio, da parte propria, di un potere gestorio dei beni - il quale sarebbe stato peraltro comunque affermato sulla base di una motivazione meramente apparente - in difetto, non solo di accertamenti di natura patrimoniale, ma anche di elementi specifici, non indicati nella motivazione della sentenza impugnata, idonei a dimostrare la provenienza delle risorse asseritamente investite e la riconducibilità di esse all'imputato. Con specifico riguardo al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, il ricorrente afferma l'inidoneità degli elementi valorizzati dalla Corte d'appello di Palermo ai fini della conferma della sua affermazione di responsabilità. In particolare, con riguardo al contenuto delle conversazioni intercettate, lo Sc.Lu. deduce che queste sarebbero "poco chiare, inserendosi spesso in contesti connotati da tratti incerti ed espressioni incomprensibili, per tali ragioni, in alcun modo idonee a sorreggere l'accusa" e, specificamente, che, come era stato osservato nel proprio atto di appello, restato, sul punto , senza risposta: a) la frase di Te.Sa. "tutti i soldi in comune sono", "si inserisce in tutta evidenza in un quadro poco chiaro, tra espressioni prive di significato e riferimenti a un "ragazzo" che non c'è più e ad altri terzi soggetti"; b) le frasi del Te.Sa. "Cioè come... ci ho messo un sacco di soldi" e dello Sc.Lu. "Io non ce ne metto più" costituirebbero "una evidente riproposizione indiretta di quanto detto dal De.Gi., il quale sosteneva per l'appunto di avere immesso denaro nella società e di non volerne mettere più, tant'è che Te.Sa. concludeva asserendo "Non ce ne mettono più? Ma stiamo impazzendo?""; c) la frase "i picciuli della gente" sarebbe "poco chiara", sicché da essa non sarebbe "possibile dedurre - se non con un inaccettabile salto logico (...) - la prova di una qualsivoglia immissione di capitale nell'impresa da parte degli imputati". Il ricorrente contesta ancora la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, del fatto che, dopo un incontro nel magazzino dell'impresa "Ca.Ro.", egli e il Di.Pi. venivano trovati dalla Polizia in possesso, rispettivamente, di Euro 950,00 e di Euro 2.050,00, atteso che si tratterebbe "di somme con tutta evidenza non particolarmente ingenti, delle quali i due soggetti potevano ovviamente disporre per altre ragioni (...) certamente non collegate all'incontro precedentemente intercorso". Con riguardo al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe desunto la propria responsabilità dal fatto che egli "abbia messo in contatto Mi.Al. con Nu.Gi., titolare del magazzino di Corso (omissis) n. (omissis), così agevolando la ricerca di un locale ove esercitare l'attività di impresa e favorendo la stipulazione del contratto di locazione tra le parti" (così il ricorso), il che, tuttavia, evidenzierebbe un proprio ruolo "notevolmente limitato e marginale", del tutto inidoneo a dimostrare che egli avesse un interesse in (...) Srl, che vi avesse investito risorse proprie e ne fosse l'effettivo titolare. Il ricorrente contesta poi l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui dalle risultanze istruttorie si desumerebbe che i capitali per la costituzione della menzionata società furono forniti dallo Sc.Lu. e da Te.Sa. ed evidenzia al riguardo che: a) le risultanze istruttorie non lo riguardavano, salvo che per la già contestata "questione dell'affitto dei locali"; b) il valorizzato dialogo "in cui si parlava di tale F.", avrebbe un "contenuto assai vago e poco comprensibile" e la Corte d'appello di Palermo non chiarirebbe "da dove dovrebbe risultare che gli interlocutori si riferiscano alla (...), all'epoca (1.7.2016) neppure costituita". La Corte d'appello avrebbe poi del tutto trascurato quanto era stato rilevato nel proprio atto di appello riguardo ai fatti che egli: a) "non intratteneva alcun rapporto con Na.Gi. e La.Pa."; b) "non veniva mai contattato per problematiche riguardanti l'attività"; c) "non aveva mai avuto rapporti con i titolari delle attività commerciali presso le quali erano state collocate le macchinette"; d) "non veniva mai menzionato, neppure nei dialoghi concernenti la società valorizzati in chiave accusatoria". 5.2.6. Con il sesto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'applicazione della recidiva, nonostante il riconoscimento della continuazione con i reati per i quali era stata pronunciata sentenza passata in giudicato (resa nell'ambito del procedimento cosiddetto "Ghiaccio"). Il ricorrente deduce - citando anche, in tale senso, Sez. 5, n. 5761 del 11/03/2010, dep. 2011, Melfitano, Rv. 249255-01 - l'incompatibilità tra recidiva e continuazione, come risulterebbe dal fatto che la continuazione è istituto "volto a considerare, agli effetti penali ed in un'ottica di minor disvalore, quale un unico reato plurime condotte poste in essere dall'agente, anche in tempi diversi, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso", e contesta l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui la compatibilità tra i due istituti sarebbe confermata dal quarto comma dell'art. 81 cod. pen., atteso che tale disposizione "non riguarda in alcun modo l'applicazione della recidiva per il secondo reato in continuazione e non attiene affatto, dunque, alla questione della compatibilità tra recidiva e continuazione". Lo Sc.Lu. evidenza poi che, nel caso di specie, "si è in presenza - come riconosciuto nella stessa statuizione impugnata - di un'unica condotta permanente di fatto protrattasi nel tempo, proseguendo "senza soluzione di continuità" (così a pag. 483 della sentenza) anche dopo la prima condanna, rispetto alla quale la contestazione di due diversi reati è legata esclusivamente ad una fictio iurìs", sicché, "specie in considerazione di ciò, l'applicazione della recidiva avrebbe dovuto essere oggetto di una specifica motivazione, mentre la Corte vi dedica solo poche righe, con considerazioni di solo stile, che rendono la motivazione meramente apparente". 5.2.7. Con il settimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'applicazione di tutte le aggravanti di cui al quarto e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. e della recidiva, in violazione dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo abbia confermato la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo nella parte in cui questo aveva applicato gli aumenti di pena prima per la circostanza aggravante di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., poi per la circostanza aggravante di cui al sesto comma dello stesso articolo e, infine, per la recidiva, laddove, invece, ai sensi del quarto comma dell'art. 63 cod. pen., "solo uno dei tre aumenti (...) sarebbe stato, in astratto, legittimo, mentre per l'ulteriore aumento, meramente facoltativo per espressa previsione di legge, la scelta di applicarlo avrebbe dovuto essere adeguatamente motivata", "specie in considerazione del fatto che la difesa aveva lamentato l'immotivata valutazione compiuta sul punto dal primo giudice". 5.2.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., anche con riferimento all'art. 125 dello stesso codice, l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. con riguardo ai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine al proprio motivo di appello (il quarto) con il quale aveva dedotto l'insussistenza, con riferimento ai due menzionati reati di trasferimento fraudolento di valori, della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. (che, nel capo d'imputazione, gli era stata contestata sia come metodo mafioso sia come agevolazione mafiosa). 5.2.9. Con il nono motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, del diniego delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, nel confermare tale diniego, avrebbe motivato in modo solo apparente, non avendo considerato quanto la propria difesa "aveva posto all'attenzione della (stessa) Corte", cioè che "i precedenti penali non possono essere utilizzati quale presupposto sulla base del quale negare la concessione delle attenuanti" e che la propria "posizione (...) fosse già stata ampiamente ridimensionata". Lo Sc.Lu. lamenta altresì la violazione del divieto di bis in idem sostanziale per avere la Corte d'appello di Palermo valutato due volte la propria ricaduta nel reato, sia per applicare "la relativa circostanza" (id est: la recidiva) sia per escludere le circostanze attenuanti generiche. 5.2.10. Con il decimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo all'applicazione di una pena asseritamente eccessivamente elevata, in violazione degli artt. 81 e 133 cod. pen. Il ricorrente lamenta che la "conferma della pena inflitta" sarebbe "viziata" in quanto gli sarebbe stato "riconosciuto un ruolo non significativo all'interno del sodalizio criminale "cosa nostra"" e che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato in ordine alla congruità della pena irrogata e sugli aumenti per la continuazione se non ricorrendo a mere clausole di stile, quale si dovrebbe ritenere l'argomentazione "tenuto conto dei criteri soggettivi e oggettivi di cui all'art. 133 c.p." (pag. 484 della sentenza impugnata). 5.2.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma dell'applicazione delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo. Il ricorrente contesta la motivazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui "trattasi di misura obbligatoria e determinata nella sua durata dall'art. 230 comma 1 n. 1) c.p. in relazione alla pena detentiva inflitta all'imputato superiore ad anni dieci di reclusione e dunque non inferiore ad anni tre" e deduce in proposito che tale motivazione sarebbe, anzitutto, incompleta, in quanto afferisce alla sola misura di sicurezza della libertà vigilata, e, in secondo luogo, errata, in quanto non terrebbe conto dei principi, affermati dalla Corte di cassazione, secondo cui, dopo la novella di cui all'art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nell'applicazione delle misure di sicurezza, esclusi qualsiasi automatismo e presunzione, è sempre necessario accertare in concreto la pericolosità del condannato. Il denunciato vizio di motivazione sarebbe "ancor più grave" con riguardo all'applicazione del divieto di soggiorno di cui all'art. 233 cod. pen., atteso che tale misura di sicurezza è, per espressa previsione normativa, facoltativa. 5.2.12. In conclusione del proprio ricorso, lo Sc.Lu. chiede che, nel caso di annullamento della sentenza impugnata cui consegua una rideterminazione della pena per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., venga annullata anche la statuizione della stessa sentenza che ha individuato tale reato come il più grave tra quelli posti in cntinuazione. 6. Il ricorso di Ma.Vi., a firma dell'avv. Ma.Mo., è affidato a un unico motivo, con il quale il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., I'"insufficienza della motivazione". Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe "esplicitato chiaramente i criteri di valutazione che sulla base di quelle prove (che sorreggevano la sua decisione) consentono di pervenire alle conclusioni alle quali è pervenuta", atteso che "nella impugnata sentenza in poche righe si dà atto della colpevolezza dell'odierno ricorrente (...) senza che vi sia un percorso motivazionale a tal proposito" e senza considerare le specifiche doglianze che erano state avanzate dall'imputato. Il ricorrente, "(i)n via subordinata", "chiede la riforma dell'impugnata sentenza escludendo l'aumento per la contestata recidiva". 7. Il ricorso di Di.Pi., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a quattro motivi. 7.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 629 cod. pen. e all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, che la Corte d'appello di Palermo abbia confermato l'affermazione della sua responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione e traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione. 7.1.1. Quanto al primo reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe limitata a un'opera di copia-incolla della sentenza di primo grado, senza motivare "sulle doglianze difensive" e senza, comunque, riuscire a evidenziare elementi tali da giustificare l'affermazione di responsabilità. Il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni che erano state rese dai collaboratori di giustizia So.Sa. e Bi. Quanto, in particolare, a quelle di quest'ultimo, la Corte d'appello di Palermo, col ritenere che egli avrebbe indicato l'imputato come alter ego del suocero Sc.Lu. (pag. 155 della sentenza impugnata), non avrebbe considerato che le dichiarazioni del Bi. "sono state di altro tenore". Ciò in quanto il Bi.: "dichiara di conoscerlo fotograficamente, quando, in realtà, lo scambia per un altro"; solo "dopo averne sentito il nome", afferma che il Di.Pi. "è contiguo al suocero" (così il ricorso), concetto, quello di contiguità, che "non equivale ad intraneità", la quale richiede "il fattivo contributo per l'intera organizzazione"; afferma che "non gli risulta (che egli sia) uomo d'onore" (così il ricorso); riferisce che il Di.Pi., quando lo Sc.Lu. "parlava con determinati soggetti o in di lui presenza", si allontanava, senza che, peraltro, dal contenuto delle effettuate intercettazioni tra presenti, fosse emerso che egli fosse a conoscenza del contenuto dei dialoghi, neanche per essergli stato riferito dal suocero. Secondo il ricorrente, pertanto, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che non lo avrebbero indicato come uomo d'onore, ma soltanto come vicino al suocero Sc.Lu., sarebbero state "più che riscontrate, (...) interpretate". Il Di.Pi. sottolinea ancora come la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di valorizzare il dato che il collaboratore di giustizia Co. aveva affermato di non conoscerlo. In secondo luogo, il Di.Pi. contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'elemento che egli avrebbe accompagnato il suocero Sc.Lu. nei luoghi di presunti incontri con altri sodali. Il ricorrente deduce che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d'appello, egli non si era mai trattenuto all'esterno dei predetti luoghi, garantendo la sicurezza degli incontri, atteso che, come sarebbe emerso dai foto-filmati, egli lasciava il suocero nei luoghi degli incontri, andava via e tornava poi a riprenderlo, con la conseguenza che la Corte d'appello di Palermo avrebbe "attribuito un dato probatorio diverso da quello reale". Il ricorrente rappresenta che nessuna delle conversazioni tra presenti intercettate avrebbe "valenza investigativa" e, in particolare, che "non si ha una sola intercettazione in cui il di lui suocero si sfoghi o renda partecipe il Di.Pi. del contenuto di tali fantomatiche riunioni mafiose". Nella parte finale dell'esposizione del motivo, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sugli elementi necessari per potere ritenere la sussistenza del reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, deduce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato con riguardo agli stessi e, segnatamente, al suo inserimento organico nel sodalizio, suggellato dalla volontà di inclusione da parte di esso, e al contributo causale da lui prestato all'esistenza dell'associazione, rappresentando, altresì, che l'attribuzione dei reati-fine "esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente rappresenta ancora che, quando le intercettazioni risultano parzialmente incomprensibili o, comunque, poco chiare, il giudice che le ponga a fondamento della propria decisione dovrebbe spiegare "le ragioni che lo inducono a giungere a determinate conclusioni". 7.1.2. Quanto al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare, come sarebbe stato necessario fare, le dichiarazioni che erano state rese dalia persona offesa dal reato An.Ni. il 22/11/, "il quale in maniera cristallina ha dichiarato che è stata una sua iniziativa rintracciare il proprietario del motore sottratto dal figlio". Il ricorrente deduce altresì che, nel caso di specie, difetterebbero "i profili oggettivi del reato", atteso che, da quanto era emerso dal compendio probatorio, egli "si è convinto di potere accettare l'offerta risarcitoria propostagli dalla persona offesa, ritenendo di avere subito un ingiusta (s/c) per il furto subito". 7.1.3. Quanto al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, il ricorrente deduce la contraddittorietà e l'illogicità della motivazione là dove la Corte d'appello di Palermo afferma: "e che l'acquisto effettuato dal Di.Pi. avvenisse nell'interesse della famiglia di Co. è dimostrato da alcune conversazioni intercettate e segnatamente quella del 15.11.2017 h. 11,18 prog. 96, (...) tra Te.Sa. e Sc.Lu. in cui i due fanno riferimento a un debito di un soggetto nei confronti di Sc.Lu. per il rifornimento di un panetto" (pag. 159). I menzionati vizi della motivazione discenderebbero, secondo il ricorrente, dai fatti che: a) lo Sc.Lu. era stato assolto dal reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti; b) "viene valorizzata l'ipotesi di un debito per un panetto, quando al Di.Pi. viene contestato il primo comma dell'art. 73 D.P.R. 309/90, ovvero droga pesante". 7.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza "o comunque genericità" della motivazione relativamente alla mancata della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine alla mancata concessione di dette circostanze attenuanti, le quali, in ragione "della marginalità del ruolo contestato", "della personalità dell'imputato", delle "condizioni di vita familiari e sociali", della "scarsa entità del dolo" e delle "modalità dell'azione", "avrebbero dovuto essere concesse". 7.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 7.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sul tema - i quali, a suo avviso, farebbero emergere l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale -, sull'assunto che "non è possibile caratterizzare ipso iure un'associazione come armata se ciò non sia provato da ingenti quantità di armi di disponibilità comune. Quindi dovrà essere provata l'esistenza della conservazione delle armi unitamente all'esatta individuazione del luogo interessato e si aggiunge anche del reale utilizzo delle armi da parte dell'imputato", lamenta la mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante relativamente alla propria posizione, in quanto la Corte d'appello di Palermo avrebbe, "in maniera palesemente generica, (...) enunciato cosa si intende e quando ricorre tale aggravante senza tuttavia, soffermarsi e fornire, quindi una motivazione riguardo al ricorrente". 7.3.2. Quanto alla seconda delle menzionate circostanze aggravanti, il ricorrente deduce che la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo resa nell'ambito del procedimento penale n. 12644/2016 N.R. cosiddetto "Mare Dolce 1" e la sentenza della Corte d'appello di Palermo resa nell'ambito del procedimento penale n. 2390/2020 cosiddetto "Mare Dolce 2" avrebbero escluso la sussistenza della predetta aggravante, sicché, poiché tali procedimenti sarebbero "strettamente connessi" a quello sub iudice, non si comprenderebbe "la differenza di trattamento motivazionale tra le tre sentenze, pur facendo parte dello stesso troncone di indagine". Dopo avere argomentato che "non è possibile imputare oggettivamente il reinvestimento di somme di denaro ai singoli consociati in mancanza di una verifica circa la disponibilità economica concreta", il ricorrente lamenta poi che "(n)on si ha in atti alcuna motivazione riguardo le doglianze difensive, riguardanti proprio la figura" dello stesso ricorrente. 7.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l'"omessa motivazione in relazione all'art. 378 c.p.". Il Di.Pi. deduce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe "omesso di motivare l'ipotesi delittuosa alternativa prospettata dalla difesa, in punto di diritto, ovvero quella di favoreggiamento che rispecchiava pienamente, l'eventuale condotta illecita posta in essere dal ricorrente in difformità dalla prospettazione accusatoria della di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente espone anzitutto i tratti differenziali tra i reati di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso e di favoreggiamento personale, anche con riferimento all'ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 378 cod. pen., precisando che quest'ultimo reato sarebbe caratterizzato dalla coscienza e volontà di aiutare taluno degli associati ad eludere le investigazioni dell'autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa, senza che l'agente, con il suo comportamento, contribuisca all'esistenza o al rafforzamento dell'associazione criminosa nel suo complesso, di questa non facendo, perciò, patte. Il ricorrente sostiene poi che, "anche a voler seguire l'impostazione accusatoria, alla luce delle risultanze d'indagine, non v'è chi non veda l'assoluta insussistenza dell'aggravante a effetto speciale di cui all'art. 7 L. 203/91" (recte: del d.l. 13 maggio 1991, n. 152), atteso che "gli elementi a carico dell'odierno imputato non costituiscono espressione dell'aiuto arrecato all'organizzazione denominata "Cosa Nostra", bensì ad un singolo soggetto anche se negativamente qualificato"; il che "non può di per sé solo comportare un vantaggio per l'organizzazione e costituire prova della volontà di agire a tale fine". Il Di.Pi. sostiene quindi che sarebbe "di palmare evidenza che l'amicizia, i rapporti, le frequentazioni tra Sc.Lu. e l'odierno ricorrente sono maturati e si sono consolidati fuori da Cosa Nostra, esclusivamente per ragioni di natura familiare" e che a nulla rileverebbero "le eventuali dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, considerato che si tratta o di testimonianza indiretta o comunque, afferisce sempre a fatti singoli non ricollegabili all'associazione mafiosa". 8. Il ricorso di Ur.En., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a due motivi. 8.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 418, secondo comma, cod. pen., e all'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 (ora art. 416-bis 1 cod. pen.), la mancanza o, comunque, la manifesta illogicità della motivazione relativamente alla conferma dell'affermazione della sua responsabilità per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione. Dopo avere rammentato di essere stato assolto dall'imputazione dì usura continuata in concorso di cui al capo 19) dell'imputazione e che, con riferimento al menzionato reato di assistenza agli associati, la Corte d'appello di Palermo aveva ritenuto non contestata l'aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. - il che renderebbe ancor più illogiche le conclusioni della sentenza impugnata di conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato (non aggravato) di assistenza agli associati - il ricorrente, a proposito di tale affermazione di responsabilità, lamenta che la Corte d'appello si sarebbe limitata "a dare per certo e per scontato, in assenza di riscontri probatori certi, che l'Ur.En. fosse consapevole del fatto che la sua condotta potesse agevolare la consorteria mafiosa, non avendo mai (...) preso parte a nessuno di questi incontri" (cioè quelli che si svolgevano presso la sua abitazione di Palermo in via Fratelli Campo, n. 33). Il ricorrente deduce altresì che nella sentenza impugnata non sarebbe emersa "la coincidenza temporale dell'attività di assistenza" da lui prestata "con l'operatività dell'associazione", come richiesto da Sez. 6, n. 17704 del 03/03/2004, Barillà, Rv. 228501-01. 8.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce "(violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all'art. 62-bis c.p.". 8.2.1. Il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare con riguardo alla mancata concessione delle richieste circostanze attenuanti generiche e trascurato di operare "qualsivoglia riferimento al tratteggiato positivo contegno assunto dal ricorrente, al certificato del casellario giudiziale (che ne ha permesso la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena), che certamente avrebbe meritato disamina critica e adeguata valorizzazione". 8.2.2. L'Ur.En., inoltre, "lamenta l'eccessività della pena inflitta, la quale, invero, avrebbe dovuto esser mantenuta entro i minimi edittali e, comunque, contenuta in limiti più ristretti", e rappresenta che "la necessaria circoscrizione degli elementi caratterizzanti la condotta ascritta al ricorrente, il contesto situazionale in cui va inserito l'occorso; i rilievi afferenti la personalità, nonché il di lui il ruolo, e, in ultimo, la scelta di richiedere la definizione del procedimento ex artt. 438 e ss. c.p.p. (...) inducono a ritenere relativamente contenuti i profili di meritevolezza della pena". 9. Il ricorso di Lu.Pi., a firma dell'avv. Vi.Gi., è affidato a tre motivi. 9.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110 e 416-bis 1 cod. pen., all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 e agli artt. 125, 192, 533 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla conferma dell'affermazione della sua responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti in concorso di cui al capo 12) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune pronunce della Corte di cassazione su tale reato, il ricorrente asserisce che la motivazione della sentenza impugnata riguardo alla sua affermazione di responsabilità sarebbe carente, insufficiente, anapodittica, contraddittoria, astratta e generica e farebbe ricorso "a vere e proprie congetture". Il Lu.Pi. lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente considerato il fatto, che era stato evidenziato nel proprio atto di appello, che egli, il 05/10/2017, era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, con la conseguenza che egli "non aveva per questo preso parte né alla compravendita di droga né alla successiva e solo presunta vendita di stupefacente "in data antecedente e prossima all'ottobre 2017"" (tale essendo il tempus commissi delicti indicato nel capo d'imputazione). Ciò posto, il ricorrente deduce che l'affermazione della propria responsabilità, al di là di ogni ragionevole dubbio, non potrebbe essere fondata sulla base "di due sporadici viaggi in Calabria, peraltro in epoca lontana da quella indicata nel capo d'imputazione", e rappresenta specificamente al riguardo: a) quanto agli incontri dei 03/02/2017 e del 05/02/2017, il quale ultimo "secondo la tesi accusatoria era finalizzato per ritirare e trasportare la sostanza stupefacente acquistata", che ciò sarebbe smentito "dal quadro probatorio", segnatamente, dal fatto che la perquisizione personale alla quale egli fu sottoposto, insieme con la sua compagna di viaggio, durante il suo ritorno dalla Calabria, aveva dato esito negativo; b) che non avrebbe valore dirimente il fatto che egli, il 08/02/2017, "si fosse incontrato con i calabresi", "dal momento che dalla piattaforma probatoria non si è appurato alcuno scambio di sostanze di stupefacenti, atteso che non è stato mai identificato il soggetto con cui si presume avesse un appuntamento l'impugnante, ma soprattutto sulla scorta del fatto che il servizio di pedinamento ad un certo punto veniva interrotto dagli agenti di P.G.". La motivazione della Corte d'appello di Palermo sarebbe poi anapodittica e illogica là dove valorizza il contenuto dell'intercettata conversazione del 08/04/2017 tra il Lu.Pi. e Di.Pi., la quale sarebbe stata travisata, atteso che "dal tenore della stessa non si evincono né l'oggetto della compravendita, né l'identità dei venditori e/o acquirenti, ma solo un proposito di carattere generale di cui non si ha alcuna evidenza in ordine alla sua concreta attuazione". Il travisamento della prova da parte della Corte d'appello di Palermo si evincerebbe dalla successiva captata conversazione del 30/11/2017 tra il Mi.Al. e Di.Pi., "in cui quest'ultimo riferiva al suo interlocutore di non essere a conoscenza di precedenti accordi tra tali Ba. e altri soggetti" (così il ricorso) e dalla quale sarebbe stato agevole ricavare che era proprio il coimputato (Di.Pi.) ad affermare che sia lui sia il Lu.Pi. non avevano partecipato ad alcun traffico di sostanze stupefacenti e che il Lu.Pi. "fosse estraneo atteso il suo stato detentivo". Dopo avere rammentato alcuni principi, affermati dalla Corte di cassazione, in tema di cosiddetta "droga parlata" e di valutazione della prova indiziaria, il ricorrente riassume le proprie doglianze lamentando che la Corte d'appello di Palermo avrebbe respinto le deduzioni difensive che evidenziavano la mancanza di ogni concreta possibilità di ritenere la conclusione di un accordo tra palermitani e calabresi sulla base di argomentazioni anapodittiche, senza attribuire valore al fatto che egli era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, fondando la propria decisione su "lacunose" intercettazioni, di un periodo (febbraio e aprile del 2017) non prossimo all'ottobre 2017, e trascurando il contenuto della menzionata intercettata conversazione tra il Di.Pi. e il Mi.Al. nella quale il primo disconosceva la conclusione di precedenti accordi con i Ba. Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe correttamente valutato le emergenze processuali secondo i canoni previsti dagli artt. 192, 546, comma 1, lett. e), e 533 cod. proc. pen., incorrendo, così, in un'erronea applicazione dell'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, in quanto, nell'accertare i fatti, avrebbe operato una valutazione frammentaria e parcellizzata dei dati che erano emersi dalle indagini preliminari anziché compiere un esame unitario e globale degli stessi, i quali sarebbero stati insufficienti a consentire di affermare la responsabilità dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. 9.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis 1 cod. pen., con riguardo alla conferma della sussistenza, nel reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, della circostanza aggravante di cui al suddetto art. 416-bis 1 cod. pen. Nel richiamare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema delle aggravanti del metodo mafioso e dell'agevolazione mafiosa, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo - omettendo di confrontarsi con la doglianza, avanzata nel proprio atto di appello, secondo cui sarebbe emerso che egli e i suoi complici avevano agito esclusivamente per il proprio interesse economico e che i loro interlocutori calabresi, per riscuotere le somme a essi dovute, non si erano mai rivolti ad altri soggetti afferenti a "Cosa nostra" - avrebbe reso una motivazione apparente e anapodittica, non avendo individuato un "quid pluris" che consentisse di ritenere che la propria condotta fosse diretta, oggettivamente e soggettivamente, ad agevolare il sodalizio mafioso e non a perseguire l'interesse dei singoli coimputati. Il Lu.Pi. sostiene che non sarebbe "dirimente", in senso contrario, l'intercettata conversazione del 15/11/2017 tra Te.Sa. e Sc.Lu. in quanto, contrariamente a quanto avrebbe ritenuto la Corte d'appello di Palermo, da detta conversazione "non si evince nessun tipo di connessione con il delitto imputato all'impugnante e, conseguentemente, il presunto interesse per il traffico di sostanze stupefacenti non era finalizzato ad agevolare l'associazione mafiosa, né imporlo con il c.d. metodo mafioso". Inoltre, l'asserito pregresso semplice rapporto di conoscenza tra il Ba. e Di.Pi., "pur se negativamente qualificati, non può in alcun modo comportare la prova che l'impugnante abbia posto in essere la condotta incriminata di per sé per agevolare la consorteria mafiosa e in alcun modo può costituire prova della volontà di agire a tal scopo". 9.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost., in ordine alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e della pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo. 9.3.1. Quanto alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare su tale punto, che era stato oggetto di censura nel proprio atto di appello, trascurando così di valutare gli elementi - che emergevano dal compendio probatorio e che avrebbero deposto nel senso della concessione del beneficio - dell'"età", delle "condizioni socio economiche", del "contesto ambientale in cui viveva l'impugnante (il quartiere è uno dei più degradati in cui mancano i servizi essenziali)", della "situazione familiare", della "scarsa pericolosità del soggetto agente" e del "percorso rieducativo intrapreso dal Sig. Lu.Pi. nell'espiazione della pena". 9.3.2. Quanto alla conferma della pena irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo, il ricorrente deduce che la determinazione della misura di essa sarebbe "sfornita di qualsiasi motivazione che dia contezza del percorso logico-giuridico seguito dal Giudice ex art. 133 c.p., con la conseguenza che lo stesso si è sottratto del tutto all'obbligo di motivare", e che la stessa pena sarebbe "inadeguata e sproporzionata rispetto alla gravita dei fatti" e inidonea ad assicurare la rieducazione e il reinserimento sociale del reo, "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato" e della "peculiarità dei fatti", elementi che avrebbero dovuto indurre a irrogare una pena "in misura notevolmente ridotta". 10. Il ricorso di Mi.Al., a firma dell'Avv. DE.SP., è affidato a tre motivi. 10.1 Con il primo motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art.606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 512-bis cod. pen., l'affermazione della sua responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui, a capo 2) dell'imputazione e per il reato di trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) di cui al capo 15) dell'imputazione. 10.1.1 Quanto all'affermazione di responsabilità per il primo di tali reati, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamene motivato in ordine al suo inserimento nel sodalizio e al contributo casuale che egli avrebbe dato allo stesso. Il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione da parte della corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni dei collaboratoti di giustizia "nel Va.Pa., Bi.Fi. e Ga.Vi., e deduce che nessuno di tali collaboratori lo avrebbe "additato (...) quale uomo d'onore" e, ,n particolare , quanto a„e dichiarazioni rese da Va.Pa. nell'interrogatorio del 21/04/2015, che questi affermò soltanto che il Mi.Al. "si occupava di aggiustare le macchinette" (cioè le slot machines) e che "non era a conoscenza che e stesse venissero imposte a, vari esercenti" (così il ricorso), sicché dalle stesse dichiarazioni sarebbe risultata soltanto la "competenza tecnica dell'imputato", che nulla ha a che fare con l'essere associato mafioso"; b) quanto alle dichiarazioni rese da Bi.Fi. - Il quale aveva riferito notizie che aveva appreso da Te.Sa. - che il collaboratore non lo aveva neppure riconosciuto in fotografia, che sarebbe "anomalo che il Te.Sa. abbia parlato del Mi.Al., indicandolo, addirittura, con nome e cognome, senza, tuttavia farglielo conoscere", che il Bi.Fi., "non indica in che contesto è emerso tale nome" del Mi.Al., che lo stesso collaboratore non sarebbe "neppure sicuro" avendo dichiarato "credo sia la persona incaricata per conto di Cosa Nostra di Corso dai Mille nell'ambito del gioco"; c) quanto alle dichiarazioni rese da Ga.Vi., che questi, nell'interrogatorio del 29/03/2018, dichiarò di avere conosciuto l'imputato nel 2001-2002 "in una mangiata" e che, ai tempi, lo stesso era "vicino", in particolare, a Sc.Fa., senza tuttavia specificare che cosa intendesse per vicinanza, e che la Corte d'appello dl Palermo non avrebbe considerato che 2001 sino alla data dell'arresto vi sono state varie operazioni di P.G., anche lo stesso 1Te.Sa. e Sc.Lu. sono stati arrestati negli anni indicati per reati di criminalità organizzata, senza che la figura del Mi.Al. sia mai emersa". Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, della partecipazione ad alcuni incontri con sodali (in particolare, con Te.Sa. e con Sc.Lu.), e deduce che, in nessuna delle intercettate conversazioni alle quali aveva partecipato, "si ha un abbassamento di voce, o mezze parole", e che dalle stesse conversazioni sarebbero emerse delle "mere consulenze tecniche dettate dalla conoscenze (...) nel settore" delle slot machines. Il Mi.Al. lamenta poi che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che egli era un dipendente dell'impresa "Ca.Ro." e, prima, dell'impresa "Stellar Games" di Lo.Ro., come era stato documentato dalla propria difesa, anche mediante la produzione di buste paga. Il Mi.Al. contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo abbia tratto conferma della sua appartenenza al sodalizio criminoso "dalla contestazione dei reati fine che esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". 10.1.2. Quanto all'affermazione di responsabilità per il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, nel ritenere che Ca.Ro. sarebbe stato "un prestanome per conto del ricorrente" (così il ricorso), di Te.Sa. e di Sc.Lu., non avrebbe considerato che Ca.Ro. "non era mai stato sentito a Sit, né alcun procedimento era stato aperto nei suoi confronti". Il ricorrente deduce che Ca.Ro. "era il reale intestatario della ditta" e che, ancorché il mi.Al. avesse "trattato la locazione di un immobile" destinato a sede della società intestata al Ca.Ro., tuttavia lo stesso imputato aveva "sempre operato per costui e mai in proprio", come si ricaverebbe dal contenuto delle intercettate conversazioni del 06/06/2016 tra il Mi.Al. e il De.Gi., in cui il primo comunicava al secondo che doveva informare il proprio titolare o che il Ca.Ro. si sarebbe incontrato di persona con il De.Gi., e del 31/01/2017, in cui "sarà il di lui datore di lavoro (cioè il Ca.Ro.) che incaricherà direttamente il Mi.Al. per capire cosa era successo e non diversamente". Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo, da un lato, lo ha condannato per il reato di trasferimento fraudolento di valori, dall'altro lato, avrebbe contraddittoriamente assolto "coloro che (...) aveva ritenuto essere intestatari fittizi per l'odierno appellante". 10.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 62-bis cod. pen., la mancanza della motivazione "o comunque la genericità della stessa" con riguardo alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che, a tale riguardo, la Corte d'appello di Palermo si sarebbe "limitata ad un implicito giudizio di gravità del fatto reato ascritto", senza fare comprendere le ragioni della propria decisione, la quale non avrebbe tenuto adeguatamente conto dei parametri indicati nell'art. 133 cod. pen. e, in concreto, del fatto che "le condizioni di vita familiari e sociali, la scarsa entità di dolo, le modalità dell'azione", "la marginalità del ruolo contestato" e la "personalità dell'imputato" avrebbero dovuto indurre a concedere il beneficio richiesto. 10.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 10.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.1. 10.3.2. Quanto alla seconda di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.2. 11. Il ricorso di Mi.Pa., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a tre motivi. 11.1. Con il primo motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 629 cod. pen., l'affermazione della sua responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione e di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. 11.1.1. Con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe limitata a un'opera di copia-incolla della sentenza di primo grado, senza motivare "sulle doglianze difensive" e senza, comunque, riuscire a evidenziare elementi tali da giustificare l'affermazione di responsabilità. Dopo avere rappresentato che nessuno dei collaboratori di giustizia avrebbe dichiarato di conoscerlo, salvo il solo Bi.Fi., il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni di tale collaboratore di giustizia, atteso che questi, in sede di riconoscimento fotografico, lo avrebbe scambiato "per il genero di Sc.Lu." e, comunque, non avrebbe "parlato di intraneità, ma di contiguità dello stesso, non a Cosa Nostra, ma a Sc.Lu., indicandolo come suo dipendente presso le onoranze funebri", e non avrebbe mai raccontato l'episodio del "bigliettino che il Mi.Pa. avrebbe destinato proprio al collaboratore di giustizia Bi.Fi.". Il ricorrente sostiene che, se fosse stato "analizzato dettagliatamente tale dato", la Corte d'appello di Palermo non avrebbe potuto avvalorare la tesi accusatoria del ruolo di intermediario che egli avrebbe svolto, atteso che tale presunto ruolo sarebbe desumibile solo dai video-filmati, "senza che vi sia stato alcun riscontro effettivo". Il ricorrente rappresenta altresì che, dalle dichiarazioni del Bi.Fi., sarebbe emerso che "Di.Pi. (sic), quando lo Sc.Lu. parlava con determinati soggetti o in di lui presenza, si allontanava, né emerge dal contenuto delle intercettazioni ambientali, anche successivi agli accompagnamenti monitorati, riscontrare l'ipotesi investigativa, ovvero che il Di.Pi. (sic) era conoscitore del contenuto di tali dialoghi per racconto, anche de relato da parte dei di lui suocero o da chissà chi". Quanto alla valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, degli "accompagnamenti del suocero (sic) nei luoghi di presunti incontri", il ricorrente deduce che "il Tribunale ha riprodotto tutti i fotofilmati in cui il Mi.Pa. accompagnava, Sc.Lu. in diversi luoghi, senza, tuttavia, mai soffermarsi o allontanarsi di poco, per mantenersi nei paraggi", che, in quasi tre anni di attività di indagine, "gli accompagnamenti monitorati sono pochissimi, senza che si rilevi un'attiva partecipazione (dell'imputato) in Cosa Nostra" e che lo stesso imputato "non era l'unico soggetto ad accompagnare Sc.Lu. in diversi luoghi, tutti monitorabili". Secondo il ricorrente, quest'ultimo dato avrebbe dovuto essere valorizzato dalla Corte d'appello di Palermo, al fine di stabilire "se il contributo apportato dal Mi.Pa., con la sua condotta, all'organizzazione mafiosa, era di tale indispensabilità tale per cui senza il di lui supporto non era possibile raggiungere gli scopi della stessa". Il ricorrente afferma quindi che la sentenza impugnata sarebbe affetta da "un enorme vuoto motivazionale" in ordine all'analisi del proprio ruolo e del proprio contributo all'associazione criminosa tali da potere ritenere l'intraneità alla stessa associazione. Nella parte finale dell'esposizione del motivo, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sugli elementi necessari per potere ritenere la sussistenza del reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, deduce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato con riguardo agli stessi e, segnatamente, al suo inserimento organico nel sodalizio, suggellato dalla volontà di inclusione da parte di esso, e al contributo causale da lui prestato all'esistenza dell'associazione, rappresentando, altresì, che l'attribuzione dei reati-fine "esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente rappresenta ancora che, quando le intercettazioni risultano parzialmente incomprensibili o, comunque, poco chiare, il giudice che le ponga a fondamento della propria decisione dovrebbe spiegare "le ragioni che lo inducono a giungere a determinate conclusioni". 11.1.2. Con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare, come sarebbe stato necessario fare, le dichiarazioni che erano state rese dalla persona offesa dal reato An.Ni., "il quale in maniera cristallina ha dichiarato che è stata una sua iniziativa rintracciare il proprietario del motore sottratto dal figlio". Il ricorrente deduce altresì che, nel caso di specie, difetterebbero "i profili oggettivi del reato" e che sarebbe illogica la valorizzazione, che sarebbe stata operata dalla Corte d'appello di Palermo a pag. 181 della sentenza impugnata, del "coinvolgimento del ricorrente nell'acquisto di stupefacente presso una famiglia calabrese che non ha mai costituito oggetto di contestazione". 11.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza "o comunque genericità" della motivazione relativamente alla mancata della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine alla mancata concessione di dette circostanze attenuanti, le quali, in ragione "della marginalità del ruolo contestato", "della personalità dell'imputato", delle "condizioni di vita familiari e sociali", della "scarsa entità del dolo" e delle "modalità dell'azione", "avrebbero dovuto essere concesse". 11.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 11.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.1. 11.3.2. Quanto alla seconda di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (sempre il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.2. 12. Il ricorso di Mi.Lo., a firma dell'avv. EL.GA., è affidato a cinque motivi. 12.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 110 e 416-bis cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la manifesta contraddittorietà della motivazione con riguardo all'affermazione della sua responsabilità per il reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione. Il ricorrente asserisce che la motivazione di tale affermazione di responsabilità sarebbe illogica, lacunosa, apparente e basata su mere supposizioni. Il Mi.Lo. lamenta anzitutto che la Cotte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che egli era il portiere dello stabile di via (omissis) n. (omissis), in P, sicché "la sua presenza non era dovuta ad organizzare incontri ma a svolgere il lavoro di portiere" sicché il fatto che, dai filmati delle telecamere di videosorveglianza, si vedesse che alcuni soggetti, entrando nel condominio, gli si avvicinavano, "era assolutamente normale". Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'elemento del "recapito del "pizzino" del Bi.Fi. in data 17.2.2016" (pag. 197 della sentenza impugnata). Il Mi.Lo. contesta in particolare le argomentazioni della Corte d'appello di Palermo secondo cui l'affermazione del Bi.Fi. di non conoscerlo si spiegherebbe con i fatti che tale collaboratore di giustizia "lo ha incontrato fugacemente solo una volta e non emerge che dovesse essere a conoscenza del nome dell'imputato" (pag. 198 della sentenza impugnata) e che "il Mi.Lo. non è un partecipe al sodalizio" (pag. 199 della sentenza impugnata), atteso che tali argomentazioni costituirebbero delle mere supposizioni. Inoltre, la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare che al Bi.Fi., nel corso del suo interrogatorio del 28/03/2019, non solo fu indicato il nome del Mi.Lo., che il collaboratore di giustizia affermò di non conoscere ("neanche il nome mi dice niente"), ma fu anche sottoposta la fotografia dello stesso Mi.Lo., che il Bi. non riconobbe. Tali affermazioni del Bi.Fi. "escluderebbero con assoluta certezza la responsabilità del Mi.Lo.". Sempre a proposito del menzionato "pizzino", il ricorrente chiede, retoricamente: "se il Mi.Lo. fosse stato consapevole di qualsiasi cosa perché il Bi.Fi. avrebbe dovuto consegnare un ipotetico biglietto al Mi.Lo. e non riferirgli a voce quanto ipoteticamente vi sarebbe stato scritto? Se fosse stato il Mi.Lo. un soggetto consapevole perché il Bi.Fi. non gli comunicava oralmente ciò che voleva riferire?". Sue ""frequentazioni" o "relazioni qualificate"" con esponenti dell'ipotizzata organizzazione criminale si sarebbero dovute escludere tenuto conto, oltre che delle ricordate dichiarazioni del Bi.Fi., del fatto che dal compendio probatorio esse non erano in alcun modo emerse. Secondo il ricorrente, l'esclusione dell'elemento soggettivo del reato a lui attribuito si ricaverebbe poi dal proprio interrogatorio, in cui egli aveva chiarito il tipo e le ragioni dei rapporti di conoscenza con Sc.Lu. (perché era il titolare dell'agenzia di pompe funebri che si trovava vicino al condominio dove il Mi.Lo. lavorava), con Pi.Fi. (in quanto era il proprietario dell'appartamento al sesto piano dello stesso condominio) e con Gi.An. ("è venuto qualche volta fuori in portineria... siccome io gli ho detto perché non mi dai il nome e cognome che io lo chiamo?"). Ancora, non vi sarebbe "alcuna prova" "in ordine all'effettivo svolgimento di incontri connotati da tematiche inerenti ad interessi mafiosi", come risulterebbe anche dall'interrogatorio di Pi.Fi. del 10/07/2019, atteso che le riunioni che avevano luogo nell'appartamento del sesto piano di via (omissis), nella disponibilità del Pi.Fi., "avevano ad oggetto la divisione della proprietà dei fratelli Cl." e il Bi.Fi. e il Pi.Fi. vi intervenivano "in qualità di tecnico". Inoltre, in mancanza di intercettazioni delle conversazioni, "non può non credersi a quanto affermato dall'imputato". Non sarebbe poi "basato su prove certe" quanto sarebbe stato affermato dalla Corte d'appello di Palermo - in contrasto con quanto ritenuto dal G.i.p. del Tribunale di Palermo nell'ordinanza di applicazione, nei confronti del Mi.Lo., della misura degli arresti domiciliari - in ordine al fatto che l'imputato "avrebbe effettuato un incontro anche in data 4/5/2018 nei pressi del Condominio", con, poi, una conversazione telefonica, alle ore 17:18, tra il Mi.Lo. e Sc.Lu. dalla quale, secondo la Corte d'appello, si ricaverebbe che lo Sc.Lu. sarebbe stato "consapevole del motivo della chiamata, senza nemmeno far parlare il suo interlocutore, riferisce di stare arrivando". Secondo il ricorrente, "tutto questo si basa su presunzioni ma non vi sono prove certe che poi lo stesso fosse arrivato o quanto altro". Pertanto, "nel Mi.Lo. non risulta provata alcuna consapevolezza della previsione incriminatrice, né alcun contributo causale che la condotta possa portare alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione". 12.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 418 cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la manifesta contraddittorietà della motivazione con riguardo al mancato riconoscimento della sussistenza, nella specie, non del reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, ma del reato di assistenza agli associati di cui al suddetto art. 418 cod. pen. Il ricorrente asserisce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe escluso la sussistenza di quest'ultimo reato sulla base di "un ragionamento altamente contraddittorio" e "basandosi solo su supposizioni non corroborate da prove certe" e rappresenta, in proposito, che "non solo non vi è prova che il Mi.Lo. facesse parte di una famiglia mafiosa, tanto che il collaboratore di giustizia Bi.Fi. dichiara di non conoscerlo", ma che le "sporadiche conversazioni intercettate (...) al massimo integrano aiuto episodico ad un associato da parte di un soggetto esterno all'associazione". 12.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 62-bis e 69 cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la "manifesta illegittimità della motivazione" con riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe dato risposta al relativo motivo del proprio atto di appello e avrebbe negato la concessione del suddetto beneficio senza considerare gli elementi - che, invece, avrebbero dovuto essere positivamente valutati - costituiti dal suo essere incensurato e privo di carichi pendenti, dalla "dinamica dei fatti" e dalla "concretezza della vicenda" e dal suo corretto comportamento processuale, avendo egli "spiegato, sin da subito, durante interrogatorio di garanzia, la propria condotta con dichiarazioni genuine e veritiere", e tenuto anche conto che la mancanza di resipiscenza non potrebbe costituire motivo di diniego del beneficio. 12.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 132 e 133 cod. pen. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., l'inosservanza "di norme giuridiche" e la mancanza della motivazione con riguardo alla determinazione della misura della pena. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, limitandosi ad affermare che "la pena nei confronti del Mi.Lo. va ridotta, tendo conto dell'intervenuta riqualificazione della condotta allo stesso ascritta ai sensi degli artt. 110 e 416-bis c.p., nella misura finale di anni otto di reclusione, così determinata: pena base anni dodici di reclusone, ridotta per il rito": a) da un lato, avrebbe del tutto omesso di motivare, con riferimento ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., in ordine alle ragioni che l'hanno indotta alla determinazione dell'indicata misura della pena; b) dall'altro lato, pur avendo riqualificato la condotta come concorso esterno e pur avendo escluso la sussistenza delle circostanze aggravanti di cui al quarto comma e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., avrebbe illegittimamente irrogato una pena base di 12 anni di reclusione, cioè - appunto, illegittimamente - la stessa pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per il reato aggravato dalla circostanza, ormai esclusa dalla Corte d'appello di Palermo, di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. 12.5. Con il quinto motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la statuizione di condanna, nei propri confronti, "al risarcimento del danno" (recte: delle spese processuali; si veda la pag. 478 della sentenza impugnata) sostenute dalle parti civili "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Federazione Provinciale del Commercio, del Turismo, dei Servizi, della Professioni e delle Piccole e Medie Imprese di Palermo-Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria-organizzazione territoriale del sistema Confindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS", "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", atteso che, come risulterebbe dai relativi atti di costituzione di parte civile, tali enti non si erano costituti parte civile nei suoi confronti. 13. Il ricorso di Te.Ca., a firma dell'avv. Vi.Gi., è affidato a quattro motivi. 13.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 629 e 416-bis 1 cod. pen. e agli artt. 125, 192, 533 e 546 cod. proc. pen., con riguardo all'affermazione della propria responsabilità per il reato di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. Il ricorrente sostiene che tale affermazione di responsabilità sarebbe sorretta da una motivazione carente, contraddittoria, astratta, generica e anapodittica con riguardo sia all'elemento oggettivo sia all'elemento soggettivo del reato di estorsione. Il Te.Ca. lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo, omettendo di confrontarsi con la relativa doglianza che era stata avanzata nel proprio atto di appello, non avrebbe considerato come, dall'intercettata conversazione del 26/05/2017 (alle ore 15:59) - nell'ambito della quale sarebbe particolarmente significativa la frase, pronunciata dall'imputato: "alla fine chi minchia se l'è portato questo motore?"" - sarebbe risultato che "l'imputato non sapeva chi avesse rubato il ciclomotore del Sig. @Sc.Fa., né inizialmente che fosse quest'ultimo la vittima del furto, con ciò emergendo dalla piattaforma probatoria che lo stesso pomeriggio del 26 maggio 2017 si trovava con il coimputato, Sig. Di.Pi., suo datore di lavoro presso l'agenzia di onoranze funebri, presso l'agenzia disbrigo pratiche per formalizzare il passaggio di proprietà del nuovo motoveicolo". Secondo il ricorrente, dal quadro probatorio, e proprio dal percorso logico-giuridico seguito dalia Corte d'appello di Palermo, emergerebbe che egli era stato soltanto presente, per avere accompagnato il suo datore di lavoro, nel momento in cui veniva formalizzato il passaggio di proprietà del ciclomotore presso l'agenzia di pratiche auto, con la conseguenza che egli non avrebbe posto in essere alcun contributo concorsuale, giuridicamente rilevante ex art. 110 cod. pen., alla presunta attività estorsiva. Il Te.Ca. rappresenta in proposito che detta sua presenza: a) da un lato, non aveva fornito all'autore del fatto né stimolo all'azione né un maggior senso di sicurezza; b) dall'altro lato, si era manifestata quando tutti gli attori della vicenda si trovavano all'interno dell'agenzia di pratiche auto nell'atto di formalizzare il passaggio di proprietà del ciclomotore, "sicché già in quel momento la presunta condotta estorsiva era stata probabilmente posta in essere nei confronti della persona offesa, la cui volontà era già stata coartata". Il ricorrente rappresenta che, dalle risultanze processuali, emergerebbe che egli, al di là della menzionata mera presenza nel momento del passaggio di proprietà del ciclomotore, era stato del tutto estraneo a quanto era accaduto nei giorni antecedenti a quello del suddetto passaggio di proprietà. Neppure sarebbe "dirimente", sempre ad avviso del ricorrente, che egli abbia condotto il ciclomotore presso l'agenzia di onoranze funebri dello Sc.Lu., dal momento che egli "era impiegato in detta attività commerciale, atteso che in quel momento la presunta condotta criminosa si era già esaurita". Il ricorrente evidenzia poi il rilievo del fatto che, sempre nell'intercettata conversazione del 26/05/2017, egli aveva utilizzato il condizionale ("E se mi intromettevo io per il motore"). Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe correttamente valutato le emergenze processuali secondo i canoni previsti dagli artt. 192, 546, comma 1, lett. e), e 533 cod. proc. pen., incorrendo, così, in un'erronea applicazione degli artt. 110 e 629 cod. pen., in quanto, nell'accertare i fatti, avrebbe operato una valutazione frammentaria e parcellizzata dei dati che erano emersi dalle indagini preliminari anziché compiere un esame unitario e globale degli stessi, i quali sarebbero stati insufficienti a consentire di affermare la responsabilità dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. 13.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 629 e 416-bis 1 cod. pen. e agli artt. 110 e 393 cod. pen., con riguardo alla mancata riqualificazione del fatto di cui al capo 11) dell'imputazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 cod. pen.). Nell'esporre gli elementi differenziali tra il reato di estorsione e il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e le condizioni per la configurabilità del concorso del terzo in quest'ultimo reato, richiamando anche la giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione al riguardo (Sez. U., n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-02 e Rv. 280023-03), il ricorrente deduce che, dall'acquisito materiale probatorio, sarebbe emerso che egli: a) si era limitato ad accompagnare, il 26/05/2017, il Di.Pi., suo datore di lavoro, all'agenzia di pratiche auto, dove il Di.Pi. concludeva con la persona offesa il passaggio di proprietà del ciclomotore, "senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità indebita"; b) con riguardo all'elemento soggettivo, aveva "concorso tutt'al più con coscienza nell'arbitrario esercizio del diritto del Sig. Di.Pi. di recuperare, sebbene in forma per equivalente, il ciclomotore che gli era stato indebitamente sottratto, da cui non emergono ulteriori finalità". Ad avviso del ricorrente, inoltre, non sarebbe condivisibile la tesi della Corte d'appello di Palermo secondo cui la presenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa comporterebbe sempre la sussumibilità della fattispecie concreta nella sfera di tipicità dell'art. 629 cod. pen., in quanto "il Giudice deve sempre accertare in concreto se la finalizzazione della condotta sia preordinata alla soddisfazione di un interesse ulteriore rispetto a quello di mera soddisfazione del diritto arbitrariamente fatto valere". Il ricorrente evidenzia poi che, con riguardo al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, l'azione penale non doveva essere iniziata o, quantomeno, non deve essere proseguita, difettando la condizione di procedibilità della querela. 13.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis 1 cod. pen., in ordine alla conferma della sussistenza, in relazione al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, delle circostanze aggravanti previste dal suddetto art. 416-bis 1 cod. pen. Nell'esporre gli elementi necessari per ritenere la sussistenza delle aggravanti del metodo mafioso e dell'agevolazione mafiosa, il ricorrente afferma che: a) dal compendio probatorio non risulterebbero elementi idonei a dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che egli avesse agito al fine di agevolare l'associazione mafiosa "Cosa Nostra" né che avesse assunto "un atteggiamento tale da incutere timore e imporre la coartazione del soggetto passivo tipico del c.d. metodo mafioso"; b) "dal tenore della conversazione captata de qua non si evince nessun tipo di connessione con il delitto addebitato all'impugnante e, conseguentemente, il presunto interesse al recupero del ciclomotore rubato e, nello specifico, la semplice presenza del Sig. Te.Ca. all'atto del passaggio di proprietà presso l'agenzia di disbrigo pratiche non erano finalizzati ad agevolare l'associazione mafiosa, né ad imporlo con il c.d. metodo mafioso"; c) il rapporto di lavoro con il Di.Pi. e lo Sc.Lu. non potrebbero in alcun modo comprovare che egli avesse realizzato la condotta incriminata per agevolare la consorteria mafiosa e con le modalità tipiche della sopraffazione mafiosa; d) la propria mera isolata presenza presso l'agenzia di pratiche auto non potrebbe assumere i caratteri dell'intimidazione mafiosa "in primo luogo per la ragione che lo stesso presunto minacciato non aveva avuto a sua volta alcun contatto prima di quel momento con il ricorrente, né in quell'occasione i due avevano avuto modo di interloquire o scambiarsi qualche semplice battuta sul punto, così da derivare la sudditanza della presunta vittima nei confronti dell'odierno impugnante". 13.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 123 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost., in ordine al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla conferma della pena irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo. 13.4.1. Quanto al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare su tale punto, che era stato oggetto di censura nel proprio atto di appello, trascurando così di valutare gli elementi - che emergevano dal compendio probatorio e che avrebbero deposto nel senso della concessione del beneficio - dell'"età", delle "condizioni socio economiche", del "contesto ambientale in cui viveva l'impugnante (il quartiere è uno dei più degradati in cui mancano i servizi essenziali)", della "situazione familiare", dello stato di incensuratezza, del "contegno processuale", della "scarsa pericolosità del soggetto agente" e del "percorso rieducativo intrapreso dal Sig. Te.Ca. nell'espiazione della pena". 13.4.2. Quanto alla determinazione della misura della pena, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non l'avrebbe adeguatamente motivata, tenendo conto dei parametri di cui all'art. 133 cod. pen., pervenendo a irrogare, per il reato a lui attribuito, una pena eccessiva e sproporzionata all'effettiva gravità dei fatti e, comunque, "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato". CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi di Te.Sa. (a firma dell'avv. Vi.Gi. e dell'avv. An.Ba.). 1.1. Il primo e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. non sono consentiti. 1.1.1. Anzitutto, quanto alla contestazione relativa all'esistenza stessa dell'associazione di tipo mafioso (punto 4.1.1.1. della parte in fatto), la censura risulta generica e aspecifica. Il ricorrente, infatti, in primo luogo ha omesso di confrontarsi adeguatamente con il contenuto del punto 1.4 della sentenza impugnata (pagg. 38-39), nel quale la Corte d'appello di Palermo ha argomentato in ordine all'esistenza e alle attività criminose della famiglia mafiosa di Co., facente parte del mandamento di Br., della quale il Te.Sa. era accusato di avere assunto la "reggenza" dopo l'arresto, nel settembre del 2015 (il 29/09/2015), di Ta.Pi., già capo del suddetto mandamento di Br. In secondo luogo, lo stesso ricorrente ha omesso di confrontarsi adeguatamente anche con la motivazione che è stata resa dalla Corte d'appello di Palermo nel replicare alla corrispondente censura difensiva che era stata avanzata dal Te.Sa. in sede di appello, là dove, in particolare, la Corte d'appello ha evidenziato come l'avvalimento della forza di intimidazione del vincolo associativo, connotazione dell'associazione di tipo mafioso, fosse emblematicamente comprovata dagli elementi, che erano emersi dalle risultanze investigative: dell'attività di imposizione del "pizzo", documentata dal contenuto delle conversazioni intercettate; del controllo capillare delle attività illecite che venivano svolte nel territorio, come comprovato dal caso della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"; della gestione di altre attività illecite, come l'acquisto di sostanze stupefacenti e il commercio di tabacchi lavorati esteri (pagg. 87-88 della sentenza impugnata). Si tratta di indici che, sulla base della consolidata giurisprudenza di legittimità, sono senz'altro sintomatici dell'operatività di una cosca di tipo mafioso, senza che, a fronte di essi, il ricorrente si possa ritenere avere spiegato per quale ragione si dovrebbe ritenere contraddittoria o illogica la conclusione, che dagli stessi indici è stata tratta dalla Corte d'appello di Palermo, dell'esistenza di una siffatta cosca. 1.1.2. In secondo luogo, quanto alle contestazioni relative all'affermazione di responsabilità per il reato di direzione e organizzazione dell'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co. (punti 4.1.1.2 e 4.1.2 della parte in fatto), si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento del ritenuto ruolo apicale del Te.Sa., a partire dalla fine dell'anno 2015, nella suddetta famiglia mafiosa di Co.. Dopo avere premesso che l'imputato era già stato condannato per la partecipazione al sodalizio criminoso, la Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata la continuità della stessa partecipazione e, di più, l'ascesa del Te.Sa. a rivestire un ruolo direttivo e organizzativo, sulla scorta, anzitutto, delle due autonome dichiarazioni de relato dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se., i quali avevano affermato di avere saputo: il primo, da Sa.Ni., come il Te.Sa. fosse un "uomo d'onore" e persona di fiducia di Ta.Pi. ("lui con Ta.Pi. erano fratelli"); il secondo, da Di.Gi. e da La.To., come il Te.Ca. fosse un influente "uomo d'onore" della famiglia di Br. (indicazione, quest'ultima, che non illogicamente veniva ritenuta dalla Corte d'appello non inficiare l'attendibilità della chiamata per la ragione che la famiglia di Co. faceva parte del mandamento di Br.). Tali due autonome (e riscontrantesi) chiamate in correità avevano trovato riscontro anche nell'accettata (mediante servizi di osservazione a opera della polizia giudiziaria) frequentazione - in incontri sempre caratterizzati da modalità di svolgimento riservate - con diversi altri sodali (pagine da 90 a 94 della sentenza impugnata). La Corte d'appello di Palermo ha poi valorizzato il contenuto di numerose conversazioni intercettate, il quale appare avere lo spessore non del mero riscontro alle ricordate chiamate in correità ma della prova "autosufficiente" del ruolo di effettiva direzione e organizzazione che era stato assunto dal Te.Sa. nell'ambito della famiglia mafiosa di Co. e del riconoscimento di tale ruolo da parte degli altri sodali, oltre che di soggetti estranei all'organizzazione criminosa. Da tali conversazioni era infatti emerso: a) il ruolo di direzione e organizzazione che veniva svolto dal Te.Sa. nell'attività di imposizione del "pizzo" (tra le altre: conversazione del 11/12/2015 tra il Te.Sa., Di.Gi. e Gi.Sa., nel corso della quale il Gi.Sa. consegnava al Te.Sa. il denaro provento dell'attività estorsiva, mentre il Di.Gi. chiedeva al Te.Sa. di contarlo rivolgendoglisi dandogli del "lei"; conversazione del 12/12/2015 tra il @Te.Sa. e Gi.Sa., nel corso della quale l'imputato chiedeva al Gi.Sa. il rendiconto del denaro raccolto dai vari commercianti, facendo anche riferimento alla "raccolta" di denaro per i detenuti; conversazione del 21/12/2015 tra il Te.Sa. e Gi.Sa., nel corso della quale venivano elencate tutte le richieste estorsive ai danni dei commercianti della zona e in cui il Te.Sa., tramite il Gi.Sa., ordinava a un altro sodale di recarsi presso un altro esercizio commerciale per richiedere del denaro); b) il ruolo di direzione che veniva svolto dal Te.Sa. rispetto all'attività di commercio dei tabacchi lavorati esteri, il quale era attestato dalla risoluzione, da patte dello stesso @Te.Sa., di un contrasto che era insorto in ordine a tale commercio tra un certo Ca. e Mi.St. e Mi.Gi., bloccando anche Sc.Lu. che aveva proposto una ritorsione nei confronti dei suddetti Mi. e stabilendo di riservare a ciascuno una fetta del relativo mercato (conversazione del 11/11/2017 tra il Te.Sa., lo Sc.Lu. e Ca.); c) il ruolo di direzione che veniva svolto dal Te.Sa.con riguardo al noleggio di slot machines e agli esercizi commerciali ai quali imporre la collocazione delle stesse "macchinette" (conversazioni del 08/11/2017 tra il Te.Sa.e lo Sc.Lu.), comprovato anche dalle contestazioni mosse al gestore di un'impresa del settore (De.Gi.), dall'esautoramento dello stesso da tale gestione e dall'affidamento di essa a Mi.Ga.; d) l'intervento del Te.Sa. a seguito della rapina che era stata commessa ai danni della sala bingo "Taj Mahal" di via (omissis), con la convocazione del rapinatore - alla presenza anche di Sc.Lu., Di.Gi. e Vi. (che era stato incaricato di individuare gli autori della suddetta rapina), ancorché l'unico a interloquire fosse il Te.Sa. - e il rimprovero dello stesso rapinatore per essersi impossessato del denaro del sodalizio, a riprova anche del potere che veniva esercitato dall'imputato sul territorio della famiglia mafiosa di Co. e dell'esercizio, da parte della sua, del potere del sodalizio mafioso di autorizzare o contrastare le attività illecite nello stesso territorio. A fronte di tale puntuale, dettagliata e ragionata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento del ritenuto ruolo apicale del Te.Sa., a partire dalla fine dell'anno 2015, nella famiglia mafiosa di Co., le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una nuova e alternativa valutazione dei suddetti elementi probatori, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 1.2. Il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.7 della parte in fatto) e il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.3 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata -sono manifestamente infondati. La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nel senso che tale circostanza aggravante: a) ha natura oggettiva; b) va riferita all'intera associazione di cui si fa parte (pertanto, nella specie, a "Cosa Nostra" e non alla famiglia di Co.); c) è addebitabile al singolo associato che sia consapevole della disponibilità di armi da parte dell'associazione o ignori per colpa tale disponibilità. Con specifico riguardo a Cosa Nostra, è stato in particolare affermato che: a) in tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, l'aggravante prevista dall'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa. Con riferimento alla stabile dotazione di armi dell'organizzazione mafiosa denominata "Cosa Nostra" si può ritenere che la circostanza costituisca fatto notorio non ignorabile (Sez. 1, n. 5466 del 18/04/1995, Farinella, Rv. 201650-01); b) in senso analogo, in tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, la circostanza aggravante prevista dall'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa (Sez. 1, n. 13008 del 28/09/1998, Bruno, Rv. 211901-01, relativa a una fattispecie concernente l'associazione per delinquere di stampo mafioso denominata "Cosa Nostra", in riferimento alla quale la Corte ha affermato che, data la sua stabile dotazione di armi, questa costituisca fatto notorio non ignorabile); c) in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, non si espone a censura la sentenza del giudice di merito che ritiene sussistente l'aggravante della disponibilità delle armi di cui all'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., quando il delitto associativo è contestato agli appartenenti di una famiglia mafiosa aderente all'organizzazione denominata "Cosa Nostra", anche nel caso in cui la disponibilità delle armi è provata a carico di un solo appartenente (Sez. 5, n. 18837 del 05/11/2013, dep. 2014, Corso, Rv. 260919-01); d) in tema di associazioni di tipo mafioso storiche (nella specie, "Cosa Nostra"), per la configurabilità dell'aggravante della disponibilità di armi, non è richiesta l'esatta individuazione delle stesse, ma è sufficiente l'accertamento, in fatto, della disponibilità di un armamento, desumibile anche dalle risultanze emerse nella pluriennale esperienza storica e giudiziaria, essendo questi elementi da considerare come utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori (Sez. 2, n. 22899 del 14/12/2022, dep. 2023, Seminara, Rv. 284761-01). Nel caso in esame, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, al cui vertice si trovava il Te.Sa., disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava: dall'intercettata conversazione del 05/04/2017 tra Ro.Pa. e il padre di lui Ro.Pi., nella quale si faceva riferimento alla disponibilità di armi in capo a Sc.Fa.; dall'accettata disponibilità di una pistola da parte di Gi.Sa.; dall'accettata disponibilità di una pistola, presso la propria abitazione, da patte di Di.Sa.; dall'intercettata conversazione del 12/04/2014 tra lo stesso Di.Sa. e la cognata Pi.Ma., in cui i due discutevano delle armi. A fronte dei ricordati principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e di tali non censurabili accertamenti in fatto, si deve ritenere che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, da parte del Te.Sa., atteso anche il ruolo apicale che egli rivestiva), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi. 1.3. L'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.8 della parte in fatto) e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.2 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti - non sono fondati. La più recente giurisprudenza della Corte di cassazione è orientata nel senso che tale circostanza aggravante: a) ha natura oggettiva e deve essere riferita all'attività dell'associazione e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe; b) richiede un apporto di capitale nelle attività economiche che corrisponde al reinvestimento delle utilità che sono state procurate dalle azioni criminose della consorteria; c) richiede altresì che tale reinvestimento si concreti nell'intervento in strutture produttive destinate a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrono beni o servizi analoghi. La Corte di cassazione ha in particolare affermato che: a) ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. - che ricorre quando gli associati intendono assumere il controllo di attività economiche, finanziando l'iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti - occorre, in primo luogo, una particolare dimensione dell'attività economica, nel senso che essa va identificata non in singole operazioni commerciali o nello svolgimento di attività di gestione di singoli esercizi, ma nell'intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o servizi. È, pure, necessario che l'apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio questa spirale sinergica di azioni delittuose e di intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo. La suddetta aggravante deve, inoltre, essere riferita all'attività dell'associazione e non alla condotta del singolo partecipe ed ha, pertanto, natura oggettiva (Sez. 5, n. 12251 del 25/01/2012, Monti, Rv. 252172-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha censurato la decisione con cui il giudice di merito aveva ritenuto la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., ritenendo anapoditticamente certo che i proventi delle estorsioni cui il sodalizio era dedito fossero reinvestiti nelle attività economiche gestite da due degli interessati alla vicenda, in assenza, tra l'altro, di verifiche in ordine alla titolarità, alle dimensioni e tipologia dell'attività nonché alla data di costituzione dell'impresa e alle forme di finanziamento di essa; b) la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., ricorre quando l'attività economica finanziata con il provento dei delitti esecutivi del programma del sodalizio non sia limitata a singole operazioni commerciali o alla gestione di singoli esercizi, ma si concreti nell'intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrano beni o servizi analoghi (Sez. 5, n. 49334 del 05/11/2019, Corcione, Rv. 277653-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha annullato la sentenza di merito che aveva riconosciuto l'aggravante nei confronti di un soggetto, depositario dei proventi del traffico di stupefacenti gestito dal sodalizio, senza tuttavia investirli in attività economiche); c) ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. - che ricorre quando gli associati intendano assumere il controllo di attività economiche, finanziando l'iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti e che ha natura oggettiva dovendo essere riferita all'attività dell'associazione e non alla condotta del singolo partecipe - occorre sia un intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrono gli stessi beni o servizi, sia che l'apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio il collegamento tra azioni delittuose e intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo (Sez. 5, n. 9108 del 21/10/2019, dep. 2020, Stucci, Rv. 278796-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha censurato la decisione del giudice di merito che aveva configurato l'aggravante in presenza di investimenti in alcune attività commerciali, senza valutare le dimensioni delle attività economiche acquisite e la loro eventuale prevalenza rispetto alle altre strutture produttive operanti nel territorio di insediamento); d) la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. - che si configura ove le attività economiche di cui gli associati intendano assumere o mantenere il controllo siano finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti - ha natura oggettiva e va riferita all'attività dell'associazione e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, il quale, nel caso di associazioni cosiddette storiche come mafia, camorra e 'ndrangheta, ne risponde per il solo fatto della partecipazione, dato che - appartenendo da anni al patrimonio conoscitivo comune che dette associazioni operano nel campo economico utilizzando e investendo i profitti di delitti che tipicamente pongono in essere in esecuzione del loro programma criminoso - un'ignoranza al riguardo in capo a un soggetto che sia ad alcuna di tali associazioni affiliato è inconcepibile (Sez. 2, n. 23890 del 01/04/2021, Aieta, Rv. 281463-02). È necessario segnalare anche quell'orientamento della Corte di cassazione secondo cui, in tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, aggravata ai sensi dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., si ha reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose anche quando al soggetto passivo viene imposto, con violenza o minaccia, di far assegnare lavori in appalto a imprese colluse o di cedere attività commerciali in favore di prestanome mafiosi, atteso che, in tali ipotesi, il profitto ingiusto del delitto estorsivo è costituito dalla remunerazione dei lavori e dei servizi svolti dall'impresa mafiosa, che si giova dell'imposizione criminale, ovvero dai proventi derivanti dall'acquisizione dell'attività commerciale altrui, e il reimpiego si attua attraverso l'investimento di tale profitto nelle attività della medesima impresa mafiosa (Sez. 2, n. 21460 del 19/03/2019, Buglisi, Rv. 275586-02). Nel caso in esame, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata) - contenuto del quale, con trariamente a quanto è sostenuto nel ricorso a firma dell'avv. Gi., la stessa Corte d'appello ha dato un'interpretazione e ha operato un apprezzamento non manifestamente illogici né irragionevoli e, perciò, non sindacabili in sede di legittimità (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337-01; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, Rv. 268389-01; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784-01) - rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nei suoi due ricorsi. Occorre in proposito precisare come sia irrilevante il fatto che l'impresa intestata a Ca.Ro. (e utilizzata dal Te.Sa.) potesse essere in perdita, atteso che il sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. richiede soltanto che i proventi dei delitti associativi vengano reinvestiti in attività economiche di cui gli associati "intendono assumere o mantenere il controllo", mentre l'eventuale perdita di esercizio costituisce un elemento estraneo alla norma e, perciò, irrilevante. 1.4. Il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.3 della parte in fatto) e il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.4 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. Anzitutto, è manifestamente infondata la tesi, sostenuta nel ricorso dell'avv. Ba., dell'esclusione del concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso e il reato di autoriciclaggio. La Corte di cassazione ha infatti ormai chiarito - affermando un principio che il Collegio, condividendolo, intende ribadire - che il reato di autoriciclaggio di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., ove commesso dall'appartenente a un'associazione per delinquere di tipo mafioso, concorre con quello di partecipazione a tale associazione aggravato dal finanziamento di attività illecite, di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., attesa l'obiettiva diversità dei rispettivi elementi costitutivi, in quanto solo l'art. 648-ter 1 cod. pen., e non anche l'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., richiede che l'autore agisca in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni oggetto di reimpiego (Sez. 2, n. 5656 del 07/12/2021, dep. 2022, Fontana, Rv. 282626-01; Sez. 1, n. 36283 del 22/10/2020, Petriccione, Rv. 280273-01). Quanto all'attribuzione al Te.Sa. (in concorso con Sc.Lu. e con De.Gi.) del contestato reato di autoriciclaggio, la Corte d'appello di Palermo ha motivato come dal contenuto delle conversazioni intercettate - tra le quali la più rilevante si doveva ritenere quella del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 274 a 276 della sentenza impugnata) - fosse emerso come: a) il Te.Sa. avesse impiegato ingenti somme di denaro nell'impresa "Ca.Ro.", esercente l'attività di gestione di slot machines-, b) tali somme provenissero dalle casse della famiglia mafiosa, come risultava da un chiaro passaggio della conversazione intercettata nel quale si faceva riferimento ai "piccioli della gente" (avendo, peraltro, il G.u.p. del Tribunale di Palermo evidenziato anche come il te.Sa. fosse disoccupato e privo di beni, per essergli stati gli stessi in precedenza confiscati). Tale impiego di denaro proveniente dal commesso delitto di associazione di tipo mafioso in un'impresa intestata a un terzo configura la condotta di dissimulazione che è prevista e punita dall'art. 648-ter 1 cod. pen., atteso che la modifica della formale titolarità del profitto illecito è idonea a ostacolare la sua ricerca e l'individuazione della sua origine delittuosa (Sez. 2, n. 13352 del 14/03/2023, Carabetta, Rv. 244477-01; Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, Rv. 279407-02). Né, a fronte di ciò, come è stato correttamente affermato dalla Corte d'appello di Palermo, poteva assumere rilievo, in senso contrario, il fatto che l'impresa "Ca.Ro." potesse asseritamente versare in cattive condizioni economiche. A fronte di tale motivazione, la quale appare priva sia di errori in diritto sia di contraddizioni e di illogicità manifeste, le censure del ricorrente risultano sostanzialmente dirette a prospettare una diversa interpretazione del contenuto della menzionata intercettata conversazione e, più in generale, un'alternativa valutazione del significato probatorio degli elementi di prova, il che non è possibile fare in sede di legittimità. 1.5. Il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.4 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione - è manifestamente infondato. La Corte d'appello di Palermo ha fondato tale affermazione di responsabilità del Te.Sa. sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, quanto al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione dell'impresa individuale "Ca.Ro." fossero stati forniti dal Te.Sa. (oltre che dallo Sc.Lu.), nonché dal contenuto della conversazione del 01/06/2016 tra il Te.Sa. e Mi.Al., dalla quale risultava come il Te.Sa. fosse (insieme con lo Sc.Lu.) il reale titolare della suddetta impresa, la quale veniva gestita, per conto del Te.Sa. (oltre che dello Sc.Lu.), da De.Gi. Quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dal Te.Sa. (oltre che dallo Sc.Lu.), come lo stesso Te.Sa. fosse (insieme con lo Sc.Lu.) il reale titolare di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto del Te.Sa. (oltre che dello Sc.Lu.), da Mi.Al., che teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Te.Sa. (e Sc.Lu.) nell'interesse sostanziale dei quali risultava anche essere stato quindi stipulato il contratto di locazione dell'immobile sede della suddetta (...) Srl Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che il Te.Sa. aveva fittiziamente attribuito a Ca.Ro. e a Na.Gi. e La.Pa., la titolarità, rispettivamente, dell'impresa individuale "Ca.Ro." e di (...) Srl La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come il Te.Sa. avesse fatto ricorso a tali fittizie intestazioni a persone insospettabili (rispettivamente, Ca.Ro. e Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo un pregiudicato mafioso, aveva il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che aveva, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche, in capo al Te.Sa., del dolo specifico del reato. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso, con riguardo a entrambi i reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, a sé favorevole, il che non è consentito fare in sede di legittimità. Quanto alle censure in diritto, la manifesta infondatezza delle stesse discende dal fatto che: a) il reato di cui all'art. 512-bis cod. pen. non è un reato plurisoggettivo improprio e colui che si renda fittiziamente titolare dei beni a lui attribuiti può rispondere a titolo di concorso eventuale, ex art. 110 cod. pen. (tra le tante: Sez. 2, n. 35826 del 12/07/2019, Como, Rv. 277075-01; b) secondo la più recente giurisprudenza della Corte dì cassazione - alla quale il Collegio, condividendola, intende dare seguito -, in tema di trasferimento fraudolento di valori, risponde a titolo di concorso anche colui che non è animato dal dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione o di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter cod. pen., a condizione che almeno uno dei concorrenti agisca con tale intenzione e che della medesima il primo sia consapevole (Sez. 2, n. 27123 del 03/05/2023, Carnovale, Rv. 284796-01). 1.6. Il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.5 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione, in luogo del concorso apparente di norme tra tali due fattispecie, con il conseguente assorbimento del secondo reato nel più grave primo reato - non è fondato. Il Collegio ritiene che, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, e come è già stato affermato dalla Corte di cassazione, il delitto di trasferimento fraudolento di valori concorra con il delitto di autoriciclaggio (Sez. 2, n. 3935 del 12/01/2017, Di Monaco, Rv. 269078-01). Ciò in quanto la condotta di autoriciclaggio non presuppone e non implica che l'autore di essa ponga in essere anche un trasferimento fittizio a un terzo dei cespiti provenienti dal reato presupposto. Questo costituisce un elemento ulteriore, che l'ordinamento ha inteso punire a norma dell'art. 512-bis cod. pen. Un elemento che, proprio in quanto coinvolge un terzo soggetto "prestanome", non si può neppure ricomprendere tra quelle "operazioni", idonee a ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni, che sono indicate nell'art. 648-ter 1 cod. pen., le quali sono riferibili soltanto al soggetto agente o a chi si muova per lui senza avere ricevuto un'autonoma investitura formale. Inoltre, le due violazioni della legge penale si pongono anche in due momenti cronologicamente distinti, a ulteriore dimostrazione della loro diversità, la quale non consente assorbimenti: l'autore del reato presupposto prima compie l'operazione di interposizione fittizia che, poi, darà luogo a quella di autoriciclaggio, senza la quale la condotta sarebbe punibile solo come reato di cui all'art. 512-bis cod. pen. 1.7. Il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.6 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - non è fondato. Il Collegio ritiene che, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, e come è già stato ripetutamente affermato dalla Corte di cassazione, il delitto di autoriciclaggio, commesso dall'appartenente all'associazione di tipo mafioso, concorra con il delitto di partecipazione a tale associazione, aggravato, a norma del sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dal finanziamento delle attività economiche con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti (Sez. 2, n. 5656 del 07/12/2021, dep. 2022, Fontana, Rv. 282626-01; Sez. 1, n. 36283 del 22/10/2020, Petriccione, Rv. 280273-01). Tali due pronunce hanno anzitutto precisato che il principio che è stato affermato dalla sentenza Iavarazzo delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U., n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, cit.), secondo cui non è configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648-ter cod. pen. e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego nei confronti dell'associato abbia a oggetto denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa, operando in tal caso la clausola di riserva contenuta nelle predette disposizioni (la Corte ha peraltro precisato che si può configurare il concorso tra i reati sopra menzionati nel caso dell'associato che ricicli o reimpieghi proventi dei soli delitti-scopo alla cui realizzazione egli non abbia fornito alcun contributo causale), non è estensibile all'autoriciclaggio, atteso che, in questo, non è contemplata la clausola di riserva che, invece, inerisce alle altre due fattispecie di reato. Le stesse pronunce, alla cui motivazione - che è idonea a superare tutte le obiezioni del ricorrente -, condividendola, si fa integralmente rinvio, hanno poi essenzialmente evidenziato l'obiettiva diversità degli elementi costitutivi delle due fattispecie, atteso che solo l'art. 648-ter 1 cod. pen., e non anche l'art. 416-bis cod. pen. aggravato ai sensi del sesto comma dello stesso articolo, richiede che l'autore agisca in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni oggetto di reimpiego. Il che esclude che venga in rilievo un concorso apparente di norme o un reato complesso, e, con ciò, che il ritenuto concorso tra i due reati - in assenza, in quello di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., della menzionata clausola di riserva - integri una violazione del divieto di bis in idem sostanziale, posto a fondamento degli artt. 15, 68 e 84 cod. pen. 1.8. Il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.10 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione della ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione - non è fondato. È vero che, con riguardo a tali circostanze aggravanti, la sentenza impugnata non contiene una motivazione espressa. La motivazione della sussistenza della circostanza aggravante cosiddetta dell'agevolazione mafiosa - tale dovendosi ritenere quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi la pag. 277 della sentenza impugnata) -risulta tuttavia implicitamente, ma in modo assolutamente inequivoco, dal complesso della motivazione della sentenza impugnata e, in particolare, dal fatto che: a) come si è visto al punto 1.4, il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione è stato ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, con una motivazione non contraddittoria né manifestamente illogica, avere a oggetto denaro proveniente dalle casse della famiglia mafiosa; b) come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo, con una motivazione non contraddittoria né manifestamente illogica, ha ritenuto come dagli acquisiti elementi di prova fosse risultato come il sodalizio mafioso avesse investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio, denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto. Tali argomentazioni, relative all'affermazione della responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e della sussistenza della circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., valgono altresì, in tutta evidenza, a sostenere anche la sussistenza della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa relativamente al reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e ai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, atteso che: a) il reato di autoriciclaggio ha avuto a oggetto del denaro appartenente al sodalizio mafioso; b) i reati di trasferimento fraudolento di valori riguardavano l'intestazione fittizia di due imprese che operavano nel settore delle slot machines, nel quale, come si è detto, lo stesso sodalizio criminoso investiva il proprio denaro per gestire, attraverso dei prestanome, le attività nello stesso settore. 1.9. Il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Gi. (punto 4.1.9. della parte in fatto) e il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Ba. (punto 4.2.5 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica - non sono fondati. Occorre anzitutto rilevare come la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione affermi ormai costantemente che non sussiste incompatibilità tra l'istituto della recidiva e quello della continuazione, con la conseguente possibile applicazione, in presenza dei relativi presupposti normativi, di entrambi tali istituti, in quanto il secondo non comporta l'ontologica unificazione dei diversi reati avvinti dal vincolo del medesimo disegno criminoso, ma è fondato su una mera fictio iuris a fini di temperamento del trattamento penale (tra le tantissime: Sez. 3, n. 54182 del 12/09/2018, Pettenon, Rv. 275296-01). Quanto all'ulteriore censura, sollevata in entrambi i ricorsi, di insussistenza dei presupposti per l'applicazione della recidiva, premesso che, perché sia configurabile la recidiva, è necessario che il nuovo reato sia commesso dopo che la precedente condanna sia divenuta irrevocabile, si deve ritenere che la stessa recidiva possa operare anche nel caso in cui l'agente, successivamente a tale irrevocabilità, prosegua la stessa condotta o la riprenda in epoca successiva -come può accadere, per quanto qui rileva, nei reati associativi - ponendo così in essere un ulteriore diverso fatto di reato, rispetto al quale la precedente condanna può senz'altro operare come presupposto per ritenere la recidiva. Si deve infine rilevare che la Corte d'appello di Palermo ha confermato l'applicazione della recidiva avendo ritenuto in fatto che la condotta dell'imputato, evidentemente posta in relazione con i suoi precedenti penali, fosse ulteriormente espressiva della sua capacità a delinquere e della sua inclinazione al delitto (pag. 488 della sentenza impugnata); costituisse, cioè, insomma, una significativa prosecuzione di un già avviato processo delinquenziale. Tale considerazione - che, essendo espressiva di un giudizio di fatto, non è censurabile in questa sede -, appare sufficiente, ponendosi sostanzialmente in linea con la giurisprudenza della Corte dì cassazione secondo cui, ai fini dell'applicazione (o no) della recidiva, compito del giudice di merito è quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito costituisca un effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di maggiore pericolosità del suo autore, al di là del mero riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, Del Chicca, Rv. 270419-01; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dep. 2015, Gordyusheva, Rv. 263464-01). 1.10. Il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Ba. (punto 4.2.1. della parte in fatto) è manifestamente infondato. Come è stato più volte affermato dalla Corte di cassazione, "nell'ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dall'art. 416-bis c.p., commi 4 e 6, ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non si applica la regola generale prevista dall'art. 63 c.p., comma 4, bensì l'autonoma disciplina derogatoria di cui all'art. 416-bis c.p., comma 6, che prevede l'aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata" (Sez. 2, n. 7155 del 11/11/2020, dep. 2021, Liccardi, Rv. 280662 - 01; Sez. 5, n. 52094 del 30/09/2014, Spadaro Tracuzzi, Rv. 261333 - 01; Sez. 6, n. 7916 del 13/12/2011, dep. 2012, La Franca, Rv. 252069 - 01; Sez. 1, n. 29770 del 24/03/2009, Vernengo, Rv. 244460 - 01). Da questa specifica disciplina sanzionatoria, come è stato chiaramente messo in luce dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (n. 38158 del 27/11/2014, dep. 2015, Ventrici, Rv. 264674 - 01), si ricava che il regime degli aumenti stabiliti per le aggravanti speciali contemplate dall'art. 416-bis ù cod. pen. non interrompe "il collegamento con la pena stabilita per il reato (base) cui accedono, indicando esse stesse ex lege la cornice degli incrementi sanzionatori". In definitiva, ove siano attribuite entrambe le circostanze aggravanti ricordate, il legislatore ha fissato un criterio autonomo di determinazione degli aumenti di pena, che riveste carattere di specialità rispetto alla disciplina generale dettata dall'art. 63 cod. pen. (al pari delle ipotesi considerate per l'associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, aggravata dal carattere armato dell'associazione ai sensi dell'art. 74, comma 4, del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e per l'aggravante dell'ingente quantitativo di stupefacenti, riferita all'ipotesi del delitto di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, aggravato dall'essere le sostanze con accentuata potenzialità lesiva, come previsto dall'art. 80, comma 2, dello stesso D.P.R., nelle parti in cui fissano in modo autonomo la pena per le ipotesi che concernono fattispecie già aggravate; o, ancora, per l'ipotesi del concorso di più circostanze aggravanti previste dall'art. 628, terzo comma, cod. pen., la cui misura è stabilita dal quarto comma dello stesso art. 628 cod. pen.). Da tale caratteristica del trattamento sanzionatorio, previsto espressamente dalla legge, discende che il concorso con l'ulteriore aggravante della recidiva reiterata richiede l'applicazione del disposto dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., considerando quali circostanze aggravanti a effetto speciale da comparare - al fine di individuare la più grave - quelle unitariamente considerate a fini sanzionatori dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., e quella della recidiva reiterata ex art. 99, quarto comma, cod. pen.; operando, quindi, sulla pena per la più grave tra le dette circostanze, l'eventuale ulteriore aumento ex art. 63, quarto comma, ultimo periodo, cod. pen. I giudici di merito hanno dunque correttamente operato il calcolo della pena da irrogare all'imputato, individuando quale circostanza aggravante che comportava il maggior aumento quella dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., determinando la pena nella misura di 20 anni di reclusione, pena su cui è stato poi operato l'ulteriore aumento per effetto della recidiva attribuita, nei limiti imposti dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., giungendo alla pena di 22 anni di reclusione. 1.11. L'undicesimo motivo a firma dell'avv. Gi. (punto 4.1.11. della parte in fatto) è manifestamente infondato. Quanto alla determinazione della misura della pena per il reato di promozione, direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti, si deve osservare che la pena è stata in realtà determinata nella misura del minimo edittale, segnatamente: partendo dalla pena di 15 anni di reclusione, cioè dal minimo che è previsto dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. per il reato di promozione, direzione o organizzazione di un'associazione armata; aumentando tale pena di un terzo - e, quindi, a 20 anni di reclusione -per l'ulteriore circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., aumento (di un terzo) che corrisponde alla misura minima che è prevista da tale sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. Quanto alla determinazione della misura degli aumenti di pena per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, si deve rilevare l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello per difetto di specificità, rilevabile anche in Cassazione, ai sensi del comma 4 dell'art. 591 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 38683 del 26/04/2017, Criscuolo, Rv. 270799 - 01; Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P., Rv. 271193 - 01). Infatti, nell'atto di appello (pagg. 36-38 dell'atto di appello a firma dell'avv. Gi.), il ricorrente si era limitato, del tutto genericamente, da un lato, a dedurre "la scarsa pericolosità del soggetto agente" e, dall'altro lato, a invocare la necessità di tenere "conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato" e della "peculiarità dei fatti", senza, tuttavia, specificare in alcun modo le ragioni della suddetta asserita scarsa pericolosità dell'agente né quale sarebbero state le caratteristiche del "modus operandi", del "contesto familiare" e dei "fatti" che avrebbero giustificato un più mite trattamento sanzionatorio, né perché. La genericità delle doglianze prospettate con il motivo di appello escludeva, pertanto, la necessità di una specifica motivazione della sentenza impugnata in punto di determinazione degli aumenti di pena per la continuazione. 2. I ricorsi di Sc.Lu. (a firma dell'avv. Vi.Gi. e dell'avv. Di.Be.). 2.1. Il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.1 della parte in fatto) e il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.1. della parte in fatto) non sono consentiti. 2.1.1. Anzitutto, quanto alla contestazione, avanzata nel ricorso a firma dell'avv. Gi., relativa all'esistenza stessa dell'associazione di tipo mafioso (punto 5.1.1.1 della parte in fatto), trattandosi di censure identiche a quelle che sono state prospettate con il primo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. (punto 4.1.1.1 della parte in fatto), è sufficiente rinviare a quanto è stato argomentato, in ordine alla genericità e aspecificità delle medesime censure, al punto 1.1.1. 2.1.2. In secondo luogo, quanto alle contestazioni relative all'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co. (punti 5.1.1.2 e 5.2.1 della parte in fatto), si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione dello Sc.Lu. alla suddetta famiglia mafiosa, nella quale l'imputato si era reinserito dopo la sua scarcerazione il 13/01/2014. Dopo avere premesso che lo Sc.Lu. era già stato condannato per la partecipazione al sodalizio criminoso, la Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata la continuità della stessa partecipazione e, di più, l'accrescimento dell'apporto fornito al sodalizio, mercé anche il rafforzamento del legame con Te.Sa., sulla scorta, anzitutto, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia So.Sa., il quale, nel corso dell'interrogatorio che aveva reso il 19/06/2015 (il cui contenuto è testualmente riportato alle pagine da 128 a 138 della sentenza impugnata), aveva espressamente indicato, per averne avuto diretta conoscenza, lo Sc.Lu. come uomo di Ta.Pi. (successivamente arrestato il 28/09/2015) che si occupava, per conto del sodalizio mafioso, di imporre la collocazione di slot machines negli esercizi pubblici. Tale chiamata in correità, rispetto alla quale la Corte d'appello di Palermo ha logicamente argomentato la ritenuta credibilità del dichiarante (pagine 68-69 della sentenza impugnata), aveva trovato riscontro, oltre che nell'accertata assidua frequentazione - in incontri sempre caratterizzati da modalità di svolgimento riservate - con Te.Sa. e con diversi altri membri del sodalizio, anche aventi ruoli apicali (come Su., vertice del mandamento di S, il quale, il 07/04/2016, si era personalmente recato presso l'agenzia di pompe funebri dello Sc.Lu.), anche nel contenuto di numerose conversazioni intercettate; il quale, anche in questo caso, appare avere lo spessore non del mero riscontro alla ricordata chiamata in correità, ma della prova "autosufficiente" della partecipazione dello Sc.Lu. alla famiglia mafiosa di Co.. Con riguardo a tali intercettate conversazioni, la Corte d'appello di Palermo ha in particolare evidenziato come da esse fossero emersi: a) l'immediata ripresa, da parte dell'imputato, dopo la sua scarcerazione, dei contatti con il sodalizio criminale (conversazione del 30/01/2015 con Da.Cl., uomo di fiducia di Ta.Pi., il quale Da.Cl. aveva espressamente manifestato la propria piena disponibilità ad aiutare lo Sc.Lu.); b) i numerosi discorsi con Te.Sa. aventi a oggetto gli affari illeciti del sodalizio, quali l'imposizione del "pizzo", il traffico degli stupefacenti e il commercio dei tabacchi lavorati esteri (tra le altre: conversazione del 15/11/2017, nella quale si faceva riferimento al denaro per i carcerati; conversazione del 21/11/2017, avente a oggetto l'estorsione ai danni dell'impresa di specchi "Mi.Ig."); c) il contributo che era stato dato dallo Sc.Lu. all'individuazione degli autori della già menzionata rapina ai danni della sala bingo "Taj Mahal" di via (omissis), riconducibile alla famiglia mafiosa di Vi. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì l'attribuzione anche allo Sc.Lu. dei reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, in quanto dimostrativa del contributo che era stato dato dall'imputato alla famiglia mafiosa di Co. nell'attività di riciclaggio e di trasferimento fraudolento di valori, a tutela del denaro proveniente dai delitti commessi dal sodalizio. A fronte di tale puntuale, dettagliata e ragionata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta rinnovata partecipazione dello Sc.Lu., dopo la sua scarcerazione, alla famiglia mafiosa di Co., le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, al fine di ottenere una nuova e alternativa valutazione dei suddetti elementi probatori, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 2.2. Il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.7 della parte in fatto) e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.2. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata - sono manifestamente infondati. Come si è visto al punto 1.2, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, di cui lo Sc.Lu. era un "autorevole" esponente, disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava: dall'intercettata conversazione del 05/04/2017 tra Ro.Pa. e il padre di lui Ro.Pi., nella quale si faceva riferimento alla disponibilità di armi proprio in capo a Sc.Fa.; dall'accertata disponibilità di una pistola da parte di Gi.Sa.; dall'accertata disponibilità di una pistola, presso la propria abitazione, da parte di Di.Sa.; dall'intercettata conversazione del 12/04/2014 tra lo stesso Di.Sa. e la cognata Pi.Ma., in cui i due discutevano delle armi. A fronte dei ricordati (al punto 1.2) principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e di tali non censurabili accertamenti in fatto, si deve reputare che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, da parte dello Sc.Lu., atteso anche il ruolo significativo, ancorché non apicale, che egli rivestiva), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi. 2.3. L'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.8 della parte in fatto) e il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.3. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti - non sono fondati. Come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata) - contenuto del quale, contrariamente a quanto è sostenuto nel ricorso a firma dell'avv. Gi., la stessa Corte d'appello ha dato un'interpretazione e ha operato un apprezzamento non manifestamente illogici né irragionevoli e, perciò, non sindacabili in sede di legittimità (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, cit.; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, cit.; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, cit.) - rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei ricordati (al punto 1.3) principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nei suoi due ricorsi. In proposito, si è già precisato come sia irrilevante il fatto che l'impresa intestata a Ca.Ro. (e utilizzata dallo Sc.Lu.) potesse essere in perdita, atteso che il sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. richiede soltanto che i proventi dei delitti associativi vengano reinvestiti in attività economiche di cui gli associati "intendono assumere o mantenere il controllo", mentre l'eventuale perdita di esercizio costituisce un elemento estraneo alla norma e, perciò, irrilevante. 2.4. Il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.2 della parte in fatto) e il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.4. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. Quanto all'attribuzione allo Sc.Lu. (in concorso con Te.Sa. e con De.Gi.) del contestato reato di autoriciclaggio, la Corte d'appello di Palermo ha motivato come dal contenuto delle conversazioni intercettate - tra le quali la più rilevante si doveva ritenere quella del 01/07/2016 tra lo Sc.Lu. e il Te.Sa. (pagine da 274 a 276 della sentenza impugnata) - fosse emerso come: a) lo Sc.Lu. avesse impiegato delle somme di denaro nell'impresa "Ca.Ro.", esercente l'attività di gestione di slot machines; b) tali somme provenissero dalle casse della famiglia mafiosa, come risultava da un chiaro passaggio della conversazione intercettata nel quale si faceva riferimento ai "piccioli della gente" (avendo, peraltro, il G.u.p. del Tribunale di Palermo evidenziato anche come lo Sc.Lu. non disponesse di somme rapportabili a quelle da lui impiegate nella suddetta impresa "Ca.Ro."; affermazione, questa, che si deve ritenere contestata dal ricorrente solo in modo generico). Tale impiego di denaro proveniente dal commesso delitto di associazione di tipo mafioso in un'impresa intestata a un terzo configura la condotta di dissimulazione che è prevista e punita dall'art. 648-ter 1 cod. pen., atteso che la modifica della formale titolarità del profitto illecito è idonea a ostacolare la sua ricerca e l'individuazione della sua origine delittuosa (Sez. 2, n. 13352 del 14/03/2023, Carabetta, cit.; Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, cit.). Né, a fronte di ciò, come è stato correttamente affermato dalla Corte d'appello di Palermo, poteva assumere rilievo, in senso contrario, il fatto che l'impresa "Ca.Ro." potesse asseritamente versare in cattive condizioni economiche. A fronte di tale motivazione, la quale appare priva sia di errori in diritto sia di contraddizioni e di illogicità manifeste, le censure del ricorrente risultano sostanzialmente dirette a prospettare una diversa interpretazione del contenuto della menzionata intercettata conversazione e, più in generale, un'alternativa valutazione del significato probatorio degli elementi di prova, il che non è possibile fare in sede di legittimità. 2.5. Il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.3 della parte in fatto) e il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.5. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. La Corte d'appello di Palermo ha fondato tale affermazione di responsabilità dello Sc.Lu. sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, quanto al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione dell'impresa individuale "Ca.Ro." fossero stati forniti dallo Sc.Lu. (oltre che dal v), nonché dal contenuto della conversazione del 01/06/2016 tra il Te.Sa. e Mi.Al., dalla quale risultava come lo Sc.Lu. fosse (insieme con il Te.Sa.) il reale titolare della suddetta impresa, la quale veniva gestita, per conto dello Sc.Lu. (oltre che del Te.Sa.), da De.Gi. Quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dallo Sc.Lu. (oltre che dal Te.Sa.), come lo stesso Sc.Lu. fosse (insieme con il Te.Sa.) il reale titolare di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto dello Sc.Lu. (oltre che del Te.Sa.), da Mi.Al., che teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Sc.Lu. (e Te.Sa.) nell'interesse sostanziale dei quali risultava anche essere stato quindi stipulato il contratto di locazione dell'immobile sede della suddetta (...) Srl Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che lo Sc.Lu. aveva fittiziamente attribuito a Ca.Ro. e a Na.Gi. e La.Pa., la titolarità, rispettivamente, dell'impresa individuale "Ca.Ro." e di (...) Srl La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come lo Sc.Lu. avesse fatto ricorso a tali fittizie intestazioni a persone insospettabili (rispettivamente, Ca.Ro. e Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo un pregiudicato mafioso, aveva il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che aveva, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche, in capo allo Sc.Lu., del dolo specifico del reato. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso, con riguardo a entrambi i reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, a sé favorevole, il che non è consentito fare in sede di legittimità. Quanto alla manifesta infondatezza delle censure in diritto sollevate nel ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi., si rinvia a quanto si è argomentato alla fine del punto 1.5. 2.6. Il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.4. della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione, in luogo del concorso apparente di norme tra tali due fattispecie, con il conseguente assorbimento del secondo reato nel più grave primo reato - non è fondato. Trattandosi della stessa questione in diritto che è stata posta con il quinto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. ed essendo le argomentazioni dei due ricorsi sostanzialmente sovrapponibili, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del suddetto quinto motivo del ricorso di Te.Sa. che è stata fatta al punto 1.6. 2.7. Il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.5. della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione -non è fondato. Trattandosi della stessa questione in diritto che è stata posta con il sesto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. ed essendo le argomentazioni dei due ricorsi identiche, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del suddetto sesto motivo del ricorso di Te.Sa. che è stata fatta al punto 1.7. 2.8. Il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.6 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di cui al capo 27) dell'imputazione - è manifestamente infondato. La Corte d'appello di Palermo ha confermato tale affermazione di responsabilità sulla base degli elementi probatori costituiti dalle risultanze del localizzatore GPS che era apposto all'automobile in uso allo Sc.Lu., dai servizi di osservazione, pedinamento e controllo che erano stati svolti dalla polizia giudiziaria e dal contenuto di alcune conversazioni intercettate, elementi dai quali risultava come l'imputato si fosse ripetutamente allontanato dal Comune di P, nel quale gli era stato imposto l'obbligo di soggiornare, e aveva preso parte a numerosi summit cui avevano partecipato dei noti esponenti mafiosi. Tale motivazione della ritenuta pienamente consapevole violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo di soggiorno appare, oltre che conforme alle norme di legge, del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, sicché si sottrae alle censure del ricorrente, dovendosi ritenere, altresì, manifesta, la concreta offensività, rispetto agli scopi della misura di prevenzione, delle condotte di ripetuto allontanamento del Comune di P al fine di incontrare (insieme al Te.Sa.) sodali della famiglia mafiosa di Br. 2.9. Il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.10 della parte in fatto) e l'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.8 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione (ricorso a firma dell'avv. Gi.) e in relazione ai reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione (ricorso a firma dell'avv. Di.Be.) - non sono fondati. Quanto alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante cosiddetta dell'agevolazione mafiosa - tale dovendosi ritenere quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi la pag. 277 della sentenza impugnata) - in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del decimo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Gi. che è stata fatta al punto 1.8, atteso che tali ragioni appaiono pienamente idonee ad argomentare anche l'infondatezza dei motivi in esame. Quanto alla ritenuta sussistenza della stessa circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa in relazione al reato di cui al capo 27) dell'imputazione - tale dovendosi ritenere, anche in questo caso, quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi le pagg. 472-473 della sentenza impugnata) - la motivazione della Corte d'appello di Palermo, secondo cui i comprovati allontanamenti dal Comune di P per incontrare, come era stato pure provato, sodali della famiglia mafiosa di Br., erano stati posti in essere, attesa quest'ultima circostanza, al fine di agevolare l'attività della stessa famiglia mafiosa, appare del tutto conforme al disposto dell'art. 416-bis 1 cod. pen. e, altresì, del tutto priva di contraddizioni e illogicità, tanto meno manifeste, sicché la stessa motivazione si sottrae senz'altro alle censure che sono state avanzate nel ricorso a firma dell'avv. Gi. 2.10. Il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.9 della parte in fatto) e il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.6 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica - non sono fondati. Quanto all'insussistenza di incompatibilità tra l'istituto della recidiva e quello della continuazione e alla possibilità che la recidiva possa operare anche nel caso in cui l'agente, successivamente a una precedente condanna per un reato associativo divenuta irrevocabile, prosegua la stessa condotta o la riprenda in epoca successiva - questioni che sono state poste in entrambi ì ricorsi -, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza delle analoghe censure che sono state sollevate al riguardo con il nono motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Gi. e con il quinto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Ba. che è stata fatta al punto 1.9. Si deve poi rilevare che la Corte d'appello di Palermo ha confermato l'applicazione della recidiva avendo ritenuto in fatto che la condotta dello Sc.Lu., evidentemente posta in relazione con i suoi precedenti penali, fosse ulteriormente espressiva della sua capacità a delinquere e della sua inclinazione al delitto (pag. 480 della sentenza impugnata); costituisse, cioè, insomma, una significativa prosecuzione di un già avviato processo delinquenziale. Tale considerazione - che, essendo espressiva di un giudizio di fatto, non è censurabile in questa sede -, appare sufficiente, ponendosi sostanzialmente in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione secondo cui, ai fini dell'applicazione (o no) della recidiva, compito del giudice di merito è quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito costituisca un effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di maggiore pericolosità del suo autore, al di là del mero riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, Del Chicca, cit.; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dep. 2015, Gordyusheva, cit.). 2.11. Il primo profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.12 della parte in fatto) e il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.9 della parte in fatto) - profilo e motivo che attengono alla contestazione del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche - sono manifestamente infondati. In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269 - 01; nella specie, la Corte di cassazione ha ritenuto sufficiente, ai fini dell'esclusione delle attenuanti generiche, il richiamo in sentenza ai numerosi precedenti penali dell'imputato). Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244 - 01). Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o no il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare all'uopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549 - 01; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163 - 01). Nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenendo decisivi e prevalenti, a tale fine, gli elementi dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato e del fatto che questi, terminato il periodo di detenzione, non aveva esitato a offrire e a dare nuovamente il proprio contributo alla famiglia mafiosa di Co., così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano dedotti dall'imputato (e che sono richiamati nei ricorsi). Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità. Né sussiste la violazione del divieto di bis in idem sostanziale che è stata lamentata con il ricorso a firma dell'avv. Di.Be. La Corte di cassazione ha infatti ripetutamente chiarito - affermando un principio che il Collegio, condividendolo, intende ribadire - che il giudice può negare la concessione delle attenuanti generiche e, contemporaneamente, ritenere la recidiva, valorizzando per entrambe le valutazioni il riferimento ai precedenti penali dell'imputato, in quanto il principio del ne bis in idem sostanziale non preclude la possibilità di utilizzare più volte lo stesso fattore per giustificare scelte relative a istituti giuridici diversi (Sez. 6, n. 57565 del 15/11/2018, Giallombardo, Rv. 274783 - 01; Sez. 6, n. 47537 del 14/11/2013, Quagliara, Rv. 257281 - 01). 2.12. Il terzo profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.12 della parte in fatto) e il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.7 della parte in fatto) - profilo e motivo che attengono alla contestazione del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche - sono manifestamente infondati. Come si è già diffusamente detto al punto 1.10 nell'esaminare il primo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. An.Ba., la Corte di cassazione ha chiarito che, in tema di associazione a delinquere di tipo mafioso, nell'ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti a effetto speciale previste dall'art. 416-bis, quarto e sesto comma, cod. pen., la pena è determinata secondo la disciplina speciale di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., che prevede l'aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata, con la conseguenza che, quando concorre anche l'aggravante a effetto speciale della recidiva reiterata, ai fini dell'individuazione della più grave tra le dette circostanze, sulla quale operare l'eventuale ulteriore aumento di pena, previsto dalla regola generale di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen., rileva quella unitariamente considerata, a fini sanzionatori, dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. I giudici di merito hanno perciò correttamente operato il calcolo della pena di irrogare all'imputato, individuando quale circostanza aggravante che comportava il maggior aumento di pena quella dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., determinando la pena nella misura di 16 anni di reclusione, pena su cui è stato poi operato l'ulteriore aumento per effetto della recidiva attribuita, nei limiti imposti dall'art. 63, quarto comma, cod. pen., giungendo alla pena di 18 anni di reclusione. Nella confermata sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo, la rilevanza di quest'ultima meno grave circostanza della recidiva e la quantificazione del relativo aumento di pena di 2 anni di reclusione erano stati altresì sufficientemente motivati in considerazione, rispettivamente: del fatto che la recidiva si doveva ritenere effettivamente dimostrativa di una maggiore pericolosità e di un maggior grado di colpevolezza; della congruità ed equità dell'irrogato aumento di pena di 2 anni di reclusione, entro il limite massimo "fino a un terzo" che è previsto dal quarto comma dell'art. 63 cod. pen. 2.13. Le restanti doglianze in punto di trattamento sanzionatorio che sono state avanzate con l'undicesimo motivo e con il secondo e il quarto profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punti 5.1.11 e 5.1.12 della parte in fatto), nonché con il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.10 della parte in fatto), sono fondate limitatamente all'aumento di pena irrogata per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, mentre non sono fondate o sono manifestamente infondate nel resto. 2.13.1. Anzitutto, non è fondata la doglianza che è stata avanzata con l'undicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Gi. con riguardo all'individuazione del reato di cui al capo 1) dell'imputazione come violazione più grave rispetto al reato di associazione di tipo mafioso già giudicato con la suddetta sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo. La Corte di cassazione ha chiarito che, nel caso di reati in parte decisi con sentenza definitiva e in parte sub iudice - come era nel caso di specie - la valutazione circa la maggiore gravità delle violazioni deve essere compiuta confrontando tra loro la pena irrogata per i fatti già giudicati con quella irroganda per i reati al vaglio del decidente, attesa la necessità di rispettare le valutazioni in punto di determinazione della pena già coperte da giudicato e, nello stesso tempo, di rapportare grandezze omogenee (Sez. 2, n. 935 del 23/09/2015, dep. 2016, Velia, Rv. 265733 - 01; Sez. 6, n. 36402 del 04/06/2015, Fragnoli, Rv. 264582 - 01. In senso analogo: Sez. 6, n. 29404 del 06/06/2018, Assinnata, Rv. 273447 - 01). La Corte d'appello di Palermo ha rispettato tale principio, avendo adeguatamente argomentato come, tenuto conto dell'inasprimento delle pene edittali per la fattispecie di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso che era stato operato con la legge 27 maggio 2015, n. 69 (art. 5, comma 1, lett. b), nonché del fatto che il reato sub iudice era aggravato dalla recidiva reiterata, la pena irroganda per tale reato sarebbe stata maggiore rispetto a quella che era stata inflitta per il reato già giudicato con la sentenza irrevocabile, con la logica conseguenza che, in applicazione dello stesso suddetto principio, il reato sub iudice si doveva considerare violazione più grave rispetto al reato associativo già giudicato. Ferma la correttezza di tale motivazione, si deve peraltro altresì osservare che: a) il ricorrente ha del tutto omesso di indicare quale sarebbe il suo interesse a che fosse invece ritenuta violazione più grave quest'ultimo reato già giudicato; b) le considerazioni svolte dallo stesso ricorrente a sostegno di tale diversa soluzione appaiano del tutto generiche. 2.13.2. In secondo luogo, è manifestamente infondata la doglianza che attiene alla determinazione della misura della pena per il più grave reato di cui al capo 1) dell'imputazione, atteso che, per tale reato, la pena è stata in realtà determinata nel minimo edittale, segnatamente: partendo dalla pena di 12 anni di reclusione, cioè dal minimo che è previsto dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. per il reato di partecipazione a un'associazione armata; aumentando tale pena di un terzo - e, quindi, a 16 anni di reclusione - per l'ulteriore circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., aumento (di un terzo) che corrisponde alla misura minima che è prevista da tale sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. 2.13.3. In terzo luogo, quanto alla determinazione degli aumenti di pena per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione, si deve rilevare l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello, rilevabile anche in Cassazione, ai sensi del comma 4 dell'art. 591 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 38683 del 26/04/2017, Criscuolo, cit.; Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P., cit.). Infatti, nell'atto di appello (pagg. 29-30 dell'atto di appello a firma dell'avv. Di.Be. e dell'avv. DE.SP.), il ricorrente si era limitato, genericamente, ad affermare che gli irrogati aumenti di pena di un anno di reclusione per ciascuno dei reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione e di 6 mesi di reclusione per il reato di cui al capo 27) dell'imputazione sarebbero stati "non in linea con i principi discrezionali di cui all'art. 133 c.p.", tenuto conto del suo "ruolo non significativo (...) all'interno della famiglia mafiosa" e del fatto che egli sarebbe stato "anche destinatario di danneggiamenti e intimidazioni", senza specificare in alcun modo per quali ragioni il suo ruolo nella famiglia mafiosa si sarebbe dovuto ritenere "non significativo" e per quali ragioni il suo essere stato "destinatario di danneggiamenti e intimidazioni" avrebbe dovuto incidere sulla determinazione della misura della pena per i suddetti reati in continuazione. La genericità delle doglianze prospettate con il motivo di appello escludeva, pertanto, la necessità di una specifica motivazione della sentenza impugnata in punto di determinazione degli aumenti di pena per la continuazione. Aumenti, peraltro, contenuti, e di cui la Corte d'appello di Palermo ha comunque ritenuto la congruità (pag. 481 della sentenza impugnata). 2.13.4. Le doglianze sono, invece, fondate, come si è anticipato, limitatamente all'aumento di pena irrogata per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007. Con riferimento a tali reati, la Corte d'appello di Palermo ha infatti irrogato un aumento cumulativo di 8 anni, 6 mesi e 20 giorni di reclusione, senza in nessun modo motivare - come è invece necessario fare, anche alla luce dei principi che sono stati affermati dalla sentenza Pizzone delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U., n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01) - in ordine alle ragioni che, alla luce dei parametri che sono stabiliti nell'art. 133 cod. pen., l'hanno indotta a determinare l'aumento di pena nella suddetta misura e senza distinguere gli aumenti relativi ai diversi reati satellite. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata con riguardo all'aumento di pena inflitta per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, con rinvio ad altra Sezione della stessa Corte d'appello per un nuovo giudizio su tale punto. 2.14. Il tredicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.13. della parte in fatto) e l'undicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.11 della parte in fatto) sono fondati. Il Collegio aderisce infatti a un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione dettata dall'art. 417 cod. pen., secondo cui, dopo la modifica introdotta dall'art. 31, comma 2, della legge n. 633 del 1986, l'applicazione delle misure di sicurezza, ivi compresa quella prevista dall'art. 417 cod. pen., può essere disposta, anche da parte del giudice della cognizione, soltanto dopo l'espresso positivo scrutinio dell'effettiva pericolosità sociale del condannato, da accertarsi in concreto sulla base degli elementi di cui all'art. 133 cod. pen., globalmente valutati, senza possibilità di fare ricorso ad alcuna forma di presunzione giuridica, ancorché qualificata come semplice (tra le più recenti: Sez. 5, n. 24873 del 21/04/2023, La Rosa, Rv. 244817 - 01; Sez. 1, n/7188 del 10/12/2020, dep. 2021, Pavone, Rv. 280804 - 01; Sez. 1, n. 35996 del 08/05/2019, Natale, Rv. 276813 - 01). Infatti, l'espressione utilizzata nell'art. 417 cod. pen., che abbina "sempre" alla condanna per uno dei delitti previsti dai due articoli precedenti (e, quindi, sicuramente per il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen.) la disposizione di una misura di sicurezza da parte del giudice, deve essere coordinata con l'evoluzione normativa e, in particolare, con il fatto che, a partire dall'entrata in vigore della cosiddetta legge "Gozzini" (legge n. 633 del 1986), il quadro di riferimento è stato radicalmente modificato, attraverso l'abrogazione dell'art. 204 cod. pen. e la conseguente eliminazione, dal nostro ordinamento penale, delle presunzioni di pericolosità sociale in materia di misure di sicurezza, in conformità alle ripetute pronunce della Corte costituzionale declaratorie dell'illegittimità costituzionale delle disposizioni concernenti l'applicazione obbligatoria di tali misure nei confronti dell'infermo di mente (sentenze n. 139 del 1982 e n. 249 del 1983) e del minore di età (sentenza n. 1 del 1971). Si deve pertanto ritenere che, attualmente, qualunque misura di sicurezza potrebbe essere disposta dal giudice della cognizione e dal magistrato di sorveglianza soltanto se vi sia stato un previo accertamento della pericolosità sociale dell'agente, senza alcuna possibilità di ricorrere a presunzioni, ancorché semplici. Il Collegio ovviamente non ignora l'esistenza di differenti orientamenti nella giurisprudenza della Corte di cassazione - secondo cui, in tema di associazione di tipo mafioso: l'applicazione di una misura di sicurezza sarebbe obbligatoria tour court (da ultimo: Sez. 2, n. 32569 del 16/06/2023, Aguì, Rv. 284980 - 02); opererebbe una presunzione semplice di pericolosità del soggetto (da ultimo: Sez. 1, n. 24950 del 22/02/2023, Abbruzzo, Rv. 284829 - 02; Sez. 1, n. 33951 del 19/05/2021, Avallone, Rv. 281999 - 01) -, opzioni interpretative che, però, per le ragioni che si sono dette, non ritiene di condividere. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche con riguardo alla conferma dell'applicazione allo Sc.Lu. delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di P, con rinvio ad altra Sezione della stessa Corte d'appello per un nuovo giudizio anche su tale punto. 3. Il ricorso di Ma.Vi., a firma dell'avv. Ma.Mo., è inammissibile perché il suo unico motivo non è consentito in quanto è del tutto aspecifico. Tale unico motivo (di cui al punto 6 della parte in fatto), consiste infatti: a) in una generica censura della sentenza impugnata in punto di affermazione di responsabilità ("la Corte d'appello pur dando conto delle proprie conclusioni e delle prove che le sorreggono, non esplicita chiaramente i criteri di valutazione che sulla base di quelle prove consentono di pervenire alle conclusioni alle quali è pervenuta", atteso che "nella impugnata sentenza in poche righe si dà atto della colpevolezza dell'odierno ricorrente con riferimento ai fatti allo stesso contestati senza che vi sia un percorso motivazionale a tal proposito"), senza che venga operato alcun effettivo confronto con il percorso motivazionale della stessa sentenza e senza che vengano a essa rivolte delle specifiche censure; b) nell'immotivata richiesta di esclusione dell'attribuita recidiva, anche in questo caso senza operare alcun confronto con le ragioni di tale attribuzione. 4. Il ricorso di Di.Pi., a firma dell'avv. DE.SP.. 4.1. Il primo motivo (punto 7.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa (capo 2 dell'imputazione; punto 7.1.1. della parte in fatto), estorsione (capo 11 dell'imputazione; punto 7.1.2. della parte in fatto) e traffico illecito di sostanze stupefacenti (capo 12 dell'imputazione; punto 7.1.3. della parte in fatto) è fondato limitatamente al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione mentre non è consentito con riguardo ai reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione e di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione. 4.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso "Cosa Nostra", si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle due autonome dichiarazioni dei collaboratori di giustizia So.Sa. e Bi.Sa. i quali avevano riferito: il primo, che il Di.Pi. era a completa disposizione del suocero Sc.Lu., che accompagnava agli incontri con altri membri del sodalizio mafioso, essendo ben consapevole della natura di tali incontri del suocero; il secondo (il quale aveva un ruolo apicale nel mandamento di M), che il Di.Pi. era l'alter ego del suocero Sc.Lu. Tali due chiamate in correità - le quali non si potevano ritenere logicamente smentite per il solo fatto che altri collaboratori di giustizia non avevano fatto riferimento al Di.Pi. - erano state suffragate dal contenuto di alcune conversazioni intercettate e dalle risultanze di servizi di osservazione, controllo e pedinamento, elementi dai quali era risultato come il Di.Pi. collaborasse fattivamente e consapevolmente all'attività "mafiosa" del suocero, svolgendo il ruolo di filtro per gli incontri dello Sc.Lu. con vari altri sodali, alcuni anche in posizione di vertice, contribuendo all'organizzazione di riunioni dello Sc.Lu. con gli stessi sodali, accompagnando il suocero a tali riunioni delle quali, rimanendo all'esterno dei luoghi in cui esse si svolgevano, si doveva ritenere garantire la sicurezza. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì l'elemento del rinvenimento dell'imputato, il 01/06/2016, nel possesso della somma di Euro 2.500,00, la quale, essendo ciò avvenuto immediatamente dopo lo svolgimento di una riunione (tra Te.Sa., Sc.Lu., Mi.Al. e De.Gi.) presso il magazzino dell'impresa "Ca.Ro.", veniva logicamente ritenuta essere ricollegabile all'attività di gioco che veniva svolta dalla stessa impresa. Infine, la Corte d'appello di Palermo valorizzava la commissione di reati scopo dell'associazione, tra cui, in particolare, quello di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, il quale, alla luce del contenuto di alcune conversazioni intercettate (conversazione del 15/11/2017 tra Te.Sa. e Sc.Lu.; conversazione del 30/11/2017 tra l'imputato e Ba., membro della famiglia 'ndranghetista da cui il Di.Pi. e lo Sc.Lu. si rifornivano di sostanza stupefacente), era risultato essere svolto nell'interesse della famiglia mafiosa. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi -, le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una diversa valutazione del significato probatorio degli elementi di priva, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 4.1.2. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione, il motivo è, come si è anticipato, fondato. Nella specie, la sussistenza del reato di estorsione richiederebbe o che l'autore del furto dello scooter fosse stato costretto, mediante minaccia, a consegnare un mezzo di valore superiore a quello che aveva rubato (del che, tuttavia, non vi è traccia nella motivazione della sentenza impugnata), o che la minaccia fosse stata esercitata nei confronti del padre dell'autore del furto (la persona offesa An.Ni.), in quanto soggetto estraneo rispetto alla pretesa azionata. Ciò posto, il Collegio ritiene che, nella motivazione della sentenza impugnata, non siano chiare le modalità dell'intervento dell'An.Ni. nella vicenda, se, cioè, questi sia stato costretto con la minaccia a procurare un nuovo ciclomotore al Di.Pi. o se, invece - come lo stesso An.Ni. aveva riferito alla polizia giudiziaria (pag. 243 della sentenza impugnata) - egli fosse spontaneamente intervenuto nella vicenda rendendosi disponibile a restituire, per conto del figlio autore del furto, un bene equivalente a quello che lo stesso figlio aveva rubato. La motivazione della sentenza impugnata non appare chiarire adeguatamente tale decisivo aspetto della vicenda. In particolare, la Corte d'appello di Palermo non ha chiarito da quale specifica frase dell'intercettata conversazione del Di.Pi. del 26/05/2017 che è riportata a pag. 244 della sentenza impugnata abbia tratto il convincimento che l'An.Ni. fosse stato costretto con la minaccia a procurare un nuovo ciclomotore al Di.Pi. né perché la stessa frase si dovesse intendere come comprovante una tale minaccia, non potendosi ritenere sufficiente, allo scopo, la mera sottolineatura della "veemenza delle espressioni utilizzate dal Di.Pi.". La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 4.1.3. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti, la Corte d'appello di Palermo l'ha fondata sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni, combinato con gli esiti dei servizi di osservazione che erano stati effettuati dalla polizia giudiziaria (i quali avevano, tra l'altro, documentato i numerosi viaggi in Calabria che erano stati svolti dal Di.Pi., anche con il Lu.Pi.). In particolare, dal contenuto, tra gli altri: della conversazione del 02/02/2017 tra il coimputato Lu.Pi. e un appartenente alla nota famiglia calabrese di trafficanti di stupefacenti Ba., nella quale conversazione si faceva espresso riferimento alla natura e alla qualità della sostanza stupefacente (crack) della quale il Di.Pi. e il Lu.Pi. stavano trattando l'acquisto dai suddetti Ba.; della conversazione del 03/02/2017 tra il Di.Pi. e il Lu.Pi., confermativa del fatto che costoro stavano dialogando di sostanza stupefacente del tipo "pesante"; della conversazione del 08/04/2017, sempre tra il Di.Pi. e il Lu.Pi., nel corso della quale i due discorrevano dei prezzi dello stupefacente e della modalità di pagamento dello stesso. Da tali elementi, oltre che dal contenuto delle altre conversazioni che erano state valorizzate dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (pagine da 249 a 265 della sentenza impugnata), la Corte d'appello di Palermo traeva la conclusione, che appare del tutto logica, che il Di.Pi., insieme con il Lu.Pi., aveva posto in essere un traffico illecito di sostanze stupefacenti con la collaborazione della menzionata famiglia calabrese dei Ba. Traffico che, tenuto conto dei riferimenti che Ba. aveva fatto ad autorizzazioni che il Di.Pi. avrebbe dovuto ottenere, dei riferimenti dello stesso Ba. a Sc.Lu. (ancorché non direttamente coinvolto nella vicenda e, perciò, assolto dall'imputazione dal G.u.p. del Tribunale di Palermo) e della riconosciuta appartenenza del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Br., si doveva ritenere realizzato con il coinvolgimento e l'approvazione della stessa famiglia mafiosa, con la conseguente integrazione, così logicamente argomentata, anche della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza che quelle invocate si possano ritenere delle effettive contraddizioni o delle manifeste illogicità della motivazione, con la conseguenza che il motivo appare in realtà tentare di introdurre una nuova valutazione delle prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 4.2. Il secondo motivo (punto 7.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è fondato. A fronte di uno specifico motivo di appello del Di.Pi. sul punto (il quarto motivo dell'atto di appello dell'imputato), la Corte d'appello di Palermo ha infatti del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche con riferimento alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio anche su tale punto. 4.3. Il terzo motivo (punto 7.3 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 7.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 7.3.2 della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. 4.3.1. Quanto alla conferma della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata, come si è visto al punto 1.2, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, di cui il Di.Pi. faceva parte, disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava dagli elementi di prova che si sono indicati sempre al punto 1.2. A fronte dei ricordati (al punto 1.2) principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e degli effettuati non censurabili accertamenti in fatto, si deve reputare che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, anche da parte del Di.Pi.), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine (o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi). 4.3.2. Quanto alla conferma della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati, come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata), rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei ricordati (al punto 1.3) principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nel suo ricorso, non potendo evidentemente assumere contrario rilievo il fatto che la circostanza aggravante in questione possa essere stata asseritamente esclusa nell'ambito di altri diversi procedimenti penali. 4.4. Il quarto motivo (punto 7.4 della parte in fatto) è manifestamente infondato. Come si è visto al punto 4.1.1, la Corte d'appello di Palermo ha compiutamente esposto gli elementi probatori dimostrativi delle attività funzionali agli scopi della famiglia mafiosa di Co. e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento di tale sodalizio criminoso che erano state poste in essere dal Di.Pi., traendone la conclusione, corretta in diritto e priva di vizi logici, della partecipazione dello stesso Di.Pi. alla suddetta famiglia mafiosa di Co.. A fronte di ciò, cioè una volta che la Corte d'appello di Palermo aveva compiutamente motivato, nei termini che si sono detti, la partecipazione del Di.Pi. all'associazione mafiosa, risultava evidentemente logicamente assorbita ogni questione relativa alla configurabilità di altre alternative ipotesi di reato, tra cui anche quella, prospettata in questa sede, del favoreggiamento personale. Quanto alla circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa ritenuta con riferimento al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti, si è già detto al punto 4.1.3 della congruità e logicità della motivazione della sentenza impugnata al riguardo. La questione della sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso con riguardo al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione (pag. 247 della sentenza impugnata) è invece assorbita dall'accoglimento del motivo di ricorso relativo all'affermazione di responsabilità per tale reato. 5. Il ricorso di Ur.En., a firma dell'avv. DE.SP. 5.1. Il primo motivo (punto 8.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione, è in parte non consentito e in parte manifestamente infondato. Esso non è consentito là dove, con esso, si lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe asseritamente limitata "a dare per certo e per scontato, in assenza di riscontri probatori certi, che l'Ur.En. fosse consapevole del fatto che la sua condotta potesse agevolare la consorteria mafiosa". Tale doglianza - la quale attiene all'elemento psicologico del reato, non essendo in contestazione la sussistenza dell'elemento materiale dello stesso, integrato dalla messa a disposizione dell'appartamento dell'imputato per le riunioni "mafiose" dei membri del mandamento di Br. - omette infatti del tutto di confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla consapevolezza, da parte dell'imputato, di fornire assistenza, con la propria condotta, a dei soggetti di spicco della consorteria mafiosa (in particolare, tra gli altri, a Te.Sa. e a Sc.Lu.). Contrariamente a quanto è sostenuto dal ricorrente, la Corte d'appello di Palermo non ha affatto dato "per certa e per scontata" tale consapevolezza, ma l'ha, al contrario, motivata, traendola (riassuntivamente) dalle notevoli cautele che l'imputato adoperava nel mettere il proprio appartamento a disposizione dei sodali. Il motivo è quindi, sul punto, del tutto aspecifico e, perciò, non consentito. Lo stesso motivo è, per il resto - in particolare là dove, con esso, si deduce l'insussistenza della "coincidenza temporale dell'attività di assistenza prestata (...) con l'operatività dell'associazione" - manifestamente infondato, atteso che, nel 2017, quando l'Ur.En. pose in essere la condotta di assistenza agli associati a lui attribuita, l'associazione criminale mafiosa era, in tutta evidenza, operativa, come è risultato accertato nella stessa sentenza impugnata, la quale ha attribuito agli imputati il reato associazione di tipo mafioso che era stato loro contestato "fino al 2 luglio 2019". 5.2. Il secondo motivo (punto 8.2 della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche (punto 8.2.1 della parte in fatto) e l'eccessività della pena inflitta (punto 8.2.2 della parte in fatto), è fondato sotto il primo di tali due profili mentre non è consentito, attesa la sua genericità, sotto il secondo di essi. 5.2.1. Quanto al primo profilo, si deve rilevare che, a fronte di uno specifico motivo di appello dell'Ur.En. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il quarto motivo dell'atto di appello dell'imputato), la Corte d'appello di Palermo ha del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 5.2.2. Quanto al secondo profilo del motivo, si deve rilevare la genericità delle doglianze del ricorrente in ordine all'asserita "eccessività della pena inflitta" (che è stata determinata dalla Corte d'appello di Palermo in 3 anni di reclusione, ridotti a 2 anni di reclusione per la scelta del rito abbreviato). A sostegno dell'"eccessività" di tale inflitta pena e della necessità di determinare invece la stessa pena nella misura del minimo edittale, il ricorrente ha invocato ""la necessaria circoscrizione degli elementi caratterizzanti la condotta ascritta", "il contesto situazionale in cui va inserito l'occorso", "i rilievi afferenti la personalità", "il di lui ruolo", senza tuttavia minimamente specificare quali sarebbero i suddetti invocati "elementi caratterizzanti" la condotta, "contesto situazionale" in cui essa si inseriva, "rilievi afferenti la personalità" e suo "ruolo" e perché gli stessi avrebbero giustificato l'irrogazione di una pena nella misura del minimo edittale, con la conseguente assoluta genericità del motivo. Quanto, poi, alla scelta del rito abbreviato, essa comporta ex lege la diminuzione di un terzo della pena "base" determinata dal giudice ma non costituisce, evidentemente, un elemento suscettibile di incidere sulla determinazione di tale pena "base". 6. Il ricorso di Lu.Pi., a firma dell'avv. Vi.Gi.. 6.1. Il primo motivo (punto 9.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, non è consentito. Come si è visto al punto 4.1.3 nell'esaminare la posizione del coimputato Di.Pi., la Corte d'appello di Palermo ha fondato la conferma dell'affermazione di responsabilità del Lu.Pi. per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni, combinato con gli esiti dei servizi di osservazione che erano stati effettuati dalla polizia giudiziaria (i quali avevano, tra l'altro, documentato i numerosi viaggi in Calabria che erano stati svolti dal Lu.Pi., anche con il Di.Pi.). In particolare, dal contenuto, tra gli altri: della conversazione del 02/02/2017 tra Lu.Pi. e un appartenente alla nota famiglia calabrese di trafficanti di stupefacenti Ba., nella quale conversazione si faceva espresso riferimento alla natura e alla qualità della sostanza stupefacente (crack) della quale il Lu.Pi. e il Di.Pi. stavano trattando l'acquisto dai suddetti Ba.; della conversazione del 03/02/2017 tra il Lu.Pi. e il Di.Pi., confermativa del fatto che costoro stavano dialogando di sostanza stupefacente del tipo "pesante"; della conversazione del 08/04/2017, sempre tra il Lu.Pi. e il Di.Pi., nel corso della quale i due discorrevano dei prezzi dello stupefacente e della modalità di pagamento dello stesso. Da tali elementi, oltre che dal contenuto delle altre conversazioni che erano state valorizzate dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (pagine da 249 a 265 della sentenza impugnata), la Corte d'appello di Palermo traeva la conclusione, che appare del tutto logica, che il Lu.Pi., insieme con il Di.Pi., aveva posto in essere un traffico illecito di sostanze stupefacenti con la collaborazione della menzionata famiglia calabrese dei Ba. La stessa Corte d'appello ha altresì evidenziato come l'arresto del Lu.Pi. (il 5 ottobre 2017) si doveva ritenere avvenuto quando le consegne della sostanza stupefacente erano già state effettuate, come si evinceva, logicamente, dal fatto che i Ba. ne avevano rivendicato il pagamento. A fronte di tale motivazione, anche il motivo di ricorso del Lu.Pi. si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza che quelle invocate si possano ritenere delle effettive contraddizioni o delle manifeste illogicità della motivazione, o travisamenti di decisivi elementi probatori, con la conseguenza che lo stesso motivo appare in realtà tentare di introdurre una nuova valutazione delle prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 6.2. Il secondo motivo (punto 9.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, non è fondato. Come si è visto sempre al punto 4.1.3 nell'esaminare la posizione del coimputato Di.Pi., la Corte d'appello di Palermo ha fondato l'attribuzione della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa - non risultando, dalla motivazione della sentenza impugnata (pagg. 271-273 della stessa sentenza), l'attribuzione anche della circostanza aggravante del metodo mafioso - sugli elementi, i quali erano emersi dalle conversazioni intercettate, che: Ba.Pa. aveva fatto continui riferimenti ad autorizzazioni che il concorrente Di.Pi. avrebbe dovuto ottenere; lo stesso Ba.Pa. aveva fatto altresì riferimento a Sc.Lu. (ancorché non direttamente coinvolto nella vicenda); il concorrente Di.Pi. era stato riconosciuto appartenere alla famiglia mafiosa di Br.. Da tali elementi la Corte d'appello di Palermo aveva tratto il convincimento che il traffico illecito di stupefacenti si doveva ritenere realizzato con il coinvolgimento e l'approvazione della stessa famiglia mafiosa, con la conseguente integrazione - che appare così logicamente argomentata - della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa. Tale motivazione della conferma dell'attribuzione della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa appare priva di contraddizioni e di manifeste illogicità, sicché sottrae alle censure del ricorrente. 6.3. Il terzo motivo (punto 9.3 della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche (punto 9.3.1 della parte in fatto) e la conferma della pena che era stata inflitta dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (punto 9.3.2 della parte in fatto), è fondato sotto il primo di tali due profili mentre non è consentito, attesa la sua genericità, sotto il secondo di essi. 6.3.1. Quanto al primo profilo, si deve rilevare che, a fronte di uno specifico motivo di appello del Lu.Pi. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il terzo motivo dell'atto di appello dell'imputato; pagg. 15-17), la Corte d'appello di Palermo ha del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 6.3.2. Quanto al secondo profilo del motivo, si deve rilevare la genericità delle doglianze che erano state avanzate dal ricorrente nel proprio atto di appello in ordine alla determinazione della misura della pena (che era stata determinata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo, ed è stata confermata dalla Corte d'appello di Palermo, in 4 anni e 4 mesi di reclusione, così già ridotti per la scelta del rito abbreviato). A tale proposito, si deve premettere che, per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti cosiddette "pesanti", il comma 1 dell'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 prevede una pena detentiva da 6 a 20 anni di reclusione, con la conseguenza che la pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione che è stata irrogata nella specie, così ridotta per la scelta del rito abbreviato, per il suddetto reato aggravato dall'agevolazione mafiosa risulta assai prossima al minimo edittale (la stessa pena, prima della riduzione per il rito abbreviato, era infatti di 6 anni e 6 mesi di reclusione). A fronte di ciò, nel proprio atto di appello (terzo motivo, di cui alle pagg. 15-17, con il quale l'imputato aveva lamentato anche la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche), il Lu.Pi., con riguardo alla pena e, in particolare, alla sua asserita "eccessività", si era limitato a rappresentare genericamente l'"assenza di una reale gravità del fatto contestato, sulla base dei criteri di cui all'art. 133 c.p.", senza indicare alcuna specifica caratteristica di tale fatto che, in quanto tale da escluderne la "reale gravità", avrebbe dovuto indurre a una riduzione della pena irrogata e alla sua determinazione nella misura del minimo edittale. A fronte dì tale mancanza di specificità del motivo di appello e, perciò, dell'inammissibilità di esso (ancorché non rilevata dalla Corte d'appello di Palermo), si deve escludere la sussistenza di un obbligo della stessa Corte d'appello di motivare in ordine al medesimo motivo, mentre le doglianze che sono state avanzate dal ricorrente in questa sede appaiono anch'esse, oltre che ormai inammissibili, attesa l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello, del tutto generiche. 7. Il ricorso di Mi.Al., a firma dell'avv. DE.SP. 7.1. Il primo motivo (punto 10.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2 dell'imputazione (punto 10.1.1. della parte in fatto) e trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione (punto 10.1.2. della parte in fatto), non è consentito. 7.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co., si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Al. alla suddetta famiglia mafiosa. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle tre autonome dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Va.Pa., Ga.Vi. e Bi.Fi., i quali avevano riferito: il primo (Va.Pa.), che il Mi.Al. era soggetto specializzato nelle slot machines e in rapporto con Na.Br., reggente della famiglia mafiosa di Br., con cui, nell'ambito del procedimento cosiddetto "Zefiro", erano stati documentati degli incontri nel corso dei quali Mi.Al. aveva consegnato del denaro al Na.Br., circostanza che, ad avviso della Corte d'appello di Palermo, costituiva un significativo riscontro alle concordanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che avevano indicato come il ruolo del Mi.Al. consistesse nel contributo da lui fornito nel settore, di interesse di "Cosa Nostra", delle slot machines; il secondo (Ga.Vi.), che Mi.Al. era uomo a disposizione della famiglia mafiosa di Co. ("era a disposizione, uomo di loro, di quel clan"), dichiarazione che, nonostante il collaboratore facesse riferimento a un periodo più risalente di quello in contestazione, era stata comunque logicamente ritenuta dalla Corte d'appello di Palermo come confermativa del ruolo che Mi.Al. aveva sempre avuto nell'ambito dell'associazione criminosa; il terzo (Bi.Fi.), di avere appreso da Te.Sa. che Mi.Al. era il soggetto che, per conto di "Cosa Nostra" di Co., si occupava del gioco. Tali tre chiamate in correità erano ritenute suffragate sia dalle risultanze di servizi di osservazione, controllo e pedinamento, le quali avevano attestato la partecipazione del Mi.Al. a diverse riunioni con altri sodali mafiosi, sia dall'accertato (sulla scorta del contenuto di alcune intercettate conversazioni relative alla vicenda) contributo che era stato dato dall'imputato alla costituzione di (...) Srl e alla fittizia intestazione di tale società a dei prestanome (di Te.Sa. e di Sc.Lu., oltre che dello stesso Mi.Al.), con ciò fornendo, il Mi.Al., un importante apporto alla realizzazione degli scopi della famiglia di Co., nelle persone dei suoi due menzionati esponenti di rilievo Te.Sa. e Sc.Lu. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Al. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi - le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire ai menzionati elementi di prova, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 7.1.2. La Corte d'appello di Palermo ha fondato l'affermazione di responsabilità di Mi.Al. per il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra Te.Sa. e Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dagli stessi te.Sa. e Sc.Lu., come costoro fossero i reale titolari di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto del Te.Sa. e dello Sc.Lu., da Mi.Al., il quale aveva seguito la costituzione della società sin dalla fase dell'affitto dell'immobile destinato a sede della stessa e teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che Te.Sa., Sc.Lu. e Mi.Al. avevano, in concorso tra loro, fittiziamente attribuito a Na.Gi. e La.Pa. la titolarità di (...) Srl, la quale veniva gestita, per conto del Te.Sa. e dello Sc.Lu., da Mi.Al. La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come il Te.Sa. e lo Sc.Lu. avessero fatto ricorso a tale fittizia intestazione a persone insospettabili (Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo dei pregiudicati mafiosi, avevano il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che avevano, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche del dolo specifico del reato, del quale il Mi.Al., alla luce dei menzionati caratteri del suo contributo concorsuale, si doveva ritenere essere consapevole. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso - nel quale, peraltro, si discetta per lo più di fatti relativi al capo 14) dell'imputazione, per il quale il ricorrente è stato assolto dalla Corte d'appello di Palermo - si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in questa sede di legittimità. 7.2. Il secondo motivo (punto 10.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, non è fondato. Posti i principi affermati dalla Corte di cassazione in tema di attenuanti generiche che si sono rammentati al punto 2.11., si deve rilevare che, nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha confermato il diniego della concessione delle suddette circostanze attenuanti ritenendo decisivo e prevalente, a tale fine, l'elemento dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato, così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano stati dedotti dall'imputato in sede di appello e che sono richiamati nel suo ricorso. Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità ai quali si è fatto rinvio, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede. 7.3. Il terzo motivo (punto 10.3 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 10.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 10.3.2. della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. Poiché il ricorrente sviluppa argomentazioni che coincidono con quelle che sono state sviluppate nel terzo motivo del ricorso di Di.Pi., per l'illustrazione delle ragioni delle indicate manifesta infondatezza e infondatezza del presente motivo si fa rinvio alla motivazione relativa al suddetto terzo motivo del ricorso di Di.Pi., di cui, rispettivamente, al punto 4.3.1. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata), e al punto 4.3.2. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati). 8. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo (punto 3 della parte in fatto; ricorso che viene esaminato ora, in quanto attiene alla posizione dell'imputato Mi.Al., il cui ricorso è stato appena scrutinato), non è fondato sotto entrambi i profili in cui è articolato. Quanto al primo profilo (di cui alla lett. a del punto 3 della parte in fatto), si deve osservare che, ancorché la Corte d'appello di Palermo, nell'esaminare il reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, abbia affermato che l'appello di Mi.Al. era "fondato limitatamente alla dosimetria della pena" e abbia fatto riferimento anche a responsabilità dello stesso Mi.Al. per i fatti di cui al capo 14) dell'imputazione, la stessa Corte d'appello, nell'esaminare specificamente proprio quest'ultimo reato, ha diffusamente motivato in ordine al fatto che Mi.Al. non lo aveva commesso e doveva, perciò, essere assolto (pagg. 326-327 della sentenza impugnata), sicché, diversamente da quanto ritenuto dal Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo (che ha trascurato di considerare le suddette pagg. 326-327 della sentenza impugnata), del tutto conseguentemente, nel dispositivo, la Corte d'appello di Palermo ha dichiarato l'assoluzione di Mi.Al. dal reato di cui al capo 14) dell'imputazione per non avere commesso il fatto. Quanto al secondo profilo del motivo (di cui alla lett. b del punto 3 della parte in fatto), esso si deve ritenere generico, atteso che, dal passo della motivazione della sentenza impugnata (tratto dalla pag. 476 di essa) che è stato citato alla pag. 4 del ricorso, si ricava soltanto che la Corte d'appello di Palermo ha legittimamente e insindacabilmente provveduto a ridurre la pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo in conseguenza dell'assoluzione del Mi.Al. dal reato di cui al capo 14) dell'imputazione della quale si è detto sopra. 9. Il ricorso di Mi.Pa., a firma dell'avv. DE.SP. 9.1. Il primo motivo (punto 11.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2 dell'imputazione (punto 11.1.1. della parte in fatto) e dì estorsione di cui al capo 11 dell'imputazione (punto 11.1.2. della parte in fatto), è fondato limitatamente a quest'ultimo reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione mentre non è consentito con riguardo al reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione. 9.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso, si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Pa. alla famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Bi.Fi., il quale aveva parlato di Mi.Pa. come dell'uomo ombra di Sc.Lu., che accompagnava agli appuntamenti con altri appartenenti al sodalizio criminoso. Tale chiamata in correità era ritenuta suffragata dalle risultanze di servizi di osservazione, dalle riprese delle telecamere di videosorveglianza e dal contenuto di alcune conversazioni intercettate; elementi dai quali era risultato come Mi.Pa. fosse l'uomo di fiducia di Sc.Lu., del cui ruolo all'interno della famiglia mafiosa di Co. era pienamente consapevole e per il quale si adoperava non solo accompagnandolo agli incontri con altri sodali ma anche concordando gli stessi incontri (anche con la collaborazione di Mi.Lo., portiere dello stabile di via (omissis), n. (omissis)). La suddetta consapevolezza veniva in particolare ritenuta comprovata alla luce: del linguaggio criptico che veniva utilizzato dal Mi.Pa. nelle conversazioni con lo Sc.Lu. e il Mi.Lo.; della consegna, da parte dell'imputato allo Sc.Lu., di un "pizzino" proveniente da Bi.Fi. (come era risultato dalle immagini del sistema di video-sorveglianza che era stato attivato nei pressi del menzionato stabile di via (omissis), n. (omissis) - le quali mostravano la consegna di un foglio scritto da parte del Bi.Sa. al Mi.Lo. e, poi, da parte del Mi.Lo. al Mi.Pa. - e dalla successiva telefonata del Mi.Pa. allo Sc.Lu.); della consegna, prima di un incontro tra sodali, da parte dello Sc.Lu. al Mi.Pa., del cellulare del primo, con l'evidente fine di evitare captazioni delle conversazioni che avrebbero avuto luogo nel corso dello stesso incontro. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì logicamente (a ciò non ostando il fatto che il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti non fosse stato contestato al ricorrente) l'elemento della partecipazione di Mi.Pa. a uno dei viaggi in Calabria (quello del 01/12/2016) che vennero compiuti da Di.Pi. per acquistare sostanza stupefacente dalla famiglia 'ndranghetista dei Ba., nella piena consapevolezza, da parte del Mi.Pa., della finalità dello stesso viaggio, come risultava dal contenuto di un'intercettata conversazione del 30/11/2017 tra il Di.Pi. e Ba.Pa. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Pa. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi - le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova sopra menzionati, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 9.1.2. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione, il motivo è, come si è anticipato, fondato. Ciò per le stesse ragioni che sono state esposte al punto 4.1.2. con riguardo all'accoglimento dell'analogo profilo di doglianza che era stato avanzato con il primo motivo del ricorso di Di.Pi., ragioni alle quali si può, perciò, fare rinvio. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 9.2. Il secondo motivo (punto 11.2. della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è fondato. A fronte di uno specifico motivo di appello di Mi.Pa. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il terzo motivo dell'atto di appello dell'imputato), e considerato l'annullamento della sentenza impugnata in relazione al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, si deve ritenere necessario un nuovo giudizio della Corte d'appello di Palermo anche sul punto della concessione (o no) delle circostanze attenuanti generiche, il quale giudizio possa tenere conto, nel valutare il grado di offensività della condotta dell'imputato (pag. 477 della sentenza impugnata), anche degli esiti del nuovo giudizio in ordine al reato di cui al capo 11) dell'imputazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio anche su tale punto. 9.3. Il terzo motivo (punto 11.3. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 11.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 11.3.2. della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. Poiché il ricorrente sviluppa argomentazioni che coincidono con quelle che sono state sviluppate nel terzo motivo del ricorso di Di.Pi., per l'illustrazione delle ragioni delle indicate manifesta infondatezza e infondatezza del presente motivo si fa rinvio alla motivazione relativa al suddetto terzo motivo del ricorso di Di.Pi., di cui, rispettivamente, al punto 4.3.1. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata), e al punto 4.3.2. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati). 10. Il ricorso di Mi.Lo., a firma dell'avv. EL.GA. 10.1. Il primo motivo (punto 12.1. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di concorso esterno in un'associazione di tipo mafioso di cui al capo 2) dell'imputazione, non è consentito. A tale proposito, si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento del ritenuto concorso esterno del Mi.Lo. nella famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provato tale concorso sulla base delle risultanze di servizi di osservazione, delle riprese delle telecamere di videosorveglianza e del contenuto di alcune conversazioni intercettate. Da tali elementi di prova era risultato come il Mi.Lo., che era il portiere dello stabile di via (omissis), n. (omissis), non si era limitato a svolgere tali mansioni, come era stato sostenuto dalla difesa dell'imputato, ma si era consapevolmente e sistematicamente (dal novembre 2015 al maggio 2018) adoperato per consentire il mantenimento di canali informativi tra i membri della famiglia mafiosa senza l'attivazione di contatti telefonici diretti tra i sodali, assicurando così la natura riservata dei loro incontri (che si svolgevano nel suddetto stabile di via (omissis), n. (omissis)) - in particolare, di numerosi incontri tra Te.Sa. e Sc.Lu. e tra quest'ultimo e Gi.An., Vi. e Bi.Fi. -, prestandosi anche, in un caso (come era risultato dalle immagini del sistema di videosorveglianza che era stato attivato nei pressi dello stabile di via (omissis), n. (omissis), le quali mostravano la consegna di un foglio scritto da parte di Bi.Fi. al Mi.Lo. e, poi, da parte del Mi.Lo. a Mi.Pa.), a fungere da tramite per la consegna di un "pizzino" logicamente ritenuto indirizzato dal Bi.Sa. allo Sc.Lu. Dai sopra menzionati elementi di prova era emerso, come è stato debitamente evidenziato dalla Corte d'appello di Palermo, che il compito di consentire il mantenimento dei canali informativi tra gli indicati membri della famiglia mafiosa - così recando un contributo al mantenimento e al rafforzamento della stessa famiglia nel suo insieme - era svolto dal Mi.Lo. facendo ricorso all'utilizzo, nelle proprie conversazioni, dì un concordato convenzionale linguaggio criptico, che faceva riferimento alla necessità di inviare ambulanze, a inesistenti malesseri o, addirittura, alla mai avvenuta morte della condomina sig.ra Fa., al pagamento di conti, a servizi cimiteriali. Il ricorso, da parte dell'imputato, a tali stratagemmi al fine di ottenere la presenza, presso lo stabile di via (omissis), n. (omissis), in particolare, di Sc.Lu., erano ritenuti dalla Corte d'appello di Palermo logicamente dimostrativi della piena consapevolezza, da parte del Mi.Lo., della caratura criminale dello stesso Sc.Lu., di Te.Sa. e degli altri partecipanti agli incontri, e del contributo che egli, con la propria condotta, stava dando alla realizzazione, sia pure parziale, del programma criminoso del sodalizio mafioso. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento del ritenuto concorso esterno del Mi.Lo. alla famiglia mafiosa di Co. - attesa l'attività funzionale agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabile come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi (pur senza essere il Mi.Lo. inserito stabilmente nella struttura organizzativa della famiglia mafiosa e pur essendo egli privo della cosiddetta affectio societatis) -, le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova sopra menzionati, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 10.2. Il secondo motivo (punto 12.2. della parte in fatto), il quale attiene alla mancata qualificazione del fatto di cui al capo 2) dell'imputazione come reato di assistenza agli associati di cui all'art. 418 cod. pen., non è fondato. La Corte d'appello di Palermo, con un accertamento in fatto che, in quanto esente da contraddizioni e da illogicità manifeste (come si è detto al punto 10.1.) non è censurabile in questa sede, ha riscontrato come l'imputato, con la propria condotta, avesse assicurato il mantenimento di canali informativi tra i membri della famiglia mafiosa in modo stabile e sistematico (dal novembre 2015 al maggio 2018), così non tanto prestando assistenza a taluno degli associati ma fornendo un concreto e consapevole contributo al sodalizio mafioso nel suo insieme. Alla luce di ciò, la qualificazione del fatto come concorso nel reato di associazione di tipo mafioso e non come mera assistenza agli associati si deve ritenere del tutto corretta. 10.3. Il terzo motivo (punto 12.3. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, non è fondato. Posti i principi affermati dalla Corte di cassazione in tema di attenuanti generiche che si sono rammentati al punto 2.11., si deve rilevare che, nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha confermato il diniego della concessione delle suddette circostanze attenuanti ritenendo decisivo e prevalente, a tale fine, l'elemento dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato, così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano stati dedotti dall'imputato in sede di appello e che sono richiamati nel suo ricorso, avendo, altresì, la stessa Corte d'appello correttamente escluso che si potessero ritenere elementi positivamente valutabili il mero stato di incensurato del Mi.Lo. e il fatto che egli si fosse sottoposto all'interrogatorio di garanzia (negando l'addebito). Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità ai quali si è fatto rinvio, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede. 1.4. Il quarto motivo (punto 12.4. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della determinazione della misura della pena, è fondato sotto entrambi i profili in cui è articolato. La Corte d'appello di Palermo, infatti: a) da un lato, ha completamente omesso di motivare, con riferimento ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., in ordine alle ragioni che l'hanno indotta a determinare la pena irrogata al Mi.Lo. nella misura di dodici anni di reclusione; b) dall'altro lato, ha stabilito tale pena nella stessa misura che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per il reato aggravato ai sensi del quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., senza considerare che, poiché tale circostanza aggravante era stata esclusa dalla stessa Corte d'appello (insieme con la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen.; pagg. 201-202 della sentenza impugnata), ciò imponeva la riduzione della pena che era stata inflitta in primo grado per il reato aggravato. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 1.5. Il quinto motivo (punto 12.5. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione delle statuizioni nei confronti delle parti civili "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Federazione Provinciale del Commercio, del Turismo, dei Servizi, della Professioni e delle Piccole e Medie Imprese di Palermo-Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria-organizzazione territoriale del sistema Confindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS", "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", è fondato. Dagli atti di costituzione di tali parti civili, non risulta infatti che le stesse si siano costituite nei confronti del Mi.Lo. Si deve rilevare che nessuna contestazione è stata sollevata dal ricorrente con riguardo alle statuizioni nei confronti della parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An." La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche limitatamente alle statuizioni nei confronti di tutte le parti civili tranne che nei confronti di "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.". 11. Il ricorso di Te.Ca., a firma dell'avv. Vi.Gi. 11.1. Il primo motivo (punto 13.1. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione, deve essere accolto. Ciò per le stesse ragioni che sono state esposte al punto 4.1.2. con riguardo all'accoglimento del profilo di doglianza che era stato avanzato con il primo motivo del ricorso di Di.Pi. in ordine alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il suddetto reato di estorsione, ragioni le quali, essendo esse relative alla sussistenza stessa del reato, prima ancora che all'individuazione dei soggetti che lo avrebbero commesso, risultano assorbenti rispetto alle doglianze che sono state avanzate dal Te.Sa. e alle quali si può, perciò, fare rinvio. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 11.2. L'esame del secondo motivo (punto 13.2. della parte in fatto), del terzo motivo (punto 13.3. della parte in fatto) e del quarto motivo (punto 13.4. della parte in fatto) resta assorbito dall'accoglimento del primo motivo. 12. Dal rigetto dei ricorsi di Te.Sa. e di Mi.Al. consegue la condanna di tali ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento. Dalla dichiarazione di inammissibilità del ricorso di Ma.Vi. consegue la condanna di tale ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende. Te.Sa., Ma.Vi., Mi.Al. e Mi.Lo. devono essere condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.", che si liquidano in complessivi Euro 4.563,00, oltre accessori di legge. Te.Sa. e Mi.Al. devono essere condannati altresì alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS" e "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", che si liquidano, per ciascuna delle suddette parti civili, in complessivi Euro 4.563,00, oltre accessori di legge. La Corte d'appello di Palermo provvederà alle statuizioni relative alla liquidazione delle spese nei confronti delle parti civili da parte degli imputati rispetto ai quali non si è provveduto in questa sede. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Ur.En. e Lu.Pi. limitatamente alle circostanze generiche, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio sul punto; rigetta nel resto i ricorsi; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Te.Ca. con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Di.Pi. e Mi.Pa. limitatamente al reato di cui al capo 11) e alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio sui predetti punti; rigetta nel resto i ricorsi; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Mi.Lo. limitatamente al trattamento sanzionatorio e alle statuizioni nei confronti di tutte le parti civili tranne che nei confronti dell'Associazione Nazionale Lotta contro Illegalità e Mafie Ca.An. in persona del proprio rappresentante; rigetta nel resto il ricorso; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Sc.Lu. limitatamente all'aumento di pena inflitta per la continuazione e alla misura di sicurezza, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio su detti punti; rigetta nel resto il ricorso; rigetta i ricorsi di Te.Sa., Mi.Al. e del Procuratore Generale e condanna i soli Te.Sa. e Mi.Al. al pagamento delle spese processuali; dichiara inammissibile il ricorso di Ma.Vi. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna Te.Sa., Ma.Vi., Mi.Al. e Mi.Lo. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Associazione Nazionale Lotta contro Illegalità e Mafie Ca.An. in persona del proprio rappresentante, che liquida in complessivi euro 4.563,00 oltre accessori di legge; condanna Te.Sa. e Mi.Al. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Solidaria s.c.s. Onlus, S.O.S. Impresa Rete per la Legalità Sicilia, Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo, Sicindustria in persona del presidente p.t. e l. r. p.t., Centro Studi e Iniziative Culturali La.Pi. Onlus in p. l. r. p.t., FAI - Federazione delle Associazioni Antiracket ed Antiusura Italiane, che liquida per ciascuna delle suddette parti civili in complessivi euro 4.563,00 oltre accessori di legge Così deciso in Roma, il 15 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Corte d'Appello di L'Aquila La Corte, riunita in camera di consiglio e composta dai seguenti (...) Dr. (...) relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di appello n. (...)/2024 R.G., trattenuta in decisione in esito a deposito di note scritte in sostituzione dell'udienza di discussione del 22.05.2024, vertente tra (...) in persona del (...) della (...) p.t., rappresentata e difesa ex lege dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di (...) presso i cui uffici del (...) di (...) s.n.c., è elettivamente domiciliata, appellante E (...) e (...) S.p.A., già (...) s.r.l., in persona del procuratore speciale (...) entrambi rappresentati e difesi dall'Avv. (...) ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest'ultimo in (...) P.zza (...) n. (...), giusti mandati apposti in calce alla memoria di costituzione e risposta in appello, appellati/appellanti incidentali Avverso: la sentenza n. (...)/2023 del Tribunale di (...) pubblicata il (...) all'esito del procedimento R.G. n. (...)/2021, non notificata, avente ad oggetto opposizione all'ordinanza-ingiunzione ex artt. 22 e ss. L. 689/1981. CONCLUSIONI DELLE PARTI Per l'appellante: "Si conclude affinché l'(...)ma Corte adita, in accoglimento delle rassegnate conclusioni, riformi integralmente la sentenza n. (...)/2023 del Tribunale di (...) del 07.08.2023, resa nel procedimento portante R.G. n. (...)/2021, non notificata, confermando l'impugnata ordinanza-ingiunzione n. (...)/(...) del 16.09.2021 emessa dalla (...) Con tutte le conseguenze di legge. Con vittoria di spese, competenze ed onorari di lite". Per gli appellati/appellanti incidentali: "A. Nel merito e in via principale: respingere, perché infondato in fatto e in diritto, l'appello proposto da (...) avverso la sentenza n. (...)/23, resa dal Tribunale di (...) Dott.ssa (...), B. In via incidentale: in riforma della impugnata sentenza sul capo delle spese, accogliere l'appello formulato in via incidentale dal (...) e dalla società (...) e, per l'effetto, in virtù della integrale soccombenza in primo grado: condannare (...) a rifondere agli odierni appellati le spese e competenze del primo grado, compensi determinati come da D.M. n. 55/2014 e ss.mm. e ii., oltre accessori di legge R.S.G., IVA e CPA, (...) 518,00 per contributo unificato, (...) 27,00 per anticipazione forfetaria delle spese di Giustizia. C. In ogni caso, con vittoria delle spese e competenze del grado di appello, oltre accessori di legge R.S.G., IVA e CPA., come per legge." SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO 1. Con la sentenza oggi impugnata il Tribunale di (...) così ebbe a decidere: "P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, accoglie l'opposizione proposta da (...) e dall'(...) srl con sede in (...) avverso l'Ordinanza - (...) di pagamento ex art. 18 L. 689/1981 - (...) di (...)/(...) del 16/9/2021 annullando la stessa. Compensa le spese". 2. I fatti e lo svolgimento del processo di primo grado possono essere sintetizzati come segue. 2.1 Con ricorso depositato in data (...) e la società (...) proponevano opposizione avverso l'ordinanza-ingiunzione (...)/(...) prot. 11392, emessa dalla (...) e Ambiente/Servizio Demanio Idrico e (...) il (...), con la quale veniva comminata (all'(...) in qualità di consulente tecnico/trasgressore e alla società quale obbligata in solido) la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 27.000,00 prevista dall'art. 133, co. 1 D.Lgs. 152/2006 per la violazione del precedente art. 101, comma 1, consistita nel superamento (asseritamente accertato con sommario processo verbale amministrativo n. 02/2021 del 02.02.2021, redatto dalla (...) "(...) e (...)"- (...) di (...) da (...) sulla scorta del rapporto di prova n. (...)/(...)/20 del 19.12.2020 emesso dall'(...) di (...) e del verbale di prelievo delle acque di scarico n. (...) del 13.10.2020, relativi all'impianto di depurazione della predetta (...) sito in "(...)" nel Comune di (...) dei limiti per i parametri solidi sospesi totali, (...), (...) ed (...) di cui alla (...) 3 dell'All. 5, parte (...) D.Lgs. 152/2006. 2.2 A sostegno dell'interposta opposizione, i ricorrenti deducevano in punto di fatto: - che in data (...) era stato loro notificato il citato SPV amministrativo n. 02/2021 con il quale veniva per l'appunto contestata l'effettuazione di uno scarico di acque reflue, in corsi d'acqua superficiali, con superamento dei valori limite di emissione fissati nelle tabelle di cui all'(...) 5, parte (...) - che il fatto contestato atteneva esclusivamente alla verifica dei campioni prelevati il (...) e identificati con il n. (...)/(...)/20, per i quali i risultati delle analisi di laboratorio pervenivano all'organo accertatore il (...) (ricevuta in ingresso con timbro di ricezione 27.12.2020, protocollata al n. (...) del successivo giorno 8.1.2021); - che a seguito di detta notifica, l'(...) e l'(...) presentavano scritti difensivi, con i quali chiedevano l'archiviazione del procedimento deducendo l'estinzione dell'obbligazione (per violazione da parte dell'accertatore del termine di 90 giorni, decorrenti dal 24.12.2020, per procedere alla formale contestazione, essendo mancata quella immediata ex art. 14, co. 1, 2 e 6, L. 689/1981) e l'inutilizzabilità del campione prelevato dai (...) il (...) per illegittimità del prelievo istantaneo; - che in data (...) la (...) emetteva l'ordinanza ingiunzione per cui è causa, nella quale evidenziava: a) la legittimità del campionamento istantaneo, per essere corrispondente al metodo (...); b) la non conformità dei campioni prelevati alle norme di legge, come da rapporto di prova n. (...)/(...)/(...)); c) la tempestività della notifica del (...) riportando le controdeduzioni fornite dai (...) ove si specificava che la stessa era stata effettuata non appena in possesso di tutti gli elementi utili all'accertamento (ovvero, le risultanze degli ulteriori rapporti di prova n. (...)/(...)/(...) del 15.03.2021 e n. (...)/(...)/(...) del 30.03.2021, relativi ai campioni per acqua e terreno prelevati nei pressi di un pozzetto in cemento), in considerazione del fatto che un'eventuale contaminazione accertata nei terreni avrebbe potuto portare ad ulteriori accertamenti e configurare violazioni anche di carattere penale. In punto di diritto, contestavano la legittimità e la fondatezza dell'ordinanza ingiunzione sulla scorta di quanto già stigmatizzato in sede di memorie difensive, deducendo in particolare: 1)la tardività della contestazione: non essendovi stata contestazione immediata, la notifica della violazione sarebbe dovuta avvenire, ai sensi dell'art. 14 L. 689/1981, entro 90 giorni dall'accertamento, corrispondente nel caso di specie al 24.12.2020, data in cui (...) comunicava via pec ai (...) di (...) da (...) i risultati dei prelievi delle acque di scarico che erano stati effettuati (dagli agenti, unitamente al personale dell'(...) il (...) presso il c.d. pozzetto fiscale della società, nell'ambito di accertamenti inerenti il procedimento penale (...)/2020 RGNR Procura di (...) essendo per contro avvenuta a distanza di 111 giorni, l'obbligazione doveva ritenersi estinta, essendo privi di pregio i rilievi addotti dalla (...) secondo cui il dies a quo decorreva dalla spedizione, da parte dell'(...) dei successivi messaggi pec del 15.03.2021 e del 30.03.2021, con i quali venivano comunicati, rispettivamente, gli esiti dei rapporti di prova n. (...)/(...)/(...) e n. (...)/(...)/(...). A parere dei ricorrenti detta tesi non era condivisibile, atteso che: nel SPV del 02.02.2021 i carabinieri facevano espresso riferimento unicamente al campione n. (...)/(...)/20; il verbale era di molto antecedente alle comunicazioni del 15.03.2021 e del 30.03.2021, per cui i relativi risultati non erano stati presi in considerazione; gli altri due prelievi erano stati effettuati in area esterna al perimetro dell'(...) e per attività di verifica che non venivano svolte in contraddittorio con il personale di questa, con conseguente violazione del diritto di difesa. Il provvedimento sanzionatorio n. (...)/(...), dunque, andava annullato, al pari di tutti gli atti presupposti. 2) l'illegittimità del prelievo compiuto in modalità istantanea, in violazione della normativa relativa alle acque reflue industriali (che prevede che le determinazioni ai fini del controllo di conformità degli scarichi debbano essere riferite ad un campione medio prelevato nell'arco di tre ore), effettuato peraltro senza indicare con puntualità particolari e motivate esigenze, ma solo "in considerazione delle infrastrutture e della situazione riscontrata all'atto del sopralluogo", e senza che ricorresse alcuna emergenza, esclusa dal fatto che già in data (...) era stato effettuato un sopralluogo presso l'(...) in occasione del quale veniva prelevato terreno vegetale. Aggiungevano che il campione prelevato non poteva ritenersi rappresentativo dello scarico delle acque, atteso che esso è attivo e variabile, a seconda delle singole lavorazioni di volta in volta in corso, mentre alcun rilievo poteva avere il richiamo operato dalla (...) nell'ordinanza opposta alle linee guida (...) inerenti il solo trasporto e le modalità di conservazione dei campioni di acqua, ma non anche le modalità di prelevamento. 3) l'insussistenza delle violazioni: l'alta concentrazione di escherichia coli rinvenuta in occasione del controllo del 13.10.2020 (confermata dall' "odore simile a quello di allevamento zootecnico" che emanava dalle acque reflue prelevate) non poteva essere ricondotta all'attività agricola della società (...) (da sempre dedita alla produzione di vini e nel cui terreno di proprietà possiede principalmente vigneti o colture simili), ma piuttosto a scarti di attività zootecniche estranee all'azienda; precisavano a tal riguardo che in data (...) la (...) aveva provveduto a sporgere denuncia querela contro ignoti per sversamento di liquami inquinanti di provenienza animale all'interno del proprio impianto di depurazione, ma ciononostante non era stata compiuta alcuna indagine volta ad accertare la presenza, a monte dell'impianto di depurazione, di animali vivi o macellati, attività di allevamento o di lavorazione zootecnica che avrebbero potuto determinare tali anomalie. Deducevano, ancora, che tutti i controlli precedenti, effettuati dall'(...) o dall'(...) in proprio, nonché tutti quelli compiuti all'indomani del controllo del 13.10.2020, avevano rilevato valori nella norma, il che, unito al fatto che l'(...) si era adoperata al fine di adottare ulteriore accorgimenti per efficientare la linea di depurazione delle acque, portava ragionevolmente a ritenere che gli esiti della verifica effettuata il (...) fossero ascrivibili o allo sversamento doloso da parte di terzi di liquami di attività di allevamenti zootecnici, o alla perdita di liquami da tubature di scarico transitanti all'interno della proprietà (...) 4) da ultimo, in via subordinata, nel contestare la sproporzione della sanzione comminata, chiedevano l'applicazione del minimo edittale. 2.3 Costituitasi in giudizio, la (...) contestava gli assunti avversari ed insisteva per la legittimità dell'ingiunzione comminata, richiamando nel proprio rapporto difensivo quanto stigmatizzato dai (...) nelle proprie controdeduzioni del 01.06.2021 ed evidenziando, in punto di fatto, che l'accertamento eseguito presso la (...) prendeva origine da un'attività di (...) su delega della (...) della Repubblica di (...) ((...) n. (...)/2020 RG) a seguito di denuncia da parte di un privato cittadino per presunto inquinamento ambientale su propri terreni; veniva dunque compiuti dei sopralluoghi in occasione dei quali venivano eseguiti tre campionamenti: 1) Acqua di scarico depuratore (...) (rapporto di prova n. (...)/(...)/(...), comunicato con pec 24.12.2020, dal quale si evinceva il superamento dei limiti tabellari); 2) Terreni (raccolti all'interno del pozzetto in cemento del denunciante (...) rapporto di prova n. (...)/(...)/(...), comunicato con pec del 15.03.21, dal quale non emergeva alcun superamento); 3) Acqua da tipizzare (prelevata all'interno del pozzetto in cemento del (...) rapporto di prova n. (...)/(...)/(...), comunicato con pec del 30.03.21, da cui emergeva un elevato inquinamento chimico e batteriologico delle acque). Solo all'esito delle notifiche dei relativi rapporti di prova del 15.03.2021 e del 30.03.2021 i (...) procedevano alla notifica del (...) che andava pertanto considerato tempestiva, poiché avvenuta entro i 90 giorni decorrenti dalle ultime comunicazioni ricevute, "non appena in possesso di tutti gli elementi utili all'accertamento, soprattutto considerando che un'eventuale contaminazione accertata nei terreni avrebbe potuto portare a ulteriori accertamenti e configurare violazioni anche di carattere penale". Contestata, da ultimo, la fondatezza degli ulteriori motivi di opposizione, insisteva per il rigetto della stessa, con contestuale conferma dell'ordinanza ingiunzione impugnata. 2.4 La causa veniva istruita con la concessione di un termine per note e, all'esito dell'udienza di discussione, veniva decisa come sopra riportato. 3. Avverso tale pronuncia ha proposto appello la (...) con ricorso depositato in data (...), chiedendone l'integrale riforma con conseguente conferma dell'ordinanza-ingiunzione, sulla scorta di un unico motivo che si va ad esaminare. 3.1 Hanno resistito al gravame gli appellati, insistendo per la conferma della sentenza e per l'inammissibilità delle deduzioni inerenti il segreto istruttorio, in quanto sollevate solo in grado d'appello; riproponendo in via subordinata i medesimi motivi di opposizione già sollevati in primo grado, hanno altresì avanzato a loro volta appello incidentale, contestando l'avvenuta compensazione delle spese di lite operata dal primo giudice. 3.2 A seguito del deposito di note scritte in sostituzione dell'udienza di discussione del 22.05.2024, questa Corte decide come appresso. MOTIVI DELLA DECISIONE (...) "VIOLAZIONE O FALSA APPLICAZIONE DEL DISPOSTO DEL(...). 14, L. n. 689/1981 RELATIVAMENTE AL(...) DEL TERMINUS A QUO PER IL DECORSO DEI 90 GIORNI UTILI AD EFFETTUARE LA NOTIFICA; (...) 329 C.P.C. IN PUNTO (...) ISTRUTTORIO". 4. Nell'accogliere l'opposizione avanzata dagli odierni appellanti, il Tribunale, richiamate le tesi difensive di ciascuna parte, ha ritenuto meritevole di condivisione quella dedotta dagli opponenti, evidenziando che il processo verbale notificato il (...), recante data 02.02.2021, era precedente le comunicazioni del 15.03.2021 e del 30.03.2021 - con cui l'(...) aveva trasmesso il risultato delle analisi del 09.02.2021 e del 26.02.2021 relative ai campioni prelevati presso la proprietà (...) - che non erano pertanto state prese in considerazione dai (...) ai fini della contestazione mossa all'(...) e alla società (...) Ha rilevato, inoltre, che le attività di verifica oggetto dei rapporti di prova nn. (...)/(...)/(...) e (...)/(...)/(...), i cui risultati erano stati comunicati soltanto nel mese di marzo 2021, riguardavano aree esterne alla proprietà (...) ed arano state eseguite in assenza di contraddittorio con gli opponenti, evidenziando che "i risultati di laboratorio successivi (formati da (...) con i R. di P. del 9/2/21 e 26/2/21 e comunicati con pec ai (...) il (...) e 30/3/21) non hanno in concreto influito su un accertamento formato dagli stessi (...) più di un mese prima. Né in contrario senso può diversamente rilevare la circostanza che i vari accertamenti scaturissero da una delega d'indagine inerente denuncia da parte di un privato cittadino per presunto inquinamento ambientale su proprio terreno". A tal riguardo ha poi precisato che, pur tenendo conto dei principi giurisprudenziali richiamati dalla (...) e contenuti in Cass. 2011/2007, "nel caso concreto la specifica violazione ineriva un accertamento autonomo e distinto rispetto agli altri menzionati dalla Regione", atteso che la violazione impugnata riguardava l'accertamento eseguito il (...) presso l'impianto di depurazione della società (...) i cui risultati venivano acquisiti con rapporto di prova del 24.12.2020, mentre gli altri due campionamenti attengono prelievi effettuati sui su aree esterne all'(...) e i cui risultati venivano comunicati soltanto nel marzo del 2021. Concludeva dunque il primo giudice asserendo che "(...) parte l'opposta si richiama genericamente all'art 24 l 689/81 senza approfondire il rapporto di necessaria pregiudizialità dell'accertamento della violazione amministrativa rispetto all'accertamento penale che giustifica la vis attrattiva della competenza del giudice penale rispetto alle stesse violazioni amministrative. Conseguentemente non si reputa di poter ancorare la piena conoscenza di tutti gli elementi che consentivano la elevazione della contravvenzione all'acquisizione delle ulteriori analisi e, pertanto, va dichiarata la tardività della notifica della ordinanza ingiuntiva, che va dunque annullata". 4.1 Nell'interporre gravame avverso la suddetta pronuncia, la (...) richiamati in fatto i punti salienti della vicenda e ribadito in punto di diritto quanto già argomentato nei propri scritti difensivi di primo grado, impugna la parte della sentenza in cui il Tribunale ha ritenuto che il termine di 90 giorni di cui all'art. 14 L. 689/1981 debba decorrere dal primo accertamento effettuato il (...), anziché dalla conclusione dell'intero procedimento che, a giudizio dell'Ente, coincide con l'elevazione del SPV n. 02 del 02.02.2021. A sostegno di tale doglianza, deduce che il rapporto di prova n. (...)/(...)/20 del 19.12.2020 emesso all'esito del campionamento delle acque del 13.12.2020 (comunicato via pec il (...) ed attestante il superamento dei limiti tabellari) costituiva un mero atto endoprocedimentale del più ampio procedimento accertativo, che si era concluso soltanto, all'esito dei plurimi campionamenti effettuati, con il richiamato SPV del 02.02.2021. Era pertanto da tale ultimo atto - definibile come "accertamento" ai sensi della richiamata norma, quale termine a quo ai fini della decorrenza del tempo utile alla notifica degli estremi della violazione - che detto termine doveva decorrere, di talché la notifica effettuata il (...) doveva ritenersi pienamente tempestiva, in quanto effettuata il 71° giorno decorrente, per l'appunto, dal 02.02.2021. Specifica, inoltre, che trattandosi di indagini "oltremodo complesse e di natura strettamente tecnica, da valutarsi intrinsecamente anche a distanza di tempo", era necessario attendere il compimento e l'esito di tutti gli atti endoprocedimentali, necessari a riscontrare l'eventuale esistenza di infrazioni e a valutare i dati acquisiti, viepiù in considerazione del fatto che i prelievi effettuati dall'(...) costituivano atti afferenti indagini di polizia giudiziaria coperte da segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., nonché della circostanza che, se fosse emersa una eventuale responsabilità penale dell'(...) e della società, gli accertatori non avrebbero potuto procedere alla notifica dell'illecito amministrativo, dovendo di contro trasmettere gli atti all'autorità giudiziaria ex art. 24 L. 689/1981. Sotto altro profilo, la (...) impugna la parte della sentenza in cui si afferma che i rapporti di prova del marzo 2021 riguardavano indagini effettuate in aree esterne alla proprietà della società (...) per attività di verifica svolte in assenza di contraddittorio con le parti. A tal riguardo, deduce che alcun contraddittorio era possibile, alla luce del segreto istruttorio che copriva i campionamenti effettuati, nonché del fatto che le verifiche venivano svolte nella proprietà di soggetti terzi, per cui gli odierni appellati non avevano titolo per intervenire. Nel richiamare, inoltre, a supporto delle proprie doglianze giurisprudenza di legittimità, aggiunge che l'accertamento era correlato all'acquisizione di tutti i dati necessari alla stesura del rapporto di cui all'art. 17 L. 689/1981, quale atto in cui l'organo di controllo espone in maniera completa le risultanze di tutti gli accertamenti eseguiti, rilevando da ultimo che il Tribunale, pur dando atto dei principi affermati dalla giurisprudenza, se ne sia volutamente discostato, ritenendo che la violazione contestata con il SPV del 02.02.2021 riguardava un solo accertamento, autonomo e distinto dagli altri due. 4.2 Ritiene la Corte che l'appello sia infondato. 4.3 Giova rammentare che l'art. 14 L. 689/1981 disciplina la contestazione e la notifica degli estremi della violazione amministrativa. In particolare, come alternativa alla contestazione immediata, il secondo comma della richiamata disposizione prevede che gli estremi della violazione debbano essere notificati agli interessati residenti nel territorio della Repubblica entro il termine 90 giorni dall'accertamento. Detta previsione limita nel tempo la possibilità di notifica del verbale di contestazione, fissando un termine perentorio per la comunicazione dell'addebito agli interessati ed identificando nell'accertamento il relativo dies a quo. Conseguentemente, occorre stabilire in quale momento l'attività di accertamento di un illecito amministrativo ambientale possa dirsi compiuta ai fini della decorrenza del suddetto termine, rilevando sia in termini di validità dell'obbligazione sanzionatoria (che andrà dichiarata estinta in caso di omessa notificazione tempestiva) sia in termini di garanzia (poiché la tempestiva comunicazione dell'addebito è funzionale al tempestivo ed effettivo esercizio delle difese da parte dei contravventori). In tale quadro di riferimento, appare dunque decisiva la corretta individuazione del momento a partire dal quale calcolare il tempo previsto dalla legge per la comunicazione dell'addebito. Sul piano definitorio va rilevato che l'accertamento degli illeciti amministrativi ambientali, che consiste nell'attività volta ad acclarare le violazioni della normativa ambientale punite dalla legge con sanzioni amministrative, si sostanzia in una attività di natura sia certificativa che valutativa, in quanto l'accertatore non solo procede a riscontrare la violazione in concreto verificatasi (e ad acquisire gli elementi di fatto), ma ne fornisce una qualificazione giuridico-formale in termini di illecito (valutando i dati acquisiti in relazione agli elementi oggettivi e soggettivi dell'illecito). In questa prospettiva, il dies a quo per il computo dei 90 giorni non può essere fatto coincidere con la mera notizia del fatto materiale, bensì con l'epoca in cui l'agente accertatore acquisisce la piena conoscenza dell'illecito: l'accertamento di una violazione amministrativa ambientale non coincide con il momento in cui l'organo di controllo assume una generica ed approssimativa percezione del fatto, ma richiede l'espletamento dei complessivi atti previsti dall'art. 13 L. 689/1981 e la conseguente valutazione delle risultanze così ottenute anche sotto il profilo della disposizione sanzionatoria applicabile. E' stato così affermato che "l'accertamento della violazione non coincide con la generica ed approssimativa percezione del fatto, ma con il compimento delle indagini necessarie per riscontrare l'esistenza di tutti gli elementi dell'infrazione e richiede la valutazione dei dati acquisiti ed afferenti agli elementi dell'infrazione e la fase finale di deliberazione, correlata alla complessità delle indagini tese a riscontrare la sussistenza dell'infrazione medesima e ad acquisire piena conoscenza agli effetti della corretta formulazione della contestazione. (...) Il procedimento di accertamento della violazione è finalizzato a consentire all'amministrazione di avere piena contezza degli estremi, oggettivi e soggettivi della condotta realizzata, nonché della sua ricomprensione nella fattispecie astratta prevista dalla norma sanzionatoria. La correttezza e completezza dell'accertamento rispondono pertanto all'interesse pubblico connaturato alla funzione svolta dall'ente accertatore, ma anche a quello dello stesso autore della condotta al fine di un'adeguata ponderazione della sua eventuale responsabilità. A tali esigenze si contrappone quella dell'ipotizzato autore della condotta di vedere concluso l'accertamento in tempi brevi e occorre quindi effettuare una valutazione di ragionevolezza dei tempi impiegati per l'accertamento al fine di ritenerne la complessiva congruità o meno rispetto alla duplice esigenza sopra individuata" (Cass. 3524/2019; 16286/2018). Ne deriva, dunque, la non computabilità del periodo ragionevolmente occorso, in relazione alla complessità delle singole fattispecie, ai fini dell'acquisizione e della delibazione degli elementi necessari per una matura e legittima formulazione della contestazione (Cass. civ. n. 26734/2011; 9454/2009), dovendosi altresì precisare che "i limiti temporali entro i quali, a pena di estinzione dell'obbligazione di pagamento, l'amministrazione procedente è tenuta a provvedere alla notifica della contestazione, devono ritenersi collegati all'esito del procedimento di accertamento, mentre la legittimità della durata di quest'ultimo va valutata in relazione al caso concreto e alla complessità delle indagini, e non anche alla data di commissione della violazione, dalla quale decorre il solo termine iniziale di prescrizione di cui all'art. 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689." (Cass. 18574/2014). Più recentemente, la Suprema Corte ha altresì chiarito che "...in tema di sanzioni amministrative, il termine per la contestazione all'interessato, stabilito, a pena di decadenza, dall'art. 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689, decorre, non già dal momento in cui il "fatto" è stato acquisito nella sua materialità, ma, dovendosi tener conto anche del tempo necessario per la valutazione della idoneità di tale fatto ad integrare gli estremi (oggettivi e soggettivi) di comportamenti sanzionati come illeciti amministrativi, da quando l'accertamento è stato compiuto o avrebbe potuto ragionevolmente essere effettuato dall'organo addetto alla vigilanza delle disposizioni che si assumono violate. Qualora, pertanto, il soggetto abilitato a riscontrare gli estremi della violazione sia diverso da quello incaricato della ricerca e della raccolta degli elementi di fatto, l'atto di accertamento non può essere configurato fino a quando i risultati delle indagini svolte dal secondo non siano portati a conoscenza del primo, dovendo escludersi che le attività svolte dai due diversi organi possano essere considerate unitariamente al fine di valutare la congruità del tempo necessario per l'accertamento delle irregolarità e, conseguentemente, la ragionevolezza di quello effettivamente impiegato dall'amministrazione." (cfr. Cass. 24209/2022; SU 28210/2019). Ne consegue, dunque, che occorre individuare, secondo le caratteristiche e la complessità della situazione concreta, il momento in cui ragionevolmente la contestazione avrebbe potuto essere tradotta in accertamento, momento dal quale deve farsi decorrere il termine per la contestazione stessa (così Cass. 9254/2018). 4.4 (...) quanto sopra, va altresì rammentato che, qualora gli elementi di prova di un illecito amministrativo emergano dagli atti relativi alle indagini penali, anche nell'ipotesi in cui non ricorra l'ipotesi della connessione per pregiudizialità del reato con l'illecito amministrativo di cui all'art. 24 L. 689/1981, "gli agenti accertatori non possono trasmettere gli atti all'autorità amministrativa senza l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria, atteso che spetta a quest'ultima verificare se ricorra o meno la vis attractiva della fattispecie penale e, ove ritenga che non sussistono i relativi presupposti, adottare gli eventuali provvedimenti per la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa: la previsione del segreto istruttorio di cui all'art. 329 c.p.p., che anche gli agenti accertatori sono tenuti ad osservare, impedisce che questi possano assumere l'iniziativa di portare a conoscenza dell'indagato attraverso la contestazione della violazione amministrativa gli elementi raccolti nell'ambito delle indagini penali, la cui divulgazione potrebbe compromettere l'andamento delle indagini stesse. E, in tal caso, il termine di cui all'art. 14 non può che decorrere dalla ricezione degli atti da parte dell'autorità giudiziaria secondo quanto stabilito dal terzo comma: in proposito, occorre sottolineare che la portata precettiva di tale disposizione non può essere limitata (...) all'ipotesi di sanzioni amministrative depenalizzate, sussistendo in tutti i casi in cui la competenza del giudice penale in ordine alla violazione amministrativa viene a cessare: il che si verifica non soltanto nell'ipotesi di trasmissione da parte dell'autorità giudiziaria cha accerti il difetto di giurisdizione in ordine alla violazione amministrativa, ma anche nel caso in cui il procedimento penale si chiude per estinzione del reato o per difetto di una condizione di procedibilità (art. 24 ultimo comma)" (così Cass. 23477/2009). Detti principi sono stati ribaditi anche da Cass. 9881/2018, confermando così che il termine di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 14 decorre dal nulla osta dell'autorità giudiziaria all'utilizzo degli atti rilevanti, confluiti nel fascicolo del pubblico ministero e presupposto sia dell'attività investigativa che di quella accertativa. 4.5 Chiarito quanto precede e passando ad analizzare il caso che occupa, va rilevato che, pur dovendosi ritenere pacifico, poiché non contestato, che l'illecito amministrativo per cui è causa sia emerso nel corso delle indagini penali relative al giudizio n. (...)/2020 (...) del Tribunale di (...) non si evince dai documenti prodotti alcun elemento dal quale poter dedurre l'esistenza di un nulla osta da parte dell'autorità giudiziaria, dal quale far decorrere il termine di cui all'art. 14 della richiamata legge, in tesi applicabile alla fattispecie in rassegna (nelle controdeduzioni dei (...) del 01.06.2021 - doc. 3 fascicolo (...) grado - si legge laconicamente "Si precisa che di queste ulteriori risultanze si è riferito alla competente A.G., facendo seguito alla delega richiamata, per eventuali ulteriori accertamenti"). Né, tantomeno, è possibile evincere la qualifica di "indagato" a carico degli odierni appellati, rispetto alla quale la contestazione della violazione amministrativa avrebbe potuto compromettere l'andamento delle indagini. 4.6 Peraltro, come correttamente già evidenziato dal giudice di prime cure, la (...) non ha mai indicato in cosa consistesse la pregiudizialità dell'accertamento della violazione amministrativa rispetto all'accertamento penale, da che ne consegue che il momento dal quale far decorrere il termine di cui all'art. 14 L. 689/1981 è unicamente quello in cui il soggetto accertatore ha avuto contezza dei risultati delle indagini svolte presso la proprietà (...) dai quali evincere gli elementi oggettivi e soggettivi della condotta realizzata, nonché "della sua ricomprensione nella fattispecie astratta prevista dalla norma sanzionatoria". 4.7 Detto termine non può che coincidere con la data in cui l'(...) ha trasmesso con pec 24.12.2020 alla (...) dei (...) di (...) di (...) il rapporto di prova n. (...)/(...)/20 relativo al prelievo eseguito in data (...) presso il "pozzetto di prelievo prima dell'immissione nel corpo recettore" della (...) ove erano contenuti gli esiti delle indagini compiute sul campione raccolto. Dalle stesse emergevano tutti gli estremi della fattispecie astratta prevista dalla norma sanzionatoria, ovvero gli estremi oggettivi (superamento dei limiti in relazione a determinate sostanze), quelli soggettivi (i trasgressori individuati nella società (...) e nel suo consulente tecnico (...) già previamente individuato il (...) a seguito di precisazioni ricevute dal reparto risorse umane dell'(...), nonché da ultimo la ricomprensione della condotta accertata nella fattispecie astratta prevista dalla norma sanzionatoria (violazione delle tabelle di cui all'(...) 5 parte III D.Lgs. 152/2006). 4.8 A null'altro avrebbero potuto portare i risultati contenuti nei rapporti di prova nn. (...)/(...)/20 e (...)/(...)/20, poi ricevuti nel successivo marzo 2021, atteso che gli stessi riguardavano accertamenti differenti, inerenti il "terreno prelevato nel sito in località (...) del Comune di (...) (...) immediatamente a valle del tombino (...) posto nella proprietà del denunciante" (doc. 5 Reg. (...) e le acque di scarico da tipizzare prelevate presso il "pozzetto ubicato sul terreno di proprietà del sig. (...)" (doc. 6 Reg. (...). (...), il SPV n. (...) del 02.02.2021 - che, come evidenziato dal Tribunale, reca una data antecedente i due successivi rapporti - non riporta, né poteva riportare, alcun riferimento a detti ulteriori accertamenti, a riprova del fatto che gli stessi erano differenti ed autonomi, sicchè la sua datazione al 2 febbraio non appare dettata da alcuna plausibile ragione e non è idonea a posticipare la decorrenza del termine di 90 giorni a far data dal 2.2.2021. Tra il (...) e il (...), invero, nulla di nuovo era emerso come necessario per un ulteriore valutazione della idoneità del rapporto ad integrare gli estremi (oggettivi e soggettivi) di comportamenti sanzionabili come illeciti amministrativi. 4.9 In definitiva, la violazione deve ritenersi accertata, ai sensi dell'art. 14 L. 689/1981, in data (...), di talché il SPV notificato ai trasgressori soltanto il (...) deve ritenersi tardivo, in quanto comunicato ben oltre il 90° giorno previsto dalla citata norma, con conseguente illegittimità dell'ordinanza-ingiunzione in seguito emessa. 4.10 In conclusione, dunque, l'appello avanzato dalla (...) va ritenuto infondato, con conseguente conferma della sentenza impugnata in parte qua. (...) ERRONEA COMPENSAZIONE SPESE ARTT. 91 E SS. (...) 5. Gli originari opponenti si dolgono del fatto che il Tribunale, pur accogliendo l'opposizione, ha ritenuto di compensare fra le parti le spese di lite, così motivando: "(...) luce della particolarità della vicenda e considerate le ragioni della condotta della regione, appare congruo compensare le spese". 5.1 A loro giudizio, detta statuizione sarebbe errata, in quanto priva dei presupposti di cui all'art. 92 c.p.c. e peraltro priva di adeguata motivazione, atteso che la completa soccombenza della (...) avrebbe dovuto indurre il primo giudice a porre dette spese completamente a suo carico, anche in considerazione del fatto che la tardività della notificazione era già stata sollevata in sede di memorie difensive. 5.2 Il motivo è fondato. 5.3 Come ricordato dalla Suprema Corte, "la compensazione, totale o parziale, delle spese di giudizio costituisce una facoltà discrezionale del giudice di merito, sia nell'ipotesi di soccombenza reciproca, sia nel concorso di giusti motivi. Pertanto, è rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità, decidere quale delle parti debba essere condannata e se e in quale misura debba darsi luogo alla compensazione. La pronuncia in merito alla compensazione delle spese soggiace al sindacato di legittimità solo quando il giudice, a giustificazione della disposta compensazione, "enunci motivi palesemente e macroscopicamente illogici od erronei, tali da inficiare, per la loro inconsistenza ed erroneità, lo stesso procedimento formativo della volontà decisionale (Cassazione 24/03/2021, n. 8274)" (Cass. 8522/2024). 5.4 Nel caso di specie il Tribunale ha giustificato la compensazione sulla scorta della "particolarità della vicenda" e delle "ragioni della condotta della Regione". A ben vedere, tuttavia, dette laconiche statuizioni sono affermazioni di mero principio, ipoteticamente ricollegabili a qualsiasi procedimento e, come tali, non consentono di risalire al ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, attesa la genericità delle argomentazioni che la sorreggono (Cass. 14888/2017). 5.5 La sentenza, dunque, merita di essere riformata sul punto. 6. Le spese del doppio giudizio, quindi, seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, esclusa la fase istruttoria, alla luce di un valore di 27mila euro e con dimezzamento del compenso di quella decisoria. 7. (...) del gravame principale ed il conseguente rigetto dello stesso comportano l'applicazione della sanzione di cui all'art. 13, comma 1 quater del d.p.r. 115/2002 (comma introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228/2012). P.Q.M. La Corte d'Appello dell'Aquila definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa e reietta, così provvede: Rigetta l'appello principale; Accoglie l'appello incidentale e, per l'effetto, condanna la (...) a rifondere agli appellati in solido le spese del primo grado di giudizio, che liquida in Euro 4358,00 oltre rimborso spese generali ed accessori di legge; Condanna l'appellante principale a rifondere agli appellati in solido le spese del grado di appello, che liquida in Euro 5211,00, oltre rimborso spese generali ed accessori di legge; Dichiara che la parte appellante principale è tenuta al pagamento di un ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello già dovuto per l'impugnazione.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4029 del 2024, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Zo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Interno-Ufficio Territoriale del Governo di Biella e Ufficio Territoriale del Governo di Torino, in persona del legale rappresentante, per legge con il patrocinio dell'Avvocatura Generale dello Stato e con domicilio nei suoi uffici in Roma, via (...); Ufficio Centrale Regionale del Piemonte presso la Corte d'appello di Torino, Ufficio Centrale Circoscrizionale presso il Tribunale di Biella, Regione Piemonte, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione Seconda, n. -OMISSIS-/2024, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno-Ufficio Territoriale del Governo di Biella e Ufficio Territoriale del Governo di Torino; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica speciale elettorale del giorno 22 maggio 2024 il Cons. Alessandro Enrico Basilico e uditi per le parti gli avvocati En. Pe., in delega dell'avvocato An. Zo., e Ve. Ch. per l'Avvocatura Generale dello Stato; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. L'appellante, candidato alla carica di Consigliere regionale nella lista di "Forza Italia-Partito Popolare Europeo" alle elezioni regionali del Piemonte dell'08-09.06.2024, impugna la sentenza che ha respinto il ricorso contro gli atti che ne hanno disposto la cancellazione dalla lista e, per l'effetto, l'esclusione della lista stessa dalla procedura. 2. In punto di fatto, si rileva che con sentenza della Corte d'appello di Torino n. -OMISSIS-del 2018 l'interessato è stato condannato alla pena di anni uno e mesi sette di reclusione, con interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, in quanto colpevole del reato di cui agli artt. 110, 81, 314 cod. pen. per aver concorso all'indebita destinazione di fondi derivanti dal contributo di funzionamento per i gruppi erogati dal Consiglio regionale a finalità personali o comunque estranee alla previsione normativa. Quanto all'affermazione della penale responsabilità dell'appellante, la pronuncia è divenuta irrevocabile il -OMISSIS-.2019. 3. Limitatamente alla durata della pena accessoria, invece, la sentenza è stata annullata con rinvio dalla Corte di cassazione con sentenza n. 16765 del 2020. 4. La pena accessoria è stata quindi rideterminata con sentenza della Corte d'appello di Torino del 14.12.2021, divenuta irrevocabile il 30.04.2022. 5. In seguito, con ordinanza n. -OMISSIS- del 2024, depositata il -OMISSIS-2024, il Tribunale di sorveglianza di Torino ha concesso all'appellante la riabilitazione dalle conseguenze derivanti dalla sentenza della Corte d'appello del 2018. 6. In data 10.05.2024 è stata depositata presso il Tribunale di Biella la lista "Forza Italia-Partito Popolare Europeo", in cui è stato inserito anche l'appellante. 7. Con provvedimento dell'11.05.2024 l'Ufficio centrale circoscrizionale presso il Tribunale di Biella ha rilevato che "da un controllo d'ufficio ai sensi degli artt. 9, c.2 D. lvo n. 235 /2012 e 21 c. 2 lett. b della legge regionale n. 12/23 ed in particolare dall'esame del certificato del casellario giudiziale, è emerso che il candidato (omissis) versa in una situazione di ineleggibilità ai sensi dell'articolo 7 c. 1, lettera C decreto legislativo n. 235/12, essendo stata emessa nei suoi confronti sentenza di condanna alla pena di anni uno mesi sette di reclusione per il reato di cui l'articolo 314 CP, sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Torino in data -OMISSIS-2021, divenuta irrevocabile il -OMISSIS-2022", pertanto ha disposto la cancellazione del nome dell'appellante dalla lista e, ravvisato che in questo modo veniva meno il numero minimo di candidati richiesto per l'ammissibilità della lista stessa, ne ha dichiarato l'inammissibilità . 8. L'interessato ha proposto ricorso all'Ufficio centrale regionale il quale, con verbale n. 9 del 13.05.2024, ha rigettato il gravame in quanto, pur prendendo atto del provvedimento del Tribunale di sorveglianza di concessione della riabilitazione, ha obiettato che "si tratta, tuttavia, di ordinanza adottata de plano ai sensi dell'art. 667, comma 4, c.p.p., richiamato dall'art. 678, comma 1-bis, c.p.p." e richiamato giurisprudenza secondo cui "in materia di provvedimenti del giudice dell'esecuzione, non è configurabile un principio generale di immediata esecutività, dovendo distinguersi tra ordinanze adottate all'esito dell'instaurazione del contraddittorio tra le parti, immediatamente esecutive (...) ed ordinanze adottate "de plano" che, salvo i casi di immediata esecutività espressamente previsti dalla legge o comunque specificamente desumibili dal sistema normativo, diventano esecutive, in caso di mancata opposizione, allo scadere del termine previsto dall'art. 667, comma quarto, cod. proc. pen. "; pertanto, nella specie, non essendo trascorso il termine per proporre opposizione al momento di presentazione della lista, "gli effetti della riabilitazione, ai fini che qui interessano, non possono dirsi perfezionati". 9. Il candidato ha impugnato i provvedimenti dell'Ufficio circoscrizionale e dell'Ufficio centrale regionale dinanzi al TAR, sostenendo: con un primo motivo, che la riabilitazione avrebbe immediatamente fatto venire meno la causa d'incandidabilità, senza necessità di attendere la decorrenza del termine per l'opposizione; con un secondo motivo, che il provvedimento dell'Ufficio circoscrizionale si fondava sulla sentenza del 2021, senza alcun richiamo alla sentenza del 2018 o all'inefficacia della riabilitazione, pertanto tali elementi non avrebbero potuto essere dedotti a supporto dell'esclusione dall'Ufficio centrale regionale che, nel farlo, ha leso i diritti di difesa dell'interessato; con un terzo motivo, che la l.r. Piemonte n. 12 del 2023 prevede un termine di 24 ore dalla scadenza del termine della presentazione delle liste (nella specie decorso alle 12 dell'11.05.2024) per la cancellazione dei soggetti incandidabili, pertanto risulterebbe tardiva la contestazione della inefficacia della riabilitazione, che è stata sollevata solo dall'Ufficio centrale in data 13.05.2024. 10. Il Tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso relativamente al primo motivo, sul quale ha affermato sussistere la giurisdizione del giudice ordinario ritenendo venisse in rilievo il diritto di elettorato passivo, e respinto le altre due censure, negando alcuna contraddittorietà tra i provvedimenti dell'Ufficio circoscrizionale e di quello centrale e reputando tempestiva l'esclusione. 11. L'interessato ha impugnato la pronuncia, sostenendo: con il primo motivo, la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo sulla prima censura del ricorso di primo grado, riproposta in appello, in quanto verrebbe in rilievo un provvedimento di esclusione rispetto al quale la questione dell'incandidabilità deve essere affrontata solo incidentalmente; con il secondo motivo, l'incongruenza tra le decisioni dell'Ufficio circoscrizionale e di quello centrale; con il terzo motivo, la tardività del rilievo della supposta inefficacia della riabilitazione su cui si è infine fondata l'esclusione della lista. 12. Si è costituita l'Amministrazione, resistendo al gravame. 13. All'udienza del 22.05.2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 14. L'appello è infondato. 15. In punto di giurisdizione il Consiglio di Stato ha ribadito, anche di recente, di condividere "l'insegnamento della Corte regolatrice della giurisdizione, secondo cui "le controversie aventi ad oggetto i diritti di elettorato attivo e passivo appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, la quale non viene meno per il fatto che la questione relativa alla sussistenza, o non, dei diritti suddetti sia stata introdotta mediante l'impugnazione del provvedimento di proclamazione o di convalida degli eletti, perché anche in tali ipotesi la decisione non verte sull'annullamento dell'atto amministrativo impugnato, bensì direttamente sul diritto soggettivo perfetto inerente all'elettorato suddetto. (cfr. Cass., S.U., n. 13403 del 26/05/2017) (...) mentre appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo le questioni attinenti alla regolarità delle operazioni elettorali, in quanto relative a posizioni di interesse legittimo" (Cons. St., sez. II, sent. n. 4201 del 2022, opportunamente citata dal giudice di prime cure in quanto relativa proprio a un caso nel quale la Commissione elettorale aveva dichiarato l'incandidabilità di un candidato dal quale era poi discesa la ricusazione dell'intera lista). Si aggiunga che, come precisato dalla Corte di cassazione, la giurisdizione amministrativa sul contenzioso elettorale di cui agli artt. 126, 129 e 130 cod. proc. amm. non rappresenta un'ipotesi di giurisdizione esclusiva, non essendo ricompresa tra le materie elencate nell'art. 133 cod. proc. amm., e "ha ad oggetto le sole "operazioni elettorali", ossia la regolarità delle forme procedimentali di svolgimento delle elezioni, alle quali fanno capo nei singoli posizioni che hanno la consistenza dell'interesse legittimo, non del diritto soggettivo. E benché tali operazioni non si esauriscano nelle attività di votazione, ma si estendano al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni regionali e comprendano tutti gli atti del complesso procedimento, dall'emanazione dei comizi elettorali sino alla proclamazione degli eletti, resta tuttavia attribuita all'autorità giudiziaria ordinaria la cognizione delle controversie nelle quali si fanno valere posizioni di diritto soggettivo, quali quelle che si riconnettono al diritto di elettorato attivo o che concernono ineleggibilità, decadenze e incompatibilità " (Cass. civ., ss.uu., sent. n. 21262 del 2016). Merita quindi conferma la decisione del TAR di dichiarare il difetto di giurisdizione sul primo motivo del ricorso di primo grado, con il quale si contesta proprio la sussistenza della causa d'incandidabilità . 16. Quanto alle altre censure, che sono state esaminate e respinte nel merito, è condivisibile la tesi del Tribunale secondo cui non vi è contraddizione tra i provvedimenti dell'Ufficio circoscrizionale e dell'Ufficio centrale regionale, poiché il primo già specificava chiaramente la causa d'incandidabilità, sia in diritto, facendo riferimento all'art. 7, co. 1, lett. c), del d.lgs. n. 235 del 2012, sia in fatto, mediante il richiamo alla "sentenza di condanna alla pena di anni uno e mesi sette di reclusione per il reato di cui all'art. 314 c.p., sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Torino" che risulta sufficientemente univoco e idoneo - a prescindere dall'errore nell'indicazione della data della pronuncia penale - a porre l'interessato nelle condizioni di comprendere quale vicenda venisse in rilievo e di difendersi sul punto, anche facendo valere l'intervenuta riabilitazione. Questa conclusione è avvalorata proprio dal fatto che, nel proporre gravame all'Ufficio centrale (doc. 7 del fascicolo di primo grado del ricorrente), l'appellante ha appunto sostenuto che si dovesse fare riferimento alla sentenza del 2018, riferendo di aver ottenuto la riabilitazione. 17. Per la stessa ragione non vi è tardività nella pronuncia dell'esclusione, perché questa è in effetti intervenuta nel termine di 24 ore dalla presentazione della lista, indicando i presupposti di fatto e diritto su cui si fondava, così come tempestivo è il provvedimento adottato dall'Ufficio centrale sul ricorso dell'interessato. Quanto alla questione dell'inefficacia della riabilitazione, si tratta di un argomento utilizzato dall'Ufficio centrale - non tanto per confermare l'esclusione, la quale è invero fondata sulla condanna per peculato, quanto piuttosto - per confutare il gravame del candidato, senza dunque introduzione alcuna di nuovi motivi di estromissione. 18. Il ricorso è quindi meritevole di rigetto nel suo complesso. 19. La peculiarità della vicenda e la natura degli interessi coinvolti giustifica la compensazione tra le parti delle spese di lite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge; compensa tra le parti le spese di lite del grado. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l'appellante. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Carlo Saltelli - Presidente Francesco Frigida - Consigliere Francesco Guarracino - Consigliere Alessandro Enrico Basilico - Consigliere, Estensore Francesco Cocomile - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4030 del 2024, proposto da: -OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati An. Cl. e Ca. Me., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; contro Ufficio Centrale Regionale del Piemonte c/o La Corte D'Appello di Torino, Ufficio Centrale Circoscrizionale della Provincia di Biella Presso il Tribunale di Biella, U.T.G. - Prefettura di Torino, Regione Piemonte, non costituiti in giudizio; Ufficio Territoriale del Governo Biella, Ministero dell'Interno, Ufficio Territoriale del Governo Torino, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione Seconda, n. 00-OMISSIS-/2024, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Ufficio Territoriale del Governo di Biella, del Ministero dell'Interno e dell'Ufficio Territoriale del Governo di Torino; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella up speciale elettorale del giorno 22 maggio 2024 il Cons. Francesco Cocomile e uditi per le parti gli avvocati En. Pe., in dichiarata delega degli avvocati An. Cl. e Ca. Me., e Ve. Ch. per l'Avvocatura Generale dello Stato; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO 1. - L'appellante -OMISSIS-, in qualità di presentatrice e depositaria effettiva della Lista Elettorale Forza Italia, Partito Popolare Europeo, nella circoscrizione elettorale di Biella, impugna la sentenza che ha respinto il ricorso contro gli atti che hanno disposto la cancellazione dalla lista e, per l'effetto, l'esclusione della lista stessa dalla procedura in conseguenza della ritenuta incandidabilità ex art. 7 comma 1 lett. c) D.Lgs. 235/2012 del candidato in lista Sig. -OMISSIS- (e quindi per il venir meno del numero minimo dei candidati necessari ai sensi del D.P.R. n. 12/2024). 2. - In punto di fatto, si rileva che il candidato -OMISSIS-, con sentenza della Corte d'Appello di Torino n. -OMISSIS-del 2018, è stato condannato alla pena di anni uno e mesi sette di reclusione, con interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, in quanto colpevole del reato di cui agli artt. 110, 81, 314 cod. pen. per aver concorso all'indebita destinazione di fondi derivanti dal contributo di funzionamento per i gruppi erogati dal Consiglio regionale a finalità personali o comunque estranee alla previsione normativa. Quanto all'affermazione della penale responsabilità del -OMISSIS-, la pronuncia è divenuta irrevocabile il -OMISSIS-2019. 3. - Limitatamente alla durata della pena accessoria, invece, la sentenza è stata annullata con rinvio dalla Corte di cassazione con sentenza n. -OMISSIS-del 2020. 4. - La pena accessoria è stata quindi rideterminata con sentenza della Corte d'Appello di Torino del -OMISSIS-2021, divenuta irrevocabile il -OMISSIS-2022. 5. - In seguito, con ordinanza n. -OMISSIS- del 2024, depositata il -OMISSIS-2024, il Tribunale di sorveglianza di Torino ha concesso al -OMISSIS- la riabilitazione dalle conseguenze derivanti dalla sentenza della Corte d'Appello del 2018. 6. - In data 10.05.2024, è stata depositata presso il Tribunale di Biella la lista "Forza Italia-Partito Popolare Europeo", in cui è stato inserito anche il -OMISSIS-. 7. - Con provvedimento dell'11.05.2024 l'Ufficio centrale circoscrizionale presso il Tribunale di Biella ha rilevato che "da un controllo d'ufficio ai sensi degli artt. 9, c. 2 D. lvo n. 235 /2012 e 21 c. 2 lett. b della legge regionale n. 12/23 ed in particolare dall'esame del certificato del casellario giudiziale, è emerso che il candidato (omissis) versa in una situazione di ineleggibilità ai sensi dell'articolo 7 c. 1, lettera C, decreto legislativo n. 235/12, essendo stata emessa nei suoi confronti sentenza di condanna alla pena di anni uno mesi sette di reclusione per il reato di cui l'articolo 314 CP, sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Torino in data -OMISSIS-2021, divenuta irrevocabile il -OMISSIS-2022", pertanto ha disposto la cancellazione del nome del -OMISSIS- dalla lista e, ravvisato che in questo modo veniva meno il numero minimo di candidati richiesto per l'ammissibilità della lista stessa, ne ha dichiarato l'inammissibilità . 8. - Avverso detta decisione veniva proposto ricorso interno ex art. 21 legge regionale n. 12/2023 all'Ufficio centrale regionale il quale, con verbale n. 9 del 13.05.2024, ha rigettato il gravame in quanto, pur prendendo atto del provvedimento del Tribunale di sorveglianza di concessione della riabilitazione, ha obiettato che "si tratta, tuttavia, di ordinanza adottata de plano ai sensi dell'art. 667, comma 4, c.p.p., richiamato dall'art. 678, comma 1-bis, c.p.p." e richiamando giurisprudenza secondo cui "in materia di provvedimenti del giudice dell'esecuzione, non è configurabile un principio generale di immediata esecutività, dovendo distinguersi tra ordinanze adottate all'esito dell'instaurazione del contraddittorio tra le parti, immediatamente esecutive (...) ed ordinanze adottate "de plano" che, salvo i casi di immediata esecutività espressamente previsti dalla legge o comunque specificamente desumibili dal sistema normativo, diventano esecutive, in caso di mancata opposizione, allo scadere del termine previsto dall'art. 667, comma quarto, cod. proc. pen. "; pertanto, nella specie, non essendo trascorso il termine per proporre opposizione al momento di presentazione della lista, "gli effetti della riabilitazione, ai fini che qui interessano, non possono dirsi perfezionati". 9. - La sig.ra -OMISSIS-, in qualità di presentatrice e depositaria effettiva della Lista Elettorale Forza Italia, Partito Popolare Europeo, nella circoscrizione elettorale di Biella ha impugnato dinanzi al T.A.R. i provvedimenti dell'Ufficio circoscrizionale e dell'Ufficio centrale regionale, sostenendo: con un primo motivo, che la riabilitazione avrebbe immediatamente fatto venire meno la causa d'incandidabilità, senza necessità di attendere la decorrenza del termine per l'opposizione; con un secondo motivo, che l'Ufficio Centrale Regionale presso la Corte di Appello di Torino ha respinto il ricorso presentato con una motivazione totalmente diversa rispetto a profili di illegittimità sollevati da parte dell'Ufficio Circoscrizionale presso il Tribunale di Biella e che, prevedendo la l.r. Piemonte n. 12 del 2023 un termine di 24 ore dalla scadenza del termine della presentazione delle liste (nella specie decorso alle 12 dell'11.05.2024) per la cancellazione dei soggetti incandidabili, risulterebbe tardiva la contestazione della inefficacia della riabilitazione, che è stata sollevata solo dall'Ufficio centrale in data 13.05.2024. 10. - Il Tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso relativamente al primo motivo, sul quale ha affermato sussistere la giurisdizione del giudice ordinario ritenendo venisse in rilievo il diritto di elettorato passivo, e respinto la seconda censura, affermando che "... Il riferimento, nel solo verbale n. 9/2024, all'ineseguibilità dell'ordinanza di riabilitazione non correda la motivazione escludente di carattere inedito, in quanto l'Ufficio Centrale Regionale, nell'esercizio della funzione ad esso assegnata dall'art. 10 Legge 108/1968 e sulla scorta delle allegazioni acquisite in sede di ricorso interno, ha radicato l'incandidabilità del Sig. -OMISSIS- nella medesima condizione ex art. 7 comma 1 lett. c) D.Lgs. 235/2012 già rilevata dall'Ufficio Circoscrizionale, esplicando le ragioni della sua ritenuta persistente portata ostativa al momento in cui la lista è stata presentata...." e che comunque il provvedimento gravato era tempestivo. 11. - L'interessata ha impugnato la pronuncia, sostenendo: con il primo motivo, la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo sulla prima censura del ricorso di primo grado, che viene riproposta in appello, in quanto verrebbe in rilievo un provvedimento di esclusione rispetto al quale la questione dell'incandidabilità deve essere affrontata solo incidentalmente; con il secondo motivo, che vi sarebbe stato un vizio procedimentale per violazione dell'art. 21 legge regionale Piemonte n. 12/2023, rilevando che l'Ufficio Centrale Regionale presso la Corte di Appello di Torino ha respinto il ricorso presentato con una motivazione diversa rispetto a profili di illegittimità sollevati da parte dell'Ufficio Circoscrizionale presso il Tribunale di Biella. Infine sostiene che il provvedimento censurato sarebbe tardivo. 12. - Si è costituita l'Amministrazione, resistendo al gravame. 13. - All'udienza del 22.05.2024, la causa è stata trattenuta in decisione. 14. - L'appello è infondato. 15. - In punto di giurisdizione (oggetto del primo motivo di appello), il Consiglio di Stato ha ribadito, anche di recente, di condividere "l'insegnamento della Corte regolatrice della giurisdizione, secondo cui "le controversie aventi ad oggetto i diritti di elettorato attivo e passivo appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, la quale non viene meno per il fatto che la questione relativa alla sussistenza, o non, dei diritti suddetti sia stata introdotta mediante l'impugnazione del provvedimento di proclamazione o di convalida degli eletti, perché anche in tali ipotesi la decisione non verte sull'annullamento dell'atto amministrativo impugnato, bensì direttamente sul diritto soggettivo perfetto inerente all'elettorato suddetto. (cfr. Cass., S.U., n. 13403 del 26/05/2017) (...) mentre appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo le questioni attinenti alla regolarità delle operazioni elettorali, in quanto relative a posizioni di interesse legittimo" (Cons. St., sez. II, sent. n. 4201 del 2022, opportunamente citata dal giudice di prime cure in quanto relativa proprio a un caso nel quale la Commissione elettorale aveva dichiarato l'incandidabilità di un candidato dal quale era poi discesa la ricusazione dell'intera lista). Si aggiunga che, come precisato dalla Corte di cassazione, la giurisdizione amministrativa sul contenzioso elettorale di cui agli artt. 126, 129 e 130 cod. proc. amm. non rappresenta un'ipotesi di giurisdizione esclusiva, non essendo ricompresa tra le materie elencate nell'art. 133 cod. proc. amm., e "ha ad oggetto le sole "operazioni elettorali", ossia la regolarità delle forme procedimentali di svolgimento delle elezioni, alle quali fanno capo nei singoli posizioni che hanno la consistenza dell'interesse legittimo, non del diritto soggettivo. E benché tali operazioni non si esauriscano nelle attività di votazione, ma si estendano al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni regionali e comprendano tutti gli atti del complesso procedimento, dall'emanazione dei comizi elettorali sino alla proclamazione degli eletti, resta tuttavia attribuita all'autorità giudiziaria ordinaria la cognizione delle controversie nelle quali si fanno valere posizioni di diritto soggettivo, quali quelle che si riconnettono al diritto di elettorato attivo o che concernono ineleggibilità, decadenze e incompatibilità " (Cass. civ., ss.uu., sent. n. 21262 del 2016). Merita quindi conferma la decisione del TAR di dichiarare il difetto di giurisdizione sul primo motivo del ricorso di primo grado, con il quale si contesta proprio la sussistenza della causa d'incandidabilità . 16. - Va altresì respinto il secondo motivo di appello. Invero, l'Ufficio Centrale Regionale presso la Corte di Appello di Torino si è limitato a pronunziarsi sul ricorso ex art. 21 legge regionale n. 12/2023 (proposto avverso la cancellazione della lista Forza Italia - Partito Popolare Europeo) in cui per la prima volta si deduceva la questione relativa all'intervenuta riabilitazione del sig. -OMISSIS-. Quanto alla questione dell'inefficacia della riabilitazione, si tratta di un argomento utilizzato dall'Ufficio centrale - non tanto per confermare l'esclusione, la quale è invero fondata sulla condanna per peculato, quanto piuttosto - per confutare il gravame amministrativo del candidato, senza dunque introduzione alcuna di nuovi motivi di estromissione. In ogni caso va rilevato che non vi è tardività nella pronuncia dell'esclusione, perché questa è intervenuta nel termine di 24 ore dalla presentazione della lista, indicando i presupposti di fatto e diritto su cui si fondava, così come tempestivo è il provvedimento adottato dall'Ufficio centrale sul ricorso dell'interessato. 17. - Il ricorso è quindi meritevole di rigetto nel suo complesso. 18. - La peculiarità della vicenda e la natura degli interessi coinvolti giustifica la compensazione tra le parti delle spese di lite. P.Q.M. il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare -OMISSIS- e -OMISSIS-. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Carlo Saltelli - Presidente Francesco Frigida - Consigliere Francesco Guarracino - Consigliere Alessandro Enrico Basilico - Consigliere Francesco Cocomile - Consigliere, Estensore
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