Sentenze recenti mobbing

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1943 del 2023, proposto da -OMISSIS-, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Pi. Qu., Co. Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro - Presidenza della Repubblica, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Interno, Ufficio Territoriale del Governo di Brindisi, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); - Comune -OMISSIS-, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente scioglimento degli organi comunali ex art. 143 del d.lgs. 267/2000; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Presidenza della Repubblica, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Interno e Ufficio Territoriale del Governo di Brindisi; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 maggio 2023 il Cons. Pierfrancesco Ungari e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La controversia concerne lo scioglimento degli organi elettivi -OMISSIS- (BR), disposto, in applicazione dell'art. 143, del T.U.E.L. di cui al d.lgs. 267/2000, mediante d.P.R. in data -OMISSIS-, in esito ad un procedimento iniziato con la nomina della Commissione di accesso agli uffici comunali in data -OMISSIS-. 2. Le elezioni che avevano condotto all'insediamento degli organi comunali disciolti si erano tenute nel 2019 ed avevano visto prevalere, al ballottaggio, le liste in appoggio al sindaco -OMISSIS-, su quelle del già sindaco (-OMISSIS-) -OMISSIS-, che assumeva così l'ufficio di consigliere comunale (di opposizione). 3. Con due distinti ricorsi, alcuni ex amministratori - rispettivamente, il vicesindaco ed alcuni assessori e consiglieri comunali e il sindaco ed altri consiglieri comunali - hanno impugnato dinanzi al TAR del Lazio, dapprima il decreto del Prefetto Brindisi in data -OMISSIS-, con cui gli organi comunali sono stati sospesi in via d'urgenza e l'esercizio delle relative prerogative è stato affidato ad una commissione di funzionari statali, in applicazione del comma 12 dell'art. 143, cit., e poi, mediante motivi aggiunti, il suddetto provvedimento di scioglimento con affidamento della gestione ad una commissione straordinaria per la durata di mesi diciotto. 4. Il TAR del Lazio, con la sentenza appellata (I, n. 99/2023), riuniti i ricorsi, li ha respinti. 4.1. La sentenza ha esaminato dapprima le censure di violazione delle garanzie partecipative e le ha respinte sulla base dell'orientamento consolidato della giurisprudenza. 4.2. Ha quindi esaminato analiticamente le censure dedotte nei confronti del decreto di scioglimento - sotto i profili della mancanza dei presupposti richiesti dall'art. 143, cit., nonché, sostanzialmente, della incompletezza, illogicità, contraddittorietà e del travisamento fattuale, riguardo alle circostanze ritenute rilevanti dalla relazione ministeriale sottesa al provvedimento, ai fini della sussistenza degli elementi previsti dal comma 1 di detta disposizione - ed ha concluso per la loro infondatezza. 5. La sentenza è stata appellata dagli originari ricorrenti con un unico ricorso, che tralascia di considerare la sospensione interinale ed i profili della partecipazione procedimentale e si concentra sulla confutazione delle considerazioni svolte dal TAR in ordine alla reale portata ed al significato delle circostanze rilevanti. Gli appellanti ritengono che la decisione finale abbia "tradito" i principi giurisprudenziali - pure enunciati in premessa dal TAR - sui presupposti per l'esercizio del potere di scioglimento, in realtà a loro avviso insussistenti. E prospettano, anche sulla base di precisazioni/correzioni fattuali, una lettura delle questioni "generali e di fondo" ed un'interpretazione del significato dei singoli elementi e delle "specifiche circostanze fattuali" (riferite ai singoli punti della sentenza), alternative a quelle fatte proprie dal TAR. 6. Le Amministrazioni intimate si sono costituite in giudizio ed hanno controdedotto puntualmente, ribadendo la correttezza ed esaustività delle valutazioni operate ai fini dello scioglimento e condivise dal TAR. 7. Il Collegio esamina le censure dell'appello, ricordando che, ai sensi dell'art. 143, comma 1, del T.U.E.L., lo scioglimento degli organi elettivi comunali è disposto se "emergono concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori... ovvero su forme di condizionamento degli stessi, tali da determinare un'alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l'imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica". 8. La tesi di fondo che emerge dalla relazione ministeriale sottesa allo scioglimento, è che, nel caso in esame, dal complesso degli elementi individuati dalla commissione di accesso, concernenti diversi profili di criticità - parentele o convivenze con soggetti controindicati specifici, di un assessore e tre consiglieri di maggioranza, due dei quali anche collegabili con imprese affidatarie di servizi pubblici comunali (-OMISSIS-), colpite da interdittiva; anomalie nei predetti affidamenti, per quanto concerne (oltre alla mancata tempestiva acquisizione delle informazioni antimafia), nel caso -OMISSIS-, la mancanza di una gara e di una convenzione preventiva sui contenuti del servizio, nel caso -OMISSIS-, una base d'asta irrisoria, assai inferiore a quella stimata dal dirigente comunale, il subentro di una delle due imprese dopo la immotivata rinuncia dell'altra, il robusto sospetto che vi fosse il fine di favorire un soggetto controindicato -OMISSIS-; omissioni e ritardi nella esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili abusivamente occupati da soggetti controindicati, nella riscossione delle somme oggetto di condanna dovute da soggetti controindicati, nella notificazione dei verbali delle contravvenzioni stradali - cui si aggiungono diversi elementi di inefficienza amministrativa, si dovesse desumere la sussistenza di condizionamenti nei confronti degli amministratori, incidenti sul regolare funzionamento dei servizi comunali. 9. Il Collegio esamina l'appello seguendo l'ordine delle argomentazioni proposte, e quindi esaminando anzitutto le "questioni generali e di fondo", ma accostando ad esse le questioni trattate successivamente nell'appello sotto il profilo di "specifiche circostanze fattuali", ogni volta che la separazione espositiva avrebbe potuto impedire un'efficace interpretazione del significato degli elementi da considerare. Va premesso che sui principi che disciplinano la materia, come declinati dalla giurisprudenza di questa Sezione applicativa dell'art. 143, cit., non vi è discordanza tra le parti. Le articolate censure dedotte dagli appellanti sono volte a mettere in discussione la rispondenza ai dati di fatto e la logicità delle argomentazioni attraverso le quali il TAR, alla luce di detti principi, ha selezionato le circostanze rilevanti ed ha ritenuto - in senso sostanzialmente conforme a quello scelto dall'Amministrazione - che, nel complesso, fossero sufficienti ad integrare i presupposti previsti dall'art. 143 del TUEL ai fini dello scioglimento. Deve inoltre rilevarsi che gli appellanti hanno lamentato che le censure proposte in primo grado siano state riferite solo in minima parte dal TAR e che la disamina delle stesse (condotta ai punti da 12.1 a 12.15 e 13, della sentenza appellata) prescinda quasi sempre dall'effettivo contenuto delle censure proposte. Di conseguenza, hanno sottolineato che i ricorsi di motivi aggiunti "devono pertanto ritenersi qui come riproposti nella loro interezza". Il Collegio osserva che tale mero richiamo non sarebbe idoneo a rendere attuali le censure, ma ciò è privo di conseguenze pratiche, posto che gli appellanti hanno in prosieguo svolto una serie di contestazione specifiche, che coprono l'intero ambito tematico delle censure dedotte in primo grado. 9.1. Gli appellanti sostengono anzitutto che gli elementi disfunzionali riscontrati dimostrano soltanto l'inadeguatezza amministrativa dell'ente. Lamentano che il TAR, pur richiamando la giurisprudenza di questa Sezione (cfr. sent. n. 5460/2022, ma anche nn. 2583/2007 e 876/2016 - nelle quali sostengono siano state considerate situazioni connotate da elementi di contesto e specifici più evidenti di quelli del caso in esame, senza tuttavia che si giungesse a ravvisare i presupposti per lo scioglimento), nel senso che non si può ricorrere al commissariamento "nei casi di gestione meramente inefficiente o inefficace", è tuttavia pervenuto a ritenere legittimo lo scioglimento nonostante che tutte le vicende contestate non siano andate oltre la inefficienza e/o la inefficacia dell'azione amministrativa, senza mai assurgere ad elementi che comprovino un collegamento e/o condizionamento rispetto alla criminalità organizzata. 9.1.1. Il Collegio osserva che un giudizio sulla sussistenza o meno dei presupposti dello scioglimento può scaturire soltanto dall'esame complessivo di tutti gli elementi ritenuti rilevanti, il cui esito non può certo essere anticipato sulla base del riferimento a vicende che hanno riguardato Comuni diversi. Infatti, l'accostamento a situazioni (apparentemente) analoghe, e la correlata implicita richiesta di una valutazione comparativa non sono accettabili, essendo evidentemente peculiari i connotati di ogni situazione a rischio, le motivazioni alla base di ciascun scioglimento e le relative impugnazioni (e non essendo stati neanche specificati i profili della postulata analogia tra le situazioni oggetto di quelle pronunce e quella in esame). 9.2. Gli appellanti sottolineano la doverosa distinzione di compiti tra Amministratori e burocrati, per sostenere che il TAR - e prima di esso le Autorità governative - hanno ingiustamente imputato ai primi una condotta tollerante che si sarebbe resa complice di inefficienze burocratiche, senza di contro considerare le iniziative - direttiva del Segretario generale -OMISSIS- sui controlli, oppure le iniziative per il recupero delle morosità e per il rilascio degli immobili, ovvero per il recupero di crediti derivanti da spese legali ed altro - poste in essere dall'Amministrazione, in un arco di tempo limitato e, per giunta, durante la pandemia da Covid-19. 9.2.1. Il Collegio osserva che l'assetto organizzativo dell'ente locale, che distingue tra poteri di indirizzo politico e gestione amministrativa, comporta, in capo agli amministratori eletti, un'attività di monitoraggio e vigilanza complessiva sull'operato degli uffici e, in presenza di conclamate inadeguatezze amministrative, l'adozione degli interventi necessari a modificare la situazione. Gli appellanti non negano che sia stata riscontrata una situazione di complessiva inadeguatezza (ciò che, del resto, emergerà in prosieguo, esaminando alcune delle specifiche circostanze oggetto di contestazione), e rivendicano le iniziative adottate. Tuttavia, come rilevato dal TAR, dette iniziative risultano intervenute "successivamente alla notifica dell'interdittiva antimafia alla -OMISSIS-" oppure "solo a seguito dell'intervento delle autorità statali" oppure "solo a seguito delle minacce ricevute dall'ex primo cittadino". Vale a dire, una volta che erano emersi, anche mediaticamente, fatti gravi, ai quali occorreva dare un riscontro, e che lasciavano presagire un intervento governativo; così che di tali iniziative, attraverso una lettura di segno opposto, può essere ipotizzata la strumentalità, e quanto meno va sottolineata la tardività . 9.3. Viene poi affrontato, sempre come questione generale, il profilo fondamentale del collegamento con la criminalità organizzata. Gli appellanti rilevano che il TAR ha, condivisibilmente, sottolineato come il giudizio debba "evidenziare degli elementi "concreti, univoci e rilevanti" di collegamento con la criminalità organizzata di tipo mafioso", e ribadiscono che "La ratio della legge è quella di intervenire per interrompere il rapporto di connivenza o di convenienza degli amministratori locali con sodalizi criminali di stampo mafioso che può rintracciarsi sia nella cosiddetta contiguità compiacente in presenza di clientelismo e di corruzione, come nel caso di specie; sia nella cosiddetta contiguità soggiacente esercitata con pressioni, minacce e atti intimidatori che influenzano in maniera determinante e diretta la vita dell'ente" (Cons. Stato, III, n. 2793/2021). Sostengono che, nel caso di specie, non sia ravvisabile nessuna "contiguità compiacente" e nessuna "contiguità soggiacente". 9.3.1. Per quanto concerne la presenza nell'Amministrazione di soggetti aventi parentele, frequentazioni o amicizie con soggetti controindicati, viene in rilievo la posizione del consigliere comunale -OMISSIS-, dimessosi in data -OMISSIS-. Sottolineano che le condanne risalgono tutte a fatti risalenti agli anni 2006 e 2007, e non riguardano reati di stampo mafioso, e che comunque non risulta che il predetto abbia avuto alcuna interferenza negli affidamenti comunali alle società -OMISSIS- -OMISSIS-, colpite da interdittiva. Gli appellanti sottolineano inoltre che l'Amministrazione non solo ha preteso le dimissioni di -OMISSIS-, nonostante che questi non fosse in alcun modo oggetto di indagini, ma già in precedenza ed in tempi "non sospetti" aveva deliberato la costituzione in giudizio "nel procedimento promosso innanzi al TAR per la Puglia Lecce da -OMISSIS-". Aggiungono che a poco rilevano "le dichiarazioni "ovattate" del Sindaco il quale, ovviamente, per ragioni politiche comprensibilissime non poteva additare il -OMISSIS- come responsabile di condotte illegittime o addirittura illecite", e che, peraltro, il -OMISSIS- non è stato mai attinto da provvedimenti giudiziari o da indagini (risulta un'unica condanna nel 2007 in primo grado, con reato prescritto in appello). Nei riguardi del consigliere -OMISSIS- (subentrato a -OMISSIS- pochi giorni dopo essersi dimesso da assessore) emerge, dall'indagine della Commissione di accesso, unicamente una segnalazione al Dirigente comunale della disponibilità della -OMISSIS- (solo successivamente attinta da interdittiva antimafia) a svolgere il servizio -OMISSIS-: al riguardo, sottolineano che "il segnalare al Dirigente la disponibilità di un operatore economico non può voler dire condizionare la scelta, tanto più che quella segnalazione intervenne per superare il ritardo del Comune nell'affidamento del servizio". 9.3.2. Il Collegio, quanto a -OMISSIS-, osserva che il TAR ha sottolineato essere -OMISSIS- per associazione mafiosa (-OMISSIS-), e già arrestato in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare assieme -OMISSIS-, per poi essere ambedue condannati in primo grado per associazione a delinquere (reato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione dal giudice d'appello). Di costui e di -OMISSIS-, il TAR ha sottolineato l'esistenza di rapporti con le due suddette società affidatarie di servizi da parte del Comune e poi destinatarie di informazioni antimafia interdittive (la -OMISSIS-, in data 20 novembre 2020, e la -OMISSIS-, in data 9 agosto 2021). Secondo il TAR, era stato proprio l'avvio di un'indagine interna sugli affidamenti a spingere il -OMISSIS- alle dimissioni. Il Collegio osserva inoltre che in una pronuncia recentissima di questa Sezione (-OMISSIS-, con la quale è stata confermata una sentenza del TAR Lecce che aveva annullato l'interdittiva antimafia riguardante -OMISSIS-), nell'esaminare la posizione del -OMISSIS-, cointeressato nella conduzione dell'azienda -OMISSIS- (nei cui confronti si sottolinea che "ha subito una condanna della Corte di Appello di Lecce nel 2005 per "associazione di tipo mafioso continuato fino al 1996 in -OMISSIS-", poiché ritenuto "capo zona" nel comune -OMISSIS- della compagine della -OMISSIS-, nell'ambito del clan -OMISSIS-"), viene considerata di riflesso anche quella -OMISSIS- -OMISSIS- e di altri soggetti che rilevano nel presente giudizio. Nella sentenza -OMISSIS- si legge che -OMISSIS- "nel 2007 è stato coinvolto in una vicenda giudiziaria concernente le aste giudiziarie presso il Tribunale di Brindisi, manipolate con minacce e atteggiamenti intimidatori da tal -OMISSIS- (destinatario di due interdittive - cfr. TAR Puglia, Lecce, -OMISSIS-), in concorso, appunto, con -OMISSIS-, -OMISSIS- -OMISSIS-, soggetto anch'egli con precedenti penali inerenti la ricettazione e violazione della normativa sulle armi, e -OMISSIS- (anche questi soggetto controindicato per plurime condanne inerenti la criminalità organizzata mafiosa con particolare riferimento alla -OMISSIS-), nell'ambito della quale il -OMISSIS- è stato dapprima tratto in arresto in esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare -OMISSIS-, emessa dal GIP del Tribunale di Brindisi in data -OMISSIS- e, successivamente, condannato in primo grado ad anni 4 reclusione per i reati di "associazione per delinquere finalizzata alla turbata libertà degli incanti, lesioni personali, minacce ed estorsioni", condanna seguita in appello dalla sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione; ". Non è plausibile, né peraltro viene affermato dagli appellanti, che i pregiudizi penali ed i collegamenti famigliari del -OMISSIS-, non fossero conosciuti. I pregressi contatti con -OMISSIS-, e quindi (per quanto si dirà in prosieguo) con la -OMISSIS-, -OMISSIS-, non sono smentiti. La sua originaria presenza nella compagine amministrativa non è pertanto priva di significato. Inoltre, un'interdittiva che colpisce una società affidataria di servizi comunali, e le dimissioni di un consigliere in qualche misura ad essa collegato, in seguito all'avvio di un'indagine comunale, dovrebbero costituire, quanto meno, motivo di preoccupazione e riflessione critica; pertanto, di fronte ad un evento simile, ci sarebbe da attendersi che un Sindaco affronti la situazione non mediante dichiarazione "ovattate", bensì in modo netto ed inequivocabile, a difesa della legalità minacciata. Non è smentito neanche l'interessamento, ai fini dell'affidamento -OMISSIS- alla -OMISSIS-, del -OMISSIS- (come esposto, subentrato al -OMISSIS- pochi giorni dopo essersi dimesso da assessore); quale che fosse il contesto in cui avvenne l'affidamento, l'aver segnalato la società è un indizio oggettivo di collegamento. 9.4. Gli appellanti rimarcano che il Consiglio comunale ebbe ad istituire una commissione di inchiesta: era, quella, a loro dire, una iniziativa che dimostrava come l'Amministrazione volesse non nascondere nulla ed al contrario verificare se vi fossero zone d'ombra con infiltrazioni e condizionamenti mafiosi. E sottolineano che la mancata partecipazione della consigliera di maggioranza -OMISSIS- non fa cambiare di significato l'iniziativa. 9.4.1. Il Collegio sottolinea che l'istituzione di una commissione di inchiesta è avvenuta allorché le criticità erano note (la prima delle due interdittive era stata adottata già nel novembre 2020, la commissione prefettizia si sarebbe insediata pochi giorni dopo l'iniziativa consiliare). Vale la pena riportare le motivazioni espresse dalla consigliera -OMISSIS- nell'occasione...: " già nella seduta -OMISSIS-: "...la consigliera -OMISSIS- (poi nominata assessore -OMISSIS-) faceva rilevare che per quanto le riguardava la Commissione d'Indagine non aveva ragione di esistere" e dichiarava che non vi avrebbe preso parte, così come, effettivamente, si è poi verificato" (così si legge a pag. 10 della seconda memoria depositata dall'Avvocatura dello Stato). Si tratta di un atteggiamento che nega l'esistenza stessa di una criticità, viceversa, come esposto, all'epoca ormai nota. Riguardo a detta amministratrice, che nella sentenza è annoverata tra quelli con legami di parentela con soggetti controindicati, gli appellanti rettificano che non è parente di controindicati, ed anzi non ha rapporti cordiali con essi. 9.4.2. In generale, gli appellanti ricordano che i vincoli parentali non hanno di per sé alcuna rilevanza se non vengono dimostrati comportamenti di collusione o di particolare frequentazione tra gli amministratori ed i loro parenti, tali da condizionare l'attività amministrativa. Il Collegio non può che condividere detto assunto, nel senso che i legami di parentela o affinità con soggetti controindicati non possono fondare presunzioni di complicità o condizionamento. Tuttavia, non può trascurarsi quanto affermato dalla giurisprudenza della Sezione (a proposito delle interdittive antimafia, ma con valenza di principio generale per quanto attiene al significato desumibile dalle circostanze rilevanti ai fini della permeabilità da parte della criminalità organizzata) sulla rilevanza sintomatica accessoria del contesto ambientale e parentale. In particolare, è stato recentemente ribadito che "(...) - l'amministrazione può dare rilievo anche ai rapporti di parentela tra titolari e familiari che siano soggetti affiliati, organici o contigui a contesti malavitosi laddove tali rapporti, per loro natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lascino ritenere, secondo criteri di verosimiglianza, che l'impresa ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla criminalità organizzata; -- tale influenza può essere desunta dalla doverosa constatazione che l'organizzazione mafiosa tende a strutturarsi secondo un modello "clanico", che si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della famiglia, sicché in una famiglia mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, pur se nolente, l'influenza, diretta o indiretta, del capofamiglia e dell'associazione; -- a comprovare la verosimiglianza di tale pericolo hanno rilevanza sia circostanze obiettive, come la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti che pur non abbiano dato luogo a condanne; sia le peculiari realtà locali, ben potendo l'amministrazione evidenziare come sia stata accertata l'esistenza su un'area più o meno estesa del controllo di una "famiglia" e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti; -- il puntuale riferimento ai vincoli familiari con soggetti controindicati, richiamati nei provvedimenti prefettizi, non esprime, dunque, alcuna presunzione tesa ad affermare che il legame parentale implica necessariamente la sussistenza del pericolo di infiltrazione mafiosa, ma vale a descrivere la situazione, concreta ed attuale, nella quale l'impresa si trova ad operare; -- la rilevanza sintomatica di tali legami può risultare ulteriormente corroborata, oltre che dai caratteri ad essa intrinseci o estrinseci sin qui riepilogati, anche dal fatto che la parte ricorrente, una volta messa a parte della misura interdittiva, non abbia dato prova di alcuna sua scelta di allontanarsi o di emanciparsi dal contesto familiare di riferimento (...)" (Cons. Stato, III, n. 8763/2022, ed altre ivi citt.). 9.4.3. Gli appellanti, in relazione a "specifiche circostanze" in cui il TAR ha sottolineato (punto 12.5.) parentele o frequentazioni con personaggi gravati da pregiudizi penali, prospettano alcune rettifiche o precisazioni in fatto. Del consigliere -OMISSIS-, si è detto (e sui collegamenti con le due società affidatarie di servizi comunali ed interdette, si tornerà in prosieguo); della consigliera -OMISSIS-, viene sottolineato che non è lei, bensì -OMISSIS-, ad essere -OMISSIS- di un esponente di spicco -OMISSIS-, attualmente detenuto. Infine, riguardo all'altra consigliera comunale -OMISSIS-, gli appellanti precisano che, benché la stessa sia convivente con un "soggetto condannato per reati finanziari aggravati dal metodo mafioso", come riferisce la sentenza appellata, non è emerso nessun concreto collegamento o condizionamento che dalla convivenza si sia ripercossa sull'amministrazione. Pertanto, osserva il Collegio, l'esistenza di collegamenti personali con soggetti controindicati non viene smentita da dette precisazioni. 9.5. Gli appellanti, per dimostrare le capacità di resistenza a condizionamenti dell'Amministrazione, ricordano gli atti di intimidazione nei confronti di -OMISSIS-, consigliere di minoranza e già sindaco -OMISSIS-, e dell'ufficiale della Polizia Locale -OMISSIS-. E sottolineano la netta presa di posizione del sindaco -OMISSIS- e della sua Amministrazione - "Non siamo né intimoriti, né condizionati. Anche in questo caso i dati dicono di oltre novecento interrogazioni alla banca dati antimafia per il periodo che va da ottobre 2019 a luglio 2021, sospensioni di attività, sequestri di aree illecitamente utilizzate, sanzioni per occupazioni del suolo pubblico, diverse centinaia di rilevazioni per abbandono di rifiuti e multe per divieto di sosta. La società civile -OMISSIS- è da sempre legata ai valori della legalità " (doc. n. 3) - l'invio alla Procura della Repubblica di Brindisi di esposti e atti su possibili fatti reato, la richiesta del Sindaco in data 10 settembre 2021 di incontro urgente al Prefetto "in relazione ai recenti episodi che hanno interessato il Comune -OMISSIS-... al fine di poter discutere i rapporti tra gli eventi criminosi e il grave danno di immagine della Città e le ricadute sotto l'aspetto economico e amministrativo". Nella parte del ricorso dedicata alle "specifiche circostanze", gli appellanti tornano sul tema, per lamentare che il TAR (ai punti 12.1., 12.2., 12.3. e 12.4.) abbia ignorato e frainteso il significato degli atti di intimidazione nei confronti dell'ex Sindaco (descritti anche nella relazione del Prefetto di Brindisi - pag. 19 - e legati all'indisponibilità al pagamento di tangenti relative agli appalti comunali) e dell'ufficiale -OMISSIS- (collegati alle attività di verifica sulle aree -OMISSIS-), ed abbia considerato irragionevolmente detti atti intimidatori come un elemento di collegamento o di condizionamento. 9.5.1. Il Collegio rileva che il TAR, correttamente, ha attribuito alle intimidazioni il significato di confermare, in ragione anche della pericolosità dei soggetti controindicati presenti sul territorio, che, da tempo, esisteva un clima idoneo a condizionare l'attività politica ed amministrativa nel Comune -OMISSIS-; mentre non ha ritenuto che si fosse manifestata in modo significativo ed adeguato una capacità di resistenza da parte dell'Amministrazione disciolta. L'esistenza di episodi ed in generale di un clima di intimidazione, è indubbiamente suscettibile di letture diverse, a seconda che si consideri la circostanza in sé, ed il pericolo in essa insito, oppure se ne approfondiscano anche i possibili ulteriori significati; in questo senso, la sentenza appellata non si pone in contrasto con la giurisprudenza di questa Sezione, che ha rimarcato come "l'azione intimidatoria non è di per sé espressione del condizionamento cui fa richiamo il primo comma dell'art. 143" (sent. n. 126/2013). Infatti, il TAR ha riscontrato il primo dei significati plausibili, e non il secondo (intimidazioni come risposta ad un atteggiamento di chiusura, di non permeabilità dell'Amministrazione). Senza contare che le intimidazioni nei confronti dell'ex Sindaco, valgono semmai a connotare la sua posizione, così come quelle subite dall'ufficiale -OMISSIS- (riguardo al quale, si dirà in prosieguo), non quella di altri soggetti. Il Collegio osserva inoltre che le dichiarazioni pubbliche e gli esposti rivendicati dagli appellanti risalgono ad un momento in cui la Commissione di accesso già operava da tempo e stava per completare il proprio lavoro. E che, comunque, ai fini della valutazione, rilevano soprattutto gli atti ed i comportamenti suscettibili di avere ricadute concrete, e, tra le attività istituzionalmente doverose, pesano maggiormente quelle che risultano omesse, meno quelle espletate (soprattutto qualora queste ultime non abbiano inciso concretamente sugli interessi della criminalità organizzata, o comunque possano interpretarsi come, in qualche misura, "costrette" dagli eventi). 9.5.2. Riguardo alla tardiva notifica di migliaia di verbali (altra "specifica circostanza" contestata, in riferimento al punto 12.4. della sentenza), i ricorrenti avevano osservato che il problema della mancata notifica di migliaia di verbali era stato determinato proprio dal -OMISSIS-. La sentenza impugnata, invece, fa riferimento a una denuncia archiviata proposta dallo stesso ufficiale, che avrebbe portato alla luce le criticità riscontrate nell'Ufficio. Ciò, tuttavia, sottolineano gli appellanti, contrasta con quanto si legge alla pag. 23 della relazione Prefettizia pubblicata nella G.U., secondo cui: "Dalle risultanze in possesso della Guardia di Finanza sono emersi, a carico del predetto (-OMISSIS-), una querela in data -OMISSIS- presentata dal Comandante della Polizia Locale -OMISSIS- per i reati di diffamazione e calunnia (omissis) e, in materia di reati contro la Pubblica Amministrazione, risulta a suo carico un procedimento penale (omissis) per omissione di atti d'ufficio e interruzione di pubblico servizio. Nei suoi confronti sembrerebbe, tuttavia, essere stata messa in atto, dalle ultime due Amministrazioni comunali -OMISSIS-, una presunta emarginazione, al punto che quest'ultimo inoltrava specifiche denunce per mobbing a carico della stessa Amministrazione, su cui pende un procedimento penale (omissis)." Di conseguenza, sarebbe evidente che anche la sentenza impugnata ha frainteso l'accaduto, indicando il -OMISSIS-, che è stato querelato, come denunciante. Il Collegio non dispone di elementi per valutare se l'ufficiale -OMISSIS- - come sostengono gli appellanti - abbia contribuito a creare il problema della mancata notifica e in che misura. Si limita ad osservare che la relazione prefettizia, a ben vedere, menziona tutti e due i contenziosi pendenti tra l'ufficiale ed il suo diretto superiore, e dunque non può sostenersi che la sentenza del TAR, riscontrando la vistosa disfunzione amministrativa emersa per iniziativa dell'ufficiale, abbia equivocato l'accaduto. 9.6. Un altro aspetto centrale, nell'analisi degli elementi rilevanti è rappresentato dalle vicende che hanno interessato le menzionate società -OMISSIS-, ed i collegamenti con Amministratori locali (punti 12.6. 12.7., 12.8. ss. della sentenza appellata). 9.6.1. Gli appellanti sostengono anzitutto che detti collegamenti non sussisterebbero, poiché : a) per quanto riguarda il -OMISSIS-, la sua "vicinanza" alla -OMISSIS- e alla -OMISSIS- è del tutto indimostrata; b) per quanto riguarda il -OMISSIS-, non è risultato che dalla "vicinanza" sia derivata alcuna influenza sull'assegnazione dell'appalto alla -OMISSIS-; c) l'istituzione della commissione consiliare d'indagine sulla gestione -OMISSIS- è avvenuta in conseguenza della sola interdittiva della -OMISSIS- e non del "clamore mediatico" della stessa; la commissione è stata infatti istituita con d.C.C. -OMISSIS-, ad iniziativa dei consiglieri di maggioranza (essendosi assentati tutti quelli di minoranza), quasi un mese prima che il Prefetto di Brindisi disponesse l'accesso della commissione ispettiva; peraltro, l'esito dei lavori della commissione consiliare è stato coincidente con quello della commissione ispettiva; la circostanza secondo la quale il -OMISSIS- è stato indotto a dimettersi proprio dall'avvio dell'indagine consiliare, oltre ad essere del tutto ipotetica e indimostrata - ed anzi contraddetta dalla relazione prefettizia (pag. 27: "-OMISSIS- si è dimesso, a seguito dell'adozione dell'interdittiva del Prefetto di Lecce, il -OMISSIS-") - lungi dal costituire indizio di condizionamento mafioso, prova il contrario, e cioè che ha prevalso la legalità costituita dall'indagine avviata dall'Amministrazione disciolta; d) ancor meno significativa è la considerazione che il -OMISSIS-, dimessosi da assessore in data -OMISSIS- (e dunque non pochi giorni prima delle dimissioni del -OMISSIS-, come afferma la sentenza appellata), sia subentrato per surroga al -OMISSIS- dopo le dimissioni rassegnate da questi -OMISSIS-, trattandosi di un avvicendamento previsto dalla legge, che non può certo costituire motivo di sospetto o indizio di infiltrazioni mafiose; il sospetto del TAR, secondo cui nella vicenda delle dimissioni / surroga possa ravvisarsi un accordo fra il -OMISSIS- e il -OMISSIS- per favorire la criminalità organizzata, è dunque - concludono sul punto gli appellanti - completamente infondato. 9.6.2. Il Collegio osserva che l'esistenza di collegamenti tra il -OMISSIS- e le due società interdette non sembra discutibile, essendo rimasto incontestato quanto sottolineato dal TAR circa il fatto che amministratore della -OMISSIS-. è -OMISSIS-, suindicato (come coimputato del -OMISSIS- in vicenda penale) e che -OMISSIS- è partecipata da -OMISSIS- e da -OMISSIS-, quest'ultimo controindicato e amico e frequentatore del -OMISSIS-. D'altro canto, si è già sottolineato come la "segnalazione" agli uffici comunali competenti della disponibilità della -OMISSIS- ad assumere il servizio -OMISSIS-, sia circostanza che giustifica la supposizione di un collegamento con la società . 9.6.3. Il Collegio osserva poi che le iniziative alle quali gli appellanti attribuiscono un significato di reazione dell'Amministrazione di fronte al rischio di condizionamento mafioso, non possono considerarsi tali. Infatti: - l'istituzione della commissione d'indagine consiliare, essendo intervenuta a distanza di cinque mesi dall'interdittiva -OMISSIS-, ed in un momento in cui ragionevolmente vi era sentore che, di lì a poco, sarebbe stata insediata la commissione d'accesso prefettizia, e comunque dopo che erano trascorsi quasi due anni dall'inizio della consiliatura, può plausibilmente essere interpretata come una reazione tardiva dell'Amministrazione; - a maggior ragione tale considerazione vale per le dimissioni del -OMISSIS- (e poco importa approfondire se siano state determinate dalla interdittiva o dalle sue conseguenze istituzionali o mediatiche); - la successione nel mandato tra -OMISSIS- e -OMISSIS- è certamente l'effetto dell'ordine dei candidati determinato dalle preferenze espresse dagli elettori, ma anche delle scelte personali compiute dai due Amministratori, accomunati dalla "vicinanza" alle due società colpite da interdittiva, di modo che la supposizione del TAR su un accordo tra i due appare tutt'altro che fantasiosa. 9.6.4. In generale, per quanto concerne le valutazioni esposte, il Collegio osserva che si controverte riguardo al significato ragionevolmente desumibile da elementi indiretti (che in una prospettiva penalistica si direbbero indiziari), attraverso l'applicazione di un criterio probabilistico (del "più probabile che non") che la giurisprudenza di questa Sezione utilizza usualmente per vagliare la plausibilità dei giudizi prognostici finalizzati all'adozione di misure preventive di salvaguardia della sicurezza pubblica di fronte a rischi di condizionamento degli operatori economici da parte della criminalità organizzata. E ritiene che l'adozione di un simile parametro risulti corretta anche riguardo al rischio di condizionamento che riguarda le Istituzioni pubbliche. 9.6.5. Gli appellanti tendono a privare di significato gli stessi affidamenti di servizi comunali alle due società che in seguito sono state colpite da interdittiva (considerata dal TAR ai punti 12.8., 12.9. 12.10...). Per quanto riguarda l'affidamento -OMISSIS- del servizio -OMISSIS-, sottolineano che l'indicazione della società era avvenuta per far fronte all'esigenza del Comune - -OMISSIS-, il servizio -OMISSIS- era indispensabile per mantenere il riconoscimento -OMISSIS-. Quanto alla mancanza di controlli antimafia preventivi, è evidente che, non essendo stata all'epoca la società ancora colpita dall'interdittiva, nulla sarebbe risultato. Per l'anno 2020, caratterizzato dalla crisi pandemica, l'affidamento è avvenuto - alle stesse condizioni economiche degli anni precedenti - in esito a gara, e se il capitolato è stato sottoscritto -OMISSIS- ciò non costituisce certo motivo sufficiente a sciogliere l'amministrazione per infiltrazioni mafiose. Per quanto riguarda invece l'affidamento alla -OMISSIS- del -OMISSIS-, gli appellanti sottolineano che la fissazione nel 2000 del canone d'asta in euro -OMISSIS- è congrua, realistica e perfettamente conforme a quelle degli anni precedenti, mentre del tutto errata, irrealistica e smentita dai fatti e dal mercato, invece, è la valutazione di -OMISSIS- euro. Detta ultima stima (contenuta nella determina -OMISSIS- e, peraltro, riguardante complessivamente il valore d'appalto -OMISSIS-) sarebbe stata smentita dai fatti, posto che (cfr. determina dello stesso dirigente -OMISSIS-) dall'espletamento del servizio, furono ricavati solo euro -OMISSIS-, di cui -OMISSIS- spettanti al Comune. Aggiungono che (come risulta dalla relazione della commissione consiliare d'indagine allegata alla d.C.C. -OMISSIS-) il tentativo effettuato dal Comune nel 2016 di aggiudicare -OMISSIS- per un valore concessorio di euro -OMISSIS- per la durata di cinque anni, ha avuto esito fallimentare per le casse del Comune, che ha finito col corrispondere euro -OMISSIS- a titolo di canone di locazione in favore dei proprietari -OMISSIS- senza incassare nulla per la concessione -OMISSIS-. Gli appellanti sottolineano poi che l'affidamento del lotto 1 (-OMISSIS-) alla -OMISSIS-, seconda classificata dopo la -OMISSIS-, -OMISSIS-, è stato determinato dalla rinuncia di quest'ultima, non certo da oscure manovre commesse dagli Amministratori. Quanto all'attività -OMISSIS-, gli appellanti sottolineano che era svolta dal -OMISSIS- non sull'area di proprietà comunale, bensì su suolo limitrofo di proprietà privata, e per tale ragione fu emesso un verbale di accertamento di violazione amministrativa, Le considerazioni della relazione prefettizia, recepite dal TAR, secondo cui l'interesse del -OMISSIS- era quello di avere la disponibilità dell'area pubblica per mantenerla inutilizzabile -OMISSIS-, non sarebbero provate e comunque sarebbero "contrarie alla più elementare logica economica". Il TAR, dopo aver affermato che -OMISSIS- era "in assenza di s.c.i.a." (pag. 16), al rigo immediatamente successivo osserva "come -OMISSIS- presentasse s.c.i.a. per l'esercizio dell'attività -OMISSIS- non solo per il lotto aggiudicato (il n. 1) ma anche per il lotto n. 2, affidato ad altra società : il legale rappresentante di quest'ultima (dovrebbe trattarsi della ditta -OMISSIS-, stando almeno alla determina -OMISSIS-), invece, non presentava la dovuta segnalazione di inizio attività per nessuno dei due lotti per i quali risultava vincitore": si tratta, a dire degli appellanti, di affermazioni in evidente contrasto tra loro, che dimostrano l'inconsistenza degli accertamenti compiuti. 9.6.6. Il Collegio premette che, per un Comune di dimensioni non grandi e dunque con un'attività contrattuale limitata, l'aver instaurato rapporti con ben due società poi colpite da interdittiva assume di per sé significato indiziario. Quanto alla -OMISSIS-, il Collegio osserva che una verifica preventiva antimafia avrebbe probabilmente condotto a far emergere, prima di quanto poi sia realmente avvenuto, l'esistenza di elementi tali da condurre all'interdittiva. Le contingenti difficoltà legate al Covid-19 non possono spiegare la circostanza che il capitolato sia stato definito a fine stagione e quindi a servizio ormai quasi pressoché concluso, e corroborano quindi l'ipotesi di condizionamento. Quanto alla -OMISSIS-, gli elementi prospettati dagli appellanti ridimensionano indubbiamente il divario tra valore della base di gara e valore reale della concessione, ma non lo eliminano. Premesso che i tentativi pregressi di concessione de-OMISSIS- si riferiscono ad un valore talmente alto da apparire fuori mercato e tale da lasciar presagire il fallimento dell'iniziativa, si tratta di capire per quale motivo sia stato effettuato un tentativo simile, per poi fissare il canone dello stesso anno 2016 alla cifra assai inferiore -OMISSIS-, e comunque ciò non abbia consentito di aggiudicare il lotto. Le informazioni riportate dagli appellanti (con riferimento alla relazione prefettizia - pag. 40) indicano che negli anni precedenti, il lotto era stato aggiudicato ad analoghi valori irrisori, o non era stato aggiudicato affatto (-OMISSIS-). La stessa relazione prefettizia ipotizza che ciò non fosse dovuto alla scarsa appetibilità dell'area, bensì alla presenza -OMISSIS- in zona limitrofa, nei cui confronti non venivano effettuate azioni di contrasto e sanzione. E comunque, resta il fatto che, anche rispetto all'unico dato non ipotetico - -OMISSIS- euro incassati dal Comune nel 2021, pur nella perdurante incidenza dell'attività -OMISSIS- - la base d'asta del periodo risultava evidentemente minimale, e ciononostante gli affidamenti su tale base si sono alternati a stagioni in cui non veniva presentata alcuna offerta. Non sembra pertanto al Collegio che la supposizione della relazione prefettizia sulla riconducibilità di quanto accaduto all'interesse di alimentare o quanto meno non "disturbare" l'attività -OMISSIS- del -OMISSIS- (che, si è detto, è soggetto controindicato, amministratore di -OMISSIS-, e risultava amico del -OMISSIS- e con lui coinvolto in vicenda penale) sia illogica, tutt'altro. In effetti, come segnalano gli appellanti, vi è, nella sentenza appellata (pag. 16), una contraddizione tra l'affermazione secondo cui -OMISSIS- era "in assenza di s.c.i.a." e quella immediatamente successiva in cui il TAR osserva "come -OMISSIS- presentasse s.c.i.a. per l'esercizio dell'attività -OMISSIS- non solo per il lotto aggiudicato (il n. 1) ma anche per il lotto n. 2, affidato ad altra società : il legale rappresentante di quest'ultima (...), invece, non presentava la dovuta segnalazione di inizio attività per nessuno dei due lotti per i quali risultava vincitore". Ma è una contraddizione che, da sola, non può dimostrare "l'inconsistenza degli accertamenti compiuti". Quello che più conta della vicenda è che -OMISSIS- avesse presentato la s.c.i.a. anche per il lotto che non si era aggiudicato, in vece dell'aggiudicataria, a dimostrazione che la regì a dell'attività, al di là delle intestazioni formali, fosse in capo ad esso. In tale contesto, sembra difficile contestare la conclusione del TAR (punto 12.12.) nel senso che il "conseguimento da parte dei privati delle citate illecite utilità veniva favorito anche dall'assenza di effettivi controlli". Gli appellanti replicano che la sussistenza dei requisiti morali e di quelli relativi alla certificazione antimafia veniva verificata mediante richiesta alla BDNA "a campione" per circa il 5 - 6% delle pratiche a causa di problemi tecnici telematici, e che, per quanto riguarda la s.c.i.a. della -OMISSIS-, non è stato effettuato alcun controllo perché, essendo pervenuta dopo circa una settimana altra richiesta per un'altra area pubblica, hanno ritenuto che i controlli fossero stati espletati dall'Ufficio Gare. Si tratta, all'evidenza, di giustificazioni, basate in sostanza sull'inefficienza amministrativa, che non mettono in discussione la mancanza di controlli sistematici e tempestivi né la sua rilevanza causale. 9.6.7. La sentenza appellata ha considerato anche (punto 12.13.) le assegnazioni del patrimonio immobiliare comunale a soggetti controindicati e, pur riconoscendo che sono state effettuate tutte dalle amministrazioni precedenti, ha addebitato ugualmente all'amministrazione disciolta la mancata implementazione di attività volte a ristabilire, nei limiti del possibile, la legalità . Al riguardo, le giustificazioni degli appellanti - dalla convalida degli eletti -OMISSIS- alle delibere di attivazione delle procedure di rilascio degli immobili comunali -OMISSIS- sono passati meno di ventiquattro mesi, la maggior parte dei quali nel periodo di massima emergenza pandemica, in cui tutti gli uffici hanno quanto meno lavorato in smart-working, e in cui le procedure di sfratto sono state sospese per legge - colgono dati di fatto. Parimenti, il fatto che l'assegnazione, ad associazioni ed enti per finalità sociali, di beni confiscati alla criminalità organizzata, non sia stata accompagnata dalla promozione dell'effettivo uso e dalla collaborazione con gli assegnatari al fine di garantire la corretta fruibilità dei beni, appare al Collegio un rilievo critico eccessivo, e comunque non significativo, posto che - come sottolineano gli appellanti - la gestione e la manutenzione dell'immobile, una volta avvenuta l'assegnazione, è a carico dell'assegnatario (cfr. art. 21 del Regolamento per la gestione e la valorizzazione del patrimonio immobiliare) e che per i casi di non utilizzazione vi sono giustificazioni specifiche. Il Collegio, pertanto, condivide la tesi degli appellanti sulla non significatività di questi due aspetti; ma sottolinea, nel contempo, che detti aspetti risultano del tutto marginali nell'economia complessiva dell'analisi concernente le circostanze sottolineate nelle relazioni ministeriale e nelle valutazioni del TAR. 9.6.8. Un significato diverso il Collegio ritiene che debba assumere il "mancato" recupero delle somme per spese legali liquidate in favore del Comune, pure rilevato dal TAR (punto 12.14.). Il TAR ha osservato che alcuni crediti sono stati richiesti solo a seguito delle minacce ricevute dall'ex Sindaco e della conseguente eco mediatica, altri solo dopo la prima interdittiva antimafia e l'accesso della commissione prefettizia, e da ciò ha desunto vi fosse stata titubanza nella riscossione di crediti nei confronti di soggetti controindicati. Gli appellanti obiettano che i ritardi sono da attribuire alle Amministrazioni precedenti, e non a quella disciolta, che vi ha posto rimedio. Tuttavia, degli atti che concretizzerebbero tale attività, alcuni (le due note a firma del Dirigente dell'Avvocatura comunale -OMISSIS-), risultano evidentemente tardivi, in quanto di pochi giorni precedenti l'insediamento della Commissione d'accesso. Altri (-OMISSIS-) risultano comunque poco tempestivi rispetto all'inizio del mandato, e con una coincidenza temporale che confermerebbe l'assunto del TAR. 9.6.9. Infine, gli appellanti rivendicano che la Corte dei Conti, nell'esercizio dei suoi poteri di controllo sul rispetto delle regole contabili e dell'equilibrio di bilancio relativamente all'anno 2019, con la delibera -OMISSIS- abbia accertato, tra l'altro, che sono stati rispettati "i principi cardine dell'attività amministrativa, ovvero rispetto della legge, regolarità e correttezza dell'azione amministrativa." E lamentano che il TAR (punto 13.) non ne abbia tenuto conto. La Corte dei Conti ha formulato un giudizio di piena regolarità amministrativa; perciò, gli appellanti si domandano come sia stato possibile che, nel quadro di diffusa illegalità in cui secondo la descrizione degli atti impugnati verserebbe il Comune -OMISSIS-, la Corte dei Conti non abbia rilevato nessuna criticità . Al riguardo, il Collegio non può che ribadire quanto sottolineato dal TAR, circa la diversa natura delle verifiche di cui all'art. 143 TUEL rispetto a quelle operate dalla Corte dei Conti, e sottolineare che la massima parte dei rilievi critici e delle valutazioni sul significato che assumono ai fini di un giudizio di condizionamento dell'Amministrazione disciolta, esaminati ai punti precedenti, si basano su collegamenti tra fatti e persone che esulano dall'attività del giudice contabile, e comunque si pongono in un periodo che va ben oltre il primo semestre di mandato -OMISSIS-, cui si riferisce il giudizio della Corte. 10. Le considerazioni che precedono conducono a ritenere che le censure dedotte non siano in grado di mettere in discussione le conclusioni raggiunte dal giudice di primo grado. L'appello deve pertanto essere respinto. 11. Considerata la natura e la complessità della controversia, vi sono giustificati motivi per disporre la compensazione delle spese del grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese del grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti private e le altre persone fisiche o giuridiche menzionate nella sentenza. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 maggio 2023 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino - Presidente Pierfrancesco Ungari - Consigliere, Estensore Ezio Fedullo - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Antonio Massimo Marra - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. CRISCUOLO Anna - rel. Consigliere Dott. GIORDANO Emilia A. - Consigliere Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. ROSATI Martino - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 31/03/2022 della Corte d'appello di Venezia; letti gli atti, il ricorso e la sentenza impugnata; udita la relazione del consigliere Dott. Anna Criscuolo; udite le richieste del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Molino Pietro, che ha concluso per l'inammissibilita' del ricorso; udito l'avv. (OMISSIS), difensore della parte civile Azienda U.L.S.S. (OMISSIS) Polesana, che ha concluso per l'inammissibilita' o, in subordine, per il rigetto e la liquidazione delle spese come da nota depositata; udito l'avv. (OMISSIS), difensore della parte civile (OMISSIS), che si associa alle conclusioni del P.g. e deposita conclusioni e nota spese; udito il difensore, avv. (OMISSIS), che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte d'appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza emessa in data 11 gennaio 2021 dal Tribunale di Rovigo nei confronti di (OMISSIS), ha ridotto la pena inflitta all'imputato a 1 anno e 8 mesi di reclusione, previo riconoscimento delle attenuanti generiche e con il beneficio della sospensione condizionale della pena, confermando nel resto la sentenza appellata, che lo aveva condannato per due episodi di tentata induzione indebita, cosi' riqualificata l'originaria imputazione di tentata concussione. L'imputato, in qualita' di Direttore di Medicina Nucleare dell'Azienda U.L.S.S. (OMISSIS) Polesana era stato riconosciuto colpevole del reato contestato al capo b) per avere promesso, abusando della qualita' e dei poteri connessi al ruolo di presidente della commissione del concorso per l'assunzione di un Fisico Dirigente, a (OMISSIS), borsista presso la Fisica Sanitaria dell'ospedale di (OMISSIS), di aiutarla a vincere il concorso in cambio della disponibilita' a fargli delle coccole e altre prestazioni a sfondo sessuale, non riuscendo nell'intento per il netto rifiuto opposto dalla persona offesa, nonche' del reato di cui al capo c) per aver tentato di indurre la studentessa tirocinante (OMISSIS) a mostrarsi accondiscendente e disponibile nei suoi confronti, promettendole un aiuto per farla lavorare nel reparto di Medicina Nucleare, abusando della qualita' e del ruolo di Direttore del reparto e di docente universitario dell'Universita' di (OMISSIS), intento non realizzato per la netta opposizione della studentessa. L'affermazione di responsabilita' e' stata fondata sulle dichiarazioni delle persone offese, dei testimoni sentiti e sulle conversazioni intercettate. 2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso i difensori del (OMISSIS), che ne chiedono l'annullamento per i motivi di seguito illustrati. 2.1 Con il primo motivo denunciano la nullita' della sentenza ex articolo 178 c.p.p., lettera c) per omessa valutazione della memoria depositata il 30 marzo 2022. La sentenza non contiene alcun riferimento alla memoria e agli argomenti trattati, in particolare, con riferimento alla relazione della (OMISSIS), consigliera di fiducia, la difesa aveva argomentato sulla precisione degli appunti, che la sentenza lapidariamente definisce sintetici nonche' ai colloqui della (OMISSIS) con il direttore sanitario per i quali erano state evidenziate plurime contraddizioni e illogicita' nel racconto della persona offesa di cui non vi e' traccia in sentenza. 2.2 Con il secondo motivo si denunciano plurimi vizi della motivazione, l'omessa valutazione dei motivi di appello e il travisamento delle prove. La sentenza ha ignorato le argomentazioni difensive specie in ordine alla attendibilita' della persona offesa e alla valutazione degli elementi di riscontro. A differenza di quanto ritenuto dai giudici di merito, il contenuto delle confidenze fatte nell'immediatezza dell'episodio del (OMISSIS) e' diverso e legittima dubbi non affrontati nelle sentenze: ai colleghi di lavoro la (OMISSIS) non aveva confidato di aver subito un tentativo di induzione a sfondo sessuale in relazione alla sua carriera lavorativa, ma solo delle avances limitate al toccamento di una spalla, mentre al padre ed al marito aveva riferito di un toccamento nelle parti intime e della richiesta di prestazioni sessuali in cambio di aiuto. La divergenza non giustifica l'omogeneita' delle dichiarazioni e la sussistenza di riscontri ritenute in sentenza. Si riportano le dichiarazioni rese in dibattimento dai testi (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) proprio per dimostrare la differenza di contenuto delle dichiarazioni, idonea a pregiudicare la credibilita' della persona offesa, che ai colleghi non aveva riferito nulla del concorso e del presunto ricatto sessuale, mentre ai familiari rappresentava il fallimento dell'inserimento lavorativo a causa del rifiuto della proposta del (OMISSIS). Sul punto la motivazione e' superficiale e illogica; non tiene conto delle ulteriori divergenze relative alla collocazione cronologica degli approcci del (OMISSIS), che emergono dal racconto fatto alla (OMISSIS) circa 20 giorni rispetto a quanto risulta dalla lettera scritta dalla (OMISSIS) nel maggio 2018 e inviata alla consigliera di Parita' (episodio avvenuto nel parcheggio, collocato ad (OMISSIS) e non piu' a (OMISSIS); nelle sit dell'ottobre 2018 aveva collocato ad (OMISSIS) sia l'episodio del parcheggio che il palpeggiamento dei glutei, poi in dibattimento entrambi gli episodi nel 2014, prima quello del parcheggio e poi quello del palpeggiamento, quest'ultimo collocato infine, nell'(OMISSIS) e non piu' nel (OMISSIS)). La Corte evita di motivare su tali incongruenze, specie in relazione all'episodio del palpeggiamento, oggetto di separato procedimento, pur trattandosi di fatti che si collocano nello stesso contesto; nessuna valutazione e' stata compiuta sulle contraddizioni emerse nella versione resa dalla (OMISSIS) in dibattimento, smentita dalla (OMISSIS) e dai colleghi sulla propensione del (OMISSIS) ad allungare le mani; non risultano valutati gli incontri con il direttore sanitario e le divergenti versioni rese sulla presenza del (OMISSIS) e sulla rivelazione delle molestie subite, smentita dal Dott. (OMISSIS). Il ricorso critica le argomentazioni spese dai giudici di appello, rilevando che: a) dopo la cessazione del rapporto di lavoro in ospedale il (OMISSIS), la (OMISSIS) non poteva subire alcun pregiudizio dal denunciare il (OMISSIS), anzi, e' emerso che l'intento della (OMISSIS) era quello di provocare un incontro per chiedere un risarcimento danni, non di denunciare il (OMISSIS), ma solo di utilizzare la denuncia come strumento di pressione, tanto da rivolgersi nel 2017 ad un legale; b) nonostante le scarse capacita' professionali, la (OMISSIS) aspirava ad un posto fisso in ospedale e desiderava diventare strutturata tramite concorso, ma sapeva che il concorso doveva essere preceduto da procedura di mobilita' cui lei non poteva partecipare e che il (OMISSIS) aveva un debole per lei; non sporse denuncia, presentata solo nel 2018 dalla Consigliera di Parita' cui si era rivolta raccontando la versione del ricatto sessuale, per esercitare pressione sull'azienda ed ottenere un inserimento lavorativo: le versioni contraddittorie rese sono compatibili con la possibilita' che la proposta del (OMISSIS) sia una forzata invenzione della donna. La ricostruzione alternativa, proposta dalla difesa, trova riscontro nelle contraddizioni evidenziate, nell'ambiguita' comportamentale con il (OMISSIS), risultante dalle intercettazioni, e nel perseguimento dell'obiettivo del posto fisso, ma la Corte l'ha disattesa, ritenendola smentita dall'altro episodio ascritto all'imputato, illogicamente valorizzando le voci correnti nell'ambiente sulla tendenza del (OMISSIS) a formulare avances nei confronti di colleghe o personale del reparto. 2.3 Con il terzo motivo si denuncia la mancata assunzione di una prova decisiva. richiesta dalla difesa e consistente nella deposizione della (OMISSIS) e nell'acquisizione dei suoi appunti, redatti nell'immediatezza del colloquio con la (OMISSIS), respinta con motivazione illogica perche' ritenuti sintetici, mentre erano indispensabili ai fini della valutazione dell'attendibilita' della persona offesa. 2.4 Con il quarto motivo si deducono vizi della motivazione in relazione all'episodio relativo alla (OMISSIS). La motivazione e' carente e non tiene conto dei motivi di appello con i quali si segnalavano contraddizioni tra i testi; la sentenza non spiega perche' la versione della (OMISSIS) e' piu' attendibile delle altre, in quanto agli altri testi la (OMISSIS) non riferi' della proposta di scambio. Si riportano le deposizioni e si rimarca la carenza della motivazione, che non considera affatto che la proposta di scambio fu esternata dalla (OMISSIS) solo a distanza di tre anni dal fatto nel contesto di un'indagine per ipotesi analoga. 2.5 Con il quinto motivo si censura il mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'articolo 323 bis c.p. per avere la Corte illogicamente attribuito rilievo all'attentato alla liberta' sessuale delle vittime, nonostante non sia stato provato un approccio fisico in entrambi i casi ed entrambe le vittime abbiano proseguito l'attivita' professionale all'interno del dipartimento. 3. Con motivi nuovi depositati il 21 aprile 2023 i difensori del ricorrente deducono l'intervenuta prescrizione dei reati, maturata dopo la sentenza di appello e precisamente il (OMISSIS) e il (OMISSIS), tenuto conto della sospensione di 64 giorni in forza della disciplina emergenziale del 2020. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso e' inammissibile perche' proposto per motivi non consentiti nonche' generici e meramente reiterativi delle stesse censure formulate in appello, disattese in sentenza con motivazione congrua, lineare e non manifestamente illogica, specie se letta congiuntamente alla sentenza di primo grado, che illustra in modo completo tutte le fonti di prova esaminate, ivi compreso il contenuto delle conversazioni intercettate, del tutto trascurate dal ricorso. Dall'esposizione dei motivi e' agevole rilevare che il ricorrente mira a screditare le persone offese, facendo leva su contraddizioni e incongruenze, e ad offrire una lettura alternativa dei fatti e delle dichiarazioni testimoniali, asseritamente piu' coerente e convincente di quella accolta dai giudici di merito, ma cio' in forza di una analisi selettiva delle prove, significativamente ignorando le risultanze dei colloqui intercettati, che illuminano sul contesto, sul comportamento abituale del (OMISSIS), sulle posizioni degli interni al reparto e su quella apicale del Direttore. A fronte di motivazioni complete e dettagliate e dell'analisi puntuale delle censure difensive, riportate in modo accurato nella sentenza impugnata, risulta del tutto infondato il primo motivo, in quanto la stessa esposizione dei rilievi formulati si risolve nella denuncia di un vizio di motivazione non per omessa considerazione di alcuni argomenti difensivi,, ma per averli disattesi o per averne sminuito il rilievo ad essi attribuito dalla difesa, in tal modo incorrendo nella inammissibilita' del motivo. 2. Facendo leva sulle contraddizioni e sulle divergenze dichiarative della (OMISSIS), costituita parte civile- a differenza della (OMISSIS)-, sulla mancata presentazione della denuncia e sulla tardiva interlocuzione con la Consigliera di Parita', che aveva inoltrato l'esposto alla Procura della Repubblica, la difesa del ricorrente ripropone la tesi alternativa delle inesistenti proposte sessuali e della forzata interpretazione del comportamento del (OMISSIS) da parte della (OMISSIS), che avrebbe intrapreso varie iniziative e strumentalizzato la presentazione della denuncia, utilizzata come elemento di pressione sul ricorrente e sulla direzione ospedaliera per ottenere una sistemazione lavorativa. Tesi respinta sin dal primo grado (pag. 26 sentenza di primo grado) dai giudici di merito con ragionamento lineare e coerente, fondato, a differenza di quanto prospettato, non certo sulle voci correnti sul comportamento e sulle debolezze del (OMISSIS), bensi' sui commenti inequivoci dei colleghi di lavoro, sulla netta consapevolezza dell'accaduto e sulla veridicita' della proposta formulata alla (OMISSIS) di un aiuto con il concorso in cambio di disponibilita' a coccole o carinerie di natura sessuale, emergente in modo chiarissimo dalle intercettazioni. Ed infatti, gia' il primo giudice aveva attribuito rilievo al colloquio del 16 novembre 2018 tra i dottori (OMISSIS) e (OMISSIS) in cui questa dissuadeva il collega dal riferire agli inquirenti che il (OMISSIS) aveva promesso alla (OMISSIS) di farle vincere il concorso in cambio di favori non meglio precisati perche' l'accusa si sarebbe potuta estendere a lui, che doveva indire il concorso. Analogo rilievo aveva il colloquio tra (OMISSIS) e (OMISSIS) che concordavano nel ritenere che il fatto fosse effettivamente accaduto, che la collega (OMISSIS) avesse sminuito le molestie sessuali con gli inquirenti, ma di sapere che il (OMISSIS) non aveva gli ormoni a posto nonche' altro colloquio tra la (OMISSIS) e la (OMISSIS) in cui quest'ultima ricostruiva quanto accaduto e visto da entrambe, a riprova dell'atteggiamento prudente, se non reticente, tenuto nei confronti degli inquirenti dagli interni, evidentemente sensibili alla posizione apicale del ricorrente. Posizione a maggior ragione avvertita e subita dalla (OMISSIS), indotta a non denunciare subito per il timore di vedere pregiudicata definitivamente la prospettiva del proprio inserimento lavorativo, e non per una tardiva vendetta per la mancata assunzione, come ritenuto in sentenza (pag. 16). Altrettanto lineare e logico e' l'argomento con il quale i giudici di appello hanno dimostrato l'incoerenza del rilievo attribuito dalla difesa alle scarse capacita' professionali della (OMISSIS) e l'interesse al posto fisso per sostenere la tesi della vendetta, atteso che secondo la stessa prospettazione difensiva la (OMISSIS) era consapevole di non poter essere assunta sicche' non avrebbe avuto alcun interesse a sfruttare il proprio ascendente sull'imputato, che nulla avrebbe potuto garantirle. I giudici di merito concordano nel ritenere la testimonianza della (OMISSIS) priva di discrasie e illogicita' nonche' assistita da riscontri, costituiti non solo dalle dichiarazioni dei familiari ai quali aveva riferito nell'immediatezza delle avances e della proposta formulata dal (OMISSIS), ma dalla testimonianza della (OMISSIS), consigliera di fiducia della ULSS (OMISSIS) incaricata di assistere le vittime di mobbing o di discriminazioni nell'ambiente di lavoro, alla quale la (OMISSIS) si era rivolta pochi giorni l'episodio, narrato in modo coincidente con il racconto reso a dibattimento. Sulle divergenti indicazioni cronologiche degli altri episodi rimarcate dalla difesa quali indicatori dell'inattendibilita' della persona offesa, la Corte ha gia' fornito congrua e affatto illogica risposta, rilevando che l'episodio del palpeggiamento dei glutei e' oggetto di separato procedimento, mentre quello oggetto del giudizio trovava riscontro nelle dichiarazioni della (OMISSIS) (alla quale la (OMISSIS) aveva raccontato in lacrime l'avance subita), del (OMISSIS) che l'aveva vista turbata e dalla stessa aveva appreso delle avances del (OMISSIS); ne' pare priva di rilievo la circostanza affermata dal (OMISSIS) in dibattimento che era a tutti noto in reparto che il Dott. (OMISSIS) rivolgesse alla (OMISSIS) particolari apprezzamenti e complimenti inerenti al suo aspetto fisico ogni qualvolta la incontrava (pag. 12 sentenza di primo grado). Significativo rilievo viene attribuito in sentenza ai colloqui intercettati, dai quali emerge che nessuno si stupiva che il (OMISSIS) potesse essere accusato di molestie sessuali, tanto da essere definito un molestatore seriale. Eloquente e' il colloquio tra la (OMISSIS) e la (OMISSIS) sul modo di agire del (OMISSIS), rimasto immutato ("lui e' un tipo cosi' ha questo agire qua", "quindi e' rimasto uguale", "e' seriale-", "si'", pag. 7 sentenza di primo grado) o il commento della (OMISSIS), che parlando della vicenda della (OMISSIS) e della studentessa e dell'atteggiamento di difesa ad oltranza assunta dalla (OMISSIS) con gli inquirenti, affermava che "era un periodo in cui lui praticamente gli ha fatto capire che non aveva gli ormoni a posto, pag. 7 sent. primo grado) o l'analoga affermazione della (OMISSIS) nel colloquio con la (OMISSIS), alla quale contestava di essere stata presente nel momento dello sfogo della (OMISSIS) contro il (OMISSIS), che continuava a molestarla e del proposito di segnalarlo per una procedura interna all'azienda -come poi aveva fatto- ("lui ha avuto questa fase, che si sentiva piu' forte, piu' bello, che poteva permettersi di andare a proporsi a piu' di qualche persona infatti in quel periodo li' c'e' stato il caso di sta fisica, c'e' stato il caso della studentessa, poi la storia della (OMISSIS), quindi diverse cose un po' cosi'", pag. 9 sent. primo grado). 3. Generico e meramente ripetitivo e' il motivo con il quale si censura l'omessa rinnovazione dibattimentale con riassunzione della testimonianza della (OMISSIS) e l'acquisizione degli appunti, al quale la Corte ha fornito compiuta risposta, evidenziando che la (OMISSIS) aveva reso ampia testimonianza in primo grado e aveva consultato gli appunti nel corso della deposizione, appunti che la stessa aveva definito sintetici, sicche' era superflua la rinnovazione dell'atto istruttorio. Non mancava la Corte di sottolineare che nella deposizione la (OMISSIS) aveva riferito l'episodio del (OMISSIS)dicembre(OMISSIS) in termini coincidenti con il racconto della persona offesa. 4. Analoga sorte spetta al motivo con il quale si censura la motivazione relativa all'episodio di cui al capo c) per mancata valutazione della attendibilita' della persona offesa, la cui versione non troverebbe conferma nelle testimonianze dei suoi immediati interlocutori. Anche in questo caso il tentativo difensivo di screditare la persona offesa, asseritamente condizionata dalle voci correnti nell'ambiente, che l'avrebbero indotta a mal interpretare il comportamento del (OMISSIS), cede a fronte della limpida chiarezza del narrato della (OMISSIS), riconosciuta dalla Corte di appello, che esclude ogni equivoco e suggestione in cui sarebbe incorsa la studentessa, che aveva descritto in modo lineare l'accaduto, il luogo appartato in cui era stata condotta e le modalita' della proposta di aiuto professionale in cambio di disponibilita' sessuale, anche in questo caso preceduta da apprezzamenti fisici, denotante un identico modulo comportamentale. Non e' priva di rilievo -e ne va riconosciuta la coerenza logica- la riscontrata sovrapponibilita' della condotta del ricorrente in entrambi gli episodi e la valenza di riscontro attribuita alla versione di una vittima a quella dell'altra. Anche in questo caso e' stato rimarcato che la vittima si era subito rivolta agli interni, confidando alla Dott.ssa (OMISSIS) la proposta di scambio di disponibilita' con l'aiuto professionale ricevuta dal (OMISSIS), ne' possono trascurarsi gli elementi gia' evidenziati nella sentenza di primo grado quali le dichiarazioni della (OMISSIS), che aveva raccolto il racconto e il turbamento della studentessa che le aveva mostrato anche un sms con il quale il Dott. (OMISSIS) le chiedeva di accompagnarla a casa con la propria autovettura e, quanto all'inclinazione del (OMISSIS), ammetteva che nel medesimo periodo si erano verificati altri due episodi in danno di altre due studentesse del medesimo corso di laurea, che ugualmente si erano rivolte a lei (pag. 14 sentenza di primo grado). Elementi questi costituenti ulteriore riscontro della versione della persona offesa, del tutto ignorati nel ricorso. 5. Parimenti inammissibile per genericita' e manifesta infondatezza e' anche l'ultimo motivo al quale la Corte ha offerto risposta coerente e lineare, escludendo l'attenuante della particolare tenuita' del fatto in ragione della gravita' delle condotte e della rilevanza del bene giuridico leso dalle stesse. Con argomentazione ineccepibile la Corte di appello ha, infatti, attribuito rilievo all'attentato alla liberta' sessuale delle vittime posto in essere dal ricorrente, che, abusando della sua qualita', aveva offerto loro, come merce di scambio, prospettive di lavoro o agevolazioni nel percorso professionale, offendendone la dignita' personale e professionale. 6. L'originaria inammissibilita' del ricorso preclude la possibilita' di dichiarare l'intervenuta prescrizione dei reati, maturata dopo la sentenza di appello. All'inammissibilita' del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese e al versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente determinato in tremila Euro, nonche' alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute in questo grado di giudizio dalle parti civili costituite e liquidate come in dispositivo. La cancelleria provvedera' alle comunicazioni ai sensi dell'articolo 154 ter disp. att. c.p.p.. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, (OMISSIS) alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle due parti civili costituite, che liquida per ognuna in complessivi Euro 3.686,00 oltre accessori. Manda alla cancelleria per le comunicazioni ai sensi dell'articolo 154-ter disp. att. c.p.p..

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di BERGAMO Sezione Lavoro Il Tribunale, nella persona del Giudice del lavoro Elena Greco ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1896/2018 promossa da: (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. Ro.Tr., (...), RICORRENTE contro (...) XXIII (C.F. (...)), in persona del direttore generale pro tempore, con il patrocinio dell'avv. Gabriella Battaglioli e dell'avv. An.Av., elettivamente domiciliato presso lo Studio Legale Avolio e Associati in Milano, viale Gian Galeazzo n. 16 CONVENUTO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con il ricorso introduttivo del giudizio il ricorrente ha adito il Tribunale di Bergamo in funzione di giudice del lavoro chiedendo di "accertare e dichiarare che, per tutti i fatti meglio descritti nell'espositiva che precede, il ricorrente è stato illegittimamente fatto oggetto di una condotta integrante la fattispecie di straining e/o mobbing da parte della (...) XXIII nonché di whistelblowing (inteso come mancata protezione nei termini sopra precisati) e per l'effetto condannare la (...) medesima al risarcimento di tutti i danni subiti dal ricorrente in conseguenza dell'illegittimo comportamento datoriale, sia di natura patrimoniale che di natura extrapatrimoniale, ivi compresi i danni dal medesimo subiti in conseguenza dell'illegittima dequalificazione, demansionamento e perdita di professionalità (danno professionale, all'immagine, alla carriera, alla dignità personale etc.) nonché il danno alla salute, il danno biologico permanente e temporaneo e il danno da perdita di chances per lamancata crescita professionale (anche con riferimento alla mobilità tra enti) da liquidarsi come indicato e/o come risulterà dovuto in corso di causa o il Giudice riterrà di giustizia anche ex art. 1226 c.c.". A sostegno della propria domanda il ricorrente ha esposto di essere assunto presso l'(...) XXIII e di avervi rivestito la qualifica di infermiere coordinatore sin dal 1992 (dapprima presso gli Ospedali Riuniti, poi presso la convenuta), in particolare svolgendo tale attività dal settembre 2004 al 3.12.2017 presso l'unità operativa complessa (cosiddetta u.o.c.) di pediatria, di aver sempre eseguito con professionalità la propria prestazione lavorativa ottenendo valutazioni di rendimento di buon livello e non riportando mai sanzioni disciplinari, di essere divenuto nonostante ciò vittima di condotte mobbizzanti o "stressogene" per aver assunto in talune occasioni il ruolo di wistleblower e di aver subito tali condotte tanto da aver richiesto il trasferimento ad altro reparto per salvaguardare la propria salute psicofisica. Ha precisato che l'origine delle persecuzioni poste in essere in suo danno aveva trovato scaturigine in comportamenti tenuti da colleghi e superiori nell'ambito di un progetto di natura infermieristica di assistenza a domicilio denominato "quasi a casa" ed in relazione al quale era stato accusato di non adoperarsi per consentirne la buona riuscita a causa dell'erroneo impiego di una risorsa infermieristica; era proseguita con la richiesta della referente di dipartimento (...) di modificare la valutazione formulata in ordine al rendimento di due infermiere e con l'inutilità della segnalazione da lui effettuata per denunciare siffatte pressioni; si era aggravata in seguito a numerose segnalazioni da lui effettuate anche ai direttori dell'u.o.c. e della direzione sanitaria per rendere note situazioni in cui per disorganizzazione o mancanza di efficienza del reparto i pazienti non avevano potuto effettuare le cure programmate nei giorni prestabiliti o erano stati dimessi senza la previa valutazione dei reparti competenti, tanto che la sua persona in reparto era stata individuata come un "problema", che il direttore sanitario (...) lo aveva più volte e insistentemente invitato a trasferirsi ad altro incarico, che dal 17.10.2021 al 29.10.2017 era stato collocato dapprima in ferie, poi in recupero ore eccedenti (fino al 31.10.2017) senza aver mai presentato alcuna richiesta in tal senso. Ha dedotto che la situazione di forte ansia e stress sofferti a causa del trattamento ricevuto aveva comportato l'insorgere di uno stato di morbilità dal 18.10.2017 al 3.12.2017 e che aveva dovuto assumere psicofarmaci per farvi fronte. Ha riferito di aver richiesto in data 16.10.2017 il trasferimento ad altro reparto al precipuo fine di tutelarsi dagli atti persecutori posti in essere in suo danno e di aver contestualmente invocato la normativa sul whistleblowing, senza però richiedere un demansionamento e senza acconsentire ad un trasferimento comportante la retrocessione di posizione, laddove l'azienda convenuta procedette a modificare la sua posizione di coordinatore infermieristico e dal 4.12.2017, a decurtargli la retribuzione privandolo del titolo e del compenso per l'incarico di coordinatore. A tal proposito ha allegato che dal 4.12.2017 era rientrato in servizio e, in seguito al trasferimento, si era trovato a svolgere presso il centro di formazione universitaria mansioni di mera segreteria in un ambiente isolato, privo di finestre e illuminato solo con luce artificiale, senza possibilità di relazioni professionali, senza una postazione fissa poiché per un giorno a settimana doveva anche lasciare la propria scrivania ad una impiegata dell'università Bicocca; che dal febbraio 2018, in seguito alle rimostranze compiute, era stato trasferito in un locale sempre privo di finestre e ancor più angusto del precedente; che non gli erano state rese note tramite la casella e-mail aziendale i concorsi interni, tanto da averne avuto conoscenza solo attraverso alcuni colleghi. Ritualmente costituitasi in giudizio l'(...) XXIII ha contestato le domande attoree e ne ha chiesto il rigetto. In particolare, con riferimento agli aspetti organizzativi del reparto e gestionali del rapporto di lavoro controverso, la convenuta ha dedotto di aver puntualmente dato seguito alle segnalazioni circostanziate effettuate dal ricorrente onde comprendere le ragioni dei disguidi denunciati, da un lato coinvolgendo nelle attività istruttorie sul punto anche il ricorrente stesso, dall'altro sollecitando quest'ultimo a discutere di eventuali problematiche organizzative e relazionali con i diretti interessati; ha puntualizzato che la richiesta di destinare parte attorea a diverso reparto o servizio fu formulata dalla stessa sin da l 2014 e in tempi più recenti nel corso di un colloquio svoltosi con l'assistenza di due rappresentanti sindacali e a seguito del quale vennero assunte in via concordata anche le decisioni sulla organizzazione del reparti di pediatria e sulla fruizione del congedo (dapprima qualificato come ordinario e poi trasformato - su richiesta del lavoratore medesimo - in recupero ore); ha precisato che sul ricorrente non venne esercitata alcuna pressione per indurlo a modificare il giudizio espresso sul rendimento di due infermiere del reparto pediatria, ma che viceversa si aprì una procedura di confronto alla presenza di un soggetto terzo al precipuo fine di consentire alle lavoratrici interessate e al loro coordinatore di comprendere le rispettive posizioni e che il ricorrente acconsentì liberamente ad incrementare alcuni dei punteggi attribuiti a tali due infermiere; ha descritto le mansioni attribuite al ricorrente in seguito al trasferimento al nuovo incarico, evidenziando che esso ha gli ha consentito di avere una quotidiana interazione con docenti, studenti, con gli uffici formativi e direzionali e di ricevere l'incarico - dopo un percorso formativo durato circa quattro mesi - di svolgere attività tutoriale in quattro sedi e di definire gli obiettivi didattici; ha riferito che già dal dicembre 2017 il responsabile dell'unità organizzativa della formazione universitaria invitò il ricorrente a partecipare alla selezione per le posizioni organizzative. Istruita la causa con l'ammissione della prova testimoniale e disposta da ultimo la trattazione scritta della controversia ai sensi dell'art. 221, comma 4, L. n. 77 del 2020, all'udienza di discussione il Giudice ha assunto la causa in decisione, dando lettura del dispositivo e assumendo termine per il deposito delle motivazioni. MOTIVI DELLA DECISIONE Il ricorso non è fondato e non può pertanto essere accolto. Per una corretta disamina della questione oggetto del giudizio, appaiono necessarie alcune considerazioni di carattere generale sul concetto di mobbing e di straining e della relativa risarcibilità. Per mobbing (dall'inglese "to mob", cioè "attaccare", "aggredire") si intende, comunemente, una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità. Secondo i più consolidati approdi giurisprudenziali e dottrinali, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (cfr. Cass., n. 3785/2009). A metà strada tra il mobbing e il semplice stress occupazionale, si pone una condizione psicologica definita straining. Lo straining, dall'inglese "to strain", ha un significato molto simile a quello di "to stress", ossia "stringere, distorcere, mettere sotto pressione" e indica, infatti, una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima (il lavoratore), subisce da parte dell'aggressore (lo strainer, che solitamente è un superiore) almeno un'azione ostile e stressante, i cui effetti negativi sono di durata costante nel tempo. La vittima, inoltre, deve trovarsi in persistente inferiorità rispetto allo strainer, la cui azione viene diretta volontariamente contro una o più persone, sempre in maniera discriminante. Sul piano pratico lo straining si differenzia dal mobbing per il modo in cui è perpetrata l'azione vessatoria: per la configurazione di una fattispecie di mobbing è necessario che l'azione di molestia sia caratterizzata da una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, che venga riscontrato un danno alla salute e, infine, che questo danno possa essere messo in relazione all'azione persecutoria svolta sul posto di lavoro; viceversa nello straining viene meno il carattere della continuità delle azioni vessatorie. Tale assunto è stato recentemente confermato dai giudici di legittimità, secondo i quali lo straining altro non è se non "una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie" (Cass. n. 3291/2016 e Cass. n. 3977/2018); azioni non necessariamente associate ad un intento persecutorio (Cass. n. 18927/2016), ma intenzionale che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 c.c.. In altri termini, posto che la figura del mobbing e dello straining hanno rilevanza meramente descrittiva, il risarcimento del danno all'integrità psicofisica richiede l'accertamento della natura vessatoria anche di singoli comportamenti e pure in mancanza d'intento persecutorio. Nell'ipotesi in cui, come nella prospettazione del caso in esame, il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, di natura asseritamente vessatoria, onde valutare la ricorrenza di una fattispecie di straining si tratta di valutare se alcuni dei comportamenti denunciati - esaminati singolarmente ma sempre in sequenza causale, pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio - possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili (cfr. Cass. n.15159/2019; Cass. n. 16256/2018; Cass. n. 3977/2018). Conseguentemente la nozione di straining, espressamente invocata dal ricorrente, avendo natura medico-legale, non riveste autonoma rilevanza ai fini giuridici, ma è utilizzata per identificare comportamenti che si pongano in contrasto con l'art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (cfr.: Cass. 29 marzo 2018 n. 7844). Secondo la Suprema Corte, infatti, lo straining è una forma attenuata di mobbing che è configurabile quando vi siano comportamenti "stressogeni", scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manca la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero, ma comunque realizzino effetti dannosi all'interessato (così: Cass. n. 15159/2019 cit.). La giurisprudenza di merito ha altresì sottolineato come lo straining, a differenza del mobbing, si caratterizza per la particolare aggressività del comportamento attuato dal datore di lavoro, manifestata attraverso la repentinità o la natura eclatante dell'azione o insita nelle specifiche circostanze del demansionamento, ovvero nel concomitante verificarsi di altri atti volti ad isolare, anche dal punto di vista umano, il lavoratore. Tuttavia al pari del mobbing anche lo straining provoca al dipendente problemi di autostima e salute, turbative professionali e di serenità familiare, incidenti sulla sua qualità della vita. Entrambe le fattispecie, nel persistente vuoto normativo, sono tutelabili in virtù di quanto disposto dall'art. 2087 c.c., che, quale norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, rappresenta strumento sanzionatorio atto a punire tutte quelle condotte del datore di lavoro capaci di ledere la personalità e la dignità del lavoratore. Ed infatti, ai sensi dell'art. 2087 c.c., il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" ed a tal fine occorre valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, o altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno. Il lavoratore che subisce una condotta mobbizzante, comportamenti vessatori, lesivi e persecutori, sia pure nella forma meno intensa dello straining, ha dunque diritto al risarcimento del danno biologico, ma è onerato dell'allegazione probatoria dei fatti nei quali si è estrinsecata la condotta datoriale e del nesso causale tra il comportamento tenuto dal datore di lavoro (o dai colleghi) ed il pregiudizio alla propria salute. In tema di responsabilità del datore di lavoro per mobbing o per straining, infatti, il lavoratore non è certo tenuto a dimostrare materialmente la colpa del titolare, ma è comunque soggetto all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale e delle regole di condotta che assume essere state violate, della nocività dell'ambiente di lavoro nonché il nesso eziologico tra la condotta del datore ed il pregiudizio all'integrità psicofisica che lamenta di aver sofferto (Cass. n. 13693/2015). Analogo ragionamento vale anche per le condotte demansionanti, di cui pure il ricorrente assume di essere stato vittima: "Quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all'art. 1218 c.c., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile" (Cass. n. 17365/2018). Tenuto conto di quanto esposto, nel caso di specie gli esiti della istruttoria portano a ritenere non sussistente una responsabilità datoriale, risultando invece che il datore di lavoro - a fronte della situazione di difficoltà in cui si è trovato ad operare il ricorrente - abbia agito per tutelarne sia l'integrità psicofisica sia la professionalità, abbia cercato di attenuare le frizioni tra il ricorrente ed i colleghi ed abbia ricercato un diverso ambito di realizzazione professionale del proprio dipendente. Con riferimento alla asserito verificarsi nel reparto di pediatria di una situazione di ostracismo nei confronti del ricorrente, nato in concomitanza con l'elaborazione e la realizzazione del progetto "quasi a casa" e accresciutosi in seguito a varie denunce di disfunzioni organizzative e gestionali nell'ambito del reparto, le risultanze della istruttoria non hanno affatto confermato la tesi attorea, ma hanno viceversa delineato un ambiente in cui i vari operatori - pur rendendosi conto di una situazione di difficoltà personale del lavoratore - non ne hanno revocato in dubbio la professionalità, l'attitudine organizzativa e le capacità. In tal senso depongono innanzi tutto le dichiarazioni dei testi attorei, i quali - pur dando atto di aver riscontrato taluni problemi - hanno puntualizzato che essi non erano relativi "alla posizione del ricorrente" e che alcuno si era mai permesso di individuare la sua persona o il suo ruolo come problematico (cfr. dichiarazioni del teste (...) di cui al verbale di udienza del 5.4.2019), hanno confermato di non aver mai notato "in reparto alcuna ostilità nei confronti del ricorrente, non mi è parso che venisse escluso dal personale medico e che non fosse gradito, anzi" e, anche con riferimento al medico referente del progetto "qui a casa" hanno sottolineato che i rapporti con "la dott.ssa (...) erano normali rapporti di lavoro, non ho mai assistito a dispetti, non ho mai visto che si nascondevano le cose" (cfr. dichiarazioni del teste (...) di cui al verbale di udienza del 30.9.2020). Circa la percezione della figura del ricorrente nell'ambito del reparto di pediatria non giovano alla tesi attorea dell'avvenuta emarginazione, isolamento o quantomeno del diffondersi di un sentimento di disistima e di disprezzo neppure le dichiarazioni della teste (...), la quale - sebbene sia apparsa animata da un forte spirito di critica e di rivalsa nei confronti di taluni infermieri e responsabili amministrativi addetti al reparto o con esso operanti - non ha enucleato nelle proprie dichiarazioni alcun elemento di fatto idoneo a far emergere episodi di vessazione, di esclusione, di ghettizzazione, di sfiducia o di discredito del ricorrente. In particolare, sebbene la teste abbia confermato che nell'ambito del reparto pediatria si verificarono alcuni episodi di disorganizzazione a scapito dei pazienti, la stessa ha precisato che tali episodi riguardano da un canto l'avvenuta consegna di un farmaco ad una paziente e la richiesta di chiarimenti da parte dell'infermiera (...) e i dottori (...) e (...) circa la necessità di informare il coordinatore di tale consegna, dall'altro la mancata predisposizione della cartella di un paziente del day hospital e non ha enucleato però alcun episodio di discredito o di tentativo di isolamento del ricorrente (cfr. dichiarazioni di (...) di cui al verbale di udienza del 6.11.2019). Anche la tesi della imposizione delle ferie o del recupero delle ore eccedenti non trova invero riscontro negli esiti della istruttoria. Se da un lato il verbale dell'incontro del 9.10.2017, nel quale è attestato che parte attore assentì alla richiesta datoriale di fruire di ulteriori 15 giorni di ferie rispetto ai due già programmati, non costituisce piena prova poiché priva della sottoscrizione dei partecipanti alla riunione (cfr. doc. 3 fasc. conv.), in tal senso depongono le dichiarazioni dei testi (...) e (...), le quali illustrano le ragioni di tale richiesta evidenziando che, in accoglimento della richiesta di trasferimento ad altro reparto, l'ente datoriale avrebbe ricercato un altro incarico di coordinamento da attribuire al lavoratore (cfr. verbali di udienza del 5.4.2019 e del 6.11.2019). Ancora, risulta smentita anche la tesi secondo la quale lo svilimento della professionalità perpetrato dall'Azienda convenuta diverrebbe manifesto in considerazione delle mansioni attribuite a parte attorea presso la nuova unità organizzativa di assegnazione e della particolare collocazione del suo nuovo ufficio in seguito al trasferimento presso l'unità organizzativa della formazione. Dalle dichiarazioni della teste (...) è emerso che le strutture della formazione sono state "progettate" dopo la costruzione dell'ospedale e che i relativi spazi sono stati ricavati in modo da essere visibili, in prossimità del c.u.p., e sono situati nella parte interna del padiglione, cosicché anche la stessa teste aveva a sua disposizione solo un ufficio privo di finestre e di illuminazione naturale (cfr. verbale di udienza del 30.9.2020; nel senso prospettato depongono anche le circostanze riferite dal teste (...) di cui al medesimo verbale di udienza). Circa l'avvenuto demansionamento in seguito all'assegnazione presso l'unità operativa della formazione, invece, la medesima teste (...) ha illustrato le modalità attraverso le quali ha inteso utilizzare e sviluppare le competenze organizzative e tecniche già possedute dal ricorrente al momento dell'assegnazione al nuovo incarico e come si sia prodigata anche per garantirgli l'accrescimento professionale, mediante l'attribuzione del ruolo di tutor nell'ambito del corso di laurea in scienze infermieristiche e con l'assegnazione di compiti e mansioni di organizzazione e di controllo confacenti rispetto al livello D di inquadramento (in relazione al quale invero parte attorea non ha mai specificato le ragioni per cui le mansioni attribuite nell'ambito dell'unità operativa della formazione sarebbero inferiori rispetto a quelle in precedenza svolte presso la pediatria). Inoltre non si ravvisa alcun illegittimo esercizio del potere datoriale nella scelta della capo area (...) di procedere ad un confronto dialettico tra il ricorrente, nella sua veste di coordinatore del personale infermieristico, e due infermiere ((...) e (...)) in merito alla valutazione compiuta dal primo. Come emerso in sede istruttoria tale contraddittorio fu proposto dal capo area (...) in considerazione delle difficoltà relazionali che riguardavano parte del personale infermieristico e fu svolto senza esercizio di alcun tipo di pressione e senza imposizione di sorta sugli esiti della valutazione. Il teste (...) a tal proposito ha evidenziato che: "il momento della valutazione del personale infermieristico è un momento importante, perché in quel momento si restituisce il riscontro di un anno di lavoro; nel 2017 le infermiere (...) e (...) si lamentarono con me, la (...) perché la valutazione era stata data in tre minuti in modo molto spiccia e non chiara e senza capire cosa fosse stato detto; la (...) si lamentò del voto ottenuto e si lamentò del fatto che la valutazione gli era stata data solo l'ultimo giorno prima delle ferie ed era più bassa degli anni precedenti. Ricevute le segnalazioni delle infermiere, io ho convocato il ricorrente per chiarire gli aspetti delle valutazioni e, d'accordo con lui, abbiamo scelto di convocare anche le due infermiere e lui addirittura ne chiamò una per telefono. Insomma comparvero tutti e tre insieme davanti a me e lì condividemmo gli aspetti della valutazione, che spetta sempre e comunque al coordinatore e non a me. In quell'occasione, per aiutare le parti coinvolte a contestualizzare la valutazione e per essere neutrale, io aprii le valutazioni e le rilessi con il ricorrente e una infermiera per volta e, in relazione ai 4 item di valutazione contestati per ciascuna infermiere, ci fu un confronto tra le infermiere e il ricorrente, ma lui non in quell'occasione non disse molto, mentre le infermiere sottolineavano la loro condotta per conseguire un punteggio più alto; nel confronto dialettico con tutte le parti, decidemmo d'accordo con M. di alzare la valutazione di due item per le infermiere e di mantenere invariati gli altri due item, su un totale di 12 item; all'esito della riunione, per rendere più agevole il flusso di comunicazione, io inviai al ricorrente il file con la nuova valutazione e nel ricevere la mail, lui non manifestò alcuna contrarietà rispetto alle nuove valutazioni fatte in mia presenza. Preciso che in questa occasione io cercai di essere neutrale, appunto perché la valutazione non è di mia competenza e cercai solo di instaurare un confronto collaborativo tra il coordinatore e le infermiere valutate" (cfr. verbale di udienza del 6.11.2019). In definitiva, all'esito della istruttoria documentale e testimoniale, le tesi attoree non risultano affatto provate e i fatti enucleati in ricorso come sintomatici del mobbing o quantomeno dello straining non sono affatto emersi, considerato che tutti i testi hanno invero confermato che nel reparto di pediatria ove il ricorrente operava come coordinatore era diffuso e condiviso nei suoi confronti un sentimento di stima e di rispetto. La circostanza che il ricorrente abbia avuto uno screzio con l'infermiera (...) (confermata da tutti i testi e descritta più nel dettaglio dal teste attoreo (...), che ha dato atto di aver assistito ad un episodio in cui, pur non comprendendone le ragioni, vide "l'infermiera (...) che urlava" in un confronto con il ricorrente) e che in seguito ad esso abbia avvertito un generale mancato adeguato riconoscimento del suo lavoro, dell'impegno profusovi, della disponibilità sempre offerta non ha appunto trovato riscontro, tanto che gli stessi testi attorei hanno confermato che "Dopo l'episodio con l'infermiera (...) mi accorsi che il ricorrente stava male; lui in genere era molto presente e molto collaborante e in quel periodo invece era molto distrutto. Dopo il medesimo episodio si capiva in reparto che il ricorrente non poteva stare più al suo posto di lavoro, in reparto noi o.s.s. e gli infermieri lo avevamo percepito, ma nessuno diceva nulla e continuavamo a lavorare tranquilli. (...) svolgeva sempre la sua attività e non mancava mai, ma dopo l'episodio con la (...) in reparto tra il personale infermieristico, noi o.s.s. e il personale medico i rapporti continuarono normalmente con le stesse modalità con cui continuavano a lavorare in precedenza" (cfr. dichiarazioni di (...) di cui al verbale di udienza del 30.9.2020). Anche la dedotta ritorsione subita per effetto delle segnalazioni delle disfunzioni gestionali e organizzative verificatesi in reparto è rimasta priva di oggettiva prova, essendo invece emerso che in seguito ad esse parte attorea venne coinvolta nel procedimento per la rettifica di tali disfunzioni e vi si sottrasse: "Anche le denunce che lui presentò e che portarono ad ispezioni dei Nas e della Ats non portarono rilievi rispetto agli episodi denunciati. ... In relazione agli episodi organizzativi che avevano creato problemi, ricordo l'episodio di un agenda che aveva creato questioni su aspetti concernenti l' esecuzione di un non giusto programma, in quell'occasione io chiesi al ricorrente di fare un approfondimento per verificare se c'erano problemi tecnici ma alla fine ho dovuto organizzare io un incontro con la direzione medica per capire se questo tipo di agenda poteva essere gestita diversamente e i problemi sono stati risolti con l'introduzione di una nuova agenda tanto che non ne sono stati più segnalati" (cfr. dichiarazioni di (...) di cui al verbale di udienza del 5.4.2019). Alla luce di tutto quanto esposto, dunque, è evidente come non sia ravvisabile alcuno dei requisiti al quale la giurisprudenza di legittimità riconduce l'accertamento dello straining, posto che non sono stati minimamente dimostrati dal lavoratore (su cui incombe il relativo onere) né la valenza quale fonte di stress dei comportamenti posti in essere dal datore di lavoro, né che tali condotte siano state scientemente attuate nei suoi confronti. Il ricorso deve pertanto essere integralmente rigettato. Tenuto conto della particolarità della questione affrontata, le spese del giudizio vengono integralmente compensate tra le parti. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: - Rigetta il ricorso; - Compensa integralmente tra le parti le spese di lite; - Fissa in sessanta giorni il termine per il deposito delle motivazioni. Così deciso in Bergamo il 29 giugno 2022. Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE LAVORO La Corte d'Appello di Milano, sezione lavoro, composta da Dott.ssa Susanna Mantovani - Presidente Dott.ssa Maria Rosaria Cuomo - Consigliere est Dott.ssa Laura Bertoli - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello avverso la sentenza n. 1660/2022 del Tribunale di Milano, est. dott.ssa Fr.Ca., promossa: DA (...) SRL, rappresentata e difesa dall' avv. GR.DA., ed elettivamente domiciliato in CORSO (...) 12051 ALBA APPELLANTE principale CONTRO (...), rappresentata e difesa dagli avv.ti TR.SA., TA.GI., BALLETTI PAOLA ed elettivamente domiciliata in VIA (...) 20122 MILANO APPELLATA appellante incidentale Appellata- FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato in data 5.9.2022, la società (...) srl ha impugnato la sentenza n. 1660/2022 del Tribunale di Milano che ha condannato la società a corrispondere a (...) l'importo lordo di Euro 47.602,98 a titolo di spettanze di fine rapporto ed arretrati retributivi dovuti e non corrisposti, nonché ha accertato l'illegittimità del licenziamento intimato a (...) con lettera del 23 ottobre 2020 ed ha condannato la società a corrispondere a quest'ultima la somma lorda di Euro 106.666,67 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, la somma lorda di Euro 7.901,23 a titolo di differenza dovuta sul TFR per effetto dell'incidenza dell'indennità sostitutiva del preavviso sul calcolo di tale istituto, con versamento di tutti i contributi previdenziali e assistenziali dovuti sull'indennità sostitutiva del preavviso, la somma di Euro 106.666,67 a titolo di indennità supplementare ex art. 19, comma 15, CCNL Dirigenti Industriali vigente, e la somma di Euro 50.000 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, oltre al pagamento delle spese di lite liquidate nella misura di Euro 18.015,00 oltre accessori. Il primo giudice, escluso che la decisione del licenziamento fosse stata presa già alla fine del 2019, come sostenuto dalla lavoratrice ma non provato, esclusa la genericità e tardività della contestazione disciplinare del 7.10.2020, svolta istruttoria, ha ritenuto non provato l'addebito disciplinare consistito nell'aver inviato nel febbraio 2015 al consulente del lavoro, "senza autorizzazioni da parte dell'Amministratore Unico Sig.ra (...), dall'indirizzo di posta elettronica aziendale unicamente da Lei utilizzato, una richiesta di aumento di Euro 3.000,00 netti al mese della Sua retribuzione mensile". Ha ritenuto quindi dovuto l'aumento retributivo come erogato dal mese di febbraio 2015 al mese di agosto 2020. Ha invece ritenuto illegittima la sospensione della corresponsione di detto aumento, disposta unilateralmente dalla società a decorrere dal mese di agosto 2020, sottolineandone la natura di retribuzione ordinaria e non variabile come sostenuto invece dalla società. Ha infine ritenuto fondata la domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali avanzata da (...) considerata la lesione dell'immagine professionale della lavoratrice determinata dalla asserita giusta causa del licenziamento, di fatto inesistente, e considerata la non correttezza della condotta posta in essere dalla società che, a partire dal mese di luglio 2017, si rendeva inadempiente in relazione all'obbligo di effettuare regolari versamenti contributivi in favore del (...), con conseguente danno per la lavoratrice impossibilitata ad usufruire dei rimborsi per le spese mediche sostenute, ed a partire dal terzo trimestre del 2018 si rendeva inadempiente in relazione all'obbligo di effettuare regolari versamenti contributivi in favore del (...), con conseguente pregiudizio della lavoratrice in termini di previdenza integrativa. Ha infine respinto le altre domande in termini di risarcimento formulate dalla lavoratrice, in quanto non adeguatamente allegate e provate. La società (...) srl censura la sentenza per i seguenti motivi: 1) Errata qualificazione dell'accordo intervenuto tra le parti nel febbraio 2015. Nel mese di febbraio 2015 la lavoratrice e l'amministratore della società avevano raggiunto un accordo verbale, mai formalizzato, che prevedeva incentivi premiali sullo stipendio dovuti al raggiungimento di obiettivi da stabilire, previa determinazione dei criteri, e riservando successivamente la stipula del contratto. Detta circostanza, di cui si offriva di dare prova, non era stata contestata ma ammessa dalla stessa lavoratrice che aveva sempre fatto riferimento ad un incremento retributivo non in misura fissa ma variabile, per raggiungere un netto di Euro 6.000. La natura variabile degli incentivi, oltre che concordata tra le parti, emergeva anche dalle buste paga, essendo sempre diverso l'importo riconosciuto oltre alla retribuzione ordinaria. Trattandosi di retribuzione variabile la stessa, a norma degli artt. 6 bis e 2 del CCNL applicato, avrebbe dovuto essere oggetto di pattuizione mediante accordo individuale scritto. In mancanza di accordo scritto, l'accordo orale non era valido, con conseguente rigetto delle domande della lavoratrice. 2) Non debenza delle differenze retributive liquidate. La società lamenta la violazione delle regole processuali, avendo il giudice applicato il principio di non contestazione di cui agli artt. 115-416 c.p.c. con riferimento ai documenti prodotti dalla lavoratrice nel corso del processo e precisamente all'udienza di cui all'art. 420 c.p.c., senza concedere alcun termine alla società per espletare il principio di reciprocità fissato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 13/1977. Conseguentemente, nel liquidare la somma di Euro 47.602,98 a titolo di spettanze di fine rapporto ed arretrati retributivi dovuti e non corrisposti, il giudice non poteva fare riferimento al conteggio prodotto dalla lavoratrice in sede di udienza ex art. 420 c.p.c.. Inoltre, la lavoratrice non aveva diritto ad un lordo mese fisso di Euro 12.307,69 in quanto la busta paga mensile era stata redatta sulla base della "retribuzione concordata", diversa mese per mese e non conteggiata in un importo fisso. Infine, durante il periodo di malattia la società aveva corrisposto la retribuzione contrattuale, non essendo stata concordata la retribuzione aggiuntiva. 3) Giustificatezza del licenziamento impugnato. L'esatto inquadramento dell'accordo intervenuto nel febbraio 2015 ha immediati riflessi per quanto riguarda le ragioni che hanno portato al licenziamento. Secondo l'appellante il primo giudice non ha compreso i veri termini della contestazione disciplinare, non attribuendo giusto rilievo alle seguenti circostanze: -la mail oggetto della contestazione disciplinare risulta inviata dall'indirizzo mail ad uso esclusivo di (...), come affermato dal teste (...); -la società ha contestato l'assenza di autorizzazione dell'amministratore per cui doveva essere la lavoratrice a provare l'avvenuta autorizzazione. A tal fine non rileva l'invio per conoscenza della mail all'amministratore. 4)In via subordinata, liquidazione errata delle somme ritenute dovute per indennità sostitutiva del preavviso e indennità supplementare. Richiama il conteggio del proprio consulente del lavoro depositato in primo grado, elaborato sulla base della retribuzione lorda senza l'aumento "retribuzione concordata". Contesta l'inclusione nella liquidazione dell'indennità sostitutiva del preavviso e dell'indennità supplementare anche della 13esima. Secondo la società a norma dell'art. 23 del CCNL, co. 4, l'indennità per il periodo di mancato preavviso è pari alla retribuzione che il dirigente avrebbe percepito durante il periodo di mancato preavviso. Conseguentemente l'indennità va calcolata sulla retribuzione mensile e non sulla retribuzione globale di fatto. Stesso discorso vale per l'indennità supplementare che, ai sensi dell'art. 19, comma 15, C.C.N.L. va calcolata fra un minimo di 8 e un massimo di 12 mensilità di preavviso. 5)Liquidazione dell'importo di Euro 50.000,00 a titolo di risarcimento del danno - vizio di extra petizione. Con il ricorso introduttivo la lavoratrice ha chiesto il risarcimento del danno biologico, esistenziale, morale, all'immagine e alla professionalità legato all'ipotesi di mobbing, richiedendo sotto il profilo quantitativo il risarcimento da liquidarsi in via unitaria a fronte delle vessazioni e/o del demansionamento subito. Tutti fatti che il giudice ha ritenuto non provati. Nulla è stato chiesto a titolo di danno non patrimoniale per le voci invece considerate dal giudice ovvero versamenti contributivi a (...) e (...) e danno all'immagine in conseguenza del licenziamento. Inoltre, quanto ai versamenti contributivi a (...) e (...), la società ha dimostrato l'avvenuto pagamento in ritardo mentre la lavoratrice non ha dimostrato il danno subito. Si è costituita (...) che ha chiesto il rigetto dell'appello di controparte ed ha spiegato appello incidentale per i seguenti motivi: 1)omessa pronuncia del giudice sulla domanda di interessi e rivalutazione su tutte le somme oggetto di condanna. Pur avendo la società pagato nelle more la somma lorda di Euro 24.735,84 a titolo di interessi e rivalutazione manca una pronuncia di condanna in tal senso, come richiesto invece con il ricorso di primo grado. 2) Erronea reiezione della domanda di risarcimento del richiesto danno biologico. Il giudice, per i comportamenti vessatori posti in essere dalla società negli ultimi due anni, quali demansionamento e licenziamento, ha riconosciuto solo il danno morale, il danno all'immagine e il danno alla professionalità ma ha escluso il danno biologico subito per effetto dei "comportamenti persecutori" posti in essere dalla società per oltre due anni. Chiede dunque che vengano risarciti tutti i danni subiti da determinarsi in via equitativa in misura pari ad Euro 120.000,00 netti, senza rinuncia alla maggior somma che fosse ritenuta rispondente a giustizia ed equità. La causa è stata discussa e decisa come da dispositivo trascritto in calce. L'appello della società è parzialmente fondato nei limiti di seguito precisati. Non è contestato tra le parti l'accordo verbale intercorso tra le parti nel febbraio 2015 relativo all'aumento della retribuzione di (...) così come l'effettivo aumento operato nei cinque anni successivi a favore della lavoratrice. Quanto ai termini dell'accordo, sui quali le parti non convergono, decisivi sono i cedolini paga emessi dalla società a decorrere dal febbraio 2015 e per i cinque anni successivi. Ed, infatti pacifica la retribuzione lorda di Euro 101.000,00 annua, per 13 mensilità, pattuita tra le parti al momento dell'instaurazione del rapporto di lavoro, risulta in maniera evidente dall'esame dei cedolini paga, emessi a decorrere dal mese di febbraio 2015, come la retribuzione mensile globale corrisponda sempre alla somma netta di Euro 6.000,00, per 13 mensilità. La circostanza non è stata contestata dalla società. Il dato ricavabile dai cedolini paga, come evidenziato, conferma i termini dell'accordo così come dedotti da (...) secondo cui l'aumento avrebbe dovuto garantire uno stipendio mensile netto pari ad Euro 6.000,00, per 13 mensilità, a cui aggiungersi le indennità di trasferta ed i rimborsi spese, nonché sommarsi e/o detrarsi i conguagli fiscali rinvenienti dalle dichiarazioni. Emerge, quindi, la natura fissa dell'aumento nel senso che l'aumento mensile in sé non doveva essere fisso ma doveva essere tale da consentire il raggiungimento di una retribuzione netta mensile di Euro 6.000,00 -questa sì fissa-, motivo per il quale le somme in aumento variavano mensilmente. Secondo la società l'aumento avrebbe dovuto essere variabile e collegato al raggiungimento di obiettivi da stabilire. Ebbene, a fronte dei pacifici aumenti intervenuti negli anni, la società, a sostegno della propria tesi, non ha provato né tantomeno dedotto quali sarebbero stati gli obiettivi assegnati volta per volta a (...) né ha provato il raggiungimento degli stessi, che solo avrebbe giustificato l'aumento retributivo nei termini dedotti dalla società. In mancanza di prova diversa, deve ritenersi del tutto infondata la tesi della società circa la natura variabile dell'aumento e conseguentemente la dedotta invalidità dell'accordo orale perché non formalizzato per iscritto ai sensi dell'art. 6bis del CCNL applicato. Il primo motivo di appello va quindi respinto. La società nega di aver comunque disposto l'aumento retributivo come emergente dai cedolini paga, e sostiene di aver appreso dell'avvenuto pagamento, per ben cinque anni, solo nel settembre 2020 a seguito della richiesta di pagamento di importi asseritamente non versati, pervenuta alla società dai difensori della lavoratrice. Come già condivisibilmente evidenziato dal primo giudice, la società, gravata del relativo onere probatorio, non ha provato che la mail del 4.2.2015 inviata al consulente del lavoro della società fosse stata inviata non solo da (...) ma anche senza l'autorizzazione dell'amministratore della società, e soprattutto non ha provato che l'amministratore fosse all'oscuro dell'aumento. Contrariamente a quanto sostenuto dalla società appellante, la teste (...) non ha affermato con certezza che l'indirizzo mail da cui era partita la mail in contestazione fosse di esclusivo utilizzo di (...) ma ha dichiarato che sapeva che lo usasse quest'ultima perché le rispondeva sempre da quell'indirizzo firmandosi personalmente. Firma che tra l'altro non è presente nella mail in contestazione. In ogni caso, pur ritenendo che l'indirizzo mail in questione fosse di esclusivo utilizzo di (...) e che questa avesse inviato la mail, non risulta provata l'assenza dell'autorizzazione da parte dell'amministratore. L'istruttoria svolta ha anzi dimostrato il contrario. La teste (...) ha infatti dichiarato di aver sempre riferito all'amministratore ogni operazione relativa agli stipendi in generale ed in particolare agli stipendi versati a (...), compresa la modifica dello stipendio a seguito dell'aumento -"Sugli stipendi io riferivo all'amministratore gli importi che andavo a pagare. Io dicevo all'amministratore quale era l'importo di volta in volta versato. Anche per lo stipendio della sig.ra (...) informavo l'amministratore dell'importo di volta in volta versato. L'amministratore sapeva quali erano gli importi versati alla sig.ra (...) mese per mese. Gli importi io li comunicavo a voce. Anche quando è stato modificato lo stipendio della sig.ra (...) io ho comunicato di volta in volta gli importi che ho versato. la busta paga della signora (...) veniva pagata in più acconti mai in un'unica soluzione. Tutti gli importi versati alla signora (...) di volta in volta io li ho riferiti all'amministratore. A volte gli acconti erano anche giornalieri dicendo o 200 Euro era difficile capire il saldo totale. Ogni pagamento da me disposto era comunque comunicato all'amministratore. La signora (...) non aveva la possibilità di disporre autonomamente dei pagamenti doveva sempre passare attraverso di me o attraverso il signor Me."-. Anche il teste (...) ha confermato il controllo costante da parte dell'amministratore della società sui pagamenti effettuati e sul continuo confronto con (...) - "la signora (...) faceva dei controlli sugli estratti conto ... Confermo che la signora grosso facesse dei controlli sugli estratti conto e preciso che la signora grosso e la signora (...) si vedevano più volte la settimana quindi era normale che si comunicassero le varie contabili"-. Ulteriore prova della consapevolezza da parte dell'amministratore e quindi dell'autorizzazione da parte sua proviene anche dal fatto che la mail in contestazione era stata inviata anche all'amministratore. Contrariamente a quanto sostenuto dalla società, la circostanza non è irrilevante perché, pacifica la ricezione della mail da parte dell'amministratore, questi avrebbe potuto intervenire immediatamente, facendo luce sulla questione e soprattutto bloccando i pagamenti. Dallo stesso controllo degli estratti conto, che l'amministratore effettuava regolarmente, come riferito dal teste (...), egli avrebbe dovuto accorgersi dell'aumento retributivo e quindi intervenire bloccando i pagamenti se non autorizzati. Ugualmente avrebbe potuto intervenire nell'apprendere dell'aumento dall'impiegata (...). Il mancato intervento negli anni da parte dell'amministratore per bloccare il pagamento dello stipendio nell'importo aumentato prova ulteriormente che trattavasi di aumento concordato e autorizzato, quindi legittimo. Anche il terzo motivo di appello va quindi respinto. Parimenti infondato è il secondo motivo di appello con il quale la società contesta la condanna al pagamento dell'importo lordo di Euro 47.602,98. Va osservato come avverso i conteggi allegati dalla difesa di (...) alla prima udienza di discussione innanzi al Tribunale, con i quali la parte ricorrente, accogliendo i rilievi formulati dalla società, riduceva la propria domanda, la società non abbia sollevato alcuna contestazione né abbia chiesto un termine per esaminarli (cfr. verbale prima udienza del 2.7.2021). Conseguentemente alcuna violazione delle regole processuali è stata posta in essere dal primo giudice. In ogni caso, si rileva la correttezza dei conteggi nel considerare la retribuzione nell'importo risultante a seguito dell'intervenuto aumento, come sopra accertato. Anche il quarto motivo di appello formulato in via subordinata rispetto al terzo motivo non è fondato. La giurisprudenza di legittimità è consolidata nell'affermare che "Il concetto di retribuzione recepito dagli artt. 2118, comma secondo, cod. civ. (ai fini del calcolo dell'indennità di preavviso in caso di licenziamento) e 2120 cod. civ. (ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto) è ispirato al criterio dell'onnicomprensività, nel senso che in detti calcoli vanno compresi tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi, anche se non strettamente correlati alla effettiva prestazione lavorativa, mentre ne vanno escluse solo quelle somme rispetto alle quali il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione contingente per la relativa fruizione, quand'anche essa trovi la sua radice in un rapporto obbligatorio diverso ancorché collaterale e collegato al rapporto di lavoro" (cfr. Cass Sez. L, sentenza n. 16636 del 01/10/2012; nello stesso senso Cass. Sez. L, sentenza n. 15380 del 21/06/2017). Conseguentemente, dovendo, ai sensi dell'art. 2118 c.c., considerare la retribuzione che sarebbe spettata se fosse stata svolta l'attività lavorativa durante il preavviso, vanno ricompresi anche i ratei di tredicesima maturati nel corso del preavviso, non potendo la norma contrattuale derogare in peius alla norma di legge. Il quinto motivo di appello, che va accolto, va esaminato unitamente al secondo motivo dell'appello incidentale formulato da (...) che va respinto. Con il ricorso di primo grado, (...) lamentava di aver subito una delegittimazione, iniziata nel 2016 con l'inibizione di svolgere trasferte e la conseguente perdita del diritto all'indennità di trasferta; proseguita nel 2017 con la mancata approvazione degli elenchi dei pagamenti in scadenza preparati da (...) e regolarmente disattesi dall'amministratrice sig.ra (...); nel 2018 con la revoca delle credenziali di accesso alla visualizzazione telematica dei conti bancari della società e con il mancato versamento contributivo in favore prima di (...) e poi di (...); nel 2019 con il divieto di proseguire le trattative in corso per l'acquisto del gas necessario per il successivo anno termico; nel 2020 infine con l'impossibilità di accedere a internet, alla propria casella di posta elettronica, all'intera rete informatica interna della società, con il mancato inoltro dei cedolini paga ed il mancato pagamento parziale della retribuzione dei mesi di luglio e agosto 2020 (cfr. punti da A/9 ad A/26 del ricorso di primo grado). Lamentava quindi di aver subito un danno biologico, esistenziale, morale, all'immagine e alla professionalità determinato dal comportamento della datrice di lavoro che "per tutto il corso del rapporto, la società convenuta ha immotivatamente posto in essere, in danno della ricorrente, una sistematica politica di delegittimazione, esautoramento, e mortificazioni professionali, evidentemente indirizzata ad espellerla dal contesto aziendale" (cfr. paragrafo B/3 del ricorso di primo grado). E' evidente che il danno patito sia stato riferito dalla lavoratrice all'insieme delle condotte asseritamente poste in essere dalla società ed integranti nel loro unicum una vera e propria "politica aziendale di esautoramento e delegittimazione" che negli ultimi tempi "si intensificava sino ad integrare gli estremi di vero e proprio "mobbing"" (cfr. punto A/24 del ricorso di primo grado). Il primo giudice non ha esaminato i fatti sopra richiamati e lamentati dalla lavoratrice come espressione di condotta vessatoria e di mobbing da parte della società, il cui solo accertamento positivo avrebbe consentito l'ulteriore valutazione circa l'esistenza di un danno non patrimoniale risarcibile, ma si è limitato a non riconoscere le ulteriori voci di danno in quanto non adeguatamente allegate e di conseguenza non provate. La lavoratrice sostiene che i comportamenti asseritamente persecutori e mobizzanti posti in essere dalla società, che richiama, siano stati pienamente comprovati in causa. Va innanzitutto ricordato che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, "per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio" (cfr. Cass., Sez. L., n. 3785 del 17.2.2009, Cass. L n. 17698 del 06/08/2014) E' quindi possibile parlare di mobbing quando si è in presenza di una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolva in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Al fine di non dilatare oltre misura la fattispecie del mobbing è infatti necessario riservare la valutazione di illiceità alle situazioni più gravi di patologia dell'organizzazione, al netto delle ipersensibilità soggettive. Il relativo onere di allegazione e prova grava sulla parte che assume di esserne stata vittima. Ebbene, dalle allegazioni in fatto della lavoratrice non emerge né la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio, né l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente né il nesso eziologico tra la condotta del datore e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore né la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio. I fatti lamentati non si sono succeduti in maniera sistematica e prolungata, tanto da essere espressione di un intento vessatorio. La lavoratrice fa infatti riferimento a episodi -inibizione trasferte, inosservanza liste di pagamenti, omesso versamento contributi- verificatisi a distanza di mesi se non di un anno l'uno dall'altro. Si osserva inoltre come lo svolgimento per il passato di trasferte non integri un diritto della lavoratrice -peraltro la stessa nemmeno lo deduce-; come i versamenti contributivi siano stati effettuati anche se con ritardo; come l'accesso ai portali dei conti correnti bancari aziendali rientri nel potere decisionale della società che ha ritenuto di riferirlo al solo amministratore. Tra l'altro la lavoratrice non aveva mai avuto la disponibilità delle password dispositive. La società ha poi documentato come nel periodo successivo al 31.1.2020, a seguito dello stato di emergenza COVID, la sig.ra (...) abbia lavorato regolarmente in smart working nonostante la mancata ricezione da parte della società delle password di acceso da remoto e delle password relative alle mail aziendali (cfr doc. 16 della sig.ra (...)) e come si sia assentata per malattia dal 3 marzo 2020 ininterrottamente fino al 13.12.2020. In ogni caso non è stato allegato alcunché con riferimento al danno non patrimoniale asseritamente patito. In proposito, va ricordato che "In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale" (cfr Cass. Sez. L - , sentenza n. 29047 del 05/12/2017). Prova che non è stata fornita. Il primo giudice senza aver accertato l'asserita condotta vessatoria e mobizzante, ha comunque riconosciuto il diritto della lavoratrice al risarcimento del danno non patrimoniale, incorrendo così nel vizio di ultrapetizione. Ed infatti, il primo giudice ha condannato la società al risarcimento del danno non patrimoniale per avere la stessa posto in essere una condotta non corretta consistita nell'aver omesso il versamento contributivo in favore di (...) e (...) e nell'aver leso l'immagine professionale della dirigente a causa di un licenziamento per asserita giusta causa inesistente. A parte il pregiudizio patrimoniale conseguente all'omesso versamento contributivo, va evidenziato come, nella stessa prospettazione della lavoratrice, l'omesso versamento dei contributi -poi versati tardivamente- ed il licenziamento, unitamente alle altre condotte sopra esaminate, integrassero "una sistematica politica di delegittimazione, esautoramento, e mortificazioni professionali, evidentemente indirizzata ad espellerla dal contesto aziendale", con la precisazione che "a cagione di tale illecita politica aziendale, tradottasi nei singoli episodi più sopra descritti in fatto, ... la ricorrente ha subito gravi danni sotto diversi profili", da liquidarsi in via equitativa in Euro 120.000,00 (cfr. ricorso primo grado B/3 Risarcimento del danno biologico, esistenziale, morale, all'immagine e alla professionalità - pagg. 27, 28). Va quindi respinto il secondo motivo dell'appello incidentale ed accolto il quinto motivo di appello principale formulato dalla società (...) srl, con la conseguente condanna di (...) alla restituzione della somma di Euro 50.000,00. Va infine accolto il primo motivo dell'appello incidentale formulato da (...) stante l'effettiva omessa pronuncia da parte del primo giudice sulla domanda di condanna al pagamento degli interessi e rivalutazione monetaria sulle somme liquidate. Le spese processuali del doppio grado, liquidate come in dispositivo (nella quota Euro 9.000 per il primo grado, Euro 2.500 per l'appello) , ai sensi del D.M. n. 147 del 2022, in ragione del valore della controversia, del grado di complessità, dell'attività istruttoria svolta in primo grado, della reciproca soccombenza prevalente per la società, vanno compensate per metà mentre la restante metà va posta a carico della società (...) srl. P.Q.M. In parziale riforma della sentenza n. 1660/2022 del Tribunale di Milano respinge tutte le domande di risarcimento del danno non patrimoniale di cui al ricorso di primo grado; condanna (...) srl a corrispondere gli interessi e rivalutazione sulle somme liquidate a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, indennità supplementare ed a titolo di titolo spettanze fine rapporto ed arretrati retributivi. Conferma le restanti statuizioni di merito. Condanna (...) alla restituzione delle somme nette percepite in eccesso in esecuzione della sentenza di primo grado. Compensa per metà le spese del doppio grado e condanna (...) srl alla rifusione delle spese del doppio grado che liquida nella quota in Euro 11.500,00 oltre spese generali ed oneri accessori. Così deciso in Milano il 15 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 6 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D' APPELLO DI PERUGIA - SEZIONE LAVORO - composta dai magistrati: Dr Vincenzo Pio Baldi - Presidente Dr.ssa Alessandra Angeleri - Consigliere est. Dr.ssa Simonetta Liscio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 2 dell'anno 2023 Ruolo Gen. Contenzioso Lav. Prev. Ass., promossa da (...), rappresentato e difesa - giusta procura rilasciata su foglio separato, materialmente congiunto al ricorso introduttivo del giudizio di primo grado - dall'avvocato Nu.Pa., presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Perugia, Corso (...) - appellante - contro COMUNE DI TODI, in persona del Sindaco pro tempore, avvocato An.Ru., rappresentato e difeso - giusta procura rilasciata su supporto cartaceo, la cui copia informatica, autenticata dal difensore con firma digitale, è stata trasmessa in via telematica, contestualmente al deposito della memoria di costituzione nel giudizio d'appello, ai sensi dell'art. 83, terzo comma, ultimo periodo c.p.c., in virtù della delibera della Giunta comunale di conferimento dell'incarico n. 22 del 26 gennaio 2023 - dall'avvocato Fa.Ma., presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Perugia, Piazza (...) - appellato - OGGETTO: appello avverso la sentenza n. 173/2022 del Tribunale di Spoleto - illegittimità del mutamento di mansioni e risarcimento del danno Causa decisa all'udienza del 5 aprile 2023. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso depositato dinanzi al Tribunale di Spoleto il 21 dicembre 2018, (...), dipendente del Comune di Todi con inquadramento nella categoria (...), profilo di istruttore direttivo, chiese al giudice del lavoro di accertare l'illegittimità del trasferimento disposto nei suoi confronti, con delibera della Giunta comunale n. 157 del 24 maggio 2018, dal settore cultura, turismo e sport al settore urbanistica, e della conseguente revoca dell'incarico di direttrice della biblioteca, o, in via gradata, la natura discriminatoria del provvedimento. Chiese, inoltre, di accertare che il trasferimento aveva comportato uno svuotamento di mansioni, o demansionamento, nonché di accertare che la condotta della pubblica amministrazione integrava una fattispecie di mobbing. Come conseguenza dell'accertamento, la ricorrente chiese che l'amministrazione comunale fosse condannata a ricollocarla nel posto di lavoro occupato anteriormente alla Delib. n. 157 del 2018, ovverosia, a reintegrarla nelle funzioni di direttrice della biblioteca comunale, e a risarcirle tutti i danni subiti a causa del comportamento dell'amministrazione datrice di lavoro. Il Comune di Todi si costituì in giudizio, ed eccepì, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, essendo la cognizione devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo. Rilevò, poi, l'inammissibilità del ricorso, per difetto di allegazione dei fatti costitutivi del preteso diritto, da ritenersi, peraltro, insussistente. In realtà, nessun demansionamento era stato attuato nei confronti della ricorrente con il provvedimento contestato, il quale, inoltre, non aveva disposto un trasferimento della lavoratrice, bensì la sua assegnazione a un diverso settore della stessa amministrazione comunale. Le nuove mansioni affidatele erano corrispondenti al suo livello d'inquadramento, il D1, cosicché non si erano verificati né dequalificazione né, tantomeno, svuotamento di compiti. Egualmente infondata era la domanda di risarcimento per il presunto mobbing. Il Comune concluse, quindi, in tesi, per la declaratoria del difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria; in ipotesi, per la declaratoria d'inammissibilità delle domande, e, in ogni caso, per il loro rigetto. Depositò atto d'intervento nel giudizio, ad adiuvandum delle domande dell'attrice, l'Associazione (...). Il giudice del lavoro, respinta l'eccezione pregiudiziale di difetto di giurisdizione e ritenuta la nullità dell'intervento dell'AIB, ammise le prove testimoniali articolate dalle parti. Espletata l'istruttoria, con la sentenza n. 173/2022, pronunciata con la lettura del dispositivo, ai sensi dell'art. 429 c.p.c., modificato dall'art. 53 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, all'udienza del 6 ottobre 2022 e pubblicata 29 novembre 2022, il Tribunale respinse il ricorso e condannò la ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dal Comune di Todi per il giudizio. Compensò le spese con riguardo agli altri rapporti processuali. Con atto depositato il 4 gennaio 2023, (...) interpose appello avverso la decisione, e ne chiese la riforma, con il conseguente accoglimento delle domande formulate nel ricorso introduttivo. Con D.P. del 13 gennaio 2023, fu fissata per la discussione della causa l'udienza del 5 aprile 2023. Con decreto del 4 gennaio 2023, inserito nel fascicolo telematico del processo il 6 febbraio, il Presidente della Sezione ha individuato in via generale per le udienze la modalità della discussione orale, ossia, in presenza, fatti salvi gli eventuali provvedimenti da adottarsi ai sensi dell'art. 127-ter c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149. Il Comune di Todi s'è costituito in giudizio con memoria depositata il 22 marzo 2023, e ha concluso per il rigetto del gravame. All'esito della discussione del 5 aprile 2023, la causa è stata decisa come al dispositivo in atti, qui trascritto. (...), laureata in lettere presso l'Università di Perugia con votazione di 110 su 110 e la lode, in possesso del diploma di specializzazione in archivistica, paleografia e diplomatica conseguito presso l'Archivio di Stato di Perugia, partecipò a una procedura pubblica di selezione per incarico di alta specializzazione indetta dal Comune di Todi e, all'esito, fu assunta con contratto a tempo determinato il 1o gennaio 2003, con l'inquadramento di ispettore direttivo, categoria (...). Con Det. n. 9 del 2 gennaio 2004, la responsabile del settore servizio cultura la nominò direttrice della biblioteca comunale di Todi. Il contratto fu prorogato fino al 31 dicembre 2007. Il 2 gennaio 2008, il rapporto di lavoro della (...) fu stabilizzato, con la conferma dell'inquadramento nella categoria (...) e del ruolo di direttrice della biblioteca, sottoposta alla responsabile del servizio cultura, sport e turismo del Comune di Todi, dottoressa (...). Il rapporto si svolse regolarmente, e, sotto la direzione della (...), la biblioteca poté incrementare il numero di utenti, passato da 4.500 nel 2004 a 12.250 nel 2017. Numerose furono anche le attività culturali organizzate, come convegni, conferenze, corsi, mostre, salite incrementate dalle 33 del 2004 alle 149 del 2017. È, tuttavia, opportuno precisare che la dottoressa (...) non è stata mai individuata come assegnataria di posizione organizzativa. Inoltre, l'art. 20 del regolamento della biblioteca comunale prevede la figura del direttore, unicamente per le finalità di cui all'art. 9 della L. 30 giugno 1995, n. 418, ossia per la gestione della sicurezza antincendio per edifici di interesse storico o artistico destinati a biblioteche o archivi. Proprio per quelle finalità, la (...) fu nominata direttrice della biblioteca, con determinazioni del responsabile del servizio amministrativo - legale - turismo - cultura - archivio - museo - biblioteca, rispettivamente n. 9 del 2 gennaio 2004 e n. 33 del 14 gennaio 2008. Con la Delib. n. 157 del 24 maggio 2018, la Giunta comunale, nell'ambito di una complessiva riorganizzazione della struttura dell'ente, che coinvolse numerosi dipendenti, dispose l'assegnazione della dottoressa (...) al settore urbanistica, edilizia, sviluppo economico, sportello unico per le attività produttive e l'edilizia (SUAPE), servizi a rete. Per l'operatività della nuova assegnazione fu fissato il termine di venti giorni successivo alla nomina delle posizioni organizzative. La ricorrente assunse il servizio nel nuovo ufficio nel novembre del 2018. Nel ricorso, (...) sosteneva l'illegittimità del "trasferimento", in base a una serie di motivi. In primo luogo, il provvedimento violava il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, sancito dall'art. 97 Cost., poiché la ricorrente, assunta per le sue competenze riguardo alle attività culturali e alla gestione di biblioteche e archivi, era stata destinata a un settore, quello urbanistico ed economico, senza attinenza con il suo percorso di studi e la sua formazione. Inoltre, poiché il regolamento della biblioteca comunale stabiliva che il direttore doveva essere un dipendente inquadrato nella categoria (...) con i requisiti culturali prescritti, il fatto di distogliere da quel settore la (...), che aveva le necessarie conoscenze, per assegnarvi un dipendente che ne era privo avrebbe danneggiato l'attività della biblioteca, invece di valorizzarla. In secondo luogo, il provvedimento era illegittimo, poiché erano insussistenti le ragioni tecniche, organizzative e produttive che avrebbero potuto giustificarlo, e, quindi, anche sotto questo profilo, adottato in violazione dell'art. 97 Cost. Inoltre, aveva arrecato un danno alla professionalità della dipendente, avendo determinato uno svuotamento di mansioni. In terzo luogo, era pretestuoso il riferimento all'applicazione della normativa dell'autorità anticorruzione (A.) che imponeva la rotazione degl'incarichi, giacché il settore cultura non era fra quelli per i quali la normativa stessa era operante. Il provvedimento aveva comportato un danno alla professionalità, alla salute e alla dignità della dipendente, che aveva di conseguenza sviluppato un disturbo dell'adattamento con ansia e umore depresso di grado elevato. La condotta dell'amministrazione integrava, quindi, una violazione dell'art. 2087 c.c.. Il trasferimento era illegittimo anche sotto altri profili. (...) era, anzitutto, ritorsivo, poiché era stato adottato dopo che la Giunta comunale aveva ritirato il patrocinio alla manifestazione organizzata dall'(...) (Associazione (...)I.) per la ricorrenza della Festa della Liberazione, quando era venuta a conoscenza che l'(...) aveva indetto, in quel contesto, una raccolta di firme sotto l'intestazione "Mai più fascismi", cui la stessa (...) aveva partecipato attivamente, come iscritta all'Associazione. (...) giorni dopo, l'8 maggio 2018, alla richiesta dell'assessore alle politiche familiari (...) di inviarle "una lista completa e dettagliata con titolo autore e casa editrice dei libri in oggetto ovvero testi che presentano temi dell'omosessualità, omogenitorialità e transessualismo nella sezione bambini/ragazzi", la direttrice della biblioteca aveva risposto, inviando la lista completa dei quattromilacinquecento libri presenti nella sezione dedicata alla fascia d'età da zero a quattordici anni. Aveva puntualizzato che i testi rispettavano sia le linee guida IFLA per lo sviluppo del servizio bibliotecario, sia il manifesto UNESCO delle biblioteche pubbliche, sia le direttive del Ministero per i beni e le attività culturali, sia, infine, la L.R. Umbria n. 37 del 1990. Inoltre, nell'acquisire i testi, si era tenuto conto dei suggerimenti provenienti dai progetti nazionali "Nati per leggere" e "in vitro", promossi dall'Associazione culturale nazionale pediatri, delle indicazioni dell'Associazione italiana biblioteche, del Centro per la salute del bambino onlus e del Centro per il libro e la lettura. Ad avviso della ricorrente, dunque, la decisione di rimuoverla dalla direzione della biblioteca costituiva una ritorsione per quegli episodi, e il provvedimento emanato dalla Giunta comunale era quindi nullo, ai sensi dell'art. 1345 c.c. Ciò si evinceva anche dall'intervista concessa dal Sindaco, avvocato (...), al (...), pubblicata il 16 giugno 2018. Il trasferimento era, in linea subordinata, nullo, perché dettato dall'intento dell'amministrazione comunale di centrodestra di discriminare una dipendente per il suo orientamento politico di sinistra. In ogni caso, la condotta dell'amministrazione, che, nel trasferire la ricorrente a un altro settore, le aveva implicitamente revocato l'incarico di direttrice, configurava un abuso del diritto dell'amministrazione. Secondo l'art. 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001, la revoca degl'incarichi dirigenziali poteva avvenire solo nei casi e con le modalità previsti dall'art. 21, ossia, nel caso di valutazione negativa dell'operato del dipendente, ciò che, nel caso di specie, non era avvenuto. Infine, la condotta vessatoria tenuta dal Comune di Todi nei confronti della ricorrente configurava gli estremi del mobbing o, in subordine, dello straining. In aggiunta alle circostanze già narrate, erano citate le varie "visite fiscali" ricevute dalla ricorrente durante l'assenza per la malattia seguita al trasferimento al nuovo incarico. Il Tribunale di Spoleto ha respinto tutte le domande dell'attrice. Ha rilevato, in primo luogo, come il provvedimento contestato avesse disposto non già un trasferimento, bensì un semplice mutamento di mansioni all'interno della stessa amministrazione, pienamente conforme all'art. 52 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, poiché la ricorrente era stata assegnata a mansioni di contenuto equivalente (categoria (...), profilo istruttore direttivo). Non era ipotizzabile una dequalificazione, né, tantomeno, un "demansionamento", mancando, oltretutto, le minime allegazioni che una simile prospettazione avrebbe richiesto. In ogni caso, la ricorrente non era un dirigente, né era stata destinataria di una posizione organizzativa, giacché la biblioteca costituiva un'unità operativa del settore cultura, e la (...) era stata soggetta alle direttive impartite dalla responsabile del settore, lei, sì, titolare di posizione organizzativa, e di funzioni sostitutive della dirigenza. Di conseguenza, non erano neppure ravvisabili i danni da dequalificazione o demansionamento, dedotti nell'atto introduttivo. Né si poteva ritenere che le difficoltà incontrate dall'amministrazione nella gestione della biblioteca, dopo la destinazione della ricorrente al nuovo incarico, potessero riflettersi per lei in un danno risarcibile. Infine, non era neppure configurabile il mobbing, poiché la richiesta da parte dell'amministrazione comunale delle visite mediche di controllo al personale assente per malattia costituiva una prassi ordinaria, che era stata confermata dai dipendenti interrogati come testimoni. Non era, quindi, un comportamento anomalo, riservato alla sola (...). Né, del resto, vi era alcuna prova che il suo orientamento politico, espresso con la partecipazione alla raccolta di firme nell'ambito dei festeggiamenti organizzati dall'(...) per la ricorrenza della Festa del 25 aprile, avesse avuto una qualche influenza sulla Delib. n. 157 del 24 maggio 2018. (...) ha proposto appello, e censurato la sentenza di primo grado, per vari motivi, così sintetizzabili: I. il giudice ha omesso di pronunciarsi sulla compatibilità del provvedimento impugnato con la normativa dell'(...) in materia di rotazione del personale delle pubbliche amministrazioni; II. parimenti, ha omesso di pronunciarsi in merito alla violazione dell'art. 24 del Regolamento comunale, secondo cui "la mobilità del personale all'interno dell'Ente, quale strumento di carattere organizzativo, risponde a criteri di flessibilità, competenza e professionalità e deve tendere ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi programmati dall'Amministrazione in relazione ai servizi svolti dall'Ente ed alle esigenze di operatività. È connessa a percorsi di aggiornamento e formazione del personale e rappresenta momento di crescita professionale dei lavoratori": l'aver distolto l'appellante dal settore nel quale era competente, per assegnarla a mansioni per le quali non aveva la necessaria preparazione culturale, al tempo stesso privando la biblioteca della sua direttrice, non rispettava la norma del Regolamento, e costituiva una violazione, altresì, degli obblighi di buona fede e correttezza, oltre che del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, sancito dall'art. 97 Cost.; III. il Tribunale non ha valutato i documenti prodotti, che confermavano l'esistenza del motivo ritorsivo, o, in ogni caso, la violazione del principio di non discriminazione sancito dall'art. 15 della L. 20 maggio 1970, n. 300; IV. ha omesso di pronunciarsi sul dedotto abuso dello ius variandi da parte dell'amministrazione datrice di lavoro; V. ha omesso di valutare le prove fornite dalla stessa convenuta, dalle quali emergeva che, con la delibera contestata, la ricorrente era stata destinata allo svolgimento di mansioni riconducibili alla categoria (...), e, quindi, a mansioni inferiori rispetto al livello d'inquadramento; in ogni caso, non aveva neppure rilevato la violazione da parte del Comune di quanto previsto dall'accordo (rectius, contratto collettivo) del 31 marzo 1999; VI. il Tribunale ha erroneamente interpretato l'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001 e l'Acc. 31 marzo 1999, art. 3 e allegato A, giacché non ha argomentato in merito alla compatibilità professionale delle mansioni attribuite all'appellante in conseguenza della Delib. del 24 maggio 2018; VII. ha omesso di valutare la documentazione sanitaria prodotta a dimostrazione dell'esistenza del danno biologico, ed erroneamente applicato i principi giurisprudenziali in tema di straining e demansionamento mobbizzante; VIII. ha errato nella ripartizione delle spese: avrebbe dovuto operarne la compensazione, tenuto conto della particolare complessità della controversia e dell'assoluta novità delle questioni trattate. Il collegio rileva, anzitutto, come l'appellante non abbia impugnato il capo della sentenza, in cui il Tribunale osserva che il caso in esame è qualificabile non già come un'ipotesi di trasferimento, bensì come un mutamento di mansioni, regolato dall'art. 52 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165. La riconducibilità della fattispecie alla disciplina delle mansioni dettata dal testo unico del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni non è, dunque, in discussione. Ne discende che ogni riferimento contenuto nell'atto d'appello alle ragioni tecniche, organizzative e produttive, stabilite dall'art. 2103 c.c. come le condizioni che possono legittimare il trasferimento di un lavoratore da un'unità produttiva a un'altra, situata nel territorio di un diverso comune, è fuori tema, poiché: a. il provvedimento datoriale contestato non è un trasferimento in senso tecnico; b. le previsioni dell'art. 2103 in tema di mansioni non sono applicabili al rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, interamente disciplinato, per quest'aspetto, dall'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001. Si può passare, quindi, ad analizzare i singoli motivi d'appello. I. Violazione della normativa emessa dall'(...) sulla rotazione del personale delle pubbliche amministrazioni L'appellante deduce l'omessa pronuncia del giudice di primo grado e, nel merito, sostiene che, nel suo caso, la normativa anticorruzione non era operativa, poiché il settore culturale dell'amministrazione non rientrava tra le aree di rischio espressamente indicate nel piano comunale di prevenzione della corruzione (PTPC). La dedotta violazione dell'art. 112 c.p.c. - omessa pronuncia su una delle prospettazioni dell'attrice - comporta che la questione, su cui il Tribunale non s'è effettivamente espresso, debba essere esaminata dal giudice dell'appello. La Delib. n. 157 adottata dalla Giunta comunale il 24 maggio 2018, intitolata "Approvazione nuovo assetto organizzativo della macrostruttura dell'Ente", non annoverava, tra le ragioni della sua adozione, la necessità di conformarsi alle direttive dell'Autorità anticorruzione. Le ragioni effettive sono desumibili dalle premesse della delibera, in cui, fra l'altro, si ponevano in evidenza le seguenti circostanze: "l'adozione di un nuovo assetto organizzativo della macrostruttura dell'Ente costituisce il presupposto essenziale per garantire un razionale esercizio delle funzioni istituzionali, in relazione ai risultati previsti nel programma di mandato, attraverso il rispetto dei parametri dell'efficienza, efficacia ed economicità previsti dalla normativa vigente compreso l'art. 2 D.Lgs. n. 165 del 2001 e l'art. 89 D.Lgs. n. 267 del 2000; ... sono intervenuti profondi mutamenti nel contesto interno ed esterno di riferimento, riconducibili a fattori quali: cessazioni di servizio a vario titolo di varie unità di personale, impossibilità di procedere alla copertura di alcuni posti vacanti, mutato quadro normativo che impone la necessità di continuare ad adeguare la macrostruttura dell'Ente ai princìpi generali di riduzione della spesa ecc.; il contesto in cui opera l'Amministrazione è sempre più caratterizzato da mutamenti rapidi e continui che rendono incerto e complesso procedere alla definizione di soluzioni organizzative che continuino a garantire servizi ai cittadini in mancanza di risorse sufficienti, sia economiche che umane che strumentali; pur essendo indispensabile provvedere a ridisegnare la struttura organizzativa nell'ambito dell'autonomia organizzativa di cui si dispone per meglio corrispondere alle aspettative della collettività amministrata, l'operazione risulta "ab origine" estremamente difficile non solo per il peggioramento complessivo del quadro finanziario pubblico a livello nazionale, ma anche e soprattutto per la mancanza di reperire risorse umane aggiornate e formate in primis sulle nuove tecnologie e per la costante grave assenza di propensione al cambiamento maturata negli anni; ... a seguito di elezioni amministrative del 11 e 25 giugno 2017 si è insediato il Sindaco ed una nuova Amministrazione comunale; ... per poter realizzare le politiche dell'Ente risultanti dagli atti generali di programmazione sopra richiamati, si rende necessario rivedere la struttura organizzativa del Comune, anche in conseguenza delle variazioni che. con il passare del tempo, come già detto, ha subito la dotazione delle risorse umane dell'Ente per i pensionamenti e per i vincoli che la normativa vigente impone riguardo la spesa del personale e le capacità assunzionali; è quindi opportuno operare una modifica dei settori, servizi e uffici dell'Ente, al fine di rendere la macrostruttura comunale maggiormente rispondente alle esigenze del perseguimento delle politiche prescelte, nel pieno rispetto delle funzioni istituzionali proprie e dei vincoli della complessa normativa, secondo l'istruttoria tecnica del competente servizio ed allo scopo di consentire il raggiungimento degli obiettivi e l'attuazione del programma di mandato; il vigente quadro normativo in materia di organizzazione dell'Ente locale, con particolare riferimento a quanto previsto dal D.Lgs. n. 267 del 2000 e dal D.Lgs. n. 165 del 2001 come novellato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, a sua volta modificato dal D.Lgs. n. 17 del 2017 attribuisce alla Giunta la competenza in ordine alla definizione degli atti generali di organizzazione e di determinazione della dotazione organica dell'Ente ...". Il provvedimento, dunque, si prefiggeva di dettare "un nuovo assetto organizzativo della macrostruttura dell'Ente", funzionale al "perseguimento delle politiche prescelte" dall'amministrazione insediatasi l'anno precedente. Questo era il suo scopo, e non la rotazione del personale in base alle direttive indicate dall'(...). L'appellante pretenderebbe, invece, di ricondurre l'atto a una mera rotazione del personale in applicazione delle indicazioni dell'Autorità, in base a due documenti, il primo rappresentato dal contenuto di un articolo a firma della giornalista (...), contenente anche dichiarazioni del sindaco (...) e pubblicato dal (...) nell'edizione del 16 giugno 2018, il secondo dalla comunicazione indirizzata alla (...) il 28 giugno 2018 dalla dottoressa (...), segretario generale del Comune e responsabile per la prevenzione della corruzione, in risposta a una nota della dipendente del 1o giugno, protocollata il 4. Le dichiarazioni rese dal sindaco nel contesto dell'articolo intitolato "Il Comune sposta la bibliotecaria, polemica sui libri gender", con sottotitolo "Todi, due assessori le hanno chiesto la lista di testi su omosessualità e omogenitorialità. Lei si è rifiutata", è incentrata sulla vicenda dei cosiddetti "libri gender", originata dalla richiesta avanzata alla direttrice della biblioteca dall'assessore alle politiche familiari, (...), con una e-mail del 3 maggio 2018, indicante nell'oggetto "richiesta elenco libri con temi sensibili sezione ragazzi", di redigere "una lista completa e dettagliata con titolo autore e casa editrice dei libri in oggetto, ovvero testi che presentano i temi dell'omosessualità, omogenitorialità e transessulismo nella sezione bambini/ragazzi". In precedenza, il 9 novembre 2017, la stessa (...) e il suo collega assessore alla cultura, (...), avevano emanato una direttiva in merito ai "libri per bambini con contenuti riguardanti temi educativi sensibili", concernente, nello specifico, la collocazione nella biblioteca comunale "dei testi che hanno come contenuto tematiche sensibili, controverse sul piano scientifico e divisive tra le famiglie come la omogenitorialità, la gestazione per altri, piuttosto che sic le unioni same sex, e altri contenuti di carattere sessuale, nelle sezioni per gli adulti anche se consigliati dalle case editrici per fasce d'età infantili". Avevano, quindi, invitato la Giunta comunale a formalizzare la direttiva, al fine di rimuovere i libri con quei contenuti dalla sezione della biblioteca dedicata ai bambini, e, "tutt'al più, collocarli all'interno di altri spazi a loro non riservati, con le adeguate specifiche ed esplicite indicazioni rivolte al pubblico". La richiesta avanzata dalla (...) con l'e-mail del 3 maggio 2018 s'inseriva, dunque, nel solco tracciato dalla direttiva del novembre precedente. La (...) aveva risposto, come s'è visto nell'esposizione del contenuto del ricorso introduttivo (v. supra, pagine 5-6), senza eseguire alcuna selezione, inviando l'elenco completo dei libri presenti nella sezione 0-14 anni, e affermando come il loro inserimento fosse stato rispettoso dei criteri individuati dagli enti più autorevoli, nazionali e internazionali. La richiesta dell'assessore, com'era ampiamente prevedibile, aveva provocato polemiche, anche a livello nazionale, tanto che, nell'articolo pubblicato nel (...), si dava atto delle interrogazioni parlamentari presentate sulla questione dal deputato (...) del gruppo +Europa, e dalla senatrice di LEU (...). Alle domande della giornalista, il (...) rispose: "La signora (...) non è stata trasferita per questi libri. Ma per la direttiva anticorruzione: abbiamo spostato il 20% dei 120 dipendenti comunali". Richiesto su che cosa prevedesse la direttiva, il sindaco replicò che essa prescriveva di "spostare le persone che maneggiano soldi", per poi riconoscere che la (...) non maneggiava soldi, ma "sceglieva libri". Dopo che la giornalista gli ebbe fatto presente che alcuni politici erano preoccupati per la libera circolazione delle idee nel Comune di Todi, il sindaco obiettò: "Non capisco perché tanto accanimento su una dipendente quando abbiamo spostato più di venti persone. Anche i sindacati sono dalla nostra parte e questo non sarebbe possibile se ci fosse l'ingiustizia che la signora (...) va lamentando". (...), a chiusura del colloquio: "Questa donna ci ha creato problemi anche con il 25 aprile con la manifestazione dell'(...)". Le dichiarazioni del sindaco (...) alla giornalista, certamente infelici, devono essere, però, lette nel contesto del clamore mediatico che la richiesta della formulazione di un elenco di libri dalle tematiche "sensibili" e il successivo mutamento di funzioni della bibliotecaria - prontamente a quella collegato nell'ottica giornalistica - avevano suscitato nella stampa nazionale. Il sindaco sentiva, evidentemente, il peso della riprovazione di una parte dell'opinione pubblica, avversa all'orientamento politico della sua amministrazione, e, quindi, reagì in maniera istintiva e poco avveduta. Il richiamo alla direttiva anticorruzione, dunque, era un tentativo di ricondurre la vicenda su un binario di normale avvicendamento negli uffici comunali, per stemperare, per l'appunto, le polemiche. Quanto ai "problemi" creati dalla (...) per il 25 aprile, evidentemente il (...) si riferiva alla raccolta di firme "Mai più fascismi", che aveva determinato la revoca del patrocinio del Comune alla manifestazione indetta dall'(...). Il motivo della revoca era stato esternato dal sindaco, esponente del partito Forza Italia, durante il programma radiofonico "I Provinciali", su (...): egli aveva osservato come l'iniziativa fosse apparsa all'amministrazione inutilmente polemica, diretta "contro" qualcuno, piuttosto che "a favore" di qualcosa; aveva anche detto che le firme, se mai, si sarebbero dovute raccogliere contro tutte le dittature, comuniste e fasciste. Poi aveva aggiunto di essere antifascista, tuttavia, aveva precisato, il problema era che nella maggioranza del Consiglio comunale che sosteneva l'amministrazione era presente anche un rappresentante della formazione di estrema destra (...), tale (...). Questi, evidentemente, non aveva gradito l'adesione a una manifestazione in cui si raccoglievano le firme contro il fascismo. In sostanza, par di capire, il sindaco s'era trovato in imbarazzo proprio verso quella componente della maggioranza; di qui, la decisione di revocare il patrocinio. Una posizione discutibile, se si vuole, ma, in ogni caso, legittima, da parte del rappresentante di un'amministrazione locale che non si riconosceva nei valori di cui l'(...) era, ed è, portatrice. Alla luce dei fatti, le dichiarazioni rese dal sindaco (...), incalzato dalla giornalista del (...), avevano lo scopo di difendere la legittimità di un atto amministrativo, non certo di fornire la spiegazione dei motivi che ne avevano determinato la genesi. La nota del segretario generale del Comune, (...), aveva il seguente tenore: OGGETTO: Riscontro sua nota del 4 giugno 2018 prot. (...) ad Oggetto:"Deliberazione di giunta n. 157 del 24 maggio 2018". A riscontro di quanto da lei segnalato alla sottoscritta con la nota in oggetto indicata, a prescindere da eventuali ulteriori approfondimenti che sulla vicenda possano o debbano essere effettuati, in corre l'obbligo di precisare quanto segue, L'Amministrazione Comunale attualmente in carica è risultata 'coalizione regolarmente eletta" seguito delle elezioni amministrative di giugno 2017, Amministrazione che. insediatasi nel mese d luglio successivamente, sulla base dei contenuti della Relazione di inizio mandato del Sindaco e de Programmi Elettorali, ha promosso ed approvato nel Consiglio Com.le di novembre 2017, con atte n.76 del 22/11/2017 ad oggetto: "APPROVAZIONE LINEE DI MANDATO E PROGRAMMA Di GOVERNO 2017/2022", il Programma delle azioni da effettuare nel quinquennio, che non potrà che essere la base per la definizione delle politiche da perseguire nel medesimo periodo, da precisare e puntualizzare con obiettivi ed azioni nei vari D.U.P. triennali che si succederanno senza soluzione di continuità e dei quali il primo è stato approvato, in sede di bilancio di previsione, con allo n.l8 del 06/03/2018 ad oggetto."Documento Unico di Programmazione (DUP) Periodo 2018/2020 -Approvazione (Art. 170 c. 1 D.Lgs. n. 267 del 2000) Questa premessa era necessaria per inquadrare l'aspetto politico - programmatico delle fasi del governo cittadino e per comprendere come la Deliberazione di Giunta n. 157/2018. se pur con qualche ritardo, non costituisce che il completamento del quadro delineato di una macro struttura organizzativa che (...) ha inteso promuovere per perseguire al meglio le politiche definite. Al vertice tecnico dell'Ente, in questa fase, secondo l'ormai noto Principio di separazione delle competenze, spella .solo il verificare l'eventuale violazione di regole o il superamento dei limiti di spesa, ma non un giudizio aprioristico di efficienza ed efficacia di scelte discrezionali di natura politica che. in via tecnica, potranno essere oggetto di valutazione solo " alla prova dei fatti", in via empirica. Ai sensi del vigente Regolamento per l'organizzazione degli uffici e dei servizi art. 3 tra i principi organizzativi dell'ente alla lett. l) è altresì citato: "distinzione delle competenze tra apparato burocratico ed apparato politico nei quadro di collaborazione lesa al raggiungimento degli obiettivi individuali dall'Amministrazione". Solo sono questo aspetto può trovarsi anche un qualche collegamento tra il processo generale di riorganizzazione dell'ente (che legittimamente opera qualunque amministrazione almeno una volta, se non più, nel corso del mandato) ed i contenuti di un PTP (...) aggiornalo annualmente e teso a "prevenire e contrastare" fenomeni di corruzione (che poi verranno all'occorrenza denunciati e perseguiti dall'autorità giudiziaria) che potrebbero inficiare ed alterare i rapporti con l'utenza del servizio pubblico erogalo. Infittii, al di là degli adempimenti e dei tecnicismi di controllo prescritti dalla norma, la L. n. 90 del 2012 aveva ed ha l'obiettivo di mantenere/ricostruire un rapporto corretto e di fiducia tra FA. e cittadino, in una relazione dove tutta l'utenza e ugualmente considerata. Cenno restando le differenti condizioni del singole, ciò a prescindere dall'aspetto prettamente economico e valutando la non esistenza di privilegi ingiusti contenti solo per il ruolo rivestito, con esercizio arbitrario di quel potere-dovere proprio dei funzionari di vertice. In questo senso si parla della necessità di rendere i pubblici funzionari capaci di svolgere "tutti'' i compiti del profilo di appartenenza, per essere utili in più ruoli alla struttura e "mai indispensabili", in tal modo facendo crescere e rendere più complete professionalmente le ligure presenti in dotazione c valorizzandole a tutto tondo (cosa che. tra l'altro, da sempre avviene nel mondo del lavoro privalo) con ulteriori fasi di formazione. (Quindi, nessun provvedimento di trasferimento è stato assunto nei suoi confronti, ma nei confronti di tutti coloro che si sono visti collocati in altro servizio o in altro settore, c'è stata una scelta dell'(...) (legittimamente criticabile, ma una scelta) tesa all'ultimate perseguimento delle politiche definite ed alla valorizzazione delle professionalità disponibili. Dal documento, appare chiaro che le ragioni alla base della Delib. n. 157 del 24 maggio 2018 erano collegate non già alla rotazione del personale prescritta dall'(...), bensì al perseguimento degli obiettivi dell'amministrazione comunale e alla migliore utilizzazione del personale, come si evince dal passo in cui si accenna alla necessità che i funzionari siano in grado di svolgere tutti i compiti del profilo d'appartenenza, per essere utili in più ruoli alla struttura dell'ente, senza mai divenire indispensabili. In conclusione, i documenti citati dall'appellante non dimostrano che la delibera contestata avesse scopi diversi da quelli in essa espressamente dichiarati (se ne veda il testo sopra trascritto alle pagine 9 e 10), considerato che la pubblica amministrazione agisce attraverso atti formali, la cui interpretazione non può che basarsi sulle ragioni in essi enunciate, mentre appaiono irrilevanti le opinioni personali e soggettive espresse da singoli appartenenti all'ente. II. Violazione dell'art. 24 del Regolamento comunale e conseguente violazione dell'art. 97 Cost. IV. Abuso dello ius variandi I due motivi possono essere trattati congiuntamente, vuoi perché rispetto a entrambi l'appellante deduce l'omessa pronuncia, vuoi perché sono intrinsecamente connessi. Quanto al vizio conseguente alla violazione dell'art. 112 c.p.c., vale quanto detto sopra nella sezione dedicata al primo motivo d'appello. Nel merito, le censure sono infondate. La mancata osservanza dell'art. 24 del Regolamento (il cui testo è riportato a pagina 7), si riflette, ad avviso dell'appellante, nella violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all'art. 97 Cost.: questa si sostanzierebbe nell'aver distolto la (...) dalla direzione della biblioteca, privando quest'ultima di una guida competente, ciò che avrebbe comportato un danno per la comunità intera. È evidente come la ricorrente non abbia titolo per lamentare un danno del genere e, quindi, per censurare, in quella prospettiva, l'operato dell'amministrazione. Il danno ipotizzato per la collettività costituirebbe, tutt'al più, la lesione di un interesse diffuso, non certo di un diritto soggettivo della dipendente. Sotto il profilo dell'abuso asseritamente perpetrato dal Comune nell'assegnare la lavoratrice a mansioni diverse, l'appellante pone in evidenza come, a causa dell'esercizio dello ius variandi, formalmente rispettoso della disciplina giuridica, ma esplicatosi con modalità censurabili, rispetto a un criterio di valutazione giuridico o extra-giuridico, si sia verificata una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto e il sacrificio derivatone all'altra parte. In particolare, il sacrificio sarebbe rappresentato, oltre che dal danno, del quale s'è già trattato, alla "collettività dei cittadini, privati di una risorsa preziosa quale quella della bibliotecaria", insieme indefinito d'individui che, a rigore, non rappresentano "l'altra parte", anche dalla necessità per la ricorrente, nel nuovo ruolo assegnatole, di "ricominciare da zero in un settore totalmente estraneo alle proprie competenze professionali". Il disappunto della (...) è comprensibile; ella, tuttavia, non tiene conto che il dipendente pubblico non ha un diritto soggettivo a continuare a svolgere, a tempo indefinito, le stesse mansioni per cui è stato assunto, come si vedrà meglio più avanti, nell'esaminare il quinto e il sesto motivo d'appello. In definitiva, il "sacrificio" lamentato è, per così dire, l'altra faccia dello ius variandi, e non la conseguenza di un abuso di quel diritto. III. Omessa valutazione dei documenti da cui emergevano l'esistenza del motivo ritorsivo o, in subordine, la violazione del principio di non discriminazione sancito dall'art. 15 della L. 20 maggio 1970, n. 300. In realtà, da nessun documento emerge la natura ritorsiva o discriminatoria del mutamento di mansioni disposto nei confronti della (...). Non possono esserne considerate prova le affermazioni fatte dal sindaco (...) durante la trasmissione radiofonica del 24 aprile 2018, che riguardava unicamente la revoca del patrocinio alla manifestazione indetta dall'(...) per la Festa della Liberazione e non la (...), né le dichiarazioni raccolte dalla giornalista del (...) nel giugno 2018: in quell'occasione, il sindaco - come s'è già accennato - intendeva difendere se stesso e l'amministrazione comunale dalle critiche mosse allo spostamento della ricorrente dalla biblioteca al settore urbanistica, sulle quali la stampa nazionale aveva costruito un caso, che sicuramente creava un forte imbarazzo alla Giunta tuderte. Egli, d'altra parte, aveva giustamente sottolineato come il mutamento di mansioni avesse riguardato circa un quinto dei dipendenti dell'ente, e non la sola (...). D'altronde, la "stretta connessione temporale" tra la vicenda del patrocinio alla manifestazione dell'(...) e quella dei "libri gender", da un lato, e il mutamento delle mansioni, dall'altro, posta in evidenza dall'appellante a riprova della natura ritorsiva del provvedimento, appare come una coincidenza e nulla più: la Delib. del 24 maggio 2018, in realtà, era attesa da tempo, perlomeno dal novembre 2017, quando la Giunta aveva approvato le linee di mandato e il programma di governo (Delib. n. 76 del 22 novembre 2017, menzionata dalla (...) nella nota del 28 giugno 2018, sopra riportata alle pagine 12 e 13). Né, infine, vale a mutare lo scopo della delibera, enunciato nell'atto stesso, la dichiarazione del (...) al (...): "Questa donna ci ha creato problemi anche con il 25 aprile con la manifestazione dell'(...)". Anche quell'affermazione, al pari delle asserzioni del sindaco nel corso della trasmissione radiofonica del 24 aprile 2018, dev'essere valutata nel contesto della situazione in cui il sindaco s'era venuto a trovare, dovendo, a un tempo, difendere la Giunta da lui presieduta da critiche accese, che avevano travalicato il ristretto ambito cittadino, e, dall'altro, nella trasmissione di (...), giustificare l'atteggiamento assunto dal Comune dinanzi all'iniziativa assunta dall'(...) di raccogliere firme contro i "fascismi", alludendo al malumore da essa creato in un certo settore della maggioranza, ovverosia, nel consigliere comunale esponente di (...). Il fatto che la (...) fosse iscritta all'(...) e che non avesse ottemperato alla richiesta di elencare i libri per bambini inerenti a tematiche "sensibili" non autorizza, di per sé, a ritenere che, distogliendola dalla biblioteca, la Giunta abbia inteso "liberarsi di una dipendente scomoda in un ruolo nevralgico per l'attuazione delle politiche "no gender"" (pagina 21 dell'atto d'appello). Una simile conclusione contrasta con il fine dichiarato della delibera, consistente in una complessiva riorganizzazione della macrostruttura dell'ente, che comportò numerosi spostamenti di dipendenti da un settore all'altro. Non si ravvisa, dunque, nell'operato dell'amministrazione quel motivo illecito determinante, che, secondo la prospettazione dell'at-trice, avrebbe comportato la nullità dell'atto di gestione del rapporto di lavoro, ai sensi dell'art. 1345 c.c.. Né vi è alcuna prova che la (...) sia stata discriminata per le sue opinioni politiche: non risulta, infatti, che alcun esponente della Giunta l'abbia anche solo criticata, in pubblico o in privato, per la sua partecipazione alle attività dell'(...), e neppure per la sua risposta elusiva alla richiesta dell'assessore (...) riguardo ai libri per bambini e ragazzi. Si deve anche considerare che il rapporto di lavoro della ricorrente, originariamente a tempo determinato, fu stabilizzato, ai sensi dell'art. 1, comma 558 della L. 27 dicembre 2006, n. 296, nel 2008, ossia, dopo l'insediamento di una Giunta di centrodestra, anche allora presieduta dall'avvocato (...). Il fatto che, dopo l'avvento di quella Giunta e in conseguenza delle direttive da essa assunte, fossero state avviate e portate a compimento le procedure di stabilizzazione dei lavoratori a tempo determinato, tra cui la (...), induce a ritenere che nei confronti di questa, come degli altri lavoratori coinvolti nella procedura, anche se di orientamento politico diverso, l'amministrazione comunale non abbia mostrato alcuna preclusione, né, tantomeno, un atteggiamento discriminatorio. Infine, vale la pena ricordare come, proprio per quella selezione pubblica diretta alla stabilizzazione dei "precari", indetta con Det. n. 237 del 21 novembre 2007 del responsabile del servizio organizzazione e metodi, l'intera Giunta (...) sia stata sottoposta a processo per responsabilità amministrativo-contabile, peraltro definito, in primo e in secondo grado, con l'assoluzione dei convenuti. In definitiva, dev'essere escluso che la delibera contestata sia stata dettata da intento ritorsivo o da motivi discriminatori. V. Omessa valutazione delle prove fornite dalla convenuta, da cui emergeva l'adibizione a mansioni di categoria (...), inferiori rispetto al livello d'inquadramento - Omesso rilievo della violazione da parte del Comune di quanto previsto dall'Acc. del 24 marzo 1999 VI. Errata interpretazione dell'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001 - Omessa valutazione dell'Acc. 31 marzo 1999, art. 3 e allegato A quanto alla compatibilità professionale delle mansioni attribuite all'appellante in conseguenza della Delib. del 24 maggio 2018 I due motivi sono strettamente connessi, e devono essere esaminati congiuntamente. L'art. 52, comma 1 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 prevede: "1. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all'articolo 35, comma 1, lettera a). L'esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore o dell'assegnazione di incarichi di direzione. Dunque, l'unico limite che l'amministrazione pubblica incontra nell'esercizio dello ius variandi è rappresentato, per ciò che qui rileva, dalla necessità che le nuove mansioni assegnate al dipendente siano "considerate equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento". A questo proposito, la giurisprudenza ha affermato che la valutazione di equivalenza è demandata alla contrattazione collettiva, come si evince dalla seguente massima: "In tema di pubblico impiego contrattualizzato, la disapplicazione di un atto amministrativo organizzativo che investa il rapporto di lavoro postula la sussistenza, in capo al lavoratore, di un diritto soggettivo che sia stato inciso da tale provvedimento, dovendosi ritenere, ove il diritto sia escluso in ragione del legittimo esercizio dei poteri contrattuali del datore di lavoro, l'irrilevanza della questione, attesa la conformità a legge dell'atto amministrativo. Ne consegue che, ove il lavoratore agisca per il riconoscimento del diritto all'assegnazione di mansioni equivalenti alle ultime esercitate, resta esclusa la possibilità della disapplicazione qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, restando la materia delle mansioni del pubblico dipendente disciplinata compiutamente dall'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001 (nel testo anteriore alla novella recata dall'art. 62, comma 1 del D.Lgs. n. 150 del 2009), che assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale in riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa aversi riguardo alla norma generale di cui all'art. 2103 cod. civ. e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione. (Nella fattispecie la Corte ha confermato la sentenza di secondo grado che aveva respinto la domanda di un dipendente che, dopo aver svolto mansioni di "istruttore di polizia municipale" era stato addetto alla biblioteca con il profilo professionale di "istruttore amministrativo" ritenendo equivalenti le due figure professionali perché appartenenti alla medesima area professionale)" (Cass., Sez. Lav., 5 agosto 2010, n. 18283). Si veda anche Cass., Sez. Lav., 11 maggio 2010, n. 11405, secondo cui: "In tema di pubblico impiego privatizzato, l'art. 52, comma 1, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito - attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell'organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse - un concetto di equivalenza "formale", ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice, con la conseguenza che condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita". La prima delle pronunce citate è interessante, poiché riguarda anch'essa il caso di un dipendente di ente locale, che sosteneva di essere stato adibito a mansioni non corrispondenti al livello d'inquadramento, e affronta il tema del contratto collettivo del 31 marzo 1999, invocato dall'odierna appellante. Osserva la Suprema Corte: "? si deve, in primo luogo, escludere che il diritto azionato trovi fondamento nell'art. 2103 c.c., nella parte in cui obbliga il datore di lavoro ad assegnare mansioni professionalmente equivalenti alle ultime esercitate. Al riguardo la giurisprudenza della Corte si è già espressa (Cass., sez. un., 4 aprile 2008, n. 8740; Cass. 21 maggio 2009, n. 11835), rilevando che la riconduzione della disciplina del lavoro pubblico alle regole privatistiche del contratto e dell'autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario, non ha eliminato la perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che, pur munito nella gestione degli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, per ciò che riguarda l'organizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale. In questa ottica il D.Lgs. n. 165 del 2001 disciplina interamente la materia delle mansioni all'art. 52 (rendendo così inapplicabile quella generale dell'art. 2103 c.c.) e, in particolare, al comma 1, sancisce il diritto del dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali e? stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi (testo anteriore alla sostituzione operata dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 62, comma 1). Com'è noto, sul concetto di equivalenza, nel settore privato è il giudice a valutare se determinate mansioni possono essere, in concreto, ritenute equivalenti, sulla base del bagaglio professionale necessario per svolgerle. La lettera del citato art. 52, comma 1, invece, specifica un concetto di equivalenza "formale", ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. Ne segue che, condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico. L'equivalenza in senso formale risulta peraltro ribadita dalla norma contrattuale, dal momento che l'art. 3, comma 2 del CCNL del Comparto Regioni e Autonomie Locali 31/03/1999 (G.U. Serie Generale n. 81 del 24.4.1999), che viene in applicazione nella specie, prevede: "Ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili. L'assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell'oggetto del contratto di lavoro"". A fugare i possibili dubbi circa l'applicabilità dei principi espressi dalla Corte di cassazione nella sentenza citata anche ai casi disciplinati, come quello di specie, dall'art. 52 nel testo risultante dalla novella del 2009, è sufficiente richiamare la seguente massima: "La classificazione dei dipendenti pubblici al fine di stabilire le mansioni, oltre a quelle di assunzione, cui essi, secondo l'art. 52, comma 1, del D.Lgs. n. 165 del 2001, possono essere adibiti, così come la definizione di quanto, ai sensi e per gli effetti dei successivi commi 4 e 5, costituisce esercizio di mansioni superiori, è rimessa alla contrattazione collettiva e ciò sia nel regime previgente che in quello successivo alle modifiche apportate alla predetta norma dall'art. 62 del D.Lgs. n. 150 del 2009" (Cass., Sez. Lav., 14 novembre 2019, n. 29624). L'appellante interpreta l'inciso "in quanto professionalmente equivalenti" contenuto nell'art. 3 del contratto collettivo del 31 marzo 1999 nel senso che l'esigibilità delle mansioni possa riguardare solo quelle di cui sia in concreto accertata l'equivalenza professionale. Codesta interpretazione è palesemente errata: la locuzione "in quanto" vale come dire "poiché", non già, come ipotizzato dall'appellante, "purché". In sostanza, la norma afferma l'esigibilità di ogni mansione rientrante nella categoria d'inquadramento del dipendente, proprio perché l'inclusione di più mansioni in un'unica categoria è frutto della valutazione di equivalenza, operata dalle parti collettive. Per mera completezza, il collegio osserva che l'art. 52 costituisce una norma imperativa inderogabile. Ciò si ricava dall'art. 1, comma 3 del D.Lgs. n. 165 del 2001, secondo cui: "Le disposizioni del presente decreto costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione". L'art. 2, comma 2 prevede: "I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo. Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell'articolo 40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto, da successivi contratti o accordi collettivi nazionali e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili". Infine, l'art. 73 (norma di rinvio) stabilisce: "Quando leggi, regolamenti, decreti, contratti collettivi od altre norme o provvedimenti, fanno riferimento a norme del D.Lgs. n. 29 del 1993 ovvero del D.Lgs. n. 396 del 1997, del D.Lgs. n. 80 del 1998 e 387 del 1998, e fuori dai casi di abrogazione per incompatibilità, il riferimento si intende effettuato alle corrispondenti disposizioni del presente decreto, come riportate da ciascun articolo". Di conseguenza, l'art. 3 del contratto del 31 marzo 1999 non potrebbe essere letto né in senso integrativo né in senso derogatorio rispetto alle disposizioni di cui all'art. 52 D.Lgs. n. 165 del 2001, ma solo in conformità a quanto disposto da quest'ultimo. Qualora, invece, esso avesse contenuto difforme, ne discenderebbe la sua abrogazione, per incompatibilità con le disposizioni inderogabili del decreto legislativo. S'è visto, tuttavia, come l'art. 3, correttamente interpretato, abbia un contenuto conforme alla disciplina imperativa dettata dalla legge, contrariamente a quanto afferma l'appellante. In definitiva, l'interpretazione data dell'art. 52 dal primo giudice è conforme ai principi fin qui richiamati, e, di conseguenza, dev'essere ritenuta corretta. Chiariti i confini dell'indagine affidata al giudice, occorre valutare il fondamento del motivo d'appello, secondo cui la prova dell'adibizione della ricorrente a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie della categoria d'inquadramento si ricaverebbe da un documento, prodotto dalla stessa amministrazione convenuta, consistente in un modulo prestampato, da riempire con vari dati: questa sarebbe l'attività assegnatale presso il settore urbanistica, evidentemente inferiore a quella di elevato contenuto professionale svolta come direttrice della biblioteca. Anzi, il mutamento di mansioni si sarebbe addirittura risolto in un "demansionamento", ossia, nel sostanziale svuotamento dei compiti. A sostegno di questa tesi, nel ricorso introduttivo si asseriva: "... in un caso analogo la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che il giudice è tenuto ad una valutazione in senso sostanziale dell'equivalenza idonea a valutare l'eventuale sussumibilità delle nuove mansioni in quelle riconducibili ai profili propri della categoria (...) in quanto, ad avviso del Supremo Collegio, l'integrale sottrazione delle funzioni da svolgere è vietata anche nell'ambito del pubblico impiego. Infatti, non bisogna dimenticare che ai sensi dell'allegato A del ccnl degli enti locali alla categoria (...) (all. 34) appartengono i lavoratori e le lavoratrici che svolgono attività caratterizzate da: elevate conoscenze pluri-specialistiche od un grado di esperienza pluriennale, con frequenti necessità di aggiornamento, contenuto di tipo tecnico, gestionale o direttivo con responsabilità di risultati relativi ad importanti e diversi processi produttivi/amministrativi; elevata complessità dei problemi da affrontare basata su modelli teorici non immediatamente utilizzabili ed elevata ampiezza delle soluzioni possibili; elevata complessità dei problemi da affrontare basata su modelli teorici non immediatamente utilizzabili ed elevata ampiezza delle soluzioni possibili; relazioni organizzative interne di natura negoziale e complessa, gestite anche tra unità organizzative diverse da quella di appartenenza, relazioni esterne (con altre istituzioni) di tipo diretto, anche con rappresentanza istituzionale. Relazioni con gli utenti di natura diretta, anche complesse, e negoziale. Nella fattispecie in esame, operando una valutazione sostanziale fra le mansioni rientranti nella categoria (...) ricoperte dall'odierna ricorrente fino alla data effettiva del trasferimento e quelle a cui è stata successivamente adibita la dipendente è evidente il divario fra le due posizioni: la dott.ssa (...) prima del trasferimento poteva utilizzare il proprio bagaglio culturale e professionale svolgendo mansioni caratterizzate da un elevato livello di conoscenza specialistico (non a caso l'odierna ricorrente era stata assunta proprio per ricoprire mansioni di alta specializzazione considerando il proprio percorso formativo e professionale), successivamente, invece, la stessa è stata relegata a svolgere delle diverse mansioni e a dividere la propria attività lavorativa fra due diverse unità organizzative, e, addirittura sostituendo un collega, di inquadramento inferiore, che svolge delle mere mansioni da amministrativo" (p. 20-21 dell'atto introduttivo). In sostanza, la ricorrente affermava di essere stata "demansionata", in conseguenza della destinazione al settore urbanistica, perché non svolgeva più le mansioni di bibliotecaria. Non negava, però, che le fossero stati assegnati altri compiti - così contraddicendo la tesi del totale svuotamento della sua attività - anche se asseriva, genericamente, che essi fossero "da amministrativo", tanto che le era stato comandato di sostituire un collega inquadrato in un livello inferiore. Quest'ultima circostanza è stata smentita dall'istruttoria: il dipendente che la (...) affermava di aver sostituito, (...), inquadrato nella categoria (...), ha dichiarato che all'epoca dei fatti egli svolgeva la sua attività per metà dell'orario (diciotto ore) presso l'ufficio urbanistica e per l'altra metà nell'ufficio sviluppo economico. Egli ha chiarito che nei giorni in cui era impegnato in quest'ultimo, nessuno svolgeva i suoi compiti nel primo. Di conseguenza, si deve escludere che la (...) possa aver svolto, dopo l'assegnazione al settore urbanistica, i compiti propri del M.. Più semplicemente, al suo arrivo nel nuovo ufficio, fu temporaneamente collocata nella postazione solitamente utilizzata dal collega, ma dopo qualche giorno fu individuata la sua collocazione definitiva, in una stanza a lei sola riservata, dotata di tutti gli strumenti necessari (telefono, personal computer). Inoltre, il Comune, nella memoria di costituzione, aveva osservato che la dottoressa (...), dal novembre del 2018, svolgeva la sua attività a tempo pieno presso l'unità organizzativa staff del responsabile del settore urbanistica e gestione del territorio, ed era l'unica figura di categoria (...) del settore medesimo. Le erano stati affidati i procedimenti in precedenza gestiti dalla dottoressa (...), anch'ella inquadrata nella categoria (...) e contestualmente assegnata a un diverso settore. Quei procedimenti riguardavano l'erogazione di contributi per l'eliminazione delle barriere architettoniche e per la ristrutturazione d'immobili danneggiati dal terremoto. In particolare, la dottoressa (...) si occupava di redigere determinazioni, della gestione dei procedimenti per l'erogazione dei contributi (conduzione dell'istruttoria, invio di comunicazioni), di elaborare atti di liquidazione previa la necessaria istruttoria, della gestione di atti di bilancio comunale (accertamenti, impegni, etc.). Questi compiti, che la ricorrente non ha contestato di aver svolto, rientravano tra quelli propri della categoria (...) di appartenenza. Il fatto che, nell'esercizio delle sue funzioni, la ricorrente si avvalesse anche di modulistica prestampata non significa certo - a differenza di quanto sostenuto nell'atto d'appello - che i suoi compiti fossero limitati alla loro compilazione. In sostanza, come si evince dal brano dell'atto introduttivo trascritto, la ricorrente pretendeva di desumere la non equivalenza delle nuove mansioni rispetto a quelle in precedenza espletate dal fatto che, nella sua nuova posizione, non le fosse più consentito gestire la biblioteca, e dovesse, invece, occuparsi di questioni diverse, di carattere prettamente amministrativo. Tuttavia, secondo l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità già richiamato, "condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico" (Cass., n. 18283/2010, cit.). In altre parole, poiché nel contratto collettivo sono enunciate le mansioni proprie di una certa categoria d'inquadramento, che per ciò solo devono essere considerate fra loro equivalenti, e, quindi, tutte egualmente esigibili, il prestatore non può vantare un diritto soggettivo a mantenere per tutta la durata del rapporto i compiti originariamente assegnatigli, ma può essere legittimamente chiamato a svolgerne altri, diversi ma equivalenti, che l'amministrazione di volta in volta scelga di attribuirgli. In definitiva, si deve escludere che l'appellante abbia subito, per effetto dell'assegnazione al settore urbanistica, una dequalificazione professionale, e, tantomeno, un demansionamento. Appare, dunque, corretta la decisione del Tribunale, che ha ritenuto legittimamente esercitato nei suoi confronti lo ius variandi. Ne consegue che le pretese avanzate nell'atto introduttivo - dalla richiesta di restitutio in integrum, ossia, di riassegnazione alla direzione della biblioteca, peraltro di per sé inammissibile, non potendo l'autorità giudiziaria sostituirsi alla pubblica amministrazione in una scelta organizzativa squisitamente discrezionale, a quella di risarcimento del danno non patrimoniale - sono state giustamente disattese dal Tribunale. VII. Omessa valutazione della documentazione sanitaria - Errata applicazione dei principi giurisprudenziali in tema di straining e mobbing VIII. Errata regolazione delle spese processuali Accertata l'inesistenza di una condotta illegittima dell'amministrazione datrice di lavoro, e, quindi, di un danno risarcibile, il giudice di primo grado ha correttamente omesso di pronunciarsi in merito alla sindrome depressiva lamentata dalla ricorrente. È ben possibile e perfino probabile che la dottoressa (...) abbia sviluppato, in conseguenza al mutamento di mansioni, un'alterazione della sua condizione psichica: ciò è dipeso, tuttavia, da una percezione affatto soggettiva e personale della vicenda, non ancorata ai dati obiettivi, così come sono emersi nel processo. Né, del resto, sono emersi elementi che possano indurre a ritenere integrati, nella vicenda esaminata, gli estremi del mobbing o dello straining, stante l'accertata legittimità del provvedimento contestato, che, oltretutto, non ha riguardato la sola ricorrente, bensì anche numerosi altri dipendenti del Comune di Todi. A questo proposito, appare condivisibile quanto osservato dal primo giudice in merito alla mancanza di allegazioni idonee a delineare ipotesi di mobbing o di straining, prima ancora che di prova, e agli elementi emersi, in ogni caso sfavorevoli alla tesi della ricorrente: "Non vi è prova, che dev'essere rigorosa, e prima ancora non vi è esauriente allegazione, che la ricorrente fosse stata destinataria di condotte mobbizzanti. Piuttosto, reputa il Tribunale di dovere, in particolare, evidenziare quanto segue. Il ricevere la visita fiscale quando la ricorrente è stata in malattia non è certo stato elemento di (discriminazione o di) adozione, nei suoi confronti, di comportamenti vessatori. Ciò perché tale procedura era comune per tutti i dipendenti che potessero trovarsi in malattia. Così la teste (...) ("Sono Istruttore direttivo presso il settore cultura, sport e turismo del Comune di Todi dal 2003.", escussa all'udienza del 6.5.2021): "Cap. 12 della memoria difensiva): sì. (...)...: sono stata in malattia di recente e ogni volta che ho inviato un certificato medico ho ricevuto la visita c.d. fiscale."; così la teste (...) ("Sono Responsabile dell'Ufficio personale del settore I del Comune di Todi da metà 2013.", anch'ella escussa all'udienza del 6.5.2021: "Cap. 12): sì, alla ricezione di ogni certificato medico, si invia la richiesta di visita all'Inps.". Ancora. Il fatto che la ricorrente fosse in prima linea nelle manifestazioni dell'(...) partecipandovi attivamente (capitoli 36 e 37 del ricorso) così come partecipava alla "festa delle famiglie (...)" nel maggio 2018 a Todi (capitolo 38 del ricorso) non ha affatto costituito motivo di adozione, nei suoi confronti, di comportamenti ostili o discriminatori o vessatori; tra l'altro, di ciò non vi è prova, essendosi un teste ((...), escusso all'udienza del 6.5.2021) limitato a riferire come in tanti partecipassero a incontri e eventi organizzati dall'(...): così, sui capitoli 36, 37 e 38 del ricorso, "Cap. 36 ): sì, partecipavo anche io come tutti gli iscritti dell'ANPI. Cap. 37). sì, eravamo in tanti a partecipare. Credo fosse il 2018. Cap. 38): credo di sì."". Anche con riguardo alla statuizione sulle spese la sentenza impugnata appare corretta. L'attrice è stata condannata a rifondere le spese all'amministrazione convenuta, in base al criterio della soccombenza, perché, evidentemente, il giudice non ha ritenuto che ricorressero le condizioni per disporne la compensazione. E, in realtà, la vicenda, in sé, non era particolarmente complessa, né erano state prospettate questioni connotate da novità: si trattava di un caso, simile a tanti altri, in cui occorreva accertare la legittimità dell'esercizio dello ius variandi da parte di un'amministrazione pubblica datrice di lavoro, per la cui soluzione soccorrevano, come s'è visto, principi giurisprudenziali consolidati. In conclusione, l'appello è infondato sotto tutti i profili e dev'essere, quindi, respinto, mentre la sentenza impugnata dev'essere confermata. L'appellante dev'essere condannata a rifondere all'amministrazione appellata le spese sostenute per questo grado di giudizio, liquidate nella misura indicata nel dispositivo, determinata tenendo conto dei parametri stabiliti, per le controversie di valore indeterminabile, dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55, modificato dal D.M. 13 agosto 2022, n. 147. Infine, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dell'appellante, di un secondo importo a titolo di contributo unificato, pari a quello già previsto per l'introduzione del giudizio, salva la ricorrenza del diritto all'esenzione. P.Q.M. LA CORTE D'APPELLO respinge l'appello e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata. Condanna l'appellante alla rifusione delle spese sostenute dall'amministrazione appellata per questo grado di giudizio, liquidate in Euro 3.500,00 per compenso professionale, oltre a IVA e al contributo ex art. 11 della L. n. 576 del 1980, e oltre al rimborso delle spese generali, pari al 15% del compenso liquidato. Visto l'art. 13, comma 1-quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto che l'appellante è tenuta a versare un secondo contributo unificato, d'importo pari a quello previsto per l'introduzione del giudizio, salva la ricorrenza del diritto all'esenzione. Così deciso in Perugia il 5 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA III SEZIONE LAVORO Composta dai Magistrati: Dott.ssa Maria Gabriella Marrocco - Presidente Dott. Vincenzo Turco - Consigliere relatore Dott. Enrico Sigfrido Dedola - Consigliere il giorno 8 marzo 2023, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 4163/2018 del Ruolo Generale Civile - Lavoro e Previdenza TRA (...), nata a R. il (...), rappresentata e difesa per procura in atti dall'Avv. Ba.Di. APPELLANTE E (...) S.P.A., C.F. (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa per procura in atti dagli Avv.ti Ch.Pe. e Gi.Pe. APPELLATA OGGETTO: appello avverso la sentenza n. 158/2018 del Tribunale di Rieti - Sezione Lavoro - pubblicata il 20.09.2018, non notificata SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE Con ricorso di primo grado, (...), dipendente della (...) S.p.a. dal 1988 con contratto di lavoro a tempo parziale per 24 ore settimanali, poi ridotte a 22,50 ore dal 31.10.2003, per svolgere mansioni di addetta all'insieme delle operazioni di ausiliaria di vendita con promiscuità di mansioni (contratto di atti), agiva al fine di far accertare l'illegittimità della condotta datoriale infra indicata, qualificata come mobbing, e di ottenere la condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno, nei termini meglio precisati nelle conclusioni dell'appello riportate nell'intestazione. A tal fine la lavoratrice deduceva una pluralità di condotte vessatorie, sia manifeste che subdole, di atteggiamenti ostili e di provvedimenti lesivi, denunziando in particolare: di avere lavorato presso il punto vendita di Rieti; di essere stata costretta ad incarichi inadeguati e ad assumere mansioni incongrue fino a rimanere isolata; che nonostante il contratto di assunzione prevedesse che l'attività lavorativa si dovesse svolgere in determinati orari, questi non erano mai stati rispettati dall'azienda e venivano unilateralmente modificati e comunicati il venerdì o il sabato per la settimana successiva; che ciò non le consentiva di organizzare la sua vita fuori dal lavoro; che a fronte delle sue lamentele le veniva risposto "è così e basta"; che tali imposizioni avevano compromesso nel tempo il suo stato psico-fisico tanto che era ricorsa all'ausilio del Dipartimento Salute Mentale, che ne aveva riscontrato la sofferenza con relazione dell'11.9.2013; che aveva adìto la DTL ma il tentativo di conciliazione aveva avuto esito negativo; che dal 2010, divenuto (...) direttore del punto vendita ove essa operava, il rapporto di lavoro aveva subito un progressivo deterioramento; che veniva sistematicamente richiamata appena si alzava dal posto di lavoro, a differenza di altri dipendenti nei confronti dei quali veniva tollerata ogni irregolarità lavorativa; che le erano state contestate piccole differenze di cassa, mentre in casi ben più gravi riguardanti altri dipendenti ciò non era avvenuto; che nell'estate del 2012 non le era stato consentito tenere una bottiglietta di acqua vicino alla cassa, come le era stato comunicato dalla sig.ra (...), mentre le "solite persone" potevano consumare bevande di ogni tipo senza essere rimproverate; che era stata ripresa per aver fatto la spesa e averla riposta sotto la cassa, mentre ad altri colleghi ciò era consentito senza alcun richiamo; che le era capitato di alzarsi per motivi di salute, ma ciò le era stato impedito di fronte ai clienti; che ogni volta che era in difficoltà nello svolgimento del lavoro non veniva aiutata dalla dirigenza con spiegazioni e consigli per risolvere le problematiche e ciò anche in mancanza assoluta di istruzioni preliminari e di corsi di aggiornamento; che il 22/1/2014 era stata dichiarata idonea allo svolgimento delle mansioni con "turni di lavoro solo in cassa per max 4 ore al dì"; che la direzione aveva ripetutamente disatteso tale prescrizione imponendole orari e mansioni in contrasto con le indicazioni mediche; che, rientrata in servizio dopo la visita del medico competente, in data 25/1/2014, era stata adibita al reparto gastronomia dove era scivolata su una velina da incarto ed era stata subito trasportata presso l'Ospedale di Rieti; che il trattamento vessatorio era aumentato da quando nel febbraio 2014 aveva testimoniato a favore di un collega nel procedimento intentato contro l'azienda; che nel mese di settembre/ottobre 2014, dopo aver ricevuto gli orari imposti in contrasto con le prescrizioni del medico competente, aveva ricevuto l'ordine di sollevare pesanti cartoni al solo fine di ledere la sua stabilità psico-fisica e pertanto era scoppiata in un pianto dirotto; che il 20/1/2014 un prodotto non passava allo scanner e le era stato mandato dalla direzione uno spazzolino da bagno da passare allo scanner in quanto aveva lo stesso prezzo;che nel giugno 2014 un cliente la aveva vista piangere per l'ennesima volta e ne aveva chiesto il motivo alla sig.ra P., che gli aveva risposto che non sapeva spiegarsi il motivo per cui l'azienda si fosse accanita così tanto nei suoi confronti; che il 26/7/2014 le era stato ordinato di spolverare gli scaffali per 4 ore e di operare in cassa per altre 4 ore in violazione delle prescrizioni del medico competente; che il 30/7/2014 aveva terminato le monete necessarie per dare il resto ai clienti e le aveva chieste alla sig.ra (...), che le aveva risposto con veemenza dicendole che ci doveva pensare da sola, cosa che l'aveva fatta scoppiare a piangere in presenza di una cliente; che il 16/8/2014 alle ore 9.30 era stata informata dal direttore che avrebbe dovuto lavorare 4 ore nel reparto profumeria e poi 4 ore in cassa ed era scoppiata a piangere mentre riforniva gli scaffali sotto il controllo del collega (...); che il 26/9/2014 era stata coinvolta in un sinistro mentre si recava al lavoro e lo aveva comunicato al punto vendita e (...), avuta tale comunicazione, aveva detto alle clienti in fila "questa cassiera non ci sta mai, è sempre assente! Le succede sempre tutto per non lavorare"; che il 18/11/2014 era arrivata con un minuto di ritardo e la (...) la aveva assalita con fare minaccioso e sproporzionato e anche in questo caso aveva avuto una forte crisi di pianto e il direttore (...) le aveva accordato un giorno di ferie; che il 29/11/2014 alle 9.35 era in malattia per ansia depressiva reattiva e si era recata a prendere i farmaci presso il bar del marito, dove aveva notato una persona che la osservava; che il 20/12/2014 aveva svolto orario 9.30-13.30 e 16.00-20.00 e la mattina aveva operato presso il reparto profumeria ma non era riuscita a riportare all'interno del magazzino una pedana perché esausta e fortemente provata per le direttive impartite; che il 27/12/2014 aveva svolto 7.20 ore di attività in cassa; che il 27/12/2014 aveva chiesto al direttore (...) il motivo per cui non fosse affisso il nome del referente dei lavoratori per la L. n. 626 e il direttore non si era attivato per risolvere il problema; di avere lavorato talora lavorato ad una delle casse in posizione rivolta contro il muro così da non avere contatti con i colleghi. La (...) S.p.a. resisteva replicando puntualmente nel merito contestando sia quanto ex adverso dedotto in ordine ai singoli episodi sia la ricostruzione fattuale e giuridica della vicenda da parte della lavoratrice, chiedendo il rigetto della domanda. Il Tribunale ha respinto il ricorso ritenendo che dall'istruttoria testimoniale espletata non fossero emersi come provati i fatti posti a fondamento della domanda. In particolare, secondo il Tribunale, tutti i testi di parte convenuta hanno negato la presenza di asserite condotte vessatorie poste in essere a danno della ricorrente, nonché l'asserita disparità di trattamento con intento persecutorio, mentre i testi di parte ricorrente sarebbero per un verso inattendibili e per un altro verso irrilevanti. Quanto alla documentazione medica prodotta dalla ricorrente, il Tribunale ritiene che, a prescindere dalla genericità della stessa con riferimento ai fatti di causa, ciò che emerge è che la ricorrente fosse affetta da disturbi di carattere ansioso-depressivo in epoca antecedente a quella per cui è causa. In senso contrario, aggiunge il Tribunale, nessuna rilevanza assume il collegamento ipotizzato nella relazione medica tra un aggravamento della patologia e l'ambiente lavorativo della ricorrente, in quanto nel corso del giudizio non è stata dimostrata l'esistenza di un evento dannoso (condotte mobbizzanti) nei confronti della ricorrente, il cui accertamento costituisce un antecedente logico rispetto a quello relativo al nesso di causalità con il danno asseritamente subito. La (...) ha impugnato la sentenza, deducendo in sintesi: A) omessa o erronea valutazione della documentazione medica proveniente dalla struttura pubblica e delle relazioni medico-legali e dell'ulteriore documentazione depositata; B) omessa motivazione sulla mancata ammissione della ctu da parte del giudice a scioglimento della riserva assunta all'udienza del 4.7.2017; violazione dell'art. 24 Costituzione; C) omessa ed errata valutazione delle prove, chiedendo anche l'ammissione di un nuovo mezzo di prova indispensabile ai sensi dell'art. 437 c.p.c., cioè la prova documentale rappresentata da una registrazione audio-video nella quale un teste escusso in primo grado avrebbe rilasciato dichiarazioni favorevoli alla appellante, dimostrando altresì la propria inattendibilità; D) contraddittorietà della motivazione, laddove da una parte il Tribunale afferma che l'appellante è affetta da disturbi di carattere ansioso depressivo in epoca antecedente a quella per cui è causa, dall'altra non riconosce alla lavoratrice una relativa tutela del bene salute, sicché "la Curia di primo grado da una parte riconosce che la lavoratrice era affetta da patologia, ma dall'altro non censura la condotta del datore posta in violazione di legge"; E) omessa e/o erronea ricostruzione dei fatti, violazione e/o falsa applicazione della legge avendo la lavoratrice documentato e provato per testi la sussistenza di comportamenti illeciti di parte datoriale reiterati sistematicamente e secondo i caratteri del mobbing, cioè in sostanza i fatti costitutivi della responsabilità datoriale, completa di tutti i suoi connotati oggettivi e soggettivi. Per tali ragioni, l'appellante ha insistito nell'accoglimento della domanda come da conclusioni riportate in epigrafe. La (...) si è costituita anche in appello, eccependone l'inammissibilità ai sensi dell'art. 434 c.p.c. e replicando nel merito dei motivi di gravame, contestando quanto dedotto dall'appellante e concludendo come in epigrafe riportato. All'udienza dell'8 marzo 2023 la causa è stata decisa come da separato dispositivo di seguito trascritto. Per quanto attiene all'eccezione di inammissibilità dell'appello, le doglianze dell'appellante identificano con sufficiente precisione i ritenuti errori di giudizio della motivazione, come sopra sintetizzati, risultando dedotte con un grado di precisione sufficiente a smentire l'eccezione dell'appellata, e questo a prescindere dalla tenuta intrinseca dei motivi, dei quali si passa subito a dire. Nel merito, l'appello è infondato sulla scorta delle seguenti più liquide ragioni. Va anzitutto evidenziato che la conformazione della domanda, operata attraverso l'esame globale del ricorso introduttivo, porta inequivocabilmente a ravvisare la causa petendi della domanda in un mobbing. Tale interpretazione si impone: in base al tenore stesso delle espressioni usate ("sin da pagina 1 del ricorso, in cui le dedotte vessazioni sono finalmente condotte a "ravvisare una vera e propria fattispecie di mobbing"; in base alla enumerazione degli "episodi più significativi" di cui alle pagine 4,5,6,7,8,9,10,11, e 12 del ricorso, logicamente presentate come indici della condotta mobbizzante sin dal titoletto a pag. 4("Questi i fatti e gli episodi più significativi"); dalla adduzione conclusiva a pagina 12 ("I fatti sopra dedotti integrano senz'altro una fattispecie di mobbing"); dalla argomentazione del mobbing in relazione agli elementi integrativi di tale figura sviluppata sino alle conclusioni. Non vi è dunque spazio, ad avviso della Corte, per una configurazione di danno in relazione ai singoli episodi in sé e per sé considerati, a disdoro della laconica deduzione che chiude la prima delle conclusioni, dacché, si ripete, tutta l'allegazione e l'ordito argomentativo sono incentrati sulla figura unitaria del mobbing. D'altra parte, proprio dalla pluralità e significatività dei singoli episodi la tesi della (...) trae tutta la propria forza. La (...) avrebbe dovuto quindi provare il contesto fattuale sulla cui base avanza la domanda risarcitoria. Il datore di lavoro, però, ha contestato i fatti uno per uno e in modo alquanto specifico, negandoli nella loro materialità e significanza. La lavoratrice, di contro, non ha fornito la prova del contesto fattuale di cui sopra (salvo che per un modesto scollamento rispetto alle prescrizioni di un giudizio di idoneità alla mansione, su cui infra). Quanto alla prova per testi, il Tribunale, oltre a rilevare che tutti i testimoni addotti da (...) s.p.a. ((...), (...), (...), (...)) hanno negato la presenza di condotte vessatorie in danno della (...), nonché l'asserita disparità di trattamento con intento persecutorio, ha affermato che "per quanto riguarda, invece, i testi di parte ricorrente, essi sono per un verso inattendibili e per un altro verso irrilevanti", ed ha motivato da pagina 3 a pagina 6 della sentenza tale giudizio, con specifico riferimento ai testi (...), (...), (...) e (...), esternando compiutamente per ciascuno di essi i motivi della propria valutazione. L'appellante, però, non ha contestato tale giudizio né tantomeno le singole circostanze e deduzioni in base alle quali il Tribunale ha motivato il proprio giudizio di irrilevanza o inattendibilità, né questa Corte ritiene di dissentire autonomamente da tale giudizio, che appare condivisibile e correttamente motivato. Da tutto ciò deriva che, sul piano della prova testimoniale, i fatti allegati dalla (...) non sono stati provati. Tali fatti non emergono neppure dalla documentazione prodotta dalla (...). L'appellante fa ad essi un riferimento generico, affasciandoli nella doglianza che il Tribunale avrebbe omesso ogni valutazione su "certificazioni mediche, relazioni ciniche, verbali di pronto soccorso, prescrizioni di visite specialistiche, richieste di consulenze mediche con relativi esiti, certificati medici di infortunio, nonché relazione medico legale sulla persona della ricorrente", salvo un accenno appena un pò più specifico alla relazione peritale a firma del prof. Dott. E.M., a suo dire "incontrovertibile". In realtà, la documentazione medica attesta soltanto le patologie accusate dalla (...), ma non prova di certo i fatti e le condotte ascritte al datore di lavoro, né ovviamente possono per tale via assumere valore probatorio le anamnesi che altrimenti veicolerebbero la rappresentazione della parte in causa, priva da sola di rilevanza probatoria. D'altra parte, l'appellante avrebbe dovuto concretamente indicare quali specifiche circostanze di fatto dovrebbero desumersi da tale "documentazione medica" e quale fatto direttamente rappresentativo dell'illecito del datore di lavoro tale documentazione concretizzerebbe, e ciò non ha fatto. In fondo, il senso del rilievo effettuato dal Tribunale secondo cui non è stata dimostrata l'esistenza di un evento dannoso (condotte mobbizzanti) nei confronti della ricorrente, il cui accertamento costituisce un antecedente logico rispetto a quello relativo al nesso di causalità con il danno asseritamente subìto, rappresenta appunto il giudizio di irrilevanza della documentazione in quanto da sola non idonea a riscontrare il fatto ingiusto lamentato. Altre circostanze rappresentative di quanto asserito dall'appellante non emergono dai documenti, oppure non hanno la valenza dimostrativa da questa pretesa, come le fotografie che ritrarrebbero la (...) mentre spazza (secondo l'appellata una messa in scena), dato che nessuna circostanza esterna accredita la verità della scena rappresentata. L'unico fatto emerso, tra i tantissimi esposti dalla (...), è un modesto scollamento rispetto alle prescrizioni del medico competente, che la (...) evidentemente assumeva ancora nella sua valenza sintomatica del mobbing (cfr. lett. G) del ricorso ex art. 414 c.p.c.). A tale riguardo, va anzitutto precisato che la (...) era stata assunta per svolgere mansioni di addetta all'insieme delle operazioni di ausiliaria di vendita con promiscuità di mansioni (contratto di atti), dunque l'attività di rifornimento di scaffali non costituiva di per sé sola un inadempimento del datore di lavoro (cfr. Cass. sez. VI, 03/11/2022, n. 32423); né è emersa prova della adibizione dell'appellante ad altre mansioni meno qualificate. Ma poi, lo svolgimento di mansioni diverse dall'adibizione alla cassa era limitato in pratica alle 4 ore in cui, una volta soltanto alla settimana, l'appellante lavorava per otto ore. In queste sole occasioni, e con la intenzione di dare seguito alla prescrizione, le veniva affidato anche l'altro compito. L.C. ha dichiarato: "Io non potevo accontentarla e mi dovevo attenere alle indicazioni aziendali per cui le ore eccedenti le 4 doveva essere adibita a un altro lavoro perché non poteva stare in cassa. In quelle 4 ore normalmente la mettevamo al reparto profumeria, perché i colli da rifornire sono meno pesanti. Andava a rifornire il banco profumeria. Il rifornimento consiste nel fatto che le veniva preparato un carrellino con i prodotti e lei doveva prelevare prodotti dal carrellino e metterli sullo scaffale. Alle volte poteva spostare anche i colli per avvicinarsi al banco. Eravamo noi che le dicevamo di fare questo lavoro. La ricorrente lamentava il fatto che non riusciva ad arrivare agli scaffali alti e così le abbiamo portato una scaletta e poi si è lamentata della pedana. Il carrellino era solo una delle possibili modalità di esecuzione del rifornimento. L'altra era che qualcuno le portasse nella corsia dell'area vendita la pedana con i prodotti sopra e lei alla stessa maniera del carrellino doveva prelevare i prodotti e rifornire gli scaffali. Si lamentava che non riusciva a portare la pedana e quindi qualcun'altro gliela portava". La modestia di tale impegno, sul piano quantitativo e qualitativo, e le cautele che lo accompagnavano, oltre che alla finalità esternata dal teste, sono circostanze che non confermano il dolo del datore di lavoro e destituiscono anche tale unico elemento di una valenza dimostrativa del mobbing, nonostante la discrepanza del compito rispetto alle prescrizioni (sulla rilevanza dell'intento persecutorio, vedi Cassazione civile, sez. lav., 15/05/2015, n. 10037). Manca dunque la prova del fatto ingiusto che dovrebbe reggere la tesi della lavoratrice. Sono anzi emerse numerose circostanze che non solo smentiscono l'appellante, ma accreditano la perfetta buona fede del datore di lavoro. Basti rilevare, anzitutto, come i testi della datrice di lavoro hanno sostanzialmente confermato che nel punto vendita di Rieti veniva seguita una turnazione su 7 turni ricoperti a rotazione dal personale che aveva lo stesso orario settimanale. Sulla conoscibilità di tali turni, l'E. direttore ha riferito che essi erano periodici e dati all'inizio del mese e facilmente calcolabili. Di più, la (...) direttore ha riferito che lei stessa aveva stampato all'appellante gli orari del 2015 fino a fine anno e che l'appellante neppure dava mai la disponibilità ai cambi turno, e la si lasciava nella sua turnazione normale; che i turni erano "a scalare" proprio per dare al dipendente la possibilità di organizzare la vita privata. La (...) dipendente responsabile casse ha riferito che un direttore (E.) dava i turni all'inizio del mese per tutto il mese, e successivamente venivano dati almeno 15 giorni prima e le turnazioni erano sempre le medesime; in termini analoghi la teste P. dipendente. Quanto all'entità dell'impegno, i testi hanno confermato che la appellante faceva il turno di 8 ore soltanto una volta alla settimana, e la (...) ha precisato che in tale occasione l'appellante era destinata al reparto profumeria, perché i colli erano meno pesanti e di piccole dimensioni; in pratica l'appellante prelevava i prodotti dal carrello e li metteva sullo scaffale; la (...) ha poi chiarito che nessuno vietava alla di (...) di bere, ma non era consentito bere e mangiare davanti ai clienti; che la (...) era stata ripresa perché accantonava la spesa vicino alle casse, e, ad ulteriore smentita di una disparità di trattamento, a differenza di un'altra dipendente non fu per questo sanzionata; altre dichiarazioni similari hanno escluso che vi fosse impedimento ad allontanarsi dalla postazione per soddisfare bisogni fisiologici. Dalle testimonianze di parte datoriale è anche emerso che le procedure erano affisse nella bacheca aziendale. E circa una disparità di trattamento per gli acquisti personali, sia (...) che la (...) hanno escluso che il primo facesse acquisti per altra dipendente (...). Altre dichiarazioni rese dai testi di parte datoriale hanno ancora smentito altri addebiti ovvero ne hanno chiarito il senso escludendo la valenza dedotta dalla (...). Quanto ai riferiti episodi di pianto, la facilità al pianto della (...) accertata dalla commissione medica (verbale del 4.2.2016) destituisce di fondamento tale suggestivo elemento, indotto nella tesi difensiva. Né occorre indugiare sulla preesistenza di problematiche psichiche dell'appellante, perché la circostanza è resa irrilevante dalla mancanza di prova circa il fatto ingiusto. In sostanza, non soltanto la (...), che ne era onerata secondo i principi, non ha provato la materialità dei fatti, ma quasi tutti sono stati smentiti o ridotti a ben altra valenza dai testi, dei quali il Tribunale ha ritenuto l'attendibilità. Come si ripete, l'appellante non ha invece confutato la valutazione di inattendibilità dei dichiaranti da sé addotti, che il giudice di primo grado ha invece motivato sulla base di puntuali rilievi e considerazioni. Il risultato di tutto ciò è che la (...) non ha provato quanto allegato a sostegno della responsabilità datoriale. Va quindi ricordato che ai fini della configurabilità di una condotta datoriale mobbizzante, la giurisprudenza richiede il riscontro di una pluralità di elementi come la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il dislivello tra gli antagonisti, l'andamento secondo fasi successive, l'intento persecutorio (ex multis Cassazione civile, sez. lav., 15/05/2015, n. 10037). Tra l'altro, la giurisprudenza è assolutamente consolidata nel ritenere che neppure plurime condotte datoriali illegittime sarebbero sufficienti per configurare il mobbing, essendo necessario, a tal fine, che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali costituiscono il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cassazione civile, sez. lav., 03/06/2022, n. 17974). Viene infatti ripetutamente affermato che in ipotesi di mobbing non è sufficiente l'accertamento dell'esistenza esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, in quanto è necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cassazione civile, sez. lav., 27/04/2022, n. 13183; Cass., sez. lav., 04/03/2021, n. 6079). Ebbene tali elementi non ricorrono nella fattispecie, in quanto non solo gli episodi descritti dalla ricorrente, salvo uno, non sono stati dimostrati, ma neppure emergono elementi idonei a riscontrare l'animus richiesto dalla citata giurisprudenza in capo al datore di lavoro. In ultimo, la Corte ritiene di non potere ammettere il mezzo di prova prodotto in appello dall'appellante, e cioè " una registrazione audio video nel corso del quale il teste A., contraddicendo e smentendo quanto testimoniato a favore della resistente nel corso del giudizio di primo grado, conferma quanto lamentato dalla lavoratrice". L'appellata si è opposta a tale produzione, eccependo trattarsi di un'intervista rilasciata dall'(...) ad un'emittente abruzzese (tra l'altro non prodotta integralmente), in cui il predetto narrerebbe le sue vicende personali con l'azienda, facendo delle considerazioni personali sulla politica di riduzione del personale (ma riferendosi a direttori e a capireparto), e che in ogni caso si tratterebbe di un documento irrilevante sia perché non avrebbe nulla a che vedere con il punto vendita di Rieti sia perché non si riferisce al periodo per cui è causa sia perché non vi è alcun accenno a presunti comportamenti vessatori attuati nei confronti della appellante (né viene indicato esattamente cosa l'(...) avrebbe dichiarato a favore della (...)), sia perché non è stata neppure indicata la data dell'intervista. Osserva la Corte che tale prova non è in radice ammissibile, prima ancora che per difetto di indispensabilità, perché finirebbe per veicolare in sede processuale, quale dichiarazione, quanto detto fuori del giudizio, peraltro da un soggetto già sentito come teste. E il nome dell'(...) neppure compare tra i nomi dei testi dei quali l'appellante chiede la escussione in questo grado. Ove poi tale registrazione volesse ritenersi idonea a sconfessare l'attendibilità del teste, osserva la Corte che, a parte la contraddizione tra l'asserita inattendibilità del teste e il valore che l'appellante attribuisce invece alle dichiarazioni dell'intervista a sé favorevoli, tale inattendibilità né inficerebbe da sola quella degli altri testi di parte datoriale, né comunque supererebbe la mancata dimostrazione del fatto ingiusto da parte dell'attrice. Infine, osserva la Corte che l'appellante, dopo l'ordinanza di primo grado con la quale il giudice ritenne sufficientemente istruita l'istruttoria, non insistette più per la prosecuzione della prova testimoniale, né in questo grado argomenta concretamente il motivo per cui dovrebbe essere rinnovata l'istruttoria. Tutto quanto detto induce a respingere l'appello, con assorbimento degli altri motivi ed istanze. Le spese seguono la soccombenza e vanno determinate come in dispositivo. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, va dichiarata la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dell'appellante dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per l'impugnazione, se dovuto. P.Q.M. Respinge l'appello confermando integralmente l'impugnata sentenza. Condanna l'appellante al pagamento delle spese di lite del grado di appello, determinate in Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15%, iva e cpa. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dell'appellante dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per l'impugnazione, se dovuto. Così deciso in Roma l'8 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 14 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. APRILE Ercole - Presidente Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombrett - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli nord; nel procedimento penale a carico di: (OMISSIS), nata (OMISSIS); avverso l'ordinanza del 18/11/2022 del Tribunale di Napoli; visti gli atti, l'ordinanza impugnata e il ricorso; udita la relazione del consigliere Dr. Ombretta Di Giovine; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Venegoni Andrea il quale conclude chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Napoli, adito ai sensi dell'articolo 310 c.p.p., accoglieva l'appello di (OMISSIS). Revocava quindi nei suoi confronti la misura interdittiva temporanea dall'attivita' di Dirigente scolastico applicata, per la durata di dodici mesi, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli nord, in relazione al delitto di maltrattamenti in famiglia (articolo 572 c.p.) nei confronti di una docente dell'Istituto scolastico ( (OMISSIS)), negando la configurabilita' del delitto. 2. Avverso l'ordinanza ha presentato ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli nord, articolando due motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo di ricorso, e' dedotta erronea applicazione della legge penale, in relazione ai seguenti aspetti. I giudici hanno escluso la natura para-familiare del rapporto tra maltrattante e maltrattata sulla base delle dichiarazioni dell'indagata, la quale ha riferito che la scuola ha notevoli dimensioni, constando di complessivi centocinquanta docenti. Tuttavia, e premesso che il requisito in oggetto va parametrato sul momento non quantitativo, bensi' qualitativo del rapporto di lavoro, da fonti aperte, quali il sito istituzionale della scuola, emerge come questa sia distinta in tre plessi e che nel plesso principale sono presenti soltanto quarantadue docenti della scuola primaria e ventisei insegnanti di sostegno; le dichiarazioni di alcuni testi confermano oltretutto che i plessi hanno vita autonoma e che la dirigente si reca in quelli distaccati solo occasionalmente. Non emerge, inoltre, dagli atti del fascicolo che l'istituto, come invece sostenuto nell'ordinanza impugnata, sia fortemente sindacalizzato. Neppure vale ad escludere la configurabilita' del reato, infine, la qualifica di pubblico dipendente della persona offesa. Ancora, non appare corretto ridurre i gravi comportamenti di (OMISSIS) ad una mera sua "caratterialita' negativa" ovvero definirle condotte che "per quanto debordate in maniera del tutto inaccettabile nei toni e nei modi" "siano espressione del suo potere funzionale di controllo", poiche' tali affermazioni non corrispondono alle risultanze delle indagini, avendo tutti i testimoni escussi confermato il racconto della persona offesa, comunque lineare e credibile. Il Tribunale avrebbe poi erroneamente interpretato la fattispecie dei maltrattamenti negando la sussistenza dell'elemento soggettivo poiche' la condotta di (OMISSIS) non era intenzionalmente e coscientemente volta a vessare. In tal modo finisce pero' con il richiedere un dolo intenzionale, laddove la fattispecie e' a dolo generico, con la conseguenza che per la sua integrazione e' sufficiente la coscienza la volonta' di sottoporre la persona offesa alla propria condotta abitualmente offensiva. 2.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione. I giudici incorrono in contraddizione ove riconoscono la natura prevaricatrice delle condotte poste in essere dall'indagata e ritengono, cio' nondimeno, che, non essendo violente, tali condotte non integrino il reato. Sul punto delle esigenze cautelari, nel provvedimento impugnato si argomenta come il trasferimento di (OMISSIS) in un istituto scolastico collocato in un territorio meno difficile nonche' l'efficacia asseritamente deterrente del procedimento disciplinare rappresentino indice sicuro della non reiterazione delle condotte da parte dell'indagata. Per contro, da un lato, la sanzione disciplinare non sarebbe ancora stata irrogata ed il provvedimento sarebbe ancora impugnabile; dall'altro lato, non dovrebbe trascurarsi che nel nuovo istituto scolastico e' stata trasferita una docente, anch'ella querelante, con provvedimento di trasferimento anteriore a quello di (OMISSIS). In ogni caso, il collegio ha trascurato di valutare in concreto la gravita' delle condotte, il pericolo intenso per l'incolumita' collettiva generata dai comportamenti dell'indagata e il giudizio prognostico negativo riguardo all'astensione dalla commissione di ulteriori gravi delitti. 3. La difesa dell'indagata, avvocato (OMISSIS), presenta note conclusive in cui aderisce alla valutazione di inammissibilita' del ricorso espressa dal Procuratore Generale della Cassazione, sulla base del presupposto che la valutazione sulla insussistenza del requisito della "para-familiarita'", necessario affinche' il mobbing lavorativo possa essere sussunto all'interno dell'articolo 572 c.p., coinvolge elementi di fatto il cui apprezzamento e' precluso alla conoscenza del giudice di legittimita'. Quanto al resto, il ricorrente non si sarebbe confrontato con elementi per contro valorizzati nella sentenza impugnata, quali: la circostanza che l'istituto scolastico era di grandi dimensioni, come comprovato dal certificato dell'ufficio scolastico regionale (che allega); la peculiarita' del rapporto con la persona offesa, inizialmente coadiutrice della Dirigente; la difficolta' nella gestione dell'istituto in considerazione della sua complessita' organizzativa. Ancora, si ritiene la motivazione dell'ordinanza immune dal vizio di contraddittorieta' rilevato - sulla base di una lettura parziale e decontestualizzata - dal pubblico ministero ricorrente, quanto all'elemento soggettivo (i giudici avendo per contro specificato che il dolo dei maltrattamenti e' generico e argomentato congruamente su tale aspetto). In punto di esigenze cautelari, si insiste sul fatto che il trasferimento di (OMISSIS) in altro Istituto incide sul rischio di reiterazione del reato, ipotizzato nei confronti della sola insegnante (OMISSIS), e si sottolinea come, contrariamente a quanto affermato dal pubblico ministero, la sanzione disciplinare e' stata applicata, precisando che l'impugnabilita' del provvedimento disciplinare non puo' incidere sull'efficacia deterrente di una misura gia' irrogata ed eseguita. 4. Il procedimento e' stato trattato in forma cartolare, ai sensi del Decreto Legge n. 137 del 2020, articolo 23, comma 8, convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, e del Decreto Legge 30 dicembre 2021, n. 228, articolo 16, comma 1, convertito dalla L. 25 febbraio 2022, n. 15. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso e' inammissibile. 2.1. Con riferimento alla possibilita' di inquadrare le condotte realizzate dall'indagata all'interno della fattispecie di maltrattamenti in famiglia (articolo 572 c.p.), questo giudice di legittimita' ha da tempo riconosciuto che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto mobbing) sono suscettibili di integrare il delitto di maltrattamenti. Cio', tuttavia, puo' accadere entro le precise e strette condizioni imposte dal dato positivo dell'articolo 572 c.p., e cioe' soltanto la' dove il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto piu' debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (tra le altre, Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018, M., Rv. 272804; Sez. 6, n. 24642 del 19/03/2014, L.G., Rv. 260063, in cui e' stata esclusa la configurabilita' del reato in relazione alle condotte poste in essere, rispettivamente, dai superiori in grado nei confronti di un appuntato dei Carabinieri e da un sindaco nei confronti di una funzionaria comunale. Vd. inoltre, Sez. 6, n. 24057 del 11/04/2014, Marcucci, Rv. 260066, che ha invece ravvisato i maltrattamenti in capo al titolare di un'impresa agricola nei confronti di alcuni dipendenti di nazionalita' rumena ospitati nella struttura, e ridotti in una situazione di estremo disagio quanto al vitto, all'alloggio ed alle condizioni igieniche). E', infatti, appena il caso di ribadire che la fattispecie in oggetto presuppone una situazione di "affidamento" quale si verifica naturalmente in ambito familiare e che, al di fuori di questo, puo' inverarsi in contesti comunque circoscritti e segnati da netta asimmetria di poteri e posizioni, non "compensabile" da parte del soggetto debole, aggiungendo che, laddove non sussistano i maltrattamenti, possono comunque astrattamente ricorrere diverse ipotesi di reato. 2.2. Tanto premesso, l'ordinanza impugnata appare esente dalle censure dedotte dal ricorrente. Quanto al primo motivo di ricorso, i giudici del riesame hanno revocato in dubbio, nel caso di specie, la sussistenza del citato requisito della para-familiarita' ricorrendo a valutazioni di fatto il cui sindacato sfugge al giudice di legittimita' e attraverso un'argomentazione ampia che, contrariamente a quanto denunciato dal ricorrente, risulta completa, puntuale e coerente. L'ordinanza impugnata richiama, infatti, plurimi indici - non certo meramente quantitativi - quali: l'oggettivo dato dimensionale, l'istituto scolastico componendosi di ben quattro plessi con classi di vario ordine grado e vedendo esso in servizio oltre 130 docenti (piu' personale ATA ed ausiliario), tra le varie categorie scolastiche, dei quali circa 75 in servizio presso il solo plesso principale, che e' peraltro collegato ad un secondo attraverso un passaggio interno; la sindacalizzazione della struttura lavorativa, tant'e' - chiosano - che lo stesso procedimento disciplinare ai danni della dirigente venne intrapreso su esposto anche di una sigla sindacale degli insegnanti; la circostanza che la persona offesa fosse lavoratore in servizio con contratto di pubblico impiego a tempo indeterminato, come tale caratterizzato da forti garanzie, che permangono nonostante le innovazioni normative, le quali hanno fortemente valorizzato il ruolo del dirigente scolastico, accrescendo prerogative e poteri. Peraltro, sempre secondo il provvedimento impugnato, non soltanto nel caso in esame difetterebbe la particolare situazione di affidamento di un soggetto debole nei confronti del "garante", che - come ribadito - rappresenta il presupposto della condotta. Nel ritenere "evidente la necessita' di approfondimenti in ordine alla (...) effettiva capacita' (dei comportamenti di (OMISSIS)) di inserirsi in un insieme sistematico di condotte oggettivamente persecutorie, ispirate da preciso intendimento volitivo in tal senso, nonche' durature e continuative", i giudici, hanno anche, per un verso, revocato in dubbio la necessaria abitualita' dei comportamenti dell'indagata (comportamenti la cui gravita', incidentalmente, colgono appieno, osservando, infatti, come le singole condotte possano in astratto integrare illeciti disciplinari o anche differenti ipotesi di reato); per altro verso, escluso, la sussistenza del dolo che, nella fattispecie in esame e sulla scorta del consolidato insegnamento di questa Corte di legittimita', peraltro richiamato testualmente, ha forma generica, in quanto consiste nella volonta' di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneita' delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, e che, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se puo' realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l'agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C., Rv. 260411). Prima ancora, invero, il Tribunale del riesame - con motivazione anche sul punto affatto completa e non illogica - ha espresso apprezzamenti, anch'essi non sindacabili da questa Corte, sul merito del compendio indiziario. Dubita, in particolare, della declinazione realmente "maltrattante" delle condotte dell'indagata o, per meglio dire, esprime perplessita' in ordine alla perfetta credibilita' della persona offesa, osservando come i riscontri esterni alle sue dichiarazioni provenissero da altri querelanti, parimenti affetti da risentimento e desiderio di rivalsa verso la dirigente, e che, per contro, non erano mancate dichiarazioni di altri insegnanti tese invece ad elogiare l'operato della (OMISSIS) o che mostravano di comprendere le problematiche sottese alla gestione dell'istituto e, dunque, le ragioni dell'animosita' della dirigente. Reputa, infine, generico il contenuto della certificazione medica prodotta da (OMISSIS) (la quale, dopo un diverbio con la dirigente, si era recata al Pronto Soccorso dove le fu certificato uno stato di forte agitazione con annotazioni di riferita cefalea e tachicardia). 3. Assorbito dalle osservazioni appena svolte sulla insussistenza del profilo indiziario risulta il secondo motivo di ricorso, che concerne le esigenze cautelari, con riguardo al pericolo di reiterazione del reato, la cui insussistenza appare, comunque, compiutamente e logicamente argomentata dai giudici del riesame, sia valorizzando il dato del trasferimento di (OMISSIS) in altro istituto scolastico (peraltro in contesto ambientale assai meno problematico di quello in cui aveva operato), sia alla luce dell'effetto - con ogni probabilita' mitigatore di eventuali spinte a delinquere - dell'avvenuta applicazione, nei confronti dell'indiziata, di una sanzione disciplinare (sospensione dal servizio e dallo stipendio per sette giorni). P.Q.M. Dichiara il ricorso inammissibile.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE LAVORO nelle persone dei seguenti magistrati: dott.ssa Silvia Marina Ravazzoni - Presidente est. dott.ssa Benedetta Pattumelli - Consigliere dott.ssa Giulia Dossi - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa civile in grado di appello avverso la sentenza del Tribunale di Milano (est. dr.ssa GIGLI) n. 229/2022 nella causa RG 479/2021 pubblicata il 4.2.2022 promossa da: (...) con l'avv. GI.VE. e l'avv. ES.CA., elettivamente domiciliata in MILANO via (...) parte appellante contro AZIENDA (...) S.P.A., con l'avv. DO.LI. e l'avv. CH.CR., elettivamente domiciliata in MILANO Foro (...) parte appellata MOTIVI DELLA DECISIONE in fatto e in diritto Con sentenza depositata il 4.02.2022, il Tribunale di Milano in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando nella causa n. 479/2021 RG, promossa da (...) contro (...) spa, ha respinto- senza svolgere attività istruttoria- le domande della ricorrente, la quale, agiva per sentir accertare: A) di essere stata illegittimamente fatta oggetto di una serie di condotte di mobbing ad opera dei suoi superiori (in particolare dai sig.ri (...), (...), (...) e (...)), con la corresponsabilità e nell'assoluta inerzia della datrice di lavoro di (...) S.P.A. e che tale serie di condotte era stata sistematica, ripetitiva e si era sviluppata in un apprezzabile periodo temporale, con condanna di (...) al risarcimento dei danni biologici, morali, esistenziali e patrimoniali enunciati in ricorso e dimostrati con la documentazione e le perizie allegate, nelle misure indicate in ricorso. B) di essere stata erroneamente inquadrata nel periodo dal 1.12.2014 al 1.1.2020, o nel diverso periodo ritenuto di giustizia, nel parametro 116 anziché nel parametro 138, con condanna di (...) s.p.a. al risarcimento dei seguenti ulteriori danni nelle misure indicate in ricorso; C) in estremo subordine, che tali condotte (o alcune di esse), ancorché finalisticamente non accumunate, fossero, separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati, e che dalle stesse erano derivati i danni biologici, morali ed esistenziali e patrimoniali enunciati nell'atto introduttivo. Per l'effetto ha chiesto di condannare (...) s.p.a. al risarcimento dei danni conseguenti da liquidarsi nelle misure indicate in ricorso. Nel ricorso introduttivo del giudizio (...) ha in fatto esposto le seguenti circostanze: di essere stata assunta da (...) nel 2004 con la mansione di ausiliaria della sosta Operatore di mobilità parametro 138 area professionale 3, area operativa, servizi ausiliari per la mobilità; che tra gli anni 2004-06 aveva cominciato ad avere problemi di deambulazione a seguito di infortuni traumatici alle caviglie; che per tale motivo aveva richiesto nel 2007 un accertamento al medico preposto per vedersi assegnate mansioni più leggere e idonee al suo stato di salute, anche perché era affetta da diabete mellito di II tipo; che i medici avevano posto le seguenti limitazioni, -a novembre 2007 "pause di almeno un'ora ogni 3-4 ore di lavoro e borsello con contenuto minimo" (doc. 4); -a marzo 2008, in seguito all'aggravamento delle condizioni fisiche si ricorreva alla soluzione di adibire la sig.ra (...) ad "una settimana di lavoro all'esterno alternata ad una settimana all'interno" (doc. 5). Ha riferito quindi di essere stata adibita ad attività all'interno da febbraio 2009 per sei mesi e dal 2010 in via definitiva, e dal 2011 di essere stata addetta alle telecamere come videoterminalista. Ha lamentato molteplici condotte a suo dire vessatorie, che asseriva essere state poste in essere tra il 2013 e il 2018 che per sinteticità di esposizione possono raggrupparsi come segue: A) diniego di richieste di cambi turno nel periodo febbraio marzo 2008 (concessi 6 cambi su 10 richiesti); diniego di assegnazione a turno fisso pomeridiano per assistere la sorella, invalida con L 104 B) pressioni illegittime dei superiori per sottoporsi a nuove visite di idoneità, C) richiami disciplinari molto frequenti D) diniego di partecipazione a corsi E) telefonate dei superiori fuori orario di lavoro e in periodi di assenza per malattia F) (...) non era intervenuta a sua difesa quando aveva subito uno spintone da parte di un addetto del Comune. (Episodio del 2011) G) comportamenti di emarginazione e isolamento dai colleghi Si costituiva la società chiedendo il rigetto delle domande in quanto nel merito infondate ed eccependo: - la prescrizione quinquennale in relazione alle condotte riconducibili a responsabilità ex art. 2049 c.c. per le condotte comprese tra il 2008 be il 2015 (ricorso notificato il 18.1.2021) - in subordine in caso di violazione dell'art. 2087 c.c. la prescrizione decennale per le condotte relative al periodo 2008-2011. Sul piano istruttorio, inoltre, la difesa della società evidenzia in generale come il giudice abbia agito correttamente negando l'istruttoria in quanto il potere di ammettere le prove è discrezionale e, in particolare, nel caso di specie, la negazione dell'istruttoria dipende in sostanza dal fatto che essa avrebbe dovuto sopperire al mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte della ricorrente che non ha provato, oltre al danno, l'esistenza di condotte vessatorie e continuative volte alla estromissione. Il giudice di prime cure, fallita la conciliazione, richiamata la giurisprudenza relativa agli oneri di prova a carico del lavoratore nel giudizio avente ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno da mobbing, riteneva di non introdurre nel giudizio le prove testimoniali stante la genericità dei capitoli quanto al collocamento temporale e all'individuazione delle condotte. Il Tribunale osservava altresì che il ricorso era carente anche in merito alla prova del danno. Avverso detta sentenza ha proposto appello la lavoratrice affidando la propria difesa a due motivi. Con il primo motivo di gravame, l'odierna appellante ha criticato la decisione del Tribunale di non dar corso alla richiesta prova orale. A parere della difesa della ricorrente il giudice avrebbe dovuto verificare quanto denunciato accogliendo i numerosi capitoli di prova per l'ammissione dei quali insiste. Con il secondo motivo (...) ha lamentato l'omessa motivazione sulla lamentata "deparametrazione" e sulla conseguente richiesta di differenze retributive, evidenziando che nel ricorso di primo grado aveva esposto di aver ricevuto, in data 20.11.2014, una comunicazione della datrice di lavoro avente ad oggetto la modifica del parametro di lavoro, dal 138 al 116 (doc. 11). Tale deparametrazione sarebbe avvenuta in attuazione dell'Acc. Nazionale del 27 giugno 1986 che disciplina i rapporti con il personale fisicamente inidoneo. Nonostante ciò, la signora (...) continuava a svolgere le medesime mansioni assegnatele prima della deparametrazione e, in ogni caso, sosteneva che il parametro 116 non era comunque quello corretto. Con riguardo a tale domanda il giudice nulla aveva detto. Per questi motivi (...) ha chiesto l'accoglimento delle conclusioni sopra trascritte. Si è costituita per il gravame l'azienda (...) contestando la fondatezza dell'impugnazione avversaria e chiedendone il rigetto in quanto infondata ed evidenziando come le pretese di risarcimento avanzate dalla sig.ra (...) con riferimento a molte delle condotte vessatorie asseritamente subite siano oramai prescritte. All'udienza del 12.01.2023, all'esito della discussione dei difensori, la Corte ha deciso la causa come da dispositivo in epigrafe trascritto. Il primo motivo di gravame, concernente la mancata assunzione di prova testimoniale, è infondato e deve essere respinto. Prima di esaminare nel merito la doglianza, deve rilevarsi l'infondatezza della censura sollevata da (...) in relazione alla dedotta contraddittorietà delle decisioni istruttorie adottate dal primo giudice. Il Tribunale a maggio 21, quando (...) non era costituita ed era stata dichiarata contumace, aveva deciso di ammettere l'interpello del legale rappresentante di (...) e le prove di cui ai capitoli 10, 11, 22, 35, 37, 69, riservandosi all'esito ulteriori eventuali provvedimenti. Successivamente alla costituzione della resistente, a seguito di provvedimento di remissione in termini, aveva invece giudicato inammissibili tutte le istanze istruttorie formulate in ricorso. Premesso che l'appellante non critica la decisione del tribunale di ammettere la costituzione della resistente, la decisione assunta dal giudice di prime cure di revocare il precedente provvedimento di ammissione delle prove non appare al Collegio illogica né contraddittoria. Il giudice è pervenuto ad una diversa decisione a fronte di un quadro fattuale ricostruito alla luce di tutti gli elementi offerti in causa dalle parti, in particolare valutate le allegazioni di (...) a confutazione della esposizione dei fatti di cui al ricorso. Prima di esaminare le istanze istruttorie formulate dall'odierna appellante appare poi utile ricordare che "il mobbing, secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale e recepito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, designa (essendo stato mutuato da una branca dell'etologia) un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (cfr., per tutte, Corte Costituzionale, sentenza 10 dicembre 2003 n. 359). "Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e i pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (cfr. Cass. 21 maggio 2011 n. 12048; Cass. 26 marzo 2010 n. 7382; Cass. 6 agosto 2014 n. 17698; Cass. 10 novembre 2017 n. 26684). Alla base della responsabilità per mobbing si pone l'art. 2087 c.c., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti fondamentali di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost." (CDA Milano. Sent. 827/2021, est. dr.ssa D.) Questo Collegio condivide inoltre l'insegnamento della Suprema Corte, secondo cui " la disposizione dell'art. 244 c.p.c. sulla necessità di un'indicazione specifica dei fatti da provare per testimoni non va intesa in modo rigorosamente formalistico, ma in relazione all'oggetto della prova, di guisa che, qualora questa riguardi un comportamento o un'attività che si frazioni in circostanze molteplici, è sufficiente precisare la natura di detto comportamento o di detta attività in modo da permettere alla controparte di contrastarne la prova, attraverso la deduzione e l'accertamento di attività o comportamenti di carattere diverso, spettando peraltro al difensore e al giudice, durante l'esperimento del mezzo istruttorio, una volta che i fatti siano stati indicati nei loro estremi essenziali, l'eventuale individuazione dei dettagli (cfr. Cass. n. 11844/06; Cass. n. 5842/02) e dovendosi utilizzare, ai fini del giudizio di specificità o genericità della prova, tutte le circostanze di fatto comunque esposte nell'atto (Cass. n. 139/2019). "(cfr. CdA Milano sent. n.546/2022 est. dr.ssa B.) Ciò premesso in diritto, ritiene il Collegio che è proprio l'applicazione di tale insegnamento che esclude l'ammissibilità delle prove orali richieste: le istanze istruttorie formulate da C., e prima ancora le allegazioni in fatto ad esse sottese, si traducono nell'uso di formule descrittive, aspecifiche, che non consentono di individuare nel concreto gli episodi contestati, oltre che prive di riferimenti spazio-temporali precisi e circostanziati. Il Collegio concorda pertanto con il primo giudice nel ritenere che "i 69 capitoli di prova articolati nell'atto introduttivo sono generici quanto alla collocazione temporale. Si fa, infatti, ricorso a termini quali "ogni giorno", "durante la pausa", "ad oggi" i quali non consentono di individuare - e quindi provare - un episodio specifico." Nei casi in cui gli episodi sono individuati con maggiore precisione, le condotte addebitate al datore di lavoro appaiono apparentemente neutre e, comunque, non assistite da intento persecutorio. Ci si riferisce, in particolare, alla concessione di solo 6 cambi turno su 10 o al fatto che, il 15/12/2011, la ricorrente fosse stata colpita a una spalla da un agente di polizia durante il turno di lavoro. La ricorrente lamenta che il datore di lavoro non sia intervenuto. Si osserva, tuttavia, che il fatto è così risalente nel tempo che risulta estremamente difficile ipotizzare la sussistenza di un nesso causale tra il singolo episodio e lo stato di malattia. Inoltre, è pacifico che il fatto sia stato commesso da un terzo e non da un dipendente della cui condotta il datore di lavoro è tenuto a rispondere ex art. 2049 c.c.. Lo stesso dicasi, quanto alla sussistenza del nesso causale, con riferimento ad altri episodi del 2016 (concessione di cambi turno anziché del turno fisso) e del 2017 (attesa di tre mesi per il risultato di una visita che "solitamente" veniva consegnato in un mese) nonché con specifico riguardo alla comunicazione di deparametrazione, avvenuta nel 2014." In particolare, venendo ad esaminare le condotte di (...) nei confronti di (...) descritte in ricorso, il Collegio osserva quanto segue. Quanto al prospettato diniego di richieste di cambi turno nel periodo febbraio marzo 2008 (concessi 6 cambi su 10 richiesti) appare condivisibile la tesi difensiva della resistente che evidenzia che proprio la deduzione di parte ricorrente, che riconosce che (...) le ha concesso più della metà dei cambi turni richiesti, esclude il carattere persecutorio del diniego. Il datore di lavoro nel valutare la richiesta della dipendente ha presumibilmente tenuto conto, oltre che delle specifiche necessità di C., delle esigenze aziendali e della necessità di assicurare un pari trattamento ai dipendenti turnisti e ha comunque accolto in buona parte la richiesta pur non esaudendo completamente i desiderata dell'appellante. Non significativo nell'ottica della condotta mobbizzante appare poi il diniego di assegnazione a turno fisso pomeridiano per assistere la sorella, invalida con L 104, richiesto da (...) nel 2016. C. usufruiva infatti dei permessi di legge e il cambio di orario non era un atto dovuto da parte dell'azienda, né appariva motivato da specifiche esigenze di carattere medico della lavoratrice Quanto alle allegate pressioni illegittime dei superiori nei confronti di (...) per spingere la dipendente a sottoporsi a nuove visite di idoneità, (...) ha dato atto con dettaglio delle visite a cui si era spontaneamente sottoposta (...) tra il 2007 e il 2011 e delle limitazioni prescritte dal medico competente. Ha altresì precisato che la riconosciuta idoneità alle mansioni di ausiliario della sosta ma con "esonero per lavori in esterno" aveva costretto l'azienda a spostare la lavoratrice a mansioni inferiori e che vi erano stati colloqui tra i superiori (...) e (...) i quali, anche al fine di scongiurare possibili recriminazioni della lavoratrice, avevano cercato di convincere la lavoratrice a chiedere un'ulteriore conferma al medico che negli anni successivi si era limitato a rilasciare certificati con la dicitura "conferma esito precedente" senza ulteriormente confermare lea limitazione specifica sul lavoro all'esterno. Alla luce di tale deduzione, considerato che mai comunque (...) ha derogato alle prescrizioni nonostante la incertezza interpretativa dei certificati, si deve escludere l'intento persecutorio dei colloqui intervenuti tra le suddette parti. C. ha anche lamentato di esser stata sottoposta a richiami disciplinari molto frequenti e certamente più numerosi rispetto a quelli mossi nei confronti dei colleghi. La deduzione è peraltro certamente valutativa, generica, indeterminata nel quando. Il lamentato diniego di partecipazione a corsi è smentito dalle produzioni di (...). Inammissibili sono anche i capitoli relativi alle dedotte telefonate dei superiori fuori orario di lavoro e in periodi di assenza per malattia in quanto del tutto privi di riferimenti temporali sia di data sia di frequenza, senza contare che Atm non ha escluso che episodi di tale genere possano essersi verificati e li ha giustificati sulla base delle numerose assenze della lavoratrice. Con riferimento infine al lamentato episodio relativo allo spintone subito da (...) da parte di un addetto del Comune, rilevato che trattasi di evento molto risalente nel tempo. (Episodio del 2011), si osserva che nessuna censura pare potersi muovere ad A., posto che l'agente era soggetto estraneo all'azienda. Inammissibili in quanto indeterminati e generici sono infine i capitoli relativi a comportamenti di emarginazione e isolamento dai colleghi Alla luce di quanto esposto deve ritenersi che, anche ove le condotte in esame fossero state confermate dai testimoni, non sarebbe provato che l'appellata abbia posto in essere un'azione persecutoria nei confronti della lavoratrice. Con il secondo motivo di appello (...) chiede la riforma della sentenza nella parte in cui non ha motivato sulla dedotta illegittimità della subita dequalificazione ("deparametrazione") e sulla domanda di differenze retributive. Il Collegio, pur concordando con l'appellante sulla carenza di motivazione della sentenza impugnata, ritiene che la domanda sia nel merito infondata. Costituisce circostanza pacifica in giudizio che (...) - assunta con la mansione di ausiliaria della sosta- Operatore di mobilità -parametro 138- area professionale 3, area operativa, servizi ausiliari per la mobilità- in data 20.11.2014 riceveva una comunicazione della datrice di lavoro avente ad oggetto la modifica del parametro di lavoro, dal 138 al 116 (doc. 11). Detto provvedimento era stato adottato dalla datrice di lavoro a seguito dell'accertamento sanitario del medico competente di definitiva inidoneità della dipendente alla mansione di Ausiliario della Sosta, nonostante lo spostamento alla mansione di addetta telecamere controllo varchi fosse avvenuto già nel 2011. Ciò premesso in fatto, occorre richiamare la particolare regolamentazione interna di (...) che disciplina l'affidamento a mansioni diverse in caso di accertata inidoneità e stabilisce: - "in caso di accertata inidoneità del lavoratore alle mansioni della propria qualifica, la Direzione aziendale, ferme restando le norme di legge in vigore, ove sussista la disponibilità di posti in organico verificata ai sensi dell'art. 3, lett. c), dell'accordo nazionale 12 luglio 1985, procede alla collocazione del lavoratore in altra qualifica professionale per la quale sussista l'idoneità, preferendo, ove possibile, l'inquadramento nello stesso livello contrattuale professionale e retributivo" (punto 3); - "al lavoratore che non abbia maturato 10 anni di anzianità nella qualifica rivestita, per la cui funzione è stato dichiarato inidoneo, sarà erogato il trattamento economico relativo alla nuova qualifica nella quale è stato collocato, seguendone da quel momento la dinamica" (punto 4); - "al lavoratore che ha maturato 10 anni nella qualifica, per le cui mansioni è stato dichiarato inidoneo, sarà attribuito il trattamento economico della nuova qualifica assegnatagli maggiorato di assegno ad personam, pari alla differenza fra il trattamento riferito alla retribuzione normale, della qualifica di provenienza e quello della nuova qualifica assegnata. Tale assegno sarà assorbito in ogni caso di aumenti retributivi, con esclusione dell'indennità di contingenza e di eventuali aumenti retributivi interconfederali. L'assorbimento stesso avverrà in modo graduale e continuo fino a copertura dell'intero ammontare dell'assegno ad personam" (punto 5). (...), in applicazione di tale previsione, preso atto della prescrizione del medico, ha spostato (...) dall'attività di ausiliario della sosta, che, come la stessa lavoratrice ha affermato in ricorso (vedi cap 3 pag 28),ha come mansione principale " Quella di camminare tutto il turno e controllare le auto in sosta " a quella di addetto al controllo dei varchi di entrata nell'area C, attività che si svolge davanti al video e all'interno. Quanto all'inquadramento della posizione di addetto ai varchi nel parametro 116, inferiore al parametro 138 in cui era stata dalla assunzione inquadrata C., va poi richiamato l'accordo sindacale tra (...) e coordinamento R. del 25.10.2019, (doc. 6, fascicolo di primo grado A.), nel quali le parti, dato atto che le attività Propedeutiche e di supporto agli uffici comunali deputati alla gestione della sosta e al controllo degli ingressi in zone a traffico regolamentato costituiscono una opportunità di proficuo reimpiego E di ricollocazione di personale divenuto inidoneo alle mansioni della propria qualifica ,hanno stabilito: 2. Le Parti si danno atto che (...) S.p.A. sino ad oggi ha correttamente inquadrato il personale addetto alle attività di supporto agli uffici comunali che si occupa di regolamentazione della sosta (es. rilascio pass disabili) ed all'accesso alle ZTL (es. controllo elettronico varchi) in relazione alle attività assegnate. 3. Allo stato attuale dei processi produttivi dell'organizzazione del lavoro la figura d'ingresso nel settore è individuata nella figura professionale "operatore generico 116". 4. Al fine di valorizzare le professionalità, consentendo al contempo maggiore flessibilità nell'utilizzo delle risorse nelle diverse attività proprie della Direzione Sosta Controlleria e Parcheggi rientranti dell'area operativa Servizi Ausiliari per la mobilità, il personale, dopo aver maturato una esperienza nel settore di almeno 2 anni ed in grado di operare in autonomia nel rispetto delle procedure amministrative previste, potrà accedere alla superiore figura professionale di operatore della mobilità 138, previa prova selettiva con valutazione comparata, in deroga alia procedura concorsuale prevista dal vigente Regolamento per le Progressioni di carriera. 5. In fase di prima applicazione, al fine di garantire da subito l'attuazione coerente del modello organizzativo sopra definito, (...) S.p.A., in deroga alle procedure di cui al Regolamento per le Progressioni di carriera, provvederà ad assegnare al personale in possesso di inquadramento inferiore e che, alla data di sottoscrizione del presente Verbale, già opera nel settore da almeno 2 anni, la figura professionale di "operatore della mobilità 138", previa positiva valutazione da parte della struttura gerarchica di riferimento. 6. Nel caso di inserimento nel settore di agenti già in possesso di figure professionali proprie di altre Aree Operative, verrà mantenuto, in coerenza con quanto previsto dall'art. 4 del CCNL 27/11/2000, lo stato giuridico preesistente, fatta salva l'assegnazione della figura professionale di ingresso così come indicato al precedente p.3. Nel caso di inserimento di personale inidoneo proveniente da altre aree operative sarà riconosciuto il trattamento economico di cui all'A.A. 7/06/1995. Nel caso di inserimento di personale inidoneo con rapporto di lavoro già regolato dall'Allegato A) al CCNL 27/11/2000, sarà riconosciuto il trattamento economico di cui all'A.N. 3/07/1986. Emerge quindi dal riportato accordo che le parti sociali hanno concordato che l'inquadramento corretto dell'addetto al controllo accessi è il 116, a cui appartengono a norma del CCNL (doc 43 fasc. appellante primo grado) i "Lavoratori che sono adibiti a compiti di coordinamento degli Ausiliari, di manutenzione sulla sede e sull'armamento assicurando la protezione dei cantieri, di collaborazione alla manutenzione nelle officine e negli impianti, nonché nell'ambito di attività collaterali a quella del trasporto pubblico locale, inerenti alla mobilità delle persone, compiti quali, a titolo esemplificativo: - movimentazione e regolazione di flussi auto nei parcheggi; - sorveglianza parcheggi ed aree di sosta; - riscossione pedaggi e controllo abbonamenti parcheggi." Poiché non è contestato che la principale mansione degli addetti al controllo accessi è quella di verificare a video le autovettura e annotare le targhe escludendo alcune categorie di veicoli, l'attività appare correttamente riconducibile a quella di operatore generico con mansioni di sorveglianza. Concludendo, nella fattispecie, preso atto dell'inidoneità parziale di (...) e della limitazione imposta dal medico competente di esonero della dipendente dalle attività all'esterno, (...) ha adibito (...) alla mansione di addetto varchi.. Lo spostamento a detta mansione appare del tutto legittimo in quanto disposto a seguito di una precisa prescrizione del medico competente e in assenza di altre mansioni da svolgersi esclusivamente all'interno. La modifica di inquadramento è stata adottata solo a seguito della definitività della prescrizione medica nel 2014, pur essendo (...) stata adibita alla mansione dal 2009 in applicazione di un trattamento di miglior favore. L'individuazione del parametro corrispondente alla mansione è stata concordata tra (...) e (...) nell'accordo citato. In ogni caso, va considerato che sempre in applicazione di tale accordo (...) ha ricollocato (...) nel parametro 138 dopo due anni così come stabilito dal punto 5 sopra trascritto. Alla luce delle considerazioni che precedono - dirimenti ed assorbenti di ogni altra questione - l'appello deve essere respinto, con conferma della sentenza gravata, integrata la motivazione nei termini sopra riportati con riferimento alla domanda di dequalificazione. Tenuto conto della natura della controversia e della peculiarità della fattispecie nonché della carenza di motivazione in ordine ad una delle domande del ricorso, rivelatasi tuttavia infondata, si ravvisano i presupposti ex art. 92, comma 2, c.p.c. per compensare integralmente tra le parti le spese di lite del grado. P.Q.M. respinge l'appello avverso la sentenza n. 229/2022 del Tribunale di Milano - sezione lavoro; compensa tra le parti le spese di lite del grado; ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2012, n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto, della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della appellante, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. Così deciso in Milano il 12 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 5 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE DI APPELLO DI ROMA SEZIONE CONTROVERSIE LAVORO, PREVIDENZA E ASSISTENZA OBBLIGATORIA La Corte, composta dai seguenti magistrati: Dott. Stefano Scarafoni - Presidente Dott.ssa Maria Antonia Garzia - Consigliere rel. Dott.ssa Sabrina Mostarda - Consigliere ha pronunciato, mediante lettura del dispositivo, all'udienza del 10/03/2023 la seguente SENTENZA nella controversia in materia di lavoro in grado di appello iscritta al n. 2600 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2020 vertente TRA (...) rappresentato e difeso come in atti dall'Avv. IM.RA. elettivamente domiciliati in VIA (...) ROMA APPELLANTE E APPELLATO INCIDENTALE E (...) SPA rappresentati e difesi come in atti dall'avv. RO.FR. elettivamente domiciliati in VIA (...) ROMA APPELLATO E APPELLANTE INCIDENTALE E (...) SRL APPELLATO CONTUMACE OGGETTO: appello avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, n. 428 /2020 pubblicata in data 16/03/2020 FATTO E DIRITTO (...) proponeva appello avverso la sentenza in oggetto indicata nella parte in cui disconosceva le differenze retributive maturate per la qualifica superiore, a lei riconosciuta come spettante, per i periodi successivi a quelli per i quali erano stati allegati al ricorso specifici conteggi, e nella parte in cui negava le ulteriori poste risarcitorie azionate per demansionamento, mobbing o straining. Si costituiva la società (...) e (...) spa contestando le avverse deduzioni e chiedendo con appello incidentale disconoscersi il diritto alla qualifica superiore, e pure alle differenze retributive per come determinate nei conteggi prodotti in allegato al ricorso di primo grado. (...) srl non si costituiva ed era dichiarata contumace. All'udienza odierna la causa era trattenuta in decisione. Con il primo motivo di appello (...) denunciava il mancato riconoscimento delle differenze retributive derivanti dal superiore inquadramento per i periodi successivi all'ottobre 2017. In sede di appello incidentale la società (...) e (...) spa contestava che la ricorrente avesse chiesto anche il riconoscimento delle differenze retributive per il periodo successivo all'ottobre 2017 e contestava ad ogni modo i conteggi posti a base della decisione. La società contestava tuttavia, nell'appello incidentale, a monte, che la ricorrente potesse essere correttamente inserita nel livello III rivendicato e riconosciuto dal giudice di prime cure; rilevava che, nei primi tre mesi di destinazione alle pretese mansioni di capo operaio, fu invece richiesta di sostituire un collega di II livello sicché, per effetto dello svolgimento di siffatte mansioni, ella non era legittimata a rivendicare il superiore livello professionale. La società si limita invero a dedurre che il giudice aveva omesso la comparazione tra i due livelli contrattuali (III e II) e che era mancato l'accertamento in fatto dello svolgimento di un'attività corrispondente al superiore livello rivendicato. Ma così non è. La valutazione è stata correttamente svolta sulla scorta delle declaratorie contrattuali del CCNL applicabili e delle mansioni assegnate alla ricorrente, così come emerse all'esito della prova testimoniale e documentale. L'istruttoria svolta ha dimostrato che la ricorrente nei periodi presso la (...) srl, ma anche nel periodo ancora precedente, presso la (...) e (...) spa, e fino al febbraio 2017, aveva sempre svolto mansioni di capo operaio. Ella era stata poi assunta con contratto ex novo dalla società (...) ed (...) Spa in data 1 Febbraio 2017 con la qualifica di operatrice della pulizia di secondo livello, seppure la società avesse dedotto che, nel rispetto delle previsioni contrattuali con la dante causa (...) srl, l'assunzione fosse stata disposta nella medesima qualifica e per le medesime mansioni originariamente affidate alla (...) presso (...). La declaratoria contrattuale del terzo livello si riferisce ai lavoratori qualificati, adibiti ad operazioni di media complessità, amministrative, commerciali e tecniche, per la cui esecuzione sono richieste normali conoscenze e adeguata capacità tecnico pratiche comunque acquisite anche coordinando lavoratori inquadrati in livelli inferiori o uguali. Tale declaratoria riporta esemplificativamente i profili dei lavoratori che seguono attività di pulizia e manutenzione degli ambienti con l'utilizzo di attrezzature macchine operatrici complesse, oppure degli operatori che svolgono attività di conduzione impianti effettuando manovre in normale difficoltà. Al 2 livello di inquadramento, invece, appartengono "i lavoratori che, con un breve periodo di pratica/addestramento, sono adibiti ad operazioni per la cui esecuzione si richiede il possesso di semplici conoscenze pratiche, anche con macchine e mezzi meccanici senza autorizzazione". Esemplificativamente sono indicati lavoratori appartenenti al II livello coloro che eseguono attività di pulizia e manutenzione degli ambienti anche con l'utilizzo di semplici attrezzature e machine operatrici automatiche o semi automatiche attrezzate ovvero che effettuano attività di controllo di locali, accessi, aree delimitate, apparecchiature con strumenti preregolati e/o predisposti o attività di disinfestazione, disinfezione, derattizzazione, diserbo, depolveratura, sanificazione e manutenzione degli ambienti sia interni che esterni, anche con l'utilizzo di attrezzature e macchine operatrici semplici e con prodotti pronti all'uso e/o diluibili in acqua, secondo le istruzioni ricevute. Come correttamente rilevato dalla società (...) e (...) spa la differenza tra il 2 ed il 3 livello è data dal grado di complessità delle attività svolte, che risulta essere maggiore nel caso del 3 livello (per il quale si richiede il compimento di "operazioni di media complessità", rispetto al "possesso di semplici conoscenze pratiche"), nonché dall'eventuale attività di coordinamento di "lavoratori inquadrati in livelli inferiori od uguali". Dall'istruttoria testimoniale è emerso che la ricorrente svolgeva proprio un'attività di coordinamento del personale formalmente di pari livello (II) e, specificamente, che si occupava della raccolta dei fogli di presenza delle addette alla pulizia, del loro coordinamento, della redazione dei turni, della gestione delle malattie, delle eventuali sostituzioni, della comunicazione delle richieste di ferie o permessi, della autorizzazione allo svolgimento di ore di lavoro supplementare. Tali circostanze sono state confermate dalla teste (...) con cui la ricorrente ha lavorato in azienda e che ha rammentato che la ricorrente riferiva, in (...) e (...) spa, esclusivamente ai preposti, signori (...) e (...) e, in (...), ai signori (...) e (...), garantendo invece in prima persona il coordinamento del personale operativo. La teste rammentava poi, che, nel Febbraio 2017, al posto della ricorrente fu nominato capo operaio prima il (...) e, dopo qualche mese, il (...). La qualifica di capo operaio trova in effetti conferma anche in un documento, prodotto in atti, datato 1.7.15 attributivo della qualifica sin dall'inizio del rapporto, e valido a fini esterni, nei rapporti col committente della società datoriale. Non è d'altronde vero che la signora (...) non avesse indicato il personale da lei coordinato perché tali nominativi sono rinvenibili sin dal ricorso introduttivo della lite (S.B. ed altri) mentre la circostanza che la collaborazione con il responsabile dell'appalto venisse offerta in orizzontale da tutti gli addetti alle pulizie risulta smentita, oltre che dalle risultanze dell'istruttoria testimoniale, anche dalla produzione documentale in atti ( solo la ricorrente era indicata come team manager). Infine, il fatto che il dipendente sostituito nei primi tre mesi avesse un formale inquadramento non conforme alle mansioni concretamente a lui richieste - e successivamente richieste alla (...) - non vale a delegittimare la pretesa della dipendente ad ottenere il corretto pagamento delle spettanze per l'attività di capo operaio. La domanda formulata nell'appello incidentale di rigetto della richiesta della (...) di riconoscimento del superiore inquadramento è dunque infondata. Il primo motivo di appello di (...) è invece fondato. In effetti i conteggi prodotti si fermavano al periodo dall'1 luglio 2015 all'ottobre 2017. Tuttavia nelle conclusioni del ricorso originario la lavoratrice richiedeva altresì la condanna generica al pagamento delle differenze retributive maturate per il medesimo titolo anche per i periodi successivi, in relazione alla qualifica di terzo livello, qualora riconosciuta in sede giudiziale ( fino alla cessazione del rapporto intervenuta il 30 giugno del 2018 ). La richiesta di condanna era generica e questo induce anche la Corte a pronunciarsi nei medesimi termini, non potendosi consentire all'ampliamento della domanda con la formulazione, tardiva, all'udienza di discussione odierna, in violazione del contraddittorio tra le parti, di una domanda di condanna specifica. La società ulteriormente contesta la quantificazione delle differenze retributive per come redatte nel conteggio di parte ricorrente rappresentando che, a suo avviso, la riparametrazione retributiva avrebbe condotto, al più, al riconoscimento di una differenza retributiva pari ad Euro 900 circa, trattandosi di un differenziale di soli 42,60 Euro per 19 mesi, piuttosto che l'importo indicato in dispositivo di Euro 3.273,54 . Tuttavia, i conteggi alternativi predisposti dalla società riportano esclusivamente il differenziale determinato sulla retribuzione base, senza il conteggio di tutte gli altri emolumenti riconosciuti contrattualmente e senza la riparametrazione degli stessi. Alla luce di queste considerazioni deve ritenersi che i conteggi predisposti dalla dipendente siano, invece, conformi alle tabelle retributive allegate al contratto collettivo e quindi il relativo motivo di appello incidentale deve essere ulteriormente disatteso. Deve conclusivamente respingersi l'appello incidentale nella parte in cui contesta la correttezza dell'inquadramento professionale della signora (...) nel III livello e della quantificazione delle differenze retributive a tale titolo maturate. Devono tuttavia essere disattesi i restanti motivi di appello della lavoratrice, confermandosi integralmente i contenuti della sentenza impugnata. In relazione al dedotto demansionamento, la prova della sottrazione delle mansioni di capo operaio deve ritenersi essere stata raggiunta, come riconosciuto anche dal giudice di prime cure, esclusivamente con riferimento al periodo dal Febbraio al maggio del 2017 . I testi nulla hanno saputo riferire in relazione ai periodi successivi, né risulta dirimente la circostanza che secondo alcuni testi la (...) svolse sempre le medesime mansioni di addetta alle pulizie . In effetti il responsabile dei cantieri ha dichiarato esclusivamente che la ricorrente prendeva disposizioni da (...) e da (...), rispettivamente direttore di produzione e caposquadra, senza nulla aggiungere ; il teste (...) rammentava l'attività svolta nel 2016 dalla ricorrente quale capo operaio, ma nulla riferiva, né in negativo, né in positivo, per i periodi successivi; il teste (...) invece riconosceva la (...) quale mera addetta alle pulizie per l'intera durata del rapporto. Pertanto, considerato che il teste (...) nulla riferisce sul fatto che la ricorrente non svolgesse le mansioni di capo operaio successivamente al Febbraio 2017 - assumendo che la (...) avesse sempre svolto le mansioni di addetta alle pulizie - rilevato che il teste (...) riferisce solo per il periodo fino al dicembre 2016, e che il teste (...) riferisce della sua "retrocessione" a mansioni di addetta alle pulizie solo fino al maggio 2017, mentre il teste (...) nulla rammentava in concreto sul punto, deve ritenersi corretta la statuizione del giudice di primo grado che ha ritenuto non essere stata raggiunta la prova del demansionamento per il periodo successivo al maggio 2017. Tanto premesso, la prova del demansionamento per soli tre mesi non legittima alcuna azione risarcitoria. Ma pure se si volesse ritenere accertato il demansionamento per il periodo successivo - da maggio 2017 a giugno 2018 - pur in difetto di valide allegazioni probatorie, le conclusioni non muterebbero. Il diritto al risarcimento correlato ad un protratto demansionamento richiede la prova del danno alla professionalità che la dipendente abbia sofferto per effetto della illegittima condotta datoriale . La illegittima privazione delle mansioni di coordinamento è già risarcita con il riconoscimento del superiore livello retributivo, mentre il danno alla professionalità presuppone una prova ulteriore. In tema di dequalificazione professionale il danno ha natura patrimoniale e il suo onere di allegazione incombe sul lavoratore . Il processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova può avvalersi anche di logiche di tipo presuntivo, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. Ordinanza n. 19923 del 23/07/2019 ; Cass. Ordinanza n. 21 del 03/01/2019). Ma non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali, come la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altri simili indici, dovendosi procedere, pur nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che si assumono idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza (Cass. Sentenza n. 17163 del 18/08/2016). Pure a voler ritenere che la lavoratrice sia stata demansionata dal Febbraio 2017 e fino al giugno 2018, rileva in senso negativo il tipo di professionalità di cui si controverte e le mansioni specificamente sottratte . Il coordinamento delle presenze dei turni e delle eventuali assenze delle addette alle pulizie non è attività che si presta ad alcuna "obsolescenza" per il mero decorso di alcuni mesi di mancato esercizio, e ciò vieppiù considerato che nel periodo in contestazione la ricorrente risulta essere stata assente, dal servizio per malattia, per oltre 4 mesi, come risulta dalla memoria di costituzione della società nel giudizio di primo grado. La richiesta di risarcimento del danno alla professionalità deve dunque essere respinta per assoluta carenza di prova di qualsivoglia danno risarcibile. Anche la domanda di risarcimento del danno da mobbing deve essere respinto. La ricorrente argomentava infatti che il mobbing aziendale si sarebbe concretizzato, da una parte, nel demansionamento protratto, dall'altra, nell'insubordinazione manifestata dalle lavoratrici coordinate, nonché dal trasferimento illegittimo disposto e dal diverbio con il preposto, signor (...). Orbene deve premettersi che non risulta impugnata la statuizione del giudice di prime cure che esclude la illegittimità del disposto trasferimento : sul punto deve ritenersi ormai formato il giudicato, come correttamente rappresentato dalla società appellata. Per contro, il mero demansionamento, se non inserito in una dinamica più ampia che ne consenta la riconduzione all'obiettivo di emarginare, mortificare o definitivamente allontanare il lavoratore, è già risarcito con il pagamento del differenziale retributivo per le superiori mansioni non più affidate. Viceversa, la difficoltà di coordinare il personale, non può essere stesso considerarsi mobbing aziendale. La teste (...) rammentava in effetti che, a fronte della scarsa collaborazione e dei dispetti delle addette all'attività di pulizia da lei coordinate, la signora (...) aveva dovuto far fronte ad assenze protratte ed estese del personale chiedendo frequentemente l'adibizione di altro personale proveniente da altre sedi. E' tuttavia la stessa ricorrente, nell'atto introduttivo del giudizio, a riconoscere come l'azienda tramite i preposti signori (...) e I., si fosse attivata per assicurarsi che le addette coordinate dalla (...) le prestassero la necessaria collaborazione . Si legge infatti nel ricorso alla pagina 5 "dopo qualche mese il signor (...) venne sostituito dall'altro capo area il signor (...); anche quest'ultimo al pari di quanto hanno fatto in passato il signor (...) e dopo di lui il signor (...) tentò più volte di far rispettare innanzi alle altre colleghi di lavoro la superiore figura della ricorrente quale capo operaia e di far svolgere queste ultime l'attività lavorativa per tutte le ore oggetto di prestazione contrattuale conformemente alle direttive loro impartite dalla ricorrente . Tant'è vero che il signore (...) si recò tutti i giorni presso la sede di via civiltà del lavoro per verificare che le attività fossero svolte conformemente alle direttive loro impartite ..."ed ancora "anche il signor (...) in alcune occasioni fu costretto a richiamare alcuni degli addetti presenti, la signora (...), poiché aveva verificato la trasgressione agli ordini delle direttive aziendali in ordine alle mansioni svolte e/o da svolgersi" Risulta dunque evidente che la società si era attivata per garantire il sereno svolgimento dell'azione di capo operaio da parte della (...), sicché deve escludersi che possa essere ritenuta responsabile per la condotta posta in essere dal personale sottoposto al suo coordinamento. Alla luce delle considerazioni espresse l'unico profilo degno di nota attiene all'episodio occorso con il preposto, signor (...). La ricorrente ha in effetti rappresentato che il (...) ebbe un diverbio con una sua collega (signora (...)) che, in esito, lamentò un malore. La ricorrente dichiarava di essersi offerta di soccorrere la collega e di essere stata volutamente spintonata dal (...) che aveva mal sopportato la lamentazione della (...) ed anzi la aveva invitata a abbandonare il servizio per farsi assistere chiedendo assistenza medica, laddove non fosse stata in condizioni di lavorare. Le teste (...) ha sostanzialmente confermato l'episodio riportato nel ricorso introduttivo relativamente al diverbio tra il (...) e lei in un'occasione nella quale la signora (...) si era frapposta per invitare il capo operaio a tenere un atteggiamento più rispettoso nei confronti della collega e che questi, uscendo dal gabbiotto del sorvegliante, ove si trovavano tutti e tre, aveva urtato il fianco della (...), al punto da indurla a recarsi presso l'ospedale per l'accertamento delle lesioni sofferte. L'unico teste in grado di esprimersi sull'episodio denunciato dalla (...), dichiarava dunque che il (...) sostanzialmente non spintonò volontariamente la ricorrente, ma la urtò uscendo dal gabbiotto del vigilante, il quale chiamo nell'immediatezza il 118 per soccorrere la (...) (e non la (...)) in esito al suo malore. Deve poi apprezzarsi che la stessa ricorrente, in relazione al medesimo episodio, riconosceva che, in esito al diverbio occorso fu immediatamente allertato il capo area e il responsabile del personale e fu da questi richiesto di intervenire al signor (...) per verificare l'accaduto . La ricorrente chiese al (...), in quell'occasione, di potersi allontanare (per recarsi al pronto soccorso )e il signor (...) concesse immediatamente il permesso. Nella ricostruzione dei fatti operata dalla (...), emerge come l'aggressione verbale del (...) fu rivolta nei confronti della signora (...) che veniva invitata ad andar via laddove non fosse stata in condizioni fisica di lavorare . La ricorrente in effetti ha riportato nel ricorso introduttivo dei capitoli di prova, confermati dalla teste (...) di questo tenore: "in data 19 Aprile 2017 accadde che la signora (...), la quale aveva avuto un diverbio poco prima con il signor (...) durante lo svolgimento delle sue mansioni, si rivolse alla signora (...) in cerca di soccorso poiché aveva un malore in atto"; nel successivo capitolo 37 la medesima ricorrente riportava che il (...), anziché ringraziarla per essere andata in soccorso della (...), testualmente, con tono alterato, continuava a inveire nei confronti della signora (...) affermando "io non sono il dottore, se stai male vattene "così, a suo avviso, contravvenendo ad un preciso obbligo di soccorso ed alle mansioni sue proprie ; nel capitolo 38 la signora (...) rappresentava che, vedendo la collega in lacrime, in evidente stato di malore, ella stessa aveva chiesto al (...) di interrompere immediatamente la condotta aggressiva assunta nei confronti della collega, apprezzata come tale anche dal vigilante presente che gli chiedeva di allontanarsi ; al capitolo 39 la (...) riportava che il (...), uscendo dal gabbiotto del vigilante, la aveva strattonata al punto da indurla a sbattere contro l'infisso della guardiola ; al capitolo 40 riportava che il vigilante, (...), era intervenuto in sua difesa anche della Sig.ra (...) e, dopo l'accaduto, aveva redatto verbale di quanto occorso da trasmettere ai referenti della (...) e del Comune di Roma ; al capitolo 41 la ricorrente deduceva che, dopo essere stata strattonata dal (...) sbattendo il fianco, versando in evidente stato di agitazione per quanto accaduto, chiamava altra collega, la Sig.ra (...), chiedendole di accorrere in suo soccorso. Questi risultano essere i capitoli confermati dal teste (...) - salvo per la parte in cui la signora (...) deduce una strattonamento da parte del (...), mentre l'(...) precisa che il (...) urtò la (...) uscendo dal gabbiotto del vigilante- . Questa ricostruzione in fatto non risulta in contraddizione con quanto emergente dalla comunicazione, prodotta in atti, dell'amministratore delegato della società, alle organizzazioni sindacali che richiesero chiarimenti sullo svolgersi dell'episodio . Nel menzionato documento si legge in effetti che in data 19 Aprile il signor (...), operante a supporto del coordinatore di cantiere signor (...), alle 07:30 notava la signora (...) arrivare sul posto di lavoro, laddove il suo orario prevedeva l'ingresso alle 07:00 . Dopo aver atteso che la signora (...) si recasse presso lo spogliatoio per la vestizione, alle 07:45 invitava la signora (...) a recarsi presso altro plesso lavorativo per svolgere il proprio servizio, come da indicazioni provenienti dal preposto signor (...). A fronte di tale richiesta la signora (...) opponeva un rifiuto ritenuto immotivato, in esito al quale lo stesso signor (...) la invitava a occuparsi della pulizia dei servizi igienici posti al terzo piano . Decorsi ulteriore 45 minuti, tuttavia, il (...) si avvedeva che la signora (...) si ritrovava nell'area protocollo a parlare con la signora (...) senza aver svolto alcuna delle attività richieste . Per questa ragione egli diceva di aver richiesto i motivi di tale inerzia alla signora (...) la quale dichiarava di aver avuto un mancamento e di aver bisogno di misurare la pressione arteriosa . Il (...) rappresentava di aver proceduto alla misurazione della pressione della signora (...) personalmente e di aver trovato che i valori pressori erano nella norma . Ciò nonostante era stato chiamato il 118 che pure aveva verificato che lo stato di salute la signora (...) era nella norma . Il (...) aveva ulteriormente dichiarato di aver invitato la lavoratrice ad andarsene laddove avesse ritenuto che il proprio stato di salute non era compatibile con la permanenza in cantiere e di aver ricevuto dalla signora (...) l'invito a controllare le colleghe che si trovavano all'esterno a fumare, anziché lavorare . In relazione a questa rappresentazione della signora (...) il (...) dichiarava alle dipendenti presenti di aver autorizzato le dipendenti alla cosiddetta "pausa sigaretta", così come aveva fatto in passato laddove era stata richiesta dalla stessa (...) e dalla (...); nella medesima nota si rappresentava che alle 10:15 la signora (...) era stata autorizzata ad allontanarsi per ragioni personali, verosimilmente in connessione alla sua intenzione di recarsi al pronto soccorso per verificare il trauma sofferto in conseguenza dell'urto contro il gabbiotto ( per effetto della scomposta reazione del (...) alla situazione di tensione determinatasi sul luogo di lavoro). Tuttavia si rappresentava che intorno alle 10:30 - 11 la signora (...), la signora (...) e la signora (...) furono viste da altre colleghe intrattenersi a chiacchierare a fumare fuori dal plesso della Civiltà del Lavoro (a seguito dell'autorizzazione ad allontanarsi). E in effetti la certificazione medica prodotta è invero significativa perché, pur riconoscendosi un trauma con contusione del gomito destro e anca destra, è riportato l'orario di ingresso al pronto soccorso alle 14 .14 (laddove il l'urto con il gabbiotto della vigilante si sarebbe invece determinato la mattina intorno alle 10 ). Non v'è chi non veda come il trauma non era evidentemente stato tale da indurre la ricorrente a recarsi nell'immediatezza al pronto soccorso e come sia invece verosimile che, al contrario, all'uscita dal plesso lavorativo, la ricorrente si fosse intrattenuta, così come rappresentato dall'azienda, con le proprie colleghe, senza manifestare alcun tipo di grave disagio, fisico o psichico. All'udienza di prima comparizione parte ricorrente non ha contestato il contenuto del documento prodotto tempestivamente dalla società che, per le ragioni espresse, risulta in buona misura compatibile con la ricostruzione dei fatti dalla stessa offerta offerti. Tanto premesso, non sembra che il singolo episodio, pur sgradevole, possa legittimare la domanda risarcitoria nei confronti della società così come indicata nel ricorso (parametrata ad Euro 26.910,47 per danno biologico, Euro 13.455,23 per danno morale, Euro 13.455,23 per danno esistenziale, Euro 29.653,02 per danno alla dignità professionale). Dall'unico episodio accertato la ricorrente dichiara di aver sofferto di un progressivo malessere per stress psicofisico, con insonnia, somatizzazioni, depressione, irritabilità, disagi relazionali. Sicuramente l'unica condotta accertata non può ritenersi integrare il mobbing per le ragioni correttamente esposte dal giudice di primo grado . La motivazione del tribunale è in effetti del tutto conforme ai principi in materia ed il giudicante ha correttamente valutato le vicende inerenti il dedotto mobbing per le quali vi era prova dell'accadimento storico, sia valutandole ed analizzandole singolarmente (ritenendo in effetti che i singoli fatti non assumessero, presi singolarmente, alcun valore vessatorio), sia nel loro complesso (affermando che alla luce della loro sporadicità non assurgevano a mobbing). Ha poi evidenziato che gran parte delle allegazioni della ricorrente erano rimaste sfornite di prova. In merito, va premesso che - secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione (per tutte Cass. sent. n. 17698/14) - la fattispecie in questione si configura nella concorrenza di un elemento oggettivo, rappresentato da una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti sottoposti al potere direttivo dei primi; e da un elemento soggettivo relativo all'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi. Per quanto riguarda il primo elemento, quello oggettivo, nel caso di specie il giudice del tribunale ha correttamente rilevato attraverso la verifica degli atti e dei documenti, nonché l'escussione dei testimoni, che i momenti di tensione possono essere ricondotti solo ad un unico diverbio, se del caso ascrivibile ad un solo dipendente, e che non aveva alcun collegamento, per la sua episodicità, con una condotta più generalmente vessatoria. Si trattava di un episodio marginale, giammai espressivo di una mirata e continuata ritorsione nei confronti della lavoratrice, bensì di una normale dialettica di lavoro. Di certo nei rapporti di lavoro della (...) esisteva una certa tensione tra i soggetti coinvolti ma, per come emerso dall'istruttoria di primo grado, essi non configuravano l'elemento oggettivo del mobbing, come sopra descritto. Inoltre, questi episodi erano accompagnati da altri, totalmente opposti, che vedono attribuire all'appellante numerosi riconoscimenti professionali e un sostegno nelle situazioni di necessità assolutamente costante da parte della società. In conclusione, gli episodi descritti sono non provati ( trasferimento illegittimo, demansionamento protratto, indifferenza dell'azienda rispetto all'insubordinazione palese nei confronti della (...) da parte del personale), ovvero risentono di una visione soggettiva individuale e sono solo parzialmente provati (come per la pretesa aggressione fisica e verbale del (...)). Quanto all'elemento soggettivo, invece, non risulta assolutamente accertato l'intento persecutorio unificante gli episodi provenienti dalla società ( anche perchè l'episodio, escluso il temporaneo demansionamento, è verosimilmente unico). Infine, è infondato il motivo di appello relativo all'omessa pronuncia sullo straining, definito come un terrore psicologico sul luogo di lavoro che si inserisce come una disfunzione nei rapporti di lavoro con una forma più attenuta rispetto al mobbing. Lo straining descrive una situazione di stress forzato sul posto di lavoro in cui la vittima subisce almeno un'azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente di lavoro, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. E' noto e condiviso l'orientamento interpretativo secondo cui, nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati esaminati singolarmente, pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili (vedi, ex plurimis, Cass., 20/6/2018, n. 16256 e Cass., 19-2-2018, n. 3977). Il giudice di merito, quindi, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - la fattispecie possa essere qualificata come straining, anziché come mobbing. Tuttavia, nel caso di specie, ad avviso della Corte difettano anche i caratteri dello straining. Se, infatti, si escludono, per le ragioni già sopra dette, il carattere sistematico e l'intento persecutorio dei comportamenti datoriali, le condotte enucleate dalla lavoratrice come sintomatiche dell'azione ostile della società, quand'anche confermate in sede di esame testimoniale, non presentano né il carattere di durata richiesto di norma per la configurabilità dello straining, né sono qualificabili come violazioni dell'art. 2087 c.c. aventi concreta attitudine lesiva. Lo "stress" causa di risarcimento deve derivare pur sempre da condotte di terzi che siano oggettivamente e soggettivamente (singolarmente o cumulativamente considerate) illegittime perché altrimenti qualsivoglia atto di gestione del rapporto di lavoro o atteggiarsi dei rapporti personali sul lavoro, ove particolarmente sofferto dal lavoratore, anche per sua indole personale, può risolversi in un fatto illecito da "straining": ciò in contrasto con i principi di responsabilità comunque soggettiva che connotano il nostro ordinamento. La condotta datoriale non può dunque qualificarsi straining poiché non è evidentemente imputabile alla parte datoriale lo spintonamento, presumibilmente involontario, posto in essere dal preposto, in occasione di un diverbio che vedeva la (...) quale soggetto terzo. L'appello principale deve essere dunque solo parzialmente accolto e l'appello incidentale integralmente respinto. Le spese sono parzialmente compensate in ragione dell'esito della causa. Occorre dare atto - ai sensi dell'art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1-quater all'art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte dell'appellante incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata Difatti la circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell'applicabilità dell'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l'applicazione dell'ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l'obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, dell'impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell'ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell'apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014 e di recente Cass. n. 25386/2016). P.Q.M. In parziale accoglimento dell'appello principale e in parziale riforma dell'impugnata sentenza, confermata per il resto, condanna (...) ed (...) spa al pagamento delle ulteriori differenze retributive spettanti a (...) per l'inquadramento nel III livello CCNL di settore nel periodo dall'1.10.17 al 30.6.18, oltre accessori. Rigetta l'appello incidentale. Compensa per un terzo le spese di lite, liquidate per l'intero in complessivi Euro 3390,00 per il primo grado, e in complessivi Euro 4000,00 per il presente grado, oltre iva, cpa e spese generali al 15%, ponendo la restante parte a carico di (...) ed (...) spa e (...) srl, da distrarsi in favore del procuratore antistatario. Così deciso in Roma il 10 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 17 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8872 del 2020, proposto dal signor -OMISSIS- rappresentato e difeso dall'avvocato Ri. Mo., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia, contro il Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore e il Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, in persona del Comandante Generale pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...), per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Prima bis, -OMISSIS- resa tra le parti, avente ad oggetto richiesta risarcitoria per mobbing. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa e del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 febbraio 2023 il Cons. Antonella Manzione e udito per l'appellante l'avvocato Si. Ce., in sostituzione dell'avvocato Ri. Mo.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. L'oggetto del presente giudizio è costituito dalla domanda di risarcimento del danno all'integrità psico-fisica asseritamente subito dal signor -OMISSIS- già militare dell'Arma dei carabinieri, per una serie di presunte vessazioni protrattesi a suo dire dal 1994 al 2015, quindi addirittura oltre la sua cessazione dal servizio, dichiarata con atto del 10 aprile 2002. 1.1. In maggior dettaglio, per comprenderne la complessa vicenda professionale, che peraltro attingerebbe in ogni suo aspetto il lamentato disegno persecutorio, va detto che ridetto provvedimento del 2002 era stato oggetto di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, dichiarato infondato con parere n. -OMISSIS-, recepito nel d.P.R. -OMISSIS-. A ciò aveva fatto seguito istanza di revocazione, dichiarata irricevibile con parere n. -OMISSIS- della apposita sezione consultiva del Consiglio di Stato. 1.2. Prima di tale atto, ne era stato adottato un altro, datato 20 febbraio 2002, con il quale il Comandante del Corpo aveva collocato il militare in congedo a far data dal 14 febbraio 2002 giusta l'avvenuto superamento del periodo massimo di aspettativa fruibile nel quinquennio, esso pure impugnato innanzi al T.a.r. per la Toscana con ricorso n. r.g.-OMISSIS- dichiarato improcedibile proprio in ragione della sopravvenienza di quello del 10 aprile 2002 (T.a.r. per la -OMISSIS- sez. I,-OMISSIS- l'appello avverso la quale sentenza è stato dichiarato perento con decreto presidenziale n. -OMISSIS-). 1.3. Come meglio precisato nel prosieguo, l'inizio dei presunti comportamenti persecutori si collocherebbe nel periodo di frequenza del 46° corso allievi sottufficiali, dal quale veniva dispensato "per inidoneità in attitudine militare", nonché per "-OMISSIS- [e] gravi problematiche personali". Il ricorso avverso tale dispensa, accolto in primo grado con sentenza del T.a.r. per il Lazio n. -OMISSIS- per vizi procedurali, veniva dichiarato improcedibile dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. II, 4 gennaio 2021, n. 98) che ha chiarito come l'interessato non ha superato successivi esami del corso e ha poi rinunciato, per motivi personali, al proseguimento dello stesso, dopo di che è sopravvenuto il provvedimento di cessazione dal servizio permanente del 10 aprile 2002. 1.4. Le condotte vessatorie che avrebbero cagionato i danni fisici e morali rivendicati dal militare possono per comodità essere ricondotte a tre distinti periodi: a) periodo compreso tra il 1994 e il 1996- in tale lasso di tempo, caratterizzato per lo più dalla sua frequenza della Scuola Allievi sottufficiali di -OMISSIS- sarebbe stato oggetto di una serie di visite mediche pretestuosamente mirate ad escluderlo dal corso (il 46° biennale), con diagnosi non veritiere di problematiche correlate alla sfera psicologica, convalescenze/licenze obbligate, laddove le visite specialistiche cui si sottoponeva autonomamente ne attestavano il perfetto stato di salute. A seguito di impugnativa dell'esclusione, cui alla fine si addiveniva per "-OMISSIS-", il 14 aprile 1994, otteneva il reintegro con decisione cautelare favorevole (per vizi procedurali), a suo dire ottemperata scorrettamente, essendo stato iscritto al primo anno del 47° corso e non al secondo del precedente, cui aveva diritto, ed essendo stato costretto a sostenere un numero di esami cui non era tenuto. Infine, inviato presso il VI battaglione -OMISSIS- era a suo dire oggetto di comportamenti squalificanti da parte dei superiori gerarchici che lo adibivano a mansioni di spettanza per prassi degli ausiliari più giovani (quali l'autolavaggio a mano) ovvero lasciando che questi ultimi gli impartissero direttamente ordini; b) periodo dal 1998 al 2002 - in tale periodo il militare sarebbe stato fatto oggetto di provvedimenti vessatori di varia natura. Il 31 gennaio 1998 era oggetto di denuncia per "simulazione d'infermità aggravata", poi archiviata, in relazione alla lunga assenza per i danni al -OMISSIS- riportati in un incidente stradale occorsogli in servizio il 31 luglio 1997, per il quale peraltro la C.M.O. di -OMISSIS- gli riconosceva la dipendenza da causa di servizio, ma non la inidoneità allo stesso. Il 7 aprile 1998 gli veniva irrogata la sanzione disciplinare di tre giorni di consegna per avere chiesto (e ottenuto) una sostituzione di servizio "da superiore non gerarchicamente diretto ". Non essendosi sottoposto a visita medica per "-OMISSIS-", cui si era opposto anche per il tramite del proprio legale, veniva nuovamente denunciato il 17 giugno 1998 e l'8 settembre 1998 per disobbedienza continuata e aggravata. Il procedimento si concludeva con la sentenza della Cassazione n. -OMISSIS-, che in riforma della sentenza della Corte militare di appello n. -OMISSIS-, di conferma di quella del Tribunale militare di -OMISSIS- del 6 novembre 2003, lo assolveva perché nel primo episodio la visita medica era stata differita e nel secondo non gli era stato impartito alcun ordine. Il 23 maggio 2001 veniva denunciato per diserzione pluriaggravata, riferita alle plurime assenze dal servizio, anche in questo caso risultando poi assolto in appello "perché il fatto non costituisce reato". In tale periodo, peraltro, al fine di avvicinarsi alla famiglia d'origine, giusta le problematiche di salute della madre, avanzava varie domande di trasferimento, tutte respinte, da ultimo malgrado l'ordinanza cautelare favorevole del T.a.r. per il Lazio (n. -OMISSIS-) adottata nel procedimento instaurato avverso tali dinieghi. La pendenza del procedimento penale gli impediva peraltro di accedere all'avanzamento al grado superiore richiesto. Il collocamento in congedo del 20 febbraio 2002 a sua volta era avvenuto computando nel periodo massimo di aspettativa anche quello per infermità dovuto a causa di servizio e per giunta commettendo un errore di calcolo. Il successivo del 10 aprile 2002 non era stato preceduto dall'invio al Collegio medico legale per verificarne l'idoneità al transito nelle qualifiche funzionali del personale civile del Ministero della Difesa, così da pregiudicarlo in via definitiva sul piano lavorativo; c) periodo successivo al collocamento in congedo nell'aprile 2002 e fino al 2014. Il 2 novembre 2002 sarebbe stato sottoposto ad una perquisizione indebita su decreto del Pubblico ministero presso il Tribunale di -OMISSIS-, ancorché in pari data gli venisse reso il materiale sequestrato. In data 3 novembre 2002 e il 2 giugno 2003 veniva nuovamente denunciato dalla Stazione Carabinieri di -OMISSIS-per appropriazione indebita, non avendo riconsegnato il tesserino militare e il materiale di equipaggiamento di pertinenza dell'amministrazione, fatti dai quali andava assolto con sentenza del 30 giugno 2011. Il 13 febbraio 2004, presentatosi a visita medico legale da lui stesso compulsata al fine di ottenere il transito nei ruoli civili dell'Amministrazione, non vi veniva pretestuosamente sottoposto "perché sprovvisto della necessaria documentazione occorrente per la trattazione della pratica medico-legale". La posizione assicurativa INPS gli veniva infine costituita dall'Amministrazione solo in data 30 gennaio 2013, e a seguire, in data 8 aprile 2014, gli veniva finalmente riconosciuta l'indennità e la pensione privilegiata per la causa di servizio risalente a oltre 12 anni prima. Sempre con colpevole ritardo, ovvero in data 20 gennaio 2015, e a seguito di sua istanza, veniva effettuato il ricalcolo delle determinazioni stipendiali, in quanto le precedenti, su cui era stata valutata la pensione privilegiata, erano sbagliate. 3. Con l'impugnata sentenza n. -OMISSIS- segnata in epigrafe, il T.a.r. per il Lazio, sezione I bis, ha affermato l'intervenuta prescrizione della pretesa risarcitoria avuto riguardo alle domande azionate ex artt. 2043 e 2049 c.c.; ha respinto nel merito il ricorso, con riferimento alla domanda di risarcimento per responsabilità contrattuale. Nel caso di specie, infatti, non sarebbero emersi comportamenti e/o iniziative vessatorie in cui si sarebbe estrinsecato l'atteggiamento mobbizzante del datore di lavoro, tanto più che le varie iniziative denunciate -spesso oggetto di autonomi e reiterati contenziosi innanzi al giudice amministrativo - non sono ascrivibili ad un unico soggetto, ma di fatto "spalmate" su tutti i vertici dell'Arma dei carabinieri. Nel ricostruire in dettaglio la vicenda in fatto, ha tra le altre cose evidenziato il tenore della nota del 1 marzo 1994, dalla quale risulta che il ricorrente, durante il primo anno di frequenza del 46 ° corso biennale - con riferimento al quale è documentato l'avvenuto superamento del limite massimo di assenze consentito- avrebbe comunicato in ben due diverse circostanze a colleghi del plotone "di voler mettere in atto l'insano gesto del suicidio che giustificava per lo stato di sofferenza in cui era stato costretto dal padre, appuntato dell'Arma, che lo aveva indotto a frequentare il corso in atto". L'interessato sarebbe stato iscritto al primo anno del 47° corso, anziché al secondo del 46°, in quanto la decisione cautelare a lui favorevole per un mero vizio procedurale, lasciava libera l'Amministrazione di orientarsi in merito. Quanto detto a tacere del farraginoso percorso di esami, non superati, via via impugnati, con conseguente caratterizzazione della frequenza del corso biennale a dir poco accidentata per variegate ragioni, ivi compreso lo scarso rendimento documentato dalle inidoneità conseguite (v. la vicenda relativa all'esame di "diritto e tecnica della circolazione stradale"). Nel periodo successivo, la sentenza ha egualmente fornito per ogni episodio lamentato una diversa chiave di lettura: il richiamo dal riposo e/o dalla licenza, il diniego di trasferimento ad altra sede, l'irrogazione di una sanzione disciplinare (di lieve entità ), il mancato avanzamento, la destinazione a servizi comunque afferenti all'esercizio delle proprie mansioni, il mancato transito nella "forza assente" o, ancora, l'invio di comunicazioni al giudice militare, costituirebbero "elementi fattuali inidonei a rivelare l'insorgenza per il dipendente di un "contesto ambientale differenziato" ovvero un "disegno complessivo", composto da una serie di reiterati comportamenti vessatori e persecutori, tanto più nell'ipotesi in cui - come quella in trattazione - l'assunzione delle iniziative de quibus si presenti dovuta per la corretta applicazione di prescrizioni di legge o, ancora, risulti riconducibile a eventi specifici, addebitabili al ricorrente (tenuto conto - in particolare - di quanto rappresentato dall'Amministrazione resistente e non adeguatamente confutato dal ricorrente)". 6. Con ricorso ritualmente notificato e depositato il signor -OMISSIS- ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza, articolando tre motivi di gravame: -con il primo motivo di gravame (rubricato sub A), censura il capo della sentenza che ha affermato la prescrizione della richiesta basata sulla responsabilità extracontrattule, stante che nel relativo computo non si sarebbe tenuto conto della portata interruttiva del giudizio civile incardinato allo scopo, operante non fino all'atto di citazione, ma fino al passaggio in giudicato della sentenza, ancorché di rito; - con il secondo motivo (sub B), a sua volta diviso in due paragrafi, rubricati mediante richiamo all'arco temporale di riferimento (segnatamente, I- "periodo del corso allievi sottufficiali fino all'espulsione, anni 1994-1996" e II- periodo successivo, dal 1996 al 2015), ha riproposto in chiave critica le medesime censure del ricorso di primo grado; - con il terzo motivo (sub C), ha argomentato sulla presunta sussistenza del mobbing nei fatti descritti, distintamente in relazione all'elemento materiale della condotta illegittima, persecutoria e vessatoria (§ I), all'elemento soggettivo (§ II) e ai danni patrimoniali e non patrimoniali che gliene sarebbero derivati (§ III), come da relazione di uno psichiatra di propria fiducia datata 14 novembre 2008, che lo ha quantificato nella misura dell'80,8 % (v. in particolare pag. 33 del documento 86 del ricorso introduttivo del primo grado). 7. Il Ministero della Difesa e il Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri si sono costituiti con atto di stile. 8. La causa è stata trattenuta in decisione all'udienza pubblica del 14 febbraio 2023. DIRITTO 9. L'appello è infondato e va confermato il rigetto della domanda proposta dall'appellante alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e diritto. 10. Con il primo motivo di appello, la parte censura il capo della sentenza che ha dichiarato prescritta la pretesa fondata sulla responsabilità extracontrattuale dell'Amministrazione, individuandola presumibilmente nelle condotte successive alla cessazione del rapporto di servizio (aprile 2002). Ciò in quanto il primo giudice non si sarebbe avveduto della portata interruttiva del giudizio civile originariamente instaurato, limitandola al solo deposito dell'atto di citazione e non all'intera durata del procedimento fino al passaggio in giudicato della sentenza che lo ha definito (1 ottobre 2011), seppure di mero rito. 11. Il Collegio ritiene di poter prescindere da un più approfondito scrutinio della questione, che presuppone peraltro il corretto inquadramento della fattispecie invocata dall'appellante (danno da mobbing, che, in quanto illecito permanente, si prescrive de die in diem), giusta l'infondatezza nel merito del ricorso, avuto riguardo ad entrambe le fattispecie di illecito lamentate. Ciò consente di non approfondire neppure l'esatta sistematizzazione degli episodi che si collocano a cavallo della cessazione dal servizio, e traggono ragione in attività accadute in costanza dello stesso, come la sottoposizione a perquisizione domiciliare in data 2 novembre 2002, con conseguente sequestro del tesserino e del rimanente equipaggiamento, non restituiti al momento dell'interruzione del rapporto di lavoro e per i quali si era pertanto ipotizzato il reato di appropriazione indebita. A ben guardare, peraltro, la presunta protrazione della persecuzione si sarebbe concretizzata solo in tali atti, nonché nella definizione del procedimento pensionistico, esso pure volutamente mirato a impedirgli il transito nei ruoli civili e nella ritardata costituzione della posizione previdenziale (avvenuta solo nel 2013). Episodi tutti con riferimento ai quali, per eterogeneità e distanza nel tempo perfino tra di loro, valgono a maggior ragione le considerazione generali di seguito sviluppate. 12. Sempre in via preliminare, il Collegio rileva come il ricorso presenti anche profili di inammissibilità, stante che, se si eccettua la questione della prescrizione, non vengono introdotte specifiche censure avverso la sentenza di prime cure, ma sostanzialmente riprodotta la narrazione di quasi due decenni di vita professionale dell'interessato, asseritamente connotata dal lamentato disegno persecutorio che avrebbe pervaso l'intera struttura dell'Arma dei Carabinieri, condizionando scelte e comportamenti di tutti gli uffici e reparti con i quali egli si è via via interfacciato. A mero titolo di esempio, basti ricordare proprio come egli ascriva a ridetto disegno finanche la ricordata tardiva costituzione (in data 30 gennaio 2013) della sua posizione assicurativa INPS ai sensi della l. n. 322 del 1958, sicché l'indennità una tantum per l'infermità dovuta a causa di servizio gli sarebbe stata concessa a sua volta solo in data 8 aprile 2014, all'evidente scopo di protrarne le vessazioni. Con ciò rendendo "complici" del disegno persecutorio, non più finalizzato all'espulsione, ma al diniego di diritti, gli uffici interni all'Amministrazione e astrattamente anche quelli dell'INPS che ne hanno curato le relative pratiche. 12.1. La tecnica alluvionale dell'appello, inoltre, nel riprodurre la stessa carrellata di eventi di cui al ricorso di primo grado, pretende di ribaltare sul giudice la sistematizzazione sia dei (numerosi) contenziosi giurisdizionali promossi dall'appellante avverso singoli atti (quale l'espulsione dal 46 ° corso sottufficiali), senza chiarirne in maniera organizzata e razionale gli sviluppi, cautelari e di merito, sia dei procedimenti penali instaurati a suo carico. A mero titolo di esempio, al paragrafo IV del ricorso di prime cure, rubricato "Delle infondate imputazioni penali in danno del -OMISSIS- (dal 1998 al 2012)", si fa riferimento ad una prima "denuncia" per simulazione d'infermità aggravata datata 31 gennaio 1998, cui avrebbero fatto seguito due denunce per disobbedienza continuata e aggravata per essersi il militare rifiutato di recarsi a visite mediche per problemi di natura psicologica (17 giugno 1998 e 8 settembre 1998, v. pag. 13 del ricorso), laddove a pag. 19 dell'atto di appello si parla, con riferimento alla medesima ipotesi di reato, di una denuncia del 3 novembre 2002 e altra del 2 giugno 2003 (pag. 19), menzionando tuttavia, pochi alinea sopra, un'ulteriore denuncia del 23 maggio 2001 per diserzione pluriaggravata. 12. Giova a questo punto rammentare che costituisce mobbing la condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni - di vario tipo ed entità - al dipendente medesimo (cfr. Cass. civ., sezione lavoro, sentenza 7 agosto 2013, n. 18836). Pertanto integra il mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed, eventualmente, anche leciti), diretti alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente, di cui viene lesa - in violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'articolo 2087 del codice civile - la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (morale, psicologica o fisica). 12.1. L'onere della prova dell'animus nocendi - anche se suscettibile di essere soddisfatto mediante presunzioni fondate sulle caratteristiche dei comportamenti tenuti dal datore di lavoro -, grava sul dipendente, pur facendosi valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, essendo un elemento fondante la stessa illiceità in termini di mobbing della condotta datoriale. In particolare, la ricostruzione giurisprudenziale del mobbing richiede alla vittima di provare il dolo del mobber (v. Cass. civ., sezione lavoro, sentenza 8 gennaio 2016, n. 158, secondo cui l'onere probatorio deve ritenersi assolto quando sia stata offerta la prova dell'"esplicita volontà del datore di lavoro di emarginare il dipendente in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio"). 12.2. In sintesi, ai fini della configurabilità del mobbing, sono rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (cfr. Cass. civ., sezione lavoro, sentenze 6 agosto 2014, n. 17698 e 17 febbraio 2009, n. 3785, nonché ordinanza 10.11.2017, n. 26684). 13. Il quadro ricostruttivo dettagliatamente illustrato dal primo giudice è sufficientemente eloquente nel dimostrare l'inadeguatezza degli elementi fattuali offerti da parte appellante a ricondurre sotto l'egida dell'intento persecutorio la condotta datoriale, complessivamente o singolarmente, e tale constatazione merita conferma anche alla luce delle (medesime) deduzioni sollevate nuovamente in questa sede. 14. Più in generale, come già chiarito sopra, la stessa descrizione del presunto contesto vessatorio non persuade, tenuto conto del suo sviluppo negli anni e della pluralità di soggetti che a vario titolo si sarebbero succeduti nella sua attuazione, o che sono intervenuti sulle diverse istanze presentate dal ricorrente. Circostanza, questa, che finisce per depotenziare ex se la denunciata riconducibilità di atti e/o comportamenti a chiunque ascrivibili ad un preciso intento vessatorio. 14.1. Vero è che essi sono piuttosto indice di un clima ambientale di disagio, anziché di conflittualità lavorativa, probabilmente accentuato dai risvolti penali e disciplinari (in verità uno solo, per quanto riferito in atti, e di scarsa rilevanza afflittiva) dell'articolata vicenda, ma non integranti un disegno di vessazione coordinato e preordinato da parte di singoli individui. 15. Ridetto disagio, comunque lo si voglia connotare, sta alla base degli accertamenti sanitari che l'Amministrazione ha condivisibilmente inteso disporre, avendone evidentemente constatato taluni epifenomeni (come la manifestazione ai colleghi di intenti autolesionistici), ponendoli a fondamento della richiesta di espulsione dal corso sottufficiali (che richiama "-OMISSIS-"). Sicché la diversa percezione soggettiva degli stessi hanno innescato un gioco di rimandi tra le parti che vede l'Amministrazione doverosamente preoccupata in primis della salute del proprio dipendente, indi della tutela della collettività, giusta la delicatezza delle funzioni assolte da un appartenente all'Arma dei Carabinieri; il dipendente,"mortificato" nelle proprie aspettative di vita professionale dal sentirsi messo in dubbio sotto il profilo dell'idoneità psicologica, proteso a ribaltare sulla controparte la causa del problema, di fatto negando il problema stesso. 16. Ferma pertanto la correttezza e la condivisibilità del complessivo quadro ricostruttivo contenuto nella sentenza impugnata, che non è necessario ripetere e ribadire, possono essere svolte alcune notazione aggiuntive, riferite ad alcuni degli episodi chiave nuovamente richiamati, ad ulteriore conferma delle conclusioni raggiunte dal primo giudice. 17. Emblematico al riguardo è il contenuto di dettaglio della proposta di esonero dal corso a firma del responsabile della scuola datata 28 marzo 1994: essa reca un elenco di diagnosi che spaziano dalla "-OMISSIS-", a "-OMISSIS-", a "-OMISSIS-", a "-OMISSIS-". 18. Nel caso di specie, dunque, nemmeno occorre fare riferimento ai principi consolidati presso i giudici di legittimità in forza dei quali le forti divergenze sul lavoro e le tensioni nei rapporti interpersonali, fisiologiche nei rapporti lavorativi soprattutto se connotati da una relazione gerarchica continuativa e da situazioni di difficoltà amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 591; sez. III, 4 febbraio 2015, n. 529; id., 12 gennaio 2015, n. 28) non possono però esorbitare "nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano", diventando altrimenti "ragione di responsabilità ai sensi dell'art. 2087 c.c.". 18.1. Manca infatti del tutto la prova e finanche la comprensione del disegno persecutorio, stante che riesce difficile riportare la richiesta di accertamenti sanitari, che spesso sta alla base del contrasto, ad un preciso disegno persecutorio, del quale peraltro mal si comprende il movente e a maggior ragione il mandante. 18.2. Né a diversa conclusione conduce l'analisi di dettaglio -tutt'affatto semplice, giusta la già rilevata mancata sistematicità dell'esposizione - del percorso formativo, che si connota piuttosto in termini di documentata scarsità di presenza e mediocrità del rendimento, con una sorta di andamento a singhiozzo scandito da pronunce cautelari favorevoli che non hanno comunque legittimato, come egli di fatto sembrerebbe pretendere, il superamento ex officio di quello stesso corso dal quale era stato escluso in maniera proceduralmente scorretta. 19. E' innegabile, dunque, che il ricorrente si è trovato ad operare in una situazione lavorativa di estremo disagio -piuttosto che conflittuale - dalla quale ha ricavato una percezione soggettiva di vessazione o più propriamente mortificazione, connotata da episodi sfavorevoli a carico dell'Amministrazione militare, sfociati finanche in singoli atti amministrativi successivamente giudicati illegittimi ed annullati dal Giudice amministrativo, che possono avere avuto ricadute sulla sua sfera psico-fisica (nello specifico, la sentenza del T.a.r. per il Lazio, n. -OMISSIS-, riformata peraltro in sede di appello, che aveva ritenuto proceduralmente viziata l'esclusione dell'appellante dal 46° corso sottufficiali, nonché singole decisioni cautelari sempre riferibili, per lo più, al tormentato iter di frequenza di ridetto corso e dei successivi, cui via via veniva ammesso). Ciononostante non vi è prova adeguata né della riconducibilità dell'insorgenza del disagio a ridetti fattori di contesto lavorativo, piuttosto che a diverse problematiche personali, né del c.d. animus nocendi da parte del datore di lavoro. In assenza dunque di circostanze concrete che consentano di affermarne la sussistenza - anche solo sulla base di presunzioni -non vi sono elementi per ritenere che la stessa sia stata non meramente colposa bensì vessatoria o persecutoria e, quindi, integrante la fattispecie del mobbing. 20. Quanto detto a valere a maggior ragione per gli episodi successivi al 1996, ancora più slegati fra di loro e ancora più eterogenei per ascrivibilità soggettiva della condotta. L'inverosimiglianza della sussistenza di un collegamento fra gli stessi, già di per sé inidonei a configurare un'azione vessatoria o persecutoria, non ne consente comunque l'inquadramento in una precisa strategia da parte dei (tutti i) superiori. 21. La genericità infine delle doglianze relative alla presunta sottoposizione a servizi umilianti e non consoni all'anzianità di servizio, non consente neppure di valutarne la consistenza, né una comparazione con l'eventuale diverso approccio tenuto nei confronti degli altri appartenenti al reparto, sì da potere affermarne la finalità -recte, più propriamente, la portata - discriminatoria, ovvero semplicemente, errata sotto il profilo contrattuale. 21.1. La natura doverosa infine dell'inoltro di informative di reato, assistita anche da tutela penale in caso di omissione (art. 361 c.p.), connota tutti gli episodi di denuncia a carico dell'appellante, senza che essa risulti attenuata dal successivo buon esito -peraltro non sempre nel primo grado di giudizio - per lo stesso dei procedimenti penali scaturitine. 22. Dirimente è dunque la mancata dimostrazione del nesso causale tra le molteplici condotte descritte, riconducibili peraltro a vari attori lungo un lasso di tempo che abbraccia quasi per intero il percorso del militare all'interno dell'Arma. 23. Quanto infine al danno lamentato, dalla stessa documentazione medica prodotta in atti non emerge la certezza che tale situazione, pure astrattamente compatibile con il disagio lavorativo riferito dal ricorrente in sede di controllo medico, sia stata la conseguenza consapevole di condotte poste in essere con questa precisa finalità . Altrimenti detto, il disagio lavorativo che, senz'altro, il ricorrente ha avvertito nel tempo, non necessariamente è la causa scatenante e determinante della infermità patita, quanto piuttosto la percezione e interiorizzazione di eventi e accadimenti non piacevoli, ma dal medesimo elaborati quali tasselli di una generalizzata ostilità nei suoi confronti. 24. Per tutto quanto sopra detto, l'appello deve essere respinto e, per l'effetto, deve essere confermata la sentenza del T.a.r. per il Lazio n. -OMISSIS-. 24.1. Le questioni sopra vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663, e per il Consiglio di Stato, sez. VI, 19 gennaio 2022, n. 339), con la conseguenza che un'analisi di maggior dettaglio della elencazione -peraltro disordinata- dei singoli episodi ricondotti al medesimo motivo di doglianza è stata dal Collegio ritenuta non rilevante ai fini della decisione e comunque inidonea a supportare una conclusione di tipo diverso. 25. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro duemila/00 (2.000/00) oltre accessori, se dovuti, a favore dell'Amministrazione appellata. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all'articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute dell'appellante. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Dario Simeoli - Presidente FF Antonella Manzione - Consigliere, Estensore Francesco Guarracino - Consigliere Carmelina Addesso - Consigliere Stefano Filippini - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA Sezione controversie lavoro, previdenza e assistenza obbligatorie composta dai Sigg. Magistrati: DI SARIO dott.ssa Vittoria - Presidente rel. SELMI dott. Vincenzo - Consigliere CERVELLI dott. Vito Riccardo - Consigliere all'esito dell'udienza del 2.2.2023 ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 3345 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2020 vertente TRA (...) elett.te dom.to in Roma, piazza (...), presso lo studio dell'avv.to Ma.Co., che lo rappresenta e difende giusta procura in telematico APPELLANTE E AZIENDA (...) elett.te dom.to in Roma, via (...), presso lo studio dell'avv.to Da.Br. che la rappresenta e difende giusta procura in telematico APPELLATA Oggetto: appello avverso la sentenza n. 6236/2020 del Tribunale di Roma depositata il 12.10.2020 RAGIONI DELLA DECISIONE 1. (...), premesso di essere stato nominato "responsabile dell'area farmaceutica" con Delib. n. 9 del 3 aprile 2017 e quindi di avere così acquisito la qualifica dirigenziale, qualifica confermata, perché presupposta, dalla Delib. n. 10 del 3 aprile 2017 di nomina a interim di Direttore Generale dell'Azienda con attribuzione di un'indennità aggiuntiva temporanea e quindi di avere volto dal 10.4.2017 al 17.4.2019 le funzioni di direttore dell'area farmaceutica e di direttore generale, di avere quindi diritto al trattamento economico dirigenziale previsto dal CCNL dirigenti imprese di pubblica utilità e di avere subito un illegittimo svuotamento delle funzioni dell'area farmaceutica a decorrere dal 17.4.2019, data in cui aveva rassegnato le dimissioni da direttore generale, ha convenuto in giudizio la (...) - Azienda (...) rassegnando le seguenti conclusioni: ritenuta la qualifica dirigenziale assegnata al ricorrente ed il diritto dello stesso a percepire la correlata retribuzione prevista e disciplinata dal CCNL dirigenti pubbliche imprese, Voglia condannare (...) Azienda (...) ... : - al pagamento in suo favore della somma di Euro 58.542,48 oltre rivalutazione ed interessi a far tempo dalla domanda per tutte le causali di cui in premessa, salvo errori od omissioni, siccome somme già maturate; - a versare / rimettere al ricorrente la retribuzione mensile/ annuale prevista per i dirigenti di cui al CCNL Dirigenti imprese pubblica utilità per le mensilità di stipendio future successive al deposito del presente ricorso; - a rispettare la delibera di assegnazione dell'incarico di direttore del Servizio Farmaceutico e quindi le funzioni assegnate, ordinando a (...) per il mezzo del suo rappresentante legale di dismettere ogni condotta illecita, ostativa ed ostruzionistica; - al risarcimento dei danni per i comportamenti e le condotte denunciate in misura equitativa e comunque non inferiore alle mensilità di retribuzione a far tempo dal mese di aprile 2019. 1.1. Nella resistenza della (...), il Tribunale di Roma ha respinto integralmente il ricorso, condannando il ricorrente alla refusione delle spese di lite. 1.2. Il primo giudice: i) in via preliminare ha osservato che il ricorrente, avente la qualifica di Quadro Q1, in sede di conclusioni del ricorso non chiede di accertare e dichiarare il suo diritto al superiore inquadramento, ma dando per presupposto il diritto alla qualifica dirigenziale ("ritenuta la qualifica dirigenziale"), chiede la condanna della convenuta al pagamento delle relative differenze retributive; ii) quindi, richiamato il procedimento trifasico proprio delle controversie di inquadramento superiore, ha rilevato il difetto di allegazione in ordine alla declaratoria contrattuale con riferimento alla qualifica posseduta cosicchè la mera elencazione delle attività svolte dal ricorrente appare manchevole della ulteriore fase del raffronto con le stesse ai fini della sussunzione nel livello rivendicato. Di conseguenza sono da considerarsi irrilevanti le relative richieste istruttorie formulate dall'attore. Lo stesso infatti ha chiesto ammettersi la prova per testi su capitoli concernenti, appunto, lo svolgimento delle attività asseritamente corrispondenti al parametro superiore. Tuttavia, per le carenze allegatorie sopra enucleate, tale prova, quand'anche raggiungesse un risultato positivo, sarebbe incompleta, in quanto carente della fase di raffronto di cui si è detto ai fini del riconoscimento della invocata superiore sussunzione. Nel caso di specie, tra l'altro, la difesa della resistente ha contestato recisamente la sufficienza delle allegazioni di cui al ricorso rispetto al contenuto tipico della declaratoria contrattuale ed ha comunque in radice negato che la parte ricorrente abbia mai svolto mansioni corrispondential superiore livello invocato. Orbene, in ricorso non vi è alcuna deduzione sui contenuti tipici della declaratoria relativa alla qualifica posseduta in raffronto col livello invocato; quindi le mansioni, nello scarno contenuto che rimane esente da vizi di genericità dell'istanza istruttoria, che si affermano eseguite in ricorso non appaiono comunque congruenti rispetto alla superiore qualifica invocata, per cui la loro dimostrazione storica risulta irrilevante. Invero, l'indicazione da parte del ricorrente delle mansioni svolte si risolve in una elencazione di operazioni senza alcuna illustrazione ed esplicitazione chiarificatrice, in raffronto argomentato con la declaratoria invocata; iii) ha comunque osservato, in via dirimente e assorbente, che Dalla documentazione versata in atti dalla convenuta emerge che, con verbale dell'11-5-2017, le parti conciliavano in sede giudiziale la controversia promossa dal ricorrente nei confronti della (...) (procedimento rubricato al n. RG 6929/2015) avente ad oggetto il riconoscimento del diritto al livello Q1 (doc 4 fasc res). Nel corpo del verbale veniva dato atto della adozione delle delibere commissariali n. 9/2017 con cui il ricorrente veniva nominato responsabile dell'Area Farmaceutica e n. 10/2017 con cui il predetto veniva nominato direttore generale ad interim fino alla nomina del nuovo direttore generale. Ancora, al punto 2 del verbale si legge che il ricorrente "accetta l'incarico conferito quale responsabile per l'Area Farmaceutica nonché l'inquadramento quale quadro Q1 ritenendo entrambi perfettamente rispondenti e conformi al proprio profilo lavorativo, alle proprie competenze ed alla propria professionalità". Al successivo punto 6 le parti convenivano espressamente: "il dr (...) rinunzia esclusivamente verso e nei confronti di (...), a qualsiasi pretesa, azione, diritto, credito, indennizzo e/o risarcimento danno in qualsiasi modo connessi allo svolgimento del rapporto lavorativo con (...), (in via esemplificativa e non esaustiva: inquadramento superiore e relative differenze retributive, pretese retribuzioni e/o differenze retributive arretrate di qualsiasi genere, anche relative al T.F.R., al lavoro straordinario ed al lavoro supplementare, festivo, notturno, trattamenti di malattia, indennità sostitutiva di ferie non godute e del preavviso, asseriti premi, commissioni provvigioni e/o rimborsi spese di qualsiasi genere, incidenze di qualsiasi genere sulle competenze retributive dirette, indirette e differite, compreso il TFR, asserite differenze retributive a qualsiasi titolo, risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale e non, danno da mobbing, danno biologico, danno morale, danno esistenziale, danno da dequalificazione professionale, riqualificazione del rapporto, danno non patrimoniale e quant'altro, richiesta applicazione ccnl diverso da quello applicato, pretese relativa all'applicazione ccnl Farmacie speciali), dovendosi intendere che tutte le voci retributive anche accessorie e proprie del livello riconosciuto e dell'incarico ricevuto, salva l'anzianità in azienda, decorreranno dal 3 aprile 2017" Sulla base di quanto sopra riportatosi ritiene pertanto che le pretese azionate dal ricorrente con il presente giudizio siano precluse dalla intervenuta conciliazione; iv) infine, per completezza, ha aggiunto che con riferimento alle dimissioni dalla carica di direttore generale, asseritamente avvenute il 17 aprile 2019 (mancando ogni prova documentale al riguardo) ed alla imputabilità delle stesse alla condotta datoriale, deve ritenersi che, l'estrema genericità delleallegazioni nonché l'assenza di ogni prova in ordine al danno, determinino anche sotto questo profilo il rigetto della domanda. 2. Contro detta decisione ha proposto appello (...) lamentando: I) la violazione di legge: artt. 113 e 114 D.Lgs. n. 269 del 2000, art. 115 c.p.c.; difetto di motivazione/motivazione apparente; travisamento; errore, sostenendo, in sintesi, che il Tribunale avrebbe errato nel ritenere necessario l'accertamento giudiziale del superiore inquadramento come dirigente, atteso che questo era stato già riconosciuto dal commissario straordinario con le nomine a Direttore dell'area farmaceutica e a Direttore generale; ha aggiunto che il Tribunale avrebbe "ignorato la disciplina statutaria in punto alle cariche dirigenziali come conferite e come espletate" e che le delibere commissariali avevano efficacia di prova fino a querela di falso, sicché il Tribunale negando il conferimento delle funzioni dirigenziali avrebbe violato le norme in rubrica indicate; II) la violazione degli artt. 11 e 12 dello statuto della (...), per non avere tenuto conto il Tribunale che la nomina a direttore generale e a direttore del servizio farmaceutico comportavano la nomina a dirigente, "senza alcuna ulteriore prova da fornire sul piano processuale"; III) la violazione dell'art. 244 c.p.c. per avere il Tribunale erroneamente ritenuto "mancante l'allegazione probatoria sulle mansioni svolte( allegazione invero perfettamente e compiutamente svolta, come riconosciuto dallo stesso estensore) solo perché non articolata anche sul preteso " raffronto" tra quelle svolte e quelle ritenute rivendicate ( pagina 7 rigo 18)", non tenendo conto che "il raffronto o "comparazione" è una valutazione, non un fatto storico suscettibile di prova"; ha aggiunto che la prova non era necessaria "in quanto le funzioni dirigenziali erano e sono state conferite siccome contenute nelle ridette delibere commissariali" e che comunque il Tribunale avrebbe dovuto comparare le attività risultanti dalla prova con le categorie astratte del CCNL dirigenti prodotto in atti; IV) l'insufficiente e contradditoria motivazione per avere il Tribunale pronunciato complessivamente e genericamente su entrambi gli incarichi, affermando "dapprima che l'articolazione istruttoria dell'attore sarebbe " estremamente generica", quindi nel capoverso successivo che essa conterrebbe una "mera elencazione di attività svolte dal ricorrente" e subito dopo che sarebbe mancante dell'articolazione del " raffronto". Al passo successivo ancora che " quand'anche raggiungesse un risultato positivo sarebbe incompleta", così non rendendo chiare le ragioni della decisione; V) l'errata impostazione della decisione, poiché il Tribunale "non doveva accertare alcunché ma soltanto dichiarare, per l'appunto ritenere e presupporre le cariche conferite per procedere alla declaratoria giudiziale del diritto alle retribuzioni dirigenziali"; VI) la violazione di legge: artt. 113 e 114 D.Lgs. n. 269 del 2000, art. 115 c.p.c.; difetto di motivazione/motivazione apparente; travisamento; errore riproponendo sostanzialmente le censure già sopra richiamate, ribandendo di non avere "richiesto un livello superiore" poiché egli era dirigente per nomina commissariale e quindi già in possesso della qualifica dirigenziale per avergliela conferita l'Azienda e il Tribunale avrebbe dovuto porre a fondamento della decisione tutta la documentazione acquisita agli atti; VII) Contraddittorietà - Travisamento - Violazione di legge: art. 2113 c.c. in riferimento all'art. 1965 c.c. ( transazione), Libro IV, Titolo II, Capo IV cod. civile - interpretazione del contratto - all'art. 1362 c.c. ( intenzioni dei contraenti) , 1363 c.c. ( interpretazione complessiva delle clausole), art. 1364 c.c. ( espressioni generali); art. 1366 c.c. ( interpretazione di buona fede); art. 1371 c.c. ( regole finali); errore, per avere il Tribunale errato nell'interpretazione del contratto di transazione, ricomprendendovi anche le domande e le pretese riguardanti le cariche dirigenziali di Direttore dell'Area farmaceutica e di Direttore Generale, mentre oggetto della transazione era stata solo la domanda di riconoscimento della qualifica di quadro di primo livello Q1/1Q di cui al ricorso rubricato RG n. 6929/2015, rimanendo all'evidenza estranea ogni futura pretesa considerato pure che il conferimento della qualifica dirigenziale era stato successivo; ribadisce che gli incarichi in questione presupponevano la qualifica dirigenziale; VIII) la violazione di legge / norma regolamentare cogente delegata: art. 3 CCNL Dirigenti Imprese Pubblica Utilità per avere il Tribunale erroneamente avallato "una pretesa convenzione tra le parti con le quali le medesime avrebbero stabilito per il dirigente una retribuzione inferiore al trattamento minimo complessivo di garanzia come previsto dalla norma"; IX) la violazione art. 112 c.p.c. corrispondenza tra chiesto e pronunciato; art. 115 c.p.c.; errore, travisamento e contraddizione per avere il Tribunale omesso la pronuncia sulla domanda risarcitoria da privazione e svuotamento del ruolo di Direttore dell'area farmaceutica; X) la violazione di legge: artt. 1 e 3 CCNL dirigenti imprese di pubblica utilità come integrato da accordo di rinnovo 18 dicembre 2015 per non avere riconosciuto il trattamento da dirigente 2.1. Si è costituita in giudizio (...) - Azienda (...) eccependo l'inammissibilità dell'appello sia ex art. 348 bis c.p.c. che ex art. 342 c.p.c. e comunque l'infondatezza dello stesso. 2.2. Previ gli incombenti di cui all'art. 437 c.p.c. la causa è stata discussa e decisa come da separato dispositivo. 3. Vanno preliminarmente disattese le preliminari eccezioni di inammissibilità sollevate dall'appellata. 3.1. Il gravame contiene una sufficiente critica delle ragioni della decisione, mentre ogni altra questione appartiene al merito, che deve essere comunque vagliato anche integrando le ragioni della decisione impugnata. 4. L'appello sebbene ammissibile è infondato e la gravata sentenza va confermata anche per le ragioni di seguito esposte. 5. I primi sei motivi di gravame, per come sopra enucleati e riassunti, possono essere trattati congiuntamente per evidente connessione e vanno disattesi. 5.1. Il (...) muove dall'errato presupposto, che emerge chiaramente dall'intera impostazione del gravame, per cui egli era già dirigente, qualifica che a suo dire gli sarebbe stata conferita con le delibere del 3 aprile 2017 di attribuzione della posizione di "responsabile dell'area farmaceutica" (Delib. n. 9 del 3 aprile 2017) e di Direttore Generale (Delib. n. 10 del 2017), sicché egli non aveva affatto chiesto il riconoscimento di un inquadramento superiore, come invece a suo dire erroneamente ritenuto dal Tribunale, che di contro si sarebbe dovuto limitare a prendere atto di detta qualifica, confermata dalle norme statutarie, essendo la domanda volta solo ad ottenere il dovuto e inderogabile trattamento economico previsto dal CCNL dirigenti delle imprese dei servizi di pubblica utilità. 5.2. Agli atti non vi è alcun documento che attesti l'attribuzione all'appellante della qualifica di dirigente né può ritenersi tale la documentazione richiamata dal predetto, che anzi smentisce una tale attribuzione. 5.3. Ed invero nella Delib. n. 9 del 3 aprile 2017 (doc.2) si legge espressamente che l'appellante viene nominato "Responsabile per l'Area Farmaceutica" e che in ragione di tale nomina allo stesso viene "riconosciuto l'avanzamento di carriera corrispondente all'inquadramento come Quadro Q1, qualifica apicale non dirigenziale". 5.4. La chiarezza e inequivocità della disposizione richiamata non necessita di altre osservazioni per escludere, diversamente da quanto ritenuto dall'appellante, che a questi fosse stata "già" attribuita dal Commissario straordinario la qualifica di dirigente. 5.4.1. Il (...) dal 3.4.2017 è stato inquadrato come quadro di 1 livello e non come dirigente, sicché il riconoscimento di tale superiore qualifica avrebbe richiesto un'espressa domanda giudiziale, che, per come afferma lo stesso gravame, non è stata proposta. 5.5. A diverse conclusioni non induce neppure la Delib. n. 10 del 2017 (doc. 3), sempre del 3 aprile 2017, che si limita a nominare il (...) "Direttore Generale, in via d'urgenza e ad interim fino alla nomina del nuovo Direttore Generale" senza affatto conferire al predetto la qualifica di dirigente. 5.5.1 Pertanto, anche con riferimento a tale incarico, a prescindere da ogni altra considerazione di seguito esposta, sarebbe stato necessario avanzare espressa domanda di riconoscimento di inquadramento superiore rispettando i conseguenti oneri di allegazione e prova. 5.6. Di contro il (...), in relazione ad entrambe le posizioni, senza avanzare alcuna specifica domanda di accertamento e riconoscimento della qualifica superiore, senza neppure preoccuparsi di differenziare dette posizioni nonostante le previsioni statutarie (una, infatti, costituisce una possibile e non obbligata articolazione dell'organizzazione aziendale l'altra costituisce un organo aziendale sottoposto a regolamentazione anche normativa per come di seguito esposto), si è limitato a una lunga e generica elencazione di compiti (punto 3.2 e punto 3.4. del ricorso introduttivo), priva di qualsiasi concreto riferimento fattuale e temporale e persino sprovvista del collegamento alla documentazione prodotta (allegati A e B costituiti da numerosi fogli che in assenza di deduzioni e del benché minimo riferimento non possono assumere rilievo né tantomeno lasciati all'incondizionato e autonomo vaglio del giudice fuori da ogni contraddittorio), senza preoccuparsi di illustrare la declaratoria contrattuale di inquadramento Q1 e senza neppure produrre il CCNL applicato al rapporto, producendo esclusivamente il CCNL per i dirigenti delle imprese dei servizi di pubblica utilità. 5.7. Trattandosi di contratto di diritto comune non può essere conosciuto d'ufficio e la mancata produzione, accompagnata persino dall'omessa trascrizione negli atti della declaratoria contrattuale propria dell'inquadramento Q1 (omissione persistente anche in questo grado), impedisce, anche a voler prescindere dall'assenza di un'espressa domanda di riconoscimento, di procedere a quell'accertamento trifasico, correttamente richiamato dal Tribunale, per cui il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative concretamente svolte, nell'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra i risultati di tali due indagini. (ex plurimis tra le più recenti Cass. n. 30580/2019). 5.8. Escluso documentalmente che l'appellante fosse in possesso della qualifica dirigenziale perché a lui già riconosciuta dalle delibere sopra richiamate, quindi smentito documentalmente il presupposto su cui poggia il gravame, il riconoscimento del trattamento retributivo proprio del dirigente previsto dal CCNL invocato avrebbe imposto la richiesta di riconoscimento di inquadramento superiore con l'allegazione e prova che i compiti svolti non potevano esseri ricompresi nella qualifica di inquadramento, oneri affatto adempiuti. 5.9. Tale conclusione, cui perviene sostanzialmente anche il Tribunale, non è inficiata dalle argomentazioni del gravame, che, oltre a muoversi dall'errato presupposto già sopra più volte evidenziato, vorrebbe far discendere il possesso della qualifica dirigenziale dalle norme statutarie, ribadendo la superfluità dell'accertamento giudiziario, accertamento invece necessario tenuto conto che tale qualifica è contestata dalla datrice di lavoro. 5.10 E comunque la prospettazione non è condivisibile atteso che lo statuto di (...) per quanto attiene al ruolo di "responsabile per l'area farmaceutica" si limita a stabilire che "Il Consiglio di Amministrazione-ove necessario- sul documento nomina per l'Area Farmaceutica un responsabile in possesso dei requisiti richiesti dalla L. 1 ottobre 1951, n. 1084 delegandogli i poteri necessari per l'esercizio delle attività ad esso affidate. Il responsabile dell'Area Farmaceutica opera, per le attività di sua competenza, di concerto con il Direttore Generale e nell'ambito delle direttive del Consiglio di Amministrazione" (art. 12). Lo statuto, all'evidenza, non si occupa di indicare la qualifica di inquadramento del "responsabile", sicché, contrariamente a quanto prospettato nel gravame, la norma statutaria non attribuisce automaticamente la qualifica dirigenziale a chi ricopre tale posizione. 5.11 Sarebbe stato onere dell'appellante, come già sopra evidenziato, agire in giudizio allegando e dimostrando che i compiti propri del responsabile del servizio farmaceutico esulavano dal livello Q1 di inquadramento, onere che si imponeva con rigore poiché la categoria dei quadri, per dettato legislativo (L. n. 190 del 1985), è costituita dai prestatori di lavoro subordinato che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa e nella specie il livello Q1, per come si legge nella già richiamata Delib. n. 3 del 2017, rappresentava il livello apicale non dirigenziale. 5.12 Analoghe considerazioni - con qualche ulteriore precisazione riferita alla peculiarità della posizione in esame- devono svolgersi con riguardo alla posizione di Direttore generale, affidata all'appellante solo "in via d'urgenza e ad interim fino alla nomina del nuovo Direttore Generale all'esito di una procedura concorsuale" (Delib. n. 10 del 2017) e cessato per dimissioni il 17.4.2019. 5.13 Nella specie viene in rilievo il ruolo di organo aziendale, sicché la pretesa avrebbe imposto puntuali e circostanziate allegazioni e non la semplice elencazione delle attività che sarebbero state svolte senza neppure un confronto con i poteri affidati dallo statuto a tale organo (art. 11), senza considerare la particolarità dello stesso e senza tenere conto che si trattava di un incarico "ad interim" rispetto al quale la (...) ha dedotto che sostanzialmente le scelte erano rimaste in capo al commissario straordinario. 5.14 Va evidenziato che il (...) nel periodo in cui ha ricoperto l'incarico in questione ha comunque mantenuto quello di "responsabile del servizio farmaceutico" sicché per rivendicare la qualifica dirigenziale in relazione alla ulteriore posizione di Direttore generale avrebbe dovuto allegare e dimostrare di avere svolto tutti i compiti previsti dallo statuto ovvero che i compiti svolti nella veste di Direttore Generale erano stati prevalenti rispetto a quelli propri dell'inquadramento di appartenenza, che, si ricorda, era di quadro Q1. 5.15 Tale onere non è stato assolto in contrasto con il consolidato principio di diritto per cui in caso di mansioni promiscue occorre indagare sulla prevalenza, dal punto di vista quantitativo e/o qualitativo dei compiti assunti come svolti rispetto a quelli riferibili al livello ed alla qualifica superiori né può pretendersi che sia il giudice a operare un tale confronto in assenza di alcuna deduzione della parte, sulla quale, va ricordato, grava l'onere di allegare e di provare gli elementi posti a base della domanda e, in particolare, è tenuta ad indicare esplicitamente quali siano i profili caratterizzanti le mansioni della qualifica rivendicata rispetto a quella di appartenenza, raffrontandoli altresì espressamente con quelli concernenti le mansioni che egli deduce di avere concretamente svolto. 5.16 Infine non può non osservarsi che il direttore di aziende municipali di gestione di farmacie comunali è figura espressamente prevista e regolata dalla legge (art. 4 R.D. 15 ottobre 1925, n. 2578) e che la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che "con riferimento alla nomina dei direttori di aziende municipali di gestione di farmacie comunali, deve escludersi che l'art. 4, secondo e terzo comma, del R.D. 15 ottobre 1925, n. 2578, che per tale nomina prevede il pubblico concorso, sia rimasto abrogato dall'art. 13 st. lav. e che l'esercizio di fatto protratto per un certo tempo delle relative mansioni possa comportare ai sensi di tale ultima disposizione la promozione automatica alla qualifica di direttore" (Cass. n. 7439/2000). 5.17 La peculiarità della posizione in discussione avrebbe richiesto ben altre allegazioni e deduzioni, assenti nel ricorso introduttivo e nel gravame, incentrati unicamente sull'errato presupposto di essere già in possesso della qualifica dirigenziale. 5.18 Le esposte argomentazioni sono sufficienti a disattendere le censure mosse sino da pg 11 a pg 20, censure che, a parte un non chiaro richiamo a disposizioni estranee alla materia del contendere (artt. 113 e 114 D.Lgs. n. 269 del 2000), addebitano alla gravata sentenza una confusione argomentativa affatto riscontrabile laddove questa ha evidenziato l'assenza di una domanda di accertamento giudiziale della qualifica superiore e comunque la carenza di allegazioni a supporto della stessa, allegazioni che non possono sostanziarsi, come vorrebbe invece l'appellante, nella mera elencazione di compiti senza alcuna deduzione rispetto alla pretesa avanzata. 5.19 Il gravame finisce anche per equivocare il tenore della decisione laddove questa non ha affatto respinto l'istanza di prova testimoniale "solo per omessa capitolazione del raffronto tra quelle (le mansioni n.d.e.) svolte e quelle ritenute rivendicate", ma la mancata ammissione è stata determinata dal difetto di allegazione in ordine alla declaratoria contrattuale con riferimento alla qualifica posseduta cosicchè la mera elencazione delle attività svolte dal ricorrente appare manchevole della ulteriore fase del raffronto con le stesse ai fini della sussunzione nel livello rivendicato, sicché per le carenze allegatorie sopra enucleate, tale prova, quand'anche raggiungesse un risultato positivo, sarebbe incompleta, in quanto carente della fase di raffronto di cui si è detto ai fini del riconoscimento della invocata superiore sussunzione. 5.20 L'evidenziata carenza resta confermata anche in questo grado non avendo il gravame fornito elementi per superarla, come già sopra evidenziato, sicché va confermato anche il rigetto della prova testimoniale. 5.21 Il Tribunale ha anche proseguito affermando che quindi le mansioni, nello scarno contenuto che rimane esente da vizi di genericità dell'istanza istruttoria, che si affermano eseguite in ricorso non appaiono comunque congruenti rispetto alla superiore qualifica invocata, per cui la loro dimostrazione storica risulta irrilevante, procedendo così a una valutazione di non rispondenza dei compiti elencati al profilo superiore senza che tale valutazione sia stata oggetto di puntuale e specifica censura, essendosi limitato il gravame ad affermare di non essere "in grado di verificare la correttezza del ragionamento", insistendo nell'affermare che la qualifica dirigenziale sarebbe stata "erroneamente definita invocata" e ciò sul presupposto, di cui più volte è stata sopra evidenziata l'erroneità, di essere già in possesso di tale qualifica. 6. L'errata impostazione e le lacune sopra evidenziate assumono maggior rilievo considerata la conciliazione giudiziale intervenuta tra le parti e oggetto del settimo motivo di gravame. 6.1. Per come accertato dal Tribunale, e per come risulta documentalmente provato, il (...) ha in precedenza agito in giudizio nel corso del 2015 rivendicando l'inquadramento superiore nella categoria (...) dal 2000 e nel corso di detto giudizio le parti hanno raggiunto un accordo proprio in ragione delle intervenute Delib. n. 3 del 3 aprile 2017 e Delib. n. 10 del 3 aprile 2017 già sopra esaminate. 6.2. Più chiaramente, per come emerge dal verbale di conciliazione giudiziaria dell'11.5.2017 prodotto in atti, al (...) in sede transattiva è stato riconosciuto l'inquadramento in Q1 a decorrere dal 3.4.2017 in ragione dell'affidamento allo stesso dell'incarico di "responsabile per l'area farmaceutica" e della nomina ad interim di direttore generale fino alla nomina di un nuovo direttore all'esito della procedura concorsuale. 6.3. Proprio a fronte del riconosciuto livello Q1, connesso all'attribuito incarico, il (...) ha espresso le rinunce elencate nel verbale, tra le quali significativamente quella "di nulla potere eccepire in qualsiasi altra sede giudiziale e non" in ordine all'incarico e all'inquadramento attribuiti, all'epoca "già in corso di svolgimento", come precisato nello stesso verbale, ritenendo sia l'incarico che l'inquadramento "perfettamente rispondenti e conformi al proprio profilo lavorativo, alle proprie competenze e alla propria professionalità" (cfr in particolare punti 1 e 2). 6.4. In sostanza il (...), con l'accordo in esame, ha accettato l'inquadramento in Q1, ritenendolo così rispondente alla posizione affidategli di responsabile dell'area farmaceutica, salvo poi agire in giudizio, in evidente contrasto con la richiamata conciliazione, assumendo di essere dirigente e di avere diritto al relativo trattamento economico. 6.5. Il ricorso introduttivo non contiene alcun riferimento all'accordo transattivo in esame né alcuna contestazione, sicché questo non può non assumere rilievo nella presente controversia, laddove è lo stesso appellante che ha accettato l'inquadramento contrattuale nella categoria dei quadri e le mansioni connesse, con impossibilità di poterli rimettere in discussione, così come sostanzialmente rilevato dal Tribunale. 6.6. L'accordo in esame, per come si evince dal contenuto dello stesso e per come eccepito da (...), è stato stipulato quando (11.5.2017) l'inquadramento e le mansioni erano state già assegnate e il corrispondente trattamento economico già in godimento (dal 3.4.2017 punto 6) tant'è che, come evidenziato, nel verbale se ne dà espressamente atto (punto 1) a significare che la conciliazione andava a chiudere non solo l'oggetto della lite instaurata dal (...) nel 2015 volta proprio ad ottenere l'inquadramento riconosciuto in via transattiva, ma anche ad evitare future liti sulla correttezza di detto inquadramento attesi i contrasti tra le parti su tale profilo del rapporto (l'accordo per prevenire liti future è espressamente contemplato dall'art. 1965 c.c.). 6.7. Ne consegue che, diversamente da quanto ritenuto nel gravame, la conciliazione preclude all'appellante di rivendicare un diverso inquadramento, come invece fatto in questa sede, soprattutto considerato che nulla è stato dedotto e contestato con riguardo a detto verbale transattivo (sicché nulla può essere rilevato d'ufficio) né sono state dedotte circostanze diverse e sopravvenute, essendosi limitata la parte ad assumere che con le più volte citate delibere, oggetto dell'accordo conciliativo, gli sarebbe stato conferito "l'incarico dirigenziale", circostanza affatto supportata da dette delibere. 6.8. Per quanto esposto l'azionata pretesa risulta infondata anche per tale autonoma ragione e il motivo volto a contestare il rilievo e l'interpretazione del Tribunale alla conciliazione giudiziale deve essere respinto. 7. La conferma del rigetto della pretesa dell'appellante di vedersi riconosciuta la qualifica di dirigente assorbe le altre questioni sollevate nei motivi già esaminati e nei motivi ottavo e decimo, volti a rivendicare il trattamento economico previsto dal CCNL dirigenti imprese pubblica utilità, fondati, si ripete, sull'erroneo presupposto di essere in possesso della qualifica di dirigente laddove l'appellata in nessun documento ha attribuito o comunque inteso attribuire tale qualifica. 7.1. Ne consegue che non può essere lamentata sic et simpliciter la violazione della disciplina collettiva. 7.2. In ordine alle pretese economiche va, altresì, osservato che per lo svolgimento del ruolo di Direttore generale l'atto di conferimento prevedeva il riconoscimento di "un'indennità aggiuntiva temporanea", "non eccedente la metà di quella attribuita quale superminimo al Direttore Generale cessato dall'incarico". 7.3. L'appellante non ha contestato di avere percepito detta indennità, che all'evidenza andava a compensare l'ulteriore attività temporaneamente richiesta da detto ruolo, né la congruità della stessa è stata messa in discussione, essendosi limitato il (...) ad assumere di avere invece diritto al trattamento da dirigente perché in detta nomina sarebbe insita detta qualifica. 7.4. Si è già sopra osservato come tale prospettazione non trovi conferma in atti, così come si è osservato che l'appellante si è limitato alla mera generica elencazione di compiti senza neppure confrontarli con le previsioni statutarie distinguendo adeguatamente quanto riconducibile all'uno o all'altro incarico (non essendo all'evidenza sufficiente la mera premessa "quale direttore dell'area farmaceutica ha svolto?" quale direttore generale ha svolto"), senza allegare prima e dimostrare dopo di avere concretamente assolto integralmente e in piena autonomia tutti i compiti propri del direttore generale, attese anche le contestazioni di (...), e senza avanzare alcuna diversa pretesa se non, si ribadisce, quella di essere considerato dirigente perché già in possesso di tale qualifica (così da precludere ogni altra pronuncia diversa da quella conseguente alla causa petendi e al petitum azionati). 8. Con il nono motivo di gravame l'appellante censura la gravata sentenza nella parte in cui ha respinto anche la domanda risarcitoria fondata sulla denunciata privazione e sul lamentato svuotamento del proprio ruolo di direttore dell'area farmaceutica. 8.1. Al riguardo non può non evidenziarsi l'assoluta genericità della domanda, la non corretta impostazione della stessa e, così come rilevato dal Tribunale, sebbene in una diversa prospettiva, l'assenza di prova del danno. 8.2. Ed invero il ricorso introduttivo sul punto muove dall'errato presupposto della "violazione della delibera di assegnazione della qualifica dirigenziale", delibera che, per come più volte evidenziato, non sussiste. 8.3. Ciò che però assume decisivo rilievo è l'assenza di allegazioni e deduzioni in punto di danno, essendosi limitato l'appellante a elencare i compiti dai quali sarebbe stato a suo dire esautorato e ad affermare di avere "diritto al risarcimento dei danni subiti a causa delle condotte illecite e contrarie a buona fede perpetrate in suo danno, a far tempo dal mese di aprile 2019, in quella misura che il Tribunale riterrà equo, anche in rapporto alla retribuzione prevista per la qualifica attribuita". 8.4. Per consolidata giurisprudenza di legittimità il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma può essere provato dal lavoratore, ai sensi dell'art. 2729 c.c., attraverso l'allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione. 8.5. Nel caso di specie, però, manca la benché minima allegazione, avendo l'appellato trascurato di offrire qualsiasi elemento a supporto dell'azionata pretesa e non potendo tale lacuna essere colmata dall'intervento d'ufficio pena la violazione del principio della domanda e del contraddittorio. 8.6. Tra l'altro nella specie il periodo in discussione è brevissimo, intercorrendo tra la data dell'asserita privazione, 17 maggio 2019, e la data di deposito del ricorso (1.10.2019), non potendosi all'evidenza estendere oltre la domanda, sicché la prova dell'effettiva sussistenza di pregiudizi risarcibili, e prima ancora l'allegazione, si imponeva con maggior rigore. 8.7. Quanto esposto è sufficiente a confermare il rigetto della pretesa in esame. 9. Le spese del grado seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo. In considerazione del tipo di statuizione emessa, deve darsi atto che sussistono in capo all'appellante le condizioni oggettive richieste dall'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1 comma 17 L. 24 dicembre 2012, n. 228, per il raddoppio del contributo unificato se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta l'appello; condanna l'appellante a rifondere all'appellata le spese di lite del grado, liquidate in Euro 3.473,00 oltre rimborso al 15%, iva e cpa; in considerazione del tipo di statuizione emessa, si dà atto che sussistono le condizioni oggettive in capo all'appellante richieste dall'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1 comma 17 L. 24 dicembre 2012, n. 228, per il raddoppio del contributo unificato se dovuto. Così deciso in Roma il 2 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 3 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte d'Appello di Milano, sezione lavoro, composta da: Dott. Giovanni PICCIAU - Presidente Dott. Giovanni CASELLA - Consigliere rel. Dott.ssa Daniela MACALUSO - Giudice Ausiliario ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado d'appello avverso la sentenza n. 186/22 del Tribunale di Pavia, est. Dott.ssa Do.On., discussa all'udienza collegiale del 6/2/2023 e promossa DA (...), rappresentata e difesa dall'Avv. Fr.Br., ed elettivamente domiciliata presso il suo studio sito in Pavia, Corso (...) APPELLANTE CONTRO (...), titolare dell'omonima impresa individuale, rappresentato e difeso dall'Avv. Ni.Vi., ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Vigevano, Corso (...) APPELLATO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza n. 186/22 pubblicata il 18/05/22 il Tribunale Ordinario di Pavia, Sezione Lavoro (Dott.ssa (...)) ha respinto il ricorso promosso da (...) contro (...) agente monomandatario della SIAE e titolare di impresa individuale, condannando la ricorrente alla refusione delle spese di giudizio liquidate in Euro 2.000,00 oltre IVA e CPA. Con ricorso depositato in data 31/07/2019, (...) dichiarava di essere stata assunta da (...) in data 01/03/2016 tramite contratto part-time orizzontale di 20 ore settimanali (dalle 8:15 alle 13:15) stante le sue esigenze familiari di madre di due figli minori. Dichiarava che i rapporti con il datore di lavoro si erano "raffreddati" a seguito della presenza in azienda della nuova fidanzata di quest'ultimo, la quale, aveva immotivatamente sviluppato nei confronti della ricorrente una forte gelosia. Il Sig. (...) secondando l'atteggiamento persecutorio della propria fidanzata adottava strategia per indurre la ricorrente a dimettersi: prendendo la decisone unilaterale di ridurre l'orario di lavoro della stessa a sole 6 ore settimanali, da svolgersi nella fascia pomeridiana, impedendole così di accudire i propri figli, variando le sue mansioni e relegandole alle uniche attività di back office mentre in precedenza la ricorrente di fatto reggeva l'ufficio. Ravvisando in tali comportamenti misura irragionevole e persecutoria, generandole uno stato di ansia costante che l'aveva costretta, a fine marzo 2019, a dimettersi per giusta causa, adiva il Tribunale chiedendo la condanna del Sig. (...) al risarcimento dei danni derivanti dalla propria illegittima condotta e comunque la corresponsione delle retribuzioni omesse, oltre al Tfr e all'indennità di mancato preavviso. Si costituiva tardivamente il Sig. (...) contestando i fatti avversari e chiedendone il rigetto. Il giudice di prime cure, all'esito dell'esperita istruttoria, dichiarava infondato il ricorso dal momento che i testi escussi non avevano fornito prova di alcun atteggiamento persecutorio e/o vessatorio di (...) nei confronti della ricorrente e avevano confermato che i rapporti tra gli stessi si erano soltanto raffreddati dopo la comparsa della fidanzata del datore di lavoro. Pertanto, in assenza di accertamento dell'esistenza di atti persecutori posti in essere dal datore di lavoro il tribunale di prime cure rigettava la richiesta di danni non patrimoniali. Non sussisteva, per il giudice di prime cure, nemmeno la giusta causa di dimissioni a fronte dell'unilaterale riduzione di orario non accettata dalla ricorrente in quanto parte resistente, durante il periodo di malattia che aveva preceduto le dimissioni, aveva continuato a corrispondere lo stipendio previsto dal precedente orario part-time, dimostrando di non voler attuare la riduzione di orario in assenza di consenso della lavoratrice. In assenza della giusta causa di dimissioni risultava anche giustificata la trattenuta operata dal datore di lavoro per mancato preavviso e corretti i conteggi sulle spettanze retributive di parte resistente, dal momento che la ricorrente non aveva mai ripreso il lavoro dopo essersi posta in malattia il 12/09/2018. La Sig.ra (...) con atto depositato in data 15/11/22 ha proposto appello, insistendo per la riforma della sentenza di primo grado. Questi i motivi di appello: - Primo motivo d'appello. Sulla asserita mancata prova dell'atteggiamento persecutorio o comunque della violazione del dovere di protezione di cui all'art. 2087 c.c. Sussistenza di giusta causa di dimissioni per la violazione del dovere datoriale di protezione dell'integrità psicofisica della dipendente nell'esercizio delle mansioni e sul luogo di lavoro. Sul punto parte appellate denuncia la decisione del giudice dal momento che la stessa è stata presa in assenza di considerazione di quanto emerso dalle risultanze di causa. Le lamentele della Sig.ra (...), infatti, non riguardavano tanto "il raffreddamento" dei rapporti lavorativi con il Sig. (...) o il grado di persecutorietà degli stessi quanto l'atteggiamento omissivo e tollerante del datore di lavoro nei confronti di una forma di aggressione psicologica di cui l'appellante era vittima, proveniente da un soggetto estraneo al lavoro (fidanzata del Sig. M.), che era presenza fissa in azienda e fonte di continue vessazioni. Parte appellante insiste nell'affermare che il Sig. (...), avallando tali comportamenti intimidatori si era reso colpevole di violazione dei doveri di protezione richiesti dall'art. 2087 c.c. ponendo in essere una forma di inadempimento contrattuale idonea a giustificare le dimissioni ex art. 2119 c.c. Infatti, contrariamente a quanto dichiarato dal Giudice, dall'istruttoria era chiaramente emerso il colpevole atteggiamento del Sig. (...), che non era mai intervenuto per garantire serenità sul luogo di lavoro, come sarebbe stato suo dovere fare. Sull'asserita mancata prova dell'atteggiamento persecutorio. Sussistenza di elementi univoci che dimostrano l'intento di indurre la ricorrente alle dimissioni.Esercizio emulativo e abusivo, oltre che illegittimo, del potere datoriale di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali su orario e mansioni L'appellante ricorda ancora una volta tutti gli atteggiamenti posti in essere nei suoi confronti, da qualificarsi come chiari segni di una strategia attuata per allontanarla dal proprio posto di lavoro, poiché diventata un problema personale del titolare e della sua fidanzata: Nella sentenza infatti non viene fatto alcun cenno a tutto lo scambio di richieste e comunicazioni in merito alle condizioni lavorative sull'orario e sulla variazione delle mansioni, i quali se valutati globalmente contribuirebbero a costituire, oltre che un'autonoma ragione che giustifica le dimissioni, una ulteriore dimostrazione della reale intenzione del datore di lavoro che, non avendo valido motivo per licenziare la dipendente, aveva fatto in modo che fosse lei stessa a interrompere il rapporto di lavoro, dimettendosi. Ben conoscendo gli impegni familiari della sua dipendente il Sig. (...) sapeva che, andando a colpire le sue condizioni di lavoro, l'avrebbe messa in grande difficoltà e infatti sul punto parte appellante ricorda la lettera del 09/08/19, nella quale dapprima le veniva chiesto il passaggio dal regime a tempo parziale a quello a tempo pieno per poi, a seguito di sua accettazione (seppure a malincuore) cambiare di nuovo idea e ridurle ulteriormente l'orario (da 20 ore a 6), spostando inoltre la fascia oraria di impegno lavorativo al pomeriggio, ben sapendo la sua impossibilità ad accettare tale cambiamento. Questa fascia oraria per l'appellante non aveva alcuna logica e ragione di essere, posto che la mansione richiesta veniva ridotta alle solo funzioni di back office e dunque una mansione da svolgere indifferentemente in qualunque fascia oraria senza il vincolo imposto dagli orari di apertura al pubblico. Appare quindi per la stessa innegabile ed evidente che l'intento perseguito dal datore di lavoro, lungi dall' essere dettato da reali esigenze organizzative, era motivato esclusivamente dall'obiettivo di liberarsi definitivamente dell'appellante inducendola a desistere, data la scomodità dell'orario e la totale antieconomicità delle nuove condizioni contrattuali imposte. Carenza di motivazione della sentenza nella parte in cui ignora totalmente le conseguenze delle vicende di causa sotto il profilo della salute psicofisica della dipendente e la loro rilevanza ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di dimissioni Lo stato psicoemotivo in cui versa l'appellante, indotto dalla stressante situazione lavorativa alla quale era stata sottoposta è stato provato dalla perizia del medico legale, nella quale si dava conto di una sintomatologia da disturbo dell'adattamento con ansia di grado non complicato, sintomatologia insorta già a giugno 2018. Da settembre 2018 il disturbo si era poi aggravato e, come riferisce il medico legale, "la signora andò incontro a un completo tracollo psicofisico con importante componente ansiosa e depressiva, con sintomi quali disturbi del sonno". - Secondo motivo d'appello. Sulla asserita insussistenza della giusta causa a fronte della unilaterale riduzione dell'orario di lavoro Il datore di lavoro, procedendo immotivatamente a mutare (ridimensionandolo) l'orario di lavoro dell'appellante ha violato la disciplina di legge e quella del CCNL degli Studi Professionali (fonte collettiva applicabile al caso in esame, per rinvio espresso nel contratto individuale). Il contratto individuale sottoscritto dalle parti, infatti, ricorda l'appellante, non aveva previsto espressamente alcuna clausola elastica o flessibile: il datore di lavoro non aveva perciò alcun diritto di imporre alla Sig.ra (...) una variazione dell'orario, e, men che meno, una riduzione e una modifica in senso peggiorativo delle sue condizioni di lavoro. Sul punto parte appellante impugna anche tale statuizione del giudice di prime cure: "Non sussiste la giusta causa di dimissioni neanche a fronte dell'unilaterale riduzione di orario non accettata dalla ricorrente: parte resistente durante il periodo di malattia che ha preceduto le dimissioni ha continuato a corrispondere lo stipendio previsto dal precedente orario part time così allo stato dimostrando di non voler attuare la riduzione dell'orario in assenza di consenso e quindi in conformità alla richiesta del legale di controparte" dal momento che il suddetto assunto era frutto di un'errata valutazione dei fatti operata dal tribunale. Infatti: la malattia, che, come noto, sospende la prestazione lavorativa, era intervenuta il 12-9-2019, il giorno dopo la comunicazione di riduzione dell'orario e prima che essa potesse spiegare i suoi effetti. Dunque, il datore di lavoro non aveva fatto in tempo ad attuare la sua disposizione di modifica dell'orario, né aveva potuto farlo, perché nel frattempo la Sig.ra (...) era in sospensione per malattia. Non aveva alcun valore concludente quindi osservare che le buste paga fossero parametrate sull'orario precedente alla modifica dal momento che tale fatto non era certo dipeso dal datore di lavoro, il quale non versa l'indennità di malattia, ma anticipa soltanto una indennità che è a carico dell'INPS. Una volta cessato il periodo di malattia, alla fine del mese di marzo 2019, preso atto che il datore di lavoro non aveva mai comunicato alcun ripensamento rispetto alla propria decisione e non aveva quindi nessuna intenzione di ripristinare le abituali condizioni di lavoro, l'appellante, provata emotivamente, si era vista costretta a dimettersi per giusta causa, ritenendo che non ci fossero le condizioni per riprendere anche solo provvisoriamente l'attività lavorativa alle condizioni attese al rientro sul posto di lavoro. - Terzo motivo di appello. Carenza di motivazione. Illegittimità ed erroneità della sentenza nella parte in cui giudica corretti i conteggi di parte resistente e respinge le domande di versamento delle differenze retributive dovute La Sig.ra (...) nel ricorso dava atto di avere ricevuto 2 bonifici dopo la cessazione del rapporto, di importo insufficiente non precisamente contestato perché non in possesso delle buste paga e del prospetto Tfr. Una volta presa visione delle buste paga le era stato possibile formulare dei rilievi puntuali, oggetto delle note di trattazione scritta depositate per l'udienza del 9-3-2021. Tali rilievi - ad avviso dell'appellante - sarebbero stati completamente ignorati dal Giudice che ha respinto la domanda di pagamento delle differenze maturate, ignorando addirittura l'esplicita ammissione della parte convenuta che aveva dichiarato di non aver correttamente versato l'importo dovuto a titolo di Tfr. L' appellante insiste quindi per il pagamento dei seguenti importi: Euro 379,00 sulla retribuzione di marzo 2019 Euro 64,27 ferie non godute Euro 12,25 ex festività non godute Euro 34,54 rol non goduti Euro 128,94 mensilità aggiuntive per 13ma e 14ma Euro 1428,22 restituzione indebita trattenuta indennità di preavviso e liquidazione medesimo importo a titolo di indennità ex art. 2119 c.c. Euro 191,45 a titolo di differenza sul tfr. Totale differenze dovute: Euro 2.238,67 (da pag. 23 a 25 riporta i conteggi effettuati per addivenire a tali importi: "Busta paga maggio: Ferie: nella busta di maggio manca un rateo mensile pari a 2,16 giornate e quindi spetta alla ricorrente a titolo di indennità per ferie non godute, non correttamente conteggiate nella busta paga di maggio, la somma di Euro 64, 27 (pari alla paga giornaliera di Euro 29,75 x 2,16). Per quanto riguarda le ex festività non godute manca un rateo, che è calcolabile moltiplicando 1,33 (ore) x paga oraria Euro 9,2097 = Euro 12,25 I Rol si bloccano invece a gennaio, mancano quindi nella busta paga di maggio i ratei maturati nel trimestre gennaio-marzo. Tenuto conto che il monte annuale spettante alla ricorrente, lavoratrice part time, è pari a 15 ore, ovvero pari al 50% del monte ore dovuto nel contratto full time che è di 30 ore, le differenze retributive dovute possono essere così calcolate: monte ore 15:12x3= 3,75 ore x Euro 9,2097 (paga oraria) = Euro 34,54 Anche sulla 13 ma e 14 ma manca un rateo nella busta paga di maggio. In particolare, se si tiene conto che un rateo di 13ma e di 14ma ammonta a 64,47 (ovvero è pari alla paga mensile part time di Euro 773,61 : 12= Euro 64,67), emerge la differenza tra quanto dovuto e quanto liquidato nell'ultima busta paga di maggio. Infatti, l'importo dovuto a titolo di 13ma sarebbe stato pari a Euro 193,40 a fronte di un percepito pari a 128,96. La differenza fra dovuto e percepito è pari a 64,47. Lo stesso dicasi per la 14ma in cui, a fronte di un dovuto pari a 580,21, è stato calcolato l'importo di 515,74, con una differenza pari a 64,47. Il totale dovuto alla ricorrente a titolo di differenza sulle mensilità aggiuntive è pari a Euro 128,94"). - Quarto motivo d'appello. Illegittimità della sentenza in punto condanna alle spese Nell'auspicata riforma della sentenza, parte appellante chiede la riforma della decisione anche in merito alla condanna alla refusione delle spese di lite. In data 24/01/2023 si è costituito in giudizio il Sig. (...) chiedendo il rigetto del ricorso avversario in quanto infondato e la conferma della sentenza impugnata. All'udienza di discussione la causa è stata decisa come da dispositivo in calce. MOTIVI DELLA DECISIONE L'appello è solo parzialmente fondato. L'appellante censura la sentenza qui impugnata per distinti ordini di ragioni: in primo luogo, per aver il Tribunale ritenuto insussistente l'atteggiamento persecutorio da parte del datore di lavoro, nonché della fidanzata di quest'ultimo, e, di conseguenza, per aver ritenuto non violato il dovere di protezione ex art. 2087 c.c.; in secondo luogo, per avere il Giudice ingiustamente dichiarato l'insussistenza della giusta causa delle dimissioni a fronte della unilaterale riduzione dell'orario di lavoro; in terzo luogo per aver il Tribunale giudicato corretti i conteggi di parte resistente e respinto le domande di versamento delle differenze retributive dovute; infine, per avere condannato l'odierna appellante a rifondere a (...) le spese di giudizio. 1. Per quanto attiene alle condotte asseritamente persecutorie poste in essere dal Sig. (...) e dalla fidanzata di quest'ultimo, questo Collegio non ritiene raggiunta la piena prova dei fatti allegati. Com'è noto, integra la nozione di mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti giuridici o meramente materiali ed eventualmente anche leciti, diretti alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente, di cui viene lesa - in violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 c.c. - la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica). Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio unificante i singoli fatti lesivi, che rappresenta elemento costitutivo della fattispecie (vedi, ex plurimis, Cass., 17/02/2009, n.3785). Nella specie, come ritenuto dal Tribunale, non emergono frequenti comportamenti aggressivi posti in essere dal Sig. (...) e/o dalla sua fidanzata riconducibili alla fattispecie del mobbing o comunque tali da cagionare uno stato d'ansia che non consentisse la prosecuzione della prestazione lavorativa. Né può ravvisarsi nella specie un'ipotesi di straining, in quanto la Suprema Corte ha già affermato, con indirizzo cui il Collegio intende dare continuità, che lo straining altro non è se non una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 cod. civ., norma di cui da tempo è stata fornita un'interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32,41 e 2 Cost. (v. Cass. 4 novembre 2016, n. 3291 e la recente Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977). Nelle decisioni citate è stato precisato che non integra violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. l'aver qualificato la fattispecie come straining mentre in ricorso si sia fatto riferimento al mobbing, in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni "stressogene" che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, la già citata Cass. n. 3291/2016 e la più recente Cass. 29 marzo 2018, n. 7844). Invero, nella specie, non si ravvisano neppure queste caratteristiche attenuate poiché dall'istruttoria non è emersa alcuna condotta persecutoria, avendo i testimoni riferito solamente di un generale clima di "freddezza" sul luogo di lavoro (vedi (...)), mentre, in relazione alle condotte della fidanzata del Sig. (...), è emerso un solo episodio, ossia quello relativo alla corrispondenza whatsapp del 26/06/18, mentre non sono emerse altre condotte vessatorie poste in essere da quest'ultima sul luogo di lavoro. In assenza di condotte integranti la fattispecie del mobbing o dello straining, non si può nemmeno ritenere sussistente la violazione dell'art. 2087 c.c. da parte del datore di lavoro. Di conseguenza, tali condotte isolate non possono costituire giusta causa di recesso da parte dell'appellante. 2. Il secondo motivo di censura è meritevole di accoglimento. Come correttamente rilevato dall'appellante, e contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, la modificazione unilaterale dell'orario di lavoro, considerata unitamente al complessivo peggioramento delle condizioni lavorative della dipendente, costituisce giusta causa delle dimissioni di quest'ultima. Infatti, in data 9 agosto 2018, il Sig. (...) ha inviato ai propri dipendenti una missiva nella quale li invitava a prestare o meno la loro adesione alla modifica dell'orario di lavoro in orario full time (40 ore settimanale), chiedendo loro altresì di dare un riscontro entro il 24 agosto dello stesso anno. Con una lettera del 24 agosto 2018, la Sig.ra (...) ha richiesto al datore di lavoro ulteriori chiarimenti. Chiarimenti poi forniti dal Sig. (...) con una lettera del 3 settembre 2018, nella quale ribadiva la necessità organizzativa di adibire due lavoratori all'orario full time di 40 ore settimanali, indicando le mansioni richieste, e sollecitando una pronta risposta da parte della Sig.ra (...). Con lettera del 10 settembre 2018, la lavoratrice ha confermato la propria necessità di conservare il posto di lavoro, aggiungendo che, essendo comunque obbligata a mantenere l'impiego in ragione dei propri carichi familiari, avrebbe accettato, obtorto collo, la modificazione in aumento dell'orario di lavoro. Il giorno seguente, il datore di lavoro inviava una raccomandata a mano nella quale comunicava che, dal giorno 12/09/2018, l'orario di lavoro della Sig.ra (...) sarebbe stato di 6 ore settimanali (martedì e giovedì dalle ore 14,30 alle 17,30), con mansioni esclusivamente di back office e retribuzione riproporzionata al nuovo orario. Il 12 settembre 2018, la lavoratrice iniziava il periodo di malattia che sarebbe proseguito sino alla data delle dimissioni, formalizzate il 02.04.2019. Nel frattempo, veniva recapitata la missiva della dipendente, datata 18.09.2018, con cui manifestava la volontà di proseguire nel contratto part time, ovverosia quello di 20h all'epoca in vigore tra le parti. Dal 18 settembre non sono più seguiti scambi epistolari tra le parti. Alla luce del quadro appena ricostruito, emerge come la riduzione dell'orario di lavoro sia stata imposta unilateralmente dal datore di lavoro, poiché, a seguito della manifestata volontà della Sig.ra (...) di accettare il nuovo orario di 40h settimanali e dell'espresso rifiuto della successiva modifica in 6h settimanali, non ha più modificato la propria proposta, né ha dichiarato di accettare la controproposta della lavoratrice. In materia di part-time, l'art. 6 del D.Lgs. n. 81 del 2015 prevede che "il rifiuto del lavoratore di concordare una variazione dell'orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento". Tale norma afferma una regola già prevista dalla precedente normativa sul part-time, e fa da pendant all'art. 8 secondo cui "il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento". La ratio di queste disposizioni è facilmente identificabile. Qualunque mutamento dell'orario di lavoro - sia il passaggio da part-time a full time o viceversa, sia una variazione della fascia oraria del part-time - presuppone l'accordo tra le parti e, dunque, il consenso del lavoratore: consenso che non può essere estorto, né ottenuto dietro minaccia di licenziamento. Di riflesso, è sicuramente illegittimo, perché in contrasto con il divieto di cui si discute, il licenziamento che costituisce una ritorsione del datore di lavoro nei confronti del dipendente che ha rifiutato di aderire a una proposta di modifica dell'orario di lavoro. Ne consegue, quindi, che la pretesa del datore di lavoro di imporre unilateralmente la trasformazione del contratto part time senza il consenso del lavoratore integra un grave inadempimento e, come tale, giustifica senz'altro le dimissioni del lavoratore per giusta causa. Nella specie, l'imposizione unilaterale della modifica oraria, peraltro accompagnata dalla modifica in peius della retribuzione e dalla riduzione delle mansioni, giustifica senz'altro le dimissioni per giusta causa da parte della sig.ra (...). Inoltre, come correttamente individuato dall'appellante, il contratto individuale sottoscritto dalle parti non aveva previsto espressamente alcuna clausola elastica o flessibile: il datore di lavoro non aveva perciò alcun diritto di imporre alla sig.ra (...) una variazione dell'orario, e, men che meno, una riduzione e una modifica in senso peggiorativo delle sue condizioni di lavoro. Risulta inconferente l'eccezione di parte datoriale in base alla quale le dimissioni non sarebbero avvenute immediatamente dopo la condotta inadempiente del sig. (...) e, dunque, non sarebbero sorrette da una giusta causa. Invero, nella specie, le dimissioni sono state presentate immediatamente dopo il periodo di malattia, la quale, secondo consolidata giurisprudenza, costituisce causa di sospensione del rapporto di lavoro. In forza di tale effetto sospensivo, non possono essere considerate tardive le dimissioni che intervengano contestualmente allo spirare del termine della malattia. Va, infatti, rimarcato come la verifica inerente alla sussistenza del requisito della immediatezza, che condiziona la validità e tempestività delle dimissioni del lavoratore per giusta causa, da intendere - secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte (vedi, da ultimo, Cass., 06/03/2020, n. 6437) - "in senso relativo" (Cfr. anche Cass., 11/12/2018, n. 31999, secondo cui il principio dell'immediatezza, che condiziona la validità e tempestività delle dimissioni del lavoratore per giusta causa, deve essere inteso in senso relativo e può essere, nei casi concreti, compatibile con un intervallo ragionevole di tempo). Per tali ragioni, sussiste la giusta causa delle dimissioni della sig.ra (...), in quanto presentate immediatamente dopo il periodo di malattia e a fronte dell'illegittima pretesa del datore di lavoro di imporre - per ritorsione - una riduzione unilaterale dell'orario di lavoro. Nessun comportamento concludente o acquiescente ha posto in essere la lavoratrice all'imposizione datoriale, reagendo, anzi, tempestivamente, alla modificazione oraria, opponendosi nel primo giorno utile (terminata cioè la malattia) a tale disposizione illegittima. La lavoratrice (vedi infra) ha quindi diritto alla restituzione indebita della trattenuta per l'indennità di preavviso e alla liquidazione del medesimo importo a titolo di indennità (ex art. 2119 c.c.). 3. Anche il terzo motivo di appello, in quanto consequenziale al secondo, merita accoglimento. La lavoratrice ha diritto di ricevere la piena retribuzione per tutto il periodo in cui è stata in malattia (comprensivo, quindi, di tutto il mese di marzo 2019), non potendo avere alcuna rilevanza il periodo di comporto in quanto il superamento di tale periodo, previsto dall'art. 2110 c.c., non costituisce un'autonoma causa di automatico e giustificato recesso, ma solo una condizione necessaria perché il datore di lavoro possa porre in essere un valido licenziamento. In assenza di un formale recesso intimato dal datore, il rapporto di lavoro non può dirsi affatto cessato. Poiché i calcoli effettuati dall'appellante - in parte non specificamente contestati, in parte non contestati in assoluto - si ritengono correttamente effettuati, l'appellato è tenuto a corrispondere alla Sig.ra (...) le seguenti somme: Euro 379,00 sulla retribuzione di marzo 2019; Euro 64,27 per ferie non godute; Euro 12,25 a titolo di ex festività non godute; Euro 34,54 per rol non goduti; Euro 128,94 a titolo di mensilità aggiuntive per 13ma e 14ma; Euro 1428,22 quale restituzione indebita trattenuta indennità di preavviso e liquidazione medesimo importo a titolo di indennità ex art. 2119 c.c.; Euro 191,45 a titolo di differenza sul tfr. 4. Vista la parziale reciproca soccombenza, l'appellato dev'essere condannato al pagamento delle spese del doppio grado nella misura del 50%, liquidate come da dispositivo, in ragione della controversia e delle tabelle dei compensi professionali di cui al D.M. n. 55 del 10 marzo 2014, come modificato dal decreto 8-3-2018, n. 37. Considerato che per mero errore materiale nel dispositivo della sentenza si è fatto erroneamente riferimento all'"appellante" invece che all'"appellato" quale parte onerata al pagamento dell'importo complessivo di Euro 2.238,67 oltre accessori (rigo 14), nonchè quale parte condannata al pagamento delle spese del doppio grado nella misura del 50% (rigo 17), si procede - come consentito dalla giurisprudenza della Suprema Corte (vedi Cass. 11794/2021 e Cass. 5894/2012) - ad emendare tale errore materiale, disponendo che la parola "appellante", ripetuta due volte nelle righe 14 e 17, sia sostituita in entrambi i casi dalla parola "appellato". P.Q.M. In parziale riforma della sentenza n. 186/22 del Tribunale di Pavia, dichiara che la sig.ra (...) si è dimessa per giusta causa in conseguenza della illegittima variazione unilaterale dell'orario di lavoro; per l'effetto, dichiara che l'appellato è tenuto a corrispondere alla sig.ra (...) le seguenti somme: Euro 379,00 sulla retribuzione di marzo 2019; Euro 64,27 per ferie non godute; Euro 12,25 a titolo di ex festività non godute; Euro 34,54 per rol non goduti; Euro 128,94 a titolo di mensilità aggiuntive per 13ma e 14ma; Euro 1428,22 quale restituzione indebita trattenuta indennità di preavviso e liquidazione medesimo importo a titolo di indennità ex art. 2119 c.c.; Euro 191,45 a titolo di differenza sul tfr; condanna, pertanto, l'appellato a pagare alla sig.ra (...) l'importo complessivo di Euro 2.238,67 oltre interessi e rivalutazione come per legge; conferma le restanti statuizioni di merito della sentenza appellata; condanna, infine, l'appellato al pagamento delle spese del doppio grado nella misura del 50%, liquidate in tale quota in Euro 2.500,00 oltre spese generali ed accessori di legge, compensando tra le parti la restante quota. Così deciso in Milano il 6 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria l'1 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI ROMA Sezione Lavoro e Previdenza composto dai Sigg. Magistrati: dott.ssa V.D.S. - Presidente dott. Vincenzo Selmi - Consigliere rel. dott. Vito Riccardo Cervelli - Consigliere all'esito dell'udienza del 9.2.2023 ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 2675 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2021, vertente TRA (...) rappresentato e difeso, giusta procura in atti, dall'avvocato Lu.Co. ed elettivamente domiciliato presso il suo studio sito in Roma, via (...) APPELLANTE E MINISTERO DELL'INTERNO, in persona del Ministro legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, e domiciliato presso i suoi uffici siti in Roma, via (...) APPELLATO OGGETTO: appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 1690/2021 pubblicata in data 22/2/2021 RAGIONI DELLA DECISIONE Con la sentenza impugnata il Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro, dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario relativamente alla domanda presentata da (...) al fine di ottenere, previo accertamento della illiceità della condotta datoriale e della sussistenza nei suoi confronti degli estremi del mobbing, la condanna del Ministero dell'Interno al risarcimento del pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito e subendo (sia in termini di danno emergente, sia in termini di perdita di chances e/o lucro cessante, anche con riferimento ai profili di natura previdenziale, che di danno alla salute e alla vita di relazione) per l'importo complessivo di Euro 250.000,00 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria ovvero all'importo maggiore o minore ritenuto anche equitativamente ex art. 1226 c.c. Avverso tale sentenza (...) presentava appello fondato su un unico e articolato motivo. Il Ministero dell'Interno si costituiva in giudizio resistendo all'accoglimento del gravame. All'esito dell'odierna udienza la causa è stata decisa come da dispositivo. (...), dipendente del Ministero dell'Interno dal maggio 1983 sino al maggio 2021, da ultimo con la qualifica di "Sostituto Commissario", aveva agito in giudizio al fine di fare valere il suo preteso diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (quantificato in complessivi Euro 250.000 o in quella diversa somma ritenuta di giustizia) asseritamente subito a causa della condotta mobbizzante, specificamente descritta nel ricorso introduttivo, asseritamente tenuta nei suoi confronti da parte della suddetta amministrazione per il tramite dei suoi esponenti apicali. Il Tribunale, in accoglimento dell'eccezione sollevata a tale proposito dall'amministrazione resistente, dichiarava il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice amministrativo. Richiamava in particolare quanto disposto all'art. 63, comma 4, D.Lgs. n. 165 del 2001 e all'art. 3 dello stesso d.lgs. ivi richiamato rilevando come tali norme devolvessero alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo le controversie relative ai rapporti di lavoro delle Forze di Polizia di Stato, ivi compresi i diritti patrimoniali connessi. Con quello che costituisce un unico e articolato motivo l'appellante contesta la gravata sentenza ove aveva negato la giurisdizione del giudice ordinario insistendo per l'accoglimento della domanda avanzata con il ricorso di primo grado, Ribadisce la sussistenza della giurisdizione del Giudice ordinario in ragione del petitum sostanziale caratterizzante le sue rivendicazioni evidenziando in particolare, la natura di diritto soggettivo di rilievo costituzionale e non degradabile delle posizioni soggettive dedotte in giudizio (quali in particolare il diritto alla salute) e la qualificabilità in termini di responsabilità extracontrattuale dell'azione esperita. Invoca il principio di effettività e pienezza della tutela giurisdizionale ed il principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge. L'appello è infondato risultando pienamente meritevole di conferma, anche all'esito della presente fase di impugnazione, la declaratoria di difetto di giurisdizione pronunciata dal Tribunale. Così come evidenziato nella sentenza gravata l'art. 63, comma 4, D.Lgs. n. 165 del 2001 " Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nonché, in sede di giurisdizione esclusiva, le controversie relative ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 3, ivi comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi" L'art. 3 dello stesso d.lgs. ivi richiamato dispone che : "In deroga all'articolo 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall'articolo 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691, e dalle L. 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n. 287" Alla stregua del chiaro tenore di tale disposto normativo la presente controversia, in quanto chiaramente finalizzata a far valere la pretesa responsabilità dell'amministrazione pubblica datrice nell'ambito del rapporto di pubblico impiego intercorso con l'odierno appellante quale appartenente alle Forze di Polizia (l'appellante ha prospettato in proposito, in particolare, la fattispecie del mobbing, figura di responsabilità tipicamente contrattuale in quanto attinente a violazioni di specifici obblighi derivanti dal rapporto di pubblico impiego), rientra inequivocabilmente, alla stregua, del petitum sostanziale dedotto in giudizio, nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. A nulla vale opporre la natura di diritto soggettivo delle posizioni di cui si lamenta la lesione e l'oggetto della domanda, trattandosi di aspetti pienamente riconducibili nell'ambito di quella giurisdizione esclusiva espressamente prevista per tali ipotesi dal legislatore (avente per definizione ad oggetto anche i diritti soggettivi ed espressamente estesa dal legislatore anche "ai diritti patrimoniali connessi"). L'appello dovrà pertanto essere respinto. La regolamentazione delle spese di lite, liquidate come in dispositivo in ragione del valore della controversia e sulla base del D.M. n. 147 del 2022, segue la soccombenza. Stante il tenore della decisione deve trovare applicazione l'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1 comma 17 L. 24 dicembre 2012, n. 228, per il raddoppio del contributo unificato se dovuto. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando, rigetta l'appello. Condanna l'appellante al pagamento delle spese del grado che liquida in complessivi Euro 3.473 oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, Iva e Cpa come per legge. Dà atto che sussistono le condizioni oggettive richieste dall'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 per il raddoppio del contributo unificato se dovuto. Così deciso in Roma il 9 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 22 febbraio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI MILANO Sezione seconda nelle persone dei seguenti magistrati: dr. Carlo Maddaloni - Presidente dr. Maria Elena Catalano - Consigliere rel. dr. Elena Mara Grazioli - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. r.g. 1907/2022 promossa in grado d'appello DA (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'Avv. FO.MA. e dell'Avv. FO.MA. ((...)) VIA (...) 22100 COMO; elettivamente domiciliato in VIA (...) 22100 COMO presso il difensore Avv. FO.MA. APPELLANTE CONTRO (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'Avv. PI.VA., elettivamente domiciliato in VIA (...) 20135 MILANO presso il difensore Avv. PI.VA. Q.B.E. SA / NV (C.F. (...)), con il patrocinio dell'Avv. RO.FR., elettivamente domiciliato in VIALE (...) 20135 MILANO presso il difensore Avv. ROLLE FRANCESCO APPELLATI avente ad oggetto: Responsabilità professionale SVOLGIMENTO DEL PROCESSO (...) citava in giudizio avanti al Tribunale l'Avv. (...) al fine di accertare l'inadempimento o l'inesatto adempimento colpevole negligente e/o doloso dell'Avv. (...) nei confronti dell'attrice/cliente e per l'effetto dichiarare definitivamente risolto il contratto di mandato professionale o comunque dichiarare non dovuto ex art. 1460 c.c. il compenso richiesto e/o richiedibile e, per l'effetto, condannare l'Avv. (...) al risarcimento di tutti i danni subiti dalla sig.ra (...), patrimoniali e non patrimoniali, presenti e futuri, conseguenti al dedotto inadempimento. In particolare, la signora (...) chiedeva al Tribunale: dichiarato che l'attrice percepiva una retribuzione globale di fatto lorda pari a Euro 2.634,00 (euro duemilaseicentotrentaquattro virgola zero zero) lordi mentre era alle dipendenze della (...); dichiarato che l'attrice è stata in mobilità per mesi 24 percependo un'indennità pari a circa Euro 1.000,00 lordi, quantificare il risarcimento del danno: A) per mancata reintegrazione in almeno 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale lorda di fatto; B) per i mesi di mobilità in almeno 24 mensilità date dalle differenza tra la retribuzione globale di fatto lorda e l'indennità di mobilità; C) per il mancato rispetto della procedura di licenziamento in almeno 6 mensilità dell'ultima mensilità globale lorda di fatto; inoltre, chiedeva D) una cifra che dovrà essere liquidata in via equitativa per il mancato risarcimento del danno da mobbing tenendo presente la quantificazione delle richieste effettuate dal Tribunale del Lavoro di Milano; E) una cifra che dovrà essere liquidata in via equitativa dal Tribunale per il danno patrimoniale derivante dalla violazione del diritto assoluto di difesa; F) una cifra che dovrà essere liquidata in via equitativa dal Tribunale per il danno non patrimoniale sempre derivante dalla violazione del diritto assoluto di difesa. In via subordinata, nella denegata ipotesi che non fossero accolte le voci "ut supra", chiedeva risarcire il danno da perdita di chance secondo il prudente apprezzamento del giudice adito. Con vittoria di spese di giudizio, rimborso forfettario, IVA e CPA, distratti. Si costituiva ritualmente l'Avv. (...) che chiedeva autorizzare la chiamata di terzo, ai sensi dell'art. 269 c.p.c., della (...) LTD, rappresentanza generale per l'Italia, assicuratore dello Studio Legale (...), e quindi dell'avvocato collaboratore (...), in forza di polizza n, (...), in via pregiudiziale e/o preliminare: -Dichiarare l'inammissibilità e/o l'inesistenza e/o la nullità della notifica via pec dell'atto di citazione del 17.12.2018 per i motivi di cui in narrativa con conseguente dichiarazione di inesistenza e/o di estinzione del presente giudizio; - Dichiarare l'inesistenza, la nullità e l'invalidità dell'atto di citazione avversario datato 17.12.2018 per i motivi di cui in narrativa con conseguente dichiarazione di inesistenza e/o di estinzione del presente giudizio; - Dichiarare l'inammissibilità e/o la nullità della costituzione in giudizio di parte attrice, per i motivi di cui in narrativa, con conseguente estinzione di diritto del presente giudizio che si chiede venga dichiarata dal Giudice Istruttore con ordinanza ai sensi dell'art. 307 c.p.c.. In subordine e in ogni caso in via principale: rigettare tutte le domande ex adverso proposte. In ulteriore subordine: dichiarare tenuta a condannare (...) LTD, rappresentanza generale per l'Italia con sede in Via (...) G. n. 8, 20124 (...), c.f./p.iva (...), in persona del rappresentante generale per l'Italia, a tenere indenne e manlevare l'Avv. (...) da quanto sarà condannata a pagare per capitale, accessori, interessi e spese processuali; condannare (...) LTD, rappresentanza generale per l'Italia con sede in Via (...) G. n. 8, 20124 (...), c.f./p.iva (...), in persona del rappresentante generale per l'Italia, a rifondere all'Avv. (...) le spese sostenute per la propria difesa in giudizio; In via riconvenzionale: condannare l'attrice sig.ra (...) a pagare all'Avv. (...), a titolo di compensi professionali, la somma complessiva di Euro 4.600,00 oltre 15% rimb. forf. ed accessori come per legge, oltre interessi legali dalla data della domanda al saldo o la diversa maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia all'esito del presente giudizio. Con vittoria di compensi e spese di lite oltre 15% rimborso forfettario ed accessori di legge. Si costituiva quindi la Compagnia assicurativa che contestava l'operatività della polizza domandando: IN PRINCIPALITA' assolvere (...) SA/NV da ogni domanda da chiunque formulata nei suoi confronti nel presente giudizio, in quanto infondata in fatto e in diritto e comunque sprovvista di prova. IN VIA SUBORDINATA, ove venisse ritenuta anche solo in parte operativa la garanzia prestata dall'assicurazione con la polizza n. (...), limitare la condanna di (...) SA/NV a manlevare e tenere indenne l'Avv. (...) nella sola misura del danno subito e provato da controparte come conseguenza immediata e diretta delle condotte colpose tenute dalla convenuta chiamante nell'esercizio dell'attività professionale di avvocato per conto dello Studio Legale (...), in ogni caso nel rispetto di tutti i termini e condizioni contrattuali specificati in atti, ivi compresa la franchigia fissa pari ad Euro 2.000,00 (duemila/00) che dovrà restare a carico dell'assicurato. IN OGNI CASO Con vittoria di spese, diritti, onorari rimborso forfettario, sentenza e successive occorrende, oltre IVA e CPA sulla parte imponibile. Con sentenza emessa il 13 maggio 2022 depositata in cancelleria in pari data, il Tribunale di Milano così statuiva: "PQM Il Tribunale, definitivamente pronunciando ex art. 281 sexies c.p.c., così Dispone: 1) Rigetta le domande proposte da (...) nei confronti dell'Avv. (...) 2) In accoglimento della domanda riconvenzionale, condanna l'attrice al pagamento, in favore della convenuta, dei compensi professionali, pari a Euro 2.000,00,oltre interessi legali dalla data della presente pronuncia al saldo effettivo 3) Condanna l'attrice alla rifusione delle spese processuali che si liquidano in complessivi Euro 3.338,00, di cui Euro 600,00 per pese ed Euro 2.738,00 per compenso, oltre a CPA, spese generali ed IVA se dovuta in favore della convenuta e in complessivi Euro 3.238,00 di cui Euro 500,00 per spese ed Euro 2.738,00 per compenso, oltre a CPA, spese generali ed IVA se dovuta in favore della terza chiamata". Appella (...) argomentando -in estrema sintesi- i seguenti motivi: A) SULLA COLPA GRAVE/DOLO DELL'AVV. (...): OMESSO ESAME DI FATTI DECISIVI OGGETTO DI DISCUSSIONE TRA LE PARTI B) SULLA OMESSA AMMISSIONE DELLE PROVE TESTIMONIALI E VALUTAZIONE DELLE PROVE DOCUMENTALI (travisamento del materiale probatorio) CON RIFERIMENTO ALLA OMESSA IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO C) SUL VIZIO DI MOTIVAZIONE CON RIFERIMENTO ALLA VALUTAZIONE PROGNOSTICA D) SULLA OMESSA INTRODUZIONE DELLE PROVE TESTIMONIALI E VALUTAZIONE DELLE PROVE DOCUMENTALI CON RIFERIMENTO ALLA EVENTUALE CAUSA DI IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO E) SUL DANNO F) SULLE SPESE PROCESSUALI LIQUIDATE ALLA TERZA CHIAMATA E OMESSA INTRODUZIONE DELLE PROVE TESTIMONIALI G) SULLA PREGIUDIZIALE DI CUI ALLA COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA DELL'AVV. (...) H) SULLA DOMANDA RICONVENZIONALE L) SULLA RICHIESTA DI VERIFICAZIONE Si costituiva con comparsa di costituzione e risposta in appello l'Avv. (...), ribadita la palese infondatezza dell'azione avversaria sulla base dell'errata individuazione della normativa sul licenziamento individuale, rispetto al caso di specie in cui era stato operato un licenziamento collettivo, chiedeva: in via pregiudiziale/preliminare in rito, dichiarare inammissibile l'appello; rigettare l'appello avversario e, comunque, rigettare integralmente tutte le domande ed eccezioni formulate ex adverso da tutte le parti avversarie in causa; confermare integralmente la sentenza n. 4196/2022, pubblicata il 13.5.2022, del Tribunale di Milano, Sez. I Civ., Dott. (...), nel giudizio di primo grado R.G. n. 1643/2019; in subordine e in ogni caso in via principale: dichiarare l'operatività e retroattività della polizza stipulata dallo Studio Legale (...) con la terza chiamata (...)L. ora (...) SA/NV, Rappresentanza Generale per l'Italia, in forza di polizza n. (...), a favore della convenuta Avv. (...) quale collaboratore dello studio assicurato; condannare la compagnia assicurativa a tenere indenne e manlevare l'Avv. (...) da quanto sarà condannata a pagare per capitale, accessori, interessi e spese processuali; condannare (...) LTD ora (...) SA/NV, Rappresentanza Generale per l'Italia con sede in Via (...) G. n. 8, 20124 (...), c.f./p.iva (...), in persona del Rappresentante Generale per l'Italia, a rifondere all'Avv. (...) le spese sostenute per la propria difesa in giudizio; in subordine e in via riconvenzionale: condannare l'attrice Sig.ra (...) a pagare all'Avv. (...), a titolo di compensi professionali, la somma complessiva di Euro 4.600,00 oltre 15% rimb. forf ed accessori come per legge, oltre interessi legali dalla data della domanda al saldo o la diversa maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia all'esito del presente giudizio. Con comparsa di costituzione e risposta in data 18.10.2022 la (...) SA/NV chiedeva in via principale: assolvere (...) SA/NV da ogni domanda da chiunque formulata nei suoi confronti in quanto infondate in fatto e in diritto e comunque sfornite di prova; in via subordinata: limitare comunque la condanna di (...) SA/NV in manleva rispetto al danno effettivamente provato come conseguenza immediata e diretta delle condotte colpose dell'Avv. (...) e, in ogni caso nel rispetto di tutti i termini contrattuali e della franchigia fissa di Euro 2.000,00 di cui dalla polizza di R.C. professionale de quo. All'udienza di trattazione del 15.11.2022 le parti si riportavano alle proprie difese e parte appellante dichiarava di non insistere nell'istanza di sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza. La Corte d'Appello invitava le parti a precisare le conclusioni alla stessa udienza del 15.11.2022 e tratteneva la causa in decisione assegnando i termini di legge di 60 giorni per il deposito delle comparse conclusive ed il successivo termine di 20 giorni per le eventuali repliche. La causa veniva decisa nella camera di consiglio dell'8.2.2023. MOTIVI DELLA DECISIONE In data 10/03/2014 la sig.ra (...) riceveva dal proprio datore di lavoro (...) spa, con sede in C. B., Via (...) 13 (azienda con più di 15 dipendenti) lettera di licenziamento collettiva motivata da riduzione del personale (giustificato motivo oggettivo). Con atto di citazione in primo grado (...) allegava che: - non sussistevano le ragioni giuridiche e di tipo organizzativo o economico che giustificavano il grave provvedimento espulsivo; - non era stata rispettata da parte del datore di lavoro la procedura prevista dalla norma in vigore L. n. 92 del 2012 rito Fornero; - non era stata enunciata la cd. impossibilità di repechange, nonostante ci fossero più sedi e più mansioni. Secondo tesi, all'esito di un chiarimento sulla questione, la sig.ra (...) conferiva mandato al legale in relazione all'impugnativa da proporre avverso detto licenziamento; l'attrice spiegava quanto accaduto, produceva i documenti e concordava, su consiglio dell'avvocato, di introdurre: a) la procedura di impugnativa di licenziamento per carenza dei presupposti oggettivi in fatto e diritto con richiesta di reintegra nella mansione qualifica e sede; b) contemporaneamente o con giudizio separato, si sarebbe introdotto un procedimento per chiedere il risarcimento del danno per cd. mobbing. Pertanto il legale impostava la lettera di impugnativa del licenziamento, datata 8 maggio 2014 (un giorno prima della scadenza dei 60 giorni); contattava nel medesimo giorno la cliente alla quale chiedeva di recarsi immediatamente in posta per spedire la racc. ar perché i termini per l'impugnativa erano in scadenza. L'Avv. (...) spiegava (per iscritto) all'attrice che l'impugnativa doveva avvenire entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, cui doveva seguire il ricorso giudiziario nei 180 giorni successivi. La sig.ra (...) allegava che, spedita la raccomandata, forniva i documenti e i nominativi di eventuali testimoni sui fatti come richiesto dall'avvocato; inoltre, si sottoponeva a diverse visite medico legali con la psicologa (...) per la determinazione, in base al danno psichico, dell'importo risarcitorio conseguente la supposta condotta integrante il mobbing. Precisava altresì, di aver scoperto al momento della revoca del mandato, che il professionista non aveva proceduto a impugnare il licenziamento, nonostante fosse stata notiziata per iscritto dal proprio legale di fiducia che: a) la causa di impugnativa era stata depositata al Tribunale di Monza e doveva essere integrata documentalmente; b) la causa risarcitoria derivante da mobbing era pendente e si dovevano indicare i testi; c) nel frattempo continuava la trattativa con la (...). Da tale omissione conseguivano gravi danni, patrimoniali e non patrimoniali, in capo all'appellante. Il Tribunale non accoglieva la domanda risarcitoria della odierna appellante. La Corte osserva. PRELIMINARMENTE SULLE ISTANZE ISTRUTTORIE DELLA PARTE APPELLANTE Le richieste istruttorie, così come svolte dalla difesa della Sig.ra (...) in primo grado hanno come riferimento la legge relativa ai licenziamenti individuali e non quella relativa ai licenziamenti collettivi, pacificamente applicabile alla fattispecie. Quindi il Giudice di primae curae ha correttamente ritenuto la causa matura per la decisione in base alle prove documentali offerte, rigettando le istanze istruttorie avanzate, inconferenti rispetto alla normativa specifica da applicarsi alla fattispecie. Gli ulteriori capitoli non possono essere ammessi perché generici e comunque irrilevanti. Infine, l'ordine di consegna del fascicolo di studio relativo alla posizione della signora (...), non appare necessario alla decisione avendo la parte appellata allegato di non aver predisposto -perché non di interesse per la cliente- alcun ricorso al Tribunale per l'impugnativa del licenziamento. Occorre poi premettere alcuni cenni relativi alla responsabilità professionale dell'avvocato. In via generale, si osserva che nelle prestazioni rese nell'esercizio di attività professionali al professionista è richiesta la diligenza corrispondente alla natura dell'attività esercitata (art. 1176 c.c., comma 2) vale a dire è richiesta una diligenza qualificata dalla perizia e dall'impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di prestazione dovuta. La valutazione dell'esattezza delle prestazioni da parte del professionista, naturalmente, varia secondo il tipo di professione. Per gli avvocati, la Corte di Cassazione (Cass. 24544/2009) ha precisato che: "la responsabilità professionale deriva dall'obbligo (art. 1176 c.c., comma 2 e art. 2236 cod. civ.) di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, ai quali sono tenuti: a rappresentare tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di chiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole". In particolare, inoltre, la Suprema Corte ha più volte enunciato il principio secondo cui l'avvocato deve considerarsi responsabile nei confronti del cliente in caso di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge ed, in genere, nei casi in cui per negligenza o imperizia compromette il buon esito del giudizio. Sul piano dell'onere della prova il cliente che sostiene di aver subito un danno, per l'inesatto adempimento del mandato professionale del suo avvocato, ha l'onere di provare: a) l'avvenuto conferimento del mandato difensivo; b) la difettosa o inadeguata prestazione professionale; c) l'esistenza del danno; d) il nesso di causalità tra la difettosa o inadeguata prestazione professionale e il danno. Tutto ciò premesso, l'appellante impugna la sentenza lamentando i seguenti errori da parte del primo giudice. A) SULLA COLPA GRAVE/DOLO DELL'AVV. (...): OMESSO ESAME DI FATTI DECISIVI OGGETTO DI DISCUSSIONE TRA LE PARTI B) SULLA OMESSA AMMISSIONE DELLE PROVE TESTIMONIALI E VALUTAZIONE DELLE PROVE DOCUMENTALI (travisamento del materiale probatorio) CON RIFERIMENTO ALLA OMESSA IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO I PRIMI DUE MOTIVI DI APPELLO CONCERNONO LA QUESTIONE DEL CONFERIMENTO DEL MANDATO AL PROFESSIONISTA per proporre il ricorso ex art. 414 c.p.c. avanti al giudice del lavoro al fine di impugnare il licenziamento collettivo. Secondo l'appellante, in estrema sintesi, il Tribunale non avrebbe tenuto conto di una serie di mail prodotte e delle prove testimoniali argomentate, al fine di ritenere effettivamente conferito al professionista il mandato per proporre ricorso per l'impugnazione del licenziamento. La Corte osserva che, proprio dalla documentazione prodotta dall'appellante, è ragionevole ritenere che nessun mandato per proporre l'impugnazione del licenziamento davanti al Tribunale fu espressamente conferito. Nel mese di gennaio 2014 la società (...) S.p.A. avviava procedura di licenziamento collettivo tramite Confindustria Monza Brianza con preventiva comunicazione sindacale ai sensi dell'art. 4, 1 e 2 comma della L. n. 223 del 1991 (cfr. docc. 7 e 8 fasc. I grado convenuta). Successivamente, con lettera del 7.3.2014, la (...) S.p.A. comunicava il licenziamento alla Sig.ra (...) nell'ambito della procedura di licenziamento collettivo promossa (cfr. doc. 9 fasc. I grado convenuta). L' Avv. (...) rispondeva all'appellante appena vista la lettera con e.mail del 11/3/2014 - "visto, impugneremo il licenziamento e poi si vedrà ... Oggi sono un po' di corsa, ci si sente domani? Ciao (...) (ndr. Avv. (...))"; successivamente con e.mail del 02/04/2014 - "Ciao S.. Pensavo di inviare la lettera di impugnazione del licenziamento poco dopo la metà di aprile (abbiamo 60 giorni dalla data di licenziamento), in modo da avere fino a poco dopo la metà di ottobre per depositare un eventuale ricorso (abbiamo 180 giorni dall'impugnazione del licenziamento). Direi che ci sentiamo o subito prima o subito dopo Pasqua. (...)" (ndr. Avv. (...)); infine, con e.mail del 08/05/2014 -" (...), il tempo passa velocissimo, i 60 giorni per l'impugnazione del licenziamento sono quasi giunti al termine. Se non sbaglio, mi dicevi che hai ricevuto la raccomandata in data 14 (metti tu la data corretta dove ci sono i puntini), quindi qualche giorno c'è ancora, però, per tranquillità, stampa ed invia la lettera di impugnazione appena puoi, così ci togliamo il pensiero. Poi rifletteremo sul da farsi. Ciao a presto. (...) "(ndr Avv. (...)). Da tali mail risulta documentalmente provato che le parti disquisirono sulle iniziative da percorrere per il licenziamento, ma non è revocabile in dubbio che ancora in data 8.5.2014 le parti dovevano concordare una precisa linea difensiva o, recte, dovevano decidere ancora se impugnare o meno davanti al Tribunale il licenziamento (i termini usati sono: "riflettere sul da farsi"). Risulta altresì provato che con la mail 2.4.2014, il professionista avesse comunicato con chiarezza alla cliente che la stessa avrebbe avuto "sino a poco dopo la metà di ottobre per depositare un eventuale ricorso", cioè 180 giorni dal licenziamento. Dopo il licenziamento del 7 marzo 2014 dell'attrice, l'Avv. (...) provvedeva alla redazione della lettera d'impugnazione che faceva inviare direttamente dalla Sig.ra (...) al datore di lavoro, con raccomandata a.r. in data 8 maggio 2014, ricevuta in data 9 maggio 2014 (cfr. docc. 10, 11, 12 e 13 fasc. I grado). Come correttamente evidenziato dal giudice di prime cure nessun sollecito o richiesta intervenne da parte della appellante per procedere giudizialmente entro i sei mesi dal licenziamento, come scritto alla cliente. Si evidenzia, altresì, che nessuna procura alle liti scritta fu rilasciata dall'appellante per agire in giudizio avanti al Tribunale. Procura la cui necessità era certamente ben nota all'odierna appellante, stanti le vicende giudiziarie che avevano coinvolto il proprio coniuge. L'unica traccia genericamente riconducibile ad una qualche iniziativa giudiziaria, non meglio identificata, è quella del 24 ottobre 2014 (doc. 8 att.), ove il legale riferiva alla cliente "... sì, ho ricevuto il tuo sms conosco il Giudice. Per ora non serve alcun bonifico. Ti faccio avere un preventivo entro la prossima settimana..." Il contenuto di tale mail non può essere univocamente riferito all'impugnazione del licenziamento avanti al Tribunale, non solo sotto il profilo testuale ma anche per le considerazioni che seguono. Dalla tipologia deformalizzata di rapporto professionale instaurato tra le parti (come si evince dal tenore delle mail e dei messaggi inviati), nonché tenuto conto di quanto accadde per il ricorso risarcitorio per mobbing, non è ragionevole ritenere: a) che (...) non abbia sollecitato il professionista (entro i termini da quest'ultimo indicati) affinchè procedesse (dopo l'invio della lettera) a inviarle una bozza del "ricorso" e neppure formalizzato una procura a agire (sempre prima che scadessero i termini per il deposito del "ricorso"); b) che il professionista non avesse inviato alcuna bozza alla cliente come -invece- fatto (più volte) in occasione della predisposizione della causa risarcitoria da mobbing; c) che il preventivo, che avrebbe inviato la professionista nel novembre 2014 (a termini ormai scaduti), fosse riferibile alla causa per impugnazione giudiziale del licenziamento (e non alla causa per mobbing). Successivamente, dal 19 giugno 2015 in poi (ma già dal 8 giugno 2015, doc. 9 att.), la corrispondenza tra le parti si concentra esclusivamente sulla preparazione del ricorso per mobbing, come da ultimo confermato dalla email del 9 giugno 2016 inviata da (...) alla psicologa dott.ssa (...), incaricata dell'espletamento di una perizia di parte sui danni subiti dall'attrice per la condotta discriminatoria (doc. 24 conv.); -in questa mail, si legge: "... abbiamo quasi concluso la causa civile/penale, mentre è da aprire a breve quella lavorativa per mobbing, non so se ricordi ...". Pare evidente a questa Corte che la signora (...) il 9.6.2016 fosse bene consapevole che non pendesse alcun ricorso di impugnazione del suo licenziamento avanti al Tribunale. La signora (...) ha sostenuto che venne a conoscere dell'omissione colpevole dell'Avv. (...) solo in occasione della revoca del mandato, essendo convinta che il professionista avesse proceduto a depositare il ricorso avanti al Tribunale del lavoro, come la stessa Avv. (...) le aveva fatto credere. La Corte osserva che tale affermazione risulta contraria a quanto emerge dalla documentazione prodotta. Infatti, nel corso del rapporto emerge che, nell'aprile 2016, l'Avv. (...) redigeva lettera per riprendere un dialogo con la società (...) al fine di trovare una soluzione conciliativa. Tale lettera veniva modificata numerose volte a seguito di nuove osservazioni della Sig.ra (...) (cfr. doc. 22 fasc. I grado). Una volta avuta l'approvazione finale dalla Sig.ra (...), l'Avv. (...) provvedeva all'invio della lettera definitiva (datata 18.4.2016) a (...) (cfr. doc. 23 fasc. I grado). Il contenuto della lettera concerneva solo e soltanto il comportamento del datore di lavoro in corso di rapporto, allegato come discriminatorio, nei confronti dell'appellante: nella lettera non vi era alcun riferimento all' "illegittimità" del licenziamento. Si sottolinea che nella frase finale della missiva era scritto: "Ad ogni buon conto, prima di percorrere la strada giudiziaria, la mia assistita mi ha chiesto di provare ...", a riprova che l'Avv. (...) non aveva depositato alcun ricorso e che la Sig.ra (...) ne era ben consapevole, avendo letto e corretto la lettera più volte. Nel gennaio del 2017 l'Avv. (...) svolgeva l'ulteriore stesura del ricorso per l'azione risarcitoria da mobbing, cui seguivano le numerose correzioni della Sig.ra (...) (cfr. docc. 25, 26, 27 e 28 fasc. I grado). Tutti questi documenti, consentono alla Corte ragionevolmente, di ritenere che la sig. (...) ben sapesse che (diversamente dalla causa civile/penale che aveva coinvolto il marito) nessun ricorso era stato proposto per impugnare il licenziamento, avanti al Tribunale del lavoro. Per completezza di esame, si osserva che la prova testimoniale articolata sul punto, non appare concludente. Il capitolato risulta infatti generico sul tempo in cui fu conferito il mandato, sulla sua specificità e persino sul luogo in cui fu conferito. Tenuto conto, altresì, della mancanza di una procura alle liti che necessariamente doveva essere rilasciata prima della scadenza dei (brevi) termini per l'impugnazione del licenziamento avanti al Tribunale. In conclusione, la documentazione prodotta risulta concludente per ritenere: 1) che il professionista diede alla cliente precise indicazioni sui termini per proporre ricorso avanti al Tribunale del lavoro per impugnare giudizialmente il licenziamento 2) la consapevolezza dell'appellante di non aver proceduto -nei termini indicati- alla proposizione del ricorso; 3) la mancanza di una procura alle liti, necessaria per depositare il ricorso. SECONDA QUESTIONE: LA VALUTAZIONE PROGNOSTICA NESSO DI CAUSALITÀ' E DANNO Tale questione risulta assorbita dal rigetto dei primi due motivi di appello. Per completezza di esame, questa Corte procede alla valutazione anche di tale questione, risultando anch'essa infondata. La materia della prova del nesso di causalità e del danno in ipotesi di responsabilità professionale del prestatore d'opera intellettuale è stata ampiamente affrontata in sede di legittimità. Giusto principio di diritto consolidato, "la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell'attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente e, in particolare, trattandosi dell'attività del difensore, l'affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita (Cass. 9 giugno 2004 n. 10966; conf. Cass. 19 novembre 2004 n. 21894; cfr. anche, per la valutazione del nesso di causalità giuridica tra omissione ed evento. Cass. 18 aprile 2005 n. 7997)" (Cass. 9917/2010; conforme Cass. 13873/2020). Sempre a conferma di tale orientamento si è poi espressa con riferimento alla fattispecie dell'omessa proposizione dell'impugnazione la Cass. 2638/2013. In tale occasione la S.C. ha statuito che "la responsabilità ... non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone" (Cass. 2638/2013). Più recentemente, la Corte di Cassazione è nuovamente ritornata sul tema ribadendo che "in tema di responsabilità professionale dell'avvocato per omesso svolgimento di un'attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", si applica non solo all'accertamento del nesso di causalità fra l'omissione e l'evento di danno, ma anche all'accertamento del nesso tra quest'ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa" (Cass. 25112/2017). Nello stesso senso anche Cass. 8516/2020. La nozione di "causa", che si ricava dall'esame della giurisprudenza di legittimità citata, consente di qualificare in tal senso quell'antecedente senza il quale l'evento dannoso non si sarebbe verificato; per contro, non sarebbe "causa" di un evento quel comportamento umano in mancanza del quale il pregiudizio si sarebbe egualmente verificato. Da tale definizione deriva lo stesso significato del giudizio probabilistico o controfattuale, ovvero di quella particolare operazione intellettuale mediante la quale, ipotizzando assente una determinata condizione (l'inadempimento del professionista), la Corte è tenuta a chiedersi se la medesima conseguenza (il pregiudizio sofferto dal danneggiato) si sarebbe comunque verificata. In caso di esito positivo, la condotta del professionista non potrebbe considerarsi quale causa dell'evento e venendo a mancare il nesso di causalità la richiesta risarcitoria non potrà che esser rigettata in punto an. In caso di esito negativo, per contro, si avrà la presenza di tutti i requisiti necessari per il sorgere del diritto al risarcimento del pregiudizio patito. Alla luce della giurisprudenza sopra menzionata il Giudice di primo grado ha correttamente ritenuto indimostrato il nesso eziologico tra la condotta professionale (per mera ipotesi) negligente dell'Avv. (...), così come lamentata da (...), e la mancata reintegrazione di quest'ultima nelle sue mansioni nonché il danno patito, sulla base di un giudizio probabilistico controfattuale. In particolare, nell'atto di citazione proposto in primo grado, la Sig.ra (...) si era limitata a dedurre l'omissione del deposito del ricorso di impugnazione del licenziamento "individuale" da parte dell'Avv. (...) chiedendo il risarcimento del danno conseguenti alla mancata reintegrazione nel posto di lavoro e/o in subordine per perdita di "chance", genericamente affermando la responsabilità professionale dell'Avv. (...) senza un' articolata formulazione degli elementi di fatto e di diritto a sostegno di una prognosi positiva dell'esito della causa di impugnazioni di licenziamento e con mera allegazione della colpa omissiva dell'Avv. (...). Solo con la memoria n.1 ex art.183, sesto comma, c.p.c., depositata a seguito della nuova concessione dei termini istruttori, la difesa dell'attrice ha allegato: a) che la società datoriale non aveva instaurato la procedura di conciliazione obbligatoria avanti la Commissione provinciale presso la Direzione territoriale del lavoro b) che altri due dipendenti licenziati (N.R. e (...)) avevano impugnato il loro licenziamento, raggiungendo nelle more un accordo con la società datoriale: possibilità che era stata radicalmente preclusa a causa della lamentata inerzia processuale del proprio difensore c) trattandosi di un licenziamento collettivo (in ordine al quale grava, comunque, sul datore di lavoro, la prova della scelta sulla persona da licenziare) avrebbe potuto dimostrare in sede giudiziale, mediante la richiesta di ordine di esibizione che i due menzionati lavoratori avrebbero dovuto essere licenziati in sua vece d) che per la società datoriale vi era possibilità di effettuare un repechage della lavoratrice nel (...), al quale appartiene la (...) s.p.a. Avanti a questa Corte l'appellante svolge deduzioni a sostegno dell'illegittimità del licenziamento della Sig.ra (...) nell'ambito del "licenziamento collettivo" operato dalla (...) S.p.A. non presenti nell'atto di citazione di primo grado e tardivamente introdotti, per la prima volta, nella seconda memoria ex art. 183, VI comma, c.p.c. di parte attrice. In primo luogo, va confermata la sentenza del Tribunale laddove ha ritenuto erroneo il richiamo alla L. n. 604 del 15 luglio 1966, contenuto in atto di citazione, concernente la disciplina del licenziamento individuale, mentre la disciplina pertinente alla presente fattispecie è quella della L. n. 223 del 1991, trattandosi di licenziamento collettivo. Con riferimento al mancato rispetto della procedura di licenziamento da parte della società datrice di lavoro, dalla documentazione prodotta (doc. 50 att.), non si evince alcun elemento incompatibile con l'inosservanza, da parte della società datoriale, delle modalità procedurali per il licenziamento collettivo, avendo la stessa regolarmente provveduto all'instaurazione della fase sindacale all'esito della quale le parti non avevano raggiunto un accordo (cfr. verbale di mancato accordo del 18 febbraio 2014 e lettera Z. del 13 marzo 2014). Infine, nel merito, la difesa attorea non ha poi specificatamente allegato - e provato - quali criteri, tra quelli concernenti l'individuazione dei lavoratori da licenziare, non sarebbero stati correttamente applicati dalla società datrice di lavoro. Ai fini della valutazione prognostica dell'esito positivo della causa di lavoro, la ponderata e puntuale valutazione delle illegittime modalità di applicazione dei criteri inerenti ai carichi di famiglia, all'anzianità aziendale, nonché alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative aziendali passa attraverso una valutazione comparata della posizione dell'attrice e di quella degli altri dipendenti, valutazione che -nella specie-l'attrice in primo grado non ha allegato. Non appare condivisibile per la Corte la tesi dell'appellante che, rilevando la sussistenza di un onere a carico del datore di lavoro (in un ipotetico contenzioso con il lavoratore) di fornire la prova della legittimità del licenziamento, ritiene esaurito -in questa sede- il proprio onere di prova e di allegazione. Infatti, questa Corte -nel presente giudizio prognostico- deve poter valutare se la lavoratrice (come sostenuto) è stata oggetto di un licenziamento non legittimo. Non vi è dubbio che -secondo criterio del "più probabile che non"- sussistessero effettivi motivi oggettivi per procedere al licenziamento collettivo. Infatti, nel mese di gennaio 2014 la società (...) S.p.A. avviava procedura di licenziamento collettivo tramite Confindustria Monza Brianza con preventiva comunicazione sindacale ai sensi dell'art. 4, 1 e 2 comma della L. n. 223 del 1991 (cfr. docc. 7 e 8 fasc. I grado). Dalla documentazione prodotta (doc. 8 e 9 fasc. di primo grado) emerge che il datore seguì la corretta procedura prevista dalla L. n. 223 del 1991 e perciò deve ritenersi ragionevole che vi fossero tutte le condizioni oggettive -vagliate in concreto dai sindacati- per procedere ai licenziamenti collettivi. Sotto il profilo del mancato risarcimento del danno da mobbing, si evidenzia che la signora (...) aveva dieci anni (termine di prescrizione) per poter ottenere il risarcimento danni per mobbing da parte del datore di lavoro. Nessuna preclusione, quindi, per la mancanza di proposizione del ricorso da parte dell'Avv. (...). In conclusione, qualora il professionista avesse depositato il ricorso non avrebbe potuto invocare la tutela reale del licenziamento per mancanza di giustificato motivo oggettivo che consentiva il licenziamento collettivo, perché verosimilmente sarebbe stata rigettata mentre -in ogni caso- avrebbe potuto instaurare la causa per mobbing. Con riferimento alle ulteriori criticità del licenziamento sollevate solo nella prima memoria istruttoria, si deve concludere per l'assenza di allegazione e/o di prova da parte dell'attrice in primo grado che consenta una valutazione prognostica positiva sull'esito di un eventuale ricorso ove fosse stata allegata l'erronea scelta della sua persona - anziché di altri lavoratori- per il licenziamento. In altri termini, la carenza attorea in ordine agli oneri di allegazione e prova sopra illustrati impedisce di configurare soprattutto il nesso di causalità tra la condotta omissiva contestata all'Avv. (...) (mancata impugnazione del licenziamento) e il danno lamentato dalla cliente. QUESTIONE TRE: SULLA OMESSA INTRODUZIONE DELLE PROVETESTIMONIALI E VALUTAZIONE DELLE PROVE DOCUMENTALI CONRIFERIMENTO ALLA EVENTUALE CAUSA DI IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO Tale motivo di appello è assorbito da quanto già sopra statuito. In ogni caso, per completezza di esame, si osserva come le richieste istruttorie che l'appellante lamenta non ammesse, riguardino fatti storici non tempestivamente allegati in citazione. Inoltre, con riferimento alle circostanze concernenti altri due lavoratori che avevano impugnato il licenziamento ed ebbero la possibilità di giungere ad un positivo riconoscimento dei loro diritti in sede transattiva (di cui ai cap. da 56 a 61 della memoria ex art. 183 nr. 2 c.p.c. dell'appellante), la stesse appaiono inconcludenti. Infatti, nulla è dato conoscere né sui motivi dell'impugnazione dei sig. (...) e (...), né sulle loro posizioni individuali. In altri termini, la circostanza per cui altri lavoratori abbiano raggiunto accordi con il datore di lavoro non assume alcuna rilevanza, senza conoscere la posizione degli stessi (ad esempio non è noto se fossero assunti part-time come l'appellante), né di cosa si dolessero nel loro ricorso. Anche con riferimento alla doglianza di non aver potuto dimostrare che il (...) era titolare di altri 8 siti produttivi e che vi era personale che ebbe un trattamento più favorevole rispetto alla attrice (capitoli di prova da 64 a 72) non pare motivo meritevole di accoglimento. Infatti, in materia di licenziamento collettivo non vi è alcun obbligo di repechage da parte del datore di lavoro. La legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l'esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall'altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repechage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa (Cass. 1508/2021; Cass. 181/2019). Conseguentemente, anche la prova della sussistenza di altri siti e/o di possibilità lavorative di altri dipendenti non appaiono -di per sé- concludenti. QUESTIONE QUATTRO: SUL DANNO L'appellante lamenta da una parte di non aver potuto procedere all'azione risarcitoria per mobbing. Sulla questione si è detto sopra. Dall'altra parte (...) lamenta che le rassicurazioni del professionista appellato abbiano provocato all'appellante un grave danno non patrimoniale avendo scoperto che nessuna impugnativa era stata proposta, con conseguente mobilità per due anni (prima di trovare altro impiego), anziché la reintegrazione nel proprio posto di lavoro. Come detto, in assenza di un conferimento di procura ad agire, nella consapevolezza del "breve" termine per impugnare avanti al Tribunale il licenziamento (comunicato dall'avvocato), non può trovare tutela il lamentato grave danno dell' appellante per aver (asseritamente) scoperto nel 2016-2017 che nessun ricorso era stato depositato per impugnare il licenziamento. QUESTIONE CINQUE: SULLE SPESE PROCESSUALI LIQUIDATE ALLA TERZA CHIAMATA Le spese del giudizio sostenute dal terzo chiamato in garanzia devono essere poste a carico di chi, rimasto soccombente, ne ha provocato e giustificato l'intervento in causa. In forza del principio di causazione - che, unitamente a quello di soccombenza, regola il riparto delle spese di lite - il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore qualora la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda; il rimborso rimane, invece, a carico della parte che ha chiamato o fatto chiamare in causa il terzo qualora l'iniziativa del chiamante, rivelatasi manifestamente infondata o palesemente arbitraria, concreti un esercizio abusivo del diritto di difesa (Cass. ordinanza n. 23123/2019; Cass. 31889/2019; Cass. 18710/2021). La chiamata in causa dell'Assicurazione da parte del professionista non risulta essere palesemente arbitraria, né manifestamente infondata, tenuto conto della polizza prodotta. QUESTIONE SEI: SULLA DOMANDA RICONVENZIONALE L'odierna appellata ha ottenuto dal Tribunale la condanna della Sig.ra (...) al pagamento dei compensi per il lavoro svolto a seguito del mandato ricevuto, nella misura di Euro 2.000,00, in accoglimento della domanda riconvenzionale svolta nel giudizio di primo grado. La domanda riconvenzionale del professionista è stata correttamente ritenuta dal Tribunale fondata. Infatti, l'Avv. (...) aveva predisposto e inviato (entro il termine di prescrizione) alla cliente una bozza del ricorso per il risarcimento danno da mobbing, aveva individuato i testimoni da indicare in detto atto, aveva incaricato un perito per l'elaborazione della consulenza di parte per l'accertamento del danno psicologico subito da (...) (doc. 16 ss. conv. Primo grado). Si tratta perciò di un'attività interrotta, dopo diversi scambi tra le parti di scritti sulle varie "bozze" di ricorso per mobbing, solo a seguito della revoca del mandato all'Avv. (...) in data 13 novembre 2017; attività di cui il Tribunale ha correttamente riconosciuto l'obbligo di remunerazione da parte della appellante in favore del professionista. LE SPESE Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate ex D.M. n. 147 del 2022, tenuto conto del valore indeterminato di bassa complessità della lite, nei valori medi (esclusa la fase istruttoria). Sussistono i presupposti per l'applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicché va disposto il versamento, da parte dell'appellante soccombente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione da lui proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550). P.Q.M. La Corte d'Appello di Milano, definitivamente pronunciando, così dispone: 1. rigetta l'appello proposto da (...) avverso la sentenza n. 4196/2022 emessa dal Tribunale di Milano il 13 maggio 2022, che per l'effetto conferma; 2. Condanna (...) al pagamento in favore di parte appellata delle spese del presente grado liquidate in Euro 6946,00, oltre IVA, CPA e 15% spese generali. Sussistono i presupposti per l'applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicché va disposto il versamento, da parte dell'appellante soccombente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione da lui proposta. Così deciso in Milano l'8 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI TORINO SEZIONE LAVORO Composta da: Dott. Michele Milani - Presidente Dott. Piero Rocchetti - Consigliere Dott. Fabrizio Aprile - Consigliere Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa di lavoro iscritta al n. 556/2022 R.G.L. promossa da: (...), elettivamente domiciliato in Milano presso lo studio degli Avv.ti G.Fu. e Y.Va. che lo rappresentano e difendono per procura in atti PARTE APPELLANTE CONTRO (...) S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso gli indirizzi digitali (...) dell'Avv. M.Ma. del foro di Pisa e (...) dell'Avv. A.Fi. del foro di Vercelli, che la rappresentano e difendono per procura in atti PARTE APPELLATA Oggetto: impugnazione sanzioni disciplinari e licenziamento. MOTIVI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Con ricorso in appello tempestivamente depositato e ritualmente notificato, (...), dipendente dal 20/04/2015 della (...) S.p.A. con qualifica di quadro ccnl (...) e con mansioni di responsabile delle risorse umane di gruppo, impugnava la sentenza n. 143/22 in data 21-30/06/2022 del Tribunale di Vercelli, che aveva rigettato la domanda di annullamento di quattro sanzioni conservative di cui alle lettere di contestazione dell'11/03, del 14/05, del 6/05 e del 27/05/2019, comminategli strumentalmente in assenza di valide ed effettive ragioni disciplinari, e del successivo licenziamento del 3/07/2019 (con istanza, in via principale, di reintegrazione nel posto di lavoro) privo di giusta causa e ritorsivamente irrogatogli all'esito di una progressiva condotta mobbizzante e discriminatoria, che lo aveva professionalmente delegittimato e gli aveva cagionato un danno non patrimoniale da sindrome ansioso-depressiva stimato in Euro 29.551,00. Parte appellante, in particolare, lamentava che il primo Giudice aveva erroneamente: - esaminato la questione del licenziamento senza previamente considerare il (e senza un'adeguata e motivata indagine sul) prodromico percorso di discriminazione e di mobbing (o di straining) dolosamente seguito dall'azienda e transitato attraverso lo svuotamento di competenze dell'ufficio da lui gestito e l'arbitraria inflizione di quattro sanzioni, pecuniarie e sospensive, per fatti carenti di qualsiasi profilo disciplinare; - confermato le predette misure sanzionatorie nonostante la loro contestazione tardiva; - omesso di pronunciarsi sul danno da mobbing, nonostante ne fosse stata data prova tramite la documentazione versata in atti e l'allegata c.t.p. psichiatrica; - accertato la legittimità del recesso datoriale nonostante ne fossero carenti la giusta causa e, segnatamente, la rilevanza disciplinare del contestato inadempimento all'ordine di servizio del 21/05/2019, riferito a circostanze anteriori alla stessa assunzione del ricorrente e, perdipiù, escluse dall'ambito delle sue competenze mansionali. Si è costituita la (...) S.p.A. evidenziando l'infondatezza dell'appello avversario e chiedendone il rigetto, con integrale conferma della sentenza impugnata. All'udienza del 26/01/2023, all'esito della discussione, la causa è stata decisa come da dispositivo trascritto in calce. 2. Questo Collegio ritiene innanzitutto doveroso stigmatizzare l'eccessiva ridondanza e prolissità del ricorso in appello (di ben 99 pagine, di cui 53 solo a carattere introduttivo), che risulta non solo violativo della prescrizione di sinteticità imposta dall'art. 16-bis, co. 9-octies, D.L. n. 179 del 2012, conv. nella L. n. 221 del 2012 (e ora ribadita nel novellato art. 121 c.p.c.), ma anche denso di divagazioni nozionistiche e didascaliche che appesantiscono la lettura e poco contribuiscono alla chiara e lineare emersione dei motivi d'impugnazione. 3. Venendo al merito, il primo motivo di gravame, in verità, non attiene propriamente a un vizio intrinseco della sentenza e/o della sua motivazione (anzi, la 'precedenza' argomentativa accordata al licenziamento avrebbe svolto un effetto assorbente delle altre questioni), quanto piuttosto all'inversione dell'ordine logico-espositivo degli argomenti trattati - censura che, anche ammettendone la fondatezza (sicché la presente sentenza si atterrà all'ordine sequenziale preferito dall'appellante), non conduce, come si avrà modo di verificare, a un approdo per lui risolutivamente appagante e idoneo a scalfire apprezzabilmente le conclusioni cui è pervenuta la pronuncia impugnata. 4. Il secondo motivo d'appello è inammissibile, poiché è formulato in maniera assolutamente generica e non indica in alcun modo, rispetto ai singoli episodi disciplinarmente illeciti, sulla base di quali specifici termini temporali avrebbe dovuto essere valutata (e, se del caso, censurata) la tardività della relativa contestazione, tenuto sempre conto che "In tema di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo" (Cass. n. 16841/18; sottolineatura dell'estensore) - ragioni su cui l'appellante nulla ha eccepito e argomentato. Né è pertinente, in questo senso, il polemico riferimento al marzo 2011 contenuto al punto n. 1 della lettera di contestazione del 20/06/2019: si trattava, in realtà, non dell'epoca dell'illecito disciplinare, bensì dell'epoca di risalenza (come si vedrà infra, n. 7.2) della condotta osservata dai capiservizio degli stabilimenti dell'Aquila e di V., che, secondo l'azienda, il ricorrente non le aveva segnalato. 5. Il terzo motivo d'impugnazione è infondato e va disatteso. 5.1. La condotta mobbizzante e persecutoria attribuita alla (...) S.p.A. era consistita, a detta dell'appellante stesso, nel fatto che "a decorrere dall'estate 2018, il Presidente ha posto in atto una vera e propria opera di delegittimazione del dott. (...), svuotandolo di ogni attività di competenza dell'ufficio delle Risorse Umane di cui era il Responsabile, assegnando le varie attività svolte in precedenza dal ricorrente al dott. S. (Ufficio Legale), per poi dirottarle sul consulente del lavoro della Società, il rag. (...), o sugli altri colleghi addetti all'ufficio delle Risorse Umane (i collaboratori del ricorrente presenti in ciascun stabilimento) (cfr. docc. 6-12). Infine, in poco più di 4 mesi il ricorrente è stato bersaglio di ben 5 procedimenti disciplinari culminati nel licenziamento" (ricorso, pag. 60). Rinviando, quanto al secondo profilo del presunto mobbing (ossia i "5 procedimenti disciplinari culminati nel licenziamento"), a ciò che si dirà infra, n. 6, preme qui evidenziare come il primo profilo (ossia l'"opera di delegittimazione del dott. (...)") sia rimasto del tutto sfornito di prova (del cui onere era gravato il lavoratore), poiché nessuno dei testi escussi ha anche solo lontanamente accennato allo svuotamento delle competenze professionali e alla marginalizzazione nel contesto aziendale - tant'è vero che l'appellante non ha citato nessun teste a sé favorevole, né ha formulato motivi d'impugnazione su questioni attinenti all'istruttoria del processo di primo grado. Non possono neppure essere proficuamente utilizzate (senza alcuna corroborazione testimoniale a chiarimento e a conferma) le mail versate sub docc. nn. 6-12 (riguardanti le vicende lavorative dei colleghi (...), (...) e (...)), che non solo (...) si è guardato bene dall'illustrare e dal contestualizzare, segnalandone gli eventuali passaggi rilevanti al fine auspicato, ma che neppure risultano significative (negli esasperati e gravi termini descritti in ricorso) del presunto mobbing da lui subito. È solo nella mail del 29/10/2018 che si lamenta, pur in modo generico, che "non è la prima volta nel recente passato che non vengo informato preventivamente su azioni riguardanti i dipendenti di (...)" (doc. n. 9); ma si tratta evidentemente di una lamentela autoreferenziale, non altrimenti riscontrata e, comunque, insufficiente da sola a suffragare l'asserita condotta mobbizzante. 5.2. A parte il fatto che, a tutto concedere, la sopra descritta "opera di delegittimazione" corrisponderebbe, più che a una condotta di mobbing, a un demansionamento professionale (non contestato in questi termini), in ogni caso (anche ammettendone per un attimo la sussistenza), è rimasta misteriosa la primigenia causa "a monte" - incomprensibilmente mai illustrata dal ricorrente e da attribuirsi verosimilmente a una sopravvenuta incompatibilità caratteriale hinc et inde - in conseguenza della quale il presidente della società datoriale avrebbe maturato tanta disistima e tale rancore contro il sottoposto da farlo vittima, di punto in bianco ("a decorrere dall'estate 2018"), di atteggiamenti provocatori, umilianti, dequalificanti e vessatori, nonché di caparbie e ingiustificate rappresaglie disciplinari preordinate alla (e culminate con la) definitiva espulsione. Perdono di fondatezza, quindi, tutte le riflessioni sul danno "biologico" e sul contenuto della c.t.p. psichiatrica, non essendo emersi e provati gli estremi fattuali della condotta illecita ascritta all'appellata. 6. Il quarto motivo di gravame va parzialmente accolto nei limitatissimi termini che seguono, prendendo atto e facendo tesoro di quanto l'appellante ha ammesso a proposito degli episodi in esame, che "in molti casi, non sono neppure contestati. È la rilevanza disciplinare che si contesta ... nessuno contestava l'accadimento dei fatti: se ne contestava la rilevanza disciplinare. E da qui la ritorsività" (ricorso, pagg. 56 e 61). Pertanto, la rassegna motivazionale della presente sentenza non può che allinearsi a tale preziosa indicazione, tralasciare tendenzialmente ogni aspetto "storico" della vicenda e affrontarne solamente il profilo della (lamentata) consistenza illecita. 6.1. Va confermata la contestazione di cui alla lettera dell'11/03/2019 relativa alla condotta descritta alle pagg. 19-20 di ricorso. È di indubbia consistenza disciplinare che (...) (che non ha negato la circostanza) si fosse permesso di contestare platealmente ("Lei ha continuato ad inveire nei suoi confronti dal corridoio, in presenza di altri S. colleghi") e di mettere così in cattiva luce coram populo le legittime determinazioni assunte dalla società (e, segnatamente, dall'amministratrice delegata (...)) in merito all'organizzazione del personale dello stabilimento di V.. Con ciò, ovviamente, non s'intende mettere in discussione il diritto del lavoratore di criticare le decisioni aziendali e di dissentirvi (nei limiti della continenza formale e dell'educazione, per quanto il ricorrente non aveva fatto ricorso a espressioni turpiloquiali e offensive): se, infatti, (...) avesse chiesto di colloquiare con (...) in separata e riservata sede per esprimerle la propria contrarietà alle scelte organizzative nell'avvicendamento della collega (...) e illustrarle le relative difficoltà insorte, di sicuro non sarebbe stato ravvisabile alcun profilo disciplinare. Ciò che invece non è accettabile, nell'ordinario ménage lavorativo, è che un dipendente manifesti le proprie riserve e il proprio dissenso non nelle sedi proprie e opportune, ma con una "piazzata" e con maniere oltremodo alterate - contegno questo che, in tutta franchezza, non può essere semplicemente tollerato, in quanto idoneo (specie se proveniente da un dipendente di staff che ricopre un importante ruolo apicale) a screditare, agli occhi degli altri dipendenti, le prerogative discrezionali dell'imprenditore nella gestione della propria azienda e a ledere il vincolo fiduciario e di fedeltà; anche perché, come ha bene spiegato la Suprema Corte, "la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro ovvero, che è lo stesso, alla scarsa gravità dell'occorso, n.d.e., dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e, quindi, l'affidabilità tout court del dipendente e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro" (Cass. n. 8816/17). 6.2. Per quanto riguarda la contestazione di cui alla lettera del 14/05/2019 relativa alla condotta descritta alle pagg. 22-23 di ricorso, si osserva come la specifica accusa rivolta al ricorrente (e da lui recisamente contestata) di avere sparso voci tendenziose sull'insoddisfazione lavorativa della collega (...) e di averle poi ammesse "dicendo di aver scherzato" non abbia trovato alcuna conferma testimoniale né da (...) (cfr. verb. ud. 18/01/2022), né da (...), che neppure ha ricordato la circostanza (cfr. verb. ud. 3/05/2022). Ne conseguono l'annullamento dell'irrogata misura di 3 giorni di sospensione e la condanna della (...) S.p.A. a restituire all'appellante, con gli accessori di legge, la corrispondente retribuzione non pagata. 6.3. Va confermata, invece, la contestazione di cui alla lettera del 6/05/2019 relativa alla condotta descritta alle pagg. 26-27 di ricorso. L'episodio in questione - il dissenso (ancora una volta) platealmente espresso da (...) (che, anche in questo caso, non ha contestato la circostanza) riguardo alla decisione aziendale di licenziare il collega (...) - è analogo e perfettamente sovrapponibile a quello di cui alla lettera dell'11/03/2019, e altrettanto sovrapponibili (e ripetibili) sono le osservazioni e le perplessità espresse supra, n. 6.1, e la giurisprudenza di legittimità ivi richiamata. Di nuovo: non si contesta il diritto di espressione e di critica del lavoratore, né può essergli vietato di manifestare sensibilità e vicinanza a un collega in difficoltà e di consolarlo; l'appellante, tuttavia, non si era limitato a questo (che non avrebbe sortito conseguenza alcuna), ma, con ripetuta insolenza, si era permesso di contestare la decisione datoriale "nelle vicinanze di altri uffici e di altro personale della Società", reiterando un atteggiamento, lo si è già notato (anche a prescindere dal contenuto dello scambio di mail con (...), su cui si può soprassedere), senz'altro biasimevole dal punto di vista disciplinare. 6.4. A identiche conclusioni confermative si deve giungere quanto alla contestazione di cui alla lettera del 27/05/2019 relativa alla condotta descritta alla pag. 33 di ricorso. Il fatto che in passato, come riferito dal teste S.A., a nessuno fosse stato richiesto di firmare gli ordini di servizio (cfr. verb. ud. 3/05/2022) non autorizzava il ricorrente a rifiutare - inopportunamente e inutilmente - l'innocuo invito rivoltogli dal presidente della società a sottoscrivere per ricevuta l'ordine di servizio del 21/05/2019. Si era obiettivamente trattato - è vero - non di un'insopportabile insubordinazione, ma, nondimeno, di un gesto provocatorio apprezzabile soggettivamente "sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti" (Cass. n. 8816/17, cit.), come poi si è puntualmente verificato. 6.5. Alla luce delle suesposte considerazioni, tutte le sanzioni conservative (eccettuata quella conseguente alla lettera di contestazione del 14/05/2019) sono senz'altro meritevoli di conferma a fronte del loro rilievo disciplinare - conclusione che consente di escluderne sia la dedotta macchinazione ad hoc da parte del datore (cfr. ricorso, pag. 32), sia il presunto carattere ritorsivo, che l'appellante, come si è visto, aveva fatto discendere proprio dall'assenza di rilevanza disciplinare (ibid., pag. 61). Nulla quaestio anche dal punto di vista della ragionevolezza e congruità delle misure afflittive concretamente irrogate: i 2 giorni di sospensione di cui alla contestazione del 6/05/2019 si conformano alla contestata recidiva, mentre i 3 giorni di sospensione di cui alla contestazione del 27/05/2019 si conformano all'insegnamento della Suprema Corte per cui "la valutazione della gravità dell'inadempimento ... si estende a tutti i fatti contestati al dipendente con l'avvio della procedura ... disciplinare, anche concernenti comportamenti tenuti in precedenza e per i quali addirittura il datore di lavoro non abbia ritenuto, nella sua autonomia, di irrogare sanzioni disciplinari" (Cass. n. 27104/06; conf. Cass. n. 22162/09) - sicché l'apprezzamento della gravità di un illecito disciplinare ben può tenere conto, a fortiori, di condotte sanzionate, ancorché non formalmente contestate in termini di recidiva. 7. Va pure rigettata la quinta ragione d'appello relativa al licenziamento, non senza un preliminare chiarimento. 7.1. L'ordine di servizio del 21/05/2019 intimava una serie di disposizioni - è vero - non sempre chiarissime e ineccepibili dal punto di vista del loro contenuto assertivo e precettivo, ma, nel loro insieme, agevolmente comprensibili e sufficientemente espressive della legittima pretesa datoriale - che già (...) non aveva accolto con grande entusiasmo (come si è visto supra, n. 6.4) - affinché quest'ultimo provvedesse (come conviene a una struttura aziendale, come quella della (...) S.p.A., operativamente ramificata e delocalizzata, ma direttivamente centralizzata) a un'intensa e capillare ricognizione ispettiva (una peculiare due diligence) sulle modalità gestionali dei contratti di lavoro in essere, nonché (ed è questo che qui interessa) a segnalare alla direzione aziendale (mediante "Sue relazioni scritte relative a ciascun stabilimento") eventuali anomalie o situazioni di discontinuità, "disallineate" e non immediatamente conformi al consueto e corretto trattamento (normativo ed economico) dei dipendenti; sulla base di tali report e "una volta ricevuto da Lei il quadro preciso della situazione", sarebbero stati studiati "assieme gli interventi correttivi da adottare, per una gestione unificata, uniforme e ottimale di tutti gli aspetti indicati". In fondo, per dirla tutta, il presidente della società, nell'ordinargli di verificare e controllare il (e di relazionare sul) trattamento lavorativo delle "risorse umane", aveva preteso dal responsabile del personale, né più né meno, di fare il suo lavoro e di attendere alle mansioni per le quali era stato assunto. È altresì vero - e l'ha confermato l'appellante - che quanto addebitatogli con la lettera del 20/06/2019 (costituente la giusta causa di licenziamento) riguardava preminentemente la mancata segnalazione e comunicazione delle eventuali prassi anomale che fossero state riscontrate: "Lei, nella Sua qualità di responsabile delle Risorse Umane del gruppo, avrebbe dovuto conoscerle e segnalarle al Presidente, al quale riporta direttamente;altrettanto dicasi per la carente formazione obbligatoria del personale, perché indipendentemente da chi operativamente avrebbe dovuto provvedere, rientrava certamente nei suoi compiti di verificare il rispetto degli obblighi formativi, e segnalarne l'eventuale inadempienza". A questo punto occorre sottolineare due aspetti cruciali: a) colui che ricopre la qualifica di quadro direttivo, pur non essendo un dirigente e non potendo essergli applicato il relativo statuto normativo, appartiene nondimeno a una categoria di lavoratori che, per l'importanza della funzione, l'elevata professionalità e la collocazione apicale, è più "vicina" all'imprenditore nella condivisione e nell'attuazione degli obiettivi gestionali e strategici di quanto non siano gli altri prestatori subordinati ex art. 2095, co. 1, c.c., con conseguente maggiore intensità sia del vincolo fiduciario, sia, in particolare, del livello di diligenza esigibile; in effetti, la funzione del quadro direttivo (come ricordato anche da Cass. n. 15168/19) dev'essere svolta in chiave accentuativa del consueto e 'basico' obbligo di diligenza ex art. 2104, co. 1, c.c., nel senso che le relative incombenze devono sempre ritenersi comprensive (anche a prescindere da specifiche disposizioni datoriali) del dovere di controllo, di verifica e di intervento preventivo o correttivo delle eventuali anomalie operative - quand'anche, nella fattispecie, non ci fosse neppure stato l'ordine di servizio del 21/05/2019; b) la mail del 24/05/2019 versata sub doc. n. 20 (ancorché trascurata dal primo Giudice) è comunque priva di quella sensibile e pregnante rilevanza che l'appellante vorrebbe attribuirle, nel momento in cui la richiesta a (...) di collaborare all'adempimento dell'ordine di servizio era rimasta lettera morta, non risultando ch'essa avesse avuto un qualche seguito esecutivo o che il destinatario fosse stato sollecitato ad adempiervi senza indugio o ripreso per la sua inerzia - anzi, la (grave) insinuazione per cui ciò sarebbe successo "probabilmente dietro ordine del (...)" (ricorso, pag. 72) è rimasta completamente sfornita di prova. 7.2. Tutto ciò chiarito, si ripete, da un lato, come (...) non abbia inteso contestare l'obiettività 'storica' dei fatti addebitatigli e si osserva, dall'altro, com'egli si sia difeso, coerentemente, negando spessore disciplinare delle condotte illustrate ai nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 della lettera del 20/06/2019 e insistendo, in particolare, sul fatto che le relative contestazioni fossero intempestive (su cui si è già argomentato supra, n. 4), che le prassi anomale ivi descritte (insignificanti e assolutamente trascurabili) gli fossero ignote (e, per contro, ben conosciute dall'azienda) e che esse, in ogni caso, esulassero dall'ambito mansionale e fossero il frutto di pregressi accordi risalenti addirittura a prima dell'assunzione. Ebbene, tali rilievi difensivi, benché in certa misura suggestivi, non convincono e non riescono a destituire di fondamento la pretesa punitiva del datore, ove solo si consideri che questi era stato fin troppo esplicito nel contestare al dipendente, come si è visto, la mancata segnalazione delle predette problematiche e nel precisare (come colto dal primo Giudice e non sufficientemente contestato dall'appellante) che il relativo disvalore disciplinare sarebbe rimasto inalterato e intonso "indipendentemente dal fatto che le prassi o i rapporti anomali riferiti in precedenza si siano consolidati di fatto o siano state autorizzati da qualcuno". Dunque, non è affatto importante e determinante, innanzi al sostanziale inadempimento (ingiustificato) agli obblighi informativi e segnalatori imposti nell'ordine di servizio del 21/05/2019, che le prassi riscontrate dalla direzione aziendale fossero a loro volta prive di rilevanza disciplinare; così come non è importante, più nel dettaglio, che: a) fosse per effetto di precedenti accordi che i capiservizio degli stabilimenti dell'Aquila e di (...) timbrassero il badge una sola volta al giorno, e non spettasse al responsabile delle risorse umane controllare le presenze dei dipendenti (punto n. 1); b) fosse l'esito di pregresse intese e non rientrasse nelle prerogative, anche conoscitive, del ricorrente che alcuni lavoratori degli stessi stabilimenti percepissero ingiustificati trattamenti retributivi, e 120 di loro non avessero ricevuto la prescritta formazione professionale (punti nn. 2 e 3); c) non disponesse il ricorrente di effettivi poteri decisionali e organizzativi sul personale dello stabilimento di (...), e, come si legge in ricorso (pag. 81), competesse al c.d.a. societario, e non al capo del personale, "decidere l'assetto organizzativo di una azienda" (punti nn. 4 e 5); d) fossero stati assunti prima del ricorrente i dipendenti (...), (...) e (...), percettori di un anomalo e più oneroso trattamento retributivo (punto n. 6). Ora, (...), come quadro responsabile delle risorse umane di gruppo, non poteva, come si legge nella sentenza gravata, "non sapere nulla delle "anomalie"" (pag. 12) e, soprattutto, non s'intende (perché non è spiegato) per quale motivo, previa opportuna indagine conoscitiva, egli avesse mancato di segnalare tali prassi alla direzione e di relazionare in merito. Non è vero, d'altronde, che il presidente della società - al quale il ricorrente si riportava e rispondeva direttamente: "Lei riporta direttamente all'Alta Direzione" (doc. n. 5) - fosse già a conoscenza di tali situazioni "disallineate" (e avesse, perciò, artatamente preordinato e allestito ad hoc la vicenda disciplinare), in quanto, al contrario, come si afferma nella lettera di contestazione, egli ne aveva "avuto notizia per la prima volta dal dr. (...), man mano che egli ha preso possesso delle sue nuove funzioni di Direttore operativo di (...)", circostanza non smentita probatoriamente dal ricorrente e comunque confermata dai testi (...) e (...) (cfr. verbb. udd. 18/01 e 8/03/2022). 8. Alla luce di tutto ciò, va ripetuto con la Suprema Corte che, in materia disciplinare, non conta l'obiettiva tenuità dei fatti contestati - specie innanzi a un professional e al suo esigibile livello, lo si è già visto, di diligenza specifica - bensì conta "la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuricomportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento" (Cass. n. 8816/17, cit.); in questo senso, se un quadro responsabile delle risorse umane omette, come espressamente ordinatogli, di riferire ai vertici aziendali sulla concreta gestione dei dipendenti, sul loro trattamento contrattuale e retributivo e sulla loro mancata formazione professionale, non si vede davvero come ciò possa non "incidere sull'elemento essenziale della fiducia e dell'affidabilità, già incrinata dai precedenti rilievi disciplinari, sotteso al rapporto di lavoro" (ibid.) e non sorreggere la sanzione espulsiva adottata dalla (...) S.p.A. - per la cui congruità (non essendo stata contestata la recidiva) si rinvia a quanto detto supra, n. 6.5. Inoltre, la così accertata sussistenza della giusta causa disciplinare interdice la domanda di nullità del licenziamento, essendo sufficiente richiamare l'insegnamento di legittimità (seguito dal Giudice a quo) in virtù del quale "In tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore ... richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento" (Cass. n. 9468/19). Va aggiunto, infine, che "Qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa e siano stati contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione esattamente come si è ora accertato. Non è dunque il datore di lavoro a dover provare di aver licenziato solo per il complesso delle condotte addebitate, bensì la parte che ne ha interesse, ossia il lavoratore, a dover provare cosa che non è stata fatta che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro" (Cass. n. 18836/17). 9. Per tutte le suesposte ragioni, che assorbono ogni altra doglianza, l'appello dev'essere accolto solo in riferimento alla contestazione disciplinare del 14/05/2019, mentre il resto va rigettato. La (pur minima) soccombenza reciproca, unita alla complessità della vicenda e delle questioni trattate, consiglia (in continuità con la prima sentenza, non impugnata sul punto) l'integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado. P.Q.M. Visto l'art. 437 c.p.c., In parziale accoglimento dell'appello, annulla la sanzione della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione di tre giorni di cui alla lettera di contestazione del 14.05.2019 e per l'effetto condanna la (...) s.p.a. a corrispondere all'appellante la relativa retribuzione, oltre rivalutazione monetaria e interessi di legge dal dovuto al saldo; conferma nel resto l'impugnata sentenza; Compensa le spese del presente grado di giudizio. Così deciso in Torino il 26 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria l'1 febbraio 2023.

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