Sentenze recenti maternità surrogata

Ricerca semantica

Risultati di ricerca:

  • IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI ROMA TREDICESIMA SEZIONE CIVILE in persona del dott. Alberto Cisterna ha emesso la seguente SENTENZA nel giudizio di primo grado iscritto al n. 30222/2019 del RGAC. TRA (...) (c.f. (...)) e (...) (c.f. (...)), rappresentati e difesi dagli avvocati Ni.Pa. e Na.Pa. ed elettivamente domiciliati presso il loro studio in Roma, via (...), giusta procura in calce all'atto di citazione. ATTORI E AZIENDA UNITA' SANITARIA LOCALE ROMA 2, (c.f. p. iva (...) in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l'Avvocatura interna dell'Ente in Roma, alla via (...), presso l'avvocato Ma.Mi. e l'avvocato Fr.De. che la assistono giusta procura speciale in separato atto allegato alla comparsa di costituzione. CONVENUTA oggetto: responsabilità professionale sanitaria conclusioni: come da note per udienza del 13.5.2021, da intendersi trascritte. FATTI DI CAUSA E MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con atto di citazione, regolarmente notificato, i signori (...) e (...) esponevano quanto segue: che, nella primavera dell'anno 2013, si erano rivolti all'Ospedale Pertini di Roma per effettuare un trattamento di fecondazione medicalmente assistita che non aveva avuto esito positivo; che avevano appreso nel corso di una trasmissione televisiva che nel dicembre 2013 all'ospedale Pertini di Roma c'era stato uno scambio di embrioni e una coppia era in attesa di due gemelli di un'altra coppia; che il 14.4.2014 erano stati contattati dalla dr.ssa (...), ginecologa presso l'ospedale Sandro Pertini, e convocati presso la struttura; che il giorno poso erano stati resi edotti del fatto che l'Ospedale Sandro Pertini avesse ricevuto una missiva da parte dell'avv. (...) di Urbino con la quale si lamentava la contaminazione del materiale genetico adoperato per altra attività di inseminazione; che, dalla lettera dell'avv. (...) emergeva che il transfert della coppia (...)/(...) era stato effettuato il medesimo giorno di quello di essi attori ovverosia il 6.12.2013; che essi attori avevano accettato di sottoporsi al prelievo per il test del dna; che, alle operazioni di prelievo, aveva presenziati anche la genetista (...) consulente di parte dalla coppia (...)/(...); che tale presenza non era stata assentita da essi attori con conseguente lesione della loro privacy essendo la consulente dai signori (...) e (...) venuta a conoscenza dei nomi dei loro nomini; che non aveva presenziato alle operazioni alcun loro consulente; che, in occasione del prelievo dei "campioni buccali", era stato redatto un verbale; che, in attesa dei risultati del test, avevano ricevuto una telefonata da parte del padre della signora (...) che comunicava loro di avere a sua volta ricevuto una telefonata di un giornalista che cercava la signora (...); che il sig. (...) aveva telefonato al dott. (...) chiedendogli se vi fossero state novità riguardo l'esito degli esami del dna e il sanitario aveva risposto che i test non erano ancora stati completati e che in ogni caso i primi a saperlo sarebbero stati loro; che, avendo appreso dell'attività dei giornalisti, il dott. (...) aveva risposto che non era possibile, salvo richiamare dopo pochi minuti facendo presente che il dna suo e della moglie coincidevano con il dna di entrambi i feti in gestazione nella signora (...); che erano stati continuamente contattati dai giornalisti che telefonavano e si facevano trovare a tutte le ore del giorno e della notte sotto la loro abitazione; che avevano proposto un ricorso ex art. 700 c.p.c. con il quale avevano richiesto che fosse ordinato ai signori (...) e (...) di fornire tutte le informazioni relative allo stato di salute dei nascituri nonché circa la data e il luogo del parto; che il detto ricorso ex art. 700 c.p.c. era stato rigettato e anche il giudizio di merito era stato rigettato con sentenza in data 10.5.2016 n. 9440/2016; che i gemelli, seppur geneticamente figli di essi attori, erano stati riconosciuti come figli di (...) e (...). 2. Tanto premesso, e svolte ulteriori considerazioni in punto di accertamento della responsabilità della struttura e in diritto, gli attori rassegnavano le seguenti conclusioni: "Piaccia a Codesto Ill.mo Tribunale civile di Roma, rigettata ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, voler condannare la ASL ROMA 2, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, a risarcire ai signori (...) e (...) tutti i danni dagli stessi subiti e subendi e conseguenti ai fatti di cui al presente atto, danni da quantificarsi nella misura di Euro 4.000.000,00 da suddividersi secondo giustizia tra gli attori o in quella misura maggiore e minore che parrà di giustizia. Con vittoria di spese, diritti ed onorari". 3. Si costituiva in giudizio l'ASL ROMA 2 la quale deduceva che la PMA dell'Ospedale era provvisto di un responsabile nella persona del sott. (...), di un responsabile del trattamento biologico nella persona del dott. (...) e di un medico responsabile dell'invio dei dati di attività al Registro Nazionale delle PMA, dott.ssa (...); che mai nessun evento avverso si era registrato presso quella struttura; che quel servizio medico si era servito dell'attività di una società certificata (la (...) s.r.l.) per stoccaggio e trasporto di cellule staminali emopoietiche e per la gestione del c.d. disaster recovery plans; che era stata stipulata una convenzione con l'Azienda Ospedaliera "(...)" al fine di assicurare l'effettuazione di prestazioni di indagine di genetica prenatale, a supporto delle attività della PMA; che, questa e altra documentazione, "pur non potendo sopperire formalmente alla rilevata carenza prettamente documentale del sistema Qualità della PMA, vale comunque a dimostrare che - seppur solo di fatto - il "sistema Qualità" era comunque garantito dall'insieme delle procedure interne aziendali, formalizzate ed osservate da tutto il personale addetto"; che, a seguito dell'ispezione disposta dal Ministero della salute, le uniche osservazioni avevano riguardato: la nomina del nuovo Responsabile della PMA, a seguito del recente pensionamento del dott. Catania; l'implementazione delle modalità di identificazione del materiale biologico, che garantisca la corretta e sicura identificazione della coppia in ogni fase della procedura di PMA; l'identificazione dei punti critici (in particolare il controllo in doppio); la registrazione della tracciabilità di operatori/materiale/reagenti; che l'implementazione delle modalità di identificazione del materiale biologico era una misura evidentemente imposta dall'evento avverso accaduto, ma ciò non equivaleva a potere affermare che le modalità identificative in atto fossero di per sé inadeguate o addirittura inesistenti; che, nel caso di specie, si era trattato di un mero errore umano (ammesso dalla stessa biologa responsabile dello "scambio" e identificato dai NAS); che era certo che presso la PMA dell'Ospedale "Pertini" fosse avvenuto - in modo del tutto accidentale - lo scambio degli embrioni per cui è causa; che si era "trattato di una grave negligenza riconducibile agli operatori addetti al laboratorio biologico ove vengono conservati e manipolati gli embrioni. Il NAS ipotizza che lo scambio sia avvenuto durante la procedura di trasferimento degli embrioni nell'utero dell'odierna attrice, avendo forse la biologa dott.ssa Poverini manipolato contemporaneamente sia le provette della coppia (...)-(...) che quella dell'altra coppia coinvolta nell'evento ((...)-(...))"; che fosse corretto "ipotizzare che lo scambio sia avvenuto fin dal primo giorno (pick up del 4 dicembre), atteso che l'errore potrebbe essere consistito nell'erronea indicazione dei nomi sulle prime provette utilizzate"; che si era in presenza "di un errore umano, del tutto involontario e riconducibile ad una mera distrazione, o superficialità, o qualsiasi altro stato d'animo del biologo, che ha permesso il verificarsi di questo grave evento"; che la "dott.ssa Poverini, quindi, avrebbe sbagliato poiché non ha osservato le regole più elementari che dovevano condizionare le operazioni dalla stessa compiute in fase di impianto dell'embrione"; che, in ordine alla quantificazione del danno, attesa l'assenza nelle Tabelle di valutazione del danno di una voce specifica per il danno lamentato dagli odierni attori, si poneva il problema di parametrare il danno; che non era applicabile il parametro del danno da morte atteso che i due figli che sono nati in occasione dello scambio degli embrioni sono in vita e non presentano alcuna patologia che ne possa compromettere la salute; che il danno, quindi, non riguardava la vita dei nati, ma l'impossibilità per i genitori genetici di vivere assieme ai gemelli (...) e (...), i quali erano stati riconosciuti giudizialmente quali figli della coppia (...)-(...); che nulla escludeva, nel tempo, che i figli divenuti maggiorenni potessero, come prospettato dagli stessi attori, chiedere di essere riconosciuti nello status di discendenti dei danneggiati; che il massimo danno eventualmente riconoscibile in favore degli attori non poteva essere superiore al 50% del danno da morte calcolato in base alle Tabelle di Roma, che prevedono un importo massimo di Euro 340.000,00 circa; che il sig. (...) aveva lamentato un ulteriore danno concretatosi nella diminuzione dei propri guadagni per il forte stress derivante dalla vicenda che lo aveva coinvolto non riuscendo a dedicarsi proficuamente al suo lavoro di architetto; che il riferimento alla dichiarazione dei redditi non appariva elemento a dimostrare il mancato guadagno; che, quanto al lamentato danno da infertilità, in quanto la sig.ra (...), a causa di quanto accaduto, non sarebbe stata più in grado di portare avanti una gravidanza, si trattava di circostanza priva di riscontro medico-legale; che era noto che particolari situazioni di stress (molto spesso legate proprio all'incertezza di riuscire nella procreazione) potevano rendere più difficoltoso il buon esito della gravidanza, ma che gli stessi consulenti di parte avevano concluso che l'evento dello scambio "... potrebbe complicare ulteriormente il quadro di infertilità interferendo sulloutcome della gravidanza ..." con ciò escludendo il profilo di danno in parola. 4. Tanto premesso parte convenuta rassegnava le seguenti conclusioni: "Piaccia allon.le Tribunale adito in composizione monocratica, ogni contraria istanza ed eccezione disattesa e reietta ... "nel merito, - in via principale: rigettare tutte le domande e pretese attoree in quanto infondate in fatto e destituite di giuridico fondamento, e comunque non provate, ricusando ogni e qualsiasi perizia tecnica di parte che non potrà trovare acritico ingresso nel processo. Con vittoria di spese e compensi legali del presente grado di giudizio; - in via subordinata accertare e dichiarare, secondo univocità e rigore e per quanto emergerà all'esito della causa, i danni dedotti dagli attori e quantificare gli stessi secondo corretta ed equilibrata applicazione dell'equità, anche ex art. 1226 c.c.. Con vittoria di spese e compensi di lite". 5. Con ordinanza del 13.1 1.2020 si disponeva in ordine all'ammissione dei mezzi di prova richiesti (testimonianza e consulenza tecnica d'ufficio); quindi, all'udienza del 13.5.2021, la causa era trattenuta in decisione con concessione dei termini ex art. 190 Cpc. 6. Nel merito la domanda è fondata nei limiti di cui alla presente motivazione. 7. La straordinaria singolarità della vicenda in esame impone la previa qualificazione della situazione giuridica azionata dagli attori la quale - si badi bene - risulta essere stata già oggetto di ampio scrutinio nella precedente controversia che ha visto contrapposti gli attori ai coniugi (...) - (...) e che è compendiata nei provvedimenti giudiziari allegati all'atto introduttivo del giudizio (ali. da 11 a 13). 8. Quantunque, infatti, non si debba in questa sede sottoporre a verifica la consistenza giuridica e la connessa tutelabilità della relazione che i coniugi (...) - (...) hanno rivendicato rispetto ai piccoli (...) e (...) in posizione antagonista rispetto alla coppia (...) - (...), non di meno non può dubitarsi che la qualificazione di questo rapporto assume decisiva rilevanza ai fini dell'accoglimento o meno della domanda risarcitoria spiegata nei confronti della Struttura convenuta. Se, difatti, un diritto tutelabile non sussistesse, correlativamente dovrebbe essere negata una tutela risarcitoria in favore degli odierni attori i quali si troverebbero nella condizione di aver subito un evento avverso di enorme impatto esistenziale, ma senza poter allegare la compromissione di un diritto costituzionalmente riconosciuto, sulla scia delle note pronunce della Corte di legittimità a partire dalla sentenza n. 26972/2008 e dalla sentenza n. 29832/2008. La questione merita, quindi, di essere affrontata affinché dall'esito negativo della controversia di cui si è detto non discendano conseguenze pregiudizievoli per gli odierni attori anche nei confronti dall'Azienda sanitaria di riferimento e anche perché, ai fini della presente decisione, dall'identificazione del diritto leso discendono conseguenze rilevanti sul profilo della quantificazione del danno, come avrà modo di chiarirsi. 9. E' noto che, ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, sia necessario: 1) che l'interesse leso, attinente a diritti inviolabili della persona, sia di rango costituzionale; 2) che sussista una lesione grave, con offesa che superi la soglia minima di tollerabilità; 3) che si tratti di danno non futile, cioè non consistente in meri disagi o fastidi; 4) che vi sia una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio, non potendo mai ritenersi il danno in re ipsa (da ultimo, Cassazione n. 29206/2019). E' chiaro che viene in rilievo in questa sede - a fronte dell'evidenza autottica del grave pregiudizio recato - innanzitutto il parametro di cui al punto 1) dell'elencazione, non disgiunto tuttavia da quello di cui al punto 4) che esige - sulla scorta di un giudizio prognostico - che si identifichi correttamente il bene della vita pregiudicato dalla condotta illecita. 10. In primo luogo, si deve prendere in considerazione la distinzione - che ha sorretto le pregresse decisioni cautelari e di merito - circa l'incompatibilità giuridica di un rapporto di filiazione concorrente e paritaria tra i genitori genetici e i genitori biologici dei due neonati e che si sono concluse con l'affermata prevalenza dello status di figli derivante dalla nascita come fattore costitutivo della genitorialità con conseguente preclusione di qualsivoglia azione di accertamento spiegata dagli odierni attori nelle forme (inammissibili e/o inesistenti) del disconoscimento di paternità e/o di maternità. 11. Questa conclusione renderebbe, di per sé, inappropriato non solo il riferimento ai criteri tabellari invocati dagli attori e relativi alla quantificazione del risarcimento per la lesione del rapporto parentale (da morte si afferma in citazione), ma addirittura contrasterebbe l'affermazione circa l'esistenza stessa di una relazione che sia suscettibile di una tale qualificazione. In altri termini la portata di quelle decisioni è tale da revocare in dubbio che possa essere dedotta in questa sede la lesione di un rapporto parentale che, come tale, è stato escluso in altra percorso giurisdizionale sulla base di considerazioni che appaiono, per un verso, condivisibili e non messe ulteriormente in discussione dai medesimi attori e, per altro, esercitanti un'efficacia vincolante. 12. Nello stesso perimetro che, per consolidata giurisprudenza, circoscrive l'area della perdita del rapporto parentale, si deve evidenziare che quantunque non siano vincolanti i connotati formali relativi alla tradizionale composizione del nucleo familiare quale società naturale, è parimenti certo che debba essere allegata dai danneggiati la sussistenza di un tessuto relazionale in essere o prossimo a venire in esistenza la cui lesione sia oggetto della domanda risarcitoria. La genitorialità genetica, per definizione, resta estranea a questo circuito e, separata da quella biologica e/o giuridica, resta priva di tutela sotto questo profilo. 13. Non ignora il decidente che il tema del rapporto parentale "potenziale" sia stato preso in esame dalla giurisprudenza di legittimità al fine di tracciare una linea di demarcazione utile ai fini della liquidazione del danno in caso di feto nato morto per effetto di una malpractice sanitaria. In quel caso la giurisprudenza della Corte i è correttamente orientata nel senso di ritenere che nel caso di "feto nato morto" sia "ipotizzabile solo il venir meno di una relazione affettiva potenziale (che, cioè, avrebbe potuto instaurarsi, nella misura massima del rapporto genitore figlio, ma che è mancata per effetto del decesso anteriore alla nascita), ma non anche una relazione affettiva concreta sulla quale parametrare il risarcimento, all'interno della forbice di riferimento" (Cassazione n. 22859/2020; n. 19190/2020; n. 12717/2015). La questione presenta solo un'apparente, e pur suggestiva, prossimità con quella oggetto del presente giudizio in cui, piuttosto, la privazione della genitorialità è avvenuta in forza di una condotta illecita antecedente che ha privato gli attori di una relazione qualificabile in termini di filiazione con gli embrioni da cui è scaturita la nascita dei piccoli (...) e (...). Parte attrice ha percorso tale argomentazione che, ripetesi, resta confinata nell'alveo delle mere suggestioni, ma che resta priva di un riscontro giuridico appropriato, giacché difetta in capo ai coniugi (...) - (...) una situazione di diritto assimilabile al rapporto parentale che possa dirsi leso nel caso del "feto nato morto" che esige la titolarità di posizione giuridica riconosciuta dall'ordinamento secondo quella declinazione. Non v'è, quindi, possibilità alcuna di pervenire a un risarcimento del danno in favore degli odierni attori se la questione si allineasse esclusivamente secondo le coordinate proprie del rapporto parentale e tanto per la già enunciata ragione che la sussistenza di un tale diritto è stata esclusa nell'altro procedimento e con valenza, si badi bene, extra moenia in direzione della presente decisione essendosi tradotta la pronuncia recata dalla sentenza n. 9440/2016 in un accertamento sullo stato dei coniugi (...) - (...) rispetto ai piccoli (...) e (...) da cui non è dato prescindere. 14. In secondo luogo, questo approdo non esclude, tuttavia, che la ricognizione in ordine alla qualificazione della situazione giuridica azionata dagli attori risulti priva di un riconoscimento di rango costituzionale e sia, come tale, meritevole di risarcimento. 15. Innanzitutto deve considerarsi la gravissima compromissione degli interessi lesi dalla condotta sanitaria di cui si discute. L'implementazione degli embrioni nell'utero della sig.ra (...) rappresenta, a ogni evidenza, un grave inadempimento della prestazione medica richiesta che ha subito, probabilmente, il peggiore e più nefasto degli sviamenti possibili per effetto di una condotta indiscutibilmente sprovvista dei minimi parametri di diligenza. Una condotta plurioffensiva che ha, comunque, interessato e sconvolto (anche per l'indebito risalto mediatico della vicenda non controllata dalla struttura convenuta nella sua pubblica divulgazione) la vita di due nuclei familiari alterando irrimediabilmente la genitorialità di entrambe le coppie. Questo esclude che l'illecito abbia natura aquiliana, come nel caso del danno da lesione del rapporto parentale, posto che nel caso di specie risulta sussistente "il tratto distintivo della responsabilità contrattuale risiede nella premessa della relazionalità, da cui la responsabilità conseguente alla violazione di un rapporto obbligatorio", sicché il "danno derivante dall'inadempimento dell'obbligazione non richiede la qualifica dell'ingiustizia, che si rinviene nella responsabilità extracontrattuale, perché la rilevanza dell'interesse leso dall'inadempimento non è affidata alla natura di interesse meritevole di tutela alla stregua dell'ordinamento giuridico, come avviene per il danno ingiusto di cui all'art. 2043 cod. civ." (secondo quanto ritenuto da Cassazione sez. un. 22 luglio 1999, n. 500), "ma alla corrispondenza dell'interesse alla prestazione dedotta in obbligazione (arg. ex art. 1174 c.c.)", essendo, dunque, "la fonte contrattuale dell'obbligazione che conferisce rilevanza giuridica all'interesse regolato" (così, in motivazione, Cassazione sez. III n. 28991/2019). 16. La violazione contrattuale, di per sé, si erge a connotato identificativo del diritto violato degli attori che può riassumersi, in prima battuta, nella perdita di una chance di genitorialità biologica e, quindi, giuridica. Non dispone il decidente di alcun elemento certo per sostenere che gli embrioni da cui è scaturita la nascita dei piccoli (...) e (...), impiantati con una corretta tecnica di fecondazione assistita nell'utero della sig.ra (...), avrebbero avuto una gestazione parimenti positiva come accaduto per la sig.ra (...). Ma si tratta di una circostanza che, espressamente allegata a fondamento della domanda, non è stata contestata dalla convenuta la quale non ha messo in discussione il dato di un identico percorso vitale se la fecondazione fosse stata correttamente posta in essere. Il contegno processuale, rilevante ai sensi dell'art. 115 Cpc, riceve comunque conforto dall'esame della documentazione medica posta a disposizione dalle parti la quale conferma che la sig.ra (...) soffriva di un'endometriosi pelvica di stadio elevato (v. relazione 26.8.2013) e, come noto, se una paziente con endometriosi non riesce a rimanere incinta in maniera spontanea e deve ricorrere alla fecondazione assistita, le chance di diventare madre sono analoghe a quelle che hanno le donne che sono infertili per un problema tubarico, per una causa sconosciuta o perché hanno un partner con problemi di fertilità. Da questo punto di vista, l'età dell'attrice al tempo del fatto (classe 1976), porta a escludere un insuccesso dell'impianto degli embrioni i quali, piuttosto, hanno rilevato un'altissima capacità vitale riuscendo a completare il ciclo di gestazione in un utero geneticamente difforme da quello della propria madre genetica; il tutto a fronte di una percentuale di successo delle PMA che si attesta su valori particolarmente elevati al fine di ritenere sussistente una perdita di chance. Si legge, infatti, nella Relazione del Ministro della Salute al Parlamento sullo stato di attuazione della legge contenente norme in materia di procreazione medicalmente assistita per l'ano 2020 (legge 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 15) - documento cui il decidente ha ritenuto di dover accedere poiché direttamente connesso all'applicazione della norma giuridica da applicare e complemento del testo legislativo di riferimento - che, per le tecniche di II livello, la percentuale di gravidanze andate a buon fine con le tecniche di PMA oscilla mediamente intorno al 25%. A queste condizioni non v'è dubbio che i coniugi (...) - (...) abbiano visto compressa una chance di procreazione biologica e, quindi, giuridica (v. sul punto i provvedimenti giudiziari già citati) quale diretta conseguenza dell'implementazione degli embrioni nel grembo della sig.ra (...); vertendosi, secondo la giurisprudenza di legittimità, in un caso in cui la qualificazione dell'evento di danno non deve essere resa in termini di accertato risultato mancato, ma piuttosto di possibilità perduta del risultato medesimo (cfr. Cassazione n. 28993/2019 e n. 19372/2021), per giunta maturata nell'alveo di una obbligazione sanitaria certamente non qualificabile come di risultato, al pari della maggior parte delle prestazioni medicoassistenziali complesse. 17. Si è in presenza, quindi, alla lesione di un diritto alla genitorialità (Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo del 3 novembre 2011, (...) e altri contro Austria; Corte costituzionale n. 162/2014)) che rinviene la propria legittimazione e tutela nei principi generali dell'ordinamento costituzionale e si colloca tra i diritti naturali tutelati dalla medesima Carta costituzionale (art. 2 e art. 29) in ragione dell'intima correlazione che esiste tra persona umana e procreazione; decisive, in tal senso, le considerazioni espresse dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 162/2014 secondo cui: "deve anzitutto essere ribadito che la scelta d(ella) coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che, come questa Corte ha affermato, sia pure ad altri fini ed in un ambito diverso, è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare .... La determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA di tipo eterologo, perché anch'essa attiene a questa sfera. In tal senso va ricordato che la giurisprudenza costituzionale ha sottolineato come la legge n. 40 del 2004 sia appunto preordinata alla "tutela delle esigenze di procreazione", da contemperare con ulteriori valori costituzionali, senza peraltro che sia stata riconosciuta a nessuno di essi una tutela assoluta, imponendosi un ragionevole bilanciamento tra gli stessi (sentenza n. 151 del 2009)" (Par.. 6). La correlazione intuiva, quanto insopprimibile, tra persona umana e procreazione ha indotto l'ordinamento - con la legge 40/2004 - ad agevolare e rendere medicalmente praticabile l'esercizio di questo diritto sebbene "la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli (come è deducibile dalle sentenze n. 189 del 1991 e n. 123 del 1990). Nondimeno, il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerata dall'ordinamento giuridico, in applicazione di principi costituzionali, come dimostra la regolamentazione dell'istituto dell'adozione. La considerazione che quest'ultimo mira prevalentemente a garantire una famiglia ai minori (come affermato da questa Corte sin dalla sentenza n. 11 del 1981) rende, comunque, evidente che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa" (ivi). D'altronde, non senza ragione, l'art. 6, comma 1, della legge 40/2004 prevede che "Alla coppia deve essere prospettata la possibilità di ricorrere a procedure di adozione o di affidamento ai sensi della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, come alternativa alla procreazione medicalmente assistita". 18. Secondariamente, sempre ai fini dell'esatta perimetrazione della situazione giuridica dedotta dagli attori, non deve trascurarsi quanto eticamente e giuridicamente riassunto nel sintagma "provenienza genetica". E' del tutto pacifico che la malpractice venuta in essere presso l'Ospedale Pertini abbia gravemente compromesso, per un verso, il diritto dei concepiti a vivere nell'alveo della famiglia cui geneticamente appartengono ((...) - (...)) e, per altro profilo, il diritto dei detti coniugi a vedere generata una filiazione a essi geneticamente riconducibile. La perdita di chance, a questo riguardo, si puntualizza e si specializza in ragione del fatto che non solo gli attori hanno visto compromesso il proprio generico diritto alla genitorialità naturale e giuridica, ma più in particolare il diritto a diventare i genitori dei piccoli (...) e (...) derivanti dal loro concepimento medicalmente assistito. 19. Per intendersi, l'ordinamento conosce da sempre il risarcimento del danno biologico (rectius: dinamico relazionale) ogni qualvolta la lesione intacchi la capacità riproduttiva dei danneggiati. La perdita della capacità di procreazione ha una sua, indiscussa, rilevanza e conosce protocolli tabellari di risarcimento. E' evidente che, nel caso in esame, la valutazione della fattispecie non può arretrare sino a questo momento equiparando o omologando il diritto leso dei coniugi (...) - (...) sino al punto da configurarlo come la mera compromissione della capacità di generare. La stadiazione della lesione si colloca in una soglia decisamente più avanzata in cui la perdita della genitorialità ha riguardato embrioni concepiti in modo medicalmente assistito e provvisti di una evidente forza vitale che ne ha consentito la nascita. Potrebbe, vicariamente, invocarsi il ricorso ai principi che governano la morte prenatale di un figlio che, come noto, si iscrive nel più ampio contesto di quelli che vengono considerati "danni da parto per malasanità" (Cassazione n. 22859/2020 e n. 19190/2020), ma non v'è chi non veda che, nel caso in esame, la componente più cospicua del danno è rappresentata proprio dallo spoglio della maternità e della paternità che gli attori hanno irreversibilmente subito per effetto dell'errore sanitario e in presenza di nati che devono considerarsi geneticamente come loro figli. 20. E' vero, come la Consulta ha precisato, che la societas familiare e la filiazione non prevedono quale connotato indefettibile la condivisione di un unico "dato genetico", tuttavia non può neppure trascurarsi che la procreazione naturale si fondi da sempre sulla trasmissione di un patrimonio genetico unico e irripetibile che si erge dagli arbori dell'umanità a connotato differenziante la persona umana e che i protocolli per la PMA omologa si inseriscono nel solco di questa primaria istanza naturale agevolandone lo svolgimento. L'aver la Corte costituzionale, con la sentenza n. 162/2014, ritenuto illegittimo il divieto di fecondazione eterologa non intacca la priorità naturale, e quindi assiologica, che compete alla procreazione riconducibile alla coppia che generi figli riconducibili in via esclusiva e condivisa al proprio patrimonio genetico. Le pronunce che hanno negato agli attori la genitorialità biologica e giuridica sui piccoli (...) e (...) si sono mosse nel solco di valutazioni che non intaccano la sussistenza di questo diritto naturale che la condotta negligente della dipendente della Struttura ha gravemente compromesso. Né il decidente intende approntare un percorso argomentativo che segmenti e parcellizzi le situazioni giuridiche che vengono in emergenza al fine di ricavare una sorta di diritto innominato che, come talvolta accade, viene forzatamente ricondotto nell'ambito dell'art. 2 della Carta o in altri statuti sovranazionali. Perdita degli organi della riproduzione, mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583-bis c.p.), interruzione di gravidanza non consensuale (art. 593 ter c.p.), morte del feto non segnano gradienti differenti della lesione di un medesimo diritto, ma intaccano a tuta evidenza beni giuridici diversi e generano vicende risarcitone distinte. In questa sequela si è inserita la drammatica vicenda sotto scrutinio che ha visto compromesso la genitorialità genetica dei coniugi (...) - (...). 21. A riscontro della sussistenza di un diritto alla genitorialità genetica in relazione agli embrioni oggetto anche di fecondazione medicalmente assistita depongono plurime considerazioni: a) innanzitutto si deve considerare che "in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo. il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto ne' essere titolare di obblighi" (art. 9, comma 3, legge 40/2004), il ché rende evidente che a un'identica conclusione non può pervenirsi con riguardo agli ovuli fecondati e agli embrioni; b) l'art. 12, comma 7, della medesima legge tutela l'irripetibilità genetica dell'essere umano stabilendo che "chiunque realizza un processo volto ad ottenere un essere umano discendente da un'unica cellula di partenza, eventualmente identico, quanto al patrimonio genetico nucleare, ad un altro essere umano in vita o morto, è punito con la reclusione da dieci a venti anni e con la multa da 600.000 a un milione di Euro. Il medico è punito, altresì, con l'interdizione perpetua dall'esercizio della professione"; c) la Convenzione di Oviedo del Consiglio d'Europa del 4 aprile 1997 e il Protocollo addizionale del 12 gennaio 1998 n. 168, sul divieto di clonazione di esseri umani, recepiti nel nostro ordinamento con la legge di adattamento 28 marzo 2001, n. 145, in particolare il Capo IV della Convenzione tutela il genoma umano e prende in considerazione il patrimonio genetico dell'individuo come indisponibile senza il suo consenso e per circoscritte finalità sanitarie; d) è opinione autorevole del Giudice delle leggi che "le scoperte della biomedicina ... sempre più ampie hanno rimesso in discussione il ruolo del diritto anche nei suoi rapporti con altri valori (in primo luogo quello dell'etica, da cui l'affermazione del nuovo campo di indagine della bioetica) e con esso la stessa identità giuridica dell'essere umano. Infatti, non può più essere considerato come soggetto "conformato a diritto" in varia misura dalla causalità naturalistica e biologica, ma come entità in grado di amministrare razionalmente e consapevolmente se stessa, e, quindi, i vari assetti valoriali che riguardano la propria salute, la propria discendenza, la fine della propria esistenza e con essa il proprio destino anche in senso biologico" ("La procreazione medicalmente assistita e le tematiche connesse nella giurisprudenza costituzionale", Servizio Studi, marzo 2021, pag. 5) con una moltiplicazione o, comunque, prolifica espansione dei diritti fondamentali che rinviene la propria matrice costituzionale nell'art.2 della Carta; e) né deve trascurarsi, in favore di una autonoma rilevanza delle relazioni genetiche (le più intime e profonde di cui la persona umana possa essere parte), la circostanza che la Cedu, con la sentenza del 25 settembre 2012 (Godelli c. Italia, sulla scia della sentenza Odièvre c. Francia n. 42326 del 13/2/2003), la Corte costituzionale (sentenza n. 278/2013) e la Corte di cassazione a seguire (da ultimo n. 22497/2021) abbiano riconosciuto al figlio adottato il dirotto all'accesso alle informazioni di carattere sanitario della madre biologica (riguardanti le anamnesi famigliari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all'esistenza di malattie ereditarie trasmissibili) la quale abbia esercitato il diritto all'anonimato al momento del parto; sino alla modifica dell'art. 28 della L. n. 184/1983, ad opera dell'art. 24 della legge 28 marzo 2001, n. 149 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante "Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori", nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile; f) e del tutto condivisibile è il convincimento della Corte di legittimità secondo cui "il diritto alla conoscenza biologica delle proprie origini segue una logica anzitutto identitaria, rappresentando quello all'identità personale un diritto fondamentale riconosciuto a ciascun essere umano, ma può nascere anche da un bisogno di salvaguardia della salute e della vita del richiedente, sotteso alla necessità di individuare, ad esempio, particolari patologie di tipo genetico, per le quali sia necessaria un'anamnesi familiare" (così in motivazione ordinanza n. 22497/2021 citata); né può escludersi che un domani siano i coniugi (...) - (...) a dover interpellare i propri discendenti genetici per conseguire prestazioni sanitarie salvavita (si pensi solo al prelievo di midollo), essendo del tutto note le relazioni e inesistente qualsivoglia anonimato. 22. Le disposizioni sovranazionali e nazionali sopra ricordate affermano, in particolare, la necessità di proteggere "l'essere umano nella sua dignità e nella sua identità e garantiscono ad ogni persona, senza discriminazione, il rispetto della sua integrità e dei suoi altri diritti e libertà fondamentali riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina" (art. 1 Convenzione) laddove la tutela dell'identità presuppone la conservazione e l'intangibilità del patrimonio genetico in mancanza di un espresso consenso informato. 23. L'art. 24 Convenzione dispone, in piena coerenza con l'ordinamento interno, che "la persona che ha subito un danno ingiustificato risultante da un intervento ha diritto a un equo indennizzo nelle condizioni e secondo le modalità previste dalla legge" includendovi evidentemente anche le attività che abbiano in qualunque modo intaccato il patrimonio genetico del paziente. 24. Il combinato disposto di queste norme consente di poter concludere che la condotta sanitaria contestata abbia gravemente violato la piena e incoercibile disponibilità del patrimonio genetico di ciascuno degli attori irripetibilmente racchiuso in ciascuno dei due embrioni da cui è scaturita la nascita dei gemelli (...) e (...). 25. Una significativa conferma di questa conclusione si ricava anche dall'esame degli approcci ermeneutici cui è pervenuta la giurisprudenza della legittimità penale laddove ha stabilito che "l'espianto di ovociti dall'utero di una donna, effettuato con violenza mediante costrizione alla sedazione e al fine di trarne un ingiusto profitto mediante l'utilizzo in trattamenti di procreazione medicalmente assistita in favore di terzi, configura il delitto di rapina, in quanto gli ovociti, una volta distaccati dal corpo umano, divengono "cose mobili" detenute dalla donna, e, quindi, sono passibili di sottrazione e impossessamento" (Cassazione pen. n. 37818/2020 e, prima, sez. fer. n. 39541/2016); un approccio che ha dato luogo a discussioni proprio per la difficoltà di un inquadramento degli ovociti quali "res" del delitto di rapina e della cui problematicità la sentenza citata è perfettamente consapevole laddove precisa che "la peculiarità dell'intervento di pick up (che comporta l'aspirazione del liquido follicolare contenente gli ovociti attraverso un sottile ago e il trasferimento del liquido in laboratorio, ove viene esaminato al microscopio per recuperare gli ovociti, poi posti in speciali terreni di coltura) non è di ostacolo alla configurabilità in capo alla donna della detenzione dei gameti femminili, che la stessa può anche donare a coppie con problemi di fertilità, in presenza di determinati presupposti" (Par.. 4). 26. L'autonoma rilevanza del patrimonio genetico che la Cassazione penale ha ricondotto al rango di "res" per evidenti, diverse finalità qualificatone, pone in esergo l'autonoma rilevanza del diritto di cui ciascuno degli attori era titolare in relazione agli embrioni destinati a essere impiantati nel grembo della sig.ra (...). 27. Questo approdo non vale certo a porre in discussione né le conclusioni della sentenza data 10.5.2016 n. 9440 né dell'ordinanza collegiale del 25.9.2015 che hanno diversamente concluso in punto di genitorialità biologica. In particolare, condivide in parte il decidente la tesi secondo cui "l'articolo 8 della legge 40 nel determinare lo stato giuridico del nato da procreazione medicalmente assistita. non può riferirsi all'embrione fecondato in vitro; l'embrione è privo di personalità giuridica. di capacità successoria c. in quanto tale, non può acquisire alcuno stato di filiazione prima e a prescindere dall'impianto nell'utero e della formazione di un feto capace di vita intrauterina e prima della nascita stessa" (pag. 9 ordinanza collegiale); tuttavia la prospettiva deve essere mutata laddove l'embrione non venga in considerazione come centro di titolarità di autonome situazioni giuridiche, ma piuttosto quale destinatario di diritti dei titolari del patrimonio genetico che ha dato luogo all'embrione stesso, al punto da essere qualificato in sede penale come una "res". 28. Invero anche quella prima conclusione (pag. 9 citata) non può essere così apoditticamente sostenuta alla luce della prescrizione per cui, in materia di consenso alla procreazione assistita, "la volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell'ovulo" (art. 6, comma 3, legge 40/2004 e d.m. 28.12.2006 n. 265). E' vero, infatti, che consentire la revoca del consenso, anche in un momento successivo alla fecondazione dell'ovulo, non apparirebbe compatibile con la tutela costituzionale degli embrioni più volte affermata dalla Consulta (tra le altre Corte costituzionale n. 151/2009 e n. 229/2015) e che trova esplicita affermazione nell'art. 1 della legge 40/2004 secondo cui ".. è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito" (v. anche Capo VI titolato alle "Misure di tutela dell'embrione" tra cui rientra anche il divieto di maternità surrogata ex art. 12, comma 6, che ha un'oggettiva convergenza con il caso in esame). 29. Quindi la tesi dell'assenza di qualsivoglia imputazione di diritti in capo al concepito è, in parte, da correggere sotto l'ombrello della legge che governa la PMA. Vietando, infatti, la revoca del consenso al trattamento dopo la fecondazione dell'ovulo (art. 6, comma 3) e ammettendo la sospensione del trasferimento in utero degli embrioni creati in vitro solo per "grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione" (art. 14, comma 3), la legge 40/2004 aveva completato il quadro delle tutele verso gli embrioni vietando la sovrapproduzione embrionaria, con successiva crioconservazione degli embrioni non trasferiti, imponendo al medico di produrre massimo tre embrioni e di procedere a un unico e contemporaneo impianto anche nei casi in cui la più accreditata scienza medica avrebbe suggerito un graduale trasferimento dei medesimi o una più alta produzione di embrioni. Come noto su questa divieto è intervenuta la Corte costituzionale, con la sentenza n. 151/2009, con T'intento di ricondurre a ragionevolezza il bilanciamento tra gli interessi dell'embrione e il diritto alla salute della madre, nella consapevolezza che la tutela del primo non può essere assoluta, ma può subire limitazioni necessarie per salvaguardare la salute della donna, requisito indispensabile per il buon esito del progetto procreativo e, dunque, anche per il soddisfacimento del diritto alla vita dell'embrione. Vita su cui si sono, in seguito, agglutinate le considerazioni della sentenza n. 96/2015 con la quale la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 4 della legge nella parte in cui esplicitamente vietavano l'accesso alla PMA a coppie fertili portatrici di malattie a trasmissione genetica, interessate pertanto a ricorrere a tale pratica, non già per il superamento di problemi di sterilità o infertilità, quanto per poter praticare sull'embrione prodotto in vitro esami diagnostici e, all'esito di questi, poter eventualmente evitare il trasferimento degli embrioni malati, per giunta esposti a un successivo aborto consentito in ragione della salute della madre ex art. 6 della legge n. 194/78. 30. Questo induce a correggere anche l'affermazione del giudice collegiale cautelare secondo cui la PMA "si sviluppa con la fecondazione in vitro (o nel ventre materno, a seconda delle tecniche) e si compie solo con l'impianto dell'embrione nell'utero materno, la gravidanza e la nascita quando il tutto finisce per assumere rilevanza giuridica con lo stato di filiazione del nato" (pag. 10) sia perché introduce una scissione non prevista tra fecondazione extrauterina e impianto in utero sia perché interrompe la sequenza, solo innescata artificialmente, che, invece, conduce naturalmente al parto senza soluzione di continuità alcuna. La dissociazione tra genitorialità genetica e giuridica è riscontrabile sia nella procreazione assistita eterologa (con donazione di gameti da parte di soggetti diversi dai genitori giuridici del nascituro), sia nei casi di adozione. La maternità surrogata comporta invece, a seconda delle ipotesi di surrogazione totale o parziale, un'ulteriore distinzione tra genitorialità genetica (dei committenti o dei donatori di gameti), genitorialità uterina (della gestante, che mette a disposizione il proprio utero per portare a termine la gravidanza) e genitorialità giuridica (dei committenti). Ma è una procedura vietata dall'ordinamento nazionale per gli effetti inammissibili e le aberrazioni che realizza in pregiudizio sia della dignità della donna che del concepito tutelato dall'art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176. Il senso di detto limite è stato chiarito, ancora una volta, dalla Corte costituzionale, la quale, nel dichiarare infondata, in riferimento agli art. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost. ed all'art. 8 della CEDU, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., nella parte in cui non prevede che l'impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all'interesse dello stesso, ha posto nuovamente in risalto il ruolo svolto dal divieto di cui all'art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004 ai fini della regolamentazione degli interessi coinvolti nelle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Annota la Corte di legittimità: "premesso che, nonostante l'accentuato favor dimostrato dall'ordinamento per la conformità dello status di figlio alla realtà della procreazione, l'accertamento della verità biologica e genetica del l'individuo non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento con gli altri interessi coinvolti, in particolare con l'interesse del minore alla conservazione dello status filiationis, e dato atto che in caso di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita il legislatore ha attribuito la prevalenza proprio a quest'ultimo interesse, dichiarando inammissibile il disconoscimento di paternità, la Corte costituzionale ha rilevato che, a fianco dei casi in cui il bilanciamento è demandato al giudice, "vi sono casi nei quali la valutazione comparativa tra gli interessi è fatta direttamente dalla legge, come accade con il divieto di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa", mentre "in altri il legislatore impone, allo opposto, l'imprescindibile presa d'atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata", confermando inoltre che in quest'ultimo caso l'interesse alla verità riveste natura anche pubblica, in quanto correlato ad una pratica che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, e per tale motivo è vietata dalla legge (cfr. Corte cost., sent. n. 272 del 2017)" (così in motivazione Cassazione sezioni unite n. 12193/2019; in senso conforme Cassazione sezione unite n. 9006/2021; mentre in dissonanza Cassazione n. 8325 del 2020 ritenendo necessario rivedere l'orientamento alla stregua del parere della Grand Chambre della CEDU del 10 aprile 2019)31. Non può contestarsi, a ogni evidenza, che quella dei piccoli (...) e (...) sia stata una oggettiva gravidanza surrogata, sia pure incolpevolmente da parte dei coniugi (...) - (...), rispetto alla quale trova comunque uno spazio di applicazione le riflessioni della giurisprudenza da ultimo citata circa la necessità di attuare una convergenza tra la genitorialità genetica e la genitorialità uterina ritenuta invece come esclusiva nel relativo giudizio di merito. Si legge, ancora, nella sentenza n. 12193/2019 che "il diritto fondamentale ... alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito ... è destinato ad affievolirsi in caso di ricorso alla surrogazione di maternità, il cui divieto, nell'ottica fatta propria dal Giudice delle leggi, viene a configurarsi come l'anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione, segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilità fondato sul consenso prestato alla predetta pratica, e torna ad operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell'identità genetica e biologica. Tale prevalenza, d'altronde, non si traduce necessariamente nella cancellazione dell'interesse del minore, la cui tutela, come precisato dalla Corte costituzionale, impone di prescindere dalla rigida alternativa vero o falso, tenendo conto di variabili più complesse, tra le quali assume particolare rilievo, nella specie, la presenza di strumenti legali idonei a consentire la costituzione di un legame giuridico che ... garantisca al minore una adeguata tutela (cfr. Corte cost., sent. n. 272 del 2017)". 32. La carenza assoluta di un consenso riconducibile a tutte le parti coinvolte in questa drammatica situazione non elude il tema della lesione all'identità biologica e genetica nella sua componente inscindibilmente biunivoca tra gli attori e i piccoli (...) e (...) che rappresenta comunque l'interesse giuridicamente tutelato dall'art.12 citato e a questa conclusione giova il rilievo che l'unica, totale discrasia tollerata dall'ordinamento tra genitorialità genetica e genitorialità legittima è solo quella associata all'adozione, restando in tutti gli altri casi pur sempre presente un legame genetico e biologico tra il nato e almeno uno dei genitori. Ricorda la Consulta che la questione dell'identità genetica "si è posta, infatti, in riferimento all'istituto dell'adozione e sulla stessa è di recente intervenuto il legislatore, che ha disciplinato l'an ed il quomodo del diritto dei genitori adottivi all'accesso alle informazioni concernenti l'identità dei genitori biologici dell'adottato (art. 28, comma 4, della legge 4 maggio 1983, n. 184, recante "Diritto del minore ad una famiglia", nel testo modificato dall'art. 100, comma 1, lettera p, del D.Lgs. n. 154 del 2013). Inoltre, in tale ambito era stato già infranto il dogma della segretezza dell'identità dei genitori biologici quale garanzia insuperabile della coesione della famiglia adottiva, nella consapevolezza dell'esigenza di una valutazione dialettica dei relativi rapporti (art. 28, comma 5, della legge n. 184 del 1983). Siffatta esigenza è stata confermata da questa Corte la quale, nello scrutinare la norma che vietava l'accesso alle informazioni nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata, ha affermato che l'irreversibilità del segreto arrecava un insanabile vulnus agli artt. 2 e 3 Cost. e l'ha, quindi, rimossa, giudicando inammissibile il suo mantenimento ed invitando il legislatore ad introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta compiuta dalla madre naturale e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all'anonimato (sentenza n. 278 del 2013)" (v. anche sentenze n. 32 en.33/2021) 33. Esiste, quindi, un diritto leso riconducibile alla diretta titolarità degli attori e tale diritto - sia pure nelle forme diverse da quelle azionate nella fase cautelare e di merito già conclusa - risulta meritevole di tutela sia sotto il profilo risarcitorio sia, con ogni probabilità, in forma specifica attraverso la richiesta giudiziale di instaurare comunque una relazione dialogica e affettiva con i nati, portatori irripetibili del loro patrimonio genetico. 34. Questo profilo ha rilievo nel caso in esame perché - come prospettato dagli stessi attori e opportunamente evidenziato da controparte - la lesione del legame genitoriale che la condotta colposa ha realizzato non appare irreversibile o, comunque, sprovvista di rimedi volti a mitigarne gli effetti. Come prospettato in citazione, e da considerarsi del tutto verosimile, può convenirsi sul fatto che "i signori (...) e (...) vivono in uno stato di incertezza continua fonte di grandissimo stress: (...) e (...) (...) infatti al compimento della maggiore età potrebbero agire giudizialmente chiedendo il disconoscimento di paternità del signor (...) ed il riconoscimento della paternità del signor (...) (cfr. artt. 244 e 249 c.c.)", ma già questa possibilità rende ultroneo il richiamo a criteri risarcitori analoghi a quelli previsti per la morte del figlio e non solo perché tali non possono considerarsi i due bambini rispetto agli attori. 35. In altri termini: la cesura di ogni relazione genitoriale, derivante dalle pronunce di merito intervenute nel giudizio che ha visto quali controparti i coniugi (...) - (...), non implica anche la definitiva e irrimediabile perdita di una relazione tra gli odierni attori e i piccoli (...) e (...), poiché questa è questione non solo non pregiudicata da quelle pronunce, ma che allo stato non risulta neppure esplorata dai sig.ri (...) - (...). 36. In definitiva: sebbene la Corte di cassazione (sentenza n. 5653/2012) abbia più volte precisato che non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta la preminenza della verità biologica rispetto a quella legale e che tale impostazione trovi ulteriore preciso riscontro nella riforma della filiazione del 2013 che ha abrogato l'art. 235 c.c., e introdotto il nuovo art. 244 c.c., per cui il genitore non può proporre l'azione di disconoscimento oltre cinque anni dal giorno della nascita del figlio, il caso in esame non esige la prevalenza o la comparazione tra le due "verità" di cui si discute, ma ha quale epicentro la lesione del diritto degli attori che hanno visto compromessa e dispersa in favore di terzi la propria discendenza genetica; diritto diverso, sebbene complementare, rispetto alla più generica perdita di chance derivante dall'improvvida deviazione del trattamento di PMA dal suo ordinato percorso. 37. L'individuazione, allora, del gradiente della lesione assume particolare rilievo alla luce delle concrete modalità con cui la vicenda in esame si è venuta sviluppando. Non solo il patrimonio genetico degli coniugi (...) - (...) è stato, come detto, disperso irreparabilmente ai fini della costituzione di una filiazione legale, ma avendo gli embrioni completato il proprio ciclo evolutivo con il parto gemellare del 3.8.2014 si deve comunque registrare l'insorgere di relazioni tra gli attori e i piccoli (...) - (...) che assumono rilevanza ai della quantificazione del danno. 38. Si è detto (v. Par..34) dell'esposizione degli attori alla possibilità che (...) e (...) procedano da maggiorenni al disconoscimento del sig. (...); evento certamente non prevedibile e connesso (com'è evidente) all'imponderabile evolversi delle umane vicende e non v'è dubbio che questa alea integra una componente non secondaria del danno da risarcire. 39. Non si è presa in esame la condotta sanitaria sotto scrutinio poiché i profili di responsabilità sono del tutto conclamati ed evidenti, neppure contestati dalla convenuta la quale si è limitata a dedurre l'esclusiva negligenza della propria dipendente nello scambio degli embrioni. Quanto esposto in comparsa di risposta dalla ASL è perfettamente aderente ai fatti di causa ("Aderendo alla tesi attorea (che, poi, è quella sostenuta dai Carabinieri del Comando NAS), la causa materiale dello scambio sarebbe ascrivibile alla condotta tenuta dalla dott.ssa Poverini (biologa della PMA) la quale avrebbe manipolato contemporaneamente - sotto la stessa cappa - sia le due provette della coppia (...)-(...) che le due provette della coppia (...)-(...). A tale primo errore, sarebbe seguito quello della mancata verifica della corrispondenza tra il nominativo apposto sulla provetta e quello riportato nella cartella. Quindi vi sarebbe stato sia lo scambio di provette che di cartelle. Ciò spiegherebbe perché non ci si sia accorti dello scambio confrontando le fotografie degli embrioni (che recano la valutazione degli embrioni: di classe A o B) con le valutazioni embrionali riportate, appunto, in cartella ... Quel che è certo, però, è che lo scambio è avvenuto a causa della mancata osservanza - da parte della biologa - delle comuni regole di prudenza (ed infatti il rapporto NAS parla di grave negligenza), buon senso e corretta prassi clinica. ... la "dott.ssa Poverini, quindi, avrebbe sbagliato poiché non ha osservato le regole più elementari che dovevano condizionare le operazioni dalla stessa compiute in fase di impianto dell'embrione". E si trattava di regole comuni, semplici, che anche un non addetto ai lavori avrebbe intuitivamente seguito. Come si è detto, 10 scambio è avvenuto esclusivamente per fatto della dott.ssa Poverini, la quale non ha osservato le comuni regole di prudenza, buon senso e corretta prassi clinica; regole comuni, semplici, che anche un non addetto ai lavori avrebbe potuto intuitivamente seguire". 40. Tutta la documentazione prodotta dalle parti (cfr. allegati 16 e 17) si orienta in direzione di una macroscopica negligenza la quale si inserisce in protocolli interni alla struttura dell'Ospedale Sandro Pertini vistosamente carenti. La convenuta sostiene l'esclusiva riconducibilità alla dott.ssa Poverini di ogni colpa per l'inosservanza dei protocolli interni. Invero dalla mera lettura della relazione ispettiva predisposta dal Ministero della salute del 14.5.2014 (allegato 18 comparsa) emerge chiaramente e al di là di ogni approccio mitigante che le procedure di organizzazione del reparto erano gravemente mancanti. Sostenere che il Ministero si sia "limitato" a pretendere a9 l'implementazione delle modalità di identificazione del materiale biologico, che garantisca la corretta e sicura identificazione della coppia in ogni fase della procedura di PMA; b) l'identificazione dei punti critici (in particolare il controllo in doppio) e c) la registrazione della tracciabilità di operatori/materiale/reagenti, equivale a misconoscere la circostanza che un solo soggetto sia stato in grado di provocare un danno di queste dimensioni senza che alcuno ne dovesse o potesse verificare l'operato e senza procedure di double-check indispensabili in un settore così altamente esposto a contaminazioni del materiale genetico. 41. Tale è apparsa, e appare al decidente, la responsabilità del Centro che gli ispettori ministeriale aveva proposto la sospensione delle attività di PMA che in esso si svolgevano, a dimostrazione di una catena di responsabilità diffusa e apicalmente orientata vista anche la mancanza di un sistema di controllo qualità (pag. 5). 42. La testimonianza resa in giudizio da (...) e (...), quantunque esplicativa delle buone prassi in uso presso il Centro in parola, non vale a incrinare l'asse delle conclusioni sopra enunciate, in linea peraltro con una giurisprudenza della Corte di legittimità secondo cui "In tema di azione di rivalsa nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017, nel rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest'ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., in quanto la struttura accetta il rischio connaturato all'utilizzazione di terzi per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale, a meno che dimostri un'eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile (e oggettivamente improbabile) devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell'obbligazione" (Cassazione n. 28987/2019). Orbene sono proprio gli accertamenti espletati dal Ministero della salute e dal Comando Carabinieri per la Tutela della Salute - n. A.S. di Roma (prot. n. 1/15 informativa datata 17.7.2014 e destinata al procedimento penale n. 4228/2014 R.G.) che inducono a considerare non tanto la gravità della negligenza posta in essere dal sanitario, quanto la mancanza di un sistema di controlli che potesse prevenire il verificarsi dell'evento che ha visto il "banale" scambio degli embrioni e delle cartelle, ossia una condotta non certo eccezionale e del tutto imprevedibile in un laboratorio genetico di quelle dimensione e di quella operatività. 43. Addurre che si sia in presenza di un "errore del tutto involontario, assimilabile al caso fortuito, tenuto conto della tensione e della peculiarità delle attività in parola" (pag. 4 comparsa) è un evidente ossimoro poiché è proprio quella tensione e quella peculiarità che avrebbe dovuto imporre una più diligente ed efficace procedura di controllo interno; si pensi all'acquisto del software Fertilab che avrebbe rappresentato un'implementazione voluta dalla ASL e il cui uso effettivo è avvenuto però solo dopo l'evento per cui è causa; il tema non è se quell'acquisito fosse dovuto in precedenza, ma se fossero operanti (e non meramente enunciate) regole per evitare il più esiziale degli errori quale è quello patito dagli attori. 44. Ciò posto, il decidente concorda sui rilievi che la parte convenuta ha formulato circa alcune delle voci di danno che compongono il quadro risarcitorio allineato dagli attori. 45. In primo luogo, deve escludersi che l'infertilità lamentata dalla sig.ra (...) possa porsi in diretta correlazione con la malpractice sotto scrutinio. E' indubitabile lo sconvolgimento che la vicenda ha causato negli attori ed è certo che tale condizione di stress si sia frapposta alla possibilità di una gravidanza. Tuttavia è una mera congettura, non suffragata da alcun riscontro medico-legale, che la sindrome post-traumatica da stress possa aver inciso ulteriormente sulla già complicata fertilità dell'attrice. E' vero, ed è notorio, che il condizioni di sofferenza particolarmente acuta e grave si assista a una complicazione dei rapporti sessuali della coppia; ma nel caso in esame la fecondazione si sarebbe dovuta realizzare per via medicalmente assistita e per la PMA non risultano evidenze scientifiche che dimostrino una correlazione tra lo stress psicologico della ricevente e l'aborto dell'embrione. In fondo non dissimile deve essere stata la condizioni della sig.ra (...) che ha scoperto di portare in grembo una vita che non le apparteneva geneticamente neppure in parte. 46. Secondariamente, deve escludersi che il dolore psichico e il conseguente danno accertato per via medico-legale (v. oltre) possa avere connotati di permanenza e immanenza per come dedotto dagli attori: sia perché il mancato consolidamento dei postumi (anche psichici) è in contraddizione con la liquidazione del danno non patrimoniale; sia perché la Ctu ha espressamente indicato la via attraverso cui i coniugi (...) - (...) possano pervenire a una compiuta elaborazione del dolore connesso al danno loro inferto. 47. La "risonanza mediatica" è stata individuata dai Ctu come fattore costitutivo della condizione deteriore degli attori che - al dolore dello scambio embrionale e della nascita aliunde dei gemelli - hanno dovuto aggiungere l'esposizione a un enorme clamore mediatico. Assume l'Asl convenuta di non ritenersi responsabile di tale voce di danno, allegata (si badi bene) dagli attori anche sotto il profilo della violazione della propria privacy. A questo proposito l'Azienda assume che "l'esame del DNA non venne eseguito presso strutture sanitarie dell'ASL ROMA 2 e, pertanto, non era detta ASL titolare del trattamento dei dati in oggetto e, quindi, alla corrispondente osservanza delle norme sulla privacy" (pag. 10 replica). Il rilievo non persuade, sia perché eziologicamente (primum movens) la rilevanza mediatica della vicenda discende da una diretta responsabilità della struttura per la macroscopicità della negligenza consumata, sia perché non si vede come il laboratorio incaricato dell'esame del DNA possa aver ricostruito l'intera vicenda (tanto da spingere i reporter ad assediare l'abitazione degli attori) senza che fosse verificata una grave falla nel sistema di protezione dei dati personali all'interno dell'Ospedale Pertini. Solo dall'interno, infatti, era possibile riconciliare tutte le informazioni indispensabili all'inquadramento della vicenda e ciò contraddice clamorosamente la tesi della convenuta secondo cui l'Ospedale curava la più accurata della privacy dei propri paziente. E' vero che difettano ulteriori elementi di prova a sostegno di questa conclusione, ma occorre ricordare che si tratta di un illecito civile "da posizione" che sanziona le condotte negligenti o inadeguata dei titolari del trattamento dei dati a prescindere dalla probatio diabolica (in questo settore, come altrove) circa la fonte della propalazione; tant'è che l'art. 15 del D.Lgs. 196 del 2003 (applicabile ratione temporis) prevedeva che "Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell'articolo 2050 del codice civile"; e di questa disposizione deve tenersi conto anche quando - come nel caso in esame - la domanda risarcitoria debba ritenersi esercitata ai sensi dell'art. 2043 c.c.. 48. In ragione di questi principi e tenuto conto che "Il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del D.Lgs. n. 196 del 2003 (codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno", in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito" (Cassazione n. 17383/2020) deve riconoscersi la gravità della lesione e la conseguente serietà del danno per effetto di un'indebita circolazione in favore della stampa dei dati personali degli attori e degli altri soggetti coinvolti con la conseguente condanna della Struttura al risarcimento. 49. Questa si pone, cronologicamente dal punto di vista degli attori, come il primo danno loro procurato (v. testimonianza (...), (...) e (...) che descrivono, soprattutto il padre dell'attrice, l'assedio dei cronisti), e deve essere liquidata necessariamente per via equitativa ex artt. 1226/2056 c.c. in mancanza di parametri legali di riferimento che non sia un generico richiamo ai protocolli di liquidazione applicati per la diffamazione a mezzo stampa. E' consapevole il decidente del netto discrimine che corre tra la divulgazione di una notizia mendace e quella di un dato vero, tuttavia è la lesione del diritto alla riservatezza che pone in esergo la pari sofferenza che tiene insieme le due ipotesi e il fatto che la rivelazione dei dati abbia attinto una sfera ipersensibile quale quella all'identità genetica e della procreazione. 50. La questione è, invero, comune anche ad altre voci di danno ed esige, quindi, una precisazione circa le modalità di liquidazione del danno di cui sopra (Par..49) e delle altre componenti non patrimoniali. In forza di un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, diversamente dal danno patrimoniale, il cui ristoro deve normalmente corrispondere alla sua esatta commisurazione (artt. 1223, 1224, 1225, 1227 c.c.) valendo a rimuovere il pregiudizio economico subito dal danneggiato e a restituire al patrimonio del medesimo la consistenza che avrebbe avuto senza il verificarsi del fatto stesso (cfr. Cassazione n. 1183/2007 e già Cassazione 3352/1989) sicché viene in rilievo il danno effettivo (cfr. Cassazione sez. un. n. 26972/2008 e n. 15814/2008) e, cioè, l'effettivo pregiudizio derivatone al titolare del diritto leso, non essendo previsto l'arricchimento laddove non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all'altro (v. Cassazione n. 1781/2012), il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto sempre la valutazione equitativa volta a determinare "la compensazione economica socialmente adeguata" del pregiudizio, quella che "l'ambiente sociale accetta come compensazione equa" (in ordine al significato che nel caso assume l'equità v. Cassazione n. 12408/2011) e deve essere dal giudice condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, considerandosi in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione (v. Cassazione n. 14645/2015). Al riguardo la Corte di legittimità (v. da ultimo n. 18285/2021) ha posto in rilievo che, come avvertito anche in dottrina, l'esigenza di una tendenziale uniformità della valutazione di base della lesione non può d'altro canto tradursi in una preventiva tariffazione della persona, rilevando aspetti personalistici che rendono necessariamente individuate e specifica la relativa quantificazione nel singolo caso concreto (v. Cassazione n. 8828/2003). Il danno non patrimoniale non può essere in ogni caso liquidato in termini puramente simbolici o irrisori o comunque non correlati all'effettiva natura o entità del danno (v. Cassazione n. 11039/2006; n. 392/2007; n. 394/2007), ma deve essere congruo ed è "compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul patrimonio e sul valore persona si siano verificate, e provvedendo al relativo integrale ristoro" (v. Cassazione n. 10527/201 1; n. 26972/2008). E' chiaro che sia inidonea una valutazione rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudice, in assenza, cioè, di qualsivoglia criterio generale valido per tutti i danneggiali a parità di lesioni e, pertanto, in ultimo rimessa al suo mero arbitrio (v. Cassazione n. 1361/2014). 51. Per sottrarsi a questo pericolo occorre considerare: a) che, come concordemente riconosciuto dalle parti, la lesione patita ha connotati di assoluta eccezionalità e finanche di auspicabile irripetibilità; b) la duplice dimensione, privata e pubblica, assunta dalla vicenda occorsa agli attori, costituisce un moltiplicatore esponenziale del danno al punto da rendere inestricabile il contributo che le distinte azioni illecite (lo scambio e la propalazione) hanno recato alla delimitazione del pregiudizio da risarcire; c) occorre, certo, evitare duplicazioni risarcitone per cui una volta risarcito il danno da lesione della privacy, resta precluso un ristoro per la componente psichica che tale divulgazione illecita ha avuto sulla vita interiore e relazionale degli attori; d) il risarcimento del danno psichico (v. oltre), quale danno biologico ossia dinamico-relazionale comprende, infatti, proprio la lesione di questa componente psichica/esistenziale che altera la soggettività degli attori; e) l'entità del risarcimento deve tener in conto l'assenza di protocolli adeguati che consentano, allo stato, la tutela del cd. diritto all'oblio per cui la lesione della privacy ha connotati durevoli, se non permanenti, atteso il rilievo pubblico della vicenda; f) lo svolgersi delle vite di (...) e (...) è, di per sé, una circostanza con cui i coniugi (...) - (...) hanno dovuto e dovranno confrontarsi lungo tutto la loro esistenza e l'elaborazione di questo dolore non è connessa (come nel caso del lutto) a un fatto irreversibile come la morte, ma un parallelo dipanarsi di vite che potrebbero giammai venire a contatto, malgrado l'ineludibile legame genetico; g) la diffusione di tutte queste valutazioni e considerazioni nell'ambiente sociale aperto raggiunto dai media, il valore preminente che la società assegna alla genitorialità, alla maternità, alla continuità genetica (tanto da ammettere circoscritte deroghe), alla filiazione, al prudente operato delle strutture sanitarie che - per effetto dei progressi della biomedicina - hanno accesso a una sfera così intima dell'esistenza umana impongono un ristoro risarcitorio adeguato, ma non al punto da assumere connotati ingiustificatamente punitivi, considerato che l'art. 7, comma 3, della legge 24/2017 è entrato in vigore in epoca successiva ai fatti. 52. Alla stregua di questi parametri si ritiene adeguato un risarcimento per la perdita di chance da procreazione connessa allo scambio degli embrioni e per il coesistente danno derivante dalla violazione del diritto all'identità genetica con la perdita della genitorialità naturale e giuridica sugli embrioni poi venuti a vita dal grembo della sig.ra (...), corrispondente equitativamente a Euro 500.000,00 per ciascuno degli attori. 53. A tale importo occorre aggiungere il risarcimento del danno da violazione della privacy corrispondente a Euro 80.000,00 per ciascuno degli attori con valutazione sempre equitativa ex art. 2056 c.c. e assecondando i medesimi parametri di stima. 54. Quanto al danno dinamico-relazionale, devono interamente condividersi le conclusioni cui sono pervenuti i Ctu incaricati i quali hanno evidenziato che "i coniugi (...) e (...) hanno subito un danno biologico psichico, consistente in un disturbo misto (ansioso-depressivo) e del comportamento, e strutturante (dal punto di vista nosografio secondo il DSM V) un Disturbo dell'Adattamento, di entità medio-grave. I suddetti esiti influiscono sulla validità dei periziandi" (pag. 14). 55. Quindi, i Ctu hanno accertato che "gli esiti sopra descritti, consistono in una sindrome psicopatologica di origine psichica post-traumatica e configuranti un Disturbo dell'Adattamento di tipo misto, caratterizzata da stati d'ansia ed umore depresso persistenti, e con difficoltà di tipo cognitivo-affettivo e comportamentali. Sulla scorta di tale diagnosi è possibile proporre la seguente valutazione del danno biologico: - quanto al sig. (...) i postumi rilevati, considerata l'attendibile predisposizione della personalità su cui si sono innestati, configurano complessivamente una riduzione della integrità psico-fisica nella misura dell'8 % (otto percento). - quanto alla sig.ra (...) i postumi rilevati configurano complessivamente una riduzione della integrità psico-fisica nella misura del 7 % (sette percento)" (pag.16). Le contrarie argomentazioni provenienti dagli attori sono state compiutamente prese in considerazione dalla relazione peritale e ritiene il decidente che difettino riscontri obiettivi e circostanze di fatto che possano diversamente quantificare il danno. Come correttamente evidenziato da parte convenuta, la stessa relazione di parte (allegato 19), oltre a descrivere la medesima epifania sintomatica individuata dai Ctu, sul profilo più controversa della asserita infertilità della sig.ra (...) (v. Par.. 16) conclude in termini meramente congetturali e, quindi, inidonei a dar prova di tale, ulteriore lesione ("potrebbe complicare ulteriormente il quadro di infertilità interferendo sull'outcome della gravidanza"); mentre la critica mossa alla percentuale di danno sopra indicata non adduce elementi di contrario avviso in favore dell'invocato incremento. 56. Parimenti deve dirsi in ordine alla determinazione del periodo di ITA e di ITP quantificato di Ctu: "Per quanto riguarda la durata della inabilità temporanea totale, intesa come condizione che rende impossibile del tutto l'esplicazione di tutte le più importanti attività in cui si estrinseca la vita, riteniamo che data la gravità del trauma subito, si possa stimare un periodo di inabilità temporanea totale pari a: - giorni 50 (cinquanta) per il sig. (...) - giorni 60 (sessanta) per la sig.ra (...). Tale valutazione quantitativa della Inabilità Temporanea Totale nasce soprattutto in considerazione della conoscenza che deriva dalla letteratura scientifica psichiatrica e medicolegale; e come questa stessa si esprime (valuta) a proposito di situazioni psicopatologiche simili alla vicenda in causa, caratterizzate da un comune e gravissimo evento traumatico (F. Buzzi - M. Vanini: Guida alla valutazione psichiatrica e medico-legale del danno biologico di natura psichica - Giuffrè Editore; D. Vasapollo, L. Cimino: La responsabilità professionale dello psichiatra fra esigenze di cura ed istanze sociali, Giuffrè editore). Nel caso specifico dei periziandi, venendo a mancare la certificazione medica necessaria (in senso medico-legale) ad attestare e valutare lo stato ed il periodo di malattia relativi al tempo immediatamente successivo all'evento traumatico; tenendo conto delle relazioni della dott.ssa Manuela Tremante, psicologa curante dei coniugi; considerando poi, come riferito da entrambi nel colloquio peritale, la presenza, all'epoca, di uno stato di shock psichico indotto dall'evento (stato psichico caratterizzato da paura ingestibile, disperazione, confusione e disorientamento esistenziale, quale commistione "tragica" di un'esperienza di lutto e di una perdita del senso d'identità); ed inoltre, tenendo conto di quanto raccolto in anamnesi peritale, al fine della valutazione del periodo di Inabilità Temporanea; in base a tali considerazioni in sede medico-legale è stato possibile dedurre che dopo l'evento i coniugi (...) e (...) abbiano vissuto un periodo di dolore e sofferenza psico-fisica, con una sorta di "paralisi" psichica e cognitivo-comportamentale che li ha costretti alla sospensione di ogni attività lavorativa e ad una riduzione della vita normale, con autoisolamento, depressione somatizzata ed esclusione da quasi tutte le relazioni. Per i suddetti motivi abbiamo ritenuto che, data la gravità del trauma subito, il periodo di Inabilità Totale Temporanea si debba stimare in: - giorni 50 (cinquanta) per il sig. (...); e in giorni 60 (sessanta) per la sig.ra (...), considerando il suo maggiore grado di sofferenza psichica nel periodo post-traumatico. Quanto all'inabilità temporanea parziale, nella misura del 50% si ritiene congruo il riconoscimento di un periodo di 90 (novanta) giorni per ciascuno dei periziandi" (pag. 14-16). Si è in presenza di un percorso argomentativo coerente, logicamente e scientificamente supportato e proveniente da consulenti provvisti senza meno dei requisiti previsti dall'art.15 della legge 24/2017. Alle diverse opinioni espresse in sede di note critiche dalle parti i Ctu hanno fornito approfondita risposta e gli atti successivi ex art. 190 Cpc non propongono argomentazioni tecniche a confutazione (pag. 19 ss.). 57. Quindi, in presenza di lesioni che rientrano nell'alveo di liquidazione previsto dall'art. 139 Codice assicurazioni, si deve fare applicazione delle Tabelle legali per come aggiornate per effetto del d.m. 22.7.2019, tenuto conto dell'età dei danneggiati al tempo del fatto (sig.ra (...) classe 1976 e sig. (...) classe 1974) da individuare nel momento dell'avvenuta conoscenza dello scambio (15.4.2014). 58. Per il sig. (...) si consegue, così, la somma di Euro 16.139,33 di cui per danno biologico permanente Euro 11.627,78 (8%); per Invalidità temporanea totale Euro 2.374,50 (giorni 50); per invalidità temporanea parziale al 50% Euro 2.137,05 (giorni 90). 59. Per la sig.ra (...) si perviene, così, alla somma di Euro 14.300,07 di cui per danno biologico permanente Euro Euro 9.313,62 (7%); per Invalidità temporanea totale Euro 2.849,40 (giorni 60); per invalidità temporanea parziale al 50% Euro 2.137,05 (giorni 90). 60. Si pone il problema del riconoscimento del danno morale soggettivo connesso a tali lesioni alla salute psichica degli attori. Stima il decidente che si debbano evitare duplicazioni risarcitorie che portino in emergenza, sotto diversi nomen iuris, il medesimo profilo di danno. Al momento in cui si è individuata la soglia risarcitoria spettante ai coniugi (...) - (...) si sono prese in esame tutte le componenti di sofferenza, disagio, frustrazione, dolore, risentimento e angoscia che costituiscono il sostrato più evidente del danno cagionato. Ragione per cui l'incremento (invero da operare sempre ai sensi dell'art. 139 citato) del danno dinamico-relazione per questa componente morale soggettivo deve considerarsi già preso in esame e, come tale, non può dar luogo a ulteriori upgrading risarcitori. 61. Essendosi in presenza di importi rivalutati alla data odierna, per il calcolo del danno da ritardato pagamento è necessario ora procedere all'individuazione del valore di applicazione dei coefficienti di rivalutazione anno per anno per ritardato pagamento, liquidati in conformità all'orientamento assunto sul punto dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 1712 del 1995. Tale sentenza, infatti, da un lato, riconosce la risarcibilità del lucro cessante derivato al danneggiato per la perdita dei frutti che avrebbe potuto trarre dalla somma dovuta se questa fosse stata tempestivamente corrisposta, danno liquidabile anche con l'attribuzione di interessi, e, dall'altro, esclude che si possa assumere a base del calcolo di tale danno la somma liquidata come capitale nella misura rivalutata definitivamente al momento della pronuncia. Quanto al danno da lucro cessante, la Corte ha affermato che tale danno deve essere provato (anche con il ricorso a criteri presuntivi) e può essere liquidato, in via equitativa, anche mediante l'attribuzione di interessi, la cui misura va determinata secondo le circostanze obiettive e soggettive inerenti al pregiudizio sofferto. Quanto poi agli effetti negativi della svalutazione monetaria, la Corte ha, altresì, affermato che, nell'ambito della valutazione equitativa compiuta ai fini del ristoro del danno da lucro cessante e nei casi in cui vi sia un intervallo di tempo consistente tra l'illecito e il suo risarcimento, "può tenersi conto (...) del graduale mutamento del potere di acquisto della moneta, calcolando gli interessi (per esempio, anno per anno) sul valore della somma via via rivalutata nell'arco del suddetto ritardo, oppure calcolando indici medi di svalutazione". A tale orientamento questo giudice ritiene di doversi allo stato adeguare, assumendo a base del calcolo degli interessi il capitale nel suo valore medio tra la data iniziale (15.4.2014) e quella finale (2.1 1.2021), tenendo conto degli indici medi di svalutazione del periodo, pubblicati dall'ISTAT, oppure, stante la sostanziale equivalenza del risultato, prendendo a base la semisomma dei due valori considerati (valore iniziale alla data del fatto e valore finale alla data della presente pronuncia). Quanto alla prova e alla liquidazione di tale danno, ritiene questo giudice che si possa far riferimento, in via presuntiva, alle usuali modalità di impiego del risparmio da parte delle famiglie italiane, e cioè ai rendimenti medi derivanti da investimenti in titoli di Stato - BOT, CCT, BTP, depositi vincolati a termine (v. per riferimenti: SS.UU. 5/4/1986 n. 2368). L'importo complessivo, quindi, di Euro 16.139,33 e di Euro 14.300,07 è (come detto) rivalutato alla data odierna in applicazione delle citate Tabelle di liquidazione e, quindi, al fine di effettuare il calcolo del lucro cessante per il ritardato adempimento della prestazione risarcitoria in presenza di un debito di valore occorre procedere al calcolo della semisomma tra l'importo liquidato alla data della presente sentenza (2.1 1.2021) e quello devalutato alla data del fatto illecito (15.4.2014); si consegue, così, l'importo di Euro 15.814,00 (15.488,80 + 16.139,33/2) per il sig. (...) e l'importo di Euro 14.011,84 (13.723,61 + 14.300,07/2) per la sig.ra (...); su queste somme decorrono, quindi, gli interessi nella misura accordata per i depositi vincolati a termine al 30.6.2021 (v. per riferimenti: SS.UU. 5/4/1986 n. 2368) dalla data del fatto (15.4.2014) a quella dell'odierna pronuncia (2.1 1.2021): la somma finale è così pari a Euro 16.246,00 per il sig. (...) e pari a Euro 14.394,61 per la sig.ra (...). 62. Quanto alle spese mediche sostenute e da sostenere per effetto del danno sopra indicato, i Ctu hanno stimato congrue le spese documentate dagli attori e, quanto alle spese future, hanno formulato le seguenti osservazioni: "considerata la peculiarità della vicenda clinica in esame, il tempo trascorso dal trauma e le terapie praticate (non completamente documentate nelle spese), appare ragionevole ritenere che i postumi psichici obiettivati possano essere unicamente tenuti sotto controllo mediante terapie strutturate ad hoc (psicoterapia di sostegno con indirizzo cognitivo-comportamentale ed esistenziale), con il fine di un'attenuazione della sintomatologia nel tempo. Data la gravità del trauma e le scarse possibilità di una risoluzione favorevole della drammatica situazione conflittuale ed esistenziale emersa si ritiene che i periziandi necessitino di una terapia psichica integrata (psicoterapica e psicofarmacologica) per un periodo temporale (di cura, sostegno e riorientamento esistenziale) presumibilmente di almeno due anni, tramite una terapia continua con sedute uni settimanali"; quanto alla possibilità di attenuare i postumi con terapie appropriate, la relazione conclude che "i periziandi possano attenuare i postumi con una terapia psichica-psichiatrica che permetta loro di ristrutturare, possibilmente, in senso più positivo il significato del trauma, ridurre la sofferenza psichica, dare un nuovo possibile orientamento e significato esistenziale. Durata e percentuale di successo della possibile terapia. Diciamo subito che tale terapia, che richiede almeno 2-3 anni di intervento, presenta grandissime difficoltà di successo (la cui percentuale non è possibile prevedere); e i suoi risultati favorevoli sono legati al grado di "resilienza" individuale. In questi casi non basta ridurre farmacologicamente l'ansia e la depressione, poiché il nucleo psichico traumatico profondo tende a rimanere intatto nel tempo o ad evolversi negativamente, se non si interviene a modificarlo ristrutturando l'esperienza traumatica del passato e dando un nuovo significato emozionale ed esistenziale allo stato di vita presente e a quello futuro. Costo della terapia. Per quanto riguarda il costo di tale terapia si intende come segue: considerando la spesa media di una seduta di psicoterapia unisettimanale pari a 70 Euro , ne deriva che il costo di una psicoterapia effettuata per due anni comporta la spesa di 7 - 8000,00 Euro circa (per ciascun periziando). La cura in atto. Dal colloquio peritale non risulta che i coniugi siano attualmente in trattamento psicoterapeutico, né che siano sottoposti a terapia psicofarmacologica. Tramite il colloquio clinico-anamnestico si è rilevato che nell'anno 2014 i coniugi periziandi fossero in trattamento psicoterapico con la dott.ssa Tremante. In tale trattamento, i coniugi si presentavano alla seduta insieme per una psicoterapia-consulenza di coppia. Di tale trattamento sono presenti agli atti le relazioni della psicologa dott.ssa Tremante Manuela, alcune prescrizioni farmacologiche e 22 fatture di pagamento. Tali considerazioni valgono anche per l'uso spontaneo ed autonomo che i due coniugi hanno fatto del farmaco Lexotan (benzodiazepina, ansiolitico): tale uso, irregolare e continuo nell'anno 2014, è avvenuto con formale prescrizione medica documentata" (pag. 16-18). Si tratta, anche per questo profilo, di valutazioni rimaste prive di un'efficace contestazione e che attestano in modo coerente con l'individuazione delle percentuali di invalidità il doloroso percorso terapeutico che ancora attende i coniugi (...) - (...) malgrado il tempo trascorso. 63. Quanto alle spese sostenute (allegato 14 citazione) le stesse ammontano a Euro 3.460,00 per il sig. (...) e a Euro 6.246,40 per la sig.ra (...); trattandosi di esborsi sostenuti nel tempo, se ne dispone la rivalutazione equitativa alla data odierna, rispettivamente, in Euro 3.600,00 e in Euro 6.400,00. 64. In relazione alle spese future da sostenere per arginare i postumi psichici derivanti dal trauma, l'ammontare complessivo del ristoro può essere fissato - alla stregua della documentazione di cui sopra che attesta una maggiore e più intesa sottoposizione della sig.ra (...) ai trattamenti terapeutici - in Euro 7.000,00 per il sig. (...) e in Euro 8.000,00 per la sig.ra (...). 65. Inoltre il sig. (...) ha dedotto, producendo la relativa documentazione fiscale (allegati 21 e 22), che nell'anno 2014 per "motivi di natura psicologica" non fosse stato in grado di dedicarsi al proprio lavoro di architetto con conseguente diminuzione del proprio reddito: mentre, infatti, per l''anno 2013 aveva dichiarato un reddito di Euro 88.341,78 per l'anno 2014 aveva dichiarato un reddito di Euro 47.541,00. Ora, alla luce delle considerazioni medico-legali sopra ricordate (ITA + ITP), è del tutto ragionevole ritenere che la contrazione reddituale di cui si discute sia - a decorrere dall'aprile del 2014 - da ricondurre alla traumatica vicenda sotto esame e ai suoi consistenti riverberi privati e pubblici, con annessi i percorso giurisdizionali che hanno condotto alle statuizioni giudiziarie pronunciate in senso sfavorevole agli attori. Ciò posto, tuttavia, coglie nel segno la parte convenuta laddove evidenzia l'insufficienza della documentazione prodotta ad acclarare una persistente contrazione reddituale protrattasi oltre l'anno 2014. Si deve evidenziare, al riguardo, che non a caso l'art. 137 Codice assicurazioni prevede che, nel caso di lavoratore autonomo, la base da cui partire per il calcolo del danno futuro conseguente alla contrazione dell'attività lavorativa è il reddito netto maggiore tra quelli dichiarati ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche nei tre anni passati; con ciò riferendosi non al reddito che residua dopo l'applicazione dell'imposta bensì, come affermato dalla Corte di cassazione, "all'importo che il contribuente è tenuto a dichiarare ai fini dell'imposta sopraindicata, dovendo inoltre intendersi per reddito dichiarato dal danneggiato quello risultante dalla differenza fra il totale dei compensi conseguiti (al lordo delle ritenute d'acconto) ed il totale dei costi inerenti all'esercizio professionale - analiticamente specificati o, se consentito dalla legge, forfettariamente conteggiati - senza la possibilità di ulteriore decurtazione dell'importo risultante da tale differenza, per effetto del conteggio delle ritenute d'imposta sofferte dal professionista" (da ultimo Cassazione n. 1 1759/2018). In mancanza di una compiuta allegazione e in presenza di una domanda sul punto del tutto generica, l'unico danno risarcibile è quello derivante dalla constatata riduzione reddituale per l'anno 2014 che può essere equitativamente liquidata alla data odierna in Euro 40.000,00 tenuto conto che il periodo che viene in considerazione è solo quello che intercorre tra il 15.4.2014 e il 31.12.2014 e della conseguente rivalutazione della somma alla data odierna. 66. Complessivamente compete alla sig. (...) la somma di Euro 608.794,61 (500.000,00 + 80.000,00 + 14.394,61 + 6.400,00 + 8.000,00) e al sig. (...) la somma di Euro 646.846,00 (500.000,00 + 80.000,00 + 16.246,00 + 3.600,00 + 7.000,00 + 40.000,00) per le voci di danno sopra indicate correlate al danno dinamico-relazionale e alle sue declinazioni risarcitorie più immediatamente correlate sia patrimoniali che non patrimoniali. 67. Alla soccombenza della convenuta segue la condanna della stessa alla refusione delle spese di lite che, avuto riguardo ai parametri di cui all'art. 4 DM 55/2014 (ossia al pregio dell'attività prestata, all'importanza, alla natura, alla difficoltà ed al valore dell'affare, alle condizioni soggettive del cliente, ai risultati conseguiti, al numero ed alla complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate) possono essere liquidate come da dispositivo attestandosi nel quadrante del parametro tabellare medio. P.Q.M. Il Tribunale di Roma - definitivamente decidendo sulla domanda proposta da (...) e (...) nei confronti dell'ASL ROMA 2, rigettata ogni ulteriore deduzione ed eccezione - così provvede: a) accoglie la domanda e, per l'effetto, condanna parte convenuta al pagamento in favore di (...) della somma di Euro 608.794,61 oltre interessi legali dalla presente pronuncia al saldo; b) condanna, ancora, parte convenuta al pagamento in favore di (...) della somma di Euro 646.846,00 oltre interessi legali dalla presente pronuncia al saldo; c) condanna parte convenuta al pagamento delle spese di lite che liquida in Euro 36.145,00 oltre Iva, Cpa e contributo spese generali al 15%, nonché rimborso marca e contributo unificato per Euro 1.713,00; d) pone le spese della consulenza tecnica d'ufficio definitivamente a carico di parte convenuta. Così deciso in Roma il 2 novembre 2021. Depositata in Cancelleria il 2 novembre 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,   ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), e dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), promosso dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, nel procedimento vertente tra il Ministero dell’interno e altro e P. F. e F. B., in proprio e quali genitori di P. B.F., con ordinanza del 29 aprile 2020, iscritta al n. 99 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2020. Visti gli atti di costituzione di P. F. e F. B., in proprio e quali genitori di P. B.F., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 27 gennaio 2021 il Giudice relatore Francesco Viganò; uditi gli avvocati Antonio Saitta, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020, e Alexander Schuster per P. F. e F. B., in proprio e quali genitori di P. B.F., nonché l’avvocato dello Stato Wally Ferrante per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 28 gennaio 2021. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 29 aprile 2020, la Corte di cassazione, sezione prima civile, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) e dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), «nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico». 1.1.– Secondo quanto espone il giudice a quo, il caso che ha dato origine al giudizio riguarda un bambino nato nel 2015 in Canada da una donna nella quale era stato impiantato un embrione formato con i gameti di una donatrice anonima e di un uomo di cittadinanza italiana (P. F.), unito in matrimonio in Canada – con atto poi trascritto in Italia nel registro delle unioni civili – con altro uomo, pure di cittadinanza italiana (F. B.), con il quale aveva condiviso il progetto genitoriale. Al momento della nascita del bambino, le autorità canadesi avevano formato un atto di nascita che indicava come genitore il solo P. F., mentre non erano stati menzionati né F. B., né la madre surrogata che aveva partorito il bambino, né la donatrice dell’ovocita. Accogliendo il ricorso dei due uomini, nel 2017 la Corte Suprema della British Columbia aveva dichiarato che entrambi i ricorrenti dovevano essere considerati genitori del bambino, e aveva disposto la corrispondente rettifica dell’atto di nascita in Canada. I due uomini avevano quindi chiesto all’ufficiale di stato civile italiano di rettificare anche l’atto di nascita del bambino in Italia, sulla base del provvedimento della Corte Suprema della British Columbia. In seguito al rifiuto opposto a tale richiesta, essi avevano chiesto alla Corte d’appello di Venezia il riconoscimento del provvedimento canadese in Italia ai sensi dell’art. 67 della legge n. 218 del 1995. Nel 2018 la Corte d’appello di Venezia aveva accolto il ricorso, riconoscendo l’efficacia in Italia del provvedimento. L’Avvocatura dello Stato aveva tuttavia interposto ricorso per cassazione nell’interesse del Ministero dell’interno e del Sindaco del Comune ove era stato trascritto l’originario atto di nascita del minore. 1.2.– Investita di tale ricorso, la prima sezione civile della Corte di cassazione prende atto che nel frattempo è stata depositata la sentenza delle Sezioni unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, la quale ha affermato il principio secondo cui non può essere riconosciuto nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra un bambino nato in seguito a maternità surrogata e il genitore “d’intenzione”. Secondo le Sezioni unite, tale riconoscimento troverebbe infatti ostacolo insuperabile nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione. Tuttavia, la Sezione rimettente dubita della compatibilità di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con una pluralità di parametri costituzionali. 1.3.– Anzitutto, il divieto di riconoscimento in esame violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai diritti del minore al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 8 CEDU), a non subire discriminazioni, a vedere preso in considerazione preminente il proprio interesse, a essere immediatamente registrato alla nascita e ad avere un nome, a conoscere i propri genitori, a essere da loro allevato e a non esserne separato (rispettivamente, artt. 2, 3, 7, 8 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo), al principio della responsabilità comune dei genitori per l’educazione e la cura del figlio (art. 18 della medesima Convenzione), nonché ai diritti riconosciuti dall’art. 24 CDFUE. La sussistenza di tali violazioni si desumerebbe in particolare, secondo la Corte rimettente, dal parere consultivo della grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, reso su richiesta della Corte di cassazione francese il 10 aprile 2019, con il quale si è affermato, da un lato, che il diritto al rispetto della vita privata del bambino, ai sensi dell’art. 8 CEDU, richiede che il diritto nazionale offra una possibilità di riconoscimento del legame di filiazione con il genitore d’intenzione; e, dall’altro, che tale riconoscimento non comporta necessariamente l’obbligo di trascrivere l’atto di nascita straniero nei registri dello stato civile, ben potendo il diritto al rispetto della vita privata del minore essere tutelato anche per altra via, e in particolare mediante l’adozione da parte del genitore d’intenzione, a condizione però che le modalità di adozione previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità di tale procedura, conformemente all’interesse superiore del bambino. Secondo la Sezione rimettente, l’attuale diritto vivente in Italia non sarebbe adeguato rispetto agli standard di tutela dei diritti del minore stabiliti in sede convenzionale, dal momento che la possibilità del ricorso all’istituto dell’adozione in casi particolari da parte del genitore “d’intenzione”, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983 n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), riconosciuta dalle Sezioni unite civili nella richiamata sentenza n. 12193 del 2019, non creerebbe «un vero rapporto di filiazione». Tale forma di adozione porrebbe infatti «il genitore non biologico in una situazione di inferiorità rispetto al genitore biologico»; non creerebbe legami parentali con i congiunti dell’adottante ed escluderebbe il diritto a succedere nei loro confronti; e non garantirebbe, comunque, quella tempestività del riconoscimento del rapporto di filiazione che è richiesta dalla Corte EDU nell’interesse del minore. D’altra parte, l’adozione in casi particolari resterebbe rimessa alla volontà del genitore “d’intenzione”, lasciando così aperta la possibilità per quest’ultimo «di sottrarsi all’assunzione di responsabilità già manifestata e legittimata nel paese in cui il minore è nato»; e sarebbe, altresì, condizionata all’assenso all’adozione da parte del genitore biologico, che potrebbe non prestarlo in caso di crisi della coppia. 1.4.– Il diritto vivente cristallizzato dalla pronuncia delle Sezioni unite risulterebbe, altresì, contrastante con gli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., dai quali si evincerebbero – in materia di filiazione – i principi di uguaglianza, non discriminazione, ragionevolezza e proporzionalità. Sarebbe infatti violato il diritto del minore all’inserimento e alla stabile permanenza nel proprio nucleo familiare, inteso come formazione sociale tutelata dalla Carta costituzionale, nonché il diritto alla stessa identità del minore, senza che tale violazione possa ritenersi giustificata nell’ottica di tutela della madre “surrogata”, che non trarrebbe comunque alcun vantaggio dal mancato riconoscimento del rapporto di filiazione tra il bambino e il genitore d’intenzione. In secondo luogo, il figlio nato da maternità surrogata sarebbe discriminato rispetto a ogni altro bambino, in conseguenza di circostanze delle quali egli non porta alcuna responsabilità. Sarebbe, altresì, irragionevole consentire di riconoscere il rapporto di genitorialità in capo al genitore biologico e non a quello “d’intenzione”, posto che il primo – avendo fornito i propri gameti nella formazione dell’embrione – sarebbe ancor più coinvolto nella pratica procreativa, dalla cui illiceità nel nostro ordinamento deriva l’asserita contrarietà all’ordine pubblico italiano del riconoscimento dello status di genitore del padre “d’intenzione”. Infine, sarebbe irragionevole precludere al giudice la possibilità di valutare caso per caso l’interesse del minore al riconoscimento del legame con il genitore “d’intenzione”, con ciò sacrificandosi automaticamente la tutela dei diritti del bambino per condannare il comportamento dei genitori (sono citate le sentenze di questa Corte n. 7 del 2013, n. 31 del 2012 e n. 494 del 2002). 2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate. 2.1.– L’inammissibilità discenderebbe: a) dall’erronea assunzione a parametro interposto del giudizio di costituzionalità del parere consultivo della Corte EDU, non vincolante e reso in base al Protocollo n. 16 alla CEDU, che non è stato ratificato dall’Italia; b) dall’omessa sperimentazione dell’interpretazione conforme: a fronte del novum costituito dal parere della Corte EDU, la Sezione rimettente avrebbe potuto e dovuto investire nuovamente della questione le sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, terzo comma, del codice di procedura civile, invece di promuovere l’incidente di costituzionalità. 2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero comunque infondate. 2.2.1.– Le conclusioni cui sono pervenute le sezioni unite della Corte di cassazione nella richiamata sentenza n. 12193 del 2019 non sarebbero contraddette dal parere della Corte EDU, che, pur affermando la necessità del riconoscimento del rapporto tra il minore nato all’estero tramite surrogazione di maternità e il genitore d’intenzione, riconosce un margine di apprezzamento degli Stati contraenti sulla scelta delle modalità di tale riconoscimento (trascrizione dell’atto di nascita straniero nei registri di stato civile oppure adozione). 2.2.2.– Per altro verso, l’adozione ex art. 44, primo comma, lettera d), della legge n. 184 del 1983 non configurerebbe un procedimento più lungo o complesso rispetto al riconoscimento dell’atto o provvedimento straniero e alla sua trascrizione nei registri di stato civile italiani, che presupporrebbe pur sempre l’attivazione di un procedimento giurisdizionale in caso di rifiuto di annotazione da parte dell’ufficiale di stato civile. 2.2.3.– Le norme censurate, nell’interpretazione offertane dalle sezioni unite della Corte di cassazione, sarebbero poi pienamente conformi agli orientamenti espressi da questa Corte nelle sentenze n. 221 del 2019 (che ha ritenuto non contrastante con la Costituzione la preclusione, per le coppie dello stesso sesso, all’accesso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo) e n. 237 del 2019 (che ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale della «norma che si desume» dagli artt. 250 e 449 del codice civile, 29, comma 2, e 44, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000, 5 e 8 della legge n. 40 del 2004, censurata nella parte in cui non consentiva, ad avviso del rimettente, la formazione in Italia di un atto di nascita in cui venissero riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso). Nemmeno nella sentenza n. 162 del 2014 – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa in caso di patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili – questa Corte avrebbe mai messo in discussione la legittimità del divieto di surrogazione di maternità di cui all’art. 12, comma 6, della legge 40 del 2004. La stessa sezione prima civile della Corte di cassazione, in una pronuncia coeva all’ordinanza di rimessione (sentenza 22 aprile 2020, n. 8029), si sarebbe conformata ai principi stabiliti dalle Sezioni unite nella sentenza n. 12193 del 2019. 2.2.4.– Alla luce della giurisprudenza di questa Corte, della Corte EDU e della Corte di cassazione, pertanto, le norme censurate dalla Sezione rimettente non lederebbero alcuno dei parametri costituzionali invocati: non l’art. 2, da cui non discenderebbe alcun diritto alla genitorialità, inteso come aspirazione a procreare e a crescere dei figli; non l’art. 3, per l’incomparabilità tra la condizione di sterilità o infertilità delle coppie eterosessuali cui è consentita la procreazione medicalmente assistita, e la condizione di fisiologica infertilità delle coppie omosessuali; non gli artt. 30 e 31 Cost., poiché la tutela dell’interesse del minore non potrebbe essere affidata alla pratica della surrogazione di maternità, offensiva della dignità della donna e lesiva delle relazioni umane; non, infine, gli artt. 117, primo comma, Cost. e 8 CEDU, alla luce della sentenza della Corte EDU, grande camera, del 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli contro Italia, che ha ritenuto insufficiente, per l’accertamento di un legame di «vita familiare», la mera esistenza di un progetto genitoriale, in assenza di legami biologici tra il minore e gli aspiranti genitori. 2.2.5.– Non sussisterebbe, infine, alcuna discriminazione in base all’orientamento sessuale, atteso che la surrogazione di maternità è vietata tanto alle coppie eterosessuali, quanto a quelle omosessuali. 2.2.6.– Né indicazioni di segno contrario si potrebbero trarre dagli artt. 12 CEDU e 9 CDFUE, che, nel riconoscere il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, demandano alle legislazioni nazionali il compito di disciplinare tali diritti. La scelta del legislatore italiano di non equiparare unioni civili e matrimonio, per quanto concerne la filiazione, riposerebbe sull’esigenza di fornire adeguata tutela ai best interests del minore e si collocherebbe pienamente nel solco della giurisprudenza costituzionale, che ha da un lato escluso che l’aspirazione al riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione al matrimonio (sentenza n. 138 del 2010), e dall’altro lato ha posto l’accento sull’«elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità» (sentenza n. 272 del 2017). 2.2.7.– Quanto all’art. 24 CDFUE, parimenti assunto a parametro interposto, non si rinverrebbe nell’ordinanza alcuna «disamina specifica» in relazione a tale profilo. 3.– Si sono costituiti in giudizio F. B. e P. F., «in proprio e in qualità di genitori» del minore P. B.F., chiedendo l’accoglimento delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione ed evidenziando come il riconoscimento degli interessi preminenti del minore, consacrato dalle fonti costituzionali e pattizie, faccia parte «di un patrimonio comune del costituzionalismo contemporaneo, che non può non essere partecipato anche dal nostro ordinamento». Tali interessi risulterebbero irragionevolmente pregiudicati – con violazione degli artt. 2, 3, 30, 31, 117, primo comma, Cost., 8 e 14 CEDU – dalla disciplina censurata, che impedisce al giudice di compiere il bilanciamento più opportuno in ciascun caso concreto a salvaguardare tutti gli interessi in gioco, non essendo «costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sugli interessi del minore» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 272 del 2017). 4.– J.E. N., madre gestazionale del minore P. B.F., ha spiegato intervento ad adiuvandum, dichiarato inammissibile da questa Corte con ordinanza n. 271 del 2020. 5.– Sono state depositate varie opinioni scritte ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Con decreto del Presidente della Corte del 2 dicembre 2020, tutte le opinioni sono state ammesse, tranne quella presentata dalla Rete Italiana contro l’Utero in Affitto, in difetto di allegazioni e produzioni documentali atte a dimostrare il possesso dei requisiti di legittimazione richiesti dal comma 1 del richiamato art. 4-ter. 5.1.– Con l’opinione presentata l’11 settembre 2020, l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica a.p.s. e l’Associazione radicale Certi Diritti a.p.s. auspicano l’accoglimento delle questioni, che non porrebbero in discussione il divieto di maternità surrogata vigente nell’ordinamento italiano, ma riguarderebbero unicamente lo status del minore nato attraverso tale pratica. La preclusione al riconoscimento dello status filiationis costituito all’estero tramite surrogazione di maternità avrebbe effetti punitivi e discriminatori in danno di un soggetto terzo incolpevole, ossia il minore. Le norme censurate sarebbero inoltre affette da «irrazionalità per inappropriatezza ed inefficacia», poiché il dato sociale dimostrerebbe l’ampia diffusione del fenomeno della genitorialità delle coppie dello stesso sesso e la «valutazione complessiva pubblica» in termini di «normalità, di pregi e di difetti, di positivo e negativo, come per tutte le coppie». In subordine, le associazioni sollecitano una pronuncia di inammissibilità o infondatezza delle questioni, basata sulla possibilità di interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina censurata. 5.2.– Con l’opinione presentata il 14 settembre 2020, l’Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie (ANFAA) auspica invece la reiezione delle questioni, osservando che l’istituto dell’adozione, disciplinato dalla legge n. 184 del 1983, realizza il diritto del minore ad avere una famiglia, nell’ambito di un procedimento che impone una previa rigorosa verifica dell’idoneità dei genitori affidatari e adottivi e nel quadro di un sistema che prevede severe sanzioni penali a presidio del rispetto delle procedure di adozione. La maternità surrogata, non imponendo alcuna verifica sull’idoneità degli aspiranti genitori e consentendo una sorta di compravendita del minore, attuata attraverso lo sfruttamento delle madri gestazionali, sarebbe invece fenomeno assimilabile al traffico di minori, come tale meritevole di essere disincentivato e represso. 5.3.– Con l’opinione presentata il 14 settembre 2020, anche l’Associazione Amici dei Bambini (Ai.Bi.), l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII e l’associazione Famiglie per l’Accoglienza ritengono che la repressione penale della maternità surrogata non sia contraria all’interesse del minore, ma intenda, al contrario, tutelarlo, proteggendo la relazione con la madre, che, invece, la surrogazione mira intenzionalmente a interrompere. L’interesse del minore si realizzerebbe attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando – nel solo caso di abbandono del minore, o di incapacità della famiglia d’origine a garantirne la cura – all’adozione, attuata con le garanzie del procedimento giurisdizionale e previa puntuale verifica dell’idoneità degli aspiranti genitori adottivi, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal dato biologico. Tali elementi di garanzia per il minore sarebbero assenti nella surrogazione di maternità, la cui legittimazione – tramite il riconoscimento dello status filiationis costituito all’estero mediante il ricorso a detta pratica – rischierebbe di indebolire «la capacità del corpo sociale ad apprestare sostegno, tramite gli istituti dell’affidamento e della adozione, a minori che risultano privi di una adeguata famiglia di origine». 5.4.– Con l’opinione presentata il 15 settembre 2020, l’Avvocatura per i diritti LGBTI a.p.s. auspica invece l’accoglimento delle questioni, sottolineando la necessità di distinguere tra divieto di surrogazione di maternità e tutela del nato a seguito del ricorso a tale pratica. Dalla giurisprudenza costituzionale si trarrebbe il principio per cui, «al di là delle scelte che i genitori possono compiere anche in violazione della legge italiana, l’interesse primario da salvaguardare deve rimanere quello del nato al riconoscimento formale del proprio status filiationis, elemento costitutivo della sua identità personale protetta, oltre che dagli artt. 7 e 8 della Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, anche dagli artt. 2, 30 e 31 della Costituzione». Le conclusioni cui sono pervenute le sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 12193 del 2019 si porrebbero in contrasto con la stessa giurisprudenza costituzionale, secondo cui il divieto della gestazione per altri non preclude al giudice di valutare nel singolo caso la sussistenza dell’interesse del minore a mantenere il proprio status nei confronti del genitore che non vanti con esso alcun legame biologico (è citata la sentenza n. 272 del 2017). Ciò tanto più che la legge n. 40 del 2004, pur vietando la surrogazione di maternità, nulla dispone quanto alle conseguenze per il nato da tale pratica. Occorrerebbe infine considerare come altri ordinamenti, come quello francese e tedesco, pur vietando la gestazione per altri, apprestino tutela al minore nato dal ricorso a tale pratica, consentendo la trascrizione degli atti di nascita stranieri che indichino una doppia paternità. 6.– Con articolata memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza pubblica, le parti F. B. e P. F. hanno insistito per l’accoglimento delle questioni. 6.1.– Queste ultime sarebbero pienamente ammissibili: il rimettente non avrebbe potuto disattendere la sentenza n. 12193 del 2019 delle sezioni unite della Corte di cassazione, qualificabile in termini di diritto vivente, ma solo sollevare questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata, così come interpretata da detta pronuncia (sono citate le sentenze di questa Corte n. 299 del 2005 e n. 266 del 2006). Né sarebbe configurabile alcun obbligo di rimettere nuovamente le questioni alle Sezioni unite, atteso che l’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte Costituzionale) «non ammette alcun filtro preventivo fra il giudice a quo e la Corte». 6.2.– Il parere del 10 aprile 2019 della Corte EDU sarebbe stato correttamente preso in considerazione dal rimettente non in quanto parametro interposto o fonte normativa vincolante, ma quale «strumento interpretativo che il giudice nazionale non può ignorare», essendo stato pronunziato all’unanimità dalla Grande camera e costituendo codificazione di un «diritto consolidato» relativo alla Convenzione. 6.3.– La fattispecie in discussione nel giudizio a quo differirebbe sia da quella che veniva in rilievo nella sentenza n. 272 del 2017 di questa Corte (per il significativo collegamento con un ordinamento straniero, stante la cittadinanza canadese del minore P. B.F.), sia da quella oggetto della richiamata sentenza Paradiso e Campanelli della Corte EDU (per la sussistenza di un legame genetico tra uno dei genitori e il bambino), sia, infine, da quella considerata dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, nella sentenza 11 novembre 2014, n. 24001 (per la piena conformità della gestazione per altri alla lex loci). 6.4.– L’ordine pubblico di cui all’art. 64 della legge n. 218 del 1995 (cui rinvia l’art. 65 della stessa legge, a sua volta richiamato dal successivo art. 66), unico ostacolo al riconoscimento di uno status filiationis già stabilito dallo Stato di cittadinanza del minore, dovrebbe essere interpretato in senso restrittivo; e l’interesse del minore, al pari degli altri valori supremi dell’ordinamento che, con esso, determinano la nozione di ordine pubblico, non potrebbe che essere valutato dal giudice in ciascun caso concreto, conformemente alle indicazioni della sentenza n. 272 del 2017 di questa Corte e del parere consultivo della Corte EDU. 6.5.– Anche il confronto con le esperienze di altri ordinamenti mostrerebbe come il divieto di maternità surrogata non sia d’ostacolo alla possibilità di garantire la continuità dello status familiare dei minori nati in Stati che ammettano tale pratica. 6.6.– Il richiamo all’art. 24 CDFUE operato dal rimettente sarebbe meramente funzionale a dimostrare la sussistenza di un’irragionevole disparità di trattamento, rilevante ex art. 3 Cost.: mentre gli status familiari costituiti – anche a seguito di gestazione per altri – in uno Stato membro dell’Unione europea (o costituiti in uno Stato terzo e ivi riconosciuti) possono «circolare» negli altri Stati membri, in forza della libertà di circolazione del cittadino dell’Unione, i minori italiani vedrebbero la propria continuità di status interrotta «per il sol fatto che entrambi i genitori sono italiani o per il fatto che non hanno risieduto in un altro Stato membro». 6.7.– L’orientamento delle sezioni unite della Corte di cassazione negherebbe al minore la possibilità di conseguire l’«allineamento dello status giuridico con lo stato di fatto», in contrasto con le esigenze di tutela del diritto all’identità personale discendenti dalla stessa giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze di questa Corte n. 494 del 2002 e n. 120 del 2001). Tale diritto, riconosciuto anche dall’art. 9, primo comma, della Convenzione sui diritti del fanciullo, implicherebbe «anche il riconoscimento della genitorialità così come affermata da altro Stato di cui il minore è cittadino e con il quale possiede un legame qualificato». 6.8.– L’attuale assetto del diritto vivente implicherebbe per il minore nato da maternità surrogata una capitis deminutio del tutto analoga, se non più grave, rispetto a quella in danno ai figli cosiddetti incestuosi, rimossa da questa Corte con la sentenza n. 494 del 2002, atteso che il bambino dovrebbe patire le conseguenze sanzionatorie di una condotta posta in essere dai genitori, in nome di «una concezione “totalitaria” della famiglia». 6.9.– Il riconoscimento dello status filiationis rispetto al genitore d’intenzione non minerebbe il diritto del minore a conoscere le proprie origini ma, al contrario, lo rafforzerebbe, in quanto proprio la prospettiva di poter conseguire la trascrizione dell’atto di nascita del minore nato all’estero da maternità surrogata incentiverebbe i genitori a versare nei registri di stato civile italiani la relativa documentazione, così consentendo al figlio di avere accesso alle informazioni relative alla propria nascita. 6.10.– Quanto al ricorso all’adozione in casi particolari, esso non sarebbe conforme alle esigenze di tutela degli interessi del minore, considerati da un lato i limitati effetti di tale istituto e, dall’altro lato, le caratteristiche del procedimento di adozione, attivabile solo su domanda dell’adottante e con l’assenso dell’altro genitore. La procedura di adozione sarebbe inoltre caratterizzata da cadenze temporali particolarmente dilatate, pari a circa cinque anni, non compatibili con le esigenze di celerità evidenziate dalla Corte EDU nel parere del 10 aprile 2019. Del resto, la stessa Corte EDU, nella sentenza 28 giugno 2007, Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo, avrebbe ritenuto insufficiente a garantire il rispetto dell’art. 8 CEDU la possibilità, offerta dall’ordinamento lussemburghese, dell’adozione «semplice» (assimilabile all’adozione in casi particolari) di una minore la cui adozione «piena», pronunciata in Perù, non era stata riconosciuta in Lussemburgo. Al contrario, nel contesto del giudizio sulla riconoscibilità del provvedimento straniero ex art. 67 della legge n. 218 del 1995, la Corte d’appello potrebbe svolgere con celerità ogni opportuna indagine circa il contesto familiare e il legame tra minore e genitore d’intenzione e prendere altresì in considerazione le modalità di realizzazione della gestazione per altri nell’ordinamento straniero di volta in volta considerato. 6.11.– Sarebbe infine estranea al thema decidendum ogni considerazione relativa all’orientamento sessuale dei soggetti che ricorrono alla gestazione per altri, alla luce dell’ininfluenza dell’orientamento sessuale sull’idoneità genitoriale. Considerato in diritto 1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione, sezione prima civile, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) e dell’art. 18 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), «nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico». 2.– In sostanza, le questioni di legittimità che questa Corte è chiamata a esaminare riguardano lo stato civile dei bambini nati attraverso la pratica della maternità surrogata, vietata nell’ordinamento italiano dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004. Più in particolare, è qui in discussione la possibilità di dare effetto nell’ordinamento italiano a provvedimenti giudiziari stranieri che riconoscano come genitore del bambino non solo chi abbia fornito i propri gameti, e dunque il genitore cosiddetto “biologico”; ma anche la persona che abbia condiviso il progetto genitoriale pur senza fornire il proprio apporto genetico, e dunque il cosiddetto genitore “d’intenzione”. La prima sezione civile della Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale del diritto vivente, risultante dalla sentenza delle Sezioni unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, che esclude il riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento italiano del provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato dichiarato un rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore “d’intenzione” cittadino italiano, in ragione del ritenuto contrasto di tale riconoscimento con il divieto di surrogazione di maternità stabilito dal menzionato art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, qualificabile secondo le Sezioni unite come principio di ordine pubblico. Tale soluzione violerebbe, ad avviso del giudice a quo, tutti i parametri costituzionali e sovranazionali sopra indicati, per le ragioni di cui si è analiticamente dato conto nel Ritenuto in fatto. Conseguentemente, la prima sezione civile della Corte di cassazione solleva questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto: – dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge n. 218 del 1995, che vieta il riconoscimento di sentenze straniere allorché producano effetti contrari all’ordine pubblico; – dell’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, che vieta la trascrizione nei registri dello stato civile italiani di atti formati all’estero contrari all’ordine pubblico; e – dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, che prevede sanzioni penali a carico di chiunque «in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità». 3.– Devono essere vagliate preliminarmente le eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato. 3.1.– Non è fondata, anzitutto, l’eccezione che fa leva sul carattere non vincolante del parere consultivo reso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 10 aprile 2019, ampiamente citato nell’ordinanza di rimessione. Il giudice rimettente, pur richiamando tale parere, invoca infatti correttamente – quale parametro interposto in un giudizio di legittimità costituzionale fondato, tra l’altro, sull’art. 117, primo comma, Cost. – l’art. 8 CEDU, che riconosce il diritto alla vita privata e familiare del minore: diritto sul quale si imperniano le argomentazioni sviluppate nell’ordinanza di rimessione. D’altra parte, non v’è dubbio che il parere consultivo reso dalla Corte EDU su richiesta della Corte di cassazione francese non sia vincolante, come espressamente stabilisce l’art. 5 del Protocollo n. 16 alla CEDU: né per lo Stato cui appartiene la giurisdizione richiedente, né a fortiori per gli altri Stati, tanto meno per quelli – come l’Italia – che non hanno ratificato il protocollo in questione. Cionondimeno, tale parere è confluito in pronunce successive, adottate in sede contenziosa dalla Corte EDU (sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia; decisione 19 novembre 2019, C. contro Francia ed E. contro Francia). 3.2.– Infondata è altresì l’ulteriore eccezione di inammissibilità imperniata sull’omessa sperimentazione da parte del Collegio rimettente di un’interpretazione conforme alla CEDU alla luce del citato parere consultivo; interpretazione, peraltro, che secondo l’Avvocatura generale dello Stato avrebbe dovuto essere rimessa nuovamente alle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, terzo comma, del codice di procedura civile, dal momento che la richiamata sentenza n. 12193 del 2019 non avrebbe potuto tenere conto di tale parere, sopravvenuto alla decisione. La Sezione rimettente ha plausibilmente motivato nel senso dell’impraticabilità di una interpretazione conforme, proprio in ragione dell’intervenuta pronuncia delle Sezioni unite, che ha formato il diritto vivente che il giudice a quo sospetta di contrarietà alla Costituzione. Ciò deve ritenersi sufficiente ai fini dell’ammissibilità di una questione di legittimità costituzionale (ex plurimis, da ultime, sentenze n. 75 del 2019, n. 39 del 2018, n. 259 e n. 122 del 2017). D’altra parte, l’obbligo per una sezione semplice della Corte di cassazione di astenersi dal decidere in contrasto con il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite attiene al piano dell’interpretazione della legge, non a quello della verifica della compatibilità della legge (così come interpretata dalle Sezioni unite) con la Costituzione; verifica, questa, che l’ordinamento italiano affida a ogni autorità giurisdizionale durante qualsiasi giudizio, consentendo a tale autorità di promuovere direttamente questione di legittimità costituzionale innanzi a questa Corte, senza dover sollecitare allo scopo altra istanza superiore di giudizio (art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, recante «Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale»; art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»). 4.– Deve invece essere dichiarata, d’ufficio, l’inammissibilità della questione formulata dal giudice a quo in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 24 CDFUE, non avendo la Sezione rimettente motivato sulla sua riconducibilità all’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea ai sensi dell’art. 51 CDFUE, ciò che condiziona la stessa applicabilità delle norme della Carta (ex multis, sentenze n. 190 del 2020, n. 279 del 2019, n. 37 del 2019). Il che non esclude, naturalmente, che le norme della Carta possano essere comunque tenute in considerazione come criteri interpretativi degli altri parametri, costituzionali e internazionali, invocati dal giudice rimettente (come è accaduto, ad esempio, nelle sentenze n. 102 del 2020 e 272 del 2017 per l’appunto in relazione all’art. 24 CDFUE). 5.– Quanto alle restanti questioni sottoposte alla Corte, anche esse debbono essere dichiarate inammissibili, per le ragioni di seguito esposte. 5.1.– Il diritto vivente censurato dal giudice a quo si impernia sulla qualificazione, operata dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, del divieto penalmente sanzionato di surrogazione di maternità di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 come «principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali», tra cui segnatamente la dignità umana della gestante. Questa Corte si è recentemente espressa in termini analoghi, osservando che la pratica della maternità surrogata «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» (sentenza n. 272 del 2017). A tale prospettiva si affianca l’ulteriore considerazione – su cui pongono l’accento anche l’Avvocatura generale dello Stato e una parte degli amici curiae – che gli accordi di maternità surrogata comportano un rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate; situazioni che, ove sussistenti, condizionerebbero pesantemente la loro decisione di affrontare il percorso di una gravidanza nell’esclusivo interesse dei terzi, ai quali il bambino dovrà essere consegnato subito dopo la nascita. Tali preoccupazioni stanno verosimilmente alla base della condanna di «qualsiasi forma di maternità surrogata a fini commerciali» espressa dal Parlamento europeo nella propria Risoluzione del 13 dicembre 2016 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea nel 2015 (2016/2009-INI) (paragrafo 82). 5.2.– Le questioni ora sottoposte a questa Corte sono però focalizzate sugli interessi del bambino nato mediante maternità surrogata, nei suoi rapporti con la coppia (omosessuale, come nel caso che ha dato origine al giudizio a quo, ovvero eterosessuale) che ha sin dall’inizio condiviso il percorso che ha condotto al suo concepimento e alla sua nascita nel territorio di uno Stato dove la maternità surrogata non è contraria alla legge; e che ha quindi portato in Italia il bambino, per poi qui prendersene quotidianamente cura. Più precisamente, si tratta di fornire una risposta all’interrogativo se il diritto vivente espresso dalle Sezioni unite civili, alla luce della complessità della vicenda, sia compatibile con i diritti del minore sanciti dalle norme costituzionali e sovranazionali invocate dal giudice a quo. 5.3.– Questa Corte ha recentemente avuto modo di rammentare (sentenza n. 102 del 2020) che il principio secondo cui in tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali, deve essere riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia dei “migliori interessi” (best interests) o dell’“interesse superiore” (intérêt supérieur) del minore, secondo le formule utilizzate nelle rispettive versioni ufficiali in lingua inglese e francese, fu espresso anzitutto nella Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1959. Di qui tale principio è confluito – tra l’altro – nell’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e nell’art. 24, comma 2, CDFUE. Tale principio è stato altresì considerato dalla giurisprudenza della Corte EDU come specifica declinazione del diritto alla vita familiare di cui all’art. 8 CEDU (ex multis, Grande camera, sentenza 26 novembre 2013, X contro Lettonia, paragrafo 96). Il principio in parola è stato felicemente riformulato da una risalente sentenza di questa Corte, con riferimento all’art. 30 Cost., come necessità che nelle decisioni concernenti il minore venga sempre ricercata «la soluzione ottimale “in concreto” per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior “cura della persona”» (sentenza n. 11 del 1981); ed è stato ricondotto da plurime pronunce di questa Corte altresì all’ambito di tutela dell’art. 31 Cost. (sentenze n. 272 del 2017, n. 76 del 2017, n. 17 del 2017 e n. 239 del 2014). 5.4.– I parametri costituzionali e sovranazionali (questi ultimi rilevanti nell’ordinamento italiano per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.) invocati dall’ordinanza di rimessione convergono, dunque, attorno al principio della ricerca della soluzione ottimale in concreto per l’interesse del minore. Principio che deve essere ora declinato in relazione alle peculiarità delle situazioni all’esame. Non v’è dubbio, in proposito, che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita (nel caso oggetto del giudizio a quo, ormai da quasi sei anni) da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata. E ciò, quanto meno, da una duplice prospettiva. Anzitutto, questi legami sono parte integrante della stessa identità del bambino (Corte EDU, sentenza 26 giugno 2014, Mennesson contro Francia, paragrafo 96), che vive e cresce in una determinata famiglia, o comunque – per ciò che concerne le unioni civili – nell’ambito di una determinata comunità di affetti, essa stessa dotata di riconoscimento giuridico, e certamente riconducibile al novero delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 221 del 2019). Sicché indiscutibile è l’interesse del bambino a che tali legami abbiano riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico, a tutti i fini che rilevano per la vita del bambino stesso – dalla cura della sua salute, alla sua educazione scolastica, alla tutela dei suoi interessi patrimoniali e ai suoi stessi diritti ereditari –; ma anche, e prima ancora, allo scopo di essere identificato dalla legge come membro di quella famiglia o di quel nucleo di affetti, composto da tutte le persone che in concreto ne fanno parte. E ciò anche laddove il nucleo in questione sia strutturato attorno ad una coppia composta da persone dello stesso sesso, dal momento che l’orientamento sessuale della coppia non incide di per sé sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale (sentenza n. 221 del 2019; Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962; sezione prima civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601). Sotto un secondo e non meno importante profilo, non è qui in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino. Ciò che è qui in discussione è unicamente l’interesse del minore a che sia affermata in capo a costoro la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali agli interessi del minore che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali. Doveri ai quali non è pensabile che costoro possano ad libitum sottrarsi (per una analoga sottolineatura, si veda la sentenza n. 347 del 1998, che – seppur nel diverso contesto della fecondazione eterologa – già evocava i diritti del minore «nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità»). Proprio per queste ragioni, del resto, l’ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU afferma la necessità, al metro dell’art. 8 CEDU, che i bambini nati mediante maternità surrogata, anche negli Stati parte che vietino il ricorso a tali pratiche, ottengano un riconoscimento giuridico del «legame di filiazione» (lien de filiation) con entrambi i componenti della coppia che ne ha voluto la nascita, e che se ne sia poi presa concretamente cura (sentenza Mennesson contro Francia, paragrafo 100; sentenza D. contro Francia, paragrafo 64). Né l’interesse del minore potrebbe ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore “biologico”, come è accaduto nel caso dal quale è scaturito il giudizio a quo, in cui l’originario atto di nascita canadese, che designava come genitore il solo P. F., era stato trascritto nei registri di stato civile italiani. Laddove, infatti, il minore viva e cresca nell’ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone, che non solo abbiano insieme condiviso e attuato il progetto del suo concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata. 5.5.– È peraltro vero che l’interesse del bambino non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto a ogni altro controinteresse in gioco. La frequente sottolineatura della “preminenza” di tale interesse ne segnala bensì l’importanza, e lo speciale “peso” in qualsiasi bilanciamento; ma anche rispetto all’interesse del minore non può non rammentarsi che «[t]utti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sentenza n. 85 del 2013). Gli interessi del minore dovranno essere allora bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore; scopo di cui si fanno carico le sezioni unite civili della Corte di cassazione, allorché negano la trascrivibilità di un provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che abbia partecipato alla surrogazione di maternità, senza fornire i propri gameti. 5.6.– Di tale bilanciamento tra gli interessi del bambino e la legittima finalità di disincentivare il ricorso a una pratica che l’ordinamento italiano considera illegittima e anzi meritevole di sanzione penale – bilanciamento alla cui necessità alludeva anche la già menzionata sentenza n. 272 del 2017 di questa Corte – si è, del resto, fatta carico anche la giurisprudenza della Corte EDU, poc’anzi citata. Dal complesso delle pronunce rese sul tema dalla Corte di Strasburgo, si evince che – anche a fronte della grande varietà di approccio degli Stati parte rispetto alla pratica della maternità surrogata – ciascun ordinamento gode, in linea di principio, di un certo margine di apprezzamento in materia; ferma restando, però, la rammentata necessità di riconoscimento del «legame di filiazione» con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura. La Corte EDU riconosce, in particolare, che gli Stati parte possano non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al “genitore d’intenzione”; e ciò proprio allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica procreativa che ciascuno Stato ben può considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignità delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi. Tuttavia, la stessa Corte EDU ritiene comunque necessario che ciascun ordinamento garantisca la concreta possibilità del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il “genitore d’intenzione”, al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati (Corte EDU, decisione 12 dicembre 2019, C. contro Francia ed E. contro Francia, paragrafo 42; sentenza D. contro Francia, paragrafo 67); lasciando poi alla discrezionalità di ciascuno Stato la scelta dei mezzi con cui pervenire a tale risultato, tra i quali si annovera anche il ricorso all’adozione del minore. Rispetto, peraltro, a quest’ultima soluzione, la Corte EDU sottolinea come essa possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria “filiazione” tra adottante e adottato (Corte EDU, sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia, paragrafo 66), e «a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino» (ibidem, paragrafo 51). 5.7.– Il punto di equilibrio raggiunto dalla Corte EDU – espresso da una giurisprudenza ormai consolidata – appare corrispondente anche all’insieme dei principi sanciti in materia dalla Costituzione italiana, parimenti invocati dal giudice a quo. Essi per un verso non ostano alla soluzione, cui le sezioni unite civili della Cassazione sono pervenute, della non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il “padre d’intenzione”; ma per altro verso impongono che, in tal caso, sia comunque assicurata tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla lex loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale. Una tale tutela dovrà, in questo caso, essere assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino. Ogni soluzione che non dovesse offrire al bambino alcuna chance di un tale riconoscimento, sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, finirebbe per strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata. Proprio questo rischio, d’altronde, questa Corte ha inteso evitare allorché ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma che vietava il riconoscimento dei figli nati da incesto, precludendo loro l’acquisizione di un pieno status filiationis in ragione soltanto della condotta penalmente illecita dei loro genitori (sentenza n. 494 del 2002), e allorché – più recentemente – ha dichiarato pure costituzionalmente illegittima l’automatica applicazione della sanzione accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale in capo al genitore autore di un grave delitto commesso a danno del figlio, in ragione della possibilità che tale automatismo – finalizzato anche a lanciare un messaggio di deterrenza nei confronti dei potenziali autori di reati – finisse per risolversi in un pregiudizio per gli stessi interessi del minore (sentenza n. 102 del 2020). 5.8.– Come correttamente sottolinea l’ordinanza di rimessione, il possibile ricorso all’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), ritenuto esperibile nei casi all’esame dalla stessa sentenza n. 12193 del 2019 delle Sezioni unite civili, costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali rammentati. L’adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialità all’adottante. Inoltre, pur a fronte della novella dell’art. 74 cod. civ., operata dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), che riconosce la generale idoneità dell’adozione a costituire rapporti di parentela, con la sola eccezione dell’adozione di persone di maggiore età, è ancora controverso – stante il perdurante richiamo operato dall’art. 55 della legge n. 184 del 1983 all’art. 300 cod. civ. – se anche l’adozione in casi particolari consenta di stabilire vincoli di parentela tra il bambino e coloro che appaiono socialmente, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l’adottante abbia già altri figli propri. Essa richiede inoltre, per il suo perfezionamento, il necessario assenso del genitore “biologico” (art. 46 della legge n. 184 del 1983), che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce per essere così definitivamente privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall’inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita. (1) Al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali poc’anzi ricapitolati attraverso l’adozione, essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame, che è in effetti assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983. 5.9.– Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco. Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, questa Corte non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), e dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevate – in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) – dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 2021. F.to: Giancarlo CORAGGIO, Presidente Francesco VIGANÒ, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 9 marzo 2021. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA   ----- (1) La C.Cost. con sentenza 19.04.2021, n. 73 ha disposto che nella presente sentenza sia corretto il seguente errore materiale: al punto 5.8. del Considerato in diritto, le parole «all’art. 330 cod. civ.» siano sostituite dalle parole «all’art. 300 cod. civ.».

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso iscritto al numero di registro generale 4089 del 2020, proposto da Eu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Fe., Lu. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Città Metropolitana di Venezia e Comune di (omissis), in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Ro. Br., Fa. Fr., Ka. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Du. Se. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fi. Ma., Da. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Fi. Ma. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto Sezione Prima n. 00180/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Città Metropolitana di Venezia, del Comune di (omissis) e di Du. Se. s.r.l.; Visto l'appello incidentale di Du. Se. s.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 novembre 2020 il Cons. Giuseppina Luciana Barreca e, dato atto della presenza, ai sensi dell'art. 4, comma 1, ultimo periodo, d.l. n. 28/2020 e dell'art. 25 d. l. n. 137/2020, degli avvocati Ma. e Mo.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto ha respinto il ricorso proposto dalla società Eu. s.r.l. contro la Città Metropolitana di Venezia e il Comune di (omissis) e nei confronti di Du. Se. s.r.l., per l'annullamento dell'aggiudicazione a quest'ultima dell'appalto di refezione scolastica indetto dalla stazione unica appaltante Città Metropolitana di Venezia per conto del Comune di (omissis) della durata di due anni scolastici (2018-2019 e 2019-2020), con facoltà di rinnovo biennale. 1.1. Il Tribunale amministrativo regionale ha esaminato e respinto tutti i motivi del ricorso principale proposto da Eu., seconda graduata, riguardanti sia il sub-procedimento di verifica di anomalia nei confronti della Du. Se., prima graduata, sia l'offerta dell'aggiudicataria. 1.2. Ha quindi dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso incidentale di quest'ultima, compensando le spese processuali. 2. Eu. ha avanzato appello, con un unico motivo articolato in più censure, volto a criticare la sentenza impugnata "nella parte in cui riconosce la correttezza delle giustificazioni di Du. in ordine al costo del lavoro con particolare riferimento al tasso per assenteismo per malattia, infortunio e maternità e ai permessi sindacali". Ha invece prestato acquiescenza al rigetto dei motivi restanti. 2.1. Si sono costituiti per resistere al gravame il Comune di (omissis) e la Città Metropolitana di Venezia. 2.2. Si è costituita in resistenza anche Du. Se., la quale ha avanzato appello incidentale, riproponendo le censure del ricorso incidentale dichiarato improcedibile in primo grado. 2.3. All'udienza del 19 novembre 2020 la causa è stata assegnata a sentenza sulla base degli atti, previo deposito di memorie di tutte le parti e di memorie di replica delle due società, nonché di note di udienza da parte di Du.. 3. Logicamente pregiudiziale è l'esame dell'appello incidentale, col quale Du., censurando la dichiarazione di improcedibilità del ricorso incidentale in primo grado, ne ripropone i motivi. Le censure incidentali costituiscono effettivamente un prius dal punto di vista logico-giuridico rispetto alle censure della ricorrente principale, in quanto sono volte all'estromissione della Eu. dalla gara per asserita violazione del requisito minimo di organico necessario per l'effettuazione del servizio, quindi per dedotta inidoneità dell'offerta tecnica rispetto alle richieste della legge di gara. Invece, l'unica censura di Eu. riproposta in appello attiene alla verifica di congruità dell'offerta economica di Du., specificamente in riferimento al costo del lavoro, di modo che l'accoglimento delle censure avanzate in via incidentale in primo grado da parte di quest'ultima priverebbe d'interesse il ricorso di Eu.. 3.1. Con unico motivo (Violazione dell'art. 3, pag. 6 del capitolato. Violazione dell'art. 68, d.lgs. 50/2016. Inidoneità dell'offerta avversaria per insufficienza dell'organico proposto rispetto alla richiesta minima di lex specialis) l'appellante incidentale, richiamato il detto articolo 3, sostiene che il capitolato avrebbe imposto di garantire, per ogni refettorio e per ogni turno di somministrazione di pasti, un organico di addetti alla somministrazione tale da rispettare il rapporto di 1 addetto ogni 35 utenti, ossia 1 addetto per ogni 35 pasti. Data tale lettura del capitolato, a detta di Du. prescrittivo di un "requisito tecnico minimo essenziale per garantire lo svolgimento del servizio", si avrebbe, secondo l'appellante incidentale, che l'offerta di Eu. non rispetterebbe il requisito, perché, sulla base dei dati forniti con i chiarimenti della stazione appaltante (del numero dei pasti e dei turni), risulterebbe che, con l'organico complessivamente offerto, non le sarebbe stato possibile garantire il numero minimo di addetti alla somministrazione dei pasti per la giornata di martedì . Svolti i calcoli relativi (per i quali è sufficiente fare rinvio agli scritti di parte), l'appellante incidentale conclude deducendo che il mancato rispetto del rapporto minimo fra numero di addetti alla somministrazione nei refettori e numero di pasti/utenti, imposto dall'articolo 3 del capitolato, avrebbe dovuto comportare l'esclusione di Eu. dalla gara. 3.2. Il motivo non merita favorevole apprezzamento. L'art. 3, pagina 6, del capitolato stabiliva che "Nelle scuole i pasti dovranno essere somministrati da personale della ditta stessa con un numero di addetti adeguato in modo tale da garantire la qualità e il regolare svolgimento del servizio e dovrà essere comunque garantito un rapporto tra personale addetto alla somministrazione dei pasti e numero degli utenti serviti pari a 1:35 presso ciascun refettorio e per ciascun turno". La lettera della disposizione non può affatto essere interpretata nel senso che prescriva un requisito speciale di partecipazione, la cui mancanza potesse essere sanzionata con l'esclusione dalla procedura. Questa conclusione s'impone già perché nella legge di gara non vi è alcuna previsione espressa in tale senso (in particolare, non vi è alcuna previsione espressa della richiesta del requisito a pena di "inammissibilità " o di "esclusione" dell'offerta), cosicché prevale in materia il principio di tassatività delle cause di esclusione ex art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016, spettando alla stazione appaltante delineare in termini espliciti ciò che ha natura essenziale per lo svolgimento del servizio. 3.4. In ogni caso una siffatta natura essenziale, nel servizio de quo, del rapporto indicato dall'art. 3 del capitolato non si può ricavare nemmeno alla stregua di una lettura sistematica della legge di gara, la quale avrebbe dovuto essere formulata in termini tali da lasciare chiaramente intendere che detta modalità di esecuzione dell'appalto fosse elemento qualificante dell'offerta, e perciò requisito di ammissione alla procedura, la cui mancanza o discordanza potesse determinare l'esclusione del concorrente. Orbene, la stazione appaltante - nulla espressamente prevendendo la legge di gara sul punto - si è limitata a fornire, in sede di chiarimenti, valori meramente indicativi circa il numero degli utenti da servire, dovendosi perciò escludere che si trattasse di un parametro inderogabile cui rapportare l'offerta, in specie quanto al rapporto tra numero di addetti alla distribuzione e numero di utenti (quest'ultimo peraltro naturalmente destinato a variare di anno in anno, tenuto conto delle frequenze scolastiche). Ancora, in assenza di specifiche indicazioni nella legge di gara (mancante financo di un criterio di attribuzione del punteggio dipendente dalle modalità organizzative del lavoro), la richiesta modalità operativa del servizio è chiaramente dipendente dalla concreta organizzazione del personale impiegato per lo svolgimento del servizio da parte dell'impresa aggiudicataria, sicché essa si presta ad essere valutata, sia, per alcun profili, in sede di valutazione di congruità dell'offerta, come opposto dalla stazione appaltante, sia, per altri profili, in sede esecutiva, come obiettato da Eu.. 3.5. Essendo da escludere che il mancato rispetto del detto rapporto di 1:35 da parte della concorrente, sin dal momento della presentazione delle offerte, potesse comportarne l'esclusione come preteso da Du. Se. (al fine di fare venir meno la legittimazione ad agire di Eu.), il ricorso incidentale, così come riproposto con appello incidentale, va respinto nel merito, senza necessità di ulteriori accertamenti. 4. Con l'unico articolato motivo dell'appello principale viene criticata la sentenza appellata nella parte in cui ha deciso sulla censura concernente il costo orario del lavoro indicato dall'aggiudicataria, specificamente in merito alle riduzioni di costo illustrate da quest'ultima nelle giustificazioni del 28 dicembre 2018, in punto di applicazione dei tassi di assenteismo reali per "malattia, infortunio e maternità " e per "permessi e assemblee" (indicati rispettivamente in circa 14 ore annue e 1,67 ore annue e, poi, sovrastimate in 25 e in 2 ore annue). Il primo giudice ha dichiarato di fondare il giudizio sulla ricognizione dei dati aziendali, "e, dunque, sulla base di dati storici e propri dell'organizzazione imprenditoriale", tenendo conto dei "cedoloni paghe anni 2016-2018" e di un prospetto riassuntivo, depositato dall'aggiudicataria, "dal quale si ricava, in particolare, che (in relazione al periodo 2013-2018) il controvalore in ore del tasso di assenteismo per malattia, infortuni e maternità tocca il massimo di 23,23 (nel 2013) ed il minimo di 16,67 (nel 2018): sul punto si deve evidenziare che il valore indicato dalla aggiudicataria in sede di gara era pari a 25 ore annue". Ha quindi ritenuto che con la produzione documentale appena detta l'aggiudicataria non avesse addotto (ulteriori) giustificazioni, "ma solo fornito un supporto a dimostrazione della fondatezza delle proprie argomentazioni difensive" e che, per contro, non avrebbero potuto essere esaminate "le censure racchiuse alle pagg. 2 e 3 della memoria depositata dalla parte ricorrente in data 3 maggio 2019", perché inammissibili in quanto dedotte in memoria non notificata alla controparte e completamente nuove. Ha inoltre dato conto dell'ulteriore argomentazione addotta dalla ricorrente principale al fine di supportare la tesi dell'insostenibilità dell'offerta dell'aggiudicataria, basata sulla consultazione della documentazione ufficiale proveniente dalla stessa Du. Se. (bilancio di responsabilità, depositato in giudizio dalla ricorrente principale in data 29 aprile 2019) e rinvenuto dopo la notifica del ricorso introduttivo: la parte ricorrente aveva evidenziato che mentre in gara l'aggiudicataria ha dichiarato tassi di assenteismo "irrisori" (25 ore annue) e notevolmente inferiori al dato ricavabile dalla tabella FIPE (100 ore annue), nel predetto bilancio di responsabilità (pag. 12) emergeva che in realtà il suo assenteismo era pari al 7,7%, corrispondente a ben 160 ore annue. Il primo giudice ha ritenuto che tali argomentazioni non fossero "in grado di riflettersi - sì da evidenziare i profili di illegittimità denunciati - sull'esercizio del potere tecnico-discrezionale da parte della stazione appaltante in punto di verifica dell'anomalia dell'offerta", osservando che "merita di essere evidenziato che il Corporate Responsibility Report 2017 introduce l'analisi nello stesso contenuta qualificando Du. Se. "specialista nell'erogazione di servizi integrati di pulizia e sanificazione, ristorazione e facility management per la sanità, le scuole, l'industria e le forze armate" (pag. 6) e indicando i servizi dalla stessa svolti: pulizia e sanificazione, ristorazione collettiva (che sono definiti "principali"), e poi una serie di ulteriori servizi (pag. 9). Detto report, dunque, non è in grado di mettere in dubbio la credibilità del tasso di assenteismo dichiarato in sede di gara dall'aggiudicataria, non riguardando lo specifico settore aziendale che si occupa dell'erogazione del servizio di ristorazione ma, in termini complessivi, l'intera organizzazione aziendale.". 4.1. Alla stregua delle motivazioni esposte, reputate sufficienti a superare le doglianze della ricorrente principale, la sentenza ha giudicato priva di rilievo la questione -già fatta oggetto di istruttoria, con richiesta di informazioni all'INPS e all'INAIL- dell'effettiva e concreta incidenza dei costi dell'assenteismo sul datore di lavoro (valorizzando tuttavia il dato ricavabile dalla relazione INAIL- Direzione regionale Veneto pervenuta il 25 novembre 2019 che "una parte dei costi legati agli infortuni e alle malattie professionali del lavoratore non ricadono sul datore di lavoro, ma sull'Istituto assicuratore"). 5. Nel criticare la decisione, l'appellante principale ripropone le censure di violazione e falsa applicazione dell'art. 95 del d.lgs. n. 50 del 2016, di violazione e falsa applicazione della lex specialis di gara, in specie dell'art. 17, punto 11, del disciplinare di gara e dell'art. 6 del capitolato d'appalto, con particolare riferimento alla sufficienza e congruità delle giustificazioni rese da Du. Se. nel procedimento di verifica dell'anomalia riguardo al c.d. "tasso di assenteismo". Esposto il contenuto delle giustificazioni, Eu. sostiene la rilevanza della censura concernente i detti tassi di assenteismo, perché la "correzione" anche soltanto del costo, dovuto all'adeguamento alle tabelle FIPE, per l'assenteismo (malattia, gravidanza e infortuni) comporterebbe, a suo avviso, un costo del lavoro superiore a quello indicato in offerta di ben 51.536,23 euro, dunque superiore all'utile dichiarato in gara (euro 33.047,58, poi corretto da Du. in euro 16.679,44); aggiunge che se si considerasse il costo per l'assenteismo ricavato dal bilancio di responsabilità della stessa Du., il costo del lavoro risulterebbe superiore addirittura di euro 78.492,66. 5.1. Ciò premesso, l'appellante censura le su riportate argomentazioni della sentenza appellata, sotto i seguenti profili: - erroneità della sentenza in relazione alla affermata valenza di prova dei c.d. "cedoloni": la comprova della minore incidenza di alcune voci tabellari avrebbe dovuto essere fornita nel procedimento di verifica di anomalia e non in giudizio; le giustificazioni fornite da Du. il 28 dicembre 2018 erano meramente assertive di un minore assenteismo, di modo che il riscontro documentale sarebbe stato fornito soltanto in giudizio, con la conseguenza che il Tribunale amministrativo regionale, valutando i documenti prodotti in sede giudiziale, ha finito per sostituirsi nella tipica valutazione tecnico discrezionale che avrebbe dovuto essere svolta dall'ente appaltante; ad ogni buon conto, i c.d. cedoloni non sarebbero nemmeno utili allo scopo, tanto è vero che il giudice si sarebbe limitato a recepire (implicitamente e acriticamente) il contenuto della tabella riassuntiva predisposta da Du.; la decisione sarebbe erronea e contraddittoria, in quanto, pur avendo disposto attività istruttoria, chiedendo informazioni all'INPS e all'INAIL, il giudice si sarebbe infine adeguato al documento prodotto dall'aggiudicataria, senza procedere ai necessari approfondimenti; - erroneità della sentenza in relazione agli argomenti contenuti nella memoria conclusiva di Eu. del 3 maggio 2019 considerati inammissibili dal Tar: le argomentazioni esposte nella memoria conclusiva non contenevano alcuna nuova censura; Eu. si è limitata ad affermare che Du. non avrebbe potuto basare lo scostamento rispetto alle tabelle FIPE (come dichiarato nelle proprie giustificazioni) sulla conoscenza dell'appalto, semplicemente perché non lo gestiva e i cedoloni prodotti si riferivano ad appalti gestiti nel milanese (dunque difficilmente applicabili ad altre realtà territoriali); dato tale contenuto, si sarebbe trattato di mere notazioni riguardanti la documentazione in atti, che avrebbero lasciato inalterata l'originaria censura e quindi avrebbero dovuto essere considerate ammissibili, nonché "ragionevoli" e fondate; - erroneità della sentenza in relazione alla valutazione nel merito degli scostamenti rispetto alle tabelle FIPE sull'assenteismo: lo scostamento delle voci indicate da Du. rispetto a quelle tabellari è considerevole ed è rimasto ingiustificato; ad aggravare la mancata giustificazione da parte dell'aggiudicataria si aggiungerebbero gli indici di inattendibilità dei tassi dichiarati, provenienti dalla stessa Du., indicati da Eu., risultanti dal c.d. Corporate Responsability Report; nello svalutare la portata di tale documento, il Tribunale amministrativo regionale, oltre ad aver invertito l'onere della prova (perché sarebbe stato onere di Du. comprovare l'incidenza delle altre attività del gruppo rispetto a quella di ristorazione), ha omesso di argomentare sull'oggettiva inattendibilità del dato, considerato che il settore della ristorazione è comunque molto rilevante per Du. e che la stessa Du., nei successivi appalti di cui Eu. è a conoscenza, non ha dichiarato costi aziendali minori in relazione al c.d. assenteismo, ma ha applicato le tabelle FIPE (come da documenti in atti); a quest'ultimo riguardo, l'appellante precisa che, risultando da precedenti giudiziari che il tasso di assenteismo nel settore delle pulizie è stato dichiarato in conformità a quello FIPE (è citata la sentenza del Consiglio di Stato, VI, 30 gennaio 2020, n. 788), per rispettare la media risultante dai dati del bilancio di sostenibilità (che indicano un numero di ore di gran lunga superiore a quello tabellare) il dato della ristorazione avrebbe dovuto essere, a sua volta, superiore; - erroneità della sentenza per carenza di motivazione in relazione alle giustificazioni Du. sui permessi sindacali: analoghe considerazioni valgono per le ore dichiarate per permessi sindacali in "deroga" alla tabelle FIPE, essendo state dichiarate 2 ore rispetto alle 13 tabellari; il Tribunale amministrativo regionale avrebbe dovuto indicare la ragione per la quale è stato ritenuto congruo un siffatto scostamento, ma sul punto la sentenza è carente di motivazione; a comprova della censura, l'appellante riporta, anche per i permessi sindacali, i dati del bilancio di sostenibilità della stessa Du. (nel quale si precisa che le ore di permesso per assemblea sindacale sono aumentate dalle 26.815 del 2017 alle 30.446 del 2018). 6. L'appello è fondato sotto tutti i profili esposti, che sono congiuntamente scrutinabili. Il principio di diritto da cui prendere le mosse è quello stesso richiamato nella sentenza appellata, secondo cui i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali sono un semplice parametro di valutazione della congruità dell'offerta, perciò l'eventuale scostamento delle voci di costo da quelle riassunte nelle tabelle ministeriali non legittima un giudizio di anomalia o di incongruità e occorre, perché possa dubitarsi della congruità, che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata, alla luce di una valutazione globale e sintetica, di suo espressione di un potere tecnico-discrezionale insindacabile salvo che la manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza non renda palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29 luglio 2019, n. 5353). 6.1. La situazione di discordanza considerevole del tasso di assenteismo dichiarato da Du. Se. per "malattia, infortunio e maternità " e per "permessi e assemblee" rispetto ai tassi delle tabelle FIPE è oggettivamente riscontrata in atti. Quanto alle giustificazioni, si legge in quelle presentate dall'aggiudicataria alla stazione appaltante in data 28 dicembre 2018, che "in virtù della pluriennale gestione di questo appalto ed alla numerosità degli appalti in portafoglio nella provincia di Milano e nelle provincie limitrofe, Du. Se. S.r.l. elabora annualmente la media riferita ai tassi di assenteismo effettivamente rilevati sia per tipologia di business che di territorio" e che, quanto a malattia, infortunio e maternità, "il tasso effettivamente a carico dell'azienda risulta notevolmente al di sotto di quanto indicato nelle Tabelle di Costo del Lavoro, le quali prevedono una incidenza corrispondente ad un assenteismo di 100 ore su un totale annuo di 2088 ore totali teoriche previste. Cautelativamente, invece, il calcolo del tasso di assenteismo è stato inserito per un numero di ore pari a 25. In realtà l'incidenza di tale voce d'assenteismo per Du. sui dati consolidati dell'appalto in questione, risulta essere di 14 ore annue, che determinerà una ulteriore riduzione del costo o a copertura di eventuali costi imprevisti"; analoghe giustificazioni sono state fornite per le ore "permessi e assemblee". 6.2. Si tratta di mere affermazioni, rimaste prive di riscontro nei confronti della stazione appaltante, il cui giudizio tecnico-discrezionale risulta, per ciò soltanto, palesemente lacunoso, quindi incongruo. Né siffatta lacuna oggettiva può essere colmata grazie al riferimento alla valutazione globale e sintetica dell'offerta di Du., poiché sono proprio i due dati in contestazione a rilevare, di per sé, ai fini del giudizio complessivo sull'offerta economica: invero, quest'ultima è già viziata dall'applicazione della tabella ministeriale FIPE Venezia 2013, laddove avrebbe invece dovuto essere tenuta presente la contrattazione collettiva del 2018, di modo che il divario in aumento del costo del lavoro che si verrebbe a determinare applicando le previsioni del contratto collettivo nazionale di lavoro del settore pubblici esercizi - turismo del febbraio 2018, in tanto potrebbe risultare giustificato in quanto la relativa maggiorazione (che, secondo quanto affermato da Du. Se. in sede giudiziale, comporterebbe un maggior costo del lavoro di Euro 16.368,14, con pari incidenza sull'utile, stimato complessivamente in Euro 33.047,58) sia compensata dalle riduzioni di costo che l'aggiudicataria riesce ad ottenere grazie alla propria organizzazione aziendale. Tra tali riduzioni di costo è determinante, appunto, quella che si fonda sulla ricognizione dei dati aziendali riguardanti i tassi di assenteismo per le voci anzidette. 6.3. In proposito, sono fondati i rilievi dell'appellante; e segnatamente: - detta ricognizione avrebbe dovuto essere effettuata, in concreto ed in prima battuta, dalla stazione appaltante, non potendo essere demandata alla sede giudiziale, come accaduto nel giudizio di primo grado; - nell'effettuare la valutazione concernente il costo del lavoro la stazione appaltante avrebbe dovuto tenere conto dei dati provenienti dall'aggiudicataria, effettuando i dovuti approfondimenti previa acquisizione di documentazione comprovante i dati storici aziendali e calcolo dei costi effettivamente a carico del datore di lavoro (in base ad informazioni acquisibili da parte della stazione appaltante, ove necessario, anche mediante riscontro delle posizioni rilevanti presso gli istituti assicuratori); - l'istruttoria riservata alla stazione appaltante, in sede di subprocedimento di verifica di anomalia ex artt. 95 e 97 del d.lgs. n. 50 del 2016, deve poi tenere conto di tutti gli elementi oggettivi rilevanti allo scopo, tra i quali -come ben osservato dalla ricorrente, in entrambi i gradi di giudizio- non possono non assumere rilevanza, per un verso, i dati provenienti dalla stessa Du. (come quelli del bilancio di responsabilità o delle indicazioni fornite in altri appalti di servizi affidati al medesimo operatore economico) e, per altro verso, l'ambito territoriale nel quale l'aggiudicataria ha svolto l'attività di ristorazione cui fanno riferimento i dati storici di assenteismo aziendale. 6.4. Riguardo a tali ultimi rilievi merita aggiungere quanto segue. 6.4.1. Nel subprocedimento di anomalia dell'offerta, l'aggiudicataria è gravata dell'onere di giustificare i costi proposti; a maggior ragione tale prova puntuale e rigorosa è richiesta quando il costo del lavoro non è coincidente con quello medio tabellare. Di conseguenza, ove i dati dichiarati appaiono in contrasto con dati contabili o indicati in altri documenti provenienti dalla medesima aggiudicataria, dovrà essere sempre quest'ultima a spiegare le ragioni di tali apparenti divergenze. E' vero che, in sede giudiziale, quando la stazione appaltante abbia espresso una valutazione di non anomalia dell'offerta e questa sia stata impugnata dall'operatore economico non aggiudicatario, spetta al ricorrente dimostrare la manifesta erroneità o contraddittorietà della valutazione dell'amministrazione, essendo perciò gravato dell'onere della prova relativa (Cons. Stato, sez V, 27 settembre 2017 n. 4527, tra le tante). Tuttavia, nella dinamica processuale, tale onere è validamente assolto quando -come accaduto nel caso di specie- il ricorrente evidenzi, per un verso, vistose lacune giustificative da parte dell'aggiudicataria e, per altro verso, palesi contraddizioni tra quanto dichiarato in sede procedimentale e quanto risultante da documenti provenienti dalla medesima, e né le une né le altre risultino essere state adeguatamente considerate dalla stazione appaltante, finendo perciò per renderne sindacabile il giudizio di non anomalia, per cattivo esercizio del relativo potere tecnico-discrezionale. Pertanto, non è condivisibile quanto asserito dal primo giudice in merito all'irrilevanza dei dati risultanti dal Corporate Responsability Report di Du., all'opposto essendo essi rilevanti e perciò meritando adeguata confutazione da parte della stessa società aggiudicataria. 6.4.2. Parimenti non è corretta la statuizione del primo giudice di inammissibilità delle censure contenute alle pagine 2 e 3 della memoria conclusiva depositata da Eu. il 3 maggio 2019. Essa contiene infatti l'affermazione, della quale il Tribunale amministrativo regionale ha ritenuto precluso l'esame, che "in primo luogo, Du. non è gestore uscente dell'appalto per cui è causa, quindi non ha alcuna esperienza specifica riguardo alla realtà di (omissis), in secondo luogo è chiaramente irrilevante il riferimento agli appalti gestiti nel milanese (ammesso e non concesso che tali dati siano corretti), atteso che nel nostro caso stiamo controvertendo su un appalto della provincia di Venezia. Voler estendere il tasso di assenteismo (asserito) di Milano e Provincia al Comune di (omissis) è pretesa chiaramente erronea, nulla sapendo Du. della realtà del luogo, tenuto peraltro conto che la clausola sociale impone all'aggiudicatario di assumere il personale già impiegato dal gestore uscente.". All'evidenza si tratta di mere notazioni difensive, che traggono fondamento dalle giustificazioni dell'aggiudicataria, fatte oggetto di censura col ricorso introduttivo. Il principio di diritto richiamato nella sentenza appellata -secondo cui nel processo amministrativo sono inammissibili le censure dedotte in memoria non notificata alla controparte sia nell'ipotesi in cui risultino completamente nuove e non ricollegabili ad argomentazioni espresse nel corpo del ricorso sia quando, pur richiamandosi ad un motivo già ritualmente dedotto, introducano elementi sostanzialmente nuovi, ovvero in origine non indicati, con conseguente violazione del termine decadenziale e del principio del contraddittorio- va ribadito. Tuttavia, occorre precisare che, nella sua portata effettiva, esso è volto esclusivamente ad evitare che venga ampliato il thema decidendum introducendo nuove domande o nuove eccezioni, ovvero fatti principali comportanti modificazioni non consentite delle domande e delle eccezioni ritualmente introdotte; esso non è riferibile né ai fatti secondari, né, a maggior ragione, come accaduto nella specie, ad argomentazioni difensive basate su fatti (secondari) già presenti nel contraddittorio processuale, perché addirittura posti a fondamento di quelle stesse giustificazioni (del 28 dicembre 2018) che la parte ricorrente ha ex professo censurato. La circostanza che la stazione appaltante si sia "accontentata" di giustificazioni che presentavano i su evidenziati profili di incongruenza riguardo all'ambito territoriale di operatività dell'impresa, senza espressamente valutarli, rende, a maggior ragione, incongrua, perciò sindacabile in sede giurisdizionale, la valutazione di non anomalia dell'offerta. 7. In conclusione, respinto l'appello incidentale, va accolto l'appello principale e, per l'effetto, in riforma della sentenza di primo grado, va annullato il provvedimento di aggiudicazione impugnato, facendosi così applicazione, oltre che della giurisprudenza, già sopra richiamata, in tema di irrilevanza del calcolo del costo del lavoro secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi, a meno che non sussistano discordanze considerevoli ed ingiustificate (cfr., tra le altre, Cons. Stato, V, 28 maggio 2019, n. 3487; id., V, 18 febbraio 2019, n. 1097), anche del principio giurisprudenziale secondo cui comunque le tabelle ministeriali assolvono ad una funzione di parametro di riferimento del quale è possibile discostarsi, in sede di giustificazioni dell'anomalia, solo sulla scorta di una dimostrazione puntuale e rigorosa spettante all'operatore economico aggiudicatario (cfr. Cons. Stato, V. 20 febbraio 2017, n. 756, con specifico riferimento ad eventi, quali malattie, infortuni, maternità, che non rientrano nella disponibilità dell'impresa e che quindi necessitano, per definizione, di stima di carattere prudenziale). 7.1. L'annullamento dell'aggiudicazione comporta che debba essere rimessa alla stazione appaltante una nuova verifica di anomalia dell'offerta di Du., limitatamente alla valutazione concernente il costo del personale, in relazione al tasso di assenteismo per "malattia, infortunio e maternità " e per "permessi e assemblee" indicato dall'aggiudicataria. Siffatta decisione è assunta alla stregua dell'indirizzo giurisprudenziale, che qui si ribadisce, secondo cui il giudice amministrativo, nell'ambito della giurisdizione di legittimità, non può sostituirsi all'amministrazione nell'effettuare la verifica di anomalia, e non può comunque sottrarre all'amministrazione la discrezionalità che le è propria in base al dettato normativo. Una volta accertato che nella specie l'effettiva incidenza degli oneri per il costo del lavoro sull'equilibrio complessivo dell'offerta non è stata correttamente verificata nella sede propria, tale omissione non può essere "surrogata" da una verifica in sede giudiziale, tenuto conto anche dei noti limiti al sindacato giurisdizionale sulle valutazioni rimesse all'amministrazione in subiecta materia. In tal caso, non deve, quindi, essere disposta l'esclusione dell'offerta sospetta di anomalia, ma solo la regressione della procedura alla fase di verifica dell'anomalia (Cons. St., IV, 13 aprile 2016, n. 1448; id, V, 30 marzo 2017, n. 1465). L'annullamento dell'aggiudicazione, nonché, per le parti di interesse della ricorrente in primo grado, dei verbali di verifica dell'anomalia dell'offerta, e la declaratoria dell'inefficacia del contratto di appalto già stipulato con l'impresa aggiudicataria, di cui ricorrono i presupposti previsti dall'art. 122 c.p.a. in ragione del fatto che residua ancora un periodo di esecuzione del servizio, attesa la rinnovabilità biennale, sono, pertanto, disposti con salvezza degli ulteriori provvedimenti che l'amministrazione porrà in essere, nel rispetto della sentenza in esame. 7.2. Regredendo il procedimento alla fase di verifica dell'anomalia dell'offerta dell'aggiudicataria, non vi è luogo a provvedere, allo stato, né sulla domanda di reintegrazione in forma specifica né su quella di risarcimento per equivalente, avanzate da Eu.. 8. Le spese processuali di entrambi i gradi vanno compensate, tenuto conto dell'esito complessivo della lite, per il quale le censure del ricorso introduttivo di Eu. sono state accolte solo parzialmente. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, respinge l'appello incidentale ed accoglie l'appello principale; per l'effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, annulla il provvedimento di aggiudicazione e, per le parti di interesse della ricorrente in primo grado, dei verbali di verifica dell'anomalia dell'offerta, e dichiara inefficace il contratto stipulato con l'aggiudicataria, nei limiti e con gli effetti specificati in motivazione. Compensa le spese dei due gradi di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2020, tenuta ai sensi dell'art. 4 del d.l. n. 28 del 2020 e dell'art. 25 del d.l. n. 137 del 2020, con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Federico Di Matteo - Consigliere Angela Rotondano - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Mario Rosario MORELLI; Giudici : Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,   ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) e dell’art. 29, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), promosso dal Tribunale ordinario di Venezia, nel procedimento di volontaria giurisdizione instaurato da S. S. e A. B., con ordinanza del 3 aprile 2019, iscritta al n. 108 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2019. Visti gli atti di costituzione di S. S. e A. B., nonché gli atti di intervento dell’Avvocatura per i diritti LGBTI APS e del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 20 ottobre 2020 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli; uditi gli avvocati Susanna Lollini per l’Avvocatura per i diritti LGBTI APS, Umberto Saracco per S. S. e A. B. e l’avvocato dello Stato Wally Ferrante per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 20 ottobre 2020. Ritenuto in fatto 1.– Nel corso di un giudizio per rettifica di atto di nascita – proposto da due donne, le quali, premesso di essere unite civilmente e di avere, una di esse con il consenso dell’altra, avviato (all’estero) pratica di fecondazione medicalmente assistita dalla quale è nato un bambino, chiedevano dichiararsi l’illegittimità del rifiuto opposto dall’Ufficiale dello stato civile alla loro richiesta congiunta di indicare il minore come figlio di entrambe e non della sola partoriente – l’adito Tribunale ordinario di Venezia, ritenutane la rilevanza, ha sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), «nella parte in cui limita la tutela … delle coppie di donne omosessuali unite civilmente ai “soli diritti … e doveri nascenti dall’unione civile”», e dell’art. 29, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), del d.P.R. 30 gennaio 2015, n. 26 (Regolamento recante attuazione dell’articolo 5, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, in materia di filiazione), nella parte in cui «limita la possibilità di indicare il solo genitore “legittimo, nonché di quelli che rendono … o hanno dato il consenso ad essere nominati” e non anche alle donne tra loro unite civilmente e che abbiano fatto ricorso (all’estero) a procreazione medicalmente assistita», in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30 e 117 [primo comma] della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24, paragrafo 3, della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, con particolare riferimento all’art. 2. Secondo il rimettente, il combinato disposto delle norme censurate pregiudicherebbe, infatti, alcuni diritti inviolabili della persona, quali il diritto alla genitorialità e il diritto alla procreazione nell’ambito di una unione civile legalmente riconosciuta nell’ordinamento italiano; discriminerebbe i cittadini per il loro orientamento sessuale ed in considerazione delle condizioni patrimoniali in cui versano le coppie; introdurrebbe, anche avuto riguardo al panorama della legislazione europea, un irragionevole divieto basato su discriminazioni per mere ragioni legate all’orientamento sessuale dei componenti la coppia. 2.– Innanzi a questa Corte si sono costituite le due parti ricorrenti nel giudizio principale, le quali hanno richiesto: – in via principale, la dichiarazione di inammissibilità della questione sollevata per non avere il Tribunale rimettente adeguatamente motivato «in merito alle ragioni per le quali non sia stato possibile addivenire ad una interpretazione conforme a Costituzione» della normativa denunciata; – in via subordinata, la dichiarazione di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale, dovendo le norme censurate essere interpretate nel senso che esse consentono la formazione in Italia di un atto di nascita in cui siano riconosciuti come genitori due donne che abbiano fatto accesso all’estero a tecniche di fecondazione eterologa, quando esse siano unite civilmente; – in via ulteriormente gradata, la dichiarazione di fondatezza della questione di legittimità costituzionale per contrasto della normativa, che ne forma oggetto, con i parametri nazionali e sovranazionali evocati dal rimettente. A loro avviso, non sarebbe dato, infatti, rinvenire nell’ordinamento interno «un diritto o un interesse di pari rango costituzionale che il legislatore avrebbe l’obbligo di tutelare attraverso l’esclusione di altri esseri umani dall’esercizio dei diritti fondamentali prescritti dagli artt. 2 e 30 Costituzione e 8 CEDU, nonché dalla Convenzione dei Diritti del Fanciullo, esclusivamente in ragione dell’orientamento sessuale delle persone a cui si sottraggono questi diritti». 3.– È anche intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri. L’Avvocatura generale dello Stato – che lo rappresenta e difende – ha contestato, sotto ogni profilo, la fondatezza della riferita questione. A suo avviso, l’iter argomentativo del rimettente muoverebbe «dall’assunto, del tutto apodittico e indimostrato, dell’esistenza nel sistema giuridico di un “diritto alla bigenitorialità”» e finirebbe per «esprimere unicamente e semplicemente una impostazione decisamente “adultocentrica”, lontana o che, comunque, non tiene affatto conto del principio del “best interest of the child” ovvero della necessità di adottare tra più soluzioni astrattamente possibili quella più conforme e adatta alle esigenze del minore». Ciò che troverebbe conferma anche nella giurisprudenza della Corte EDU, per la quale, pur non potendosi ignorare il dolore provato da coloro i quali vedono frustrato il proprio desiderio di genitorialità, resta comunque escluso che la Convenzione sancisca «alcun diritto di diventare genitore», atteso anche che quest’ultima aspirazione deve comunque cedere rispetto al superiore interesse del nascituro che, infatti, non verrebbe adeguatamente tutelato ove venissero consentite pratiche di fecondazione assistita al di fuori dei limiti consentiti dalla normativa vigente (in questo senso, CEDU, grande camera, 24 gennaio 2017, Paradiso Campanelli contro Italia). 4.– È intervenuta, infine, come terzo ad adiuvandum, l’Avvocatura per i diritti LGBTI Aps, la quale – premessa l’ammissibilità del proprio intervento –ha rassegnato conclusioni sostanzialmente in linea con quelle espresse dalle parti costituite. 5.? Nell’imminenza dell’udienza, sia le parti indicate, sia il Presidente del Consiglio che l’Avvocatura LGBTI, hanno presentato memorie, con le quali hanno ulteriormente argomentato le rispettive conclusioni. Considerato in diritto 1.– L’art. 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, recante «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze», dispone che «[a]l solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti». A sua volta, l’art. 29, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, recante «Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127», come modificato dall’art. 1, comma, 1, lettera c), del d.P.R. 30 gennaio 2015, n. 26 (Regolamento recante attuazione dell’articolo 5, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, in materia di filiazione), articolo rubricato «Atto di nascita», prevede che «[n]ell’atto di nascita sono indicati il luogo, l’anno, il mese, il giorno e l’ora della nascita, le generalità, la cittadinanza, la residenza dei genitori del figlio nato nel matrimonio nonché di quelli che rendono la dichiarazione di riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio e di quelli che hanno espresso con atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati, il sesso del bambino e il nome che gli viene dato ai sensi dell’articolo 35». 2.– Con l’ordinanza emessa nel giudizio di cui si è detto nel Ritenuto in fatto, il Tribunale ordinario di Venezia dubita della legittimità costituzionale del predetto comma 20 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016, «perché, limitando l’applicabilità delle leggi speciali alle coppie di donne omosessuali unite civilmente ai “soli diritti e […] doveri nascenti dall’unione civile”, nel combinato disposto con l’art. 29, 2° comma d.P.R. 396 del 2000 preclude loro la possibilità di essere indicate, entrambe, quali genitori nell’atto di nascita quantunque siano unite civilmente e […] abbiano fatto ricorso (all’estero) alla procreazione medicalmente assistita». Secondo il rimettente, il «combinato disposto» delle due così denunciate norme violerebbe infatti: a) l’art. 2 della Costituzione, poiché l’inapplicabilità delle regole sulla genitorialità intenzionale alle coppie di donne unite civilmente «non realizza il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità»; b) l’art. 3, primo e secondo comma, Cost., per la disparità di trattamento, che ne conseguirebbe, «basata sull’orientamento sessuale e sul reddito in quanto privilegia chi dispone dei mezzi economici non solo per concepire, ma anche per far nascere il figlio all’estero e richiedere, con ormai sicuro successo, la trascrizione in Italia dell’atto di nascita straniero» e, per altro verso, discrimina il nato, sul piano della sua tutela sia morale che materiale, «in considerazione delle caratteristiche della relazione tra i genitori ed in particolare se questa sia omosessuale»; c) l’art. 30 Cost., poiché «sia per gli adulti che per il nato, l’attuale impossibilità di indicare due madri unite civilmente nell’atto di nascita formato in Italia non rispetta il principio di tutela della filiazione di cui» al parametro evocato. Mentre «[u]na concezione progressista di tale principio indurrebbe, infatti ad affrancarne la realizzazione dalla tradizionale dimensione naturalistico – fattuale, tutelandola come diritto pretensivo che, ove il progresso scientifico la consenta, non può essere escluso o limitato, se non in funzione di interessi che il Legislatore consideri, legittimamente, pari - ordinati»; d) l’art. 117 [primo comma] Cost., in relazione all’art. 24, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, e con la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, con particolare riferimento all’art. 2. Si desumerebbe da tali fonti «un principio internazionale definitivamente acquisito, quello per cui il matrimonio non costituisce più il discrimen nei rapporti tra genitori e figli, né per gli uni – che hanno visto riconosciuto il diritto non solo a formarsi una famiglia, ma altresì a diventare genitori, anche oltre i limiti imposti dalla natura (sterilità, identità di sesso dei partner) e comunque per effetto di una manifestazione di volontà svincolata dal dato biologico; né per gli altri, che debbono godere della medesima tutela indipendentemente dalla forma del legame tra coloro che ne assumo[no] la genitorialità». 3.? Preliminarmente, va confermata l’allegata ordinanza, con la quale è stata esclusa l’ammissibilità dell’intervento dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, poiché titolare di meri interessi indiretti e generali correlati ai suoi scopi statutari e non di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale. 4.? Ancora in via preliminare, va esaminata l’eccezione di inammissibilità, formulata dalle parti costituite, per adombrata carenza, nell’ordinanza di rimessione, di una adeguata motivazione in ordine alla esclusa possibilità di addivenire ad una interpretazione delle norme denunciate conforme a Costituzione. 4.1.? L’eccezione non è fondata. Il rimettente non ha mancato, infatti, di prendere in considerazione la praticabilità di una «via ermeneutica alla tutela» richiesta dalle ricorrenti. Ma è poi pervenuto ad escluderla per l’ostacolo, a suo avviso non superabile, rinvenibile nella lettera (in particolare nell’incipit) dell’art. 1, comma 20, della legge n. 76 del 2016, oltre che nella preclusione normativa all’accesso delle coppie dello stesso sesso alla procreazione medicalmente assistita. E tanto basta, poiché attiene al merito, e non più all’ammissibilità della questione, la condivisione o meno del presupposto interpretativo della normativa censurata (da ultimo, sentenze n. 32 e n. 11 del 2020, n. 189, n. 187 e n. 179 del 2019). 5.? Nel merito è, in primo luogo, comunque esatta la premessa esegetica da cui muove il giudice a quo. 5.1.? È pur vero che, come sostengono le due ricorrenti, la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in poi: PMA) è legata anche al “consenso” prestato, e alla “responsabilità” conseguentemente assunta, da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere ad una tale tecnica procreativa. Ciò, infatti, si desume sia dall’art. 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) – per cui, appunto, i nati a seguito di un percorso di fecondazione medicalmente assistita hanno lo stato di «figli nati nel matrimonio» o di «figli riconosciuti» della coppia che questo percorso ha avviato – sia dal successivo art. 9 che, con riguardo alla fecondazione di tipo eterologo, coerentemente stabilisce che il «coniuge o il convivente» (della madre naturale), pur in assenza di un suo apporto biologico, non possa, comunque, poi esercitare l’azione di disconoscimento della paternità né l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità. Ma occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie «di sesso diverso», atteso che le coppie dello stesso sesso non possono accedere, in Italia, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. 5.2.? Tanto è espressamente disposto dall’art. 5 della citata legge n. 40 del 2004: norma della quale non è possibile l’interpretazione adeguatrice pretesa dalle ricorrenti medesime. Con la recente sentenza n. 221 del 2019, questa Corte – nel respingere le censure di illegittimità costituzionale rivolte al predetto art. 5 e all’art. 12, commi 2, 9 e 10, nonché agli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, per asserito contrasto con i parametri di cui agli artt. 2, 3, 11, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, e con altre disposizioni sovranazionali – ha, tra l’altro, affermato che «[l]’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è […] fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale». Ha, inoltre, ricordato come in questo senso si sia espressa la Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale una legge nazionale che riservi il ricorso all’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia). Con la successiva sentenza n. 237 del 2019, questa Corte ha altresì affermato che ad opposte conclusioni neppure può poi condurre la legge n. 76 del 2016, che – pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso – non consente, comunque, la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, in quanto «[d]al rinvio che il comma 20 dell’art. 1 di detta legge opera alle disposizioni sul matrimonio (cosiddetta clausola di salvaguardia) restano, infatti, escluse, perché non richiamate, quelle, appunto, che regolano la paternità, la maternità e l’adozione legittimante». E ancor più di recente, la Corte di legittimità, in una fattispecie analoga a quella oggetto del procedimento a quo, ha, a sua volta, ribadito che non può essere accolta la domanda di rettificazione dell’atto di nascita di un minore nato in Italia, mediante l’inserimento del nome della madre intenzionale accanto a quello della madre biologica, sebbene la prima avesse in precedenza prestato il proprio consenso alla pratica della procreazione medicalmente assistita eseguita all’estero, poiché nell’ordinamento italiano vige, per le persone dello stesso sesso, il divieto di ricorso a tale tecnica riproduttiva (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 3 aprile 2020, n. 7668). 5.3.? Resiste, dunque, a censura l’affermazione assunta in premessa dal rimettente, che lo induce a chiedere a questa Corte se «l’attuale impossibilità di indicare due madri unite civilmente nell’atto di nascita formato in Italia» violi o meno, «sia per gli adulti che per il nato», i parametri evocati. 6.? In realtà, i precetti di cui agli artt. 2, 3, 30 Cost. e i parametri europei e convenzionali, congiuntamente richiamati attraverso l’intermediazione dell’art. 117, primo comma, Cost., così come non consentono l’interpretazione adeguatrice della normativa censurata – alla quale lo stesso rimettente esclude di poter pervenire – allo stesso modo neppure, però, ne autorizzano la reductio ad legitimitatem, nel senso dell’auspicato «riconoscimento delle donne omosessuali civilmente unite quali genitori del nato da fecondazione eterologa praticata dall’una con il consenso dell’altra». Ed invero, la scelta, operata dopo un ampio dibattito dal legislatore del 2016 – quella, cioè, di non riferire le norme relative al rapporto di filiazione alle coppie dello stesso sesso, cui è pur riconosciuta la piena dignità di una «vita familiare» – sottende l’idea, «non […] arbitraria o irrazionale», che «una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato» (sentenza n. 221 del 2019). E tale scelta non viola gli artt. 2 e 30 Cost., per i profili evidenziati dal giudice a quo, perché l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost. A sua volta, l’art. 30 Cost. «non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli» e «[l]a libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori […] non implica che […] possa esplicarsi senza limiti» (sentenza n. 162 del 2014). E ciò poiché deve essere bilanciata, tale libertà, «con altri interessi costituzionalmente protetti: […] particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico» (sentenza n. 221 del 2019). Quanto poi al prospettato vulnus all’art. 3 Cost., è pur vero che la giurisprudenza, anche di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 15 giugno 2017, n. 14878 e 30 settembre 2016, n. 19599), ammette il riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione nei confronti di “due madri”, ma, come è stato già rilevato, «[l]a circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia» (sentenza n. 221 del 2019). Né diversamente rilevano, infine, le richiamate fonti europee, poiché sia la Carta di Nizza sia la CEDU, in materia di famiglia, rinviano in modo esplicito alle singole legislazioni nazionali e al rispetto dei principi ivi affermati. E, in particolare, la giurisprudenza della Corte EDU ha affermato in più occasioni che, nelle materie che sottendono delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; grande camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria). Nello stesso senso la Corte EDU ha recentemente chiarito che gli Stati non sono tenuti a registrare i dettagli del certificato di nascita di un bambino nato attraverso la maternità surrogata all’estero per stabilire la relazione legale genitore-figlio con la madre designata: l’adozione può anche servire come mezzo per riconoscere tale relazione, purché la procedura stabilita dalla legislazione nazionale ne garantisca l’attuazione tempestiva ed efficace, nel rispetto dell’interesse superiore del minore (grande camera, parere 10 aprile 2019). A medesime conclusioni deve pervenirsi con riguardo al diritto alla genitorialità di cui alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, diritto che è riconosciuto non già in termini assoluti, ma solo ove corrisponda al migliore interesse per il minore (best interest of the child). 7.– Se, dunque, il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dagli evocati precetti costituzionali, vero è anche che tali parametri neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata, non potendosi escludere la «capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali» (sentenza n. 221 del 2019). Non privo di rilievo, in questa prospettiva, è poi il fatto che, ai fini della (ammessa) trascrivibilità in Italia di certificati di nascita formati all’estero, l’annotazione sugli stessi di una duplice genitorialità femminile è stata riconosciuta, dalla ricordata giurisprudenza, non contraria a principi di ordine pubblico, secondo le disposizioni di diritto internazionale privato (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193; oltre alle già citate sentenze n. 14878 del 2017 e n. 19599 del 2016). 8.– L’obiettivo auspicato dal Tribunale di Venezia, quanto al riconoscimento del diritto ad essere genitori di entrambe le donne unite civilmente, ex lege n. 76 del 2016, non è, pertanto, come detto, raggiungibile attraverso il sindacato di costituzionalità della disposizione di segno opposto, recata dalla legge stessa e da quella del collegato d.P.R. n. 396 del 2000. Esso è, viceversa, perseguibile per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non è costituzionalmente imposta, ma propriamente «attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre […] il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale» (sentenza n. 84 del 2016). Da qui l’inammissibilità, per tal profilo, della questione in esame. 9.– La questione è posta, peraltro, anche sotto un altro, connesso e parallelo profilo, che è quello relativo al vulnus che si assume arrecato all’interesse del minore, nel caso concreto in cui una delle due donne civilmente unite abbia (sia pur in violazione del divieto sub art. 5 della legge n. 40 del 2004), con il consenso dell’altra, portato a termine, all’estero, un percorso di fecondazione eterologa, da cui sia poi nato, in Italia, quel minore. 9.1.– Per questo secondo aspetto, la giurisprudenza ha già preso in considerazione l’interesse in questione, ammettendo l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia). In questa chiave, «si esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962)» (sentenza n. 221 del 2019). Una diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la “madre intenzionale”, che ne attenui il divario tra realtà fattuale e realtà legale, è ben possibile, ma le forme per attuarla attengono, ancora una volta, al piano delle opzioni rimesse alla discrezionalità del legislatore. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) e dell’art. 29, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24, paragrafo 3, della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, dal Tribunale ordinario di Venezia, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2020. F.to: Mario Rosario MORELLI, Presidente e Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 4 novembre 2020. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA Allegato: Ordinanza letta all'udienza del 20 ottobre 2020 ORDINANZA Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale introdotto dal Tribunale ordinario di Venezia, sezione civile, in composizione collegiale, con ordinanza del 3 aprile 2019 (reg. ord. n. 108 del 2019), avente ad oggetto gli artt. 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) e 29, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consentono la formazione di un atto di nascita in cui vengano indicati come genitori due donne tra loro unite civilmente e che abbiano fatto ricorso (all'estero) alla procreazione medicalmente assistita. Rilevato che è intervenuta nel giudizio davanti a questa Corte, con atto ad adiuvandum depositato il 30 luglio 2019, l'Avvocatura per i diritti LGBTI APS, in persona del suo legale rappresentante pro tempore. Considerato che detto soggetto non è stato parte nel giudizio a quo; che la costante giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, sentenze n. 13 del 2019, n. 217 e n. 180 del 2018; ordinanze allegate alle sentenze n. 158, n. 119 e n. 30 del 2020, n. 237, n. 221, n. 159, n. 141 e n. 98 del 2019, n. 217, n. 194, n. 180 e n. 77 del 2018, n. 29 del 2017, n. 286, n. 243 e n. 84 del 2016; ordinanze n. 202, n. 111 e n. 37 del 2020) è nel senso che la partecipazione al giudizio di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale); che a tale disciplina è possibile derogare - senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità - soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura; che, pertanto, l'incidenza sulla posizione soggettiva dell'interveniente non deve derivare, come per tutte le altre situazioni sostanziali governate dalla legge denunciata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma dall'immediato effetto che tale pronuncia produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio principale; che nel presente giudizio l'Avvocatura per i diritti LGBTI APS non è titolare di interessi direttamente riconducibili all'oggetto del giudizio stesso, sebbene di meri indiretti, e più generali, interessi, connessi ai suoi scopi statutari; che, pertanto, l'intervento della suddetta associazione deve essere dichiarato inammissibile. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile l'intervento dell'Avvocatura per i diritti LGBTI APS. F.to Mario Rosario Morelli, Presidente

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,   ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, 4, 5 e 12, commi 2, 9 e 10 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), promossi dal Tribunale ordinario di Pordenone e dal Tribunale ordinario di Bolzano, con ordinanze del 2 luglio 2018 e del 3 gennaio 2019, rispettivamente iscritte al n. 129 del registro ordinanze 2018 e al n. 60 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2018 e n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2019. Visti gli atti di costituzione di S. B. e altra, e di F. F. e altra, gli atti di intervento ad adiuvandum dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, e dell’Associazione radicale Certi Diritti e altra nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 18 giugno 2019 il Giudice relatore Franco Modugno; uditi gli avvocati Susanna Lollini per l’Avvocatura per i diritti LGBTI, Filomena Gallo e Massimo Clara per l’Associazione radicale Certi Diritti e altra, Maria Antonia Pili per S. B. e altra, Alexander Schuster per F. F. e altra e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 2 luglio 2018 (r. o. n. 129 del 2018), il Tribunale ordinario di Pordenone ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui, rispettivamente, limitano l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in avanti: PMA) alle sole «coppie […] di sesso diverso» e sanzionano, di riflesso, chiunque applichi tali tecniche «a coppie […] composte da soggetti dello stesso sesso». 1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del procedimento cautelare promosso, ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, da due donne, parti di una unione civile, in seguito al rifiuto opposto dalla locale Azienda sanitaria alla loro richiesta di accesso alla PMA. Le ricorrenti hanno esposto di convivere more uxorio dal 2012 e di aver contratto unione civile nel 2017; di aver maturato nel corso del tempo il desiderio della genitorialità, tanto che una di loro aveva intrapreso un percorso di PMA in Spagna, all’esito del quale aveva dato alla luce in Italia due gemelli; che anche l’altra ricorrente intendeva realizzare il suo desiderio di maternità, senza tuttavia recarsi all’estero, con costi piuttosto elevati, poiché, a suo parere, la legge n. 40 del 2004 – dopo le sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015 e alla luce di alcune importanti pronunce della giurisprudenza di legittimità – avrebbe consentito alle coppie omosessuali di accedere alle tecniche di PMA anche in Italia; che le ricorrenti si erano quindi rivolte all’Azienda per l’assistenza sanitaria n. 5 “Friuli occidentale”, presso la quale era stato istituito un servizio di PMA di elevato livello qualitativo; che il responsabile del servizio aveva, tuttavia, respinto la loro richiesta, sul rilievo che l’art. 5 della legge n. 40 del 2004 riserva la fecondazione assistita alle sole coppie composte da persone di sesso diverso. Reputando illegittimo il diniego, le ricorrenti hanno chiesto al giudice adito di ordinare, con provvedimento d’urgenza, all’Azienda sanitaria di consentire loro l’accesso alla PMA, previa proposizione – ove il problema non fosse ritenuto superabile in via interpretativa – di questioni di legittimità costituzionale del citato art. 5 ed, eventualmente, dell’art. 4, comma 1, della medesima legge n. 40 del 2004, nella parte in cui limita la PMA «ai casi di sterilità o di infertilità», anche quando si tratti di coppie formate da persone dello stesso sesso. Nel costituirsi in giudizio, l’Azienda sanitaria ha eccepito preliminarmente l’incompetenza per materia del giudice adito, assumendo che la competenza a decidere sulla domanda cautelare spetterebbe al «Giudice del Lavoro del Tribunale di Pordenone»: ciò in quanto le cause concernenti le prestazioni erogate nell’ambito del servizio sanitario nazionale rientrerebbero tra le controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria (art. 442 cod. proc. civ.), devolute dall’art. 444 del medesimo codice alla competenza del giudice del lavoro. L’eccezione – secondo il giudice rimettente – sarebbe «mal posta» e, comunque sia, infondata. Per consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, infatti, la ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate (quale la sezione lavoro) e le sezioni ordinarie del medesimo Tribunale non determina l’insorgenza di una questione di competenza, ma attiene alla distribuzione degli affari all’interno dello stesso ufficio. In ogni caso, poi, l’eccezione risulterebbe infondata, in quanto oggetto del giudizio a quo non è l’erogazione di una prestazione sanitaria a tutela del diritto del cittadino a una specifica cura, ma l’esatta individuazione dei limiti al diritto alla genitorialità: «diritto che, solo incidentalmente, verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad un determinato percorso terapeutico». Quanto, poi, ai presupposti del provvedimento cautelare richiesto, sarebbe ravvisabile quello del periculum in mora, tenuto conto dell’età della ricorrente che dovrebbe sottoporsi alla fecondazione assistita. È, infatti, notorio che le probabilità di successo delle relative tecniche diminuiscono sensibilmente con l’avanzare dell’età della donna, specie dopo i trentacinque anni, con correlato aumento dei rischi per la salute della gestante e del nascituro. Nella specie, l’attesa dei tempi di un giudizio ordinario di cognizione rischierebbe, quindi, di pregiudicare definitivamente il diritto azionato. Per quanto attiene, invece, al fumus boni iuris, il giudice a quo rileva che, in base all’art. 5 della legge n. 40 del 2004, «[f]ermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». Nella specie, le ricorrenti sono maggiorenni, coniugate o conviventi (avendo costituito un’unione civile), in età potenzialmente fertile ed entrambe viventi. Esse rimarrebbero, tuttavia, escluse dall’accesso alla procedura, trattandosi di una coppia di persone non di sesso diverso, ma dello stesso sesso. Tale preclusione risulterebbe, d’altra parte, presidiata da incisive previsioni sanzionatorie. L’art. 12 della legge n. 40 del 2004 punisce, infatti, al comma 2, con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro «[c]hiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell’articolo 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie […] che siano composte da soggetti dello stesso sesso». Prevede, inoltre, al comma 9, «la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti» di cui al medesimo articolo. Stabilisce, infine, al comma 10, la sospensione per un anno dell’autorizzazione concessa «alla struttura al cui interno è eseguita una delle pratiche vietate», con possibilità di revoca della stessa «[n]ell’ipotesi di più violazioni dei divieti […] o di recidiva». Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale delle disposizioni dianzi indicate. Il divieto di accesso alla PMA, stabilito nei confronti delle coppie omosessuali, e la correlata previsione di sanzioni nei confronti del personale medico e delle strutture che non lo rispettino si porrebbero in contrasto, anzitutto, con l’art. 2 Cost., in quanto non garantirebbero il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 138 del 2010, la nozione di formazione sociale, di cui al citato art. 2 Cost., abbraccia «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico». Essa comprende, pertanto, anche l’unione civile tra persone dello stesso sesso: conclusione che trova conferma nell’art. 1, comma 1, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), ove l’unione civile è espressamente qualificata come «specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione». In tal modo, il legislatore italiano avrebbe superato l’impostazione tradizionale, in base alla quale la coppia familiare era necessariamente composta da soggetti di sesso diverso, rendendo omogenee le famiglie, sia omosessuali, sia eterosessuali. Le norme censurate violerebbero, altresì, l’art. 3 Cost., dando origine a disparità di trattamento basate sull’orientamento sessuale e sulle condizioni economiche dei cittadini. Risulterebbe, infatti, irragionevole e «logicamente contraddittoria» la mancata inclusione delle coppie formate da persone dello stesso sesso tra i soggetti legittimati ad accedere alle tecniche in questione, le quali mirano precipuamente a favorire la soluzione dei problemi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana: requisito, questo, che la Corte di cassazione ha ritenuto senz’altro sussistente nel caso della coppia omosessuale, la quale verrebbe a trovarsi «in una situazione assimilabile a quella di una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilità o infertilità assoluta e irreversibile» (è citata Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599). Tale rilievo – ad avviso del giudice a quo – renderebbe manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, prospettata peraltro dalle ricorrenti solo in via subordinata. Vietando alle coppie di cittadini dello stesso sesso di accedere in Italia alla PMA, le disposizioni denunciate finirebbero, d’altra parte, per riconoscere il diritto alla filiazione alle sole coppie omosessuali che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi a tali tecniche in uno dei numerosi Stati esteri che, viceversa, lo consentono. Come già rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2014 – sia pure in riferimento al ricorso alla PMA di tipo eterologo da parte di una coppia eterosessuale – si realizzerebbe, in questo modo, «un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie […], in base alla capacità economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale»: esito che rappresenterebbe «non un mero inconveniente di fatto, bensì il diretto effetto delle disposizioni in esame, conseguente ad un bilanciamento degli interessi manifestamente irragionevole». Risulterebbero violati, ancora, l’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica è chiamata a proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, e l’art. 32, primo comma, Cost., in quanto – come rilevato dalla citata sentenza n. 162 del 2014 – il diritto alla salute, tutelato dal precetto costituzionale, deve ritenersi comprensivo della salute psichica, oltre che fisica: e, nella specie, sarebbe «certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA […], possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia». Le norme censurate violerebbero, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita familiare e il divieto di discriminazione. Il divieto in discussione si tradurrebbe, infatti, in una inammissibile interferenza in una scelta di vita che compete alla coppia familiare, attuando, al tempo stesso, una irragionevole discriminazione fondata sul mero orientamento sessuale dei suoi componenti. Le questioni sarebbero rilevanti nel giudizio a quo, posto che, allo stato, la richiesta delle ricorrenti di accedere alla PMA trova ostacolo nelle disposizioni denunciate. L’univoco tenore letterale di queste ultime escluderebbe, d’altronde, la praticabilità dell’interpretazione costituzionalmente orientata prospettata in via principale dalle ricorrenti. 1.2.– Si sono costituite S. B. e C. D., parti ricorrenti nel giudizio a quo, le quali hanno chiesto che le questioni siano accolte. Le parti costituite osservano come la Corte costituzionale sia intervenuta più volte sulla legge n. 40 del 2004, al fine di estendere l’accesso alla PMA a soggetti inizialmente esclusi. In particolare, con la sentenza n. 162 del 2014 è caduto il divieto di ricorso a tecniche di tipo eterologo per le coppie eterosessuali affette da sterilità o infertilità assolute e irreversibili, mentre la successiva sentenza n. 96 del 2015 ha garantito l’accesso alla PMA anche alle coppie eterosessuali fertili, ma portatrici di gravi patologie genetiche trasmissibili. Nel solco di tale processo di adeguamento ai principi costituzionali non potrebbe ora non inserirsi anche l’“apertura” delle tecniche di PMA alle coppie formate da persone dello stesso sesso. Come rilevato dalla Corte di cassazione (in particolare, con la sentenza n. 19599 del 2016), se l’unione fra persone dello stesso sesso è una formazione sociale ove l’individuo «svolge la sua personalità», e se la volontà dei componenti della coppia di divenire genitori e formare una famiglia con prole costituisce espressione della generale libertà di autodeterminazione della persona, ricondotta dalla Corte costituzionale agli artt. 2, 3 e 31 Cost. (e non pure all’art. 29 Cost.), deve escludersi che esista, a livello costituzionale, un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere e anche di generare figli. Ciò tenuto conto del fatto che non vi sono certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine a specifiche ripercussioni negative sul piano educativo e della crescita del minore, derivanti dal suo inserimento in una famiglia formata da una coppia omosessuale. Su tale rilievo, la Cassazione ha ritenuto, quindi, possibile l’adozione del figlio del partner omosessuale ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962). Una volta assodato che l’unione omosessuale può bene costituire un contesto familiare nel quale esercitare le funzioni genitoriali, la tendenziale unitarietà dello status di figlio – senza discriminazioni tra figli legittimi, naturali o adottivi – renderebbe irragionevole ogni disparità nel riconoscimento del diritto alla genitorialità che risulti collegata unicamente alle «modalità di ingresso» dei figli all’interno dell’unione civile: ossia alla circostanza che l’ingresso avvenga a seguito di adozione ovvero di tecniche di PMA. La giurisprudenza più recente riconosce, d’altronde, piena efficacia nel nostro ordinamento agli atti di nascita stranieri relativi a minori concepiti all’estero con tecniche di PMA da partner dello stesso sesso, con conseguente attribuzione della qualità di genitori a entrambi i partner. Impedire il ricorso a tecniche di PMA a coppie dello stesso sesso in Italia e nel contempo riconoscerne pienamente gli effetti se operate all’estero (anche da cittadini italiani) rappresenterebbe una «intollerabile “ipocrisia” interpretativa», anch’essa contrastante con l’art. 3 Cost. Pienamente condivisibili sarebbero, per il resto, le censure formulate dal rimettente in riferimento agli artt. 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost. A quest’ultimo riguardo, le parti costituite ricordano come la Corte costituzionale austriaca, con una pronuncia del 19 dicembre 2013, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge austriaca che vietava a coppie di donne (nella specie, unite civilmente in Germania) di accedere alle tecniche di PMA, ravvisando in tale divieto una lesione del principio di eguaglianza di cui all’art. 7 della Costituzione austriaca e una inammissibile interferenza con la vita familiare protetta dall’art. 8 CEDU. 1.3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. Il giudice a quo avrebbe, infatti, affermato il contrasto delle norme censurate con i parametri costituzionali in modo puramente assiomatico, senza un adeguato supporto argomentativo. Nel merito, le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate. Come sottolineato nella sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale, la legge n. 40 del 2004 costituisce la «prima legislazione organica relativa ad un delicato settore […] che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali». Le relative questioni di costituzionalità toccano temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze appartiene primariamente alla valutazione del legislatore. La progressiva eliminazione, da parte della Corte, con le sentenze n. 151 del 2009, n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, di taluni divieti posti dalla citata legge sarebbe frutto di una analisi specifica non riassumibile in un giudizio di valore unitario, in quanto la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli e la libertà di divenire genitori non implica che essa possa esplicarsi senza limiti. Con la sentenza n. 162 del 2014, la Corte ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale della preclusione all’accesso alla PMA di tipo eterologo nei confronti delle coppie affette da grave patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute e irreversibili, senza porre, tuttavia, in discussione la legittimità in sé del divieto di tale pratica e precisando, altresì, che la declaratoria di illegittimità costituzionale non incide sulla disciplina dei requisiti soggettivi (compreso quello della diversità di sesso) stabilita dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004, che resta, quindi, applicabile anche alla PMA di tipo eterologo. Quanto al divieto di discriminazione delle coppie omosessuali, la stessa Corte costituzionale ha tenuto ferma l’interpretazione dell’art. 29 Cost. e il modello di matrimonio e di famiglia che ne deriva, fondati sulla differenza di sesso tra i coniugi (sentenza n. 138 del 2010). Né la disciplina delle unioni civili, di cui alla legge n. 76 del 2016, potrebbe rappresentare un utile termine di comparazione, posto che tale legge definisce l’unione civile quale «specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione», attribuendo quindi alla stessa caratteristiche autonome e distinte rispetto al matrimonio. L’art. 1, comma 20, della legge n. 76 del 2016 esclude, inoltre, l’applicabilità alle unioni civili tanto delle disposizioni del codice civile sulla filiazione, quanto – come chiarito dalla Corte di cassazione – della disposizione relativa all’adozione speciale del figlio del coniuge, di cui all’art. 44, comma 1, lettera b), della legge n. 184 del 1983, consentendo la sola adozione in caso di impossibilità di affidamento preadottivo, prevista dalla successiva lettera d). La ratio della disciplina della PMA sarebbe, d’altro canto, quella di tutelare il superiore interesse del nascituro. Il diritto alla genitorialità sussisterebbe, pertanto, solo ove esso corrisponda al migliore interesse per il minore («best interest of the child», secondo la formula rinvenibile nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176). E, proprio nella prospettiva della valutazione di tale interesse, particolarmente sul piano della conservazione di rapporti affettivi già instaurati, il diritto alla genitorialità delle coppie omosessuali sarebbe stato, in effetti, evocato dalla giurisprudenza comune che si è occupata dall’argomento. Il caso oggi in esame non riguarda, tuttavia, una ipotesi di «genitorialità sociale», tramite la quale possa essere tutelato un minore, anche nell’ambito di coppie omosessuali, ma soltanto il diritto di un adulto di procreare: diritto che non sarebbe garantito in modo assoluto dall’ordinamento. Quanto, infine, alla denunciata violazione degli artt. 8 e 14 CEDU, la difesa dello Stato ricorda come la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 1° aprile 2010 [recte: 3 novembre 2011], S. H. e altri contro Austria, abbia ritenuto che il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca non configurasse una ingerenza indebita della pubblica autorità nella vita privata e familiare, vietata dall’art. 8 CEDU, non eccedendo il margine di discrezionalità di cui gli Stati fruiscono nella disciplina della materia. Si sarebbe, in conclusione, al cospetto di una tematica che implica l’armonizzazione di un complesso di valori e scelte di opportunità rimesse in via esclusiva al legislatore. 1.4.– È intervenuta, altresì, l’associazione di promozione sociale Avvocatura per i diritti LGBTI, la quale ha chiesto, sulla scorta di ampie argomentazioni, l’accoglimento delle questioni (da intendere, a suo avviso, come limitate alle sole coppie omosessuali femminili). 1.5.– S. B. e C. D. hanno depositato memoria, con la quale hanno contestato le difese dell’Avvocatura generale dello Stato. Non conferente sarebbe, in specie, il richiamo dell’Avvocatura ai tratti differenziali degli istituti del matrimonio e dell’unione civile. L’art. 5 della legge n. 40 del 2004 consente, infatti, l’accesso alla PMA non soltanto alle coppie «coniugate», ma anche alle coppie «conviventi». La disparità di trattamento che le questioni mirano a rimuovere non è, dunque, quella tra soggetti coniugati e soggetti uniti civilmente, ma quella fra conviventi eterosessuali e conviventi omosessuali (uniti civilmente): distinzione che esprimerebbe una discriminazione fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale della coppia. Parimente privo di significato sarebbe il fatto che, nelle precedenti pronunce sulla PMA, la Corte costituzionale abbia tenuto fermo il requisito di accesso rappresentato dalla diversità di sesso dei richiedenti. In quelle occasioni, il problema della legittimità di tale requisito non risultava, infatti, sottoposto alla Corte. La pronuncia della Grande Camera della Corte EDU sul caso S. H. e altri contro Austria risulterebbe, a sua volta, superata dalla successiva decisione della Corte costituzionale austriaca, che ha dichiarato illegittima la normativa che vietava l’accesso alla PMA a coppie di donne. 1.6.– Ha depositato memoria anche l’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha insistito per la dichiarazione di inammissibilità o infondatezza delle questioni, riprendendo e sviluppando gli argomenti già svolti nell’atto di intervento. 2.– Con ordinanza del 3 gennaio 2019 (r. o. n. 60 del 2019), il Tribunale ordinario di Bolzano ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, «nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie formate da due persone di sesso femminile», deducendone il contrasto con gli artt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché con gli artt. 11 (parametro evocato solo in dispositivo) e 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18. 2.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto da due donne, ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., nei confronti dell’Azienda sanitaria della Provincia autonoma di Bolzano. Nel ricorso si deduce che la coppia ricorrente si era sposata in Danimarca nel 2014, con atto successivamente trascritto in Italia nel registro delle unioni civili; che a causa delle complicazioni seguite a trattamenti di inseminazione artificiale operati in Danimarca, a una delle ricorrenti era stata asportata la salpinge uterina destra e riscontrata l’avvenuta chiusura di quella sinistra, con conseguente incapacità di produrre ovuli; che l’altra ricorrente soffriva, a sua volta, di un’aritmia cardiaca, in ragione della quale le era stato sconsigliato di avere gravidanze e suggerito, anzi, di ricorrere a una terapia anticoncezionale; che le tecniche di fecondazione assistita avrebbero consentito di superare gli ostacoli alla procreazione indotti da tali patologie, tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue delle ricorrenti (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra); che, a tal fine, esse si erano rivolte all’Azienda sanitaria di Bolzano, la quale aveva, tuttavia, respinto la loro richiesta, rilevando che l’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004 vieta le tecniche di fecondazione eterologa e che il successivo art. 5 consente di accedere alle tecniche di PMA solo alle coppie composte da persone di sesso diverso. Reputando illegittimo il diniego, le ricorrenti hanno chiesto al Tribunale rimettente di garantire con provvedimento d’urgenza il loro diritto di accesso alle menzionate terapie riproduttive. Costituitasi in giudizio, l’Azienda sanitaria – sul presupposto ci si trovi a fronte di una controversia in materia di previdenza e assistenza obbligatorie – ha eccepito l’incompetenza per territorio del Tribunale ordinario di Bolzano, indicando come competente, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. civ., il giudice del lavoro presso il Tribunale ordinario di Monza. Ad avviso del rimettente, l’eccezione sarebbe infondata. Il giudizio a quo non potrebbe essere, infatti, incluso tra le controversie di cui all’art. 442 cod. proc. civ., attenendo piuttosto all’esatta individuazione dei limiti e delle facoltà connessi al diritto alla genitorialità: diritto che, «solo incidentalmente, verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad un determinato percorso terapeutico». La maggior parte delle pronunce di merito in materia di PMA risulta del resto emessa, anche quando risultasse evocata in giudizio una azienda sanitaria, da giudici addetti alle sezioni ordinarie, e non già alla sezione lavoro dei tribunali e delle corti d’appello. La competenza per territorio dovrebbe essere, pertanto, stabilita in base non all’art. 444 cod. proc. civ. (che fa riferimento al foro di residenza dell’attore), ma agli ordinari criteri indicati dagli artt. 19 e 20 cod. proc. civ., che renderebbero competente il Tribunale adito. Sarebbe, per altro verso, ravvisabile il periculum in mora, posto che, in ragione dell’età delle ricorrenti, l’attesa dei tempi di un ordinario giudizio di cognizione rischierebbe di pregiudicare definitivamente il buon esito delle tecniche di PMA e, con esso, il diritto azionato. Quanto al fumus boni iuris, assumerebbero, per converso, rilievo dirimente le questioni di legittimità costituzionale sollevate. Alla luce delle motivazioni addotte dall’Azienda sanitaria a sostegno del diniego delle prestazioni richieste, l’unico ostacolo all’accoglimento dell’istanza cautelare delle ricorrenti sarebbe, infatti, rappresentato dalle norme sospettate di illegittimità costituzionale. L’art. 1 della legge n. 40 del 2004 prevede, in specie, che il ricorso alla PMA è consentito «[a]l fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», «alle condizioni e secondo le modalità previste dalla legge stessa» (comma 1) e sempre che «non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità» (comma 2). L’art. 4, dopo aver ribadito che il ricorso alle tecniche di PMA è limitato ai casi di sterilità o infertilità non altrimenti rimovibili (comma 1), vieta specificamente il ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo (comma 3). Il successivo art. 5 consente, a sua volta, di accedere alle tecniche in questione soltanto alle «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». Da ultimo, l’art. 12 punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro chiunque applica tecniche di PMA, tra l’altro, a coppie «composte da soggetti dello stesso sesso» (comma 1), prevedendo altresì sanzioni di tipo interdittivo nei confronti del personale medico e delle strutture che vi procedano (commi 9 e 10). Secondo il giudice a quo, le norme denunciate si porrebbero in contrasto anzitutto con gli artt. 2 e 3 Cost. È ormai pacifico, infatti, che la formazione sociale scaturente dall’unione civile, o anche solo da una convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso, abbia natura familiare. Di conseguenza, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 162 del 2014, l’unico interesse che potrebbe astrattamente contrapporsi all’utilizzazione delle tecniche di PMA nel suo ambito è quello del nascituro. La giurisprudenza più recente ha riconosciuto, tuttavia, in modo unanime la piena idoneità genitoriale della coppia omosessuale, sottolineando come non vi siano evidenze scientifiche dotate di un adeguato margine di certezza in ordine alla configurabilità di eventuali pregiudizi per il minore derivanti dal suo inserimento in una famiglia formata da persone dello stesso sesso. Non sarebbero ravvisabili, di conseguenza, spazi di valutazione politico-legislativa per negare il diritto alla genitorialità, mediante accesso alla PMA, a una coppia di donne unite civilmente, non risultando pregiudicate in alcun modo le aspettative del nuovo nato, né venendo in rilievo le questioni di ordine etico sollevate dalla cosiddetta maternità surrogata. Nella specie, non verrebbe, infatti, coinvolto nella gestazione alcun soggetto esterno alla coppia richiedente, occorrendo soltanto il ricorso, ormai consentito, alle pratiche di fecondazione eterologa. Il divieto di accesso alla PMA da parte di persone dello stesso sesso costituirebbe, pertanto, una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, lesiva della dignità della persona umana. Esso implicherebbe una negazione del diritto alla genitorialità sproporzionata e irragionevole, come tale lesiva anche dell’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica «protegge la maternità». Nella fattispecie oggetto del giudizio a quo risulterebbe violato, peraltro, anche il diritto alla salute, garantito dall’art. 32 Cost. Le ricorrenti si vedrebbero, infatti, preclusa – solo perché componenti di una coppia formata da persone dello stesso sesso – la possibilità di superare gli ostacoli alla riproduzione indotti dalle patologie da cui sono affette mediante l’indicata strategia di utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue: ciò quantunque l’art. 1 assegni alla PMA proprio la finalità di risolvere i «problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana». La natura espressa del divieto e della relativa sanzione impedirebbero, d’altronde, un’interpretazione della normativa in senso conforme alla Costituzione. Né potrebbe procedersi alla disapplicazione delle norme censurate per contrasto con gli artt. 8 e 14 della CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione. Alla luce delle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, tale contrasto deve essere fatto valere tramite la proposizione di una questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., rispetto al quale le disposizioni convenzionali fungono da norme interposte. Per le medesime ragioni si renderebbe necessario denunciare di fronte alla Corte costituzionale il sospetto di illegittimità delle norme censurate per incompatibilità «con ulteriore normativa pattizia», indicata, «per mere ragioni di completezza», negli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (i quali prevedono ancora una volta il divieto di discriminazione e il diritto al rispetto della vita privata e familiare), nonché negli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (i quali stabiliscono il divieto di discriminazione e la promozione del diritto alla salute con specifico riguardo alle persone con disabilità, da intendere anche quale «disabilità riproduttiva»). 2.2.– Si sono costituite F. F. e M. R., ricorrenti nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni. Preliminarmente, le parti costituite pongono in evidenza come la vicenda oggetto del giudizio principale sia diversa da quella che ha dato origine alle pur analoghe questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Pordenone. In quel caso, infatti, la coppia è composta da persone dello stesso sesso, ma non consta che esse presentino individualmente alcuna patologia riproduttiva. Nella fattispecie in esame, di contro, a entrambe le ricorrenti sono state diagnosticate patologie riproduttive, sicché l’infecondità non è solo di coppia, ma anche individuale. Ciò premesso, le parti costituite rilevano come costituisca un dato ormai acquisito – anche alla luce della giurisprudenza delle Corti europee – che la coppia omosessuale, tanto unita civilmente (come le ricorrenti), quanto «in libera unione», costituisca una famiglia e goda, quindi, del diritto al rispetto della propria vita familiare. La Corte costituzionale ha collocato, d’altro canto, tra i diritti inviolabili dell’uomo, tutelati dall’art. 2 Cost., non solo i diritti della persona nell’ambito familiare, ma anche i diritti relativi alla possibilità di avere una famiglia. In particolare, nella sentenza n. 162 del 2014 la Corte ha affermato che la scelta di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia dei figli «costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, […] riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare». In quest’ottica, «[l]a determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA di tipo eterologo». Se, dunque, la coppia omosessuale costituisce una formazione sociale tutelata dall’art. 2 Cost. e se la determinazione di avere un figlio rappresenta un diritto inviolabile della coppia, anche in assenza di legame genetico, il divieto di accesso alla procreazione assistita posto dalla legge n. 40 del 2004 nei confronti delle coppie formate da due donne – in difetto di interessi contrari di pari rango – colliderebbe inevitabilmente con il citato parametro costituzionale. Le disposizioni censurate violerebbero, altresì, l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo dell’eguaglianza, sia sotto quello della ragionevolezza. Quanto al principio di eguaglianza, il divieto in discorso risulterebbe discriminatorio sotto molteplici aspetti, trattando diversamente situazioni omogenee. Sotto un primo aspetto, mentre per la coppia eterosessuale sarebbe sufficiente affermare, ai fini dell’accesso alla PMA, di aver avuto regolari rapporti sessuali per un dato periodo, senza che abbiano condotto alla gravidanza, la coppia omosessuale che dichiari lo stesso insuccesso in riferimento a – pur consentiti – tentativi di inseminazione domestica, non può invece accedere alle tecniche in questione. In secondo luogo, dall’art. 12, comma 2, della legge n. 40 della 2004 emergerebbe che chi applica tecniche di PMA – ora anche di tipo eterologo – a una coppia di sesso diverso in assenza delle condizioni patologiche di sterilità o infertilità, di cui all’art. 4 della medesima legge, non è soggetto ad alcuna sanzione, mentre la stessa condotta, posta in essere a vantaggio di una coppia dello stesso sesso, anche in presenza di patologie documentate, è punita. Sotto un terzo profilo, la discriminazione si apprezzerebbe nel raffronto tra una coppia di donne con patologie riproduttive e una coppia eterosessuale con la donna affetta dalla medesima patologia. La donna in coppia con un uomo potrebbe, infatti, fruire della PMA, mentre la donna in coppia con un’altra donna non vi ha accesso. Anche la violazione del principio di ragionevolezza si riscontrerebbe sotto molteplici aspetti. Nella sentenza n. 162 del 2014, la Corte costituzionale ha ritenuto che, alla luce del dichiarato scopo della legge n. 40 del 2004 «di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (art. 1, comma 1), la preclusione assoluta di accesso alla PMA di tipo eterologo introducesse «un evidente elemento di irrazionalità», poiché la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità veniva ad essere stabilita proprio «in danno delle coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis». A conclusioni analoghe dovrebbe pervenirsi nell’ipotesi in esame. Le componenti di una coppia omosessuale femminile si vedrebbero, infatti, non semplicemente limitata, ma preclusa in radice la possibilità di fondare una famiglia con figli in Italia e di divenire madri, nonostante la Costituzione associ in maniera esplicita la genitorialità alla donna (art. 31, secondo comma). Il divieto risulterebbe particolarmente irragionevole nel caso di specie, dato che le patologie di cui le ricorrenti sono portatrici rendono necessario l’intervento della scienza medica e richiedono un’utilizzazione complementare delle loro potenzialità riproduttive residue. Imporre a ciascuna di esse, per accedere alla PMA, di sposare un uomo o di convivere con lui, di là dalla intrinseca inaccettabilità della condizione, non risolverebbe il problema produttivo, ma condannerebbe, anzi, la donna a non divenire mai madre (genetica). Si riscontrerebbe, inoltre, una ingiustificata disparità di trattamento delle coppie in base alla loro capacità economica, analoga a quella rilevata dalla sentenza n. 162 del 2014 in rapporto al divieto di fecondazione eterologa. L’esercizio del diritto di formare una famiglia con figli resterebbe, infatti, riservato solo alle coppie omosessuali più abbienti, che dispongano delle risorse economiche necessarie per recarsi in un altro Stato che consente ad esse il ricorso alle tecniche di PMA. Si dovrebbe considerare, ancora, che con la sentenza n. 96 del 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le disposizioni della legge n. 40 del 2004 che non consentivano il ricorso alle tecniche di PMA «alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili». L’ordinamento tutelerebbe, dunque, attualmente – perché così impone la Costituzione – ogni coppia che incontri ostacoli alla gravidanza, anche se non correlati alla infertilità o sterilità individuale, ma a una specifica conformazione di coppia. Il pericolo di trasmissione di malattie al nascituro può dipendere, infatti, dalla circostanza che entrambi i componenti della coppia siano portatori di una tara genetica: dunque, se la donna avesse scelto un uomo non portatore del medesimo gene il problema non vi sarebbe. La scelta della donna di vivere una relazione con un’altra donna è espressione legittima della propria vita affettiva e familiare, in nulla diversa e meno meritevole di tutela rispetto alla scelta di vivere con “quell”’uomo, e non con un altro. Anche in tal caso, dunque, la donna dovrebbe godere dell’assistenza medica necessaria per superare gli ostacoli riproduttivi che discendono dalla scelta operata. Da ultimo, la legge n. 40 del 2004 moverebbe dal presupposto che la situazione di infertilità o sterilità, alla quale è subordinata l’erogazione delle prestazioni di PMA, sia di tipo esclusivamente medico-patologico, quando invece essa può dipendere anche da una «condizione sociale», insita nella non complementarità biologica di due donne. Alla luce del principio personalista che ispira l’ordinamento costituzionale repubblicano, tuttavia, le finalità terapeutiche potrebbero rilevare solo agli effetti dell’art. 32 Cost. e degli obblighi di sanità pubblica dello Stato, ma non quale giustificazione per negare tout court il diritto all’«autoderminazione riproduttiva», in assenza di libertà altrui o collettive lese. Sarebbe violato anche l’art. 30, terzo comma, Cost., in forza del quale «[l]a legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale». Il divieto di accedere alle tecniche di PMA da parte delle coppie omosessuali femminili e lo sfavore espresso dal legislatore, sanzionando i soggetti che le realizzino, determinerebbero, infatti, una discriminazione legale e sociale nei confronti dei minori che da tali tecniche «illecite» nascano. Risulterebbe leso pure l’art. 31, primo comma, Cost., il quale, con l’espresso riferimento alle «famiglie numerose», esprimerebbe un favor evidente per la formazione di famiglie con figli, imponendo al legislatore, non solo di non ostacolarla, ma anzi di agevolarla. Il divieto censurato violerebbe anche l’imperativo di proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, posto dal secondo comma dello stesso art. 31 Cost., non potendo la maternità di una donna omosessuale essere oggetto di protezione diversa da quella di una donna eterosessuale. Sarebbe violato, ancora, il diritto alla salute (art. 32, primo comma, Cost.), tanto della persona singolarmente considerata, quanto nella sua dimensione di coppia. Con riguardo alla ricorrente affetta da patologia cardiaca che le impedisce di divenire madre gestazionale, se non con gravissimo rischio per la propria salute, l’unica possibilità di mantenere un legame genetico con il figlio è la fecondazione dei propri ovuli in vitro, con successivo trasferimento degli embrioni così ottenuti nell’utero di altra donna. Dunque, solo la relazione affettiva con un’altra donna, in grado di realizzare una gravidanza, le consentirebbe di avere dei figli. Quanto all’altra ricorrente – non in grado di produrre ovociti, ma capace di divenire madre partoriente ricevendo embrioni creati in ambiente extrauterino – ella, quando pure convivesse con un uomo, avrebbe notevoli difficoltà nel procurarsi gameti femminili in numero sufficiente per la produzione di embrioni sani, stante la notoria carenza di ovociti in Italia. Si troverebbe, quindi, costretta ad acquistarli sul mercato internazionale, con i rischi per la salute connessi al prelievo da donne straniere: ciò quando, nel caso concreto, vi sarebbe la compagna che è disposta a conferirli. Il divieto rivolto al personale sanitario favorirebbe, per altro verso, il ricorso a modalità fecondative – quali l’inseminazione domestica con sperma di conoscenti o acquisito tramite internet – che, in assenza di test clinici sui donatori, mettono a rischio la salute tanto della madre, quanto del nascituro. Per le medesime ragioni già indicate nella sentenza n. 162 del 2014, le norme censurate sarebbero produttive di un vulnus alla salute anche nella sua dimensione psichica e sociale, posto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner è suscettibile di incidere negativamente, anche in misura rilevante, sulla salute della coppia, intesa nella predetta accezione. Alla previsione dell’art. 32 Cost. dovrebbe essere ricondotto, infine, anche il dovere dello Stato di tutelare chi, come le ricorrenti, sia portatore di patologie riproduttive che determinano una condizione di disabilità: nozione, quest’ultima, che – come rilevato dalla stessa sentenza n. 162 del 2014 – «per evidenti ragioni solidaristiche, va accolta in un’ampia accezione». Le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto pure con obblighi derivanti da fonti sovranazionali, atte a costituire norme interposte rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. In aggiunta alle disposizioni evocate dall’ordinanza di rimessione, verrebbero a questo proposito in rilievo anche la direttiva 2004/113/CE del Consiglio del 13 dicembre 2004, che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura, nonché gli artt. 2, paragrafo 2, 3, 10, paragrafo 1, 12, paragrafo 1, e 15, paragrafo 1, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, ratificato e reso esecutivo con legge n. 881 del 1977 (che stabiliscono, rispettivamente, i principi di non discriminazione, parità tra uomo e donna, protezione e assistenza alla famiglia, e il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale e dei benefici del progresso scientifico). 2.3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate, sulla scorta – quanto ai profili di merito – delle medesime considerazioni svolte in rapporto all’ordinanza r. o. n. 129 del 2018 e sviluppate con successiva memoria. 2.4.– Sono intervenute, altresì, l’Associazione radicale Certi Diritti e l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, le quali hanno chiesto che le questioni stesse vengano accolte, per le ragioni indicate nella memoria successivamente depositata. 2.5.– Anche F. F. e M. R. hanno depositato memoria, insistendo nelle conclusioni già rassegnate. Le parti costituite pongono, in particolare, l’accento sull’esigenza di fugare un possibile equivoco: la fecondazione con donazione di gameti – consentita a seguito della sentenza n. 162 del 2014 – non è un rimedio terapeutico all’infertilità di uno o di entrambi i componenti della coppia. Essa non cura, infatti, la patologia riproduttiva, ma si limita ad «aggirare» una patologia non curabile. L’ordinamento esprimerebbe, quindi, un «giudizio di simpatia» per la situazione della coppia, consentendo ad essa di realizzare altrimenti il desiderio di costituire una famiglia con figli. Tale favor discenderebbe dall’implicito presupposto per cui non si può esigere che il componente della coppia privo di patologie riproduttive cerchi un altro partner per divenire genitore biologico. Da ciò emergerebbe che l’«unità di coppia» è un valore oggetto di specifica tutela costituzionale e che è rispetto alla coppia che è favorita la costituzione della famiglia. In tale ottica, non si comprenderebbe perché la relazione affettiva di una coppia di donne non debba essere parimente oggetto di protezione da parte dell’ordinamento. Se – come affermato dalla sentenza n. 138 del 2010 della Corte costituzionale – alla «unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso […] spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia», tale libertà non dovrebbe essere lesa, ponendo la donna di fronte alla «terribile scelta» tra coltivare la propria relazione affettiva con la persona che ama, rinunciando al desiderio naturale di divenire madre, ovvero «rinnegare il proprio orientamento affettivo e divenire madre unendosi, quantomeno carnalmente, con una persona di sesso maschile». 2.6.– Con ordinanza pronunciata all’udienza pubblica del 18 giugno 2019 questa Corte ha dichiarato inammissibili gli interventi dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, dell’Associazione radicale Certi Diritti e dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica. Considerato in diritto 1.– Il Tribunale ordinario di Pordenone (ordinanza r. o. n. 129 del 2018) dubita della legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui, rispettivamente, limitano l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in avanti: PMA) alle sole «coppie […] di sesso diverso» e sanzionano, di riflesso, chiunque applichi tali tecniche «a coppie […] composte da soggetti dello stesso sesso». Ad avviso del giudice a quo, le disposizioni censurate violerebbero l’art. 2 della Costituzione, non garantendo il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, tra le quali rientra anche l’unione civile o la convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso. Le medesime disposizioni si porrebbero in contrasto anche con l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbero una disparità di trattamento fra i cittadini in ragione del loro orientamento sessuale e delle loro disponibilità economiche, riconoscendo il diritto alla filiazione alle sole coppie omosessuali che siano in grado di sostenere i costi per accedere alla PMA presso uno degli Stati esteri che lo consentono. Sarebbero violati, ancora, l’art. 31, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica di proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, e l’art. 32, primo comma, Cost., giacché l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner sarebbe in grado di nuocere alla salute psicofisica della coppia. Le norme denunciate violerebbero, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con gli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Esse attuerebbero, infatti, una interferenza nella vita familiare della coppia basata solo sull’orientamento sessuale dei suoi componenti e, dunque, discriminatoria. 2.– Il Tribunale ordinario di Bolzano (ordinanza r. o. n. 60 del 2019) solleva questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, «nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie formate da due persone di sesso femminile». Secondo il rimettente, le disposizioni denunciate violerebbero l’art. 2 Cost., implicando una negazione del diritto alla genitorialità non giustificata da esigenze di tutela di altri interessi di rango costituzionale, tenuto conto della natura di «famiglia» della formazione sociale fondata su un’unione civile o su una convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso e della piena idoneità di una coppia omosessuale ad accogliere e crescere il nuovo nato. Il divieto di accesso alla PMA da parte di coppie di persone dello stesso sesso costituirebbe, inoltre, una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, lesiva della dignità della persona umana, ponendosi perciò in contrasto anche con l’art. 3 Cost. Risulterebbero altresì violati l’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica è chiamata a proteggere la maternità, e l’art. 32, primo comma, Cost., che garantisce il diritto alla salute. Le disposizioni censurate impedirebbero, infatti, alle componenti della coppia omosessuale femminile affette da patologie che impediscano loro di procreare in modo naturale – come nel caso oggetto del giudizio a quo – di superare il problema tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue di ciascuna di esse (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra): ciò sebbene l’art. 1 della legge n. 40 del 2004 assegni alla PMA proprio la finalità di risolvere i «problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana». Le disposizioni censurate violerebbero, infine, gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto: a) con gli artt. 8 e 14 CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione; b) con gli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, che parimente prevedono il divieto di discriminazione e il diritto al rispetto della vita privata e familiare; c) con gli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, i quali stabiliscono il divieto di discriminazione e la promozione del diritto alla salute con specifico riguardo alle persone con disabilità, da intendere anche quale «disabilità riproduttiva». 3.– Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, relative in parte alle medesime norme, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione. 4.– In via preliminare, va rilevato che non può tenersi conto delle deduzioni svolte dalle parti costituite nel giudizio relativo all’ordinanza del Tribunale di Bolzano, intese a dimostrare che le norme censurate contrastano anche con parametri diversi e ulteriori rispetto a quelli evocati dal giudice a quo (in particolare, con gli artt. 30, terzo comma, e 31, primo comma, Cost., nonché con altre fonti sovranazionali atte a integrare gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.). Per costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è, infatti, limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione: con la conseguenza che non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 194, n. 161, n. 12 e n. 4 del 2018). 5.– Secondo quanto si riferisce nelle ordinanze di rimessione, entrambi i giudici rimettenti si trovano investiti del ricorso proposto, ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, da una coppia di donne, parti di una unione civile, inteso a superare, con provvedimento d’urgenza, il diniego opposto da un’Azienda sanitaria alla loro richiesta di accesso alla PMA. Nessun dubbio di ammissibilità si pone in rapporto alla sedes processuale nell’ambito della quale le questioni sono state sollevate. Già in precedenti pronunce attinenti alla disciplina della PMA, questa Corte ha, infatti, ribadito la propria costante giurisprudenza, secondo la quale la questione di legittimità costituzionale può essere sollevata anche in sede cautelare, sia quando il giudice non abbia ancora provveduto sull’istanza dei ricorrenti (come è avvenuto negli odierni giudizi), sia quando abbia concesso la misura richiesta, purché tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere del quale il giudice fruisce in quella sede (sentenze n. 162 del 2014 e n. 151 del 2009, ordinanza n. 150 del 2012; con specifico riferimento alle questioni sollevate nell’ambito di procedimenti d’urgenza ante causam, sentenze n. 84 del 2016 e n. 96 del 2015). 6.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Pordenone per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. L’eccezione non è fondata. Il giudice a quo ha esposto in modo, primo visu, del tutto adeguato le ragioni del denunciato contrasto delle norme censurate con gli artt. 2, 3 e 32, primo comma, Cost. Quanto ai parametri residui (artt. 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.), le deduzioni del rimettente, se pure alquanto stringate, permettono comunque sia di cogliere il nucleo delle censure, anche perché collegate a quelle relative agli altri parametri. 7.– Entrambi i giudici rimettenti escludono la praticabilità di una interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni censurate, ritenendo che una simile operazione ermeneutica trovi un insormontabile ostacolo nell’univoco tenore letterale dell’enunciato normativo. L’affermazione appare corretta. Stabilendo che alle tecniche di PMA possano accedere solo coppie formate da persone «di sesso diverso» (art. 5) e prevedendo sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie «composte da soggetti dello stesso sesso» (art. 12, comma 2), la legge n. 40 del 2004 nega in modo puntuale e inequivocabile alle coppie omosessuali la fruizione delle tecniche considerate. Ciò, peraltro, in piena sintonia con l’ispirazione di fondo della legge stessa, sulla quale si porterà presto l’attenzione. Opera, dunque, il principio – ripetutamente affermato da questa Corte – secondo il quale l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 268 e n. 83 del 2017, n. 241 e n. 36 del 2016; ordinanza n. 207 del 2018). 8.– Con i quesiti di costituzionalità proposti, entrambi i Tribunali rimettenti mirano a rimuovere il requisito soggettivo di accesso alla PMA rappresentato dalla diversità di sesso dei componenti la coppia richiedente (unitamente al correlato presidio sanzionatorio). L’effetto della pronuncia auspicata dai giudici a quibus sarebbe, dunque, quello di rendere fruibile la PMA alle coppie omosessuali in quanto tali: indipendentemente, cioè, dal fatto che i loro componenti risultino affetti, uti singuli, da patologie che li pongano in condizioni obiettive di infertilità o di sterilità (come pure avviene nel caso sottoposto all’esame del Tribunale di Bolzano). Lo stesso Tribunale di Bolzano limita, peraltro, espressamente il petitum alle coppie omosessuali femminili. Di contro, il Tribunale di Pordenone, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, chiede in modo indifferenziato l’ablazione del requisito della diversità di sesso, coinvolgendo così, apparentemente, nello scrutinio anche le coppie omosessuali maschili (che pure non vengono in rilievo nel giudizio a quo). Dal tenore complessivo dell’ordinanza emerge, tuttavia, come anche le censure del Tribunale friulano debbano intendersi, in realtà, limitate alle coppie formate da sole donne. Per le coppie omosessuali femminili la PMA si attua, infatti, mediante fecondazione eterologa, in vivo o in vitro, con gameti maschili di un donatore. Tale pratica era originariamente vietata in modo assoluto dalla legge n. 40 del 2004 (art. 4, comma 3), ma è divenuta fruibile dalle coppie eterosessuali a seguito della sentenza n. 162 del 2014 di questa Corte, in presenza di patologie che determinino una sterilità o una infertilità assolute e irreversibili. Con l’eventuale accoglimento delle odierne questioni, la fecondazione eterologa verrebbe estesa anche all’“infertilità sociale”, o “relazionale”, fisiologicamente propria della coppia omosessuale femminile, conseguente alla non complementarità biologica delle loro componenti. Per le coppie omosessuali maschili, invece, la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso una pratica distinta: vale a dire la maternità surrogata (o gestazione per altri). Il sintagma designa, come è noto, l’accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente a “reclamare diritti” sul bambino che nascerà. Tale pratica è vietata in assoluto, sotto minaccia di sanzione penale, dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, anche nei confronti delle coppie eterosessuali. La disposizione ora citata – considerata dalla giurisprudenza espressiva di un principio di ordine pubblico (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193) – non è inclusa tra quelle sottoposte a scrutinio dal Tribunale di Pordenone, né è presa affatto in considerazione dal giudice a quo nello svolgimento delle proprie censure. Ciò porta a concludere che, anche nella prospettiva del Tribunale friulano, le coppie omosessuali maschili siano destinate a restare estranee al panorama decisorio dell’odierno giudizio. 9.– Tanto puntualizzato, nel merito le questioni non sono però fondate. Questa Corte ha avuto modo di porre in evidenza come la legge n. 40 del 2004 costituisca la «prima legislazione organica relativa ad un delicato settore, che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche, e che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali» (sentenza n. 45 del 2005). La materia tocca, al tempo stesso, «temi eticamente sensibili» (sentenza n. 162 del 2014), in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene «primariamente alla valutazione del legislatore» (sentenza n. 347 del 1998). La linea di composizione tra i diversi interessi in gioco si colloca, in specie, nell’«area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale» (sentenza n. 84 del 2016). Ciò ferma restando la sindacabilità delle scelte operate, al fine di verificare se con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (sentenza n. 162 del 2014). Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato, d’altra parte, in più occasioni, che nella materia della PMA, la quale solleva delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria). 10.– La possibilità – dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un “diritto a procreare” (o “alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale. Più in particolare, si tratta di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque sia, o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato. Le soluzioni adottate, in proposito, dalla legge n. 40 del 2004 sono, come è noto, di segno restrittivo. Esse riflettono – quanto ai profili che qui vengono in rilievo – due idee di base. La prima attiene alla funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, in apicibus, queste ultime come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati. L’art. 1 della legge n. 40 del 2004 stabilisce, in particolare, che il ricorso alla PMA «è consentito» – alle condizioni e secondo le modalità previste dalla stessa legge, «che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito» – «[a]l fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (comma 1) e sempre che «non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità» (comma 2). Il concetto è ribadito ed esplicitato nel successivo art. 4, comma 1, in forza del quale l’accesso alle tecniche di PMA «è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico». La seconda direttrice attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre: limitazioni che vanno a sommarsi a quella, di ordine oggettivo, insita nel disposto dell’art. 4, comma 3, che – nell’ottica di assicurare il mantenimento di un legame biologico tra il nascituro e gli aspiranti genitori – pone il divieto (in origine, assoluto) di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo (ossia con impiego di almeno un gamete di un donatore “esterno”). L’art. 5 della legge n. 40 del 2004 stabilisce, in specie, che possano accedere alla PMA esclusivamente le «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». La disciplina dell’art. 5 trova eco, sul versante sanzionatorio, nelle previsioni dell’art. 12. Per quanto al presente più rileva, il comma 2 di tale articolo punisce con una severa sanzione amministrativa pecuniaria (da 200.000 a 400.000 euro) chi applica tecniche di PMA «a coppie composte da soggetti dello stesso sesso», oltre che da soggetti non entrambi viventi, o in età minore, o non coniugati o non conviventi. La previsione sanzionatoria è rafforzata da quella del comma 9, in forza della quale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui allo stesso art. 12 (e, dunque, anche per quello di cui al comma 2) è «disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale». Il comma 10 prevede, inoltre, la sospensione dell’autorizzazione alla realizzazione delle pratiche di PMA concessa alla struttura nel cui interno è eseguita la pratica vietata, con possibilità di revoca dell’autorizzazione stessa nell’ipotesi di violazione di più divieti o di recidiva. 11.– Questa Corte è intervenuta in due occasioni sulla trama normativa ora ricordata, al fine di ampliare, tramite declaratorie di illegittimità costituzionale, il novero dei soggetti abilitati ad accedere alla PMA. Lo ha fatto, in particolare, con le sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015: pronunce che gli odierni rimettenti e le parti private evocano a sostegno dell’ulteriore intervento ampliativo oggi richiesto, il quale viene prospettato come un ideale e coerente sviluppo delle decisioni già assunte. Con le pronunce considerate questa Corte ha, peraltro, rimosso quelle che apparivano sostanzialmente come distonie, interne o esterne, della disciplina delineata dal legislatore, senza incidere – o incidendo solo in modo marginale – sulle coordinate di fondo di quest’ultima. La sentenza n. 162 del 2014 ha ammesso, in specie, alla riproduzione artificiale le coppie alle quali «sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili», dichiarando illegittimo, limitatamente a tale ipotesi, il divieto di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo stabilito dall’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004. In tal modo, si è posto rimedio all’«evidente elemento di irrazionalità» insito nel fatto che, dopo aver assegnato alla PMA lo scopo «di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», il legislatore aveva negato in assoluto – con il censurato divieto di fecondazione eterologa – la possibilità di realizzare il desiderio della genitorialità proprio alle «coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis». Circostanza, questa, che rivelava come il bilanciamento di interessi operato fosse irragionevole, posto che, sull’altro versante, le esigenze di tutela del nuovo nato apparivano adeguatamente soddisfatte dalla disciplina vigente, in rapporto tanto al «rischio psicologico» correlato al difetto di legame biologico con i genitori (conseguente alla fecondazione eterologa), quanto alla possibile «violazione del diritto a conoscere la propria identità genetica». La successiva sentenza n. 96 del 2015 ha dischiuso, a sua volta, l’accesso alla PMA alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili al nascituro («accertate da apposite strutture pubbliche»). Si è eliminata, con ciò, l’altra «palese antinomia» già censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia. La legge n. 40 del 2004 vietava, infatti, alle coppie dianzi indicate di ricorrere alla PMA, con diagnosi preimpianto, quando invece «il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali […] consentita dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza)». Entrambe le pronunce si sono mosse, dunque, nella logica del rispetto – e, anzi, della valorizzazione – della finalità (lato sensu) terapeutica assegnata dal legislatore alla PMA (proiettandola, nel caso della sentenza n. 96 del 2015, anche sul nascituro), senza contestare nella sua globalità – in punto di compatibilità con la Costituzione – l’altra scelta legislativa di fondo: quella, cioè, di riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una figura materna e di una figura paterna. È ben vero che la sentenza n. 162 del 2014 ha fatto venir meno – nella circoscritta ipotesi da essa considerata (quando, cioè, la fecondazione eterologa rappresenti l’unico modo per superare una infertilità assoluta e irreversibile di matrice patologica) – la necessità del legame biologico tra genitori e figli. Ma la pronuncia ha avuto cura di puntualizzare e sottolineare che alla fecondazione eterologa restano, comunque sia, abilitate ad accedere solo le coppie che posseggano i requisiti indicati dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004, e dunque rispondenti al paradigma familiare riflesso in tale disposizione. 12.– Le questioni oggi in esame si collocano su un piano ben diverso. L’ammissione alla PMA delle coppie omosessuali, conseguente al loro accoglimento, esigerebbe, infatti, la diretta sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le idee guida sottese al sistema delineato dal legislatore del 2004, con potenziali effetti di ricaduta sull’intera platea delle ulteriori posizioni soggettive attualmente escluse dalle pratiche riproduttive (oltre che con interrogativi particolarmente delicati quanto alla sorte delle coppie omosessuali maschili, la cui omologazione alle femminili – in punto di diritto alla genitorialità – richiederebbe, come già accennato, che venga meno, almeno a certe condizioni, il divieto di maternità surrogata). Nella specie, non vi è, d’altronde, alcuna incongruenza interna alla disciplina legislativa della materia, alla quale occorra por rimedio. Contrariamente a quanto mostrano di ritenere i giudici a quibus, l’infertilità “fisiologica” della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive: così come non lo è l’infertilità “fisiologica” della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata. Si tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti. L’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale. In questo senso si è, del resto, specificamente espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha affermato, infatti, che una legge nazionale che riservi l’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia). In tali rilievi è evidentemente già insita l’infondatezza delle questioni sollevate dai rimettenti, sotto il profilo considerato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in correlazione con le disposizioni convenzionali da ultimo citate. 13.– Ciò posto, e riprendendo l’ordine delle censure prospettato dai giudici a quibus, neppure è riscontrabile la denunciata violazione dell’art. 2 Cost. 13.1.– Questa Corte ha rilevato che la nozione di «formazion[e] sociale» – nel cui ambito l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, e che deve intendersi come riferita a «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico» – abbraccia anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso (sentenza n. 138 del 2010; similmente, sentenza n. 170 del 2014). Indicazione cui fa, peraltro, puntuale eco la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), la quale qualifica espressamente, all’art. 1, comma 1, l’unione civile tra persone dello stesso sesso «quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione». Questa Corte ha posto tuttavia in evidenza, in pari tempo, che la Costituzione, pur considerandone favorevolmente la formazione, «non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli» e che, d’altra parte, «[l]a libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori […] di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti» (sentenza n. 162 del 2014). Essa dev’essere, infatti, bilanciata con altri interessi costituzionalmente protetti: e ciò particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico. In accordo con quanto si è posto in evidenza in principio, il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un punto di equilibrio fra le diverse istanze – tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale, nel singolo momento storico – deve ritenersi affidato in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale, salvo il successivo sindacato sulle soluzioni adottate da parte di questa Corte, onde verificare che esse non decampino dall’alveo della ragionevolezza. Nella specie, peraltro, la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivela non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce in subiecta materia, pur rimanendo quest’ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all’evolversi dell’apprezzamento sociale della fenomenologia considerata. Di certo, non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato. In questa prospettiva, l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale. E ciò a prescindere dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali. Nell’esigere, in particolare, per l’accesso alla PMA, la diversità di sesso dei componenti della coppia – condizione peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia – il legislatore ha tenuto conto, d’altronde, anche del grado di accettazione del fenomeno della cosiddetta “omogenitorialità” nell’ambito della comunità sociale, ritenendo che, all’epoca del varo della legge, non potesse registrarsi un sufficiente consenso sul punto. 13.2.– La validità delle conclusioni ora esposte non è inficiata dai più recenti orientamenti della giurisprudenza comune sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso: orientamenti ai quali fanno ampi richiami i giudici a quibus e le parti costituite. La giurisprudenza predominante ritiene, in effetti, ammissibile l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia). In questa chiave, si esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962). La stessa Corte di cassazione ha ritenuto, per altro verso, possibile la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero dal quale risulti la nascita di un figlio da due donne, a seguito della medesima tecnica di procreazione assistita – comunemente nota come ROPA (Reception of Oocytes from Partner) – che intenderebbero praticare le due ricorrenti nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Bolzano (donazione dell’ovulo da parte della prima e conduzione della gravidanza da parte della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo). Nell’escludere che la trascrizione si ponga in contrasto con l’ordine pubblico interno, il giudice di legittimità ha rilevato, da un lato, che non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere e anche generare figli; dall’altro, che non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore, dovendo la dannosità di tale inserimento essere dimostrata in concreto (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599). In termini analoghi la Corte di cassazione si era, peraltro, già espressa con riguardo all’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale, dopo la manifestazione dell’omosessualità della madre e l’instaurazione, da parte sua, della convivenza con altra donna (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601). Tutto ciò, come detto, non esclude la validità delle conclusioni dianzi raggiunte. Vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela – così nella circoscritta ipotesi di adozione non legittimante ritenuta applicabile alla coppia omosessuale – l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va verificato in concreto (così come, del resto, per l’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale). La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole – come si è detto – che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”. 14.– Per quel che attiene, poi, alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., si è già posta precedentemente in evidenza l’insussistenza di quella legata a una pretesa discriminazione fondata sull’orientamento sessuale (supra, punto 12 del Considerato in diritto). Ma altrettanto deve dirsi anche quanto all’ulteriore censura, formulata dal solo Tribunale di Pordenone, secondo la quale la normativa in esame darebbe luogo a una ingiustificata disparità di trattamento in base alle capacità economiche, facendo sì che l’aspirazione alla genitorialità possa essere realizzata da quelle sole, tra le coppie omosessuali, che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi alle pratiche di PMA in uno dei Paesi esteri che lo consentono. In assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione. La circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia. 15.– Inoltre, non è violato l’art. 31, secondo comma, Cost., il quale riguarda la maternità e non l’aspirazione a diventare genitore. 16.– Neppure è ravvisabile la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost., prospettata dal Tribunale di Pordenone sull’assunto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner dello stesso sesso sarebbe suscettibile di incidere negativamente, anche in modo rilevante, sulla salute psicofisica della coppia. La tutela costituzionale della «salute» non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale, così da rendere incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto alla sua realizzazione. La contraria affermazione che pure si rinviene nella sentenza n. 162 del 2014 – richiamata dal rimettente – deve intendersi calibrata sulla specifica fattispecie alla quale la pronuncia si riferisce (la coppia eterosessuale cui sia stata diagnosticata una patologia produttiva di infertilità o sterilità assolute e irreversibili). Se così non fosse, sarebbero destinate a cadere automaticamente, in quanto frustranti il desiderio di genitorialità, non solo la limitazione oggi in esame, ma tutte le altre limitazioni all’accesso alla PMA poste dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004: limitazioni che la stessa sentenza n. 162 del 2014 ha, per converso, specificamente richiamato anche in rapporto alla fecondazione eterologa. 17.– Il Tribunale di Bolzano ha denunciato la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost. sotto un diverso e più specifico profilo, che riflette le peculiarità della vicenda concreta sottoposta al suo esame, nella quale – come già più volte ricordato – entrambe le ricorrenti, parti di una unione civile, risultano affette da patologie che le rendono incapaci di procreare naturalmente: una perché non produce ovociti; l’altra perché non in grado di portare a termine una gravidanza senza grave rischio. Secondo il Tribunale rimettente, il divieto censurato si porrebbe in contrasto con la tutela costituzionale del diritto alla salute, in quanto impedirebbe alle componenti di una coppia di persone dello stesso sesso di superare le loro patologie riproduttive, tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive rispettive (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra): ciò in contrasto con lo stesso scopo lato sensu terapeutico che la legge n. 40 del 2004 assegna alla PMA. Al riguardo, occorre rilevare che la censura – ove fondata – non giustificherebbe la pronuncia richiesta dal giudice a quo: ossia l’eliminazione tout court del requisito della diversità di sesso dal novero delle condizioni di accesso alle tecniche di PMA. Tale requisito dovrebbe essere rimosso, per converso, esclusivamente nel caso in cui fosse riscontrabile l’esigenza “terapeutica” alla quale fa riferimento il rimettente: ossia quando le componenti della coppia omosessuale femminile versino in condizioni obiettive di infertilità per ragioni patologiche. L’assetto che scaturirebbe da un simile intervento – pure teoricamente praticabile in questa sede, tramite una “resezione” del petitum – sarebbe, peraltro, palesemente insostenibile. Nell’ambito delle coppie omosessuali femminili, potrebbero accedere alla PMA – e dunque realizzare il desiderio della genitorialità – solo quelle le cui componenti non siano in grado di procreare in modo naturale. Tale rilievo disvela il vizio di prospettiva che inficia l’argomento posto in campo dal rimettente. La presenza di patologie riproduttive è un dato significativo nell’ambito della coppia eterosessuale, in quanto fa venir meno la normale fertilità di tale coppia. Rappresenta invece una variabile irrilevante – ai fini che qui interessano – nell’ambito della coppia omosessuale, la quale sarebbe infertile in ogni caso. 18.– L’art. 11 Cost. – richiamato dal Tribunale ordinario di Bolzano (peraltro solo in dispositivo) con riferimento tanto agli artt. 8 e 14 CEDU, quanto a varie disposizioni del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 – è parametro inconferente, posto che dalle indicate convenzioni internazionali non derivano limitazioni di sovranità nei confronti dello Stato italiano (ex plurimis, con particolare riguardo alla CEDU, sentenze n. 22 del 2018, n. 210 del 2013 e n. 349 del 2007). 19.– Va esclusa, infine, la dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione a tutte le disposizioni sovranazionali evocate dai giudici a quibus. 19.1.– Quanto al contrasto – denunciato da entrambi i rimettenti – con gli artt. 8 e 14 CEDU (in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare e di divieto di discriminazione), è ben vero che, a partire dalla sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è costante nell’affermare che alla coppia omosessuale compete il diritto al rispetto della vita, non solo privata, ma anche familiare, al pari della coppia di sesso opposto che si trovi nella stessa situazione. Essa costituisce, pertanto, una «famiglia», anche agli effetti del divieto di discriminazione (pur rimanendo affidate all’apprezzamento dei singoli Stati le modalità della sua tutela, che non deve necessariamente aver luogo tramite l’estensione dell’istituto del matrimonio) (ex plurimis, sentenze 14 dicembre 2017, Orlandi e altri contro Italia; 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia). Principio, questo, del quale è stata fatta specifica applicazione anche in tema di adozione dei minori (Grande Camera, sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria). La Corte di Strasburgo ha pure affermato, per altro verso, che il concetto di «vita privata», di cui all’art. 8 CEDU, comprende il diritto all’autodeterminazione e, dunque, anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e su come diventarlo (in modo naturale, tramite fecondazione assistita, mediante procedura di adozione, ecc.). La scelta di ricorrere alla PMA ricade, pertanto, nel relativo ambito di tutela, con la conseguenza che le ingerenze in essa da parte della pubblica autorità debbono rispondere alle finalità indicate dal paragrafo 2 dello stesso art. 8 e risultare proporzionate allo scopo (sentenze 16 gennaio 2018, Nedescu contro Romania; Grande Camera, 27 agosto 2015, Parrillo contro Italia; 2 ottobre 2012, Knecht contro Romania; 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria). E, però, si è già ricordato come la stessa Corte di Strasburgo abbia escluso che una legge nazionale che riservi la PMA a coppie eterosessuali sterili, assegnandole una finalità terapeutica, possa dar luogo a una disparità di trattamento, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU, nei confronti delle coppie omosessuali, stante la non equiparabilità delle rispettive situazioni (sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia). Si è del pari ricordato come, secondo la Corte europea, nella disciplina della fecondazione medicalmente assistita – la quale suscita delicati problemi di ordine etico e morale – gli Stati fruiscano di un ampio margine di apprezzamento, particolarmente quanto ai profili sui quali non si riscontri un generale consenso a livello europeo (supra, punto 9 del Considerato in diritto): prospettiva nella quale essa ha ritenuto non incompatibile con la CEDU il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca (Grande camera, sentenza 3 novembre 2011, S. H. contro Austria, che ha ribaltato la conclusione cui era giunta la prima sezione della Corte con la sentenza 1° aprile 2010, S. H. contro Austria). In tale ottica, possono dunque valere anche in rapporto ai parametri convenzionali evocati le considerazioni precedentemente svolte onde escludere l’ipotizzata violazione del diritto alla procreazione costituzionalmente garantito (supra, punto 13 del Considerato in diritto). 19.2.– Quanto osservato in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU può essere evidentemente esteso alle corrispondenti disposizioni – richiamate dal solo Tribunale di Bolzano – del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, in tema di divieto di discriminazione e diritto al rispetto della vita privata e familiare (artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26). 19.3.– Per quel che attiene, da ultimo, alle previsioni – invocate anch’esse dal solo Tribunale di Bolzano – della Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità (artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25, in tema, rispettivamente, di eguaglianza e non discriminazione, donne con disabilità, rispetto della vita privata, rispetto della famiglia e tutela della salute), può ripetersi quanto già osservato con riferimento alla censura di violazione del diritto alla salute, formulata dallo stesso Tribunale (supra, punto 17 del Considerato in diritto). È evidente, infatti, che le coppie omosessuali femminili non possono essere ritenute, in quanto tali, «disabili». 20.– Alla luce delle considerazioni svolte, le questioni vanno dichiarate non fondate. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Pordenone con l’ordinanza indicata in epigrafe; 2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, dal Tribunale ordinario di Bolzano con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2019. F.to: Giorgio LATTANZI, Presidente Franco MODUGNO, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Allegato: ordinanza letta all'udienza del 18 giugno 2019 ORDINANZA Rilevato che nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale ordinario di Pordenone, con ordinanza del 2 luglio 2018 (r.o. n. 129 del 2018), ha depositato atto di intervento l'Associazione nazionale di promozione sociale Avvocatura per i diritti LGBTI; che nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale ordinario di Bolzano, con ordinanza del 3 gennaio 2019 (r.o. n. 60 del 2019), hanno depositato un unitario atto di intervento l'Associazione radicale Certi Diritti e l'Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica. Considerato che le associazioni intervenienti non rivestono la qualità di parti del giudizio principale; che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la partecipazione al giudizio di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale); che a tale disciplina è possibile derogare - senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità - soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2019, n. 217 e n. 180 del 2018, ordinanze allegate alle sentenze n. 248, n. 194 e n. 153 del 2018, n. 29 del 2017, n. 286 e n. 243 del 2016); che i presenti giudizi - che hanno ad oggetto gli artt. 1, commi 1 e 2; 4; 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004 n. 40 - non sono destinati a produrre, nei confronti delle associazioni intervenienti, effetti immediati, neppure indiretti; che, pertanto, esse non sono legittimate a partecipare al giudizio dinanzi a questa Corte. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibili gli interventi spiegati: nel giudizio di legittimità costituzionale r.o. n. 129 del 2018 dall'Associazione nazionale di promozione sociale Avvocatura per i diritti LGBTI; nel giudizio di legittimità costituzionale r.o. n. 60 del 2019 dall'Associazione radicale Certi Diritti e dall'Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica.

  • REPUBBLICA ITALIA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte d'appello di Napoli, sezione per i minorenni, così composta: DOTT. ALESSANDRO COCCHIARA PRESIDENTE DOTT. ANTONIO DI MARCO CONSIGLIERE DOTT. GEREMIA CASABURI CONSIGLIERE REL. DOTT. GERARDA MOLINARO COMPONENTE PRIVATO DOTT. GIULIO FORMATI COMPONENTE PRIVATO riunito in camera di consiglio, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel procedimento n.r.g. (...) con ad oggetto: reclamo avverso sentenza del TM Napoli n. 46/18 dell'8 marzo 2018. tra (...) Elettivamente domiciliata in Roma, presso l'avv. F.Qu. Appellante c. (...) Appellata contumace Con l'intervento del Pg in sede, che conclude per l'accoglimento dell'appello. IN FATTO E IN DIRITTO 1. Il Tribunale per i minorenni di Napoli, con sentenza n. 48/18 dell'8 marzo 2018, ha rigettato il ricorso di (...) la quale aveva chiesto disporsi nei suoi riguardi l'adozione, ai sensi dell'art. 44 lett. d) l. 18/1983, di (...), nato (...) da (...). La ricorrente esponeva di aver instaurato una relazione sentimentale con la (...) sfociata fin dal 2008 in una stabile convivenza; le due sono anche civilmente unite, ex l. 76/16 dall'8 settembre 2016 (cfr. l'attestato in atti). Entrambe avevano maturato il progetto di allargare il proprio nucleo familiare con la procreazione di figli; avevano pertanto deciso, congiuntamente, di far sottoporre la (...) alla procreazione medicalmente assistita (d'ora in avanti: p.m.a.) eterologa (avvalendosi dei gameti di un donatore anonimo). Da qui appunto la nascita di (...). La ricorrente e la madre biologica ne avevano condiviso, fin dalla nascita, la cura, il mentenimento, l'educazione, tant'è che il piccolo le considera entrambe come mamme. Su tali basi, e alla stregua di una giurisprudenza ormai consolidata, la ricorrente aveva avanzato la richiesta di adozione per cui è causa. La (...) non si era costituita, ma era stata sentita dal Tribunale, e aveva espresso il proprio consenso all'adozione. Era stata anche svolta attività istruttoria, ex art. 57 l. 184/1983. Il P.m., all'esito, aveva espresso parere favorevole all'adozione. Nondimeno il Tribunale, come detto, ha rigettato il ricorso, ma non perché la ricorrente era risultato inidonea o per l'insussistenza dei presupposti di legge; né il giudice di primo grado ha ritenuto non condivisibile l'interpretazione dell'art. 44, 1 comma, lett. d) l. cit. offerta dalla giurisprudenza più recente, cui si è fatto cenno (e come meglio si dirà infra). Di contro il Tribunale (recependo espressamente le argomentazioni di una ancora recente sentenza del Tribunale per i minorenni di Palermo, di cui si dirà) ha ritenuto che, ai sensi degli artt. 48 e 50 l. 184/1983 cit., in caso di adozione ex art. 44, 1 comma, l. d) l. cit., la responsabilità genitoriale è esercitata esclusivamente dall'adottante (in quanto non coniuge dell'altro genitore). Nella specie, di contro, la madre biologica aveva si espresso il suo consenso all'adozione, senza però rinunciare all'esercizio della responsabilità genitoriale sul minore; dagli atti, anzi, si evince la ferma volontà di entrambe le mamme di esercitare congiuntamente la responsabilità genitoriale, il che non sarebbe comunque consentito dalla legge. Da qui il rigetto del ricorso, ma anche l'appello della (...) la quale ha chiesto, in integrale riforma della sentenza appellata, l'accoglimento del ricorso originario. Al riguardo ha dedotto i seguenti motivi: a) vizio in rito della sentenza, in quanto non era stato suscitato il contraddittorio tra le parti circa la questione dell'esercizio della responsabilità genitoriale b) motivazione errata e insufficiente, e violazione delle norme di riferimento artt. 44, 46, 55, 57, l. 184/1983 c) violazione degli artt. 315 ss. c.c. La (...), ritualmente citata, non si è costituita, ma ha presenziato all'udienza del 15 giugno 2018. Il P.g. concludeva per l'accoglimento dell'appello. All'esito, la Corte si è riservata la decisione. 2. L'appello è fondato sotto plurimi profili. E' indubbiamente fondato il motivo in rito, in quanto - ex art. 101 cpv. c.p.c. - Il Tribunale per i minorenni avrebbe dovuto suscitare il contraddittorio delle parti sulla questione (rilevata d'ufficio in sentenza) della concentrazione della responsabilità genitoriale necessariamente in capo della sola adottante; oltretutto - in astratto, a tutto voler concedere - la madre biologica ben avrebbe potuto esprimere il proprio consenso all'adozione pur dopo che fosse stata edotta della perdita della responsabilità genitoriale in forza dell'adozione medesima. La Corte, però, non è esonerata dalla decisione di merito, non trattandosi di fattispecie per la quale è prevista la remissione del procedimento al primo giudice (art. 353 e 354 c.p.c.). La motivazione della sentenza appellata è doppiamente contraddittoria; il Tribunale, infatti, ha proceduto nell'istruzione della causa, come previsto dall'art. 57 l. 184/1983 cit. è stato anche acquisito il consenso della madre, come detto, e sono state acquisite informazioni dai carabinieri e dai servizi sociali. Tanto è però incompatibile - già sotto un profilo logico - con l'"impedimento" in diritto invece rilevato con la sentenza appellata. Nè va poi trascurato che del tutto vacua e contraddittoria è l'adesione, solo enunciata, alla lettura dell'art. 44, 1 comma lett. d) l. cit. offerta dalla giurisprudenza più recente, secondo cui l'impossibilità di affidamento preadottivo va intesa non solo in fatto ma anche in diritto (cfr. infra); infatti l'adesione acritica all'orientamento del Tribunale per i minorenni di Palermo, da parte dei giudici partenopei, si traduce, di fatti, nell'adesione all'opposto orientamento precedente, e quindi nell'impossibilità - almeno nella gran parte dei casi - di procedere alla richiesta adozione. 3 b. La Corte, di contro, aderisce pienamente, e non solo in apparenza, al nuovo orientamento cui si è fatto più volte riferimento, e che qui di seguito sinteticamente si ricostruisce (tenuto poi conto che la vicenda per cui è causa è tutt'altro che isolata). La giurisprudenza minorile, già prima della l. 76/16, aveva ritenuto applicabile l'art. 44, 1 comma, lett. d) l. cit. a coppie omosessuali, consentendo l'adozione del figlio biologico di un partner (in genere di sesso femminile) da parte dell'altro, se legato da uno stabile vincolo affettivo al minore. In tal senso già Trib. minorenni Roma 30 luglio 2014, Foro it., 2014 I, 2743; Posto: a) che l'adozione in casi particolari, di cui alla l. 184/83, art. 44 1 comma, lett. d), presuppone non una situazione di abbandono dell'adottando, ma solo l'impossibilità di affidamento preadottivo, di fatto o di diritto, e b) che non costituisce ostacolo, di per sé, la condizione omosessuale dell'adottante, può farsi luogo a siffatta forma di adozione nei riguardi di una minore, nella specie in tenera età, da parte della compagna stabilmente convivente della madre, che vi ha consentito, essendo inoltre stata accertata, in concreto, l'idoneità genitoriale dell'adottante e quindi la corrispondenza all'interesse della minore (nella specie, convivente dalla nascita con le due donne, che ha sempre considerato come propri genitori). Tale pronuncia, consentendo l'adozione di una bambina da parte della compagna della madre (le due donne hanno contratto matrimonio in Spagna, ove è consentito), ha certo destato virulente polemiche, non solo strettamente giuridiche, in realtà, i giudici minorili romani hanno sostanzialmente confermato un assetto, l'inserimento della minore in una coppia omosessuale, che risale alla sua nascita (la bambina era nata da procreazione assistita eterologa, fortemente voluta da entrambe le donne) e che, in concreto, come accertato, non le è stato fonte di alcun pregiudizio. In diritto, come accennato, il tribunale per i minorenni ha ritenuto sussistere i presupposti dell'adozione in casi particolari, di cui all'art. 44, 1 comma, lett. d), l. 184/83, alla stregua di una lettura "evolutiva" dell'istituto, la c.d. adozione mite, già elaborata da una parte (minoritaria) della giurisprudenza (in termini, però, non del tutto corrispondenti a quelli della sentenza romana). La sentenza romana ha avuto poi facile gioco nel richiamare il superamento, da parte della giurisprudenza, non solo nazionale, delle discriminazioni nei confronti degli omosessuali, anche in materia dell'affidamento dei minori, cfr. già Cass. 11 gennaio 2013, n. 601, ma soprattutto Corte eur. diritti dell'uomo 19 febbraio 2013, ric. X, Giur. it., 2013, 1764, secondo cui, ove uno Stato contraente (nella specie l'Austria) contempli l'istituto dell'adozione del figlio del partner a favore delle coppie conviventi di sesso opposto, "il principio di non discriminazione fondata sull'orientamento sessuale impone la sua estensione alle coppie formate da persone dello stesso sesso". Non va poi trascurato che "l'adozione mite" era stata valorizzata, con riferimento all'Italia, da Corte europea diritti dell'Uomo 21 gennaio 2014, Z. Italia, Foro It., 2014; IV 173 Il Tribunale di Roma ha poi successivamente e reiteratamente confermato tale orientamento, cfr. Trib. minorenni Roma, 22 ottobre 2015, Foro it., 2016, l. 339, confermato dalla Corte territoriale (cfr. App. Roma, 23 dicembre 2015, Foro it., 2016, I, 699; 23 novembre 2016 id., 2017 I, 309). In tal senso anche altri tribunali per i minorenni (es. trib. Min. Bologna 6 luglio 2017. Foro it., 2017, I, 2852). Non sono certo mancate voci dissenzienti: in particolare i tribunali minorili di Torino e di Milano hanno espressamente disatteso l'orientamento romano, con provvedimenti però riformati dalle rispettive corti di appello, che invece hanno dato piena e argomentata adesione al nuovo indirizzo. Cfr. così App. Torino, 27 maggio 2016, Foro it., 2016, I, 1910: "Può essere disposta l'adozione in casi particolari di un minore da parte della compagna dello stesso sesso della madre biologica, ai sensi dell'art. 44, 1 comma, lett. d), l. 184/83, atteso che tale istituto non presuppone lo stato di abbandono, rilevando invece la situazione di fatto già esistente, a tutela dell'interesse superiore del minore alla vita familiare (nella specie, sono state accolte le domande di due donne, conviventi e peraltro sposate all'estero, di adottare ciascuna la figlia biologica dell'altra, disponendosi anche l'assunzione per l'una e per l'altra minore del cognome dell'adottante, da anteporsi al proprio, ciò in quanto dagli accertamenti compiuti a mezzo dei servizi sociali era emerso che le due bambine erano ben inserite, anche sotto il profilo affettivo, nella famiglia composta dalle due donne, riconoscendo entrambe come figure genitoriali)". La corte torinese ha pertanto disposto l'adozione speciale, ex art. 44, lett. d) l. 184/83, del figlio biologico del partner omosessuale, ritenendo che - specie alla stregua di una lettura costituzionalmente orientata delle norme di riferimento - l'istituto in esame non presuppone lo stato di abbandono del minore. In termini App. Milano 22 aprile 2017, Foro it., I, 2061: L'adozione in casi particolari, di cui alla l. 184/83, art. 44, 1 comma, lett. d) costituisce istituto suscettibile di interpretazione estensiva, al fine di evitare discriminazioni a danno delle coppie omosessuali e - non presupponendo una situazione di abbandono dell'adottando, ma solo l'impossibilità, di fatto o di diritto, dell'affidamento preadottivo - può essere disposta anche in favore del partner dello stesso sesso stabilmente convivente con il genitore biologico del minore che vi abbia consentito, sempre che sia stata accertata, in concreto la corrispondenza con l'interesse del minore, e quindi, da un lato l'idoneità genitoriale dell'adottante, dall'altro l'esistenza di uno stabile legame affettivo di questi con il minore (nella specie la Corte d'appello in riforma della decisione in senso contrario del tribunale per i minorenni, ha accolto le domande proposte da due donne, legate da una relazione affettiva e successivamente da unione civile, ciascuna di adozione della figlia dell'altra, nate entrambe nell'ambito di un progetto di genitorialità condivisa, di procreazione medicalmente assistita, con gameti maschili provenienti dallo stesso donatore). 3 c. La correttezza dell'orientamento "romano" è stato poi sancito dalla stessa Suprema Corte. Così Cass. 22 giugno 2016, n. 12962: L'adozione in casi particolari, di cui all'art. 44, 1 comma, lett. d) l. 184/83, presuppone la constatata impossibilità di affidamento preadottivo, che può essere di fatto ma anche di diritto, in quanto, a differenza dell'adozione piena, non presuppone una situazione di abbandono dell'adottando e può essere disposta allorché si accerti, in concreto, l'interesse del minore al riconoscimento di una relazione affettiva già, instaurata e consolidata con chi se ne prende stabilmente cura, non avendo invece alcuna rilevanza l'orientamento sessuale dell'adottante (nella specie, la suprema corte ha confermato la decisione di merito che aveva disposto tale forma di adozione nei riguardi di una bambina, circa sei anni di età, da parte della compagna stabilmente convivente della madre, che vi ha consentito, avendo accertato in concreto l'idoneità genitoriale dell'adottante e, quindi, la corrispondenza all'interesse della minore). Merita ricordare (anche con riferimento al caso di specie) che Cass. 12962/16 cit. ha affermato che In tema di adozione di un minore in casi particolari, di cui all'art. 44, 1 comma, lett. d), l. 184/83, non è prevista la designazione ex lege, in ogni caso, di un curatore speciale, che può aver luogo solo allorché il giudice, in concreto, configuri uno specifico conflitto di interessi diretto ed attuale tra il minore stesso ed il genitore, che dà il proprio assenso all'adozione (nella specie, il giudice di merito aveva motivatamente escluso la necessità di un curatore speciale, in un caso in cui il conflitto di interessi era ricondotto esclusivamente a quello della donna, che aveva dato il suo assenso all'adozione della figlia, al consolidamento giuridico del proprio progetto di vita relazionale e genitoriale con l'adottante, la sua stabile compagna, la suprema corte, nel confermare tale statuizione, ha osservato che la relazione omoaffettiva sottostante l'adozione non può essere considerata contrastante, in re ipsa, con l'interesse della minore, in quanto una tale valutazione negativa, fondata esclusivamente sull'orientamento sessuale delle due donne, si risolverebbe in un'inammissibile discriminazione). Più di recente tale pronuncia è stata confermata con riferimento ad una coppia eterosessuale, il che comprova che le problematiche sono in gran parte, comuni. Così Cass. 16 aprile 2018, n. 9373: L'adozione in casi particolari, di cui all'art. 44, 1 comma, lett. d), l. 184/83, c.d. "mite", presuppone la constatata impossibilità di diritto, e non solo di fatto, di affidamento preadottivo, posto che, a differenza dell'adozione c.d. legittimante, non presuppone una situazione di abbandono dell'adottando, sicché non rappresenta una estrema ratio, né comporta la decisione dei rapporti del minore con la famiglia d'origine, in quanto risponde, piuttosto, all'esigenza di assicurare il rispetto del preminente interesse del minore, e va disposta al fine di salvaguardare, in concreto, la continuità affettiva ed educativa dei legami in atto dello stesso con i soggetti che se ne prendono cura (nella specie, la suprema corte ha confermato la decisione di merito che aveva disposto tale forma di adozione nei riguardi di un minore ormai preadolescente, in favore della coppia che ne era affidataria da circa due anni, atteso, da un lato, che i genitori erano stati dichiarati decaduti dalla responsabilità con provvedimento definitivo, e ne era stata comunque accertata la perdurante inidoneità, e, dall'altro, che il minore aveva instaurato un solido e positivo rapporto con gli adottanti). Tale assetto, pur recente, può pertanto ritenersi consolidato; né va trascurato che la giurisprudenza, in tema di tutela della omogenitorialità, è andata orma "oltre", dichiarato l'efficacia nel nostro Paese di provvedimenti stranieri di adozione piena in favore di coppie omosessuali (cfr. in ultimo Cass. 31 maggio 2018 n. 14007), nonché di atti di nascita (o di provvedimenti) stranieri, indicati, come genitori, due persone dello stesso sesso, escludendone la contrarietà all'ordine pubblico; di norma uno è il "genitore biologico", che ha fornito i gameti maschili o femminili, l'altro è il "genitore sociale", il partner del primo (la coppia può anche essere coniugata, nei paesi dove è consentito). D'altronde, ormai, non pochi ufficiali di Stato civile stanno provvedendo direttamente a formare atti di nascita indicanti una genitorialità omosessuale,; il recentissimo Trib. Torino 11 giugno 2018, inedito, dà atto di un riconoscimento ex art. 254 c.c. effettuato da una donna nei confronti del figlio di altra donna (il giudice era stato adito solo per l'imposizione del doppio cognome al bambino). Il bambino, in tutte tali fattispecie, è stato "programmato" nell'ambito di un progetto di genitorialità condivisa e concepito a mezzo di p.m.a. eterologa (è il caso delle coppie femminili), o anche di maternità surrogata, per quanto illecita in Italia (vi ricorrono soprattutto le coppie maschili), cfr. al riguardo Cass. 30 settembre 2016, n. 19599, confermata, più di recente, da Cass. 15 giugno 2017, n. 14878; per la giurisprudenza di merito cfr. ex plurimis Trib. Napoli 6 dicembre 2016, Foro it., 2017, I, 309. Tale costante e "crescente" (quanto al riconoscimento della tutela) evoluzione giurisprudenziale non è stata fermata, o anche solo rallentata, dall'entrata in vigore della l. 76/2016, istitutiva delle unioni civili tra persone dello stesso sesso che, pur largamente equiparando le unioni civili stesse al matrimonio esclude cfr. il 20 comma dell'art. 1 - l'applicabilità alle prime sia delle disposizioni del codice civile non espressamente richiamate, sia della l. 184/1983; tuttavia, quanto a quest'ultima, "Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti". In forza di tale pur ambiguo inciso finale l'interpretazione "evolutiva" dell'art. 44, 1 comma lett. d) cit. della l. cit., così come le altre aperture alla omogenitorialità, in forza del diritto internazionale privato, e cui si è già fatto cenno, hanno conservato valore (e infatti sono state ampiamente ribadite ed estese) anche sotto l'impero della nuova legge. D'altronde la stessa l. 76/2016, art. 1, comma 25, richiama, e rende applicabile alle unioni civili, disposizioni processuali (in tema di crisi della famiglia) presupponenti la possibile presenza di figli (cfr. anche la l. 4/18, cfr. infra). Infine neppure va trascurato che l'art. 1, 20 comma cit. l. 76/16 esclude l'applicazione diretta alle parti dell'unione civile delle disposizioni del codice civile non richiamate e della l. adozioni 184/1983, ma non osta certo, in presenza di identità di ratio, all'applicazione analogica delle medesime disposizioni. I profili di diritto internazionele provato, peraltro, saranno presto rivalutati dalle SS.UU. della cassazione, come indicato da Cass. 22 febbraio 2018, n. 4382, ma si tratta di profilo che nella specie non viene rilevato. 3 d. Tornando al tema dell'adozione ex art. 44, 1 comma, lett. d) l. cit., deve segnalarsi - lo si è anzi anticipato - che, ancora di recente, una pronuncia di merito si è - di fatto - discostata dall'orientamento sopra richiamato. 1) riferimento è a Trib. minorenni Palermo 30 luglio 2017, Foro it., 2018, I, 1537 che - pure dichiara di prestare adesione all'interpretazione dell'art. 44, 1 comma, lett. d) l. cit. resa da Cass. 12962/16 cit.; nella sostanza però i giudici siciliani negano in radice (e con portata tutt'altro che limitata al caso di specie) la stessa possibilità di adozione del figlio del partner omosessuale (pur se concepito nell'ambito di un progetto di genitorialità condivisa). La sentenza in esame, infatti, afferma che tale forma di adozione, concernendo persone non coniugate, ha un effetto "collaterale" non previsto dalla stessa coppia omosessuale: il "trasferimento" della responsabilità genitoriale in capo al solo adottante, sicché il genitore biologico ne resterebbe privo, con pregiudizio del minore, da qui anche l'affermazione che il consenso all'adozione speciale di quest'ultimo ( almeno nella specie) sarebbe mancato o viziato (per l'inesatta conoscenza, almeno, delle conseguenze giuridiche). Tanto perché gli art. 48 e 50 l. adozioni, disposizioni di stretta interpretazione, prevedono l'esercizio congiunto della responsabilità, in caso di adozione speciale, solo allorché questa venga disposta in favore del figlio del coniuge; per le coppie non coniugate, comprese quelle omosessuali (pur se civilmente unite), invece, opera il principio opposto, appunto la concentrazione della responsabilità in capo al solo adottante). In altri termini l'adozione speciale, per le coppie non coniugate, comporterebbe tout court la decadenza del genitore biologico dalla responsabilità genitoriale (sicché egli dovrebbe prestare il proprio consenso non solo all'adozione speciale da parte del proprio partner, ma anche all'abdicazione alla propria responsabilità genitoriale). Così la massima: L'adozione in casi particolari di un minore ai sensi dell'art. 44, 1 comma, lett. d), l. 184/83 - che pure non presuppone lo stato di abbandono, nei termini indicati da Cass. 12962/16 - non può essere disposta in favore della compagna dello stesso sesso della madre biologica, che pure vi abbia consentito, in quanto, trattandosi di coppia non coniugata, la responsabilità genitoriale, ai sensi degli artt. 48 e 50 l. cit. competerebbe esclusivamente all'adottante, venendone privata la madre biologica, tanto con pregiudizio all'interesse del minore (Il Tribunale ha inoltre rilevato che, nella specie, il consenso materno all'adozione è mancante o viziato, non avendo certo ella inteso rinunciare alla responsabilità genitoriale). Va rilevato che tale pronuncia è rimasta isolata nel panorama della giurisprudenza di merito, ad eccezione proprio del Tribunale dei minorenni di Napoli che, con la sentenza impugnata (ed altra pure sottoposta alla cognizione di questa Corte) vi ha prestato piena adesione. Da qui appunto le censure dell'appellante, che pure si condividono, come si dirà in prosieguo. D'altro canto già Trib. minorenni Bologna 31 agosto 2017, Foro it., 2018, I, 1536, ha preso espressamente le distanze dalla di poco precedente pronuncia palermitana, "smontandone" le argomentazioni in termini del tutto convincenti; o giudici felsinei hanno così negato l'adozione speciale comporti la concentrazione della responsabilità genitoriale in capo al solo adottante (con le richiamate ricadute sia in tema di consenso del genitore che di tutela dell'interesse del minore); è vero che gli art. 48 e 50 l. adozione cit. affermano il principio della condivisione della responsabilità per le coppie coniugate; tanto però non comporta che, per le altre operi il principio opposto (addirittura con la decadenza del genitore biologico dalla responsabilità in oggetto): una tale condivisione troverà invece fondamento sulle generali previsioni degli art. 315 bis ss. c.c. Così la massima: L'adozione in casi particolari, di cui all'art. 44, 1 comma, lett. d), l. 18483/, può essere disposta anche in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, concepito (nella specie a mezzo di procreazione medicalmente assistita) nell'ambito di un progetto di genitorialità condivisa, costituendo una famiglia anche quella omoaffettiva, in cui è possibile la crescita di un minore, in quanto tale statuizione: 1) non presuppone una situazione di abbandono dell'adottando, ma solo l'impossibilità, anche di diritto; dell'affidamento preadottivo, sempre che al riguardo sussista in concreto l'interesse dell'adottando; 2) è consentita anche in forza della c.d. clausola di salvaguardia di cui all'art. 1, 20 comma , l. 76/16, qualora adottante e genitore biologico siano civilmente uniti, 3) non comporta che la responsabilità genitoriale sia esercitata dal solo adottante, pur se questi non è coniugato con il genitore biologico, in quanto l'esercizio comune trova comunque fondamento, ancorché sugli artt. 48 e 50 l. 184/1983, sulla generale e inderogabile previsione degli artt. 315 bis. ss. c.c. La Corte condivide appieno, come accennato, tale ultima pronuncia dl'altronde - e come osservato dalla migliore dottrina - l'art. 48 l. 184/1983 non è una norma generale sull'attribuzione della responsabilità genitoriale in caso di adozione in casi particolari ex art. 44 l. cit. (come appunto ritenuto dai giudici palermitani), ma concerne la fattispecie di adozione del minore da parte di due coniugi, o dal coniuge di uno dei genitori: il coniugio è qui parte della fattispecie. Tale disposizione non è però di stretta interpretazione, né può essere letta nel senso di escludere la condivisione della responsabilità genitoriale nel caso in cui l'adottante non sia coniuge del genitore biologico. In primo luogo infatti - alla luce dell0unicità dello status del figlio - non può esservi alcun spazio per l'introduzione di distinzioni circa l'esercizio della responsabilità genitoriale sui figli, in relazione alla fonte dello status medesimo. Più preciso - come appunto ritenuto dai giudici bolognesi, ma anche dalla migliore dottrina - le disposizioni generali (per ogni "tipo" di filiazione) ed inderogabili sulla responsabilità genitoriale sono quelle, sopra richiamate, dettate dal codice civile (in particolare la'rt. 316 c.c.) che appunto prevedono la condivisione tra i genitori (non rileva "come" divenuti tali) della responsabilità in oggetto. Tali disposizioni operano infatti per ogni forma di genitorialità, compresa quella adottiva: l'art. 48 l. 184/1983 ne costituisce solo una specificazione, mentre la'rt. 50 l. cit. (relativo a fattispecie che qui non interessa) non conduce a condizioni diverse, e d'altronde la stessa disposizione sul consenso all'adozione ex art. 44 l. cit. da parte del genitore biologico non contiene alcun riferimento ad una qualche forma di rinuncia alla responsabilità genitoriale in favore dell'adottante non coniuge. Neppure va trascurato che la pronuncia palermitana, introducendo una sorta di decadenza automatica della responsabilità genitoriale, o addirittura una possibilità di rinuncia alla stessa (da parte del genitore biologico che consenta all'adozione in oggetto, quasi si trattasse di diritti disponibili), al di fuori di ogni valutazione giudiziale della inidoneità di quel genitore, in riferimento alle sue condotte, si pone - semplicemente - al di fuori dei principi fondanti dell'orientamento giuridico. 4. Può allora esaminarsi il caso di specie (alla stregua dell'istruttoria svolta, pur contraddittoriamente, in primo grado, come già accennato). La madre biologica, la (...) aveva prestato, già in primo grado, il consenso, pieno e incondizionato, all'adozione del piccolo (...) da parte della propria compagna, l'odierna appellante. Ella, il 28 dicembre 2017, si è espressa nei termini che seguono innanzi ai giudici onorari del Tribunale per i minorenni: "esprimo il mio consenso all'adozione di mio figlio (...) da parte di mia moglie (...). Preferisco parlare di (...) come di nostro figlio, io e (...) abbiamo desiderato e voluto questo figlio solo dopo aver constatato la solidità del nostro legame affettivo e (...) è il compimento del nostro progetto d'amore. (...) chiama mamma sia me che (...), è un bambino felice e sereno. E' stato accolto con amore e affetto prima dalle nostre famiglie di origine e quindi da amici e parenti"; la (...) ha anche precisato che l'appartamento dove abitano è in comproprietà, e il mutuo è cointestato; alla nascita di (...), hanno stipulato ciascuna una polizza vita, indicandosi reciprocamente, insieme al bambino, come beneficiarie. Tale consenso è stato peraltro confermato (ultroneamente) anche innanzi a questa Corte. E' così compiuta la condizione di cui all'art. 45, 1 comma, l. 184/1983. E' stata sentita, ancora in primo grado, anche la (...), pure in data 28 dicembre 2017, che ha ribadito la richiesta di adozione; ha riferito di essere stata vicina alla (...) durante la gravidanza e di aver partecipato al parto; "Sento come figlio, nato da un nostro progetto d'amore voluto e condiviso, (...) mi chiama mamma, mi presenta come mamma e tutti gli amici e le loro famiglie sanno che (...) ha due mamme. Non siamo mai state discriminate, né noi né nostro figlio (...), anzi abbiamo trovato un ambiente molto aperto e accogliente. Anche con le maestre abbiamo creato un buon rapporto, la scuola in cui abbiamo iscritto (...) già accoglie una coppia di gemelle con due mamme, (...) è un bambino sereno, felice, socievole. Le nostre famiglie di origine hanno partecipato a questo progetto e in particolare mio padre è stato felicissimo di avere un nipote maschio". Il 28 dicembre 2017 è stato sentito anche il bambino, che ha raccontato di avere due gatti, di frequentare la scuola e che le maestre sono buone e gentili, di essere con il cugino il più bravo della classe, e di fare sport (nuoto); si noti che egli ha sottoscritto il verbale, firmandosi (...). L'idoneità dell'adottante, e la conformità dell'adozione all'interesse concreto del minore, trova poi riscontro nell'istruttoria comunque compiuta dal Tribunale per i minorenni. I CC, stazione di (...), con relazione del 19 luglio 2017, riferiscono che la (...) risulta di buona condotta morale e civile, è immune da pregiudizi, non è mai stata fermata in compagnia di persone controindicate, né risulta fare uso di stupefacenti, in pubblico gode di buona stima e reputazione e dispone di una buona posizione economica. E' amministratrice unica di una società con sede in Napoli (...), dipendente di altra società del settore e cointestataria, con la (...), dell'appartamento ove risiede. Le buone condizioni economiche trovano riscontro (oltre che nella relazione di cui subito si dirà) nella documentazione fiscale in atti (la documentazione prodotta concerne la situazione abitativa della famiglia, il rapporto di lavoro della (...) le polizze vita; vi sono anche numerose fotografie del bambino, con le due donne e in diversi contesti familiari). Del tutto favorevole è poi la relazione socio ambientale predisposta dai Servizi Sociali del Comune di Napoli, (...) del 24 luglio 2017; le sue scelte di vita sono condivise dalla famiglia di origine. La (...), come detto madre biologica, dopo circa 10 anni di professione forense, attualmente lavora per la società di cui è amministratrice delegata la compagna. Le due hanno ribadito di avere un legame sentimentale ormai consolidato, e che la p.m.a. eterologa ha avuto luogo in (...). Così la relazione "Da subito si riferisce a due donne che, con garbo e a tempo debito, gli hanno spiegato amorevolmente che lui "è frutto di un semino di un signore gentile e generoso che è stato unito all'uovo della pancia di mamma (...)". Ed evidentemente tali discorsi sono stati così ben compresi e metabolizzati dal piccolo che, oggi (...), non sembra presentare alcun tipo di problemi a dire che "ho due mamme, non ho un papà ma tanti amici e zii" ai quali può rivolgersi o giocare". Il bambino, in particolare (che ormai frequenta le scuole elementari), è apparso, all'assistente sociale, "molto curato nell'aspetto, socievole, coinvolgente nei suoi occhi ... si rivolge chiamando "mammina" e "mammona" le signore (...) e (...); le abbraccia ambedue sorridendo e baciandole indistintamente; a volte, come riferito, usa un tono di voce diverso per identificare l'una o l'altra mamma, e comunque sembrerebbe consapevole dei ruoli diversi che le due signore hanno nella gestione del menage familiare". In definitiva sussistono in pieno i requisiti di cui agli artt. 44, 1 comma, lett. d) e 57 l. cit. Il bambino è infatti inserito stabilmente in un contesto familiare sano, che ne assicura la crescita fisiopsichica equilibrata, e che ha intessuto uno strettissimo legame con entrambe le donne di riferimento, la madre biologica e l'odierna appellante. Quest'ultima è sia idonea affettivamente, sia capace di educare e istruire il minore, cui è a sua volta affettivamente legatissima (considerando un figlio): l'adozione richiesta allora corrisponde in pieno all'interesse concreto di (...) (che è appunto il superiore interesse del minore, nella specie svilito dal Tribunale con al sentenza appellata). 5 a. La Corte reputa però che il gravame vada accolto - conformemente agli ulteriori motivi di appello - anche in una diversa e più ampia prospettiva tanto non come obiter, ma al fine di assicurare una decisione, in diritto, più rigorosa e sistematica. Punto di partenza è la tutela del superiore interesse dal minore, "stella polare" del sistema; i riferimenti normativi - a partire dall'art. 30 Cost. - sono innumerevoli, sia nel diritto interno (es. art. 337 ter ss. c.c.) che in quello sovranazionale (cfr., ex plurimis, l'art. 24 della Carta di Nizza, ma anche l'art. 24 della convenzione de L'Aja del 1993). Ancora nel diritto interno, proprio la tutela del superiore interesse del minore è alla base sia della l. 173/15, che sancisce un vero e proprio diritto alla continuità affettiva (se appunto corrisponde a quell'interesse), proprio in ambito adottivo, sia della recentissima L. 4/18 (relativa - beninteso - a gravissime fattispecie che, ovviamente, nella specie non ricorrono) che - novellando, tra l'altro, l'art. 4 l. 184/1983 - pure espressamente privilegia la continuità affettiva del minore con il congiunto; è degno di nota, peraltro, che tale legge sostanzialmente pone sullo stesso piano la genitorialità da matrimonio ovvero da unione civile. E' poi appena il caso di ricordare che la giurisprudenza (il riferimento è - in prima battuta - a quella interna) attribuisce alla tutela del superiore interesse del minore plurime valenze, di diritto sostanziale ma anche processuale (è sufficiente richiamare il ruolo centrale che ha ormai assunto - anche normativamente - l'ascolto). La tutela del superiore interesse del minore permea di sé tutti gli istituti giuridici relativi ai minori medesimi; ad es. vi è subordinato anche il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, cfr. Cass. 28 febbraio 2018, n. 4763). Le stesse azioni di stato, ormai, non sono immuni - quale che sia la verità biologica/genetica - dalla valutazione (tendenzialmente prevalente, in caso di conflitto) del superiore interesse del minore, cfr. infra. Può allora affermarsi, con la giurisprudenza ormai consolidata e la migliore dottrina che il principio del superiore interesse del minore, per la sua primaria rilevanza, sia costituzionalmente e di diritto interno, sia europea sia internazionale, svolge una funzione integratrice, ma anche di adeguamento, conformazione e di correzione dello stesso principio di legalità (da qui, ad es., la rilevanza dei rapporti familiari anche solo di fatti), consentendo di temperare o al limite di disapplicare talune norme che incidono sui minori; in tal senso la recente Cass. 14007/2018 che, nell'escludere la contrarietà all'ordine pubblico del provvedimento straniero (francese) di adozione piena di minori in favore del partner (coniuge, in quell'ordinamento e, come si dirà infra, anche in quello italiano) omosessuale del genitore biologico, ha osservato che Il principio del superiore interesse del minore opera necessariamente come un limite alla stessa valenza della clausola di ordine pubblico che va sempre valutata con cautela e alla luce del singolo caso concreto ... il preminente interesse del minore, alla luce della normativa nazionale e internazionale in materia di adozione e quindi il diritto del minore a vivere in modo stabile in un ambiente domestico armonioso e ad essere educato e assistito nella crescita con equilibrio e rispetto dei suoi diritti fondamentali vale dunque ad integrare lo stesso concetto di ordine pubblico nella materia specifica. Il principio in oggetto, conformando l'ordine pubblico, consente di derogare anche alle norme penali (arg. ex Cass. 19599/16 cit.). 5 b. E' alla luce del principio in oggetto che devono allora affrontarsi le nuove modalità di procreazione (p.m.a., ma anche la maternità surrogata che presenta si profili negoziali, ma anche che alla prima è comunque riconducibile). De infatti riconoscersi che la stessa determinazione del rapporto giuridico di filiazione è ormai divenuta estremamente complessa, ferma l'unicità dello stato, ex art. 315 c.c.; tanto discende sia dall'evoluzione scientifica - tecnologica (appunto, la p.m.a.), sia da quella dei costumi e della cultura (il riferimento è alla omogenitorialità, ma anche - in termini più generali - alle c.d. famiglie ricomposte, cfr. infra). Tanto ha trovato conferma, ad es., nella ancora recente (e non definita), ormai notissima vicenda dello scambio di embrioni, nell'ambito di due distinti interventi di p.m.a. omologa presso un ospedale romano (cfr. in ultimo Trib Roma 10 maggio 2016, Foro it., 2016; I, 2925), che ha messo allo scoperto le obiettive difficoltà per i giudici di definire in termini soddisfacenti sotto un profilo giuridico, ma prima ancora umano, fattispecie nuove e di estrema complessità, per quanto di rara o anche eccezionale (quanto al caso dello scambio di embrioni) verificazione. Deve allora riconoscersi che la rigida applicazione delle disposizioni codicistiche sulla procreazione naturale anche alle "nuove modalità" di procreazione è ormai, oltre che inadeguata, giuridicamente errata. E' infatti possibile configurare una sorta di tripartizione tra genitorialità (rectius, di attribuzione dello status) da procreazione naturale, da p.m.a. e da adozione legale (ex l. 184/83). La prima forma di procreazione, "tradizionale" e più diffusa, è tuttora determinata, essenzialmente, in base al criterio del dato biologico - genetico (con peculiare rilevanza, quindi della gestazione e del parto), ciò sia con riferimento all'accertamento che alla rimozione; il dato volontaristico è, evidentemente, del tutto marginale. In tal senso sono tuttora strutturale le azioni di stato, specie dopo la novellazione del 2012 - 13, che, in linea di principio (ma cfr. infra), sono volte a conseguire la corrispondenza del dato giuridico, rappresentato dallo status, con la realtà biologica. La realtà giuridica, beninteso, è più complessa; così la donna anche coniugata, può evitare la formazione dello stato di madre avvalendosi della facoltà di non essere indicata nell'atto di nascita, ex art. 30, 1 comma, d.p.r. 396/00. Peraltro proprio l'esercizio di tale facoltà, qualora - anche a distanza di molti anni - la donna scelga di rimuovere l'anonimato, come ormai consentito (in forza di un intervento della Consulta, preceduto da uno della corte di Strasburgo), determina l'insorgere di una genitorialità meramente affettiva (non giuridica, salvi i divieti matrimoniali) tra la stessa e il figlio, ma anche tra quest'ultimo e i fratelli e le sorelle che dovesse "scoprire", cfr. Cass. 25 gennaio 2017, n. 1946; 20 marzo 2018, n. 6963). Soprattutto ha fatto ormai irruzione, anche nelle azioni di stato - lo si è detto - l'esigenza di tutela del prevalente interesse del minore, in particolare alla stabilità e alla conservazione dello status acquisito (favor stabilitatis e affesctionis), anche se non corrisponde alla verità biologica. La biologia, si è brillantemente osservato, non può prevalere sulla biografia. La stessa previsione di termini rigorosi per l'esercizio sia dell'azione di disconoscimento che dell'impugnativa per difetto di veridicità, introdotti dalla richiamata recente novellazione, è dettata proprio da tale esigenza. La giurisprudenza in materia è ormai molto ampia, di merito come di legittimità. E' però fondamentale Corte Cost. 10 giugno 2014, n. 162 la quale (nel far cadere il divieto di p.m.a. eterologa, previsto dalla l. 40/04), ha affermato, da un lato, che la scelta di diventare genitori è espressione della libertà di autodeterminazione personale, dall'altro che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito per l'appartenenza familiare. Più di recente Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 ha ribadito l'operatività del superiore interesse del minore anche nelle azioni di stato, compresa l'impugnativa ex art. 263 c.c. (nella specie, però, alla base vi era una fattispecie di maternità surrogata): In caso di divergenza tra identità biologico - genetica e identità legale, il giudice è chiamato ad un bilanciamento degli interessi in gioco, anche a tutela di quello dei minori alla conservazione dello stato acquisito. In una prospettiva di diritto europeo, d'altronde, la conservazione degli status acquisiti corrisponde al principio fondamentale di libertà di circolazione nell'ambito dell'Unione. 5 c. Accanto alla genitorialità naturale si pone però quella da p.m.a., che implica l'intervento di un terzo, il medico, e che può prescindere del tutto dal legame genetico del figlio con la coppia richiedente; la p.m.a. eterologa, infatti, può essere anche coppia, ovvero totale (in quanto sia il gamete maschile che quello femminile sono estranei alla coppia richiedente); vi è quindi un almeno tendenziale disallineamento (come del resto per l'adozione) tra dato genetico e stato di filiazione. Tale genitorialità è insofferente - lo si è detto - all'applicazione, tout court, delle disposizioni civilistiche dettate, essenzialmente, per quella naturale. Le fondamenta normative (principali pur se non esclusive) della genitorialità da p.m.a. si rinvengono nella l. 40/04, quale "riscritta" e "costituzionalizzata", dalla giurisprudenza, specie costituzionale, in particolare negli art. 6, 8 e 9, che esprimono ormai (dopo Corte cost. 162/14) regole di portata generale per tutte le forme di p.m.a. Pertanto: - il nato p.m.a. (omologa o eterologa che sia) ha lo stato di figlio (quindi quello di figlio nato nel matrimonio o fuori dal matrimonio) "nella coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime"; - il caso di p.m.a. eterologa (pur vietata nel teso originario dalla legge) il partner maschile che abbia dato il suo consenso alle pratiche in oggetto non può né disconoscere il figlio (se matrimoniale), né esercitare l'impugnativa per difetto di veridicità (se convivente); - la madre, dal canto suo, non può avvalersi della facoltà di non essere nominata nell'atto di nascita: non v'è spazio per il parto anonimo; - il donatore di gameti non acquisisce nessuna relazione giuridica parentale con il nato, e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto, né essere titolare di obblighi. Il nato p.m.a., in definitiva, gode di una tutela, quanto alla stabilità dello stato, maggiore rispetto al nato da procreazione naturale: e tanto si riflette già sul concepito, potenzialmente sullo stesso embrione non impiantato. L'elemento volontaristico/consensuale, quindi è assolutamente prevalente, ai fini della determinazione della filiazione da p.m.a. omologa o eterologa che sia, al mero dato derivazione genetico - biologica, al limite anche gestazionale, che può anche mancare; tanto beninteso, anche con riferimento all'acquisizione degli status. Dalla causalità/derivazione biologica, alla base della procreazione naturale, si passa qui ad una casualità umana; se si preferisce, nella p.m.a. la genitorialità (di converso, la filiazione) si fonda si sulla verità, ma non su quella biologica: la verità è qui data dal consapevole consenso della coppia richiedente, quanto all'assunzione del ruolo genitoriale. A ben vede, l'individuazione dello status del figlio opera anticipatamente, infatti il consenso della coppia (quindi anche dell'uomo) alle pratiche di p.m.a. diviene irrevocabile a partire dalla fecondazione dell'ovulo, quindi dalla formazione dell'ovocita (art. 6, 3 comma, l. cit.). Successivamente a tale momento la volontà dei componenti della coppia perde rilievo; così può procedersi all'impianto nonostante la morte, nelle more, dell'uomo. Beninteso, resta fermo - il riferimento agli art. 2 e 32 Cost. è scontato - il diritto della donna di rifiutare l'impianto (non essendo configurabile) una gravidanza, o piuttosto uno "stupro di Stato"). Non a caso la Consulta non si è mai pronunciata sulla questione, pur prospettata più volte, per difetto di rilevanza cfr. Corte cost. 13 aprile 2016, n. 84. Quello configurato dalla legge è un consenso informato, che costituisce una forma di assunzione consapevole della responsabilità genitoriale (non casualmente l'art. 6, ultimo comma, l. cit. precisa che ai richiedenti devono essere esplicitate con chiarezza le conseguenze giuridiche di cui agli art. 8 e 9). Alla base - ed è dato dirimente e qualificabile - vi è un progetto di genitorialità condivisa, richiamata, infatti, da non poche pronunce giurisprudenziali, a partire da Cass. 19599/16 cit. La configurazione di una genitorialità/filiazione fondata non tanto sulla derivazione biologica (che, come detto può mancare), quanto sul consenso, può avere ricadute anche con riferimento alla maternità surrogata, compresa quella omogenitoriale, ma è profilo che qui non interessa. Peraltro, merita ricordarlo, l'assetto della genitorialità/filiazione da p.m.a. è si molto diverso da quello previsto per la genitorialità naturale, ma neppure vanno sopravvalutate le differenze. Si è visto, infatti, che anche per quest'ultima la verità biologica non sempre prevale: il primato spetta, semmai, alla tutela dell'interesse del figlio, con conseguente conservazione anche di status non corrispondenti alla verità biologica - genetica, ma che ormai esprimono l'identità/definitivamente) acquisita dal figlio medesimo; d'altro canto la genitorialità da p.m.a., di fatto, è nella gran parte dei casi anche biologico - genetica (almeno quanto ad uno dei due componenti della coppia l'eterologa totale, con gameti provenienti da terzi sia sul lato maschile che su quello femminile, è molto rara, d'altronde la giurisprudenza tende a "tollerare" la stessa maternità surrogata allorché almeno uno dei due committenti sia anche genitore biologico). 6. In ogni caso si pone - ed essenziale nella specie - la questione della tutela della genitorialità da p.m.a. fondata sul consenso, nell'ambito di un progetto condiviso di genitorialità, anche con riferimento all'assunzione della relativa responsabilità e - prima ancora - all'acquisizione, da parte del minore, di uno stabile status (corrispondente alla realtà effettuale, può anticiparsi). La questione non concerne però le coppie eterosessuali, coniugate o meno: anche a fronte di fattispecie di p.m.a. eterologa i componenti della coppia sono legalmente genitori (il marito, in particolare, in forza della presunzione di paternità; si discute se il partner non coniugato debba procedere al riconoscimento, che in ogni caso discende dall'irretrattabile consenso alla pratica). Più complessa e problematica è la questione relativa alle coppie omosessuali; queste però non possono essere discriminate, come reiteratamente affermato - lo si è detto - dalla Corte di Strasburgo, e come del resto imposto dall'esigenza di tutela del superiore interesse del minore. Certo, la l. 40/2004 riserva le pratiche di p.m.a. alle coppie di sesso diverso, cfr. il vigente art. 5. Si tratta però di dato non dirimente, senza che occorra sollevare un incidente di illegittimità costituzionale di tale disposizione. Si è infatti detto che le disposizioni fondamentali e generali in tema di genitorialità da p.m.a. sono quelle contenute negli artt. 6, 8, 9 cit. che - per quanto qui interessa - disciplinavano la genitorialità da p.m.a. eterologa pur se vietat (con severe sanzioni) dalla medesima legge, cfr. art. 4, 3 comma (dichiarato) costituzionalmente illegittimo da Corte Cost. 162/2014 cit.). Ne segue che le regole espresse da tali disposizioni ben possano operare anche con riferimento alle coppie omosessuali, che illegalmente, o all'estero, abbiano fatto ricorso a pratiche di p.m.a., come appunto nella specie: e certo le "colpe" dei genitori non possono ricadere sui figli. D'altro canto - lo si rileva incidentalmente - la clausola di equivalenza di cui all'art. 1, comma 20 l. 76/2016 cit. opera sicuramente anche con riferimento alla l. 40/2004 (sicché ben potrebbe ritenersi che l'esclusione dalla p.m.a. delle coppie dello stesso sesso, di cui all'art. 5 cit. sia stata parzialmente tacitamente abrogata); nella specie, comunque, l'unione tra le parti è successiva alla nascita del minore di cui si tratta. Resta, comunque che l a genitorialità da p.m.a. eterologa (anche "doppia", con gameti sia maschili che femminili), è vera genitorialità, sia pure ben diverse da quella biologica. La giurisprudenza ha poi evidenziato casi di nascite da p.m.a. realizzata da coppie omosessuali femminili caratterizzate da un legame biologico - genetico del nato con entrambe le donne (l'una gestante, l'altra donatrice dei gameti femminili)), cfr. Cass. 19599/16 cit. In altri (e più numerosi) casi la partner della madre biologica (più di preciso, la gestante) non ha alcun legame biologico - genetico con il nato (i gameti femminili sono quelli della gestante, o di una terza anonima), ma ciò non ha alcuna rilevanza, alla stregua già delle richiamate disposizioni della l. 40/2004, sulla formazione del rapporto genitoriale. D'altro canto, in una prospettiva sovranazionale, anche la Corte di Strasburgo è particolarmente attenta a valorizza, con riferimento all'art. 8 Cedu, la conservazione o anche l'acquisizione di uno status di filiazione, pur formatosi illegalmente (es. da maternità surrogata), che però si sia sufficientemente consolidato, a tutela dell'interesse dei figli stessi. Il riferimento è, in primo luogo, alle sentenze "gemelle", relative al divieto posto dalla legge (civile) francese di maternità surrogata, cfr. Corte eur. diritti dell'uomo 26 giugno 2014, M., Foro it., 2014, IV, 561. La grande camera della medesima corte, con specifico riferimento all'Italia, ha escluso la violazione dell'art. 8, cit., in un caso in cui un minore, nato da maternità surrogata, era stato allontanato dalla coppia "committente", e quindi dato in adozione a terzi, non solo e non tanto per la mancanza di qualsiasi legame genetico tra il bambino e la coppia, e per l'illegalità della condotta della coppia stessa, ma soprattutto perché tra i tre non si era ancora consolidata una "vita familiare", pur di meno fatto (la convivenza era durata pochi mesi), Corte eur. diritti dell'uomo 24 gennaio 2017, D.P., Foro it., 2017, IV, 105. Pertanto, secondo la corte di Strasburgo, la durata della relazione con il bambino è un fattore chiave per il riconoscimento della vita familiare, quindi della configurazione di un rapporto di filiazione tutelabile. Tornando alla genitorialità omogenitoriale, la giurisprudenza nazionale - comunque ben attenta ai profili di effettività del rapporto genitoriale - dà rilevanza, lo si è del resto già affermato, al consenso alla p.m.a., nell'ambito di un progetto di genitorialità condivisa. La partner della madre biologica (siano le due o meno civilmente unite), in altri termini, non è sorta di terzo genitore, come può configurarsi con riferimento alle c.d. famiglie ricomposte (etero o omosessuali), in cui il minore è nato da una precedente relazione del genitore biologico (sicché il rapporto affettivo, per quanto significativo, si è creato ex post, appunto con un soggetto estraneo alla coppia che lo ha generato). Di contro, ella è il secondo genitore, l'unico che il minore possa avere, e svolge tale ruolo - evidentemente - addirittura da un momento precedente al concepimento, avendo contribuito alla sua generazione (non importa se solo con la prestazione del relativo consenso: ella - ed è dato dirimente - se ne è assunta la responsabilità ab origine). Vi è appunto una fortissima esigenza di tutela (anche quanto alla gestione della vita quotidiana) che concerne, essenzialmente, proprio il minore, sia allorché la coppia genitoriale sia unita e convivente, sia in caso di crisi di separazione della coppia stessa, tutela che - in questo secondo caso - rischia di essere confinata nei limiti angusti segnati da Corte Cost. 20 ottobre 2016, n. 255 (si consideri poi anche il caso della morte di una delle partner, specie la madre biologica). Da qui allora, certo in una prospettiva di diritto internazionale privato, le pronunce, cui si è fatto cenno, che hanno riconosciuto l'efficacia nel nostro Paese di provvedimenti stranieri di adozione piena, ma anche di atti e di provvedimenti indicanti la doppia genitorialità omosessuale. A maggior ragione allora, in tale più ampia prospettiva, i giudici hanno il dovere (naturalmente una volta accertata la ricorrenza dei requisiti di legge) di disporre, quanto richiesta, l'adozione ex art. 44, 1 comma, lett. d) l. 184/1983. Tale nella consapevolezza che quest'ultima - specie a confronto con le forme di protezione più avanzate conseguibili in forza delle disposizione di diritto internazionale privato - offre le garanzie minimali inderogabili di tutela del minore, assicurandogli un (pur non pieno, almeno alla stregua della giurisprudenza prevalente) legame giuridico con il genitore sociale/affettivo/internazionale (la prassi utilizza termini e espressioni diverse). Si tratta di una tutela meno piena di quella che spetterebbe, invero, soprattutto perché quest'ultimo, l'adottante, è - lo ribadisce - vero e secondo genitore, alla pari di quello biologico, in forza di quel progetto condiviso di genitorialità più volte richiamato. Da qui, a fronte di una tale fattispecie, l'inadeguatezza dell'istituto dell'adozione in parola, in cui - di norma - il legame tra l'adottante e il minore è ben meno incisiva, in termini di qualità del rapporto (si ricordi che l'adozione ex art. 44, 1 comma, lett. d) l. cit. presuppone l'impossibilità di affidamento preadottivo, pur nel senso ora delineato dalla giurisprudenza, il che comporta che l'adottante è estraneo alla procreazione del minore stesso). Vi sarebbe spazio (o almeno necessità, anche sotto il profilo costituzionale), in altri termini, per forme di riconoscimento della genitorialità ben più piene e adeguate (anche alla luce del ragionamento che si è sopra sviluppato, che peraltro potrebbe essere esteso - ma qui non interessa - anche alle coppie maschili). Oltretutto l'adozione ex art. 44 cit. va pur sempre richiesta, si pone allora il quesito se, in mancanza di una tale domanda, possa esservi spazio per il riconoscimento (anche su iniziativa pubblica) di altre forme di tutela. In altri termini, anche a voler ritenere, con un orientamento minoritario, che l'adozione in parola sia equiparabile a quella piena, vi è il dato obiettivo appunto integrante di per sé una minorata tutela per il minore, che non vi è comunque un riconoscimento automatico o almeno obbligatorio della genitorialità, come invece prevede la l. 40/2004: ma è profilo qui non rilevante. Nella specie, infatti l'adozione in parola è stata richiesta e, sotto il profilo processuale, opera poi il principio della domanda, e d'altronde il presente giudizio è di appello. L'appellante è la madre biologica, nel chiedere di farsi luogo all'adozione in parola in favore della prima (formalmente unica richiedente; ma nella sostanza la richiesta è comune, come confermato dal consenso di cui si è detto) hanno ribadito e concretizzato quanto allo status, opportunamente, l'originaria decisione comune di procedere alla p.m.a., nell'ambito di un progetto di genitorialità condivisa. Il minore per cui è causa, in fatto, concepito e nato in attuazione di quanto sopra riferito, è inserito in quella che considera ed è la sua famiglia, ed è (ben) accudito dalle due donne che ne condividono, sotto ogni profilo, sia pure solo ancora in via di fatto, la responsabilità genitoriale. Per il resto resta fermo quanto osservato sulla idoneità della (...) e sul suo rapporto con il minore. La pronuncia dell'adozione consente di stabilizzare (sia pure in misura ancora inadeguata, come detto) tale irreversibile situazione di fatto (ma fondata, comunque, su una scelta giuridicamente rilevante), a tutto vantaggio del minore medesimo. In definitiva anche sotto tale profilo l'appello va accolto, sicché deve darsi corso all'adozione in parola. 7. In ultimo, e come richiesto, deve provvedersi sul cognome del minore. L'art. 55 l. 184/1983 rinvia all'art. 299 c.c., alla stregua del quale l'adottato assume il cognome dell'adottante e l'antepone al proprio. Nella specie però l'appellante chiede che il minore posponga il proprio cognome a quello materno, che attualmente porta, in quanto il minore è già scolarizzato, e quindi è individuato come (...). La Corte, tenuto conto della funzione identitaria del cognome . cfr. al riguardo l'art. 262 c.c. - reputa che la disposizione dell'art. 299 c.c. non sia inderogabile, in quanto - a fronte di obiettive ragioni - il cognome dell'adottante ben possa essere posposto a quello dell'adottato. Nella specie le argomentazioni sopra riportate della stessa adottante (evidentemente in accordo con la madre biologica, pur se l'attestato di unione civile non indica l'eventuale scelta di un cognome comune, ex l. 76/16, art. 1, comma 10) sono convincenti, tenuto conto della stessa posizione del bambino (si è detto che egli si firma (...). In termini - pur se in forza di una diretta applicazione dell'art. 262 c.c. - Trib. Torino 21 maggio 2018 cit. Ne segue che al minore va attribuito il cognome richiesto. Deve procedersi alle annotazioni di legge. Nulla sulle spese, attesa la posizione della (...). P.Q.M. La Corte, in integrale riforma della sentenza del Tribunale per i minorenni di Napoli n. 46/18, dispone l'adozione, ai sensi della'rt. 44, 1 comma, lett. d) l. 184/1983, del minore (...), nato (...) a (...), da parte di (...), nata (...) a (...); dispone altresì che il minore assuma il cognome (...). Si trasmetta per le annotazioni di legge all'Ufficiale di Stato civile dell'anzidetto Comune. Così deciso in Napoli il 15 giugno 2018. Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2018.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, promosso dalla Corte d’appello di Milano nel procedimento civile vertente tra A.L. C. ed il curatore speciale di L.F. Z., con ordinanza del 25 luglio 2016, iscritta al n. 273 del registro ordinanze del 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2017. Visti gli atti di costituzione di A.L. C. e del curatore speciale di L.F. Z., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella udienza pubblica del 21 novembre 2017 il Giudice relatore Giuliano Amato; uditi gli avvocati Grazia Ofelia Cesaro, nella qualità di curatore speciale di L.F. Z., e Francesca Maria Zanasi per A.L. C. e l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.– Nel corso di un procedimento di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, la Corte d’appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. La disposizione è censurata nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso. 2.– Il giudizio a quo ha ad oggetto l’appello avverso la sentenza con cui il Tribunale ordinario di Milano – in accoglimento della domanda proposta ai sensi dell’art. 263 cod. civ. dal curatore speciale di un minore, nominato dal Tribunale per i minorenni – ha dichiarato che lo stesso minore non è figlio della donna che lo ha riconosciuto. La vicenda sottoposta all’esame della Corte d’appello di Milano trae origine dalla trascrizione del certificato di nascita formato all’estero, relativo alla nascita di un bambino, riconosciuto come figlio naturale di una coppia di cittadini italiani, i quali – nell’ambito delle indagini avviate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni – avrebbero ammesso il ricorso alla surrogazione di maternità, realizzata attraverso ovodonazione. Il giudice a quo riferisce che, pertanto, su iniziativa della stessa Procura della Repubblica, è stato avviato il procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, il quale si è concluso con dichiarazione di non luogo a provvedere, avendo i genitori contratto matrimonio ed essendo risultata certa, in base al test eseguito sul DNA, la paternità biologica di colui che ha effettuato il riconoscimento. Riferisce il giudice rimettente che, su richiesta del pubblico ministero, il Tribunale per i minorenni di Milano ha autorizzato, ai sensi dell’art. 264, secondo comma, cod. civ., l’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale effettuato da A.L. C., nominando a tal fine un curatore speciale del minore. In accoglimento di tale impugnazione, il Tribunale ordinario di Milano ha dichiarato che il minore non è figlio di A.L. C., disponendo le conseguenti annotazioni a cura dell’ufficiale di stato civile. Il giudice a quo riferisce che la decisione di primo grado si è fondata sulla disposizione di cui all’art. 269, terzo comma, cod. civ., e sulla considerazione che, nel caso in esame, il rapporto di filiazione dal lato materno non potrebbe essere dedotto dal contratto per la fecondazione eterologa con maternità surrogata, da ritenersi invalido per contrarietà della legge straniera all’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 16 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato). 2.1.– Ciò premesso, la Corte d’appello evidenzia che nel caso in esame l’atto di nascita comprovante la genitorialità del minore è già stato trascritto in Italia e che, pertanto, è estranea al thema decidendum la questione della trascrivibilità in Italia di atti di nascita formati nei paesi che consentono la maternità surrogata. Nel caso in esame, infatti, non è richiesta la trascrizione di uno status filiationis riconosciuto all’estero, bensì la rimozione di uno status già attribuito, in considerazione della sua non veridicità. 2.1.1.– Quanto al divieto di maternità surrogata previsto dall’art. 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), il giudice a quo ritiene che lo stesso potrebbe porsi in contrasto con i principi costituzionali, laddove riferito ad ipotesi di gestazione “relazionali” o “solidaristiche”, non lesive della dignità della donna, né riducibili alla logica di uno scambio mercantile, ma caratterizzate da intenti di pura solidarietà. Tuttavia, osserva il rimettente, anche tale questione risulta estranea alla vicenda in esame, in quanto la surrogazione di maternità è avvenuta al di fuori di un contesto relazionale e non sarebbe ravvisabile una condizione di libertà della donna che ha portato a termine la gravidanza. 2.2.– La Corte d’appello prospetta, invece, una diversa questione di legittimità costituzionale, che pone al centro l’interesse del bambino, nato a seguito di surrogazione di maternità realizzata all’estero, a vedersi riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita. Il dubbio di costituzionalità sollevato dal rimettente attiene, in particolare, all’art. 263 cod. civ., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità possa essere accolta solo laddove sia ritenuta rispondente all’interesse del minore. 2.2.1.– Rammenta il giudice a quo che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. è già stata ritenuta non fondata dalla sentenza n. 112 del 1997, sull’assunto che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità sia ispirata al «principio di ordine superiore che ogni falsa apparenza di stato deve cadere». In quella occasione, asserisce il rimettente, la Corte ha individuato nella verità del rapporto di filiazione un valore necessariamente da tutelare, con la precisazione che la finalità perseguita dal legislatore consisterebbe proprio nell’attuazione del diritto del minore all’acquisizione di uno stato corrispondente alla realtà biologica. Analoghi principi sarebbero stati ribaditi dalle sentenze n. 170 del 1999 e n. 216 del 1997, nonché dall’ordinanza n. 7 del 2012. Alla stregua di tali rilievi, il giudice a quo esclude soluzioni ermeneutiche che consentano di considerare, nella cornice dell’art. 263 cod. civ., la specifica situazione del minore al fine di privilegiare una soluzione che realizzi il suo concreto ed effettivo interesse. La mancanza di un riferimento normativo all’interesse del minore, nel richiamato indirizzo interpretativo da considerare quale “diritto vivente”, si porrebbe in contrasto con i principi di particolare tutela che la Costituzione e la CEDU assicurano ai minori. 2.3.– La questione avrebbe incidenza attuale nel giudizio di impugnazione promosso dal curatore speciale ai sensi dell’art. 263 cod. civ. Infatti, nel caso in esame, le norme inderogabili che definiscono e disciplinano la genitorialità, ed in particolare la maternità, non consentirebbero a madre e figlio di vedersi riconosciuto tale legame giuridico, se non per il tramite dell’adozione in casi particolari, nel presupposto che l’interesse del minore, di cui lo stesso curatore è portatore, debba identificarsi nel favor veritatis. Viceversa, ove fosse consentita una valutazione in concreto dell’interesse del minore, non coincidente col favor veritatis, esso potrebbe essere misurato anche alla stregua di altri profili, riguardanti le particolari modalità della nascita, la possibilità di altro legame giuridico, certo e ugualmente tutelante, con la madre intenzionale, e tutte le circostanze, anche relative al rapporto con la madre intenzionale, emerse nella fattispecie in esame. 2.4.– Il giudice rimettente richiama i principi enunciati dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176; dalla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77; dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che all’art. 24, secondo comma, sancisce il principio della necessaria preminenza dell’interesse del minore. Dovrebbero considerarsi, inoltre, le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098ª riunione dei delegati dei ministri. Il riferimento, ivi contenuto, al superiore interesse del minore andrebbe inteso come ricerca di una soluzione che garantisca l’effettiva attuazione, non di un interesse astratto e preconcetto, bensì del best interest, cioè dell’interesse concreto di “quel” minore che, nel singolo caso sottoposto a valutazione, è destinatario di un provvedimento. La Corte d’appello osserva che anche la recente giurisprudenza di merito attribuisce rilievo al concreto interesse del minore in tema di relazioni familiari. In particolare, sono richiamate quelle pronunce che hanno ammesso la trascrizione nei registri dello stato civile di atti stranieri attributivi della genitorialità alla madre intenzionale, a seguito di accordi di maternità surrogata (Corte d’appello di Bari, sentenza 13 febbraio 2009) o di un atto di nascita, formato all’estero, del figlio di una coppia di donne, nato con donazione del gamete maschile e trasferimento dell’ovulo di una delle due all’altra, che ha portato a termine la gravidanza (Corte d’appello di Torino, decreto 29 ottobre 2014). Sono, altresì, richiamate quelle decisioni che hanno riconosciuto la possibilità di adozione del figlio del partner di coppia dello stesso sesso, ai sensi dell’art. 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia). Inoltre, è richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 11 gennaio 2013, n. 601, che ha escluso che il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale pregiudichi l’equilibrato sviluppo del bambino. Il giudice a quo sottolinea, inoltre, che nella sentenza n. 31 del 2012 questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 569 del codice penale, nella parte in cui prevedeva che, alla condanna dei genitori per il delitto di alterazione di stato, conseguisse in via automatica la perdita della potestà genitoriale, precludendo così al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore. Alla luce dei principi desumibili dalla normativa sovranazionale e nazionale e degli approdi giurisprudenziali, europei e interni, nonché delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie in tema di procreazione assistita, il giudice a quo sollecita una rinnovata riflessione sul tema della coincidenza tra favor veritatis e favor minoris. Il dubbio di legittimità costituzionale ha ad oggetto l’art. 263 cod. civ., nella parte in cui non consente di valutare il concreto interesse del minore a mantenere l’identità relazionale e lo status di una riconosciuta filiazione materna, impedendo, così, che tale interesse possa essere realizzato con l’ampiezza di tutele riconosciute da plurimi principi costituzionali. 2.5.– In primo luogo, è denunciata la violazione dell’art. 2 Cost., per la natura inviolabile del diritto del minore a non vedersi privato del nome, dell’identità personale e della stessa possibilità di avere una madre, mantenendo lo status filiationis nei confronti di colei che abbia effettuato il riconoscimento. In secondo luogo, la disposizione in esame contrasterebbe con l’art. 30 Cost., che riconosce e promuove, sia pure in via sussidiaria, accanto alla genitorialità biologica, una genitorialità sociale, fondata sul consenso e indipendente dal dato genetico. Di essa, in alcune situazioni problematiche, l’interesse del minore potrebbe giovarsi. Il riconoscimento della genitorialità sociale si accompagnerebbe, infatti, alle garanzie offerte al figlio dall’assunzione di responsabilità nei suoi confronti. La questione di legittimità costituzionale è sollevata anche in riferimento all’art. 31 Cost., che, con disposizione riassuntiva e generale, completa il quadro delle garanzie costituzionali dei rapporti familiari e dell’infanzia. L’impossibilità di valutare, in concreto, un interesse, che potrebbe non coincidere col favor veritatis, si porrebbe altresì in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., soprattutto alla luce dell’art. 9 della legge n. 40 del 2004 che, ancor prima della sentenza di questa Corte n. 162 del 2014, aveva comunque assicurato al bambino – nato attraverso fecondazione assistita di tipo eterologo – lo stato di figlio del coniuge o del convivente della donna che lo aveva partorito. A questo riguardo, il giudice a quo evidenzia che, nel nuovo assetto conseguente all’eliminazione del divieto di fecondazione eterologa, essendo esclusa la possibilità che il coniuge o il convivente del genitore naturale possano, rispettivamente, disconoscere la paternità del bambino, ovvero impugnare il relativo riconoscimento, sarebbe dubbia la legittimazione in capo al figlio in ordine alle azioni indicate. Infatti, un eventuale accertamento negativo della paternità legale non potrebbe comunque costituire la premessa per un successivo accertamento positivo della paternità biologica, stante la regola di cui all’art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004. In ogni caso, nell’impossibilità di valutare in concreto l’interesse del minore, lo status del bambino nato da surrogazione di maternità potrebbe risultare irragionevolmente diverso e sfavorevole rispetto a quello assicurato al minore nato attraverso il ricorso alla fecondazione eterologa. La Corte d’appello dubita della legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ., anche con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in situazioni riconducibili alla maternità surrogata. Sono richiamate, in particolare, le sentenze della Corte EDU del 26 giugno 2014 rese nei casi Mennesson contro Francia e Labassee contro Francia (ricorsi n. 65192 del 2011 e n. 65941 del 2011), nelle quali è stata affrontata la questione del rifiuto di riconoscere, in Francia, rapporti genitoriali stabiliti all’estero tra minori nati da maternità surrogata e le coppie che vi avevano fatto ricorso. In queste pronunce, la Corte di Strasburgo ha ritenuto violato l’art. 8 della CEDU con riferimento al diritto dei minori al rispetto della propria vita privata, quale diritto di ciascuno su ogni profilo della propria identità di essere umano. Ad avviso del giudice a quo, da tali sentenze discenderebbe per gli Stati contraenti l’obbligo positivo di tutelare l’identità personale del minore nato attraverso surrogazione di maternità, anche a prescindere dal legame biologico con i genitori intenzionali. Gli Stati membri del Consiglio d’Europa, se possono scoraggiare o vietare il ricorso alla maternità surrogata, non potrebbero, viceversa, rifiutare la trascrizione di un atto di nascita che assicura al minore il rispetto della sua vita privata, rispondendo tale trascrizione al suo best interest. In questo senso si porrebbe anche la sentenza della Corte EDU del 27 gennaio 2015, resa nel caso Paradiso e Campanelli contro Italia (ricorso n. 25358 del 2012). In un caso di maternità surrogata caratterizzato dall’assenza di legame biologico del minore con i genitori intenzionali, la Corte di Strasburgo ha ravvisato la violazione dell’art. 8 della CEDU nei provvedimenti relativi all’allontanamento del minore. La nozione di “vita familiare”, tutelabile ai sensi dell’art. 8 della CEDU, sarebbe estensibile alla relazione tra i genitori d’intenzione e il minore, ancorché costituita illegalmente secondo l’ordinamento nazionale. In questo modo, ad avviso del giudice a quo, la Corte di Strasburgo avrebbe svincolato la nozione giuridica di “vita familiare” dall’indefettibilità del legame genetico, ritenendola comprensiva di relazioni di fatto, la cui tutela corrisponde al preminente interesse del minore. 2.6.– Dopo avere ribadito che la questione in esame non concerne la liceità della pratica della surrogazione, ma i diritti del bambino nato attraverso tale pratica, il rimettente deduce che non vi sarebbe contrasto, rispetto all’ordine pubblico, del concreto interesse del minore. In particolare, tale contrasto non sarebbe ricavabile dal divieto di maternità surrogata di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, dovendosi avere riguardo all’ordine pubblico internazionale, in cui rileva l’esistenza di paesi, anche in Europa, che consentono il ricorso alla surrogazione di maternità. Il concetto di ordine pubblico dovrebbe essere perciò declinato con riferimento all’interesse del minore, secondo un principio ricavabile anche dal regolamento CE n. 2201/2003 del 27 novembre 2003 (Regolamento del Consiglio relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale). Tale regolamento, all’art. 23, prevede che, con riferimento alle decisioni relative alla responsabilità genitoriale, la valutazione della non contrarietà all’ordine pubblico debba essere effettuata tenendo conto del superiore interesse del figlio. 2.7.– Il giudice a quo ritiene che il dubbio di legittimità costituzionale non possa essere superato neppure dalla considerazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini. Tale diritto si realizzerebbe, infatti, su un piano diverso da quello dell’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ., a meno di non voler attribuire all’accertamento della non veridicità del riconoscimento la funzione di comunicazione della non-nascita dalla madre, in una logica latamente sanzionatoria della condotta genitoriale. Ciò andrebbe comunque a detrimento dell’interesse del minore al mantenimento di un rapporto giuridico corrispondente alla effettività della relazione con la persona che ha formulato il progetto familiare e che, dalla nascita del bambino, ne è madre. 3.– Nel giudizio dinanzi a questa Corte si è costituita A.L. C., parte appellante nel giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione sollevata dal giudice a quo. 3.1.– Dopo avere ripercorso le argomentazioni del giudice rimettente, la parte richiama i principi affermati nelle sentenze n. 158 del 1991, n. 112 del 1997 e n. 170 del 1999 ed osserva che, alla luce del mutato quadro giurisprudenziale e dell’evoluzione scientifica e tecnologica, che ha progressivamente ampliato le possibilità procreative delle coppie, si imporrebbe una nuova valutazione della legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. Si dovrebbe ritenere ormai superato il principio della necessaria preservazione del legame di filiazione veridico quale unico presupposto di tutela dell’interesse del minore. Sono richiamate, in particolare, la sentenza n. 162 del 2014, in materia di fecondazione eterologa, e le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di surrogazione di maternità. In queste pronunce la tutela del superiore interesse del minore non sarebbe più inscindibilmente connessa alla veridicità del rapporto di filiazione, in quanto biologicamente determinato, bensì alla conservazione del rapporto di filiazione “sociale”, ovvero “intenzionale”, imperniato sull’assunzione della responsabilità genitoriale. La parte evidenzia che, in tema di disconoscimento di paternità del bambino nato da procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, la Corte di cassazione, sin da epoca precedente alla legge n. 40 del 2004, si era già espressa nel senso che il favor veritatis abbia «una priorità non assoluta, ma relativa» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 marzo 1999, n. 2315). Occorrerebbe, dunque, una valutazione individualizzata dell’interesse del minore ed il superamento, sulla scorta del mutato contesto sociale e giurisprudenziale, dell’impostazione che ritiene salvaguardato tale interesse solo in presenza di un legame di filiazione veridico. 3.2.– Riguardo alla violazione dell’art. 2 Cost., la difesa della parte condivide i rilievi del giudice rimettente, richiamando in proposito la giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di diritto all’identità personale quale diritto inviolabile della persona umana, strettamente connesso al diritto di conservare il proprio status filiationis. La disposizione censurata sarebbe, altresì, lesiva del diritto al nome del minore, anch’esso protetto a norma dell’art. 2 Cost. 3.3.– L’art. 263 cod. civ. si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 3 Cost., per la condizione deteriore in cui si trova il bambino nato da maternità surrogata rispetto a quello nato attraverso fecondazione assistita di tipo eterologo. Solo in questo secondo caso, infatti, in presenza di donazione dei gameti, è preclusa al coniuge e al convivente del genitore naturale la proposizione dell’azione di disconoscimento e, rispettivamente, dell’impugnazione del riconoscimento. Tuttavia, anche con riferimento al bambino nato da maternità surrogata si porrebbe l’analoga esigenza di assicurare protezione al diritto costituzionale all’identità personale, nelle forme del diritto al nome e alla conservazione del proprio status filiationis. 3.3.1.– La norma sarebbe irragionevole anche per l’automatismo decisorio che si determinerebbe in caso di difetto di veridicità. Sia pure pronunciando su questioni di tipo diverso, la giurisprudenza costituzionale avrebbe chiarito come siffatti automatismi possono tradursi in un’irragionevole lesione dell’interesse del minore, in quanto preclusivi di uno scrutinio individualizzato, caso per caso, da parte del giudice. In particolare, in tema di adozione, tali principi hanno portato a ritenere irragionevoli – perché non rispondenti all’interesse del minore – le norme che stabilivano limiti rigidi di età tra adottanti e adottato (sono richiamate le sentenze n. 140 [recte: 44] del 1990, n. 148 del 1992, n. 303 del 1996 e n. 283 del 1999). Afferma la parte che, allo stesso modo, è stata ritenuta irragionevole l’applicazione automatica della pena accessoria della perdita di potestà genitoriale, a seguito della commissione del reato di cui all’art. 567 cod. pen., prevista dall’art. 569 cod. pen., che precludeva ogni possibilità di valutazione e bilanciamento tra l’interesse del minore e l’applicazione della pena accessoria, in ragione della natura e delle caratteristiche dell’episodio criminoso (sentenza n. 31 del 2012). Analogamente, l’art. 569 cod. pen. è stato censurato nella parte in cui stabiliva che, alla condanna pronunciata per il delitto di cui all’art. 566, secondo comma, cod. pen., conseguisse di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto (sentenza n. 7 del 2013). È richiamata, inoltre, la pronuncia con cui questa Corte ha censurato l’art. 4-bis, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui includeva nel divieto di concessione dei benefici penitenziari anche la detenzione domiciliare speciale, prevista per le madri con prole di età non superiore a dieci anni (sentenza n. 239 del 2014). Anche in questo caso, non era consentita una valutazione caso per caso della pericolosità della madre detenuta, al fine di tenere conto del superiore interesse del minore. Da ultimo, la difesa della parte richiama le pronunce che hanno censurato l’irragionevole rigidità della disposizione che negava al medico una valutazione del caso concreto sottoposto a trattamento medico, da effettuarsi sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche (sentenza n. 151 del 2009). Ad avviso della parte, anche in relazione all’art. 263 cod. civ. sarebbe ravvisabile un automatismo, consistente nell’accoglimento dell’impugnazione del riconoscimento ogniqualvolta sussista un difetto di veridicità. Anche a questa previsione sarebbe sottesa una presunzione assoluta, in base alla quale l’interesse del minore sarebbe adeguatamente tutelato soltanto quando venga assicurata la veridicità del legame di filiazione. Per eliminare tale irragionevolezza, dovrebbe essere consentita al giudice la valutazione degli effetti dell’accoglimento dell’impugnazione in relazione all’interesse del minore, in considerazione delle circostanze del caso concreto. 3.4.– Con riferimento alla violazione degli artt. 30 e 31 Cost., la difesa della parte privata, richiamandosi ai principi affermati nella sentenza n. 162 del 2014, sottolinea il valore da attribuire alla genitorialità sociale, dovendo riconoscersi tutela, anche di livello costituzionale, a nuclei familiari in cui difetti una corrispondenza biunivoca tra il dato biologico e quello sociale. Lo stesso legislatore, con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), avrebbe già fatto propria una nozione di responsabilità genitoriale improntata sul consenso liberamente assunto dai genitori nei confronti del figlio. In quanto finalizzata ad assicurare adeguata protezione all’interesse del minore, tale responsabilità dovrebbe prescindere dalla caratterizzazione biologica o sociale del rapporto di parentela. Al riguardo, la parte richiama la giurisprudenza di merito e di legittimità in tema di adozione da parte del single e della coppia omosessuale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 11 gennaio 2013, n. 601, e 22 giugno 2016, n. 12962; Corte d’appello di Torino, sentenza 27 maggio 2016); in materia di trascrizione di atti di nascita formati all’estero, dai quali risulti che il bambino è figlio di una coppia composta da persone dello stesso sesso (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599), ovvero è nato a seguito di maternità surrogata (Corte d’appello di Milano, decreto 28 dicembre 2016); nonché in tema di adozione, da parte del genitore sociale, del figlio biologico del proprio compagno, nato a seguito di surrogazione di maternità (Tribunale per i minorenni di Roma, sentenza 23 dicembre 2015). 3.5.– Da ultimo, quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 8 della CEDU, la difesa della parte evidenzia che nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo si rinviene l’affermazione della necessità di assicurare preminenza, nel bilanciamento tra interessi contrapposti, al superiore interesse del minore, attraverso uno scrutinio che poggi sulle circostanze del caso concreto. In tal senso, oltre alle già citate sentenze del 26 giugno 2014 rese nei casi Mennesson e Labassee contro Francia, è richiamata la sentenza della Grande camera del 6 luglio 2010, resa nel caso Neulinger e Shuruk contro Svizzera (ricorso n. 41615 del 2007), in cui la Corte ha ravvisato nell’omessa trascrizione del certificato di nascita formato all’estero la lesione del superiore interesse del bambino nato da surrogazione di maternità. Ad avviso della parte, la prospettiva si dovrebbe spostare dalla valutazione della situazione giuridica della coppia a quella del minore, meritevole di autonoma considerazione indipendentemente dalle condotte realizzate dai genitori, siano essi biologici, sociali o intenzionali. 3.5.1.– A conclusioni analoghe sarebbe inizialmente pervenuta la Corte EDU nella sentenza resa nel caso Paradiso e Campanelli contro Italia, sopra già citata. In tale pronuncia, la Corte di Strasburgo ha affermato il carattere recessivo delle esigenze di ordine pubblico rispetto alla necessaria salvaguardia del superiore interesse del minore, ravvisando nel caso concreto la violazione del suo diritto alla vita privata e familiare, in ragione dell’allontanamento dalla famiglia di origine. Peraltro, successivamente all’ordinanza di rimessione, è intervenuta la sentenza del 24 gennaio 2017 della Grande camera, la quale, nel riesaminare la decisione del 27 gennaio 2015, ha escluso la violazione dell’art. 8 della CEDU. In questa occasione, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che le misure adottate dalle autorità italiane, che avevano disposto l’allontanamento del minore dalla coppia ricorrente e il suo collocamento presso un diverso nucleo familiare, non abbiano arrecato allo stesso minore un pregiudizio grave o irreparabile a causa della separazione, garantendo un giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco. Ad avviso della parte, anche questa pronuncia confermerebbe la necessità di salvaguardare il superiore interesse del minore attraverso una valutazione individualizzata, avente ad oggetto le circostanze del caso concreto. In questo caso veniva in rilievo la conformità alla CEDU dell’allontanamento del minore dalla coppia ricorrente, con cui egli non intratteneva alcun legame biologico. Viceversa, osserva la parte privata, la pronuncia non atterrebbe né al rifiuto di trascrivere un certificato di nascita formato all’estero, né al diritto del minore a ottenere il riconoscimento del rapporto di filiazione con la coppia, ciò che invece riveste rilievo centrale nella questione in esame. Pertanto, resterebbero fermi i dubbi di non conformità della disposizione censurata rispetto all’art. 8 della CEDU. Essa precluderebbe, infatti, la valutazione individualizzata delle circostanze del caso e impedirebbe, altresì, di dare concretezza all’esigenza di tutela dell’interesse del minore. 3.5.2.– Più in generale, l’art. 263 cod. civ. sarebbe in contrasto con il quadro internazionale di tutela dei diritti dei minori e, in particolare, con gli artt. 3 e 8, paragrafo 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo. Nella stessa direzione si porrebbe anche l’azione del Consiglio d’Europa, con le Linee guida per una giustizia a misura di minore, cui si affianca la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli. Si evidenzia, altresì, che la tutela del superiore interesse del minore è riconosciuta dall’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 4.– Con atto depositato in data 10 febbraio 2017 si è costituita in giudizio l’avvocato Grazia Ofelia Cesaro, nella qualità di curatore speciale del minore L.F. Z., rappresentato e difeso dalla detta professionista, e ha chiesto l’accoglimento della questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano. 4.1.– Il curatore premette che l’azione dallo stesso proposta ai sensi dell’art. 263 cod. civ. è derivata dall’acquisizione della prova, nel corso del procedimento di adottabilità, che il figlio minore non è un discendente biologico di colei che lo ha riconosciuto. Il Tribunale per i minorenni ha pertanto provveduto alla nomina del curatore, conferendogli uno specifico mandato ad impugnare il riconoscimento. Il curatore evidenzia, in particolare, che sebbene gli accertamenti svolti dal Tribunale per i minorenni avessero confermato l’interesse del figlio minore a mantenere il legame familiare con la madre sociale (oltre che con il padre), tuttavia le norme che disciplinano la genitorialità non consentirebbero a madre e figlio di vedersi riconosciuto tale legame giuridico, laddove esso non corrisponda alla verità biologica. L’art. 263 cod. civ., infatti, contempla quale unico presupposto necessario e sufficiente per l’impugnazione del riconoscimento il difetto di veridicità, inteso come assenza di un legame biologico tra l’autore del riconoscimento e colui che è riconosciuto come figlio. Ciò precluderebbe al giudice ogni possibilità di valutazione e bilanciamento degli interessi coinvolti, in quanto l’inesistenza di tale legame biologico costituirebbe l’unica condizione per l’accoglimento dell’azione. Osserva il curatore che l’interesse del minore alla salvaguardia del proprio legame con la madre (ed indirettamente con la famiglia d’origine materna) potrebbe, in ipotesi, essere preservato solo mediante lo strumento di cui all’art. 44 della legge n. 184 del 1983, previa rimozione dell’attuale status filiationis per parte di madre. Tale possibilità sarebbe, tuttavia, del tutto aleatoria, non solo perchè dipendente dalla libera iniziativa del genitore sociale, ma anche perchè subordinata al consenso dell’altro genitore. Inoltre, l’eventuale legame così costituito sarebbe comunque più debole di quello derivante dalla maternità naturale, attese le peculiarità proprie dell’adozione in casi particolari. Rispetto all’interpretazione offerta dalla precedente sentenza n. 112 del 1997, sarebbe oggi necessario un riesame della questione, per riscontrare se, nell’attuale momento storico-sociale e nell’attuale panorama normativo e giurisprudenziale, sussista ancora la necessità di individuare nella verità del rapporto di filiazione un valore preminente, da tutelare in via prioritaria. 4.1.1.– In primo luogo, ad avviso del curatore, il principio secondo cui ogni falsa apparenza di stato deve cadere, così come il principio del favor veritatis, non assurgerebbero a valori costituzionalmente garantiti. L’art. 30 Cost. non avrebbe attribuito, infatti, un valore preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Al contrario, nel disporre, al quarto comma, che «[l]a legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità», la Costituzione avrebbe demandato al legislatore il potere di privilegiare la paternità legale rispetto a quella naturale, fissando le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima ed affidandogli la valutazione della soluzione più idonea per realizzare la coincidenza tra la discendenza naturale e quella biologica. L’interesse pubblico alla verità dello status di filiazione, dunque, non dovrebbe necessariamente ed automaticamente prevalere sull’interesse del minore. Anche la normativa interna ed internazionale, oltre ad avere posto il minore al centro dei procedimenti promossi a sua tutela, avrebbe altresì prescritto l’obbligo di verificare l’interesse del minore, affinché lo stesso possa essere oggetto di bilanciamento con gli altri interessi meritevoli di tutela. In particolare, nella mutata coscienza sociale, tra gli interessi giuridici del minore rileverebbero l’interesse alla stabilità dei legami familiari e quello a vivere e crescere all’interno della propria famiglia. In tal senso, sia la legge n. 219 del 2012, sia il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), avrebbero introdotto nuovi termini di decadenza ed imposto limiti più stringenti al potere dei genitori di agire per il disconoscimento del figlio, così come per l’impugnazione del riconoscimento, per l’acquisita consapevolezza che la tutela dell’identità e della vita personale e familiare del minore non sempre coinciderebbe con la rimozione di uno status personale non conforme alle origini biologiche. Le modifiche legislative avrebbero posto al centro del rapporto di filiazione il concetto di responsabilità genitoriale, ridisegnando la disciplina delle azioni di disconoscimento di paternità e di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, nella prospettiva della prevalenza dell’interesse del figlio alla stabilità del rapporto. D’altra parte, anche la giurisprudenza di legittimità avrebbe riconosciuto il rilievo delle relazioni consolidatesi nel tempo tra genitore e figlio, alla luce del diritto di quest’ultimo a conservare tale profilo che caratterizza fin dalla nascita l’identità personale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962). Il curatore evidenzia, inoltre, che la più recente giurisprudenza di merito ha esteso la portata applicativa dell’art. 9 della legge n. 40 del 2004, dichiarando l’illegittimità dell’azione di impugnazione del riconoscimento intrapresa da terzi nei confronti di un figlio minore nato da fecondazione eterologa, così estendendo «a chiunque vi abbia interesse» il divieto di disconoscimento previsto solo nei confronti dell’autore del riconoscimento (Corte d’appello di Milano, sentenza 10 agosto 2015, n. 3397). Alla luce di tale evoluzione giurisprudenziale, che attenua il principio della prevalenza della verità biologica, andrebbe escluso pertanto che il favor veritatis costituisca valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da affermarsi comunque. L’intervento correttivo auspicato si porrebbe in linea di continuità con la giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto illegittimo ogni automatismo legislativo che impedisca di bilanciare gli interessi tutelati con il preminente interesse del minore (è richiamata la sentenza n. 31 del 2012). La necessità di tale bilanciamento sarebbe stata riconosciuta anche dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, nella sentenza del 25 gennaio 2017, n. 1946, che ha fatto seguito alla sentenza n. 278 del 2013 di questa Corte, in cui sarebbe stato affermato il diritto del figlio di accedere alle informazioni sulla madre che si fosse avvalsa della facoltà di non essere nominata. 4.1.2.– Anche a livello europeo, si dovrebbe constatare la progressiva perdita di rilievo della verità di sangue e l’emersione del rapporto affettivo della filiazione, quale elemento fondamentale per il riconoscimento dei legami tra genitori e figli sul piano del diritto; sono richiamate le sentenze della Corte di Strasburgo 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti contro Italia (ricorso 16318 del 2007), e 1° aprile 2010, S.H. ed altri contro Austria (ricorso n. 57813 del 2000). Inoltre, la legge 19 ottobre 2015, n. 173 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare) farebbe propri i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte EDU, agevolando l’attribuzione di rilievo giuridico al rapporto di fatto instaurato tra i minori dichiarati adottabili e la famiglia affidataria. L’interesse alla costituzione e alla conservazione dei legami familiari, non necessariamente coincidente con la verità delle origini biologiche, sarebbe riconosciuto quale criterio di valutazione centrale e riguarderebbe ormai anche i soggetti maggiorenni. Al riguardo, è richiamata l’ordinanza del Tribunale di Firenze 30 luglio 2015 che ha rigettato un’istanza di accertamento della non corrispondenza del DNA del presunto padre defunto con quello della figlia maggiorenne, al fine di proporre l’azione di cui all’art. 263 cod. civ. Ed invero, la tendenza a far prevalere i valori costituzionali di solidarietà e di tutela dell’individuo e della vita familiare sarebbe ravvisabile in ogni settore del diritto di famiglia. È richiamata, al riguardo, la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 21 aprile 2015, n. 8097, con cui è stata ritenuta invalida l’annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, rispetto ad una coppia in cui uno dei coniugi aveva ottenuto, con il consenso dell’altro, la rettificazione di sesso. 4.2.– Sulla base di tali considerazioni, dunque, il curatore ritiene fondati gli argomenti svolti dall’ordinanza di rimessione. 4.2.1.– Riguardo al contrasto con l’art. 2 Cost., il curatore sottolinea come l’esigenza di tutelare il diritto del figlio minore alla propria identità sia stata affermata sin dalla sentenza n. 112 del 1997. In tale pronuncia sarebbe stata esclusa una contrapposizione tra il favor veritatis ed il favor minoris, intendendo così far coincidere l’identità del minore con la sola discendenza genetica dello stesso. Si tratterebbe, tuttavia, di un’interpretazione oltremodo restrittiva ed impropria del concetto di identità personale, non più conforme all’attuale coscienza sociale. L’identità personale, infatti, sarebbe un concetto dinamico, non cristallizzato al momento del concepimento. Essa si svilupperebbe nel tempo, per effetto delle relazioni create con il mondo esterno, del nome e del cognome scelto dai genitori alla nascita, dell’appartenenza al luogo dove si cresce, della propria storia, cultura e tradizioni e, soprattutto, dei genitori e delle rispettive famiglie d’origine, che condizionano il processo di crescita. Anche la Corte di cassazione, di recente, avrebbe condiviso questi principi, riconoscendo la risarcibilità del danno arrecato dal padre al figlio a causa dell’esperimento dell’azione di cui all’art. 263 cod. civ. In tale occasione, si è affermato che l’identità, come tutti i diritti della personalità, «si rafforza e si consolida con il passare del tempo. Pertanto, maggiore è il lasso di tempo intercorso tra il riconoscimento e l’impugnazione per difetto di veridicità, maggiore sarà la lesione che ne discende al diritto all’identità personale» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 31 luglio 2015, n. 16222). D’altra parte, la rimozione dello status filiationis, ai sensi dell’art. 263 cod. civ., non garantirebbe affatto l’acquisizione di una genitorialità corrispondente a verità. Il genitore biologico potrebbe, infatti, rifiutare il riconoscimento, quest’ultimo potrebbe essere contrario all’interesse del minore, oppure, come accade nei casi di maternità surrogata, il genitore biologico potrebbe essere non identificabile. In tali circostanze sarebbe leso anche il diritto del minore alla bigenitorialità, diritto riconosciuto come preminente dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli). 4.2.2.– In riferimento all’art. 3 Cost., il curatore rileva che l’esigenza di bilanciare l’interesse del minore con il pubblico interesse alla certezza degli status sarebbe stata affermata dal legislatore in tutte le azioni in materia di riconoscimento dei figli (artt. 250, 251 e 269 cod. civ.). Se in tali azioni, tese ad estendere i legami di filiazione del minore, è stata ritenuta necessaria la valutazione dell’interesse del medesimo, non si comprenderebbe perché essa non possa compiersi anche nelle azioni il cui accoglimento comporta la rescissione di tali legami e quindi l’impoverimento delle relazioni familiari del minore. 4.2.3.– Quanto al contrasto con gli artt. 30 e 31 Cost., il curatore deduce che, nei giudizi di accertamento del rapporto di filiazione, la prevalenza incondizionata del favor veritatis sarebbe stata messa in dubbio dalla giurisprudenza. Al riguardo, si fa rilevare che gli artt. 30 e 31 Cost. riconoscono che la ricerca della filiazione biologica può incontrare dei limiti, derivanti dalla necessità di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente garantiti, primo fra tutti l’interesse del minore. La preminenza del favor veritatis non sarebbe espressione di valori costituzionali, bensì il portato di una concezione arretrata e formalistica dei rapporti familiari, ormai estranea al comune sentire. 4.2.4.– Da ultimo, quanto al contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., il curatore osserva che l’art. 8 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, imporrebbe in via prioritaria al legislatore nazionale di tutelare il legame di filiazione, ancorché originato attraverso pratiche ritenute illecite dall’ordinamento nazionale. Non potrebbe, dunque, ritenersi giustificata una previsione legislativa, come quella censurata, che impone la rimozione dello status filiationis, precludendo ogni valutazione circa la corrispondenza di questa decisione all’interesse del minore. In ciò sarebbe ravvisabile un eccesso di discrezionalità legislativa. Di converso, laddove è in gioco il best interest of the child e la tutela della sua identità, il margine di tale discrezionalità sarebbe strettissimo, dovendosi ispirare alla promozione della persona del minore (oltre alle già citate sentenze 26 giugno 2014, Mennesson contro Francia e Labassee contro Francia, è richiamata la sentenza della Grande camera 10 aprile 2007, Evans contro Regno Unito, ricorso n. 2346 del 2002). Viceversa, l’art. 263 cod. civ. tradirebbe tale scopo. Esso sacrificherebbe ogni considerazione centrata sulla persona del minore ad un presunto interesse pubblico alla verità biologica della procreazione, violando anche i principi desumibili dalle convenzioni internazionali che l’Italia ha sottoscritto, prima tra tutte la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, nonché la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il curatore deduce che, nella giurisprudenza della Corte EDU, la sussistenza di legami familiari sarebbe legata all’esistenza, anche solo nei fatti, di stretti vincoli affettivi (Grande camera, sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio, ricorso n. 6833 del 1974), a prescindere dalla loro qualificazione giuridica formale, ed anzi, talvolta, anche se la legge nazionale rifiuti di riconoscerli (Grande camera, sentenza 27 ottobre 1994, Kroon ed altri contro Paesi Bassi, ricorso n. 18535 del 1991, e sentenza 22 aprile 1997, X, Y e Z contro Regno Unito, ricorso n. 21830 del 1993). Nella nozione di vita familiare, da proteggersi ai sensi dell’art. 8 della CEDU, rientrerebbe il legame tra il figlio ed il genitore, anche se tale relazione non ha presupposti biologici, ma solo affettivi (Prima sezione, sentenza 16 luglio 2015, Nazarenko contro Russia, ricorso n. 39438 del 2013). Il rapporto di filiazione sarebbe espressione della vita privata o, come nel caso che ha dato origine al presente giudizio, espressione di vita familiare. Ciò sarebbe confermato dalla stessa posizione del Governo italiano, espressa di fronte alla Corte EDU nel caso Paradiso e Campanelli, laddove è stata ammessa la possibilità di una vita familiare de facto, anche in assenza di legame biologico con entrambi i genitori. Ove il legame biologico sussista solo nei confronti di un genitore (come nel caso in esame) si potrà invocare l’art. 8 della CEDU, nell’accezione di “vita familiare”. Laddove tale legame non sussista, la protezione della filiazione “sociale” dovrebbe essere riconosciuta quale declinazione della “vita privata” del minore. 5.– Nel giudizio innanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata. 5.1.– La difesa statale ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità della questione, in quanto volta ad inserire, attraverso una pronuncia additiva, una condizione esclusiva (l’interesse del minore) ai fini dell’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale. Spetterebbe, viceversa, al legislatore stabilire se l’accoglimento di tale impugnazione debba essere subordinato unicamente all’interesse del minore all’appartenenza familiare. 5.2.– Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata. La ratio dell’art. 263 cod. civ., quale strumento di tutela dell’interesse superiore alla corrispondenza tra realtà naturale e verità apparente, sarebbe quella di far cadere il riconoscimento non rispondente al vero. Verrebbe in rilievo, quindi, l’interesse oggettivo dell’ordinamento alla verità dello status di filiazione, attinente a principi di ordine pubblico, intesi come principi fondamentali ed irrinunciabili. Ad avviso della difesa statale, il principio del favor veritatis esprime un’esigenza di certezza nei rapporti di filiazione e la protezione dell’interesse del minore si realizzerebbe proprio nel riconoscimento del diritto alla propria identità (sono richiamate la sentenza n. 112 del 1997 e l’ordinanza n. 7 del 2012). La ratio dell’art. 263 cod. civ. consisterebbe nell’attuazione del diritto del minore all’acquisizione di uno stato corrispondente alla realtà biologica, ovvero, qualora ciò non sia possibile, di uno stato corrispondente a quello di figlio legittimo, ma solo attraverso le garanzie offerte dalla disciplina dell’adozione. Non sarebbe, dunque, ravvisabile alcun contrasto con l’art. 2 Cost., perché lo scioglimento dei vincoli assunti dal genitore verso il preteso figlio realizzerebbe l’interesse oggettivo dell’ordinamento alla verità dello status. Non potrebbero ritenersi lesi neppure i principi di cui agli artt. 30 e 31 Cost. Essi non sarebbero invocabili laddove il legame familiare venga meno, in quanto privato del fondamento della verità della filiazione naturale. Inoltre, non sarebbe ravvisabile alcun contrasto con l’art. 3 Cost. e quindi con il principio di ragionevolezza, perché l’art. 263 cod. civ. sarebbe giustificato dalla superiore esigenza di far cadere ogni falsa apparenza di status. Infine, non sussisterebbe neppure la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, non essendo in discussione la tutela della vita privata del minore, ma il suo diritto alla identità personale, sotto il profilo del legame di filiazione. 5.3.– Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la questione sarebbe manifestamente infondata, non ravvisandosi nella considerazione del favor veritatis una ragione di conflitto con il favor minoris. La verità biologica della procreazione costituisce, infatti, una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, dovendo essergli garantito il diritto alla propria identità e all’affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze n. 216 e n. 112 del 1997). L’intangibilità dello status sarebbe recessiva rispetto a tale diritto, laddove venga meno la corrispondenza alla verità biologica (sentenza n. 170 del 1999). 6.– In prossimità dell’udienza pubblica, il curatore speciale ha depositato una memoria integrativa in cui, dopo avere ribadito gli argomenti già illustrati nelle precedenti difese, ha sottolineato che la mancata previsione della valutazione dell’interesse del minore impedirebbe di tener conto che, nel caso in esame, tale interesse è stato, in parte, già accertato dal Tribunale per i minorenni con la sentenza che ha dichiarato non luogo a provvedere sull’adottabilità. Il curatore speciale ritiene, peraltro, che una volta ricevuto il mandato dal medesimo Tribunale, egli non avrebbe potuto astenersi dallo svolgere tale incarico. 6.1.– In riferimento all’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, relativa all’incidenza che un’eventuale pronuncia di accoglimento avrebbe sulla discrezionalità del legislatore, si osserva che in questo caso è richiesta alla Corte l’eliminazione di un automatismo normativo che impedisce un bilanciamento tra gli interessi in gioco, ciò che rientrerebbe pienamente nelle sue attribuzioni. D’altra parte, interventi additivi della giurisprudenza costituzionale sarebbero frequenti proprio in materia di tutela d’interesse del minore (sono richiamate le sentenze n. 7 del 2013, n. 31 del 2012, n. 50 del 2006 e n. 297 del 1996). 6.2.– Da ultimo, il curatore speciale contesta che, nel nostro ordinamento, vi sia una necessaria coincidenza tra interesse del minore e favor veritatis. Ogni rigidità e automatismo in tal senso, anzi, potrebbero risultare pregiudizievoli per il minore. È richiamata, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 22 dicembre 2016, n. 26767, che ha ritenuto essenziale il bilanciamento tra gli interessi in gioco, in considerazione del superamento della concezione della famiglia su base essenzialmente genetica. D’altra parte, un distacco tra identità genetica e identità giuridica sarebbe alla base proprio della disciplina dell’adozione, la quale costituisce espressione di un principio di responsabilità di chi sceglie di essere genitore, facendo sorgere nel figlio “desiderato” un legittimo affidamento sulla continuità della relazione. Il curatore evidenzia che – a conferma del riconoscimento della valenza del genitore sociale – la stessa giurisprudenza costituzionale ha richiamato proprio l’istituto dell’adozione. Nella sentenza n. 162 del 2014 si sottolinea, infatti, che esso mira a garantire una famiglia ai minori, evidenziando che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa». Considerato in diritto 1.– Nel corso di un procedimento di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, la Corte d’appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. La disposizione è censurata nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso. 2.– Secondo la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio incidentale, la questione sarebbe inammissibile in quanto volta ad inserire, attraverso una pronuncia additiva, una condizione esclusiva (l’interesse del minore) ai fini dell’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale. Spetterebbe, viceversa, al legislatore stabilire se l’accoglimento di tale impugnazione debba essere subordinato all’interesse del minore all’appartenenza familiare. L’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento. Al riguardo, va rilevato che il petitum del rimettente è volto al riconoscimento della possibilità di valutare l’interesse del minore, ai fini della decisione sull’impugnazione del riconoscimento. Ove si neghi tale possibilità, l’accoglimento della domanda rimarrebbe condizionato soltanto all’accertamento della non veridicità del riconoscimento. In definitiva, attraverso l’intervento invocato, è denunciata l’irragionevolezza di un automatismo decisorio che impedirebbe di tenere conto degli interessi in gioco. Il sindacato di legittimità rimesso a questa Corte è limitato, pertanto, alla verifica del fondamento costituzionale del denunciato meccanismo decisorio, senza alcuna interferenza sul contenuto di scelte discrezionali rimesse al legislatore. 3.– Sempre in via preliminare, occorre delimitare l’ambito dell’indagine che il giudice intende rimettere alla Corte in questa occasione. Secondo questa prospettazione, il giudizio a quo ha per oggetto l’accertamento dell’inesistenza del rapporto di filiazione di un minore nato attraverso il ricorso alla surrogazione di maternità realizzata all’estero. Non è tuttavia in discussione la legittimità del divieto di tale pratica, previsto dall’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), e nemmeno la sua assolutezza. Risulta parimenti estraneo alla odierna questione di legittimità costituzionale il tema dei limiti alla trascrivibilità in Italia di atti di nascita formati all’estero. La questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano ha per oggetto, infatti, la disciplina dell’azione di impugnazione prevista dall’art. 263 cod. civ., volta a rimuovere lo stato di figlio, già attribuito al minore per effetto del riconoscimento, in considerazione del suo difetto di veridicità. 4.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. non è fondata. Nell’interpretazione fatta propria dal rimettente la norma censurata si porrebbe in contrasto con i principi di cui agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., poiché, nel giudizio di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale, essa non consentirebbe di tenere conto, in concreto, dell’interesse del minore «a vedersi riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita». Tuttavia, siffatta interpretazione non può essere condivisa, neppure nei casi nei quali il legislatore imponga di non pretermettere la verità. 4.1.– Pur dovendosi riconoscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione, va escluso che quello dell’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento. Ed invero, l’attuale quadro normativo e ordinamentale, sia interno, sia internazionale, non impone, nelle azioni volte alla rimozione dello status filiationis, l’assoluta prevalenza di tale accertamento su tutti gli altri interessi coinvolti. In tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’interpretazione delle disposizioni da applicare al caso in esame. 4.1.1.– A questo riguardo va preliminarmente osservato che la disposizione dell’art. 263 cod. civ. è stata censurata dal rimettente nella versione, applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche apportate dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219). In particolare, l’art. 28 del medesimo d.lgs., in vigore dal 7 febbraio 2014, nel modificare l’art. 263 cod. civ., ha limitato l’imprescrittibilità dell’azione esclusivamente a quella esercitata dal figlio. Analoga previsione è stata inserita – con riferimento all’azione di disconoscimento di paternità – nell’art. 244, quinto comma, cod. civ., nel testo introdotto dall’art. 18, primo comma, del d.lgs. n. 154 del 2013. Gli altri legittimati, laddove intendano proporre le suddette azioni di contestazione degli status, sono ora tenuti a rispettare i termini di decadenza previsti dalla nuova disciplina. Il legislatore delegato ha così garantito, senza limiti di tempo, l’interesse primario ed inviolabile dei figli all’accertamento della propria identità e discendenza biologica. Per converso, la previsione di termini di decadenza per gli altri legittimati ha circoscritto entro rigorosi limiti temporali l’esperibilità delle azioni demolitorie dello status filiationis, assicurando così tutela al diritto del figlio alla stabilità dello status acquisito. La necessità del bilanciamento dell’interesse del minore con il pubblico interesse alla certezza degli status è, altresì, espressamente prevista dal legislatore nelle azioni in materia di riconoscimento dei figli (artt. 250 e 251 cod. civ.), volte all’estensione dei legami parentali del minore. 4.1.2.– D’altra parte, già l’art. 9 della legge n. 40 del 2004 aveva escluso che il coniuge o il convivente che abbiano acconsentito al ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo potessero promuovere l’azione di disconoscimento o impugnare il riconoscimento ai sensi dell’art. 263 cod. civ. Al riguardo questa Corte ha ritenuto «confermata sia l’inammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità […] e dell’impugnazione ex art. 263 cod. civ. (nel testo novellato dall’art. 28 del d.lgs. n. 154 del 2013), sia che la nascita da PMA di tipo eterologo non dà luogo all’istituzione di relazioni giuridiche parentali tra il donatore di gameti ed il nato, essendo, quindi, regolamentati i principali profili dello stato giuridico di quest’ultimo» (sentenza n. 162 del 2014). Anche in questo caso, in un’ipotesi di divergenza tra genitorialità genetica e genitorialità biologica, il bilanciamento è stato effettuato dal legislatore attribuendo la prevalenza al principio di conservazione dello status filiationis. 4.1.3.– Proprio al fine di garantire tutela al bambino concepito attraverso fecondazione eterologa, sin da epoca antecedente alla legge n. 40 del 2004, questa Corte – senza mettere in discussione la legittimità di tale pratica, «né […] il principio di indisponibilità degli status nel rapporto di filiazione, principio sul quale sono suscettibili di incidere le varie possibilità di fatto oggi offerte dalle tecniche applicate alla procreazione» – si è preoccupata «invece di tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali. Preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato […], non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima – in base all’art. 2 della Costituzione – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare» (sentenza n. 347 del 1998). 4.1.4.– Come evidenziato dallo stesso rimettente in riferimento alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., anche il quadro europeo ed internazionale di tutela dei diritti dei minori evidenzia la centralità della valutazione dell’interesse del minore nell’adozione delle scelte che lo riguardano. Tale principio ha trovato la sua solenne affermazione dapprima nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, in forza della quale «[i]n tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente» (art. 3, paragrafo 1). Nella stessa direzione si pongono la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77, e le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il 17 novembre 2010, nella 1098ª riunione dei delegati dei ministri. Infine, l’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sancisce il principio per il quale «[i]n tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente». D’altra parte, pur in assenza di un’espressa base testuale, la garanzia dei best interests of the child è stata riportata, nell’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, sia all’art. 8, sia all’art. 14 della CEDU. Ed è proprio in casi di surrogazione di maternità, nel valutare il rifiuto di trascrizione degli atti di nascita nei registri dello stato civile francese, che la Corte di Strasburgo ha affermato che il rispetto del migliore interesse dei minori deve guidare ogni decisione che li riguarda (sentenze del 26 giugno 2014, rese nei casi Mennesson contro Francia e Labassee contro Francia, ricorsi n. 65192 del 2011 e n. 65941 del 2011). 4.1.5.– Va altresì rammentato che, in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte EDU, la legge 19 ottobre 2015, n. 173 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare) ha valorizzato l’interesse del minore alla conservazione di legami affettivi che sicuramente prescindono da quelli di sangue, attraverso l’attribuzione di rilievo giuridico ai rapporti di fatto instaurati tra il minore dichiarato adottabile e la famiglia affidataria. D’altra parte, il distacco tra identità genetica e identità legale è alla base proprio della disciplina dell’adozione (legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Diritto del minore ad una famiglia»), quale espressione di un principio di responsabilità di chi sceglie di essere genitore, facendo sorgere il legittimo affidamento sulla continuità della relazione. 4.1.6.– Anche la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto, da tempo, l’immanenza dell’interesse del minore nell’ambito delle azioni volte alla rimozione del suo status filiationis (sentenze n. 112 del 1997, n. 170 del 1999 e n. 322 del 2011; ordinanza n. 7 del 2012). In tale giurisprudenza si trovano affermazioni sul particolare valore della verità biologica. Tuttavia – diversamente da quanto ritiene il giudice a quo – essa non ha affatto negato la possibilità di valutare l’interesse del minore nell’ambito delle azioni demolitorie del rapporto di filiazione. È stato riconosciuto che la verità biologica della procreazione costituisce «una componente essenziale» dell’identità personale del minore, la quale concorre, insieme ad altre componenti, a definirne il contenuto. Pertanto, nell’auspicare una «tendenziale corrispondenza» tra certezza formale e verità naturale, si è riconosciuto che anche l’accertamento della verità biologica fa parte della complessiva valutazione rimessa al giudice, alla stregua di tutti gli altri elementi che, insieme ad esso, concorrono a definire la complessiva identità del minore e, fra questi, anche quello, potenzialmente confliggente, alla conservazione dello status già acquisito. Costituisce infatti «compito precipuo del tribunale per i minorenni, […] verificare se la modifica dello status del minore risponda al suo interesse e non sia per lui di pregiudizio; così come contemporaneamente occorre anche verificare, sia pure con sommaria delibazione, la verosimiglianza del preteso rapporto di filiazione, dovendosi garantire il diritto del minore alla propria identità» (sentenza n. 216 del 1997, sulla previgente disciplina dell’azione di disconoscimento della paternità, di cui agli artt. 273 e 274 cod. civ.). Nell’evoluzione normativa e ordinamentale del concetto di famiglia, a conferma del rilievo giuridico della genitorialità sociale, ove non coincidente con quella biologica, vi è anche l’espresso riconoscimento, da parte di questa Corte, che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa» (sentenza n. 162 del 2014). 4.1.7.– L’esigenza di operare un’adeguata comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti e, in particolare, del minore, è stata recentemente riconosciuta anche dalla Corte di cassazione, con riferimento all’azione di disconoscimento della paternità. La giurisprudenza di legittimità ha escluso, infatti, che il favor veritatis costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Nel disporre, al quarto comma, che «[l]a legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità», l’art. 30 Cost. ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 30 maggio 2013, n. 13638; 22 dicembre 2016, n. 26767; e 3 aprile 2017, n. 8617). 4.2.– È alla luce di tali principi, immanenti anche nel mutato contesto normativo e ordinamentale, che si pone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. L’affermazione della necessità di considerare il concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano è fortemente radicata nell’ordinamento sia interno, sia internazionale e questa Corte, sin da epoca risalente, ha contribuito a tale radicamento (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2013, n. 31 del 2012, n. 283 del 1999, n. 303 del 1996, n. 148 del 1992 e n. 11 del 1981). Non si vede conseguentemente perché, davanti all’azione di cui all’art. 263 cod. civ., fatta salva quella proposta dallo stesso figlio, il giudice non debba valutare: se l’interesse a far valere la verità di chi la solleva prevalga su quello del minore; se tale azione sia davvero idonea a realizzarlo (come è nel caso dell’art. 264 cod. civ.); se l’interesse alla verità abbia anche natura pubblica (ad esempio perché relativa a pratiche vietate dalla legge, quale è la maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane) ed imponga di tutelare l’interesse del minore nei limiti consentiti da tale verità. Vi sono casi nei quali la valutazione comparativa tra gli interessi è fatta direttamente dalla legge, come accade con il divieto di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa. In altri il legislatore impone, all’opposto, l’imprescindibile presa d’atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata. Ma l’interesse del minore non è per questo cancellato. La valutazione del giudice è presente, del resto, nello stesso procedimento previsto dall’art. 264 cod. civ., volto alla nomina del curatore speciale del figlio minore, laddove l’azione di contestazione dello status sia esercitata nel suo interesse. È anche in questa sede, infatti, che il legislatore – sia pure con i limiti derivanti dalla natura camerale del procedimento – ha affidato al giudice specializzato il compito di valutare, ancor prima dell’instaurazione dell’azione, l’interesse del minore all’assunzione di tale iniziativa giudiziale. 4.3.– Se dunque non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’interesse del minore, va parimenti escluso che bilanciare quell’esigenza con tale interesse comporti l’automatica cancellazione dell’una in nome dell’altro. Tale bilanciamento comporta, viceversa, un giudizio comparativo tra gli interessi sottesi all’accertamento della verità dello status e le conseguenze che da tale accertamento possano derivare sulla posizione giuridica del minore. Si è già visto come la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi debba tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso. Tra queste, oltre alla durata del rapporto instauratosi col minore e quindi alla condizione identitaria già da esso acquisita, non possono non assumere oggi particolare rilevanza, da un lato le modalità del concepimento e della gestazione e, dall’altro, la presenza di strumenti legali che consentano la costituzione di un legame giuridico col genitore contestato, che, pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l’adozione in casi particolari, garantisca al minore una adeguata tutela. Si tratta, dunque, di una valutazione comparativa della quale, nel silenzio della legge, fa parte necessariamente la considerazione dell’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, sollevata dalla Corte d’appello di Milano, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 novembre 2017. F.to: Paolo GROSSI, Presidente Giuliano AMATO, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 18 dicembre 2017. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 4110 del 2016, proposto da: So. Az. Ge. Ae. To. - S.A. S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati En. So., ed altri, con domicilio eletto presso lo studio Enr. So. in Roma, via (...); contro Al. S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Ro. In. e Ma. Pr., con domicilio eletto presso lo studio Ma. Pr. in Roma, via (...); Si. S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Pr. e Ro. In., con domicilio eletto presso lo studio Ma. Pr. in Roma, via (...); nei confronti di In. Se. Se. Vi. - I.S. S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avvocato Pa. Ma., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale (...)2; Te. Vi. S.p.a., non costituita in giudizio; Ci. De. S.r.l., non costituita in giudizio; nonché sul ricorso in appello numero di registro generale 5833 del 2016, proposto da: In. Se. Se. Vi. - I.S. S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Pa. Ma. e Lu. Va., con domicilio eletto presso lo studio Pa. Ma. in Roma, viale (...); contro Al. S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Ro. In. e Ma. Pr., con domicilio eletto presso lo studio Ma. Pr. in Roma, via (...); Si. S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Pr. e Ro. In., con domicilio eletto presso lo studio Ma. Pr. in Roma, via (...); So. Az. Ge. Ae. To. - S.A. S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati En. So., ed altri, con domicilio eletto presso lo studio En. So. in Roma, via (...); Te. Vi. Spa, non costituita in giudizio; Ci. De. S.r.l., non costituita in giudizio; per la riforma sia quanto al ricorso n. 5833 del 2016, sia quanto al ricorso n. 4110 del 2016: della sentenza del T.a.r. Piemonte - Torino, Sezione I, n. 00677/2016, resa tra le parti, depositata il 13 maggio 2016, concernente l'aggiudicazione del servizio di controllo sicurezza di passeggeri e bagagli nell'Aeroporto di Torino per quarantasei mesi; Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio delle imprese Al. S.p.a. e Si. S.p.a., della In. Se. Se. Vi. - I.S. S.p.a. e della So. Az. Ge. Ae. To. - Sa. S.p.a.; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 febbraio 2017 il Cons. Paolo Troiano e uditi per le parti gli avvocati So., In. e Ma.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.1.Con ricorso proposto dinanzi al T.a.r. per il Piemonte le imprese Al. S.p.a. e Si. S.p.a. (nel prosieguo Al. e Si.) chiedevano l'annullamento dell'atto 2 novembre 2015, prot. 2015/2435, di aggiudicazione in favore dell'impresa In. Se. Se. Vi. - I.S. S.p.a. (nel prosieguo IS.) del servizio di controllo di sicurezza di passeggeri e bagagli nell'Aeroporto di Torino per "quarantasei mesi"; nonché: dell'avviso di aggiudicazione 2 novembre 2015, prot. 2015/2437; della lettera di aggiudicazione 2 novembre 2015, prot. 2015/2436; dei verbali di gara e del "verbale di verifica offerte anormalmente basse congruità dell'offerta"; oltre agli atti presupposti, consequenziali o comunque connessi, inclusi il bando, il capitolato d'appalto e il disciplinare, l'atto di nomina della Commissione di gara 16 settembre 2015, prot. 2015/2071, l'atto di nomina della Commissione tecnica 17 settembre 2015, prot. 2015/2072, il verbale del Consiglio di amministrazione di SA. 23 luglio 2015 n. 8 e tutti gli atti successivamente adottati, anche non noti alle ricorrenti. In particolare, le società Al. e Si., in quanto costituende in raggruppamento temporaneo di imprese, impugnavano gli atti relativi alla gara ad evidenza pubblica, bandita nel 2015 dalla So. Az. Ge. Ae. To.- S.A. s.p.a. (nel prosieguo SA.), per l'affidamento del predetto servizio, gara per la quale era stato stabilito il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, esponendo che la gara, dopo apposita verifica della non anomalia di alcune delle offerte presentate, si era conclusa con l'aggiudicazione in favore della IS., prima classificata con il punteggio complessivo di 97,82 punti, mentre il raggruppamento delle ricorrenti si era piazzato al terzo posto con 89,68 punti, alle spalle del raggruppamento secondo classificato formato dalle imprese Te. Vi. s.p.a. e Ci. De. s.r.l. con punteggio di 94,26 punti. Le ricorrenti domandavano l'annullamento, previa sospensione cautelare, degli atti impugnati, argomentando in via principale l'illegittimità dell'ammissione in gara delle prime due concorrenti in graduatoria (ciò, sia per vizi inerenti ai necessari requisiti soggettivi di partecipazione, sia per allegata anomalia delle offerte di entrambe le controinteressate a causa del mancato rispetto del costo orario della manodopera) per ottenere l'affidamento in loro favore (con domanda di caducazione del contratto di appalto eventualmente stipulato, insieme alla condanna dell'amministrazione aggiudicatrice in forma specifica o, in subordine, per equivalente), ed in via subordinata sollevando alcuni vizi di legittimità afferenti alla nomina della commissione di gara, in vista del soddisfacimento del proprio interesse strumentale alla ripetizione della procedura. Si costituivano in giudizio la SA. e la controinteressata IS., entrambe depositando documenti e chiedendo, previa articolata disamina delle avversarie censure, il rigetto del gravame. Con la sentenza appellata il tribunale adito accoglieva il ricorso giudicandolo fondato con riguardo sia alla censura concernente l'oggettiva non idoneità dell'offerta avanzata dall'aggiudicataria IS. (primo motivo), sia alla censura (di cui al quarto motivo) sul giudizio di non anomalia riguardante i ribassi offerti dalle prime due classificate rispetto all'importo del costo orario medio del lavoro indicato nella lex specialis per i servizi di controllo di sicurezza (ciò, pur a prescindere dagli ulteriori profili sulla "anomalia" dedotti tardivamente ed irritualmente dalle ricorrenti con la memoria depositata il 26 marzo 2016), mentre respingeva tutti i restanti motivi di ricorso. In particolare, quanto al primo motivo, il T.a.r. ha precisato che emergeva dagli atti che l'affitto del ramo di azienda, che garantiva all'aggiudicataria i necessari requisiti soggettivi di partecipazione (su tutti, il possesso della necessaria autorizzazione di polizia per l'esercizio dell'attività di vigilanza anche sul territorio della Regione Piemonte: cfr., al riguardo, l'autorizzazione prefettizia prot. n. 117933, del 24 aprile 2015 - doc. n. 37 delle ricorrenti - rilasciata proprio in virtù di quell'affitto), aveva una durata contrattuale fissata non oltre il 17 novembre 2018, mentre era pacifico che la durata dell'appalto andava oltre tale termine; sulla base di tale premessa ha concluso che, pertanto, l'impresa avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara, non avendo fornito alla stazione appaltante la garanzia di poter effettivamente disporre, per tutta la durata dell'appalto, dei mezzi e/o delle risorse necessari all'esecuzione della commessa, messi a disposizione dall'impresa terza (cfr. Corte di Giustizia CE, sez. V, sent. 2 dicembre 1999, causa C-176/98, Holst Italia). Quanto alla censura sul giudizio di anomalia, è stato ricordato che, secondo la giurisprudenza amministrativa, pur se - di regola - lo scostamento dal costo del lavoro, rispetto ai valori ricavabili dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi, non può comportare di per sé un giudizio di anomalia dell'offerta, era tuttavia ammissibile un sindacato del giudice amministrativo sulla congruità complessiva dell'offerta qualora emerga una discordanza considerevole e palesemente ingiustificata (cfr., tra le tante, di recente: Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 854 del 2016; Id., sez. III, sent. n. 5597 del 2015; TAR Piemonte, questa I sez., sent. n. 197 del 2015) e che, nel caso di specie, era la stessa lex specialis a stabilire (art. 10.4, penultimo comma, del capitolato) l'impegno dell'appaltatore di "assorbire, nei limiti organizzativi richiesti dal servizio e dal presente Capitolato, il personale adibito ai Servizi stessi dal precedente Affidatario, come risultante dall'elenco fornito in sede di gara, secondo le disposizioni di legge o contrattuali applicabili", con ciò peraltro rinviando ad analoga norma del contratto collettivo di settore (il quale, all'art. 24, tutela la "salvaguardia occupazionale delle guardie giurate" nelle ipotesi dei cambi di appalto: doc. n. 18 delle ricorrenti). In relazione a tali premesse il giudice di prime cure ha ritenuto che costituiva nella specie preciso obbligo dell'aggiudicatario quello di garantire al personale uscente lo stesso livello salariale già goduto, nella specie pacificamente pari ad euro 19,34 orari (come indicato dall'impresa uscente, nonché ricorrente in primo grado, all'interno dei propri documenti giustificativi sull'offerta presentata: doc. n. 7c delle ricorrenti). Nella sentenza è stato altresì considerato, al riguardo, che l'impresa prima classificata (IS.), nelle proprie giustificazioni (doc. n. 7a delle ricorrenti in primo grado) aveva indicato in euro 18,25 il costo orario totale (medio) per la manodopera, al contempo precisando che avrebbe mantenuto "circa 60 risorse" già impiegate dall'impresa uscente, "integrate ed affiancate da un nucleo aggiuntivo di 40 unità" e che il costo medio orario da lei offerto "è quindi determinato dal costo medio ponderato dalle risorse già impegnate nell'appalto, e dal costo medio ponderato delle risorse già in organico della IS."; mentre, quanto al raggruppamento di imprese secondo classificato, il costo medio orario per la manodopera, era stato indicato in misura di poco superiore agli euro 17,00 orari (cfr. la tabella riepilogativa, suddivisa per le singole qualifiche, sub doc. n. 17b delle ricorrenti in primo grado), senza peraltro alcuna indicazione in ordine alla salvaguardia delle risorse già occupate. E' stato poi ricordato che la stazione appaltante aveva ritenuto congrue queste voci di costo, riconducendone la differenza rispetto alle tabelle ministeriali "al diverso utilizzo degli istituti previsti dal CCNL di settore e dalle disposizioni di legge applicabili", quindi richiamando, sul punto, le giustificazioni fornite dalle singole concorrenti. In relazione a tale premesse ha concluso il primo Giudice che "...tuttavia, in tal modo, con riguardo anzitutto all'offerta dell'impresa aggiudicataria (la IS. s.p.a.), anche a voler ammettere il rispetto del livello salariale già goduto per le 60 unità di lavoratori da riassorbire (ossia euro 19,34), per le altre 40 unità si avrebbe un costo del lavoro enormemente più basso (stimato dalle ricorrenti in euro 12,69 orari, dato non contestato dalle controparti) e nettamente inferiore ai minimi tabellari (che stimano, per il livello retributivo più basso di categoria, euro 14,49 orari: doc. n. 18 delle ricorrenti), come tale non compensabile per effetto di un mero e non circostanziato richiamo alle "specificità" dell'organizzazione aziendale e del servizio da rendere (sul punto, in particolare, le giustificazioni presentate dalla controinteressata si riferiscono anche ad eventi, come malattie, infortuni e maternità, i quali non rientrano nella disponibilità dell'impresa e che necessiterebbero pertanto non solo di una rigorosa dimostrazione circa l'effettivo andamento storico di siffatti eventi ma anche di una stima prudenziale, elementi tuttavia non rinvenibili nel caso di specie: cfr., analogamente, TAR Toscana, sez. I, sent. n. 1656 del 2015); che, con riguardo al raggruppamento di imprese secondo classificato, l'offerta ha indicato un costo orario medio ancora più basso, senza neanche il riferimento alle risorse già occupate da riassorbire (e senza, quindi, indicazioni sull'effettivo rispetto dei salari già goduti), a nulla potendo giovare il generico (anche qui) richiamo a "condizioni di particolare favore o eventuali maggiori oneri" di cui le imprese in questione potevano beneficiare anche per effetto di una affermata (ma non adeguatamente dimostrata) "attenta selezione e gestione delle risorse umane" (cfr., in particolare, la nota di giustificazioni del 15 ottobre 2015: sub doc. n. 7b delle ricorrenti); che queste considerazioni, nel tradursi in un evidente vizio di illogicità del complessivo giudizio di non anomalia condotto dalla stazione appaltante con riguardo ad entrambe le offerte (e, quindi, nel determinare la sicura ammissibilità della relativa censura, per ciò solo utilmente sindacabile dal giudice amministrativo), determinano la fondatezza della censura in esame per manifesta violazione del costo orario minimo del lavoro; che, di conseguenza, per effetto dei riscontrati vizi di legittimità, dalla procedura de qua avrebbero dovuto essere escluse sia l'offerta della prima classificata (per mancanza di un necessario requisito soggettivo e, comunque, per anomalia dell'offerta) sia l'offerta del raggruppamento secondo classificato (per anomalia dell'offerta)". Per l'effetto la sentenza appellata: ha annullato il provvedimento di aggiudicazione del 2 novembre 2015 nonché, per le parti di interesse delle ricorrenti, i verbali di gara e quelli di verifica dell'anomalia delle offerte; ha dichiarato l'inefficacia del contratto di appalto già stipulato con l'impresa aggiudicataria, con decorrenza dalla data di pubblicazione della presente sentenza; ha disposto il risarcimento in forma specifica "in favore del raggruppamento formato dalle imprese ricorrenti, raggruppamento che dovrà quindi essere individuato quale nuovo aggiudicatario della commessa per cui è causa, con conseguente stipula del nuovo contratto di appalto". 1.2. Con il ricorso n. 4110 del 2016 la SA. ha proposto appello avverso la predetta sentenza, chiedendone la riforma per i seguenti motivi: 1) Error in judicando rispetto al primo motivo di ricorso dedotto in primo grado da Al. e accolto dal T.a.r. Si deduce che la IS., diversamente da quanto ritenuto dal primo Giudice, ha partecipato alla gara senza avvalersi di requisiti di terzi soggetti, né tanto meno avvalendosi del ramo d'azienda di SE., disponendo quale impresa singola di autonoma autorizzazione prefettizia a operare nella Provincia di Torino rilasciata ai sensi dell'art. 134 T.U.L.P.S. Si aggiunge, inoltre, che il requisito del possesso dell'autorizzazione di polizia costituisce un requisito di idoneità professionale, da possedere e dimostrare al momento della partecipazione alla gara, salva la possibilità di rinnovo dell'atto abilitativo in corso di durata del rapporto. Si lamenta, infine, che, anche ove la Prefettura avesse rilasciato l'autorizzazione per il territorio piemontese in ragione della sussistenza di un contratto di affitto di ramo di azienda tra IS. e l'impresa SE., comunque alla scadenza del contratto IS. potrebbe comunque continuare ad operare in Piemonte qualora "acquisti l'azienda di SE. ovvero maturi in proprio i requisiti per ottenere l'autorizzazione prefettizia". 2) Error in judicando rispetto al quarto motivo di ricorso dedotto in primo grado da Al. e accolto dal T.a.r.; violazione degli artt. 4 e 5, Allegato E, della l. 2248/1865. 2.1) Deduce l'appellante che, nella denegata ipotesi in cui avesse correttamente ritenuto illogico e carente sotto il profilo della relativa istruttoria il giudizio di anomalia condotto da SA., il T.a.r. si sarebbe dovuto limitare ad annullare l'aggiudicazione, consentendo così a SA. di emendare l'eventuale vizio e di giungere ad un nuovo giudizio di congruità, senza disporre la stipula del nuovo contratto d'appalto in favore delle ricorrenti in primo grado, in quanto, in caso di inadeguatezza della verifica di congruità, non deve essere disposta l'esclusione dell'offerta sospetta di anomalia, ma solo la regressione della procedura alla fase di verifica dell'anomalia. 2.2) Si lamenta, infine, che la sentenza impugnata è viziata anche laddove ha ritenuto che le offerte IS. e TE. fossero incongrue. Il giudice di prime cure avrebbe confuso i concetti di livello salariale e quello di costo orario del servizio, mentre gli euro 19,34 orari indicati da Al. non costituiscono il livello salariale minimo che deve essere garantito alle guardie giurate, bensì il costo complessivo del lavoro che l'impresa Al. ha storicamente e complessivamente sostenuto per garantire il servizio. Il T.a.r., infatti, non avrebbe considerato che il costo del personale, a parità di retribuzione salariale, inderogabile rispetto ai minimi previsti dai Contratti collettivi nazionali di lavoro, può variare da impresa a impresa in funzione di svariati fattori che dipendono dalle singole organizzazioni aziendali, quali ad esempio l'incidenza del lavoro straordinario nell'organizzazione aziendale, l'incidenza delle festività non godute, le assenze per malattia, ecc. Proprio nella prospettiva della distinzione fra minimi retributivi inderogabili e costo medio effettivo orario del servizio si richiama l'orientamento giurisprudenziale secondo cui l'anomalia dell'offerta non può essere automaticamente desunta, per ciò che concerne il costo del lavoro, dal mancato rispetto delle tabelle ministeriali richiamate dall'art. 87, comma 2, lett. g) del d.lgs. n. 163/2006, considerato che i costi medi del lavoro, indicati nelle predette tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro, in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, non costituiscono parametri inderogabili, ma sono indici di adeguatezza dell'offerta che costituiscono oggetto della valutazione dell'amministrazione. E', quindi, rimarcato l'errore in cui sarebbe incorso il T.a.r. laddove ha ritenuto che l'unico costo orario sostenibile per l'esecuzione dell'appalto in questione fosse quello di euro 19,34 sostenuto dalla Al. nell'appalto precedente. Per contro, erano da ritenere adeguate le giustificazioni resa da IS. a SA. in data 9 ottobre 2015 e con note del 15 e del 21 ottobre 2015 laddove, partendo dal valore della paga base tabellare, erano state prese in esame le singole voci di costo indicate dalle tabelle ministeriali adeguandole ai propri dati statistici aziendali interni, così determinando il costo complessivo sia per le guardie già operanti per IS. sia per il personale riassorbito dalla Al. sulla base di "valutazioni statistiche ed analisi condotte sull'effettiva situazione aziendale" e trasmettendo "copia dei dati ufficiali estrapolati dal programma di elaborazione paghe riguardanti le voci di assenza, relative all'anno 2015 della filiale di Torino". Si è costituita in giudizio d'appello la Al. che, in relazione al primo motivo di appello, ha ribadito, con diffusa argomentazione, che, avendo IS. contrattualmente limitato l'affitto del citato ramo d'azienda ad un tempo inferiore a quello dell'esecuzione contrattuale dell'appalto e, non disponendo per l'intera durata contrattuale dei mezzi necessari all'esecuzione, non poteva aggiudicarselo. Con riguardo al primo profilo del secondo motivo d'appello ha dedotto che il T.a.r., avendo constatato anche la effettiva, palese e ingiustificata insostenibilità delle offerte prime due graduate (cosa che non avrebbe potuto che portare alla loro esclusione), avrebbe operato entro i confini delineati dalla giurisprudenza amministrativa disponendo direttamente l'esclusione delle offerte presentate da IS. e TE.. Quanto al secondo profilo del secondo motivo di appello, relativo al giudizio di anomalia, ne ha chiesto la declaratoria di inammissibilità o il rigetto con conferma della sentenza appellata; in particolare ha controdedotto che IS. e TE. avevano presentato offerte i cui ribassi (rispettivamente del 9,89% e del 13,17%) e utili (rispettivamente del sei per mille e del due per mille) erano già ex se chiaro indice di anomalia; derogavano vistosamente ai costi minimi tabellari senza preoccuparsi di documentarne le ragioni; rivendicavano a sostegno delle proprie stime di costo specificità aziendali non meglio precisate nei loro contenuti e comunque sfornite di ogni riscontro probatorio. Si è costituito in giudizio anche IS. chiedendo la declaratoria di inammissibilità del primo motivo del ricorso di primo grado ed esponendo deduzioni a sostegno dell'accoglimento dei motivi di gravame. In ragione della corrispondenza fra tali deduzioni ed i motivi dispiegati dalla IS. con il proprio autonomo ricorso in appello si rinvia, per l'esame di tali difese, alla illustrazione di tali motivi. 1.3. Con altro autonomo ricorso, n. 5833 del 2016, anche la IS. ha proposto appello avverso la ricordata sentenza, chiedendone la riforma per i seguenti motivi: 1.1) Inammissibilità del primo motivo del ricorso di primo grado, accolto dal T.a.r. per difetto di interesse della Al.. Si deduce che non sussiste per la ricorrente in primo grado un'utilità diretta e immediata dall'accoglimento della prima censura, visto che la Al. non potrebbe ugualmente essere dichiarata aggiudicataria dell'appalto essendosi posizionata terza dietro il costituendo raggruppamento di imprese tra TE. Vi. S.p.a. e Cittadini dell'ordine S.r.l. 1.2) Si chiede poi la riforma della sentenza appellata nella parte in cui è stato accolto il primo motivo del ricorso di primo grado, deducendosi che la IS. è titolare di un'autorizzazione in proprio e non si avvale dell'autorizzazione trasmessale dall'affittante SE. con il contratto di affitto di azienda; inoltre, anche se così non fosse, comunque, al termine del triennio IS. poteva acquistare il ramo di azienda SI. in forza di un'opzione per l'acquisto contenuta nel contratto di affitto ovvero rinnovare il contratto di affitto o maturare i requisiti in proprio. 2.1) Con il primo profilo del secondo motivo di gravame anche IS. lamenta che l'eventuale riscontro di vizi di illogicità o carenze istruttorie in relazione al giudizio sulla anomalia avrebbe dovuto comportare solo l'annullamento dell'aggiudicazione con regressione della procedura alla fase di verifica dell'anomalia. 2.2) Col secondo profilo del secondo motivo di appello, relativo al giudizio di congruità sull'offerta avanzata dalla medesima, IS. deduce che il T.a.r. è incorso in un errore non cogliendo la differenza tra livello salariale e costo del lavoro (composto non solo dal salario, ma anche da voci tra loro variabili). In particolare, nel già menzionato passaggio della sentenza appellata, ove si afferma che "anche a voler ammettere il rispetto del livello salariale già goduto per le 60 unità di lavoratori da riassorbire (ossia euro 19,34), per le altre 40 unità si avrebbe un costo del lavoro enormemente più basso (stimato dalle ricorrenti in euro 12,69 orari, dato non contestato dalle controparti) e nettamente inferiore ai minimi tabellari (che stimano, per il livello retributivo più basso di categoria, euro 14,49 orari: doc. n. 18 delle ricorrenti)" il T.a.r. ha erroneamente qualificato quale "livello salariale" storico del personale riassorbito l'importo di euro 19,34, che invece era solo il costo orario medio storico delle suddette unità di personale. In realtà se si prendono a riferimento dati omogenei, il costo salariale medio indicato nell'offerta IS. era pari a euro 16,68, superiore al livello retributivo più basso di categoria, mentre il costo orario medio del lavoro (e non del salario) indicato da IS. nell'offerta era pari a euro 18,25, come da giustificazione del 5 ottobre 2015, pag. 7. Inoltre, anche se si seguisse il ragionamento del T.a.r. e si facesse riferimento per il personale riassorbito (60 unità) al costo orario medio storico di euro 19,34, il costo orario medio per le 40 unità di personale che IS. affianca a quelle riassorbite sarebbe stato pari a euro 16,61 e non a euro 12,69, come erroneamente ritenuto dal giudice di prime cure. 2.3) Si lamenta, poi, l'erroneità della sentenza anche nel punto in cui sostiene che il costo del servizio offerto da IS. sarebbe stato illegittimamente ritenuto congruo da SA., nonostante si discostasse dalle cennate tabelle ministeriali, sulla base di giustificazioni generiche legate alla specificità dell'organizzazione aziendale e del servizio da rendere, mentre "le giustificazioni presentate dalla controinteressata si riferiscono anche ad eventi, come malattie, infortuni e maternità, i quali non rientrano nella disponibilità dell'impresa e che necessiterebbero pertanto non solo di una rigorosa dimostrazione circa l'effettivo andamento storico di siffatti eventi ma anche di una stima prudenziale, elementi tuttavia non rinvenibili nel caso di specie". Deduce, in senso contrario l'appellante che il costo orario medio può variare da impresa a impresa, sicché anche per il personale riassorbito il costo indicato da IS. era giustificato in modo non generico, ma estremamente preciso, dalla singola organizzazione e dalla specificità aziendale, in relazione ad elementi quali, per es., "l'incidenza del lavoro straordinario nell'organizzazione aziendale, l'incidenza delle festività non godute, le assenze per malattia ecc.". In relazione a tali elementi IS. deduce - illustrando in modo analitico e puntuale le giustificazioni rese in corso di gara rispetto alle singole voci del costo del lavoro - di aver, invece, ampiamente giustificato la propria offerta e tale giustificazione è stata ritenuta congrua e soddisfacente dalla stazione appaltante con un giudizio che è espressione di stretta discrezionalità tecnica, e come tale non sindacabile se non per manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, nel caso di specie insussistenti. 2.4) Inoltre la sentenza del T.a.r. andrebbe riformata, perché si fonda esclusivamente sull'asserita incongruità dei costi del lavoro e sulla sostanziale inaffidabilità sotto questo profilo dell'offerta della società appellante, senza effettuare una necessaria valutazione complessiva dell'eventuale anomalia dell'offerta, verificando cioè se, anche alla luce delle giustificazioni, osservazioni e controdeduzioni fornite dalla società interessata, se le discordanze concernenti i costi del lavoro potessero in concreto trovare giustificazioni o compensazioni in altre voci dell'offerta proposta. Si è costituita in giudizio la SA., chiedendo l'accoglimento del gravame. Si è costituita in giudizio anche la Al. che ha eccepito in via pregiudiziale l'irricevibilità dell'appello della IS., in quanto notificato, da una parte cui era stato già notificato l'appello principale della SA., oltre il termine previsto dall'art. 96, comma 5 c.p.a. e nella forma dell'appello autonomo anziché dell'appello incidentale. In subordine ha chiesto il rigetto dei motivi di appello dispiegati dalla IS.. All'udienza del 2 febbraio 2017 i due giudizi erano trattenuti in decisione. 2. In primo luogo deve essere disposta la riunione degli appelli in trattazione (n. 5833 del 2016 e n. 4110 del 2016), ai sensi dell'art. 96, comma 1, c.p.a., essendo rivolti avverso la medesima sentenza. 3. La Sezione ritiene, poi, di poter prescindere dall'esame della eccezione pregiudiziale di irricevibilità dell'appello proposto dalla IS., in quanto l'appello proposto dalla cointeressata SA. si fonda su motivi di ricorso sostanzialmente coincidenti con quelli proposti dalla IS. e gli effetti dell'eventuale accoglimento del gravame proposto dalla stazione appaltante SA. si produrrebbero, comunque, anche in favore della IS., avuto riguardo all'ambito soggettivo di efficacia del giudicato rispetto a rapporti soggettivamente inscindibili. Per la medesima ragione si esamineranno congiuntamente i motivi di gravame proposti da SA. e IS.. 4. Nel merito l'appello è fondato nei termini e nei limiti di seguito precisati. 5. Va, in primo luogo, accolto, il motivo di gravame con cui le appellanti chiedono la riforma del capo della sentenza appellata che ha giudicato fondato il primo motivo di ricorso di primo grado ed ha accertato la sussistenza di una causa di esclusione di IS. dalla gara per non aver fornito alla stazione appaltante la garanzia di poter effettivamente disporre, per tutta la durata dell'appalto, dei mezzi e/o delle risorse necessari all'esecuzione della commessa, ed in particolare del ramo di azienda SE. il cui affitto scade circa un anno prima del termine di durata quadriennale dell'appalto. In senso contrario le appellanti hanno evidenziato che il contratto di affitto di azienda concluso dalla IS. con la SE. prevedeva la possibilità di acquisto del ramo di azienda da parte della IS. al termine del rapporto contrattuale, includendo una clausola che attribuisce alla IS. un diritto di opzione (art. 10.2 del contratto di affitto). Poiché l'opzione conferisce al titolare un diritto potestativo alla conclusione del contratto, per il cui esercizio non è più richiesta alcuna collaborazione della controparte - che versa in una situazione di mera soggezione -, IS., inserendo nel contratto di affitto anche una clausola attribuiva del diritto di opzione in suo favore per l'acquisto del ramo di azienda alla scadenza, si era già assicurata ab origine la piena disponibilità giuridica del contratto di compravendita e, mediatamente, dei mezzi che rinvengono dall'esercizio dell'opzione. IS. aveva, pertanto, dato adeguata dimostrazione di poter effettivamente disporre, per tutta la durata dell'appalto, dei mezzi necessari all'esecuzione della commessa, fermo restando la valutabilità in termini di inadempimento dell'eventuale mancato esercizio del diritto di opzione. Per l'effetto, in riforma sul punto della sentenza del T.a.r., deve essere respinto il primo motivo del ricorso di primo grado dedotto dalla Al., potendosi pertanto superare l'esame della eccezione di inammissibilità dispiegata dalla IS. con riguardo a tale censura. 6. Seguendo l'ordine logico di esame delle questioni, deve procedersi poi all'esame dei motivi di appello (innanzi indicati come motivo 2.2. dell'appello SA. e motivi 2.2., 2.3. e 2.4. dell'appello IS.) con cui le appellanti chiedono la riforma della sentenza di primo grado nella parte in cui annulla l'aggiudicazione in conseguenza dei profili di illegittimità del giudizio di congruità dell'offerta anomala presentata dalla IS. ed accerta analoghe illegittimità rispetto al giudizio di congruità dell'offerta anomala presentata dalla seconda classificata TE.. I motivi di appello sono infondati. Preliminarmente e in linea generale, occorre ricordare che per giurisprudenza consolidata nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici la valutazione delle giustificazioni presentate dal soggetto tenuto a dimostrare che la propria offerta non è da considerarsi anomala rientra nell'ampio potere tecnico-discrezionale della stazione appaltante, così che detta valutazione è sindacabile in sede di legittimità soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto. Nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta il giudice amministrativo può pertanto sindacare le valutazioni compiute dall'Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, ma non può effettuare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta presentata e delle sue singole voci, sostituendo così la sua valutazione al giudizio formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 16 gennaio 2015, n. 89; id., sez. VI, 15 dicembre 2014, n. 6154; id., sez. IV, 11 novembre 2014, n. 5530). Sotto altro profilo, va, altresì, ricordato che la verifica delle offerte anomale non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, ma mira, invece, ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile ed affidabile e, dunque, se sia o meno in grado di offrire serio affidamento circa la corretta esecuzione della prestazione richiesta (Consiglio di Stato, sez. III, 29 aprile 2015, n. 2186; id., sez. V, 23 marzo 2015, n. 1565). Con specifico riferimento alle giustificazioni relative alle voci di costo va, altresì, ribadito che un'offerta non può ritenersi anomala ed essere esclusa da una gara per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi, occorrendo, perché possa dubitarsi della sua congruità, che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata (ex multis, Cons. St., III, 09 dicembre 2015, n. 5597; Cons. St., V, 18 giugno 2015, n. 3105). Alla luce di tali consolidati principi si osserva che, diversamente da quanto sostenuto dalle appellanti, le valutazioni operate da SA. appaiono effettivamente affette da profili di irragionevolezza e illogicità evidente, in un contesto in cui la discordanza rispetto ai valori di costo orario medio risultante dalle tabelle ministeriali risulta, in concreto, considerevole e palesemente ingiustificata e tale da inficiare potenzialmente la complessiva attendibilità dell'offerta. Va premesso, infatti, che nella gara in esame la componente del costo del lavoro rivestiva un ruolo di particolare rilievo e che il costo orario medio del lavoro complessivo dichiarato dalla aggiudicataria IS., pari a euro 16,68, che arrivano a euro 18,25 includendo anche costi per la sicurezza, spese generali, tassazione e utile, era notevolmente inferiore al costo orario medio indicato per il personale dipendente da istituti di vigilanza privati dalle tabelle ministeriali approvate dal Ministero del Lavoro, pari, senza includere i costi derivanti da disposizioni di legge, a euro 17,57 per il livello IV, a euro 18,33 per il livello IVS e a euro 19,31 per il livello III (livello cui i dipendenti assunti con inquadramento al livello precedente passano dopo il primo scatto biennale, ossia in corso di durata dell'appalto) e pari, rispettivamente, a euro 20,88 per il livello IV, a euro 21,64 per il livello IVS e a euro 22,62 per il livello III, includendo i costi derivanti da disposizioni di legge. Questo scostamento era giustificato in sede di gara dalla IS. in quanto il numero di ore annue mediamente lavorate dai dipendenti che avrebbe utilizzato per eseguire il contratto (pari a ore 2036) era nettamente superiore a quello medio individuato nel citato D.M. (pari a ore 1578), perché, oltre ad un maggior ricorso allo straordinario, la media pro capite di assenze stimate dalla IS. era pari a 476 ore a fronte di una media tabellare pari a 550 ore. Tale ultimo dato era giustificato dalla IS. dimostrandosi che l'analisi storica delle assenze relative al personale IS. della filiale di Torino, calcolate sui primi 9 mesi del 2015, indicava un valore medio pro capite di 10 giornate di assenza l'anno, dato prudenzialmente innalzato a 11 giornate in sede di offerta, ossia un valore di ore non lavorate, soprattutto per malattia, infortunio e maternità, notevolmente inferiore a quello medio tabellare. Tale giustificazione, tuttavia, se poteva essere spesa per dare conto del totale di ore non lavorate stimato per il personale già in forza della IS. e utilizzato per rendere il servizio oggetto di gara (10 unità, inquadrate nel livello IV), risultava illogica se riferita alle circa 60 unità di personale assorbite dal precedente appaltatore Al. (inquadrate al livello IVS). Queste ultime unità di personale avevano, infatti, un proprio tasso storico di assenze, ad esempio, per malattie, infortuni, maternità, tasso che non era dipendente dall'organizzazione dell'impresa, ma dalle caratteristiche individuali dei singoli dipendenti e che non necessariamente coincideva con quello del personale in servizio presso la IS.. Era, pertanto, manifestamente incongruo utilizzare il dato storico IS. anche per il personale riassorbito dalla Al., per il quale doveva utilizzarsi o il rispettivo dato storico effettivo di ore annue medie lavorate, se disponibile, o, in difetto, il valore medio di sistema risultante dalle tabelle ministeriali. In proposito la giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. St., V, 28 giugno 2011, n. 3865) ha avuto modo di rimarcare in relazione ad analoga fattispecie che "se è vero che le tabelle ministeriali recanti il costo della manodopera espongono dati non inderogabili, si deve altresì convenire che le medesime assolvono ad una funzione di parametro di riferimento dal quale è possibile discostarsi, in sede di giustificazione dell'anomalia, solo sulla scorta di una dimostrazione puntuale e rigorosa. E tanto nella specie se si considera che il dato delle ore annue mediamente lavorate dal personale coinvolge eventi (malattie, infortuni, maternità) che non rientrano nella disponibilità dell'impresa e che quindi, per definizione, necessitano di stima di carattere prudenziale". Con la citata pronuncia è stato precisato pertanto che "la semplice produzione dei modelli di pagamento INPS relativi ai dati dell'ultimo triennio non è idonea ad assolvere a detta funzione dimostrativa in quanto, per un verso, reca dati aziendali indistinti e disaggregati che non tengono nel debito conto del personale specifico da adibire all'appalto, per altro verso non introduce dati significativi in relazione all'esecuzione di un contratto per il quale, ai sensi del contratto collettivo di settore, è prevista l'assunzione del personale in servizio presso la società precedentemente deputata all'espletamento del servizio. L'inadeguatezza di detta documentazione risulta ancor più significativa in rapporto alla rilevante misura dello scostamento, che avrebbe richiesto una dimostrazione particolarmente rigorosa". Il giudizio di congruità dell'offerta IS. da parte della Stazione appaltante si presta, poi, ad un'ulteriore censura di manifesta illogicità ed erroneità - parimenti dedotta con il quarto motivo del ricorso di primo grado accolto dal T.a.r. -, nella misura in cui la Stazione appaltante ha ritenuto giustificata l'offerta della IS., benché l'offerente non avesse dato adeguato conto della mancata inclusione nel calcolo del costo orario medio del lavoro di alcune voci, di rilevante peso, da considerare obbligatoriamente in base alla contrattazione integrativa regionale, quali ad esempio, i buoni pasto (art. 19 c.i.r.), i premi di produzione (art. 16 c.i.r.) e l'indennità di presenza giornaliera, ossia specifiche voci ordinarie di costo del personale che non possono farsi refluire nelle spese generali. Per contro, il calcolo del costo orario medio avrebbe dovuto dare adeguata evidenza, in sede di giustificazioni, di tutte le componenti di costo del lavoro previste non solo dalla contrattazione nazionale, ma anche da quella integrativa regionale. In relazione a tali premesse, la sentenza impugnata deve ritenersi corretta sul punto in relazione al suo dispositivo e al nucleo centrale della sua motivazione, mentre la confusione tra livello salariale e costo del lavoro, in cui incorre il giudice di prime cure nella sua ricostruzione della fattispecie, non inficia la complessiva esattezza delle conclusioni cui perviene il T.a.r.. Parimenti meritevole di conferma si appalesa la sentenza appellata nella parte in cui accerta l'illegittimità della valutazione positiva di congruità dell'offerta presentata dalla seconda classificata TE., che indica un costo orario medio, di euro 17,58, ancora più basso di quello indicato dalla IS., con uno scostamento ancor più notevole dal costo orario medio di cui alle tabelle ministeriali (cfr. la tabella riepilogativa, suddivisa per le singole qualifiche, sub doc. n. 17b delle ricorrenti in primo grado) in difetto di adeguate giustificazioni. 7. Merita, invece, accoglimento il motivo di gravame (che si è indicato come motivo 2.1. dell'appello SA. e 2.1. dell'appello IS.) secondo cui il T.a.r. si sarebbe dovuto limitare ad annullare l'aggiudicazione, consentendo così a SA. di giungere ad un nuovo giudizio di congruità, da effettuarsi in conformità alle statuizioni poste dalla sentenza, senza disporre direttamente la stipula del nuovo contratto d'appalto in favore delle ricorrenti in primo grado. La Sezione rileva, infatti, che, una volta accertato che nella specie l'effettiva incidenza degli oneri per il costo del lavoro sull'equilibrio complessivo dell'offerta non è stata correttamente verificata nella sede propria, tale omissione non può essere "surrogata" da una verifica in sede giudiziale, tenuto conto anche dei noti limiti al sindacato giurisdizionale sulle valutazioni rimesse all'amministrazione in subiecta materia. In caso di inadeguatezza della verifica di congruità per carenze istruttorie non deve, quindi, essere disposta l'esclusione dell'offerta sospetta di anomalia, ma solo la regressione della procedura alla fase di verifica dell'anomalia (Cons. St., IV, 13 aprile 2016, n. 1448; Cons. St., V, n. 4323/2003). L'annullamento dell'aggiudicazione, nonché, per le parti di interesse delle ricorrenti in primo grado, dei verbali di gara e di quelli di verifica dell'anomalia delle offerte, e la declaratoria dell'inefficacia del contratto di appalto già stipulato con l'impresa aggiudicataria, di cui ricorrono i presupposti previsti dall'art. 122 c.p.a. in ragione del fatto che residua ancora un lungo periodo di esecuzione del servizio e la possibilità di subentro delle ricorrenti in primo grado, sono, pertanto, disposti con salvezza degli ulteriori provvedimenti che l'amministrazione porrà in essere, nel rispetto della sentenza in esame. 8. La peculiarità della controversia e la sua complessità, oltre che la solo parziale fondatezza degli appelli, giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, dopo averli riuniti, li accoglie in parte nei sensi di cui in motivazione e, per l'effetto: a) accoglie il primo motivo di appello proposto dalle appellanti e, in riforma sul punto della sentenza appellata, respinge il primo motivo del ricorso di primo grado; b) respingendo i relativi motivi di appello, conferma la sentenza impugnata nei termini di cui in motivazione, nella parte in cui dispone l'annullamento dell'aggiudicazione, nonché, per le parti di interesse delle ricorrenti in primo grado, dei verbali di gara e di quelli di verifica dell'anomalia delle offerte, e dichiara l'inefficacia del contratto di appalto già stipulato con l'impresa aggiudicataria ricorrendo i presupposti previsti dall'art. 122 c.p.a.; c) in accoglimento dei relativi motivi di appello, annulla la sentenza appellata nella parte in cui dispone il risarcimento in forma specifica in favore del raggruppamento formato dalle imprese ricorrenti in primo grado e prescrive che tale raggruppamento debba, quindi, essere individuato quale nuovo aggiudicatario della commessa per cui è causa, con conseguente stipula del nuovo contratto di appalto. Compensa tra le parte le spese del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2017 con l'intervento dei magistrati: Carlo Saltelli - Presidente Paolo Troiano - Consigliere, Estensore Roberto Giovagnoli - Consigliere Fabio Franconiero - Consigliere Stefano Fantini - Consigliere

  • LA CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE V CIVILE composto dai magistrati: M. Cristina Canziani Presidente rel. M. Grazia Domanico Consigliere Daniela Troiani Consigliere ha pronunciato il seguente DECRETO nella cause civili riunite in oggetto, ex artt. 95 e segg DPR 396/2000, 739 cpc, iscritte ai numeri di ruolo generale sopra indicato, discusse in Camera di Consiglio all'udienza del 28.10.3016, promosse con ricorsi depositati il 1.6.2016 DA (...) in proprio e in qualità di esercente la responsabilità genitoriale sulla minore (...), con gli avv.ti dom.ri (...) e (...), con studio in Milano RECLAMANTE E DA (...), in proprio e quale esercente la responsabilità genitoriale sul minore (...), con gli avv.ti dom.ri (...) e (...), con studio in Milano RECLAMANTE Contro SINDACO DEL COMUNE DI MILANO, NELLA SUA QUALITA' DI UFFICIALE DI STATO CIVILE, RECLAMATO Con l'intervento del Procuratore Generale. La Corte, esaminati gli atti, sentiti i difensori delle parti e queste ultime personalmente, sentito il P.G.; considerato che: 1. con decreto emesso il 12.5.2016, depositato il 26.10.20l6, il Tribunale di Milano ha respinto il ricorso dei due reclamanti (...) e (...), cittadini italiani, avverso i provvedimenti del 23.3.2016 di diniego da parte dell'Ufficiale di Stato Civile di Milano di trascrizione nei registri di Stato Civile, degli atti di nascita formati in California USA, nella Contea di Ventura, in data 30.9.2015, riguardanti i minori: (...), gemella, n. (...) riconosciuta come figlia da (...) e (...) (...), gemello, n. (...) riconosciuto come figlio da (...) 2. avverso detto decreto hanno proposto tempestivi reclami separati (...) e (...), chiedendo ciascuno dei due, in via principale, l'accoglimento della richiesta di trascrizione integrale in Milano dell'atto di nascita formato all'estero del proprio figlio; in via subordinata, ordinarsi la trascrizione parziale dell'atto di nascita del proprio figlio, con omissione della sola dicitura "Twin"; in via ulteriormente subordinata, la trascrizione parziale dell'atto di nascita del proprio figlio, con indicazione di un solo cognome del bambino, quello del padre biologico, e l'omissione della dicitura "Twin", con rifusione delle spese di giudizio; 3. nessuno si è costituito per l'Ufficiale di stato Civile, del Comune di Milano, nonostante tempestiva notifica dei reclami e dei decreti di fissazione udienza; 4. all'udienza del 28.10.2016, i due procedimenti separati sono stati riuniti, riguardando questioni dello stesso tipo, come già avvenuto in primo grado; sono state sentiti i reclamanti e i difensori che si sono riportati alle loro conclusioni; il P.G. presente nulla ha opposto alla trascrizione degli atti di nascita dei due minori e la Corte si è riservata di decidere; 5. osserva ora il collegio che il reclamo è fondato; 6. gli atti di nascita (prodotti dalle parti in originale, con apposizione di regolare "Apostille" in base alle disposizioni della Convenzione dell'Aja del 5.10.1961) di cui si chiede la trascrizione riguardano due bambini, (...) e (...), nati nella stessa data, alla stessa ora, in Ventura, California il (...), partoriti da una sola donna, con parto gemellare; i due minori sono nati dalla fecondazione di due distinti ovuli, donati da donna rimasta anonima; ciascun ovulo è stato fecondato con il seme di uno dei due reclamanti e i due embrioni ottenuti sono stati impiantati nell'utero della donna che li ha poi partoriti, con ricorso alla tecnica di "gestazione per altri", lecita nello Stato della California, dopo la stipulazione tra ciascun reclamante con la gestante e partoriente un "agreement for gestational carriers"; in data (...). La Corte Superiore di Ventura, in California, verificati i predetti contratti, ritenuti conformi alle leggi di quello Stato, ha pronunciato un "judgement declaring the existance of parental rights", con cui è stato ordinata la formazione, degli atti di nascita dei due nascituri, con l'indicazione nell'atto per ciascun nato del nome secondo le indicazioni di (...) e (...) e del nome completo del genitore, con le sue generalità, nel campo "madre/genitore"; 7. i due nati sono cittadini statunitensi, figli riconosciuti di due cittadini italiani, i reclamanti, che hanno richiesto all'Ufficiale di Stato Civile del Comune di Milano, ove risiedono, la trascrizione dei due atti di nascita; l'Ufficiale ha respinto la richiesta di trascrizione, rilevando che "Una valutazione che esuli dagli aspetti puramente formali palesa come estremamente difficile, biologicamente, che da filiazione gemellare possano essere attribuite, paternità diverse ai nascituri e suscita quel fumus boni iuris che porterebbe a ritenere gli atti prodotti come elusivi della normativa ex Legge 19 febbraio 2004. n. 40 e pertanto contrari all'ordine pubblico secondo l'art. 18 del DPR 396/2000....considerata la singolarità del caso in questione emerge l'impossibilità, allo stato, di procedere alla trascrizione degli atti in questione, evidenziando altresì, che non essendo consentite; di indicare nei registri come madri, soggetti di sesso maschile, non è neppure possibile la trascrizione parziale recante l'indicazione di singoli padri di due minori indicati come gemelli"; 8. il Tribunale di Milano ha respinto il ricorso presentato dai due reclamanti, ritenendo la contrarietà all'ordine pubblico dei due atti di nascita, che attribuirebbero ai due bambini uno status di fratelli gemelli che invece non avrebbero, in quanto aventi in comune solo la madre, sia quella donate gli ovuli, sia quella che li ha partoriti, e non anche il padre, e non essendo possibile la trascrizione parziale dei due atti recante la indicazione di singoli padri di due minori indicati come gemelli; 9. va innanzitutto rilevato che in base all'art. 33 della L. 218/1995, lo stato di figlio dei due bambini è determinato dalla legge dello Stato della California, essendo ambedue cittadini statunitensi al momento della nascita secondo le leggi di quello Stato; secondo la legge californiana, ciascun minore ha potuto essere riconosciuto dal padre biologico ricorso a tecnica di gestazioni per altri, con madre che non lo ha riconosciuto, tecnica lecita e regolamentata dalla stessa legge californiana, e ha ottenuto il cognome indicato dallo stesso padre biologico; 10. contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, la dicitura "Twin", gemello in italiano, indicata negli atti di nascita, non vale ad attribuire nessun rapporto di fratellanza tra i due bambini; indica semplicemente uno stato di fatto, la nascita contemporanea del bambino con altro bambino nato dalla stessa madre; dal punto di vista biologico infatti, secondo la letteratura scientifica, i gemelli si definiscono come persone nate contemporaneamente"; (...) e (...) sono sicuramente di fatto gemelli dizigoti, in quanto nati dalla fecondazione di due ovociti ad opera di due spermatozoi diversi, e partoriti dalla stessa donna contemporaneamente; non può pertanto ritenersi contrario all'ordine pubblico una dicitura su un atto di nascita che indica una verità indiscussa a livello scientifico; 11. va smentita altresì l'affermazione dell'Ufficiale di stato Civile dei Comune di Milano che ha ritenuto estremamente difficile "biologicamente" che da filiazione gemellare possano essere attribuite paternità diverse ai nascituri; la comunità scientifica ha registrato vari casi, sia pure pochissimi nel mondo, di gemelli nati da ovuli della stessa madre, fecondati con lo sperma di uomini diversi, casi definiti dai medici di superfecondazione etroparentale", che succede quando la madre rilascia ovuli multipli e quando ha rapporti con due uomini nello stesso periodo; il caso di cui ci si occupa non è quindi impossibile a livello biologico, pur essendo stato creato artificialmente con una fecondazione eterologa di due ovociti fecondati volutamente con il seme di due uomini diversi; 12. è certo che (...) è figlia biologica di (...) e che (...) è figlio biologico di (...); i due bambini sono nati con tecnica di gestazione per altri vietata nel nostro Stato in base alle norme di cui alla L. 40/2004, tecnica invece lecita e regolamentata però nello Stato della California, dove i minori sono nati e sono stati concepiti in base ad un contratto con la madre gestante, che non ha poi riconosciuto i due bambini; 13. come ha rilevato ancora recentemente la Cassazione, sez. prima civile, con sentenza n. 19599/16, "Il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l'ordine pubblico dell'atto di stato civile straniero (nella specie dell'atto di nascita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma degli artt. n. 64 e 65 della legge n. 218 del 1995 e 18 DPR n. 396 del 2000, deve verificare non già se l'atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme ad una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo desumibili dalla Carta Costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. Si tratta in particolare della tutela dell'interesse superiore del minore anche sotto il profilo della sua identità personale e sociale e in generale del diritto delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia, valori questi già presenti nella Carta Costituzionale (art 2, 3, 31 e 32 Cost.) e la cui tutela è rafforzata dalle fonti sovranazionali che concorrono alla formazione dei principi di ordine pubblico internazionale"; 14. l'interesse preminente del minore, rileva sempre la sentenza sopra citata, "è complesso e articolato in diverse situazioni giuridiche, che hanno trovato riconoscimento e tutela sia nell'ordinamento internazionale sia in quello interno. Quanto al primo, vengono in rilievo: innanzitutto, la Convenzione dei diritti del Fanciullo... fatta a New York il 20.11.1989, rese esecutiva in Italia dalla legge 27 maggio 1991, n. 176; la Convenzione Europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli. (art. 6): la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.... che nell'art. 24, par. 2 prescrive che in tutti gli atti relativi ai minori, siano esse compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni privale, l'interesse superiore del minore deve essere considerato preminente. E non diverso è l'indirizzo dell'ordinamento interno...; i ricordati dati normativi... impongono al giudice di valutare come preminente l'interesse superiore del minore "in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi (art. 3, par. 1 della Convenzione di New York).... L'interesse superiore del minore che è complesso e articolato in diverse situazioni giuridiche, nella specie si sostanzia nel diritto a conservare lo status di figlio, riconosciutogli in un atto validamente formato in un altro paese... Il diritto alla continuità di tale status è conseguenza diretta del favor filiationis scolpito negli artt. 13, c. 3, e 33 commi 1 e 2, della legge 218 del 1995 ed è implicitamente riconosciuto nell'art. 8 della Convenzione di New York sul "diritto del minore, e preservare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità il suo nome e le sue relazioni familiari, così come riconosciute dalla legge, senza ingerenze, illegali". La Corte EDU (Marckx v. Belgio, 13 giugno 1979) e la Corte Costituzionale (da ultimo con la ...sentenza 31 del 2012) hanno affermato da tempo il diritto del minore all'integrazione nella famiglia di origine fina dalla nascita e alla continuità dei rapporti con i suoi familiari; la Corte di Strasburgo ha evidenziato la "relaziona diretta" tra il diritto alla vita privata e quello all'identità, non solo fisica, ma anche sociale del minore (Mikulic c. Croazia 7.2.2002...), essendo fa filiazione "un aspetto essenziale dell'identità delle persone (nel caso Menessort c. Francia del 2014); il diritto alla conservazione del cognome costituisce un profilo complementare del diritto all'identità e alla circolazione delle persone.... e poiché...la nazionalità dipende ... dalla sussistenza del rapporto di filiazione, il mancato riconoscimento di quest'ultimo avrebbe l'effetto di compromettere quel diritto all'identità personale del figlio di cui fa nazionalità è elemento costitutivo"; 15. alla luce di tali principi delle norme internazionali, cosi come interpretate dalla Corte di giustizia della Comunità Europea e dalla Corte EDU, che costituiscono parte integrante dell'ordinamento giuridico italiano, anche nei caso in esame, il mancato riconoscimento in Italia del rapporto di filiazione, legalmente e pacificamente esistente in USA tra (...) e suo padre e (...) e suo padre "determinerebbe una "incertezza giuridica" già stigmatizzata dalla Corte Edu (nel ... caso Manesson n c. Francia...) ovvero "una situazione giuridica claudicante" (Corte federale tedesca del 2014) che influirebbe negativamente sulla definizione dell'identità personale del minore, in considerazione delle conseguenze pregiudizievoli concernenti la possibilità, non solo di acquisire la cittadinanza italiana e i diritti ereditari, ma anche....di circolare liberamente nel territorio italiano e di essere rappresentato dal genitore nei rapporti con le istituzioni italiane, al pari degli altri bambini e anche di coloro che nati all'estero, abbiano ottenuto il riconoscimento negato" ai piccoli (...) e (...); 16. non può avere rilevanza, ai fini della trascrizione degli atti di nascita dei due bambini, il fatto che gli stessi siano stati messi al mondo mediante una pratica di procreazione assistita, con cd. maternità surrogata, non consentita in Italia; la stessa Cassazione sopra citata rileva che "delle conseguenze di tale comportamento, imputabile ad altri, non può rispondere il bambino che è nato e che ha un diritto fondamentale alla conservazione dello status legittimamente acquisito all'estero... Vi sarebbe altrimenti una violazione del principio di uguaglianza, intesa come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali"; la Suprema Corte, nella stessa recentissima sentenza, ha ribadito che la difformità della legge straniera (che consente la gestazione per altri) da quella italiana, non è causa di per sé sola, di violazione dell'ordine pubblico, "a meno che non si dimostri che la legge 40 del 2004 contenga principi fondamentali e costituzionalmente obbligati e che quindi non sarebbe consentito al legislatore italiano porre una disciplina analoga o assimilabile a quella" straniera; "Questa evenienza è da escludere, trattandosi di materia in cui ampio è il potere regolatorio e quindi, lo spettro delle scelte possibili da parte del legislatore ordinario, come riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale (nella sentenza 162 del 2014..) la quale ha osservato che si tratta di temi eticamente sensibili, in relazione ai quali "l'individuazione di un ragionevole punto di equilibrio delle contrapposte esigenze, nei rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore".... Se è ampia la discrezionalità dei legislatore nella concreta disciplina della materia, ciò significa che non esiste un vincolo costituzionale dal punto di vista dei contenuti, ed allora non si può opporre l'ordine pubblico per impedire l'ingresso nell'ordinamento interno dell'atto di nascita di (omissis) solo perché formato all'estero secondo norme non conformi a quelle attualmente previste dalle leggi ordinarie, seppure imperative, ma astrattamente modificabili dal legislatore futuro"; 17. va richiamata ancora la sentenza della Corte EDU (nel caso Menesson c. Francia), la quale in un caso in cui l'autorità francese aveva disconosciuto lo status filiationis ai figli minori di una coppia che avevano fatto ricorso all'estero ad una tecnica di maternità surrogata, ha affermato la violazione del diritto alla vita privata dei figli minori; va ricordato che il nostro ordinamento prevede la possibilità che i figli siano riconosciuti da un solo genitore e tutela il diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuito ai figli nati all'estero e cittadini di uno stato estero, in base alle norme dello Stato in cui sono nati; 18. gli atti di nascita di cui i reclamanti chiedono la trascrizione non appaiono contrari all'ordine pubblico dunque e non solo perché contenenti dati di verità quali lo stato di gemelli e il riconoscimento di ciascuno da parte del proprio genitore biologico, ma anche perché quest'ultimo non è stato indicato nell'atto di nascita formato in California come "madre", pur essendo di sesso maschile; il nome di ciascun padre è stato inserito in un campo degli atti che fa riferimento non solo all'eventuale madre, ma anche al "parent", genitore, privo di connotazioni di genere, quindi anche ad un genitore di sesso maschile; 19. va quindi ordinato all'Ufficiale di Stato Civile del Comune di Milano la trascrizione integrale dei due atti di nascita riguardanti i minori (...) e (...) in quanto detti atti, formati in California secondo la legge di quello Stato, non appaiono contrari all'ordine pubblico; 20. nulla si provvede sulle spese, in mancanza di costituzione e di opposizione dell'Ufficiale di Stato Civile. P.Q.M. La Corte d'Appello di Milano, in riforma dell'impugnato decreto, così provvede; 1. Ordina all'Ufficiale di Stato Civile di provvedere alla trascrizione integrale dell'atto di nascita formato in California, Contea di Ventura, in data (...), relativo a (...), n. (...), con le indicazioni tutte ivi contenute; 2. Ordina all'Ufficiale di stato Civile del Comune di Milano di provvedere alla trascrizione integrale dell'atto di nascita formato in California, Contea di Ventura, in data (...), relativo a (...), n, in (...), con le indicazioni tutte ivi contenute. Così deciso in Milano, il 28 ottobre 2016. Depositata in Cancelleria il 28 dicembre 2016.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9944 del 2015, proposto dalla Regione Lombardia, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Pi.Da.Vi. e Ma.Em.Mo., con domicilio eletto presso lo studio dell’Avvocato Cr.Bo. in (omissis); contro L’Associazione "So.In." Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Ma.Cl. e Lo.Ca.Pl., con domicilio eletto presso lo studio dell’Avvocato Ci.Am. in (omissis); per la riforma della sentenza del T.A.R. per la Lombardia, Sede di Milano, Sez. III, n. 2271/2015, resa tra le parti; visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Associazione "So.In." Onlus; viste le memorie difensive; visti tutti gli atti della causa; relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 giugno 2016 il Consigliere Massimiliano Noccelli e uditi per la Regione Lombardia l’Avvocato Cr.Bo. su delega dell’Avvocato Ma.Em.Mo. e per l’Associazione “So.In.” Onlus, odierna appellata, l’Avvocato Ma.Mu. su delega dell’Avvocato Ma.Cl.; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. L’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004 ha vietato alle coppie sterili o infertili di accedere alla "procreazione medicalmente assistita (PMA) di tipo eterologo". 1.1. Con il dispositivo della sentenza n. 162 del 10 giugno 2014, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 4, comma 3, nella parte in cui aveva vietato, "per la coppia di cui all’art. 5, comma 1, della medesima legge, il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili". 2. Con la delibera del 12 settembre 2014, n. X/2344, la Giunta Regionale della Lombardia: - ha autorizzato le attività di "procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo" presso i "Centri P.M.A. " presenti sul territorio regionale, che già erano stati autorizzati in precedenza a effettuare le attività di procreazione medicalmente assistita di tipo omologo, in base alle originarie previsioni della l. n. 40 del 2004; - ha sospeso le procedure per il rilascio di ulteriori autorizzazioni e accreditamenti a Centri che intendano svolgere le attività di procreazione medicalmente assistita; - ha mantenuto ferme le preesistenti determinazioni che avevano posto a carico della Regione i costi per la fecondazione di tipo omologo, salvo il pagamento di un ticket da parte degli assistiti; - ha disposto che i costi per la fecondazione di tipo eterologo gravino interamente sugli assistiti, finché le tecniche di P.M.A. di tipo eterologo non siano inserite nei "livelli essenziali di assistenza" (L.E.A.). 2.1. Con la successiva delibera del 7 novembre 2014, n. X/2611, per le "prestazioni medicalmente assistite" sulla fecondazione di tipo eterologo, la Giunta Regionale ha fissato le tariffe a carico degli utenti, comprese tra i 1.500 e i 4.000 euro, in base alla complessità dell’intervento. 3. Con il ricorso di primo grado n. 3246 del 2014 (proposto al T.A.R. per la Lombardia, Sede di Milano), l’Associazione "SOS Infertilità" Onlus - il cui statuto prevede l’assistenza alle coppie nel settore della procreazione medicalmente assistita - ha impugnato le sopra indicate delibere regionali del 12 settembre 2014 e 7 novembre 2014. 3.1. L’Associazione ha lamentato la disparità di trattamento che tali delibere hanno prodotto tra le coppie che, in base alle indicazioni terapeutiche, intendano ricorrerre alla fecondazione omologa e le coppie che intendano ricorrere a quella eterologa e, dunque, la violazione di molteplici disposizioni costituzionali, nonché degli artt. 4 e 5 della l. n. 40 del 2004. 4. Con la sentenza n. 2271 del 2015, il T.A.R. per la Lombardia ha accolto in parte il ricorso della associazione appellata, ravvisando il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento tra le coppie, ed ha annullato le impugnate delibere del 12 settembre 2014 e 7 novembre 2014, nella parte in cui esse hanno posto a carico integrale degli assistiti il costo delle prestazioni per la PMA di tipo eterologo, stabilendone le relative tariffe. 4.1. In motivazione, il T.A.R. ha ritenuto che: - "l’ipotizzata carenza di risorse non potrebbe comunque determinare il completo sacrificio delle posizioni giuridiche dei soggetti che, in possesso dei prescritti requisiti (cfr. il punto 11.1 del considerato in diritto della sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale), volessero ricorrere alla procedura di PMA eterologa, considerato che il nucleo essenziale di un diritto fondamentale, qual è quello alla salute, cui la predetta prestazione va ricondotta, non può giammai essere posto in discussione, pur in presenza di situazioni congiunturali particolarmente negative (c.d. diritti finanziariamente condizionati" (pp. 8-9 della sentenza impugnata); - "il trattamento deteriore riservato alla PMA di tipo eterologo appare illegittimo anche per violazione del canone di ragionevolezza, attesa la riconducibilità di questa allo stesso genus della PMA di tipo omologo, assoggettata invece al pagamento del solo ticket" (p. 9 della sentenza impugnata). - le differenze tra le due procedure non rappresentano un elemento di selezione idoneo a giustificare il diverso trattamento, vista la loro sostanziale omogeneità derivante dalla comune assoggettabilità all’art. 7 della l. n. 40 del 2004, che fonda le Linee guida emanate dal Ministro della Salute, contenenti l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. 5. Con l’appello in esame, la Regione Lombardia ha censurato la sentenza del T.A.R. ed ha chiesto che in sua riforma sia integralmente respinto il ricorso di primo grado. 5.1. La Regione Lombardia ha proposto due articolati motivi d’appello. 5.2. L’appellante, anzitutto, ha lamentato che il T.A.R.: a) pur avendo correttamente richiamato il "principio-categoria", elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, dei "diritti finanziariamente condizionati", in modo contraddittorio se ne sarebbe discostato, arrivando a sostenere che "in ogni caso" la ristrettezza di risorse non potrebbe determinare il completo sacrificio delle posizioni giuridiche dei soggetti che volessero avvalersi della fecondazione eterologa; b) avrebbe descritto un sistema sanitario de iure condendo e non rispondente alle leggi vigenti, perché dopo la riforma del d.lgs. n. 502 del 1992 il sistema si regge su un principio diverso, che postula il divieto di far gravare sul fondo sanitario nazionale il costo di prestazioni e di servizi non essenziali (intendendo per essenziali quelli espressamente previsti nell’elenco dei L.E.A. e non quelli che dovrebbero essere qualificati tali, volta per volta, nel caso concreto); c) al di fuori dei L.E.A., e dunque anche per le tecniche di P.M.A., le Regioni possono erogare ulteriori servizi e prestazioni, utilizzando la stessa griglia dei L.E.A. in termini di appropriatezza e qualità, ma con oneri a carico del proprio bilancio, sicché rientra nella insindacabile discrezionalità della Regione il valutare se erogare le relative prestazioni a carico del proprio bilancio. 5.3. Con un secondo motivo connesso al primo, la Regione Lombardia, pur rilevando che la fecondazione omologa e quella eterologa sono species dello stesso genus, sottolinea però che: a) la fecondazione eterologa si sarebbe affermata come "tecnica percorribile" solo in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 162 del 2014, dopo che vi è stata la regolazione della fecondazione omologa, anche sotto i profili economici; b) in un determinato contesto storico ed economico, a suo tempo la Regione ha deciso di sostenere i costi per la P.M.A. di tipo omologo, mentre un’analoga scelta è risultata non praticabile nel 2014, in un periodo "segnato dalla restrizione continua delle risorse per il SSN che mette in discussione, o comunque rende problematica, la stessa erogazione dei LEA" (p. 10 dell’appello); c) i L.E.A. regionali sono frutto di scelte discrezionali, sindacabili in sede giurisdizionale solo se manifestamente irrazionali. 5.4. L’Associazione appellata si è costituita in giudizio ed ha chiesto che l’appello sia respinto. 5.5. Le parti hanno depositato memorie difensive, con cui hanno illustrato le questioni controverse ed hanno insistito nelle formulate conclusioni. 5.6. Nella pubblica udienza del 9 giugno 2016 il Collegio, sentiti i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in decisione. 6. Ritiene la Sezione che le articolate censure della Regione Lombardia - da esaminare unitariamente per la loro stretta interrelazione - sono infondate e vanno respinte. 7. Vanno premessi i principi rilevanti in materia di "procreazione medicalmente assistita" (P.M.A.), per come essi sono stati fissati dalla legge n. 40 del 2004 e sono stati poi incisi dalle statuizioni della sentenza della Corte Costituzionale n. 162 del 2014. 7.1. La fecondazione assistita dell’ovulo da parte degli spermatozoi fa parte della più ampia categoria della "procreazione medicalmente assistita" (P.M.A.), che raggruppa le tecniche, di qualsiasi natura (chirurgica, farmacologia, ormonale, meccanica, etc.), che consentono ad una coppia sterile la procreazione. 7.2. Anche se nell’uso comune le due espressioni sono talvolta considerate equivalenti, la fecondazione assistita è un sottoinsieme della P.M.A. che, però, tratta esclusivamente il processo di fecondazione dei gameti (cellule riproduttive). 7.3. In base alla provenienza dei materiali biologici, la fecondazione assistita si distingue in "omologa" (se il materiale biologico appartiene ai genitori del nascituro) e in "eterologa" (se il materiale biologico non appartiene ad uno dei due genitori o a nessuno dei due). 7.4. Sulla questione se le tecniche di fecondazione assistita (omologa od eterologa), rientrino propriamente nel concetto di "cura" e siano oggetto di "prestazioni mediche", ovvero se costituiscano un mero "sostegno alla coppia", si è pronunciata la Corte Costituzionale, che - con le sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015 - ha posto in rilievo come tali tecniche incidano sulla salute, fisica e certamente psichica, della coppia ed anzi riguardi quel "nucleo irriducibile del diritto alla salute", inteso sia quale irrinunciabile libertà dell’individuo, sia quale diritto sociale ad una prestazione essenziale da parte del Servizio Sanitario Nazionale. 7.5. Quanto alla portata delle disposizioni della legge n. 40 del 2004 sulle tecniche di "procreazione medicalmente assistita", si evince dai suoi articolati lavori preparatori - già richiamati in dettaglio dalla citata sentenza della Corte Cost. n. 162 del 2014 - che il divieto previsto dall’art. 4, comma 3, aveva innovato il precedente quadro normativo, nel quale era lecita l’attività volta alla "procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo". 7.6. In precedenza, il Ministro della Sanità con la "circolare" n. 55 del 1985 individuò i "Limiti e condizioni di legittimità dei servizi per l’inseminazione artificiale nell’ambito del servizio sanitario nazionale", mentre con la successiva circolare n. 17 del 1992 ammise la fecondazione di tipo eterologo anche nelle strutture pubbliche. 7.7. La successiva ordinanza ministeriale del 5 marzo 1997 impose il "Divieto di commercializzazione e di pubblicità di gameti e di embrioni umani" e dispose che tutti i centri, pubblici e privati, in cui si praticavano le tecniche di P.M.A. dovessero comunicare - al Ministero della Sanità, all’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e al competente Assessorato Regionale - la denominazione del centro e, tra gli altri dati, il tipo di attività espletata, per consentire un primo censimento dei centri dove veniva praticata la P.M.A., di tipo omologo od eterologo: dalla relativa "Indagine", era risultato il censimento, nel 2003, di 384 centri nei quali in Italia si praticava la "procreazione medicalmente assistita", di tipo omologo ed eterologo. 7.8. La legge n. 40 del 2004 ("Norme in materia di procreazione medicalmente assistita") all’art. 1, comma 1, ha "consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito". 7.9. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita sono state permesse dall’art. 4, comma 1, solo nel caso di accertata e documentata impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione (ovvero - come statuito con la sentenza della Corte Cost. n. 96 del 2015 - anche nel caso in cui le coppie siano fertili, ma portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili, accertate ai sensi dell’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del 1978). 8. Per quanto rileva nel presente giudizio, come prima si è osservato: - l’art. 4, comma 3, della l. n. 40 del 2004 aveva innovativamente vietato le tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo (in precedenza ammessa dai sopra indicati atti ministeriali). - il quadro normativo è sensibilmente mutato per effetto della già citata sentenza della Corte Costituzionale n. 162 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del medesimo art. 4, comma 3, nella parte in cui esso stabiliva il divieto del ricorso a tecniche di "procreazione medicalmente assistita" di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili. 8.1. La Corte Costituzionale ha ritenuto che: - nella comparazione tra l’aspirazione della coppia infertile alla genitorialità e la tutela del nato, non aveva una razionale giustificazione la proibizione assoluta della fecondazione eterologa, con gameti estranei alla coppia; - non sono dirimenti le differenze di P.M.A. di tipo omologo ed eterologo, da considerarsi entrambe species dello stesso genus, "benché soltanto la prima renda possibile la nascita di un figlio geneticamente riconducibile ad entrambi i componenti della coppia", dal momento che, anche tenendo conto delle diversità che caratterizzano queste tecniche, l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme con il proprio partner, con la fecondazione di tipo eterologo, può incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla "salute della coppia" (nell’accezione che al relativo diritto deve essere data secondo una nozione dinamica della salute, già accolta anche da questo Consiglio nella sentenza della sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460); - l’originario divieto legislativo della fecondazione di tipo eterologo poneva un vulnus al diritto alla salute, così inteso in tale dinamica e moderna accezione aperta alle istanze più profonde e irrinunciabili dell’individuo; - il divieto della P.M.A. di tipo eterologo - fermo il divieto di maternità surrogata, previsto dall’art. 12, comma 6, della stessa legge n. 40 del 2004 - aveva introdotto un elemento di irrazionalità, "poiché la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità, alla formazione della famiglia con figli, con incidenza sul diritto alla salute, [...] è stabilita in danno delle coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis" (sent. n. 162 del 2014); - la legge creava, altresì, un ingiustificato, "diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi". 9. Rileva la Sezione che la sentenza n. 162 del 2014 della Corte Costituzionale - nel rimuovere il divieto legislativo della fecondazione eterologa - al § 11.1. ha dato atto di come essa non avrebbe determinato "incertezze in ordine all’identificazione dei casi nei quali è legittimo il ricorso alla tecnica in oggetto", ovvero quando "sia stata accertata l’esistenza di una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o infertilità assolute" 9.1. Tuttavia, sotto il profilo organizzativo del Servizio Sanitario Nazionale (ed ai rapporti intercorrenti tra le coppie e le strutture regionali), dopo la sentenza della Corte Costituzionale per le attività divenute lecite non sono state emanate ulteriori disposizioni, né da parte del Parlamento nazionale, né da parte (per quanto rileva nel giudizio) dalla Regione Lombardia. 9.2. Le parti di questo giudizio hanno richiamato alcune iniziative, di carattere amministrativo e anche di carattere legislativo, volte a disciplinare tali attività ovvero a inserire la "procreazione medicalmente assistita" nell’ambito dei "livelli essenziali di assistenza". 9.3. Tali iniziative, tuttavia, non hanno condotto all’emanazione di regole legislative incidenti sullo status delle coppie, sicché - in loro mancanza - le Regioni ben possono esercitare i loro poteri amministrativi previsti dal d.lgs. n. 502 del 1992. 9.4. Nel frattempo, con decreto del 1° luglio 2015, il Ministero della salute ha aggiornato le "Linee Guida" (emanate nel 2008 in applicazione dell’art. 7 della l. n. 40 del 2004), disponendo che "nel caso di applicazione di tecniche di PMA di tipo eterologo, al fine di evitare illegittime selezioni eugenetiche, non è possibile per le coppie scegliere particolari caratteristiche fenotipiche del donatore", e l’art. 1, comma 298, della n. 190 del 2014 ha istituito il "Registro nazionale dei donatori di cellule riproduttive a scopi di PMA" di tipo eterologo. 9. In assenza di aggiornamenti al riguardo dei "livelli essenziali di assistenza", si è verificata una peculiare situazione, nella quale vi è la concreta possibilità di trattamenti differenziati nell’ambito delle singole Regioni. 9.1. Per le Regioni sottoposte al "piano di rientro sanitario" (Abruzzo, Campania, Lazio, Molise, Puglia) vi è attualmente un trattamento uniforme di carattere "negativo": l’art. 1, comma 174, della l. n. 311 del 2004 ha vietato di effettuare "spese non obbligatorie", tra le quali rientrano quelle di copertura delle prestazioni sanitarie non inserite nei L.E.A. (v., sul punto, Corte cost., 29 maggio 2013, n. 104). 9.2. Per le Regioni non sottoposte al "piano di rientro sanitario", in assenza di regole statali, può esservi una disciplina differenziata, che tenga conto delle risorse disponibili. 9.3. In data 4 settembre 2014, a seguito della conclusione di un accordo volto a "rendere immediatamente esigibile un diritto costituzionalmente garantito su tutto il territorio nazionale", la "Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome" ha approvato un "Documento sulle problematiche relative alla fecondazione assistita eterologa a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 162/2014" (doc. 3 fasc. parte ricorrente in primo grado). 9.4. Con tale "Documento" (v. p. 10), la "Conferenza delle Regioni e delle Province autonome" ha sottolineato "l’urgente necessità dell’inserimento nei LEA delle tecniche di PMA omologa e di quella eterologa" e ha ritenuto necessario che "per la PMA eterologa le strutture pubbliche e quelle accreditate siano pronte ad effettuare queste metodiche, attraverso una quantificazione economica omogenea tra le Regione e le Province Autonome mediante il riconoscimento delle prestazioni delle attività svolte da parte del SSN". 9.5. Il successivo 25 settembre 2014 la medesima Conferenza, con la "Definizione tariffa unica convenzionale per le prestazioni di fecondazione eterologa", ha ribadito "il principio di considerare la PMA (sia l’omologa che l’eterologa) un LEA, in attesa, come richiesto, del loro inserimento nel DPCM sui livelli essenziali di assistenza che, come previsto nel Patto per la Salute 2014-2016, dovrà essere rivisto entro la fine dell’anno" (doc. 4 fasc. parte ricorrente in primo grado). 9.6. In tale ultima occasione, "la Regione Lombardia ha comunicato che, fino a quando le prestazioni di PMA non verranno ricomprese nel DPCM che individua i LEA, le stesse saranno a carico dell’assistito anche qualora venissero rese da strutture di altre Regioni" (doc. 4 fasc. parte ricorrente in primo grado). 9.7. Gli atti della "Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome" hanno trovato una differente attuazione nelle singole Regioni (con conseguente ‘mobilità interregionalé, soprattutto per le coppie residenti nelle Regioni che non finanziano le P.M.A.). 9.8. Come emerge dagli atti acquisiti, alcune Regioni hanno recepito i contenuti del "Documento" del 4 settembre 2014, prevedendo la rimborsabilità delle PMA di tipo eterologo, a carico del Servizio Sanitario Nazionale (le Regioni Toscana, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia e l’Umbria, nonché la Regione Veneto, con alcune particolari regole sul rilievo di limiti di età). 9.9. Le Regioni soggette al "piano di rientro" si sono dovute attenere alle disposizioni della legge statale, escludendo che i relativi costi vadano posti a carico del Servizio Sanitario Nazionale. 10. Ritiene la Sezione, tutto ciò premesso, che - come ha correttamente rilevato la sentenza appellata - risultano effettivamente illegittimi gli atti impugnati in primo grado, con cui la Regione Lombardia ha stabilito di non sovvenzionare le prestazioni di "procreazione medicalmente assistita" di tipo eterologo (a differenza delle prestazioni di PMA di tipo omologo, che sono state poste a carico del Servizio Sanitario Nazionale, con il pagamento di unticket da parte dell’assistito). 11. Nel quadro successivo alla sentenza n. 162 del 2014 della Corte Costituzionale, contraddistinto da marcate differenze territoriali, tra Regione e Regione, nell’accesso alle prestazioni sanitarie, la Regione Lombardia ha stabilito di non sovvenzionare le prestazioni di P.M.A. di tipo eterologo, a differenza delle prestazioni di P.M.A. di tipo omologo, salvo il pagamento di un ticket da parte dell’assistito. 11.1. Tale decisione è stata espressa e formalizzata nella qui impugnata deliberazione del 12 settembre 2014, n. X/2344. 11.2. Il T.A.R. per la Lombardia, come si è premesso (v. supra § 4), ha annullato tale delibera nella misura in cui essa ha distinto la fecondazione omologa da quella eterologa, quest’ultima posta ad intero carico dell’assistito, poiché ha ritenuto che "l’ipotizzata carenza di risorse non potrebbe comunque determinare il completo sacrificio delle posizioni giuridiche dei soggetti che, in possesso dei prescritti requisiti (cfr. il punto 11.1 del considerato in diritto della sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale), volessero ricorrere alla procedura di PMA eterologa, considerato che il nucleo essenziale di un diritto fondamentale, qual è quello alla salute, cui la predetta prestazione va ricondotta, non può giammai essere posto in discussione, pur in presenza di situazioni congiunturali particolarmente negative (c.d. diritti finanziariamente condizionati: cfr., tra le altre, Corte costituzionale, sentenze n. 248 del 2011 e n. 432 del 2005) " (pp. 8-9 della sentenza impugnata). 11.3. Richiamando le motivazioni della sentenza n. 162 del 10 giugno 2014 della Corte Costituzionale, sopra riportate, il giudice di primo grado ha osservato "come il trattamento deteriore riservato alla PMA di tipo eterologo appare illegittimo anche per violazione del canone di ragionevolezza, attesa la riconducibilità di questa allo stesso genus della PMA di tipo omologo, assoggettata invece al pagamento del solo ticket" (p. 9 della sentenza impugnata). 12. La Regione Lombardia ha contestato tali motivazioni per due ordini di motivi, sostanzialmente connessi, sopra sintetizzati. 13. Entrambi i motivi, che devono essere unitariamente esaminati per la loro stretta interrelazione, sono infondati. 13.1. Si può prescindere dal preliminare rilievo che le ragioni di ordine finanziario non sono state esplicitate dalla Regione nei provvedimenti impugnati in primo grado per esaminare, nel merito, il tema centrale del presente giudizio e, cioè, la legittimità del potere esercitato dall’Amministrazione nell’organizzazione di un pubblico servizio essenziale quale quello sanitario. 13.2. Questo potere, che conforma il concreto esercizio del diritto alla salute, spetta all’Amministrazione sanitaria, poiché è evidente che, fuori dai vincoli relativi ai livelli essenziali di assistenza e da oggettivi criteri di economicità e di appropriatezza, le scelte organizzative in questa materia rientrano nella sfera di massima discrezionalità politico-amministrativa, demandata dal d.lgs. n. 502 del 1992 all’Amministrazione regionale (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 6 febbraio 2015, n. 604; Cons. St., sez. III, 7 dicembre 2015, n. 5538). 13.3. Compete all’Amministrazione sanitaria, quindi, il compito di fissare le condizioni e i limiti e, più in generale, la cornice delle linee organizzative e delle modalità procedurali entro la quale si attua il concreto esercizio del diritto alla salute e l’effettiva erogazione delle prestazioni sanitarie. 13.4. Il giudice amministrativo deve limitarsi a valutare se sussistano in questo apprezzamento profili di evidente illogicità, di contraddittorietà, di ingiustizia manifesta, di arbitrarietà o di irragionevolezza nella scelta amministrativa (v., sul punto, Cons. St., sez. III, 6 febbraio 2015, n. 604; Cons. St., sez. III, 10 giugno 2016, n. 2501). 13.5. Occorre premettere, nell’affrontare la questione, che il riconoscimento del diritto alla salute non è assoluto e incontra limiti sia esterni, posti dall’esistenza di diritti costituzionali di pari rango, che interni, posti appunto dall’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale. 13.6. Il primo e più grave limite, connaturato al potere organizzativo dell’Amministrazione, è quello finanziario, che si riflette in modo inevitabile, e profondamente incisivo, sull’organizzazione regionale del servizio sanitario, come emerge dalla più recente esperienza della crisi finanziaria e delle politiche improntate al contenimento del disavanzo pubblico (v., in questo senso, Cons. St., sez. III, 7 dicembre 2015, n. 5538, sopra già menzionata). 13.7. Questo limite, al pari di tutti gli altri intrinseci ad un sistema sanitario organizzato secondo i principi di universalità e appropriatezza, conforma e, nel contempo, contempera l’esercizio del diritto alla salute da parte del singolo assistito in accordo con l’eguale riconoscimento, a parità di sostanziali condizioni, da parte degli altri aventi diritto, in un contesto nel quale alla crescita, per quantità e per qualità, della domanda sanitaria corrisponde la limitatezza delle strutture pubbliche e il sempre più rigoroso contenimento delle risorse finanziarie, sottoposte a vincoli di bilancio assai stringenti (v., sul punto e in particolare, la già menzionata sentenza di questo Consiglio, sez. III, 7 dicembre 2015, n. 5538). 14. La Regione deve garantire ragionevolmente il medesimo trattamento a tutti i soggetti che versino nella stessa sostanziale situazione di bisogno, a tutela del nucleo irriducibile del diritto alla salute (art. 32 Cost.), quale diritto dell’individuo e interesse della collettività, o di altri costituzionalmente rilevanti - qui, in particolare, quelli di cui agli artt. 2, 3, 29 e 31 Cost. - e in applicazione, comunque, del superiore principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3, comma secondo, Cost. 14.1. Pur dovendo considerare la scarsezza dei mezzi e la limitatezza delle risorse di cui dispone, infatti, l’Amministrazione non può ignorare una domanda di prestazione sanitaria che si faccia portatrice di interessi sostanziali parimenti bisognosi di risposta, poiché verrebbe meno, altrimenti, al fondamentale compito che le compete in uno Stato sociale di diritto, quello di garantire i livelli essenziali di assistenza o, comunque, l’effettività di un diritto complesso - e così essenzialmente interrelato all’organizzazione sanitaria - come quello alla salute nel suo nucleo irriducibile, pur in un quadro di risorse finanziarie limitate. 15. La stessa Corte Costituzionale ha certo ribadito, ormai da tempo, la configurazione del diritto alle prestazioni sanitarie come “finanziariamente condizionato”, giacché "l’esigenza di assicurare la universalità e la completezza del sistema assistenziale nel nostro Paese si è scontrata, e si scontra ancora attualmente, con la limitatezza delle disponibilità finanziarie che annualmente è possibile destinare, nel quadro di una programmazione generale degli interventi di carattere assistenziale e sociale, al settore sanitario" (Corte cost., 27 luglio 2011, n. 248). 15.1. In quest’ottica la definizione dei livelli essenziali di assistenza in materia sanitaria (e delle prestazioni sanitarie che vanno erogate su tutto il territorio nazionale), con apposito d.P.C.M., è finalizzata, dunque, non solo ad offrire, in positivo, un catalogo delle prestazioni che lo Stato è tenuto a garantire per assicurare l’effettività del diritto alla salute, ma va considerata anche come il limite che le singole Regioni non possono superare senza creare uno squilibrio delle proprie risorse finanziarie. 15.2. Cionondimeno, come rilevato dalla stessa Regione appellante, le Regioni non sottoposte al piano di rientro per il dissesto finanziario causato dalla spesa sanitaria (v., per queste, Corte cost., 29 maggio 2013, n. 104) ben possono consentire l’erogazione di prestazioni sanitarie aggiuntive rispetto al “catalogo” dei L.E.A., assumendosene l’onere economico, laddove ciò sia finalizzato a garantire il “nucleo irriducibile” del diritto alla salute. 15.3. E tanto è stato fatto proprio dalla Regione Lombardia con riferimento, almeno inizialmente (e, cioè, prima della sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale), alla P.M.A. di tipo omologo, per il quale gli assistiti pagavano e pagano un ticket, anche dopo la pronuncia di illegittimità costituzionale. 16. Non è dato tuttavia a questo Collegio individuare nelle determinazioni regionali, pur nella loro ampia discrezionalità, le ragioni di questa distinzione tra le prestazioni di P.M.A. di tipo omologo, finanziate dalla Regione, e quelle di tipo eterologo, poste invece ad integrale carico degli assistiti. 16.1. Alla Regione appellante non giova, per sostenere la legittimità di siffatta distinzione, l’argomento secondo cui simili scelte, consistenti nel finanziare prestazioni sanitarie aggiuntive rispetto ai L.E.A., sono sempre “discriminatorie”, attenendo a valutazioni che, salvi casi di manifesta irrazionalità, non sono sindacabili dal giudice amministrativo. 16.2. Le scelte dell’Amministrazione, soprattutto se comprimono o riducono la sfera delle situazioni riconducibili al novero dei diritti fondamentali, devono fondarsi su un criterio discretivo razionale, espresso nel provvedimento e sindacabile dal giudice amministrativo. 16.3. Se è vero che l’esercizio della discrezionalità amministrativa, ad ogni livello decisorio, ha anche una indubbio margine di “politicità”, poiché seleziona taluni interessi rispetto ad altri, nell’esercizio del potere, a fronte di mezzi e risorse scarsi, è pur vero che questo esercizio, che implica necessariamente una scelta anzitutto per ragioni di ordine finanziario, non può penalizzare in modo indiscriminato altri interessi, parimenti meritevoli di tutela, senza giustificarne le ragioni, risiedendo proprio nell’esternazione di queste ragioni l’essenza dell’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.). 16.4. Tale principio è stato già affermato da questo Consiglio per i casi in cui un provvedimento amministrativo regionale disponga provvidenze nei confronti di pazienti affetti da malattie particolarmente gravi, da considerare equivalenti sulla base di regole fissate nella stessa sede regionale (Cons. St., sez. III, 10 giugno 2016, n. 2501; Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1713, entrambe in fattispecie in cui la destinazione delle risorse economiche era stata illegittimamente riservata ai malati di SLA, senza tenere conto delle esigenze di altri malati, affetti da gravissime patologie da considerare equiparabili, "a parità di punteggio Barthel", cioè in base ad un criterio oggettivo, individuato in sede regionale). 16.5. A maggior ragione, quindi, il Collegio ritiene che il medesimo principio si debba applicare quando si tratti delle prestazioni riguardanti "categorie" che vanno considerate equiparabili sulla base di una espressa disposizione di legge ovvero, il che è lo stesso, da una sentenza della Corte Costituzionale, sicché in sede amministrativa, a seguito della sentenza n. 162 del 2014, non possono esservi discriminazioni tra le coppie che si possono legittimamente avvalere della fecondazione omologa e quelle che si possono legittimamente avvalere di quella eterologa. 17. L’imparzialità dell’amministrazione, che è tutt’uno con il suo buon andamento, risponde al quadro di fondamentali principi costituzionali e, primo tra tutti, a quello di eguaglianza sostanziale, il quale consente, ed anzi impone, che le scelte dell’autorità siano sì selettive, ma mai discriminatorie. 17.1. Il punctum discriminis poi, in questa specifica materia, non può essere rinvenuto nelle sole esigenze finanziarie che, pur dovendo essere preservate in un ragionevole contemperamento di altri beni costituzionali (v., in particolare, artt. 81 e 117, comma secondo, lett. e) Cost.), mai possono sacrificare interamente il nucleo irriducibile e “indefettibile” del diritto alla salute, nucleo indefettibile che la stessa Corte Costituzionale, nel § 7 della sentenza n. 162 del 2014, ha riaffermato proprio in riferimento alla fecondazione eterologa e a tutela dei soggetti meno abbienti, privi delle risorse economiche sufficienti a sostenerne i costi e a praticarla all’estero. 17.2. Il richiamo a tali esigenze finanziarie, peraltro - come accennato - nemmeno adombrate nei provvedimenti regionali, non può giustificare né celare la mancanza di adeguate ragioni selettive, che pongano un ragionevole punto di discrimine nell’accesso alle prestazioni sanitarie di soggetti aventi pari diritto. 17.3. Anche il riferimento della Regione appellante (pp. 14-15 del ricorso) alla mancata inclusione dei L.E.A., perciò, non appare decisivo, poiché esso non impedisce alla Regione - che, come detto, non versi in uno stato di dissesto finanziario - di ammettere, nella propria autonomia garantita anche dall’art. 117 Cost., l’erogazione di prestazioni sanitarie aggiuntive rispetto ai L.E.A., laddove disponga di risorse finanziarie utili a tal fine, come ha appunto fatto la Regione appellante, assumendo a proprio carico, sia pure con la previsione di un ticket, le tecniche di fecondazione omologa. 17.4. Nel fare ciò la Regione, pur muovendo da un iniziale approccio che ha tenuto conto delle esigenze delle coppie interessate alla P.M.A. di tipo omologo, non ha poi parimenti considerato le esigenze di quelle interessate alla P.M.A. di tipo eterologo, pure penalizzate in egual modo dalla mancanza di adeguate risorse economiche per poter accedere a tali prestazioni, che la Corte costituzionale ha equiparato, sul piano della tutela del diritto alla salute, a quelle di tipo omologo. 18. La doverosa considerazione delle esigenze finanziarie da parte dell’Amministrazione non possono indurla a discriminare, come è avvenuto nel caso di specie, talune prestazioni all’interno di una categoria di medesimi assistiti da trattare in modo unitario, incidendo negativamente, per i soggetti discriminati, sul loro diritto alla salute, per quanto “finanziariamente condizionato”, e sul nucleo “irriducibile” ed essenziale del loro diritto, quale affermato e configurato dalla Corte costituzionale. 18.1. Se scelta vi è e vi deve essere, perciò, l’Amministrazione deve individuare un ragionevole punto di raccordo e di bilanciamento tra i due valori costituzionali, la salute e l’equilibrio finanziario. 18.2. Poiché è anzitutto nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale che il diritto alla fecondazione eterologa deve trovare attuazione, l’impedimento della sua attuazione, come ha chiarito la Corte Costituzionale nella sentenza n. 162 del 10 giugno 2014, non è "giustificabile neppure richiamando l’esigenza di intervenire con norme primarie o secondarie per stabilire alcuni profili della disciplina della PMA di tipo eterologo". 19. Non si tratta di ipotizzare e nemmeno di vagheggiare un sistema normativo de iure condendo, come prospettato dalla Regione, né di imporre all’Amministrazione sanitaria l’erogazione, a proprio carico, di prestazioni non comprese nei livelli essenziali di assistenza, con non consentito aggravio della finanza pubblica regionale. 19.1. La mancata inclusione della fecondazione eterologa tra i L.E.A., dovuta alle pur comprensibili difficoltà che in una fase iniziale l’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale ha incontrato dopo la sentenza n. 162 del 10 giugno 2014, non può infatti incidere sul suo nucleo irriducibile del diritto fondamentale, riconosciuto dalla Corte Costituzionale nel § 7 della sentenza n. 162 del 2014. 19.2. L’inclusione di una prestazione nei L.E.A. costituisce la premessa perché il nucleo irriducibile del diritto alla salute sia garantito, ma è pur vero che la non (ancora avvenuta) inclusione della prestazione tra i L.E.A. non esclude che tale nucleo irriducibile possa essere vulnerato, se non vanificato del tutto. 19.3. Malgrado la peculiarità del quadro normativo, determinatosi dopo la sentenza della Corte, l’assenza dinormae agendi o di adeguate misure organizzative o, come si è detto, il mancato aggiornamento dei L.E.A. non possono esimere l’Amministrazione sanitaria dall’erogare un doveroso servizio o almeno dal contribuire, seppure in parte, al suo costo (v. già, in questo senso, la già richiamata pronuncia di questo Cons. St., sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460). 20. L’Amministrazione, proprio in base ai principi di eguaglianza e di buona amministrazione sopra esposti, non può dunque negare l’erogazione di una essenziale prestazione sanitaria senza dare conto delle ragioni che a ciò l’hanno indotta o, al più, con un riferimento a non specificate ragioni finanziarie, senza che possa comprendersi, dalla lettura del provvedimento impugnato, quale sia il bilanciamento operato dall’Amministrazione tra il diritto alla salute e i vincoli di bilancio, che la costringano a scegliere tra taluni soggetti beneficiari delle prestazioni. 20.1. Il riferimento a tali ragioni deve esplicitare il perché, a fronte di risorse finanziarie scarse, taluni soggetti si troverebbero ad essere “preferiti” rispetto ad altri o talune prestazioni sanitarie siano considerate erogabili ed altre no, pena l’arbitrarietà di una diversa decisione, con conseguente incidenza su diritti costituzionali, parimenti meritevoli di tutela, e fondata unicamente sulla “ragion fiscale”. 20.2. Nella specie, risultano illegittimi gli atti impugnati in primo grado, perché le stringenti ragioni di ordine finanziario, qui invocate, non hanno impedito all’Amministrazione di porre a proprio carico (sia pure col pagamento di un ticket) l’erogazione delle prestazioni di P.M.A. di tipo omologo, pure esse non ricomprese tra i LEA, discriminandole da quelle di tipo eterologo, nonostante le due tecniche siano, come chiarito dalla Corte costituzionale, species dello stesso genere, fatte salve le specificità - che qui non vengono in rilievo - proprie di ciascuna di esse. 21. La sentenza del T.A.R., nel censurare l’irragionevolezza della disparità venutasi a creare per effetto delle determinazioni impugnate, ha dunque correttamente esercitato il sindacato del giudice amministrativo sull’esercizio della discrezionalità, da parte dell’Amministrazione sanitaria, e sull’eccesso di potere nella quale è incorsa per avere discriminato le prestazioni di PMA di tipo omologo ed eterologo, "senza una plausibile ragione discretiva, venendo così a ledere valori e beni di rango costituzionalmente protetto e situazioni riconducibili, quale che sia il loro formale inquadramento giuridico, al novero dei diritti fondamentali" (per tale enunciazione, cfr. Cons. St., sez. III, 10 giugno 2016, n. 2501). 22. Ritiene il Collegio, concludendo, di dovere qui enunciare e riassumere pertanto i seguenti principi di diritto: a) la determinazione regionale di distinguere la fecondazione omologa da quella eterologa, finanziando la prima e ponendo a carico degli assistiti la seconda, non risulta giustificata e, nell’incidere irragionevolmente sull’esercizio del diritto riconosciuto dalla sentenza n. 162 del 10 giugno 2014 della Corte Costituzionale, realizza una disparità di trattamento lesivo del diritto alla salute delle coppie affette da sterilità o da infertilità assolute; b) la circostanza che determinate prestazioni sanitarie non siano state inserite nei livelli essenziali di assistenza, pur rappresentando un limite fissato alle Regioni (art. 117, comma secondo, lett. m, Cost.) e connesso alla salute intesa quale diritto finanziariamente condizionato, non può costituire ragione sufficiente, in sé sola, a negare del tutto prestazioni essenziali per la salute degli assistiti, né può incidere sul nucleo irriducibile ed essenziale del diritto alla salute, poiché l’ingiustificato diverso trattamento delle coppie affette da una patologia, in base alla capacità economica delle stesse, "assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale" (Corte Cost., 10 giugno 2014, n. 162); c) la Regione ha il potere di fissare limiti e condizioni all’esercizio di questo diritto, nell’esercizio di una ampia discrezionalità, e anche quello di riconoscere prestazioni sanitarie aggiuntive rispetto ai L.E.A., ma la distinzione tra situazioni identiche o analoghe, senza una ragione giuridicamente rilevante, integra un’inammissibile disparità di trattamento nell’erogazione delle prestazioni sanitarie e, quindi, una discriminazione che, oltre a negare il diritto alla salute (art. 32 Cost.), viola il principio di eguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, comma secondo, Cost. e il principio di imparzialità dell’amministrazione, di cui all’art. 97 Cost. d) la Regione Lombardia, in quanto non sottoposta a piano di rientro, può esercitare il potere organizzativo in materia sanitaria, anche individuando prestazioni aggiuntive rispetto a quelle previste nei livelli essenziali di assistenza e selezionando categorie destinatarie delle medesime prestazioni aggiuntive, ma non può all’interno della categoria così individuata operare distinzioni che si pongano in contrasto con il principio di eguaglianza (nella specie, poiché la Regione ha posto a carico del Servizio Sanitario Regionale, sia pure con il pagamento di un ticket, le prestazioni di procreazione medicalmente assistita di tipo omologo, l’aver posto a carico delle coppie i costi di quella di tipo eterologo comporta l’illegittimità della scelta regionale in ragione della equiparazione tra le due tecniche disposta dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 162 del 2014). 23. Per tutte le ragioni esposte, conclusivamente sintetizzate nel § 22, la sentenza impugnata va confermata, salve le ulteriori determinazioni regionali. 24. Le ulteriori considerazioni svolte dalla Regione appellante a solo fine devolutivo (pp. 10-13 e pp. 15-16 del ricorso) in ordine alle ulteriori determinazioni dei provvedimenti impugnati in primo grado, non incise dalla statuizione di annullamento del T.A.R., sono dunque irrilevanti. 25. Le spese del presente grado di giudizio, considerata la novità delle questioni trattate in un quadro normativo mutato per effetto della sentenza n. 162 del 10 giugno 2014 della Corte Costituzionale, possono essere interamente compensate tra le parti. 25.1. Rimane definitivamente a carico della Regione appellante, attesa la sua sostanziale soccombenza, il contributo unificato corrisposto per la proposizione del gravame. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) respinge l’appello n. 9944 del 2015 e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata. Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado di giudizio. Pone definitivamente a carico della Regione Lombardia il contributo unificato corrisposto per la proposizione dell’appello. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 23 giugno 2016, con l’intervento dei magistrati: Luigi Maruotti - Presidente Lydia Ada Orsola Spiezia - Consigliere Giulio Veltri - Consigliere Massimiliano Noccelli - Consigliere, Estensore Paola Alba Aurora Puliatti - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI ROMA Riunito in Camera di Consiglio in persona di: Dott.ssa Carmela Cavallo Dott.ssa Annamaria Contillo Dott.ssa Cinzia Mastrolia Dott. Rosario Salamone ha pronunciato la seguente SENTENZA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Letti gli atti del procedimento (...) relativo al minore (...), nato a (...) iniziato su ricorso ex art. 44 lettera d) L. 184/83, come modificato dalla L. 149/2001, proposto da (...), nato a (...), in qualità di convivente di (...) nato a (...) residente in (...), padre del minore, si rileva quanto segue: Il (...) nel ricorso afferma di aver conosciuto il (...) il periodo di studi presso l'Università (...) ateneo nel quale si sono entrambi laureati. Nel (...) hanno lavorato presso la stessa azienda e, nel corso del quel rapporto di autentica amicizia che li legava si è trasformato in una relazione sentimentale. I sette anni di convivenza ed il forte legame che li ha sempre uniti, spingeva la coppia a contrarre matrimonio in Canada nel (...) Stato nel cui ordinamento tale vincolo è riconosciuto come diritto della persona. Nel corso della relazione la coppia aveva sentito fortemente il desiderio di avere un figlio, ma aveva atteso interrogandosi sul come e sul dove, attingendo informazioni e consigli. Quando il progetto di genitorialità divenuto chiaro ad entrambi ed entrambi si erano sentiti responsabilmente pronti per mettere al mondo un figlio, avendo elaborato ogni possibile passaggio dal desiderio alla sua fattuale realizzazione, si erano recati in Canada, al fine di concretizzare il loro progetto di genitorialità condivisa. Anche la scelta del paese, ove realizzare il progetto di genitorialità, non è stata casuale. Infatti, il Canada è il paese che maggiormente garantisce i diritti alle coppie omosessuali e soprattutto proibisce la maternità surrogata con finalità commerciali, ammettendo solo quella su base volontaria. In questo paese, infatti, è stato possibile utilizzare l'utero di una donna per la gestazione, una volta che l'ovulo era stato fecondato in vitro, senza corrispondere alcuna somma di danaro alla gestante, individuata secondo parametri standard dalla agenzia specializzata a tale finalità preposta. La donna ha potuto beneficiare esclusivamente del periodo di assenza dal lavoro previsto per la maternità, anche quella surrogata, dedicandosi così maggiormente alla propria famiglia. I partner hanno nel corso della gestazione mantenuto costanti rapporti con la donna portatrice, recandosi da lei nel corso della gravidanza e restando nella città natale del bambino per oltre due mesi dopo la sua nascita. Da quel momento il (...) si è dedicato al bambino, allevandolo amorevolmente e responsabilmente, in quanto lo sente figlio a tutti gli effetti. Pertanto, alla luce dei rapporti instaurati e consolidatisi nel tempo, chiede a questo Tribunale dichiararsi nei suoi confronti e nell'interesse del bambino l'adozione in casi particolari ai sensi e per gli effetti dell'art. 44, primo comma, lettera d), della Legge n. 184/83, come modificata dalla Legge n. 149/2001. In data 02/02/2015 questo Tribunale faceva richiesta al Servizio sociale Area Minori dell'(...) Municipio di (...) Direzione (...) di redigere approfondita indagine socio - ambientale sul nucleo familiare, sulla relazione di coppia e sulla relazione coppia - bambino; l'indagine avrebbe dovuto prevedere anche un incontro con gli operatori della scuola dell'infanzia, onde verificare il comportamento del bambino in classe ed il rapporto con i compagni, nonché un incontro con il pediatra al fine di constatare lo stato di salute del piccolo (...). Tale indagine era finalizzata ad accertare se il percorso di vita del bambino avrebbe garantito uno sviluppo psico - fisico adeguato e congruo all'età. L'accertamento si sarebbe dovuto estendere anche alla disponibilità a collaborare alla crescita del minore da parte della rete familiare e amicale dei partner. La relazione perveniva in data (...). Si tratta di un'analisi approfondita che è riuscita a sviscerare ogni aspetto della vita familiare in cui svolgono la loro quotidianità il padre, il compagno ed il piccolo (...). Si sottolinea che entrambi gli uomini appartengono a nuclei familiari nei quali hanno potuto formare la propria personalità in piena autonomia essendo stati supportati da stima e affetto dei propri familiari. Hanno entrambi studiato e fatto l'Università in una città diversa da quella di nascita, si sono realizzati pienamente nel mondo del lavoro ed hanno viaggiato molto all'estero. Hanno entrambi avuto esperienze etero, anche per lungo tempo, ma in piena consapevolezza hanno poi definito la propria identità sessuale assumendo responsabilmente la loro scelta di vita. Sono entrambi persone colte e preparate che hanno affrontato il tema della genitorialità, sia sotto il profilo della loro volontà autenticamente condivisa di creare una famiglia, sia sotto il profilo della consapevolezza dell'importanza della loro scelta e delle possibili conseguenze per il bambino e, quindi, in modo responsabile e lungimirante. La nascita di (...) avvenuta nello Stato del Canada è stata accolta dalla coppia con gioia, entrambi hanno assistito al parto e, quando (...) è venuto alla luce, il primo a prenderlo in braccio è stato il ricorrente, il quale ha proceduto al taglio del cordone ombelicale. Da quel momento, per la legge canadese, (...) è divenuto a tutti gli effetti loro figlio e, fin dalla prima notte, lo hanno potuto tenere con loro, inizialmente in ospedale e successivamente presso l'abitazione che avevano preso in affitto. Dopo circa due mesi hanno fatto rientro in Italia, dove sono stati accolti con molta felicità da parenti e amici. Gli stessi parenti e amici con cui a (...) la coppia ha festeggiato il battesimo di (...) avvenuto a (...) presso la parrocchia del quartiere. Il piccolo (...) ha sempre vissuto con la coppia che lo ha accudito fin dal primo momento. Il neonato non ha mai avuto particolari problemi di salute, ha avuto un allattamento artificiale ed un ritmo sonno/veglia regolare. Oggi, per (...), il (...) è il suo (...) ed il (...) suo (...). Conosce ed ha rapporti regolari con la donna che lo ha partorito e con i suoi familiari. La coppia è stata attenta a fare degli album fotografici e ad acquistare (...) libri per bambini che possano aiutare (...) a comprendere la sua storia di vita e quella dei suoi genitori. Le educatrici dell'asilo descrivono (...) come un bambino dinamico, attivo, loquace, sereno e con un livello relazionale adeguato sia con i compagni sia con le educatrici stesse. Il bambino ha instaurato buone relazioni con le figure di riferimento, dalle quali è capace di tollerare anche il distacco. Nell'interazione con il padre ed il di lui compagno - appare sereno. Entrambi i partner hanno modalità affettuose e, allo stesso tempo, rispettose dei tempi del bambino. Le operatrici riferiscono testualmente che il (...) utilizza uno stile comunicativo più vivace: chiama il piccolo talvolta con vezzeggiativi ed è più "mobile" nei movimenti e nella mimica facciale. (...) rivolge più frequentemente a lui, chiede aiuto nel gioco ed approvazione nello sguardo, il (...) ha una modalità più contenuta: osserva il figlio sorridendo, interviene meno del compagno nel gioco, ma è presente un'attenzione discreta che bilancia in modo armonico lo stile dell'altro". (...) viene descritto dagli operatori come un bambino che ha un livello di competenze adeguato alla sua età e che sta sviluppando uno stile di attaccamento sicuro, esito di un ambiente di crescita adeguato. In entrambi i componenti la coppia, a giudizio dei professionisti del Servizio sociale, estensori della relazione socio - ambientale, sono presenti le capacità affettive, normative, di rassicurazione, in quanto sia il (...) che il (...) dimostrano di considerare il bambino l'interesse prioritario della loro esistenza: il lungo percorso che li ha portati a questa scelta e la maturità acquisita depongono a favore di ima piena garanzia per lo sviluppo armonico delle potenzialità di (...). Anche la pediatra che segue il bambino ha comunicato alle operatrici che il piccolo (...) ha uno sviluppo psicofisico adeguato all'età cronologica ed una buona interazione con le due figure di riferimento: il padre ed il di lui compagno, i quali recepiscono le sue osservazioni ed i suoi consigli in ordine allo stato di salute del bambino. La pediatra ha dichiarato anche di non rilevare da parte di questi ultimi differenza di atteggiamenti nei confronti del bambino e di avere avuto modo di conoscere anche la nonna paterna, perché in più occasioni ha accompagnato premurosamente il nipotino ai controlli. Nel corso della visita domiciliare il Servizio sociale ha potuto osservare che la casa offre spazi congrui al bambino, il quale dispone di una propria cameretta ben attrezzata, con i giochi adatti all'età. L'abitazione è apparsa accogliente, una collaboratrice domestica si dedica alla casa ed al bambino. Nel colloquio con i due partner è emerso che il bambino frequenta coetanei e mantiene rapporti in particolare con i figli della zia paterna e con i nonni paterni, con i quali trascorre l'intero mese di luglio a (...) raggiunto dal padre e dal (...), ancora al lavoro, per il fine settimana. Il minore mantiene altresì rapporti anche con il padre del (...) che vive in (...) ad (...) che accoglie il figlio, il bambino ed il padre, offrendo loro un luogo particolarmente idoneo per (...) perché fuori dal movimento turistico che raggiunge (...) durante l'estate. (...). All'udienza (...) comparivano il ricorrente ed il convivente (...). Il (...) svolge la professione di impiegato, con la qualifica di (...) e riferisce che (...) gode di ottima salute, frequenta la scuola materna (...) individuata da lui e dal (...) come struttura all'avanguardia nell'istruzione e adeguata a seguire ed assistere il piccolo. Il (...) che lavora nel settore (...) di un'azienda riferisce che lui e agiscono in perfetta sintonia e che (...) si relaziona con grande affetto ad entrambi. Nella crescita e nello sviluppo del bambino possono contare sulla collaborazione e l'aiuto indiscriminato di un'ampia rete familiare: il (...) ha una sorella con 2 figlie, una di (...) e una di (...) con quali, insieme al (...), ha sempre trascorso le festività del Natale ed i primi due compleanni del figlio. Il padre del (...) ha appoggiato e sostenuto il progetto di genitorialità del figlio perché i due giovani potessero, mettere al mondo (...) ed è presente nella vita del bambino che definisce "un bambino adorabile". (...). La coppia ha alle spalle una stabile convivenza, che dura da circa dodici anni e si è mantenuta nel tempo serena: i rapporti amicali sono molteplici e dopo la nascita di (...) cerchia di amici si è arricchita di coppie con bambini della medesima età, perché il piccolo possa crescere con altri coetanei ed abbia come riferimenti le diverse forme di famiglia. In data (...) il giudice delegato inviava al P.M.M. richiesta di parere sul ricorso di (...) all'adozione di (...), fondando la sua richiesta sui seguenti punti: - L'adozione in casi particolari prevista dalla Legge n. 184/83 e successive modifiche deve essere sempre disposta nell'interesse superiore della persona di età minore. Questo principio universale è declinato in tutte le Convenzioni internazionali emanate in ordine alla piena tutela dell'infanzia. Si richiamava in particolar modo la Convenzione europea sull'adozione dei minorenni data a Strasburgo il 27 novembre 2008, la quale prevede all'art. 7, che l'adozione sia permessa a due persone di sesso diverso o anche ad una sola persona, ma che gli Stati sono liberi di estendere lo scopo della stessa Convenzione anche a coppie dello stesso sesso con una relazione permanente. - L'interesse superiore del minore deve essere valutato con estrema attenzione nel caso, concreto e tutti gli elementi raccolti dalle operatrici del Servizio sociale portano anche queste ultime ad affermare che (...) è un bambino "con un livello di competenze adeguato all'età: sono presenti le regole di cortesia, l'interessamento all'altro, la capacità di intraprendere iniziative, di verbalizzare le proprie necessità, di chiedere conferma e aspettarsi risposte soddisfacenti (...). Si può dire che (...) stia sviluppando uno stile di attaccamento sicuro, esito di un ambiente di crescita adeguato". - L'art. 44 della Legge n. 184/1983 è stato negli anni oggetto di una vera e propria evoluzione giurisprudenziale e, difatti, lo sviluppo dell'istituto in ipotesi sempre più estese è dovuto ad ima giurisprudenza attenta alla tutela delle relazioni del soggetto minore di età e del suo superiore interesse. - Non si può sottovalutare che la Corte europea dei diritti dell'uomo, con giurisprudenza ormai consolidata, ha affermato che esiste una famiglia anche in assenza di un rapporto di filiazione, in quanto è sufficiente un reale e abituale rapporto di fatto riconducibile ad una relazione familiare. Nella fattispecie di cui trattasi il minore (...) è un bambino totalmente integrato nel nucleo familiare che (...) e (...) hanno costituito e stabilizzato ormai da oltre dodici anni. Il P.M.M. esprimeva parere negativo all'accoglimento del ricorso, ritenendo che nel caso di specie la domanda è inammissibile in quanto afferente ad una fattispecie riconducibile alla cosiddetta stepchild adoption, istituto non ancora previsto dal nostro ordinamento e proprio in questo periodo all'esame del Parlamento. Quanto al contenuto della domanda il P.M.M. riteneva assorbente la considerazione che l'adozione in casi particolari possa applicarsi solo nei casi tassativi previsti dalla legge ed ha come presupposto ineludibile lo stato di abbandono, che nella specie non ricorre. Il P.M.M. chiedeva, inoltre, di acquisire copia del certificato di nascita del minore (...) dovendosi valutare l'eventuale promozione dell'azione prevista dall'art. 95 del D.P.R. 3 novembre 2000 n. 396, nonché di nominare al minore un curatore speciale. Ritiene questo Collegio che questa lettura della norma, data dal P.M.M., ha retto soltanto nei primi anni dall'entrata in vigore della legge, in quanto successivamente la giurisprudenza di merito ha dato di questo articolo un'interpretazione più ampia, riconoscendo che l'impossibilità di affidamento preadottivo può essere una impossibilità non solo di fatto, (alla quale il P.M.M. è rimasto ancorato) che consente di realizzare l'interesse preminente di minori in stato di abbandono, ma non collocabili in affidamento preadottivo, ma anche e soprattutto una impossibilità di diritto, che permette di tutelare l'interesse di minori (anche non in stato di abbandono) attraverso il riconoscimento giuridico di rapporti di genitorialità più compiuti e completi. Tale interpretazione è pienamente conforme alla littera legis, che prevede come unica condizione per l'adozione di cui all'art. 44, co. 1, lett. d) l'impossibilità dell'affidamento preadottivo e non l'impossibilità di fatto dell'affidamento preadottivo di un minore in stato di abbandono. Essa ha così consentito di realizzare l'interesse superiore di centinaia e centinaia di minori in linea con la ratio legis, che una interpretazione più restrittiva avrebbe invece seriamente limitato. I giudici onorari componenti il Collegio hanno, infatti, ricordato le svariate fattispecie di adozione in casi particolari, trattati nelle Camere di Consiglio cui hanno partecipato e la cui istruttoria avevano trattato, riportando alla memoria del Collegio l'adozione in favore di un/una bambino/a allevato/a, curato/a, amato/a da una vicina di casa del /dei genitori, da un parente, da un insegnante, da un medico che per quel bambino era divenuto una figura di riferimento così significativa da non poter interrompere quel rapporto, ma anzi da dover dare ad esso le maggiori garanzie possibili anche sotto il profilo giuridico, attraverso appunto l'adozione in casi particolari, che consente di assicurare tutela giuridica ad una relazione di fatto accettata e sostenuta dal/dai genitori del bambino/a che avrebbero comunque continuato a mantenere rapporti con il/la figlio/a. Mai questi bambini sono stati dichiarati adottabili e mai si è ritenuto, di conseguenza, possibile dichiararne l'affidamento preadottivo; essi sono stati adottati dalle persone che di loro si prendevano cura, realizzandone così il superiore interesse ad un percorso di vita adeguato e soddisfacente, senza recidere il rapporto con i suoi genitori. In tutti questi casi il P.M.M. presso questo Tribunale non ha mai dato parere negativo. Il Collegio ritiene di non poter accogliere la richiesta del P.M.M. di nomina di un curatore speciale al minore (...) perché non ricorre nella fattispecie in trattazione alcuna necessità di procedervi, ciò in quanto il minore (...) ha un padre - (...) - che esercita su di lui la responsabilità genitoriale in via esclusiva, perché unico genitore ad aver effettuato il riconoscimento, ragion per cui gli viene dal nostro diritto riconosciuta la rappresentanza legale in pieno del figlio, anche ai fini della tutela degli interessi e dei diritti in riferimento al procedimento che qui trattasi. In detto procedimento non è assolutamente ravvisabile, infatti, alcun conflitto di interessi tra (...) ed il figlio (...) dovendosi intendere il conflitto come l'esistenza di un grave contrasto, di una incompatibilità di interessi, di fronte ai quali le rispettive posizioni risultano opposte e tali da giustificare la nomina del curatore. Alla luce di tutto quanto sopra esposto non vi è alcun conflitto di interessi tra il Sig. (...) ed il minore (...). Pertanto, non può essere disposta la nomina di un curatore speciale. MOTIVI DELLA DECISIONE Ricostruzione dei principi di diritto applicabili alla fattispecie. Il Collegio ritiene che il ricorso meriti accoglimento. In sintesi, nella fattispecie che ci occupa, il ricorrente chiede disporsi nei propri confronti l'adozione del figlio del proprio convivente. Ebbene, nella nostra normativa di settore non v'è divieto alcuno ad adottare per la persona singola, quale che sia il suo orientamento sessuale. Esclusivamente per l'adozione legittimante (nazionale ed internazionale) viene richiesto che ad adottare siano due persone unite da rapporto di coniugio riconosciuto dall'ordinamento italiano, ma nel nostro sistema il legislatore ha introdotto una seconda forma di adozione - l'adozione in casi particolari - in base alla quale, nell'interesse superiore del minore, la domanda di adozione può essere proposta anche da persona singola ai sensi del combinato disposto dell'art. 44, lettera d), e dell'art. 7 della medesima Legge n. 184/1983. Nessuna limitazione è prevista espressamente, o può derivarsi in via interpretativa, con riferimento all'orientamento sessuale dell'adottante o del genitore dell'adottando, qualora tra di essi vi sia un rapporto di convivenza. Più in particolare, il Collegio osserva quanto segue. Il ricorrente (...) chiede l'adozione in casi particolari del minore (...), figlio del proprio convivente (...). Tale adozione è disciplinata dal Titolo IV della Legge 4 maggio 1983 n. 184 (come modificata dalla legge 28 marzo 2001 n. 149) agli artt. 44 - 57. Si tratta di un tipo di adozione in "casi particolari", che mira a realizzare l'interesse del minore ad una famiglia in quattro specifiche ipotesi, in cui legislatore ha voluto facilitare il procedimento di adozione, per un verso ampliando il novero dei soggetti legittimati a diventare genitori adottivi e, per altro verso, semplificando la procedura di adozione. L'adozione c.d. "in casi particolari", disciplinata dai predetti articoli, risponde all'intenzione del Legislatore di voler favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore e i parenti o le persone che già si prendono cura del minore stesso, prevedendo la possibilità di un'adozione con effetti più limitati rispetto a quella legittimante, ma con presupposti meno rigorosi. Viene data in tal modo rilevanza giuridica a tutte quelle situazioni in cui, pur essendo preminente la finalità di proteggere il minore, mancano le condizioni che consentono l'adozione con effetti legittimanti di un soggetto minore di età. La ratio legis trova una espressa manifestazione nell'art. 57, n. 2, laddove impone al tribunale di verificare se l'adozione ex art. 44 della Legge n. 184/83 "realizza il preminente interesse del minore". Non si tratta di una precisazione superflua, bensì di grande rilevanza e significatività: è pur vero che tutta la normativa sull'adozione si ispira alla realizzazione di tale interesse, ma l'esigenza avvertita dal legislatore di far esplicito riferimento ad esso trova ragione proprio nel prospettato rilievo che la norma chiede requisiti meno rigorosi di quelli previsti per gli adottanti in via legittimante, con un procedimento più rapido e semplificato. Pertanto, il legislatore con l'art. 44 della richiamata Legge n. 184/1983, oltre ad aver posto precisi limiti ed individuato casi tassativi per limitare la portata dell'istituto, lo circonda di ulteriori cautele, precisando che comunque sarà necessaria un ulteriore valutazione: che l'adozione realizzi il "preminente interesse del fanciullo" (Corte di Cassazione, Sez. Civile, sentenza n. 21651/2011). Peraltro, se l'apprezzamento e la realizzazione di tale interesse costituiscono il limite invalicabile dell'applicazione dell'istituto, essi rappresentano anche una importante chiave interpretativa dello stesso. Come detto, l'adozione in casi particolari può applicarsi solo nei casi tassativi descritti dall'art. 44 della Legge n. 184/1983, ciò al fine di delimitare la portata dell'istituto. Nella fattispecie in esame, prevista dalla lettera d) del comma 1 del citato articolo, il minore può essere adottato, anche quando non ricorrono le condizioni per l'adozione legittimante, quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo. Il P.M.M. motiva il suo parere negativo anche asserendo che la norma recita "impossibilità di affidamento preadottivo", mentre nella fattispecie de qua agitur manca il presupposto - a suo dire ineludibile - della norma "costituito da una situazione di abbandono". Il Collegio ritiene, invece, che la norma sia molto chiara e inequivoca nel richiedere come presupposto l'impossibilità dell'affidamento preadottivo e non una situazione di abbandono ad esso prodromica. Invero il P.M.M., a giudizio del Collegio, ha qui seguito un'interpretazione estremamente restrittiva della noma che richiederebbe una impossibilità solo di fatto, e non di diritto, dell'affidamento preadottivo conseguente alla dichiarazione di adottabilità in favore di un minore abbandonato. Il minore (...) non è stato dichiarato adottabile e non potrebbe esserlo in quanto mai è stato in situazione di abbandono, perché ha un padre che ha effettuato il riconoscimento alla nascita e lo ha allevato, essendo pienamente in grado di occuparsene. In effetti il P.M.M. si rifà alla prima prassi applicativa, seguita negli anni 80, secondo la quale si riteneva che la norma si applicasse ai minori dichiarati adottabili, ma non collocabili in affidamento preadottivo o perché affetti da gravissimi problemi sanitari e/o psicologici o comunque con caratteristiche tali da non poter essere accolti in affido preadottivo da alcuna delle coppie aspiranti all'adozione legittimante; anche perché il forzoso distacco di un minore (dichiarato adottabile) dal o dagli affidatari "abusivi", avanti negli anni e non coniugati, avrebbe creato nel minore traumi irreversibili ove ne fosse stato disposto l'allontanamento e l'affidamento preadottivo ad altra coppia regolarmente in lista d'attesa. Infatti, mentre la prima legge all'art. 44 prevedeva solo le lettere a) b) e c) ed in quest'ultima aveva introdotto la fattispecie di impossibilità di affidamento preadottivo in cui, come già detto, si faceva rientrare inizialmente soltanto l'ipotesi di incollocabilità del minore affetto da disabilità (impossibilità di affidamento preadottivo di fatto), successivamente si estese anche all'ipotesi di impossibilità di affidamento preadottivo di diritto, in cui si facevano rientrare tutte le ipotesi relative a quelle relazioni adulto - bambino che andavano tutelate nell'interesse superiore del bambino medesimo. Avvenne così che allorquando il legislatore, molti anni dopo, ovvero nel 2001, modificò la Legge n. 184/1983, volle separare e scindere le due fattispecie, introducendo sub c) l'ipotesi di adozione del minore diversamente abile e sub d) la fattispecie prima considerata sub c). Intese così, con tutta evidenza, accogliere l'interpretazione ormai accreditata che la giurisprudenza di merito aveva dato alla norma, ovvero l'impossibilità di affidamento preadottivo di diritto. Infatti, ritiene il Collegio che la lettura della norma data dal Procuratore minorile ha retto soltanto nei primi anni dall'entrata in vigore della legge perché l'espressione "constatata impossibilità di disporre l'affidamento preadottivo" viene da tempo intesa dalla giurisprudenza soprattutto di merito, ma anche di legittimità, anche come impossibilità giuridica di far luogo a tale affidamento, dovuta alla impossibilità di una dichiarazione di adottabilità per l'inesistenza di una situazione di abbandono. In tal senso si è espressa anche la Corte Europea dei diritti dell'uomo con sentenza del 21 gennaio 2014, nel caso Zh. c. Italia, in cui si dà atto che nei Tribunali italiani (ben sei sui tredici interpellati dal Governo) in relazione all'art. 44 lett. d) si registra un'interpretazione estensiva, ovvero si dichiara l'adozione in casi particolari in favore di un minore anche in situazioni in cui non sussiste lo stato di abbandono dell'adottando (cfr. paragrafo 26). L'interpretazione qui sostenuta è pienamente conforme alla littera legis, che prevede come unica condizione per l'adozione di cui all'art. 44, co. 1, lett. d), l'impossibilità dell'affidamento preadottivo e non l'impossibilità di fatto dell'affidamento preadottivo di un minore in stato di abbandono. Quindi non solo non si va oltre quanto positivamente indicato dalla norma, ma tale interpretazione consente altresì di realizzare l'interesse superiore del minore in linea con la ratio legis, che una interpretazione più restrittiva avrebbe invece seriamente limitato. Proprio alla luce di tale interpretazione dell'art. 44, co. 1, lett. d), alcuni Giudici hanno disposto l'adozione di un minore a coppie di conviventi. Nella sentenza n. 626/2007 del Tribunale per i Minorenni di Milano si può leggere che: "Nel caso di specie la presenza della madre che da sempre si occupa della figlia esclude la configurabilità dello stato di abbandono e dunque la giuridica impossibilità di procedere ad un affidamento preadottivo consente di ritenere integrato uno dei casi particolari, quello di cui alla lettera d, che consente di far luogo alla adozione e che è clausola residuale. Va quindi valutato in concreto ciò che può comportare maggiore utilità per il minore (utilità intesa come preminente somma di vantaggi di ogni genere e specie e minor numero di inconvenienti) nella prospettiva del pieno sviluppo della personalità del minore stesso e della realizzazione di validi rapporti interpersonali ed affettivi, tenuto conto delle particolarissime situazioni esistenziali che caratterizzano le persone coinvolte. Tale situazione di fatto appare meritevole di tutela nell'ambito delle ipotesi di adozione particolare nel rispetto dei principi della tutela del minore e del perseguimento del suo esclusivo interesse". Ancora, la Corte d'Appello di Firenze, nella sentenza n. 1274/2012, nel riformare la sentenza del Tribunale per i Minorenni di Firenze 20 marzo 2012, ha sostenuto che l'adozione ai sensi dell'art. 44, co. 1, lett. b), che si riferisce all'ipotesi del coniuge, "non può finire col pregiudicare la status del minore della famiglia di fatto, equiparato dalla legge a quello dei figli legittimi". Secondo la Corte d'Appello l'art. 44, co. 1, lettera d) non esclude questa possibilità quando ciò sia corrispondente all'interesse dell'adottando, dovendo il trattamento privilegiato accordato al matrimonio trovare un limite nei diritti inviolabili del minore, che non può subire effetti lesivi da una interpretazione restrittiva della norma. Questo Collegio concorda con le interpretazioni operate nelle suddette sentenze. Come ha evidenziato anche la Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza Ol. c. Italia del 21 luglio 2015, in Italia la regolamentazione giuridica delle unioni civili ed in particolar modo delle unioni omossessuali non è in grado di garantire i diritti inviolabili che devono essere riconosciuti e pertanto adeguatamente garantiti. Secondo la Corte, infatti, "la tutela legale attualmente disponibile" nel nostro Paese "per le coppie omosessuali non solo fallisce nel provvedere ai bisogni chiave di due persone impegnate in una relazione stabile, ma non è nemmeno sufficientemente affidabile". Tale deficit di tutela è stato evidenziato anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 170/2014, in cui dopo aver confermato i principi espressi dalla sentenza n. 138/2010 ha ribadito che è compito del legislatore colmare tale carenza nel nostro ordinamento e a "tal compito il legislatore è chiamato ad assolvere con la massima sollecitudine". Tuttavia, la circostanza che sia attualmente oggetto di esame al Parlamento l'approvazione di una disciplina specifica regolante la materia, la quale preveda e disciplini ad hoc anche l'ipotesi della stepchild adoption, non esclude che nelle more che questa venga approvata ed entri in vigore, si possano e si debbano applicale le norme in vigore. Anzi impone che esse vengano applicate secondo una interpretazione - in primis - costituzionalmente garantita e - tenendo conto anche della) giurisprudenza di Strasburgo - convenzionalmente conforme in modo da poter tutelare il più possibile quelle posizioni giuridiche che il nostro ordinamento ritiene meritevoli di tutela. La Corte EDU, richiamando la propria giurisprudenza in tema di diritti delle coppie dello stesso sesso (Sc. c. Austria e Va. e altri c. Grecia), ha ribadito che queste hanno la medesima capacità di dare vita ad una relazione stabile ed hanno il medesimo bisogno di riconoscimento e di protezione della propria unione di quelle formate da persone di sesso diverso. Posizione, questa, riconosciuta anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 138 del 2010 e da ultimo nella sentenza n. 170/2014, nonché dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 2400/2015. Così anche la Grande Camera della Corte di Strasburgo, con la sentenza 19/02/2013 nel caso X e altri c. Austria, si è pronunciata riguardo a un caso analogo a quello in esame: due donne, unite da una stabile relazione omosessuale, lamentavano il rigetto della richiesta avanzata da una di loro di adottare il figlio dell'altra senza rottura del legame giuridico tra madre biologica e figlia (adozione c.d. co - genitoriale). La Corte, osservando innanzi tutto che in Austria, diversamente che in altri Paesi europei, non è consentito il matrimonio tra coppie omosessuali, e richiamando l'art. 3, par. I della Convenzione dei diritti del fanciullo di New York, in base al quale il canone da tenere in maggiore considerazione è costituto dal miglior interesse del minore, ha ritenuto discriminatoria, per violazione dell'art. 14 in combinato disposto con l'art. 8 della CEDU, la legge austriaca che non consente l'adozione in tali casi, concessa invece alle coppie di fatto eterosessuali. I giudici austriaci, ha sostenuto la Corte di Strasburgo, non sono stati messi in grado di esaminare nel merito la domanda di adozione onde valutare se quanto chiesto corrispondesse o meno all'interesse effettivo! del minore, dal momento che l'accoglimento della domanda era, comunque, giuridicamente impossibile. Il Governo non ha dimostrato, inoltre, ad avviso dei Giudici di Strasburgo, che la protezione della famiglia, intesa in senso tradizionale, e l'interesse del minore richiedono l'esclusione delle coppie dello stesso sesso dalla c.d. second parent adoption, cui hanno accesso le coppie di fatto eterosessuali. La motivazione della sentenza, si fonda, dunque, in parte, sulla discriminazione operata dalla legge austriaca tra coppie di fatto eterosessuali e omosessuali e, in parte, sulla necessità per il giudice di merito di motivare perché l'interesse superiore del minore non può, nel caso di specie, essere tutelato dalla coppia omossessuale. Pertanto, se in Italia lo. strumento dell'adozione in casi particolari può applicarsi alle coppie non unite in matrimonio, ferma un'accurata istruttoria relativa all'interesse superiore del minore, un limite fondato unicamente sull'orientamento sessuale senza alcuna motivazione che giustifichi) oggettivamente tale diversità di trattamento, oltre ad essere non previsto dalla normativa, sarebbe una discriminazione, non consentita dal nostro ordinamento giuridico che viola la Costituzione (art. 3 Cost.) in uno con la Convenzione europea dei diritti umani di cui l'Italia è stata ideatrice/fautrice sin dalla sua originaria redazione (art. 117 Cost.). Questo Collegio ritiene che il desiderio di avere dei figli, naturali o adottati, rientri nell'ambito del diritto alla vita familiare, nel "vivere liberamente la propria condizione di coppia" riconosciuto come diritto fondamentale, anzi ne sia una delle espressioni più rappresentative. Pertanto, una volta valutato in concreto il superiore interesse del minore ad essere adottato e l'adeguatezza dell'adottante a prendersene cura, un'interpretazione dell'art. 44, co. 1, lett. d) della Legge n. 184/1983 che escludesse l'adozione per le coppie omosessuali solo in ragione della omosessualità, al tempo stesso riconoscendo la possibilità di ricorrere a tale istituto alle coppie di fatto eterosessuali, sarebbe un interpretazione non conforme al dettato costituzionale in quanto lesiva del già richiamato principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e della tutela dei diritti fondamentali (art. 2 Cost.), fra cui la Corte Costituzionale annovera quello delle unioni omosessuali a vivere liberamente la propria condizione di coppia. Inoltre, la lettura dell'art. 44, co. 1, lett. d) che escludesse dalla possibilità di ricorrere all'istituto dell'adozione in casi particolari alle coppie di fatto omosessuali a motivo di tale orientamento sessuale si porrebbe in contrasto anche con l'art. 14 in combinato disposto all'art. 8 della CEDU. Ed infatti, come chiarito dai giudici costituzionali (cfr. le cosiddette sentenze gemelle n. 348 e n. 349/2007; sentenza n. 317/2009), l'art. 117, primo comma, della Costituzione opera come "rinvio mobile" alle disposizioni della CEDU nell'interpretazione che ne dà la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, acquistando così titolo di fonti interposte che vanno ad integrare il parametro costituzionale di riferimento. Spetta, quindi, al giudice ordinario il compito di operare anche una "interpretazione convenzionalmente orientata" delle norme nazionali, pur nel rispetto dei principi costituzionali che, come ha confermato anche recentemente la Corte Costituzionale (sentenza n. 149/2015), rimangono in ogni caso prevalenti. Questo Collegio, quindi, nel decidere, è tenuto ad orientarsi in conformità alle pronunce convenzionali, osservando nel contempo i preminenti principi costituzionali interni. In questo senso, quindi, appaiono significative le indicazioni provenienti dal sistema sia interno che sovranazionale. Fra queste, nel caso di specie, deve esser dato rilievo alle questioni connesse all'evoluzione socio - giuridica della famiglia e all'emergere di nuovi modelli di vita familiare, considerati ormai formazioni sociali giuridicamente rilevanti. L'evoluzione in corso coinvolge naturalmente anche l'Italia ed il sistema interno e, nel caso di specie, questo Collegio è chiamato a tutelare i nuovi modelli familiari socialmente e giuridicamente rilevanti attraverso gli istituti in vigore, di cui già dispone. Emerge così un quadro chiaro nel quale non solo trova conferma l'idea pluralistica dei modelli familiari, ma anche una concezione funzionale della famiglia che pone attenzione al rapporto prima ancora che all'atto. L'esistenza di rapporti familiari già consolidati, la presenza di vincoli e legami affettivi, umani e solidali, la comunità di vita materiale e spirituale depongono a favore della rilevanza giuridica, anche ai fini dell'adozione, di ogni modello familiare, ove si accerti che esso sia luogo di sviluppo e promozione della personalità del minore, il cui superiore interesse deve sempre prevalere. In questo senso si condivide quanto espresso in altre sentenze dai giudici di merito: "Assume rilievo determinante la circostanza che la famiglia esista non tanto sul piano dei partner ma con riferimento alla posizione, allo status e alla tutela del figlio. Nel valutare il best interest per il minore non devono essere legati fra loro, il piano del legame fra i genitori e quello fra genitore - figli: l'interesse del minore pone, in primis, un vincolo al disconoscimento di un rapporto di fatto, nella specie validamente costituito fra la co-madre e un figlio" (cfr. Corte d'Appello di Torino, Sezione famiglia 29 ottobre 2014). Quanto alla richiesta avanzata dal P.M.M. di acquisire in via preliminare la copia integrale dell'atto di nascita di (...) nato a (...) il (...) questa deve ritenersi non rilevante nella fattispecie oggetto del presente giudizio in quanto nel certificato di nascita il minore è indicato come figlio di (...) non ravvisandosi pertanto la possibilità di promuovere l'azione prevista dall'art. 95. del D.P.R. 3 novembre 2000 n. 396 per violazione dell'ordine pubblico internazionale. Ad ogni modo, in questa sede si osserva che in tema di divieto di registrazione dell'atto di nascita da parte di coppie che sono ricorse alla pratica della cosiddetta maternità surrogata all'estero ed in particolare sul concetto di ordine pubblico internazionale è intervenuta in più casi, anche molto recenti, sia la giurisprudenza interna (oltre alla sentenza della Corte di Cass. sez. I, 11 novembre 2014 n. 24001 indicata dal P.M.M., la Corte d'Appello di Milano con la sentenza del 16 ottobre 2015) sia quella sovranazionale della Corte EDU. Nella sentenza Pa. e Ca. c. Italia del 27 gennaio 2015 e soprattutto nelle sentenze gemelle Me. c. Francia e La. c. Francia del 26 giugno 2014 la Corte ribadisce alcuni principi fondamentali. In particolare, il concetto di ordine pubblico secondo i giudici di Strasburgo trova un limite nella prevalenza dell'interesse superiore del minore, indipendentemente dalla sussistenza di una relazione genitoriale genetica o di altro genere. La Corte EDU ha ribadito che deve essere lasciato agli Stati un ampio margine di apprezzamento nel prendere decisioni relative alla maternità surrogata, in considerazione delle difficili questioni etiche che la stessa implica, tenuto conto anche della mancanza di una legislazione omogenea in Europa. Tuttavia, tale margine di discrezionalità è ristretto quando si tratta di un rapporto di parentela che coinvolge un aspetto fondamentale dell'identità degli individui. I Giudici di Strasburgo, quindi, antepongono ad ogni valutazione circa l'eventuale liceità del ricorso a metodi alternativi di procreazione, praticati all'estero da cittadini di Paesi che non consentono di avvalersi di simili tecniche, la necessità di salvaguardare il primario interesse del minore a definire la propria identità come essere umano, compreso il proprio status di figlio o di figlia di una coppia di genitori omosessuali. Espressione questa del più ampio principio costituito dal rispetto per la vita privata imposto dalla Convenzione. La Corte ha osservato, infatti, che i bambini generati, con ricorso alla maternità surrogata sono soggetti ad uno stato di assoluta incertezza giuridica, ove il loro Stato di appartenenza non riconosca la loro identità al suo interno, privandoli ingiustificatamente della figura genitoriale di riferimento e mettendoli nella condizione di fornire una duplice rappresentazione di sé, valida in un caso solo socialmente e nell'altro solo legalmente. In conclusione, il Collegio ritiene che l'art. 44, co. 1, lett. d) consente al ricorrente di adottare il minore (...) purché, in fatto, l'adozione risponda al preminente interesse del minore. Applicazione dei principi di diritto al caso di specie. Osserva il Collegio, in via preliminare, che, alla luce delle motivazioni svolte, sarebbe illegittimo respingere la domanda sottoposta dal (...) all'esame di questo Tribunale solo ed esclusivamente a motivo del suo orientamento sessuale, in aperto contrasto con la lettera e la ratio della norma, nonché con i principi costituzionali e i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU. Fermo restando che, come sottolineato dalla Corte di Strasburgo, la possibilità di introdurre o meno il matrimonio per le coppie omosessuali, così come la decisione di ammetterle alla domanda di adozione, costituisce una scelta dei legislatori nazionali dei singoli Paesi. Né si può ritenere che quanto affermato dalla Corte EDU possa entrare in conflitto con quanto analogamente confermato dalla Corte Costituzionale. Si può dire, invece, che vi è una "perfetta sintonia" tra la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e la nostra Carta costituzionale, in quanto entrambe tutelano i diritti inviolabili delle persone come singoli e nelle formazioni sociali alle quali appartengono, riconoscono il diritto fondamentale delle coppie omosessuali a vivere liberamente la propria unione, vietano discriminazioni fondate sull'orientamento sessuale e tutelano il superiore interesse del fanciullo. D'altronde proprio il fatto che sia attualmente all'esame del Parlamento una legge che intende disciplinare in modo specifico le unioni di fatto etero e omosessuali ed il diritto all'adozione evidenzia che nessun contrasto si pone con i principi del nostro ordinamento giuridico e quanto previsto dalla Convenzione europea. Nel caso di specie, non si può non tenere conto delle situazioni di fatto che sono da tempo esistenti e cristallizzate: (...) è nato e cresciuto con il ricorrente ed il suo compagno, suo padre biologico, instaurando con loro un legame inscindibile che, a prescindere da qualsiasi "classificazione giuridica", nulla ha di diverso rispetto a un vero e proprio vincolo genitoriale. Negare a questo bambino, a (...) i diritti e i vantaggi che derivano da questo rapporto costituirebbe certamente una scelta non corrispondente all'interesse del minore, che dovrebbe vivere una doppia rappresentazione di sé, una giuridica e una sociale, motivo di sicuro pregiudizio per la sua identità. Proprio la tutela dell'interesse del minore, come indicato dalla Corte Costituzionale e dalla Corte Europea del Diritto dell'Uomo, richiede sempre la valutazione del caso in concreto, in quanto riconoscere il diritto alla genitorialità della coppia non ha come conseguenza automatica il riconoscimento del diritto ad adottare. Si è chiaramente sottolineato che l'adozione impone in ogni caso un'indagine accurata, che solo se completamente positiva e rassicurante consente la pronunzia della invocata adozione, intesa a tutelare e garantire l'interesse superiore di un determinato minore. Occorre qui, dunque, considerare che i due uomini hanno utilizzato tutti gli strumenti giuridici a loro disposizione per ufficializzare la forza e la stabilità del loro progetto di vita, dal matrimonio celebrato in Canada e poi in Spagna alla iscrizione nel Registro delle Unioni Civili, unico strumento previsto in Italia. Sotto il profilo economico - assistenziale, il ricorrente e il (...) hanno costituito garanzie a favore e a tutela del minore, sottoscrivendo testamenti e creando libretti di risparmio in favore di (...). Il ricorrente esercita la professione di (...) ed ha dimostrato di avere un reddito sufficiente e sostenere, in collaborazione con il convivente (...) i bisogni dell'adottando. E non ultimo vanno considerate le valutazioni estremamente positive che la psicologa e l'assistente sociale hanno espresso nella relazione cui si è fatto sinteticamente riferimento. Da questo è emerso che (...) apparso sereno, unito da un profondo legame affettivo ad entrambi i Sigg. (...) e (...) e assolutamente ben inserito nell'ambiente scolastico e familiare che lo circonda, ove tra l'altro, grazie anche alla presenza costante dei nonni e della zia, può conoscere i diversi modelli di famiglia, non restando così in alcun modo isolato e/o pregiudicato a livello emotivo. La volontà del (...) nell'acconsentire all'adozione del figlio da parte del ricorrente (...) è chiaramente espressa nell'interesse superiore del minore. La sua volontà di formare una famiglia con il ricorrente anche sotto il profilo giuridico è unicamente espressa per garantire maggior tutela al piccolo (...) affinché il bambino possa avere due figure di riferimento legittimate entrambe giuridicamente ad agire nel suo interesse. Peraltro, i giudici onorari, che hanno partecipato alla decisione, ritengono che il benessere psicosociale dei membri dei gruppi familiari non sia tanto legato alla forma che il gruppo assume, quanto alla qualità dei processi e delle dinamiche relazionali che si attualizzano al suo interno. In altri termini, non sono né il numero né il genere dei genitori a garantire di per sé le condizioni di sviluppo migliori per i bambini, bensì la loro capacità di assumere questi ruoli e le responsabilità educative che ne derivano. In particolare, hanno messo in evidenza come ciò che è importante per il benessere psicofisico dei bambini è la qualità dell'ambiente familiare che i genitori forniscono loro, indipendentemente dal fatto che essi siano dello stesso sesso o che abbiano lo stesso orientamento. Il Collegio ritiene, infine, che la normativa deve poter essere interpretata alla luce delle emergenze sociali che instano per il riconoscimento di nuove forme di genitorialità, nell'attesa che il Legislatore adotti una disciplina maggiormente tutelante per i nuovi modelli familiari. E nel caso di specie l'interpretazione della norma è nel senso di essere applicabile a tali nuove forme di genitorialità, senza forzatura alcuna. Gli elementi sui quali il Collegio ha posto la sua l'attenzione, nella convinzione che può, non essendovi alcun divieto nella legge in vigore, e deve aderire a questa interpretazione, sono il benessere e la tutela di un sano sviluppo psicologico del piccolo (...). Appare qui opportuno richiamare ancora una volta la già citata sentenza della Corte di Cassazione n. 601/2013 in cui il Supremo Collegio ha rigettato il ricorso contro l'affidamento esclusivo di una minore alla madre convivente con una donna cui era legata da una relazione omosessuale, ritenendo che "alla base della doglianza del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per l'equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale. In tal modo si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino....". In conclusione il Collegio ritiene che il ricorso proposto dal ricorrente deve essere accolto in quanto ne sussistono tutti i presupposti di diritto e di fatto, atteso che risponde all'interesse del minore essere adottato dal ricorrente, il quale risulta costituire per (...) riferimento stabile e significativo e che il padre del bambino ha espresso il suo pieno consenso a tal fine. Per l'effetto, l'adottando aggiungerà il cognome dell'adottante al proprio cognome di origine, così come richiesto dal (...) e dal (...). P.Q.M. Su difforme parere P.M.M. Letto l'art. 44, lettera d), della Legge n. 184/1983 come modificato dalla Legge n. 149/2001; DICHIARA farsi luogo all'adozione di (...) nato a (...) il (...) da parte di (...), nato a (...) il (...)residente in (...) che il minore (...) aggiunga il cognome dell'adottante al proprio e si denomini (...) ORDINA la comunicazione per esteso al P.M.M. in sede, al ricorrente (...) elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. Sa.Me. in Roma alla via (...), al padre del minore (...), residente in (...), a mezzo fax del Municipio (...) una volta divenuta esecutiva, all'Ufficiale dello Stato Civile del Comune di (...)per la trascrizione di rito. Così deciso in Roma il 23 dicembre 2015.

  • REPUBBLICA ITALIANATRIBUNALE CIVILE E PENALE DI MILANOUFFICIO DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI E DELL'UDIENZA PRELIMINAREIL GIUDICEdr. Gennaro MastrangeloNel procedimento indicato in epigrafe, all'esito dell'udienza camerale del giorno 8.4.2014, con l'intervento del Signor Pubblico Ministero, dr. Cristian Barilli, ha pronunciato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo e della contestuale motivazione, la seguenteSENTENZAnella causa penale controA. nato in Milano il (...), residente ed elettivamente domiciliato omissisB. nata in Milano il (...), residente ed elettivamente domiciliata in omissis Difesi entrambi di fiducia dall'Avvocato L.R.MilanoIMPUTATIDel reato p. e p. dagli artt. 110, 567 c.p. perché, in concorso tra loro, dopo aver fatto ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita mediante fecondazione di tipo eterologa e surrogazione richiedevano ed ottenevano la trascrizione dell'atto di nascita formato presso la Corporazione Municipale di Greater Mumbai (India) richieste personalmente presentate da A in data 25.1.2012 al Consolato Generale d'Italia in Mumbai ed in data 1.2.2012 all'Ufficio di Stato Civile del Comune di Milano, trascrizione effettuata in data 27.2.2012 - così alterando lo stato civile di C (n. 2 gennaio 2012 in Mumbai), la maternità del quale veniva attribuita, contrariamente al vero, a B. In Mumbai (India) il 25.1. e il 1.2.2012Persona offesa dal reato: C. nato il 2.1.2012 e residente in omissis, presso il curatore speciale Avvocato Grazia Ofelia Cesaro MilanoCONCLUSIONIP.M.: chiede affermarsi la penale responsabilità di entrambi gli imputati in concorso, concesse le circostanze attenuanti generiche nella loro massima estensione, pena finale, già ridotta per il rito, anni 1 e mesi 8 di reclusione.Difesa: in principalità chiede l'assoluzione perché il fatto non sussiste; in subordine perché il fatto non costituisce reato stante la mancanza dell'elemento soggettivo; in ulteriore subordine, concesse le circostanze attenuanti generiche e la circostanza attenuante dell'aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale, minimo della pena, sospensione condizionale della stessa e non menzione della condanna.MOTIVI DELLA DECISIONEGli imputati, a mezzo di procuratore speciale, all'udienza preliminare del 25.3.2014 chiedevano la celebrazione del rito abbreviato e, a questo ammessi, le parti concludevano come sopra. All'udienza del giorno 8.4.2014 le parti effettuavano brevi repliche. Il P.M. sottolineando in maniera critica come le pronunce richiamate dalla difesa fossero riferibili a casi di alterazione di stato commessa in Italia, laddove nel caso di specie la condotta è parzialmente avvenuta all'estero. L'Avv. R. stigmatizzava la perfezione dell'atto di nascita secondo la lex loci indiana, rilevando, inoltre, come la condotta tenuta da A presso l'Anagrafe del Comune di Milano fosse una richiesta di trascrizione di atto già formato all'estero e non una dichiarazione di nascita.Con comunicazione del 25.1.2012 n. Prot. 211 il Consolato Generale d'Italia in Mumbai trasmetteva alla Procura della Repubblica in sede ed all'Anagrafe del Comune di Milano la richiesta di trascrizione dell'atto di nascita di C, n. in Mumbai il 2.1.2012, effettuata da A e B ai sensi degli artt. 15 e 17 DPR 396/2000. Precisava la missiva: "sebbene il relativo certificato di nascita (...) non menzioni la circostanza, si ritiene verosimilmente trattarsi di un caso di filiazione in via surrogata, di fatto consentita in India sia pure in un quadro di incertezza normativa. Al riguardo si fa presente che, come da allegata copia del passaporto della Signora B, la stessa risulta entrata in India il 30.12.2011 essendo il minore in oggetto qui nato il 2.1.2012"La richiesta di trascrizione dell'atto di nascita effettuata presso il Consolato d'Italia è a firma di A e riporta come generalità dei genitori quelle proprie e di B.Il certificato di nascita, rilasciato dal Governo del Maharashtra, del minore p.o. e con le generalità degli imputati quali genitori, indica la loro residenza in Italia, alla omissis ed il loro indirizzo al momento della nascita del bambino in DR L H HIRANANDI Hospital Hill, SID, HIRANANDI GARDENS, POWAI, MUMBAI.Della faccenda veniva investita la Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Milano e l'Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Milano sospendeva la trascrizione dell'atto di nascita del minore.Il P.M. della Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni in data 15.3.2012 sentiva gli imputati i quali riferivano che B nel 2003 aveva affrontato cure radioterapiche e chemioterapiche per patologia tumorale le quali ne avevano "compromesso la capacità riproduttiva, in particolare di produrre ovociti" per cui essi, conviventi, decidevano di recarsi in India per procedere a fecondazione eterologa con materiale genetico donato da A e donazione anonima dell'ovocita. Alla richiesta di precisare come fosse avvenuta la fecondazione ed all'interno di quale utero si fosse sviluppato il nascituro i due dichiaravano: "la fecondazione è stata extrauterina ma preferiamo non specificare come poi sia avvenuto il transfer e l'impianto dell'embrione dove l'ovulo si è sviluppato". Entrambi ribadivano di aver pedissequamente rispettato le leggi in vigore dello Stato ove il figlio era nato. Veniva dunque aperto un ricorso per la dichiarazione dello stato di abbandono del minore siccome C risultava minore non riconosciuto da alcuno.L'atto di nascita veniva successivamente trascritto in data 27.2.2012.Gli imputati venivano sentiti dal Tribunale per i Minorenni, che ha dichiarato non luogo a provvedere sul ricorso per la adottabilità, ed in quella sede è emerso che il seme utilizzato è quello di A e che sono intervenute due donne anonime, l'una ha fornito l'ovulo da fecondare e l'altra ha portato avanti la gravidanza. Trattasi dunque di un caso di maternità surrogata c.d. totale. Entrambi i soggetti erano a piena conoscenza della illiceità della loro condotta in Italia - "il nostro intento era comunque procedere con una tecnica che, sebbene non consentita nel nostro paese, non lo fosse in altro", cfr. dichiarazioni B, p. 3, n. 1, sent. TM Milano del 3.8.2012).Dalle comunicazioni rese dal Console Generale d'Italia in Mumbai risulta un'estrema incertezza giuridica circa la legittimità dei c.d. contratti di surrogazione, i quali sono tutt'al più tollerati dall'ordinamento d'origine, e la cui legittimità parrebbe fondarsi solo sulle linee guida stilate dall'Indian Medical Council, tanto che, al momento dei fatti, era pendente all'esame del Parlamento indiano un Surrogacy Bill.Sentiti dal P.M. presso questo Tribunale in data 11.1.2013, essi riferivano di essersi rivolti alla pratica surrogatoria a causa della sterilità di B, di aver preso informazioni su internet e altri mezzi di informazione, di essersi consultati con due legali italiani esperti in materia, di essere a piena conoscenza dei divieti di cui alla L. 40/2004 e di alcuni provvedimenti giurisdizionali di archiviazione in casi simili, di aver seguito la legislazione indiana che, tra l'altro, impone l'indicazione dei soli genitori committenti negli atti relativi al minore. Con specifico riguardo alla domanda effettuata presso gli Uffici dell'Anagrafe di Milano, B dichiarava: "non abbiamo mai dichiarato di essere i genitori biologici. Ribadisco che abbiamo chiesto solo la trascrizione di un atto formalmente valido (...) la richiesta è stata fatta di comune accordo".Gli imputati, il 25.1.2012, presentavano al Console d'Italia il certificato di nascita formato dalle competenti autorità indiane secondo la lex loci ed apostillato ai sensi della Convenzione dell'Aja del 5.10.1961, cui hanno aderito anche Italia ed India, ai fini della sua trascrizione nei competenti registri dello Stato Civile in Italia, nel caso di specie quello del Comune di Milano ed in data 1.2.2012 all'Ufficio di Stato Civile del Comune di Milano richiedevano detta trascrizione. Queste le due condotte contestate.Occorre però soffermarsi, preliminarmente, sulla condotta tenuta da A e B al momento della redazione dell'atto di nascita e sulla legislazione indiana in materia per decidere in merito all'azione penale, anche in ragione delle considerazioni effettuate dalla difesa nella sua memoria depositata all'udienza del 25.32014.L'art. 567 C.p. nel suo comma secondo, il primo essendo riferibile all'infante già iscritto nei registri dello stato civile, punisce chi alteri lo stato civile, a mezzo delle descritte falsità, "nella formazione dell'atto di nascita".Sebbene tale formazione si avvenuta all'estero, è applicabile la legge penale italiana in base all'art. 9 C.p.Il momento della formazione dell'atto di nascita è essenziale nella decisione giacché è a tale momento che si riferisce la disposizione incriminatrice. Come osserva la Cassazione in un caso concreto, seguendo un incontrastato orientamento di legittimità, l'elemento discriminante tra il reato di alterazione di stato e quello di false indicazioni sulle generalità risiede nella contestualità o meno alla redazione dell'originario atto di nascita delle dichiarazioni mendaci, ideologicamente false, sul rapporto di procreazione del neonato, siccome "soltanto la falsità espressa al momento della prima obbligatoria dichiarazione di nascita è, infatti, in grado di determinare la perdita del vero stato civile del neonato. La dichiarazione falsa resa in sede di formazione dell'atto di nascita altera lo stato del neonato, attribuendo al figlio riconosciuto una discendenza che non gli è propria secondo natura, l'interesse protetto dall'art. 567 c.p., comma 2, essendo integrato dall'interesse del neonato a non vedersi attribuire uno stato civile difforme da quello che gli spetta in virtù dei dati costitutivi reali", così, in motivazione, Sez. 6, n. 35806 del 5.5.2008, P.G. in proc. G. e altro, Rv. 241254; conforme a Cass. Sez. 6, 24.10.2002 n. 5356/03, Poletti, Rv. 223933.Ovviamente, al momento di redazione della disposizione, il Legislatore storico non poteva che avere in mente la situazione scientifica e culturale dei suoi tempi, superata poi nel tempo senza alcun intervento di ammodernamento della fattispecie penale, nonostante i primi moniti in lontani precedenti giurisprudenziali (Trib. Roma, 30.4.1956, in Foro it., 1956, I, 1212).Secondo l'ordinamento italiano, è madre colei che ha partorito il figlio (arg. ex art. 269, comma 3, C.c.; Trib. Roma, 30.4.1956, cit. e Trib. Cremona, 17.2.1994, in Foro it., 1994, I, 1576 sulla prevalenza del dato naturale su ogni altro). La stessa L. 40/2004, pur non disciplinando la maternità surrogata, all'art. 9, comma 2, stabilisce che "la madre del nato a seguito dell'applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell'articolo 30, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396". Tale disposizione è funzionale ad evitare che la donna committente possa adottare, ex art. 44, c. 1, lettera b), L. 184/1983, il bambino frutto della c.d. genitorialità condivisa, con un meccanismo avallato dalla giurisprudenza minorile (come consentito da App. Salerno, Sez. minori, decreto 25.2.1992, NGCC, 1994, I, 177)Con l'avanzamento della tecnologia si è assistito all'avveramento della profezia di quel giurista inglese che, nella seconda metà dell'800, delineando le linee evolutive del diritto, coniò la famosa espressione from status to contract. Anche il diritto di famiglia, campo elettivo del concetto polisemico e forse solo descrittivo di status, è stato investito dalla dissociazione tra il dato naturale della procreazione e la contrattualizzazione delle forme di procreazione, quest'ultimo fenomeno variamente normato nei sistemi giuridici nazionali. Di fronte a questo stato di cose, la stessa definizione della maternità è ormai controversa. A fronte della maternità surrogata in dottrina si dà rilievo, alternativamente, alla gestazione, al legame genetico, al progetto di genitorialità, oppure si crea un criterio composito che attribuisce la maternità a colei che assume due tra le tre funzioni - volontà, apporto genetico, gravidanza - che costituiscono la maternità. In giurisprudenza si è dato maggiore rilievo al dato genetico, osservando che "la madre genetica svolge un ruolo insostituibile rispetto all'identità del nato mentre la madre gestante ha una funzione accessoria e come tale "intercambiabile" potendo (...) essere sostituita in un futuro che non pare lontano da dispositivi tecnologici" (Trib. Roma, ord. 17.2.2000, Fam. Dir., 2000, p. 151 ss.)Nel silenzio della legge sulla riconoscibilità in Italia di una maternità surrogata realizzata all'estero, essa è stata ammessa (App. Bari, sent. 13.2.2009, Fam. Min., 2009, p. 50) ed anche in altri paesi è avvenuto ciò, valorizzando l'interesse del minore (High Court of Justice, 9.12.2008, Law Report. Family Division, 2008, EWHC 3030).Può dunque dirsi, anche da un punto di vista comparatistico, che l'attribuzione della maternità e della paternità non è più un fatto naturale ma un "fatto istituzionale", dipendendo dalle scelte del Legislatore.Al momento delle formazione dell'atto di nascita gli imputati, pur consapevoli, secondo l'ordinamento italiano, della contrarietà alla realtà materiale dello stato di filiazione a latere matris, hanno approfittato dello stato della "normazione" locale indiana, che, in assenza di un diritto puntuale, lasciava ampio spazio all'autonomia privata, senza escludere forme di sfruttamento delle condizioni socioeconomiche delle donne indiane. La circostanze che gli atti siano stati apostillati, contrariamente all'assunto difensivo, non ne certifica la regolarità sostanziale giacché, come la legalizzazione, l'apostille consiste nella attestazione della qualifica legale del pubblico ufficiale, o funzionario, che ha sottoscritto l'atto, e l'autenticità del suo sigillo o timbro, ma non riguarda la validità o l'efficacia dell'atto in sé.Occorre dunque fare riferimento all'ordinamento indiano che, da un punto di vista comparatistico, è da definirsi misto, siccome presenta caratteri di civil law e di common law.La prima e fondamentale decisione fu resa dalla Supreme Court of India, Baby Manji Yamada Petitioner Versus Union of India E Anr. Respondents, (C) NO. 369 OF 2008 che, in sostanza, ammise la maternità surrogata. In quel caso si poneva la questione di chi fosse "the real mother whether it was anonymous egg donor or the surrogate mother". Il certificato di nascita fu rilasciato a nome del solo padre genetico. Successivamente il Regional Passport Office emise un "certificate of identity as part of a transit document and not the Passport. Certificate did not contain nationality, mother's name or religion of the baby".Nel caso, più recente, risolto dalla High Court of Gujarat, Appeal No. 2151 of 2009, 11.11.2009, Jan Balaz v Union of India, doveva decidersi se un minore, nato in India con surrogazione totale da una madre indiana ed il cui padre biologico era straniero, potesse acquisire la cittadinanza di quel Paese. Stando alla ricostruzione effettuata dalla sentenza circa le questioni di diritto, per i punti che interessano:l'accordo tra le parti può essere fatto senza alcun controllo pubblico - "After full discussion with Dr. Nayanaben Patel of the Clinic, surrogate mother was made known about the method of treatment. She had also agreed to hand over the child to the petitioner and his wife on delivery. Further surrogate mother had also agreed that she would not take any responsibility about the well being of the child and the biological parents would have legal obligation to accept their child and that surrogate mother would deliver and the child would have all inheritance facts of a child of biological parents as per the prevailing law" - dunque secondo uno schema totalmente negoziale;sull'atto di nascita il nome della madre era inizialmente quello della straniera infertile, moglie del padre biologico, ma fu successivamente sostituito con quello della madre biologica; secondo la Corte "anonymous Indian woman, the egg donor, in our view, is not the natural mother. She has of course a right to privacy that forms part of right to life and liberty guaranteed under Article 21 of the Constitution of India", quindi la madre genetica ha un diritto, costituzionalmente presidiato dalla Costituzione Indiana, di non essere indicata nel certificate di nascita del minore;la legislazione indiana presenta, in effetti, aspetti controversi circa la maternità surrogata, come appare dalle memorie del Regional Passaport Officer e da quanto scrivono i giudici: "commercial surrogacy is never considered to be illegal in India (...) Law Commission of India in it's 220th Report on Needfor Legislation to regulate Assisted Reproductive Technology Clinics as well as rights and obligations of parents to a surrogacy has opined that surrogacy agreement will continue to be governed by contract among parties, which will contain all terms requiring consent of surrogate mother to bear the child, agreement of a husband and otherfamily members for the same, medicalprocedures of artificial insemination, reimbursement of all reasonable expenses for carrying the child to full term, willingness to hand over a child to a commissioning parents etc.";sullo specifico punto delle indicazioni da apporre nell'atto di nascita, prosegue la Corte: "Law Commission has also recommended that legislation itself should recognize a surrogate child to be the legitimate child of the commissioning parents without there being any need for adoption or even declaration of guardian. Further it was also suggested that birth certificate of surrogate child should contain names of the commissioning parents only and that the right to privacy of the donor as well as surrogate mother should be protected".LIndian Council of Medical Research (ICMR) aveva dettato delle guidelines in materia e la Law Commission of India aveva stilato il 228th report on Assisted Reproductive Technology, osservando come "The birth certificate of the surrogate child should contain the name(s) of the commissioning parent(s) only". Dunque al momento della formazione dell'atto di nascita gli imputati osservarono la legislazione indiana.Passando alle due condotte successive, evidenziate nel capo d'imputazione, la prima è quella avvenuta in Mumbai.A il 25.1.2012 si presentava presso il Consolato Generale d'Italia in Mumbai e, ai sensi degli artt. 15 e 17 DPR 396/2000, richiedeva la trascrizione dell'atto di nascita del figlio nei registri del Comune di Milano, indicando quali generalità dei genitori quelle proprie e di B.Tale condotta, non potendo integrare il reato di alterazione di stato per le considerazioni appena esposte, non integra nemmeno il reato di cui all'art. 495 C.p., ipotesi sussidiaria nella giurisprudenza che si è occupata di casi simili.La richiesta di trasmissione dell'atto di nascita all'Anagrafe italiana per la sua successiva trascrizione, effettuata all'Autorità consolare, è prevista obbligatoriamente dalla legge e non ha effetto alcuno sulle posizioni giuridiche coinvolte. Essa da un lato non vale ad immutare lo stato civile della p.o., in base a quanto già osservato in precedenza, dall'altro nemmeno costituisce una falsa attestazione o dichiarazione poiché con la suddetta richiesta A si è limitato a richiedere, per via mediata, la trascrizione di un atto, condotta che non comporta, di per sé, alcun effetto giuridicamente apprezzabile, dovendo poi la trascrizione essere effettuata dall'Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Milano. Del resto A, nel richiedere la trasmissione dell'atto di nascita del figlio, non poteva che riportare i dati in esso contenuti, essendo la compilazione del modulo consolare per forza di cose collegata al documento di nascita di cui si chiedeva la trascrizione all'anagrafe milanese. Anche qualora tale ragionamento non fosse condivisibile, trattandosi di reato commesso all'estero e punito con pena edittale inferiore nel minimo ad anni tre, ai sensi dell'art. 9 C.p. sarebbe stata necessaria la richiesta del Ministro della Giustizia, che manca, difettando quindi una condizione di procedibilità.Il giorno 1.2.2012 entrambi gli imputati si presentavano presso l'ufficio di Stato Civile del Comune di Milano chiedendo la trascrizione dell'atto di nascita del figlio.A, compilando il modulo agli atti, nel quale veniva reso edotto di quanto previsto dall'art. 76 DPR 445/2000, indicava se stesso quale padre e la B quale madre di C.Discussa è la funzione della trascrizione e sul punto si è soffermata anche la difesa, ritenendo che la trascrizione non abbia effetti costitutivi dello status filiationis.Secondo un'opinione dottrinale, essa avrebbe un effetto di documentazione e di notizia di quanto avvenuto davanti all'Autorità straniera. Secondo altra, con la trascrizione si acquisiscono dichiarazioni e atti negoziali ricevuti dall'Autorità straniera ai quali si riconosce la medesima forza probatoria che la legge annette a quelli ricevuti in Italia: è come se essi fossero fatti davanti all'Ufficiale di Stato civile italiano e solo nel momento della trascrizione produrrebbero gli effetti loro propri quindi, nel caso di specie, attribuirebbero lo status di figlio.Sembra più corretto ritenere che la trascrizione abbia un effetto mera di pubblicità nei Registri di quanto già formatosi all'estero, essendo l'atto originario quello produttivo di effetti. In giurisprudenza si è infatti parlato, in relazione ad un atto di morte formato all'estero poi trascritto in Italia, di acquisto della "medesima efficacia probatoria degli atti dello stato civile formati in Italia" (Sez. 3, Sentenza n. 9687 del 03/05/2011, Rv. 617939); ancora la Suprema Corte ha affermato che "l'atto di nascita redatto da un'autorità straniera diviene operativo nel nostro ordinamento per effetto della sua trascrizione nei registri dello stato civile italiani, senza necessità di procedimento delibativo", Sez. U, Sentenza n. 2186 del 28/03/1985, Rv. 440063, Giust. Civ., 1986, 2, 523. Si veda anche Cass. civ. Sez. I, 09/03/1988, n. 2358, in motivazione ("Le obbligazioni di natura patrimoniale aventi titolo nel rapporto di filiazione naturale sorto da un atto di riconoscimento (il quale non abbisogna di un provvedimento giurisdizionale di delibazione per produrre i suoi effetti nei confronti del cittadino italiano che quel riconoscimento abbia effettuato all'estero), in quanto correlate per legge al riconosciuto rapporto di filiazione naturale e non già a un (non necessario) atto negoziale di assunzione delle obbligazioni stesse (che, anch'esso, non richiede, per ciò, un provvedimento giurisdizionale di delibazione), restano disciplinate dalla legge regolatrice del rapporto in tal modo costituito)". Del resto la dottrina specialistica, allorché discute della opponibilità ai terzi dell'atto formato all'estero, proprio in considerazione della natura della pubblicità offerta dai registri dello stato civile, afferma che l'atto o il provvedimento sono opponibili non dal giorno della trasmissione da parte dell'autorità consolare, bensì da quello della loro trascrizione.In base a questa ricostruzione non si può affermare che la richiesta di trascrizione effettuata all'Ufficiale di Stato Civile sia costitutiva dello status di C, con ciò che ne consegue in tema di configurabilità del reato contestato.Resta da valutare la possibile sussumibilità della condotta nell'articolo 495 C.p. e della sua forma concorsuale.Che entrambi gli imputati si siano presentati presso gli uffici dell'Anagrafe di Milano è pacifico (cfr. comunicazione dello Stato Civile di Milano, 8.2.2012, a firma di Anna C. Colombo, inviata alla Procura della Repubblica in sede). La citata funzionaria, nel verbale di sommarie informazioni rese al P.M. in data 19.10.2012, afferma che successivamente vi furono numerose telefonate, da parte di A e forse anche di B, per chiedere notizie sulla pratica. Del resto, considerando anche le dichiarazioni rese dall'imputata B al Tribunale per i Minorenni - "il nostro intento era comunque procedere con una tecnica che, sebbene non consentita nel nostro paese, non lo fosse in altro", cfr. sent. TM Milano del 3.8.2012, p. 3, n. 1) -, nonché quelle rese al P.M. procedente in data 11.1.2013 da B - "la richiesta è stata fatta di comune accordo" - è palese la compartecipazione di entrambi a tutte le fasi della maternità surrogata, della quale quella avvenuta a Milano altro non è che l'ovvio esito finale.In via preliminare occorre sgombrare il campo da ogni considerazione circa l'interesse del minore, evocato sia dal Curatore speciale che dalla difesa, siccome tale profilo non attiene, in alcun modo, ai profili penalistici della vicenda, potendo trovare apprezzamento nelle procedure di adottabilità o nella trascrizione in Italia degli atti di nascita da maternità surrogata formati all'estero. Tanto va fatto anche circa la prospettazione della difesa secondo la quale, siccome l'Ufficiale dello Stato civile avrebbe potuto rifiutare la trascrizione, la responsabilità penale degli imputati deriverebbe da un comportamento altrui, in violazione del principio costituzionale della natura personale della stessa. Tale argomentazione è, in sé illogica, poiché fraintende la natura e lo scopo del potere attribuito all'Ufficiale d'anagrafe dall'art. 18, DPR 396/2000, ed assolutamente contraddittoria con quanto sempre sostenuto dalla difesa, ovverossia che lo status si è formato all'estero mediante la legislazione indiana. Ritenere quanto meglio specificato a pagina 10 della memoria del 25.3.2014, significa attribuire alla trascrizione una natura costitutiva che, in base alle premesse della stessa difesa, non le compete.Contrariamente a quanto ritenuto circa la condotta tenuta presso il Consolato, laddove, per quanto già detto, più che dichiarazione vi fu solo un'attività materiale di riempimento di un modulo per la sua materiale trasmissione in Italia, all'Anagrafe A fu ammonito sulle conseguenze penali delle sue false o mendaci dichiarazioni e, nel dichiarare che C fosse figlio anche di B, commise il reato di cui all'art. 495, c. 2, n. 1), C.p.Il documento prodotto agli atti, pur unico nella sua materialità, può essere logicamente scisso in due parti.La prima attiene alla mera riproduzione nel modulo offerto dall'Anagrafe di Milano dei dati contenuti nell'atto di nascita estero. Ciò non può qualificarsi come dichiarazione, sia per il suo contenuto, sia perché essa è materialmente obbligata dovendo corrispondere a quanto contenuto nell'atto di cui si richiede la trascrizione.La seconda parte attiene al momento dichiarativo vero e proprio, preceduto dall'ammonizione ex art. 76, DPR 445/2000.Ed infatti, in tale momento, avvenuto in Italia e davanti all'Ufficiale di Stato Civile di Milano, essi non potevano ignorare, ed infatti non ignoravano per loro stessa ammissione, che il rapporto di filiazione dal lato materno fosse falso secondo l'ordinamento italiano, e ciò risulta, senza ombra di dubbio, dalle dichiarazioni di B, dalle loro ricerche su internet prima di determinarsi a scegliere l'India, dal grado di acculturazione di entrambi.Tale attività decettiva era diretta a sottrarre al patrimonio conoscitivo dell'Ufficiale d'anagrafe un elemento potenzialmente valutabile ai fini del rifiuto della trascrizione, ai sensi dell'art. 18 DPR 396/2000, per contrarietà all'ordine pubblico. Ai fini della consumazione del reato non rileva né che, in concreto, non è ritenuto contrario all'ordine pubblico internazionale la trascrizione in Italia di un atto di nascita da maternità surrogata (come ritenuto da Tribunale Napoli, decreto 1.7.2011, App. Bari, sent. 13.2.2009, cit.), né che il falso fosse sostanzialmente inutile (Sez. 6, n. 7515 del 26/05/1998 - dep. 24/06/1998, Rotondo S, Rv. 211248). A seguito della modifica recata dalla L. 24.7.2008 n. 215 e dall'espunzione dall'art. 495 del riferimento all'atto pubblico, l'oggettività giuridica del reato si è spostata dalla tutela della pubblica fede alla tutela degli interessi della P.A., tra i quali quello al corretto accertamento della identità personale e dell'espletamento efficiente ed efficace dei propri compiti.La loro condotta è stata accompagnata dalla volontà di rendere dichiarazioni false e ciò basta richiedendo la disposizione il dolo generico (Sez. 5, n. 41166 del 03/07/2008 - dep. 04/11/2008, Borri, Rv. 241593).Resta da valutare se nella condotta dei correi fosse configurabile un errore scusabile, atteso che essi hanno più volte ribadito, anche a mezzo del loro procuratore, di essersi comportati secondo la legge dal momento che, secondo l'ordinamento indiano, il loro rapporto col figlio era validamente costituito. L'errore rilevante ai sensi dell'art. 47 C.p., che nella specifica ipotesi sarebbe quello su una legge diversa da quella penale, attributiva, secondo l'ordinamento italiano, della qualità di madre, è solo quello "sul fatto" e siccome tale disposizione è il "rovescio del dolo", la relativa causa di giustificazione " (...) è esclusa dalla sussistenza nell'agente del dubbio" (Sez. 2, n. 5975 del 09/11/2011 - dep. 15/02/2012, Lamia e altro, Rv. 252697), dubbio di certo mancante in entrambi i correi. Né può ritenersi sussistente una ignoranza inevitabile della legge penale, anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale del 24.3.1988 n. 364, in ipotesi ingenerata dalle allegate pronunce e dalle notizie reperite dagli imputati prima di determinarsi alla surrogazione.Così provati i fatti, tenuto conto dei criteri di cui all'art. 133 C.p., vista la incensuratezza di entrambi e le loro condizioni personali, tenuto conto della condotta tenuta nella procedura presso il Tribunale per i Minorenni, inizialmente reticente, e della successiva collaborazione, appare equa una pena contenuta nel minimo edittale, pari ad anni 2 di reclusione.Non si ritengono sussistenti gli elementi per concedere l'attenuante di pena di cui all'art. 62, comma primo, n. 1, C.p.Essa è stata interpretata dalla giurisprudenza di legittimità in maniera talmente restrittiva da renderla di rarissima applicazione, ma il principio di conservazione dei valori giuridici, riconosciuto più volte dalla Corte Costituzionale (cfr. ex multis, sent. n. 368 del 9.7.1992), deve condurre a preferire "l'interpretazione che, senza inciampi logico-formali o insensatezze assiologiche, lascia "viventi" e non solo "vigenti"" le disposizioni (Cass., Sez. IV penale, sent. 13903/2014, ud. 28.2.2014, Est. Dovere, in motivazione). Né un allontanamento da questa prospettiva comporta il rischio di soggettivismo giudiziario o di negazione delle scelte di penalizzazione del Legislatore siccome, trattandosi di attenuante soggettiva, essa non rimette in gioco il significato delle norme in concreto violate, bensì, in aderenza a quanto osservato giustamente dalla dottrina, si presta a far entrare nella fissità del diritto positivo gli aspetti più contraddittori, imprevedibili e talvolta drammatici che la storia di ciascun reato può presentare.Ora, se è pur vero che il desiderio di genitorialità è pregevole e la famiglia, intesa in senso lato, è oggetto di specifica tutela costituzionale, tanto non vale allorché tale desiderio sia soddisfatto ad ogni costo, anche a probabile discapito del nascituro. La legislazione nazionale, dalla Costituzione alle legge sulle adozioni, nazionali ed internazionali, dedica grandissima attenzione a che il desiderio di genitorialità non urti contro i diritti del minore - essendo quella del suo superiore interesse una clausola estremamente, vaga ai confini della dubbia costituzionalità - e non travalichi il dato materiale, cioè le condizioni per mezzo delle quali due soggetti possano naturalmente generare. È si vero che tali cautele sono apprestate anche in considerazione della specificità del minore adottando, il quale ha avuto un'esperienza di vita negativa ed ha costruito un attaccamento che deve poi rescindere per crearne un altro, ma tali principi possono essere applicati anche nel caso, come quello di specie, in cui tali elementi specifici manchino.Il padre di C ha ora 48 anni e la madre, paziente oncologica, 54 anni, ed il loro progetto genitoriale non appare meditato, in relazione alle soggettive esperienze di vita (si vedano le pertinenti dichiarazioni riportate in nota nella sentenza del Tribunale per i Minorenni). L'attenuante in parola, "postula che, nell'intenzione dell'agente, l'azione delittuosa sia preordinata ad eliminare una situazione effettivamente esistente, ritenuta immorale o antisociale", Sez. 5, n. 31635 del 24/06/2008 - dep. 29/07/2008, Beolchi, Rv. 241180. Nella vicenda di specie questo elemento difetta completamente, essendo la condotta tenuta finalizzata a realizzare un proprio desiderio, senza considerazione alcuna della "socialità" dell'azione intrapresa. A prescindere da ogni valutazione etica, ovviamente preclusa in questa sede, il dibattito intorno all'applicazione delle scoperte tecnologiche in materia di filiazione, è assolutamente aperto nell'opinione pubblica, nelle scienze e nella bioetica e le possibilità offerte dalla scienza in questa materia sono talmente vaste da potersi immaginare esiti tali da far obliterare qualunque considerazione dei diritti del nascituro, il quale potrebbe divenire strumento per la soddisfazione del desiderio di genitorialità della madre malata terminale, del padre psicotico, della coppia i cui figli sono stati dichiarati in stato di adottabilità e che intendano procrearne altri eludendo il controllo del TM, di genitori assai in là negli anni, dei cugini primi, ecc. Tali condotte metterebbero, come hanno messo, il diritto con le "spalle al muro", nella penosa scelta di tutelare il minore e di non privarlo dei suoi genitori "tecnologici". Tutte le decisioni riportate hanno deciso di dare ingresso alle pratiche riproduttive proprio in virtù della tutela del minore, terzo inconsapevole di un contratto al quale è rimasto estraneo (Supreme Court of India, Baby Manji Yamada Petitioner Versus Union of India & Anr. Respondents, (C) NO. 369 OF 2008; High Court of Justice, 9.12.2008, Law Report. Family Division, 2008, EWHC 3030; App. Salerno, Sez. minori, decreto 25.2.1992, NGCC, 1994, I, 177)Anche le circostanze attenuanti innominate non possono essere riconosciute atteso che, a parte la incensuratezza, di per sé sola insufficiente, non si ravvisano altri elementi specifici da valutare positivamente a favore dei prevenuti, né la scelta del rito è tale, trattandosi di mero esercizio di un diritto processuale.La pena, ridotta per il rito, va determinata in anni 1 e mesi 4 di reclusione.Stante la mancanza di precedenti penali degli imputati può essere loro concessa la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna, in assenza di elementi di segno contrario (Sez. 4, n. 2773 del 27/11/2012 - dep. 18/01/2013, Colo', Rv. 254969)P.Q.M.Visti gli artt. 438 ss C.P.P, 163 e 175 C.pDICHIARAA. e B., nata a Milano il 24.3.1959, colpevoli del reato di cui agli artt. 110 e 495, c. 2, C.p., così qualificati i fatti occorsi in Milano in data 1.1.2012 e, applicata la diminuente per il rito,CONDANNA Ciascuno alla pena di anni 1, mesi 4 di reclusione.ORDINALa sospensione della pena inflitta alle condizioni di legge e la non menzione della condanna.CONDANNAGli imputati al pagamento delle spese processuali.Così deciso in Milano, l'8 aprile 2014.Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2014.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ROMA TREDICESIMA SEZIONE CIVILE In persona del giudice dott.ssa Annalisa Chiarenza ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al n. 22924 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell'anno 2007, assunta in decisione all'udienza del 15.2.2011, vertente TRA Sa.St. e Fu.Lu., entrambi in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sul minore Fu.Fr., el.te dom.ti in Roma, Via (...), presso lo studio dell'avv. Lu., che li rapp.ta e difende giusta delega in atti Attori E Azienda Ospedaliera "Complesso Ospedaliero S. Giovanni Addolorata", el.te dom.to in Roma, Via (...), presso lo studio dell'avv. Pi., il quale, con l'avv. Lu., che la rapp.ta e difende giusta delega in atti CONVENUTA Ma.Li., el.te dom.ta in Roma, Via (...), presso lo studio dell'avv. Do., che la rapp.ta e difende giusta delega in atti Convenuta Nonché Be. S.p.A., el.te dom.ta in Roma, Via (...), presso lo studio dell'avv. Fa., che la rapp.ta e difende giusta delega in atti Chiamata in Causa MOTIVI DELLA DECISIONE Considerato in fatto e diritto che: Il presente giudizio è stato incardinato dagli attori in epigrafe indicati onde ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti in conseguenza dell'asserita, imperita esecuzione di un intervento di parto cesareo e di imperfetti e negligenti interventi medici successivi che avevano determinato la definitiva sterilità dalla Sa. Quantificavano indicativamente i danni in complessivi Euro 347.512,00 ivi compresi i danni biologici, esistenziali e morali. Si costituiva la Dott.ssa Ma. eccependo in via preliminare l'inammissibilità della domanda; nel merito, instava per il rigetto della medesima "stante la mancanza di elementi di riscontro oggettivi" avvaloranti le avverse deduzioni ed istanze e, soprattutto, la sua responsabilità. Nella denegata ipotesi di condanna chiedeva ed otteneva autorizzazione a chiamare in causa la propria Compagnia assicurativa, Be. Quest'ultima nel costituirsi osservava che l'Azienda Ospedaliera S. Giovanni Addolorata doveva aver stipulato una Polizza Rischi Diversi verso i terzi e verso i prestatori d lavoro idonea a coprire, quindi, la responsabilità civile del proprio dipendente pubblico Dott.ssa Ma. Concludeva quindi che la polizza stipulata con la Be. doveva essere ritenuta operante "a secondo rischio, una volta esaurito il massimale della Polizza stipulata con la Compagnia Assicuratrice" che l'Azienda Ospedaliera avrebbe ritenuto opportuno chiamare in giudizio. In caso contrario, la Dott.ssa Ma. sarebbe dovuta essere garantita e/o manlevata dall'Azienda Ospedaliera convenuta, obbligata sia ex lege (art. 29 D.P.R. n. 130/1969 sia in base al Contratto Collettivo Nazionale - art. 25 del ccn) a tenere indenne il proprio dipendente pubblico da ogni e qualsiasi conseguenza pregiudizievole che dovesse derivargli dall'emananda sentenza, ovvero, nella denegata ipotesi di condanna, di graduare le rispettive responsabilità della struttura ospedaliera e del medico convenuto, limitando la liquidazione al danno effettivamente provato e causalmente ricollegabile all'operato della Dott.ssa Ma. nella percentuale che dovesse essere ascritta a quest'ultima, solo per la parte eventualmente eccedente il massimale di polizza stipulata a rischio dalla Compagnia che assicura l'azienda Ospedaliera. Si costituiva la Casa di Cura convenuta denegando ogni responsabilità in capo ai propri sanitari per i pretesi danni lamentati dagli attori. Sosteneva che ogni eventuale responsabilità sarebbe dovuta essere ricercata altrove "e verosimilmente da individuarsi nella omessa e/o tardiva attività diagnostica da parte dei sanitari che hanno assistito l'attrice nella fase del puerperio (e certamente estranei all'Azienda Ospedaliera convenuta)". Contestava poi le voci di danno lamentate dagli attori nonché la quantificazione dei danni. La CTU espletata in corso di causa, fondata sull'attento esame degli atti di causa, ha acclarato che l'attrice è afflitta dalla sindrome di Asherman, "patologia intrauterina acquisita, caratterizzata dalla formazione di aderenze o sinechie (ponti fibrosi, tessuto cicatriziale) nell'utero... La sindrome di Asherman si verifica quando un trauma dell'endometrio impedisce il normale processo di risanamento facendo si che le aree danneggiate si fondano insieme. Generalmente le aderenze intrauterine ricorrono dopo una revisione strumentale dell'attività della cavità uterina (currettage - cd. "raschiamento") effettuata a causa di un aborto elettivo o a causa di una ritenzione placentare, con o senza emorragia dopo un parto. Il quadro clinico include disturbi mestruali quali ipomennorea (flussi mestruali scarsi)o amenorrea secondaria (completa scomparsa dei flussi mestruali in paziente con flussi mestruali precedentemente normali), abortività ripetuta o infertilità. Nel caso di specie, la Sig.ra Sa. era sottoposta a taglio cesareo presso l'U.O.C. di Ostetricia e Ginecologia dell'Azienda Ospedaliera di San Giovanni Addolorata di Roma e, nell'immediato decorso post-operatorio (12.9.2000), per rilevante sintomatologia dolorosa pelvica, era sottoposta ad esame ecografico della pelvi che dimostrava ispessimento ed iperecogenicità del contenuto uterino. In data 16.9.2000 la paziente era dimessa dall'Ospedale San Giovanni, in assenza di ogni ulteriore trattamento e nonostante presentasse un quadro di iperpiressia ed alterazione dei parametri ematologici (leucocitosi 32.000, con neutrofilia 30.500 di valore massimo). In data 9.10.2000 viene riferita l'espulsione spontanea di materiale endocavitario necrotico ed amorfo, come identificato presso il laboratorio di Analisi Cliniche Regina Margherita. Le analisi immunoistochimiche ulteriori, eseguite su detto tessuto conservato, nel giugno 2005,(Prof. Ugo di Tondo, Servizio Speciale di Anatomia Patologia Ginecologica dell'Università "La Sapienza"), dimostrano inequivocabilmente un'origine placentare in relazione alla presenza di cheratina e fosfatasi alcalina placentare umana. Sul piano clinico si instaurava quindi una condizione di amenorrea (mancata comparsa del flusso mestruale) che, divenuta del tutto patologica, trovava la sua origine, con ripetuti esami ìsteroscopici, in una Sindrome di Asherman completa per obliterazione totale della cavità uterina, determinata dalle aderenze dianzi descritte, con conseguente condizione di sterilità irreversibile. Quanto in sintesi esposto, alla luce dell'allegata consulenza ostetrico-ginecologica del Prof. Wa., specialista di fiducia del CTU, consente di ravvisare una evidente responsabilità professionale sotto il profilo dell'imperizia, imprudenza e negligenza in capo ai sanitari dell'U.O.C. di Ostetricia e Ginecologia dell'Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata di Roma, in relazione alle sottoelencate condotte commissivo-omissive: a) Determinarsi, nel corso dell'evento, di lacerazioni uterotomiche bilateralmente e del legamento largo a sinistra per manovre palesemente traumatizzanti il corpo uterino;) b) incompleta pulizia della cavità uterina nella fase del secondamento con ritenzione di materiale placentare; c) incauta dimissione di paziente con evidenti sintomi di sepsi (febbre, sintomatologia dolorosa pelvica e rilevante leucocitosi). Appare evidente che i censurabili comportamenti di cui sopra ebbero a determinare un'endometrite post-partum esitata in una sindrome di Asherman completa con conseguente sterilità totale ed irreversibile della paziente. Nessuna responsabilità professionale può viceversa ravvisarsi in capo alla Dott.ssa Li. in relazione agli esami ecografìci eseguiti nella fase post-partum, correttamente refertati nel rilievo di immagini definibili con la metodica e non implicanti una valutazione clinica complessiva né, tantomeno, il suggerimento o l'indicazione di ulteriori esami, che competeva eventualmente agli specialisti richiedenti la prestazione ecografica, in assenza di immagini suggestive di patologia evidenziabile con immagini diagnostiche complementari o alternative. Deve peraltro aggiungersi che le rilevazioni strumentali ecografiche, anche transvaginali, non sono idonee alla rilevazione della sindrome di Asherman la cui diagnosi è posta su base isteroscopio-isterografica. Eloquente, in tal senso, la relazione del Prof. Wa., della quale si riporta: "... nel corso dell'intervento si verificava una irradiazione della uterotomia sul lato sinistro coinvolgendo il legamento largo omolaterale. Ulteriore irradiazione della uterotomia si verificava a destra. Le irradiazioni uterotomiche venivano suturate... Nella diaria della cartella clinica viene riportata la descrizione dell'intervento chirurgico e al di sotto del termine della stessa, con un asterisco, viene sottolineatala formazione di queste radiazioni utero-tomiche, senza specificare né il momento né la causa che le ha verificate né la loro consistenza... Nonostante i parametri ematologici risultassero particolarmente alterati e la paziente continuasse a lamentare forti dolori pelvici, la stessa veniva dimessa in data 16/9/2000... nessuna responsabilità può essere ricondotta per comportamento imperito e negligente nella fase post-partum alla dott.ssa L.Ma. ... E' chiaro che ci troviamo di fronte ad una sindrome di Asherman in esito ad una endometrite post-partum (ricordiamo la iperpiressia e la leucocitosi), la cui effettiva determinazione si basa sugli accertamenti istologici ed immunoistochimici risultanti dalle sezioni in bianco ritirate dal laboratorio Regina Margherita ed affidate al prof. Ug. ... Da queste sezioni, il prof. Ug. ottenne positività alle reazioni immunoistochimiche non solo per l'anticorpo ancticheratina umana, ma anche per l'anticorpo contro la fosfatasi alcanina placentare umana... Nel caso in esame ci troviamo di fronte ad una Sindrome di Asherman totale in esito ad una endometrite post-partum... è innegabile che siano state effettuate, nel corso dell'intervento, manovre tali che hanno traumatizzato il corpo uterino (lacerazione utero-tomica e del legamento largo a sinistra e lacerazione utero-tomica semplice a destra). Ancora più rilevante è la ritenzione materiale in cavità uterina dimostratasi essere di origine placentare... Questa ritenzione è stata la causa dell'endometrite seguita all'intervento chirurgico. La sindrome di Asherman si è prodotta per le sinechie post-endometrite. In conclusione, si è determinato un quadro di sterilità totale ed irreversibile per la Sig.ra Sa. Il "Primum Movens" della patologia in questione è rappresentato dall'endometrite post-partum causata dalla ritenzione di materiale placentare. Comportamento censurabile ebbero i colleghi che eseguirono il TC, sia per avere traumatizzato l'organo uterino, sia per non aver proceduto ad una perfetta pulizia della cavità dello stesso nella fase del secondamento.. Per gli aspetti valutativi, deve osservarsi come una Sindrome di Asherman completa induca sul piano anatonomo-fisiologico, strictu sensu, una condizione di impotentia gestandi con perdita funzionale assimilabile, sul piano della stima medico-legale, alla perdita anatomica dell'utero, cui competono le percentuali previste dalla Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente...". Occorrerà considerare, tuttavia, che detta condizione, pur nell'ipotesi di potenzialità di ovociti in ovaio, determina de facto una impossibilità di procreare ("impotenza generandi") nel momento in cui, in Italia, la normativa vigente (legge 40 sulla Procreazione Assistita) non consente il ricorso alla maternità surrogata. Ciò premesso, anche in considerazione delle note depressive correlabili a detta situazione, appare equo valutare il danno biologico nella misura del 25%, con riferimento all'incidenza sulla complessiva validità psico-fisica della persona in tutte le sue valenze ed estrinsecazioni, negli aspetti organici e dinamico-relazionali, richiamandosi alla condivisa concezione unitaria ed omnicomprensiva del danno biologico nel cui alveo rientrano anche gli aspetti relativi al danno della vita di relazione, alla sfera sessuale, alla cenestesi, etc. E' appena il caso di rammentare che la percentuale attribuita alla Commissione di prima Istanza per l'accertamento degli stati di invalidità, di cui parte attrice allega verbale, concerne diverso ambito valutativo, avente ad oggetto la riduzione della capacità lavorativa, la cui stima è formulata con riferimento a parametri del tutto diversi (tabelle di cui al D.M. 05.02.92)". In definitiva, il CTU ha concluso che il trattamento di taglio cesareo praticato all'attrice, corretto e necessario in relazione all'insorgenza di sofferenza fetale e rotazione sacrale dell'occipite a dilatazione completa, non fu tuttavia eseguito in conformità alle metodiche stabilite dalla prassi e dalla scienza medica. Ciò, stante l'evenienza di "lacerazioni uterotomiche bilateralmente e del legamento largo a sinistra per manovre palesemente traumatizzanti il corpo uterino, l'incompleta pulizia della cavità uterina nella fase del secondamento con ritenzione di materiale placentare, l'incauta dimissione di paziente con evidenti sintomi di sepsi (febbre, sintomatologia dolorosa pelvica e rilevante leucocitosi). All'evento lesivo sono conseguiti, a parere del CTU, gg. 60 di i.t.a. e gg. 30 di i.t.r. al 50%, con postumi di carattere permanente, come detto, valutati in ragione del 25%; a giudizio del CTU, tali postumi non appaiono incidere, in concreto, su particolari attività non lavorative che la periziando alleghi di svolgere, le, quali, per frequenza e caratteristiche intrinseche, esulino dalle normali attività esistenziali. Tenuto conto del lavoro svolto dalla periziando, delle sue mansioni, del suo orario di lavoro etc., secondo il CTU, i postumi stessi non appaiono incidere, in concreto, sulla specifica attività lavorativa. E' stata allegata documentazione comprovante spese mediche per l'ammontare di Euro 1.000,00, ritenute congrue dal CTU, rivalutabili all'attualità, secondo gli indici ISTAT, in Euro 1.211,00 al valore attuale. Le conclusioni del CTU, obiettive ed adeguatamente supportate da ineccepibili accertamenti diagnostici e da logiche argomentazioni scientifiche, devono essere condivise da questo Giudice e ritenute idonee a fondare la decisione in ordine alla responsabilità dell'Azienda Ospedaliera convenuta. Né i rilievi critici mossi alle stesse dalla difesa degli esponenti possono in alcun modo inficiarne la validità dacché non coerenti con le risultanze, anche documentali, agli atti, sicché non si ravvisa la necessità di una remissione della causa sul ruolo per un rinnovo della CTU ovvero per rendere chiarimenti, attesa l'esaustività delle rese conclusioni. Deve pertanto dichiararsi la responsabilità del Nosocomio convenuto. Infatti, il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo "lato sensu" alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell'art. 1228 cod. civ., all'inadempimento della prestazione medicoprofessionale svolta direttamente dal (o dai) sanitario/i, quale suo/i ausiliario/i necessario/i pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (cfr., Cass. 2007/13953; 2006/1698. Nessuna responsabilità, invece, alla luce di quanto precede, può ascriversi alla pur convenuta Dott.ssa Ma., nei cui confronti deve essere rigettata ogni domanda; tali rilievi precludono l'approfondito esame delle eccezioni opposte dalla Be., Compagnia assicurativa chiamata in causa dalla Dott.ssa Ma. Pertanto, spetta alla Sa., a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, l'ammontare complessivo di Euro 100.500,00, (dei quali Euro 73.041,23 a titolo di danno biologico, anche sotto forma di IT, come da tabelle aggiornate), già "personalizzato" detto importo, in ossequio all'insegnamento della Corte di Cassazione, del resto recepito dal medesimo CTU (che con la pronuncia a Sezioni Unite n. 26972/2008, ha inteso, superando definitivamente la nozione di danno morale soggettivo transeunte, automaticamente legato al pregiudizio alla salute, ricondurre ad una unitaria voce di danno tutti i pregiudizi non patrimoniali connessi alla lesione della integrità psico-fisica del soggetto vittima di un illecito), sulla scorta dell'apprezzamento delle sofferenze concrete - anche sotto l'aspetto relazionale, tenuto anche conto dell'inevitabile incidenza di tale menomazione sui rapporti sessuali con il marito - patite dalla parte attrice. Spetta il risarcimento dei danni non patrimoniali come sopra omnicomprensivamente intesi, subiti dal marito dell'attrice, impossibilitato, tra l'altro, ad una ulteriore procreazione, danno necessariamente quantificabile in via equitativa in Euro 50.000,00; compete, a parere del Giudice, anche un ristoro agli attori quali esercenti sul figlio minore Francesco, per sempre impossibilità di godere della compagnia, dell'affetto ed, in futuro, del sostegno, quanto meno morale, di uno (o più) fratello/i o sorella/e, equitativamente quantificabile in Euro 50.000,00. In proposito, l'esercizio dell'azione per il risarcimento del danno subiti da un figlio minore, in quanto diretta esclusivamente al recupero di somme ed alla reintegrazione del patrimonio leso, deve considerarsi un atto di ordinaria amministrazione e può, perciò, essere compiuto disgiuntamente da ciascun genitore, ai sensi dell'art. 320 c.c. (Cass. 1980 n. 6503; conf. Cass. 1989/59). Nulla può essere liquidato, alla luce di quanto sopra osservato, a titolo di "danno esistenziale", voce che si risolverebbe in una non corretta duplicazione del ristoro del danno non patrimoniale subito da ciascuno degli attori (cfr. Cass. 2011/1072). Oltre alla suddetta somma spettano alle parti istanti gli interessi, intesi quale lucro cessante, in base ai noti principi sanciti da Cass. n. 1712/1995, da computarsi sul valore medio dei rispettivi crediti da di del fatto alla presente decisione - pari, per la Sa., ad Euro 89.850,00, arrotondati; pari, per Fu. e Fu., ad 44.700,00, arrotondati - al saggio annuo equitativamente determinabile in ragione del 3%, che presumibilmente gli attori avrebbero potuto trarre dalle somme - loro dovute, impiegandole nei più comuni sistemi di investimento, ove tempestivamente percepite; - sulle somme complessivamente spettanti alla istante per sorte capitale e per interessi competono infine, ex art. 1282 c.c. gli interessi legali dalla data della domanda all'effettivo saldo; sul totale di sorte capitale ed interessi competono gli interessi legali, ex art. 1282 c.c., dalla data della presente decisione al saldo. Le spese di lite tra attori e Azienda ospedaliera convenuta seguono la soccombenza, con distrazione in favore del procuratore antistatario; seguono la soccombenza anche le spese tra la convenuta Dott.ssa Ma. (estranea ad ogni responsabilità anche per la CTP attorea in atti) gli attori, mentre attesa la linea difensiva comune sussistono giusti motivi per compensare le spese tra quest'ultima e la chiamata in causa Be. e vengono liquidate come in dispositivo anche secondo la svolta attività difensiva. P.Q.M. Il Tribunale di Roma, definitivamente pronunciando sulla domanda in epigrafe, ogni diversa domanda, eccezione e deduzione disattese, in accoglimento, per quanto di ragione, della domanda della ricorrente, così provvede: 1) dichiara la Azienda Ospedaliera S. Giovanni Addolorata integralmente responsabile del fatto per cui è causa; 2) per l'effetto, condanna la predetta convenuta Azienda Ospedaliera S. Giovanni Addolorata al pagamento in favore di Sa. l'importo di Euro 100.500,00; a pagare in favore di Fu. l'importo di Euro Lu. l'importo di Euro 50.000,00; a pagare in favore degli attori predetti quali esercenti la potestà sul figlio minore Fu. la somma di Euro 50.000,00 oltre agli interessi sul valore medio dei rispettivi crediti nella misura e dalle scadenze così come indicato in motivazione oltre interessi legali sull'intero importo liquidato per sorte capitale ed interessi dalla data della presente decisione al saldo; 3) condanna la Clinica convenuta alla rifusione delle spese di lite anticipate per gli attori, spese che liquida in Euro 810,00 per esborsi, in Euro 2.500,00 per diritti ed Euro 30.000,00 per onorari, oltre IVA e CPA come per legge, oltre rimb. forf. come per legge su diritti ed onorari, oltre a spese anticipate di CTU, spese tutte che distrae in favore dell'Avv. Lu., dichiaratosi antistatario; 4) rigetta la domanda nei confronti della Dott.ssa Ma. e condanna i predetti attori alla rifusione delle spese di lite anticipate dalla predetta, spese che liquida in Euro 2.000,00 per diritti ed in Euro 20.000,00 per onorari, oltre a rimb. forf. come per legge su diritti ed onorari, oltre ad IVA e CPA come per legge; 5) compensa le spese integralmente tra la Be. e la Dott.ssa Ma. Così deciso in Roma, il 13 febbraio 2012. Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2012.

  • SENTENZA N. 49 ANNO 2005 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Valerio ONIDA Presidente - Carlo MEZZANOTTE Giudice - Fernanda CONTRI " - Guido NEPPI MODONA " - Piero Alberto CAPOTOSTI " - Annibale MARINI " - Franco BILE " - Giovanni Maria FLICK " - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Romano VACCARELLA " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell'articolo 2, primo comma della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 della richiesta di referendum popolare per l'abrogazione della legge 19 febbraio 2004, n. 40 recante "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita" limitatamente alle seguenti parti: articolo 4, comma 3: "E vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo"; articolo 9, comma 1, limitatamente alle parole: "in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3"; articolo 12, comma 1: "Chiunque a qualsiasi titolo utilizza a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente, in violazione di quanto previsto dall'articolo 4, comma 3, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 300.000 a 600.000 euro"; articolo 12, comma 8, limitatamente alla parola "1". Giudizio iscritto al n. 145 del registro referendum. Vista l'ordinanza del 10 dicembre 2004 con la quale l'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme a legge richiesta; udito nella camera di consiglio del 10 gennaio 2005 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. uditi gli avvocati Tommaso Edoardo Frosini e Duccio Traina per i presentatori Lanfranco Turci, Antonio A. M. Del Pennino, Rita Bernardini e Barbara M. S. Pollastrini, Giovanni Pitruzzella per il Comitato per la difesa dell'art. 75 della Costituzione, Isabella Loiodice e Giuseppe Abbamonte per il Comitato per la tutela della salute della donna, Federico Sorrentino per il Comitato per la difesa della Costituzione, Tommaso di Gioia e Raffaele Izzo per la Consulta nazionale antiusura ONLUS, Aldo Loiodice per il Forum delle associazioni familiari, Luigi Manzi e Andrea Manzi per Umanesimo integrale Comitato per la difesa dei diritti fondamentali della persona e l'Avv. dello Stato Francesco Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. L'Ufficio centrale per il referendum , costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 e successive modificazioni, con ordinanza pronunciata il 10 dicembre 2003, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare, promosso dal "Comitato promotore referendum ", sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogata la legge 19 febbraio 2004, n. 40 avente ad oggetto "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita", limitatamente alle seguenti parti: articolo 4, comma 3: "E vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo" articolo 9, comma 1, limitatamente alle parole: "in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3" articolo 9, comma 3, limitatamente alle parole: "in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3" articolo 12, comma 1, "Chiunque a qualsiasi titolo utilizza a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente, in violazione di quanto previsto dall'articolo 4, comma 3, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 300.000 euro a 600.000 euro" articolo 12, comma 8, limitatamente alla parola "1, "? » 2. Ricevuta comunicazione dell'ordinanza dell'Ufficio centrale, il Presidente di questa Corte ha fissato, per la deliberazione in camera di consiglio sull'ammissibilità del referendum , la data del 10 gennaio 2005, dandone comunicazione ai presentatori della richiesta e al Presidente del Consiglio dei Ministri, a norma dell'art. 33, secondo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352. 3. Con memoria depositata in data 31 dicembre 2004, l'Avvocatura generale dello Stato ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile. Argomenta l'Avvocatura che la medicina e la biologia hanno fatto negli ultimi anni enormi progressi, e tuttavia si sono spinte oltre i confini segnati dalla dignità della persona umana, nei cui confronti la manipolazione genetica può risolversi in uninsopportabile lesione. Tutti i Paesi civili si sono dunque dotati di una legislazione volta a disciplinare la procreazione medicalmente assistita, in modo da contemperare i numerosi interessi coinvolti meritevoli di tutela, che vanno dall'aspirazione alla procreazione, alla salute, alla ricerca scientifica, alla dignità della persona umana. Tale esigenza di civiltà si è espressa anche a livello sopra nazionale. Anzitutto va ricordata la direttiva 98/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 luglio 1998 sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, la quale dispone che non sono, tra l'altro, brevettabili: i procedimenti di clonazione di esseri umani; i procedimenti di modificazione dell'identità genetica germinale dell'essere umano; le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali. Si consideri poi la Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, sottoscritta a Oviedo il 4 aprile 1997 (ed il relativo Protocollo addizionale del 12 gennaio 1998, n. 168) ratificata dall'Italia con la legge 28 marzo 2001, n. 145. Tale Convenzione sottolinea il valore della dignità umana e afferma che l'interesse dell'essere umano deve prevalere su quello della scienza. La Convenzione prevede inoltre diversi divieti, tra i quali la produzione di embrioni umani al fine della ricerca e qualora la legge ammetta la ricerca sugli embrioni in vitro questa deve assicurare unadeguata tutela dell'embrione. Il successivo Protocollo addizionale vieta la clonazione di esseri umani. La disciplina della procreazione assistita si inserisce in un ampio contesto multidisciplinare che va dall'ordinamento civile e dello stato civile, ad una specifica organizzazione di un settore del servizio sanitario nazionale e, soprattutto, ad un bilanciamento dei vari diritti ed interessi compresenti al fine di tutelare il rispetto della dignità umana. In tale quadro la richiesta di un referendum abrogativo del divieto di fecondazione eterologa appare inammissibile per diversi motivi. Il divieto di fecondazione eterologa accomuna infatti tre ipotesi assai diverse tra loro, e cioè la fecondazione della donna con seme maschile di soggetto diverso dal partner , quella di impianto di ovulo di donna diversa fecondato con seme del partner ed infine quella con impianto di ovulo di donna diversa fecondato con seme di terzo. Orbene, la differenza tra la prima ipotesi da un lato, e la seconda e la terza dall'altro non potrebbe essere più profonda. Scienza, letteratura e teatro sono infatti concordi nel ritenere che la paternità biologica è assai poco influente nel vincolo di affetto che lega padre e figlio: il problema della fecondazione eterologa ex parte patris involge dunque solo un problema etico religioso. Diverso è invece il problema della fecondazione eterologa ex parte matris che va ben al di là della dimensione etica. E nota infatti l'enorme importanza che ha la vita prenatale per la determinazione della futura personalità del nascituro, ed è altrettanto nota la profondità del rapporto che si instaura nel periodo di gestazione. Molto meno note sono invece, allo stato delle attuali conoscenze della medicina, le conseguenze che potrebbero derivare alla personalità del nascituro dal fatto che il suo patrimonio genetico non abbia nulla a che vedere con quello della gestante e sorge pertanto il legittimo dubbio che tali innaturali disomogeneità possano alterare i misteriosi equilibri della vita naturale nel corso della gestazione con gravi conseguenze sull'equilibrio psicofisico del nascituro e sulla formazione della sua personalità. Tanto ciò è vero che numerose legislazioni nazionali ammettono la fecondazione eterologa con seme di donatori ma non quella con ovocita di donatrice, come ad esempio accade in Germania, Austria e Norvegia. Da quanto sopra discende che il quesito referendario, apparentemente chiaro ed univoco, tale non è, in quanto risulta precluso all'elettore, favorevole all'abrogazione di una soltanto delle ipotesi contemplate nel divieto normativo, di effettuare una scelta, confondendolo e di conseguenza incidendo sulla sua libertà nell'esercizio del diritto di voto (Corte costituzionale n. 28 del 1987). Il referendum dunque, così come prospettato, minerebbe la libertà decisionale dell'elettore, e va dunque dichiarato inammissibile. 4. Con memoria depositata in data 5 gennaio 2005, i signori sen. Lanfranco Turci, sen. Antonio Adolfo Maria Del Pennino, Rita Bernardini, on. Barbara Maria Simonetta Pollastrini, promotori e presentatori di tre referendum abrogativi (tra cui quello in esame) hanno chiesto che il referendum sia dichiarato ammissibile. Argomentano innanzitutto i citati promotori che il referendum non appartiene ad alcuna delle categorie di leggi espressamente sottratte a referendum dall'art. 75, secondo comma, della Costituzione. In particolare la legge n. 40 del 2004 non è esecutiva di alcun obbligo assunto in sede internazionale, neppure della Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 e del Protocollo addizionale del 12 gennaio 1998, n. 168, sul divieto di clonazione di esseri umani, in quanto tali atti internazionali sono stati recepiti nel nostro ordinamento con la legge 28 marzo 2001, n. 145 recante «Ratifica della Convenzione di Oviedo». Si afferma inoltre che la legge n. 40 del 2004 non solo non conterrebbe disposizioni a contenuto costituzionalmente necessario ma addirittura alcune di queste norme sarebbero "a contenuto tendenzialmente incostituzionale". In particolare, il divieto di fecondazione eterologa sancito dall'art. 4, terzo comma, della legge n. 40 del 2004, ovverosia il divieto di avvalersi, a fini di procreazione medicalmente assistita, dell'utilizzo di almeno un gamete, spermatozoo od ovocita, appartenente a soggetto esterno alla coppia, contrasterebbe con il principio di libertà personale e con il diritto alla procreazione, in quanto non consente di avere legalmente figli in Italia alle coppie in cui il marito sia sterile oppure la moglie infertile. Inoltre il divieto appare incompatibile sia con il canone di ragionevolezza sia con il principio di uguaglianza, in quanto discrimina irrazionalmente tra categorie di cittadini, e consente solo ai più benestanti di ricorrere alla tecnica di fecondazione eterologa mediante l'utilizzo di strutture sanitarie di altre nazioni. Peraltro, unapertura alla fecondazione di tipo eterologo era già presente nella giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 347 del 1998), che aveva escluso l'azione di disconoscimento di paternità ex art. 235 cod.civ. in caso di fecondazione eterologa. Da ultimo, con riferimento al limite dell'omogeneità, univocità, non manipolatività delle richieste referendarie si osserva che la Corte non ha escluso la possibilità di quesiti formulati attraverso il ritaglio di disposizioni normative (sentenza n. 32 del 1993), ma ha sempre solo richiesto una matrice razionalmente unitaria in modo da rendere immediatamente edotto l'elettore sull'alternativa sottoposta al suo voto (sentenza 29 del 1993). Nel caso di specie, in conseguenza dell'abrogazione referendaria, la possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa tornerà ad essere una pratica pienamente consentita e perciò lecita, senza che si determini alcun vuoto normativo. 5. Con quattro diversi atti di contenuto sostanzialmente identico, depositati il 5 gennaio 2005, hanno dichiarato di volere intervenire, chiedendo la declaratoria di inammissibilità della richiesta medesima: il " Forum delle Associazioni familiari", in persona del suo Presidente Luisa Capitanio Santolini; la "Consulta Nazionale Antiusura (Consulta Nazionale delle Fondazioni e Associazioni Antiusura) onlus", in persona del legale rappresentante pro tempore P. Massimo Rastrelli e del segretario nazionale M. Alberto DUrso; il "Comitato per la difesa dell'art. 75 della Costituzione", in persona di Lucia Ricci; il "Comitato per la tutela della salute della donna" in persona del legale rappresentante p. t. Alessandra Pompei in Roccasalvo. Con un distinto atto si è costituito anche il "Comitato per la difesa della Costituzione", in persona del suo legale rappresentante p.t. Pierfrancesco Grossi, chiedendo di partecipare alla discussione orale, riservandosi di depositare memorie illustrative, tendenti ad evitare l'indizione dei referendum popolari in materia di abrogazione totale o parziale della legge n. 40 del 2004. Nella discussione, alla quale sono stati ammessi con riserva i soggetti diversi dai presentatori del referendum , sia questi sia i presentatori hanno ribadito, attraverso i rispettivi difensori, le conclusioni come sopra rassegnate. Considerato in diritto 1. Va preliminarmente dichiarata, a scioglimento della riserva formulata nella camera di consiglio del 10 gennaio 2005, la ricevibilità degli scritti depositati dai soggetti diversi dai presentatori della richiesta di referendum, per le ragioni esposte nella sentenza n. 45 del 2005, fermi restando i limiti alla possibilità di intervenire di tali soggetti nel procedimento e di integrazione orale degli scritti stessi individuati nella suddetta pronuncia. 2. Il presente giudizio di ammissibilità riguarda una richiesta di referendum per l'abrogazione di norme della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) concernenti il divieto di ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo (art. 4, comma 3), la relativa sanzione (art. 12, comma 1) nonché tre incisi, contenuti nell'articolo 9, commi 1 e 3 e nell'articolo 12, comma 8, in cui si fa riferimento ai predetti divieto e sanzione. 3. La richiesta è ammissibile. 3.1. Essa non riguarda le leggi per le quali l' art. 75, secondo comma, della Costituzione espressamente esclude il referendum , né quelle altre da ritenersi ugualmente escluse secondo l'interpretazione logico-sistematica che di tale norma ha dato questa Corte. La richiesta referendaria, in particolare, non si pone in alcun modo in contrasto con i principi posti dalla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 e con il Protocollo addizionale del 12 gennaio 1998, n. 168, sul divieto di clonazione di esseri umani, e recepiti nel nostro ordinamento con la legge 28 marzo 2001, n. 145 (Ratifica della Convenzione di Oviedo). 3.2. Trattasi inoltre di richiesta abrogativa riguardante disposizioni fra loro intimamente connesse, le quali formano un autonomo e definito sistema. Il quesito è omogeneo e non contraddittorio, perché tende ad abrogare tutte (e solo quelle) disposizioni normative che attengono allo stesso punto, la procreazione di tipo eterologo (il divieto, la sanzione, la causa di non punibilità). Né può darsi rilievo, come vorrebbe l'Avvocatura dello Stato, alla diversità delle ipotesi e delle modalità attraverso cui può realizzarsi la fecondazione eterologa, mentre il caso della maternità surrogata è oggetto di apposita norma (articolo 12, comma 6) non investita dal quesito referendario. Né vi sono altre norme o parti di norme nella legge che facciano riferimento alla fecondazione eterologa. 3.3. Sotto altro profilo, non può dirsi che la eventuale abrogazione delle disposizioni oggetto del quesito sia suscettibile di far venir meno un livello minimo di tutela costituzionalmente necessario, così da sottrarsi alla possibilità di abrogazione referendaria. 3.4. Infine non può sostenersi il carattere sostanzialmente propositivo e non puramente demolitorio del referendum , perché verrebbe semplicemente abolito un divieto e, conseguentemente, una condotta fino ad allora vietata diverrebbe consentita. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione degli articoli, 4, comma 3; 9, comma 1, limitatamente alle parole: "in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3"; 9, comma 3, limitatamente alle parole: "in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3"; 12, comma 1; 12, comma 8, limitatamente alla parola "1, ", della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita); richiesta dichiarata legittima con ordinanza pronunciata il 10 dicembre 2003, dall'Ufficio contrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2005. F.to: Valerio ONIDA, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 28 gennaio 2005. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ALLEGATO: Ordinanza pronunciata nella camera di consiglio del 10 gennaio 2005 nel giudizio relativo alla richiesta di referendum abrogativo iscritto al n. 145 reg. ref. LA CORTE COSTITUZIONALE Considerato che l' art. 33 della legge n. 352 del 1970, nell'ambito di un procedimento a carattere officioso diverso da un giudizio di parti, conferisce solo ai presentatori delle richieste di referendum e al Governo il potere di depositare memorie, di cui la Corte, nella sua prassi, ha consentito l'ulteriore illustrazione in camera di consiglio; che eventuali scritti di soggetti ulteriori, interessati a sollecitare una decisione della Corte nel senso dell'ammissibilità o dell'inammissibilità dei quesiti, possono assumere solo il carattere di contributi contenenti "argomentazioni potenzialmente rilevanti" ai fini del giudizio (sent. n. 31 del 2000), ma non si configurano come espressione di un potere di partecipazione al procedimento, né quindi la loro presentazione comporta il diritto ad illustrarli oralmente in camera di consiglio; che tuttavia, nella specie, la Corte ritiene utile, in conformità a quanto già ritenuto in precedenti casi, consentire eventuali integrazioni orali agli scritti presentati; riservata alle sentenze la precisazione dei limiti di ingresso nel procedimento di documenti di soggetti diversi dai presentatori e dal Governo dispone di dare corso alla illustrazione delle memorie presentate dai soggetti di cui all'art. 33 della legge n. 352 del 1970, previe eventuali integrazioni orali degli scritti presentati da altri soggetti.

Ricerca rapida tra migliaia di sentenze
Trova facilmente ciò che stai cercando in pochi istanti. La nostra vasta banca dati è costantemente aggiornata e ti consente di effettuare ricerche veloci e precise.
Trova il riferimento esatto della sentenza
Addio a filtri di ricerca complicati e interfacce difficili da navigare. Utilizza una singola barra di ricerca per trovare precisamente ciò che ti serve all'interno delle sentenze.
Prova il potente motore semantico
La ricerca semantica tiene conto del significato implicito delle parole, del contesto e delle relazioni tra i concetti per fornire risultati più accurati e pertinenti.
Tribunale Milano Tribunale Roma Tribunale Napoli Tribunale Torino Tribunale Palermo Tribunale Bari Tribunale Bergamo Tribunale Brescia Tribunale Cagliari Tribunale Catania Tribunale Chieti Tribunale Cremona Tribunale Firenze Tribunale Forlì Tribunale Benevento Tribunale Verbania Tribunale Cassino Tribunale Ferrara Tribunale Pistoia Tribunale Matera Tribunale Spoleto Tribunale Genova Tribunale La Spezia Tribunale Ivrea Tribunale Siracusa Tribunale Sassari Tribunale Savona Tribunale Lanciano Tribunale Lecce Tribunale Modena Tribunale Potenza Tribunale Avellino Tribunale Velletri Tribunale Monza Tribunale Piacenza Tribunale Pordenone Tribunale Prato Tribunale Reggio Calabria Tribunale Treviso Tribunale Lecco Tribunale Como Tribunale Reggio Emilia Tribunale Foggia Tribunale Messina Tribunale Rieti Tribunale Macerata Tribunale Civitavecchia Tribunale Pavia Tribunale Parma Tribunale Agrigento Tribunale Massa Carrara Tribunale Novara Tribunale Nocera Inferiore Tribunale Busto Arsizio Tribunale Ragusa Tribunale Pisa Tribunale Udine Tribunale Salerno Tribunale Verona Tribunale Venezia Tribunale Rovereto Tribunale Latina Tribunale Vicenza Tribunale Perugia Tribunale Brindisi Tribunale Mantova Tribunale Taranto Tribunale Biella Tribunale Gela Tribunale Caltanissetta Tribunale Teramo Tribunale Nola Tribunale Oristano Tribunale Rovigo Tribunale Tivoli Tribunale Viterbo Tribunale Castrovillari Tribunale Enna Tribunale Cosenza Tribunale Santa Maria Capua Vetere Tribunale Bologna Tribunale Imperia Tribunale Barcellona Pozzo di Gotto Tribunale Trento Tribunale Ravenna Tribunale Siena Tribunale Alessandria Tribunale Belluno Tribunale Frosinone Tribunale Avezzano Tribunale Padova Tribunale L'Aquila Tribunale Terni Tribunale Crotone Tribunale Trani Tribunale Vibo Valentia Tribunale Sulmona Tribunale Grosseto Tribunale Sondrio Tribunale Catanzaro Tribunale Ancona Tribunale Rimini Tribunale Pesaro Tribunale Locri Tribunale Vasto Tribunale Gorizia Tribunale Patti Tribunale Lucca Tribunale Urbino Tribunale Varese Tribunale Pescara Tribunale Aosta Tribunale Trapani Tribunale Marsala Tribunale Ascoli Piceno Tribunale Termini Imerese Tribunale Ortona Tribunale Lodi Tribunale Trieste Tribunale Campobasso

Un nuovo modo di esercitare la professione

Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.